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La Dipendenza da Tabacco
Prof. Giacomo Mangiaracina
Docente di Sanità Pubblica e Medicina di Comunità 2° Facoltà di Medicina Università La Sapienza
Presidente Società Italiana di Tabaccologia. Coordinatore Area Tabagismo Lega Italiana contro i Tumori.
email: [email protected]
La Nicotina dà dipendenza. Questa è la rivelazione dell’ultimo decennio e dunque merita particolare
attenzione. Anche per la peculiarità della sua storia. Le compagnie del tabacco hanno a lungo
negato pubblicamente questo fatto, almeno fino al 1996, epoca in cui Jeffrey Weigand, ricercatore
“insider” della Brown & Williamson (B&W), con l'aiuto di giornalisti e legali, e con l'appoggio
dello Stato del Minnesota, rivelò le conclusioni delle ricerche aziendali che dimostravano il
contrario. Attraverso questo procedimento la B&W ed altre multinazionali subirono un condanna
epocale, con un risarcimento di oltre 400 milioni di dollari.
La dipendenza e gli aspetti ad essa correlati, rappresentano uno dei maggiori problemi della nostra
epoca. Un ruolo favorente i comportamenti da dipendenza nei giovani è dato da carenze affettive,
dal bisogno di autoaffermazione e di riconoscimento, di trovare strumenti idonei al controllo
dell’ansia (coping). A dimostrare se le situazioni di disagio psichico possano incrementare il
consumo di droghe, uno studio inglese che ha confrontato la condizione dei senzatetto con quella di
coloro che vivono in famiglia, ha dimostrato che tra i senzatetto la percentuale dei soggetti con
dipendenza alcolica era del 21% contro il 5-7% degli altri. Parimenti era incrementato anche il
consumo di tabacco e di altre droghe (Farrell M. e al., 1998).
Percorsi storici
Nel 1914 Sir Henry Hallet Dale, ricercatore inglese, studiò per la prima volta la connessione tra
nicotina e acetilcolina, e ne descrisse accuratamente gli effetti in vivo su animali da esperimento.
Egli evidenziò un’azione peculiare della nicotina destinata a divenire un riferimento antologico:
eccitante a minime dosi ed inibente a dosi maggiori. Il suo antagonista era il curaro. Queste ricerche
inaugurarono l’era degli studi sulla neurofisiologia, e furono di tale importanza che gli valsero il
Nobel per la Medicina insieme con l’austriaco Otto Loewi. Dale non poteva neppure immaginare, a
quel tempo, che le sue ricerche avrebbero successivamente permesso di chiarire il meccanismo della
dipendenza da Nicotina, identificata col termine di Tabagismo. Ma dovettero passare altri 70 anni
prima che questa parola venisse usata. Tabagismo è dunque una definizione moderna affermatasi
negli anni Ottanta. Il suo significato sfugge ancora oggi, più o meno coscientemente, a molti. Non
solo in Italia.
Nel 1973 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si pronunciava sul binomio “fumo =
dipendenza”. Nel rapporto su: "I Giovani e la Droga" l’OMS dichiarava per la prima volta che il
tabacco sarebbe una "sostanza capace di dare assuefazione e di provocare danni fisici ai
consumatori, al punto da diventare un vero e proprio problema di Sanità Pubblica". Nel 1977
arrivarono dagli Stati Uniti e dall'Inghilterra i rapporti più convincenti, quelli del National Institute
on Drug Abuse (NIDA) e del Royal College of Physician (RCP) di Londra. In particolare il NIDA,
nelle note introduttive redatte dal suo direttore di allora William Pollin, presentava il Tabagismo
come vero e proprio "prototipo della dipendenza". Lo stesso rapporto riferiva di una ricerca eseguita
su militari reduci dal Vietnam, dove si metteva in evidenza la maggiore difficoltà da parte dei
soldati ad abbandonare il tabacco rispetto all'eroina.
Sempre in quell'anno l'RCP si pronunciava pure sulla dipendenza affermando chel'uso
" di tabacco
da fumo rappresenta una forma di dipendenza diversa ma non meno forte di quella di altre droghe
assuefacenti". Due anni dopo il Surgeon General, altra grande istituzione sanitaria americana,
confermò la definizione di Pollin, ammettendo che "non è esagerato affermare che il fumo
rappresenti il prototipo delle dipendenze da sostanze, e che una migliore conoscenza di questo
processo costituisce il presupposto essenziale per la prevenzione".
Ai primi degli anni Ottanta emerge negli ambienti scientifici internazionali la parola addiction. Ha
poco a che vedere con la madrelingua inglese che l’aveva partorito, in quanto deriva dal l atino
addictus, che designava lo schiavo o il servitore che diveniva tale per non poter pagare i debiti. La
sua condizione di servo durava fino all’estinzione del debito. Niente di meglio per descrivere la
condizione di schiavitù acquisita da droghe. Si scopre che la nicotina ha un potere addittivo
maggiore dell’alcol e della stessa eroina, e la sigaretta costituisce il veicolo più efficace per
somministrarla.
Nel 1992 l'OMS inserisce per la prima volta il fumo di tabacco nel capitolo dedicato ai disordini
mentali e comportamentali dovuti all'uso di sostanze psicoattive (paragrafo -F17), e la Food and
Drug Administration (FDA) sancisce che la nicotina equivale ad una droga capace di dare
dipendenza. Nella sua 4° edizione, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders,
(DSM-IV), classifica la nicotino-dipendenza tra i disturbi psichiatrici (APA, 1994).
Verso la fine degli anni Novanta, il rapporto “fumo = malattia -da-dipendenza” si consolida sul
piano concettuale e scientifico. In particolare nel 1995 vengono confermati i meccanismi
neurobiologici della nicotino-dipendenza. Vengono evidenziati e studiati i recettori cerebrali per la
nicotina (nAChRs), mentre le tomografie ad emissione di positroni (PET) dimostrano le
modificazioni fisiopatologiche e biochimiche a livello del sistema mesolimbico, nell’area
tegmentale ventrale, la porzione più “interna” dell’encefalo, dove sono ubicati il “nucleus
accumbens” ed il “locus coeruleus”, struttura vitale che regola la vigilanza, le reazioni d’allarme, le
capacità cognitive, l’apprendimento e la memoria (George et al., 2000; Yu et al., 2000). Le ricerche
hanno confermato l’azione della nicotina sul sistema nervoso centrale ed in particolare su quella
struttura conosciuta come il centro “della gratificazione” , che ha come principale mediatore chimico
la dopamina.
Anche l’Acetilcolina, che regola la trasmissione nervosa del sistema parasimpatico, stimola i
recettori “nAChRs”, ma la nicotina depolarizza questi recettori più a lungo. In questo modo rivela il
suo duplice aspetto rilevato da Dale: prima stimola il recettore (funzione agonista) e poi lo blocca
(funzione antagonista). Perciò in un fumatore l’organismo deve adattarsi a questo dissesto
dell’equilibrio nervoso provocato dalla nicotina. Sembra che gli eff etti inibitori siano più
significativi perché il cervello sceglie di adattarsi e di superare l’effetto bloccante piuttosto che
quello stimolante, aumentando il numero di recettori nicotinici (Benwell, 1995). Il neuroadattamento può essere considerato un meccanismo di difesa (Fagerstrom, 2000). In altre parole,
quando si comincia a fumare la nicotina va a legarsi con i recettori bloccandone alcuni. Le cellule
nervose allora reagiscono producendone una maggiore quantità (Tab.1). In una fase più avanzata di
tabagismo il soggetto si ritroverà dunque con un maggior numero di recettori, di cui alcuni bloccati,
altri attivati ed altri ancora sensibili (adeguamento o upregulation). Smettendo di fumare avviene
una condizione nuova per il soggetto. Egli si trova ora con un numero di recettori aumentato nei
neuroni, che rimangono sensibili ancora per un anno, pronti a ricevere nuove immissioni di
nicotina. Per questo motivo la ricaduta dopo astinenza porta inevitabilmente e nella maggiorparte
dei casi a recuperare la dose precedente in grado di saturare tutti i recettori che erano rimasti attivi,
e quindi la quantità di sigarette necessaria a somministrarla. Si torna a fumare come prima o più di
prima. Come teorizzai vari anni fa, pare dunque che l’effetto principale de lla nicotina sia inibitorio
più che eccitatorio, e per questo motivo ho usato l’espressione “inibizione nicotinica ad alto tasso
reattivo di mediatori adrenergici” (Mangiaracina, 1992).
Tab.1 – Schema dell’azione della nicotina sui recettori nervosi se condo Fagerstrom
Aspetti socio-culturali
Ci sono voluti alcuni decenni prima che si cominciasse a traghettare dal concetto di “vizio” a quello
di “dipendenza” applicati all’alcol e al tabacco. Il “vizio” del fumo ha resistito molto più di quanto
non sia avvenuto per l’alcol. Questo approccio del tutto moralistico ha impedito per molti anni di
definire in termini chiari il problema. D’altro canto un aspetto caratteristico dei comportamenti da
dipendenza è paradossalmente la negazione della dipendenza stessa. Infine un aspetto che concerne
il contesto sociale. Non vi sarebbe dipendenza da sostanze se queste non fossero reperibili e
disponibili. Tabacco e alcol sono le droghe più disponibili in assoluto.
Aspetti clinici
Alcuni tra i criteri suggeriti per valutare la dipendenza da nicotina, sono:
1. il fallimento dei tentativi di smettere di fumare nonostante vi sia il desiderio di farlo; è stato
osservato che spesso un fumatore riesce a farcela dopo il quarto tentativo;
2. l’impiego di una rilevante porzione de l proprio reddito per procurarsi la sostanza; in una
famiglia in cui fumano più persone, in una vita spendono l’equivalente per l’acquisto di un
appartamento;
3. la persistenza del consumo di sigarette nonostante la presenza e la consapevolezza di un
problema di salute;
4. il craving, ossia il desiderio intenso ed incontrollabile (Hughes, 1991-1992) dopo breve
astinenza, che trova sollievo dalla ripresa a fumare e che dunque rappresenta una causa
importante di ricaduta.
Uno schema di valutazione semplice, in uso da molti anni nell’alcoldipendenza, può essere
applicato al tabagismo. Si tratta del “CAGE”, acronimo composto dalle iniziali delle parole:
Cut-down:
la persona pensa di smettere.
Annoyed:
la persona è infastidita dalle esortazioni a smettere di amici e familiari.
Guilty:
la persona si è sentita talvolta in colpa a causa della sua abitudine.
Eye-opener: fumare (o bere) al mattino dà la carica per partire e affrontare la giornata.
Basta rispondere affermativamente ad una sola delle 4 domande, per ritenere che la persona in
esame possa essere affetta da una patologia da dipendenza.
La questione del “piacere”
Per comprendere cosa si cela dietro al cosiddetto “piacere” di fumare occorre considerare prima di
tutto che si tratta di un piacere di breve durata, che dunque sparisce subito lasciando il posto ad una
rinnovata angoscia da privazione. Il piacere è in fondo un comune denominatore delle dipendenze, e
nasconde atteggiamenti di forte conflittualità. Nonostante che da un lato i consumatori di tabacco
ostentino apertamente questo “piacere”, dall’altro sono perfettamente consapevoli che proprio il
fumo li danneggia, che l’atteggiamento sociale nei confronti del tabacco è cambiato, e che la sua
immagine di fumatore è in crisi. Infine non è possibile definire piacere ciò che limita gravemente la
libertà.
Il piacere ha ormai note basi neurochimiche anche se necessita di una elaborazione a livello
psichico. Serotonina, e più specificamente dopamina, mediano chimicamente queste sensazioni. La
nicotina, alcaloide neurotropo, si legherebbe ai recettori cerebrali colinergici facendo innalzare i
livelli intracerebrali di dopamina ma in misura minore anche di noradrenalina (Di Chiara, 1999;
Koob, 1992). Questo risultato però può essere anche ottenuto con semplici azioni quotidiane come
mangiare, camminare, correre, fare sesso, giocare, gustare cioccolato e caffè, ed assumere certi
farmaci. In termini pratici questo significa che nella terapia del tabagismo è necessario guidare il
fumatore a fare rotta su nuove e piacevoli abitudini.
Quanto dipende dalla sostanza e quanto dall’individuo?
Se il vero responsabile della dipendenza da droghe fosse in via prevalente la sostanza stessa,
basterebbe una buona disintossicazione a salvare l’individuo. Ma spesso dopo una dis intossicazione
si verificano frequenti ricadute. D’altro canto, se fosse assoluto l’aspetto psichico, per cui la persona
sente il bisogno di una stampella sociale per completarsi, l’approccio terapeutico dovrebbe essere
più psicoterapico che altro. C’è anc he da dire che a differenza di quanto avviene per altre forme di
dipendenza da sostanze come alcol, cocaina, eroina, i fumatori mantengono livelli persistenti di
nicotina nel sangue che diminuiscono nelle ore notturne e si ripristinano a partire dalla prima
sigaretta del mattino, che nella maggioranza dei fumatori è quella che di conseguenza da’ più
“soddisfazione”. Nel fumatore abituale di 15 -20 sigarette al giorno questi livelli si comportano
come si comporterebbe un costituente organico, ad esempio il glucosio. E’ noto che la glicemia
deve mantenersi tra un minimo (70-80 mg/dl) ed un massimo (100-110 mg/dl). Al sopra di questi
valori si è diabetici, al di sotto si scatena il finimondo: prima i sintomi dalla fame, poi disturbi
sempre più forti, tremori, convulsioni, coma e morte. Quando i livelli di nicotina diminuiscono nel
sangue scatta dunque un allarme ed il corpo ne richiede dell’altra. Una sorta di "memoria" della
sostanza. Oggi si tende comunque a dare una definizione più univoca al concetto di dipendenza,
essendo in definitiva la risultante di un rapporto complesso tra la persona, la sostanza e il contesto
sociale. Nella sua forma conclamata viene intesa come disturbo del comportamento, ovvero una
condizione della quale si perde il controllo.
Dalla prova all’uso
Come in tutte le esperienze di consumo di droghe dobbiamo distinguere due fasi: la prova ed il
consumo abituale. Lo studio del percorso tra prova e uso può fornire strumenti idonei per capire ed
intervenire in ambito di programmi di prevenzione.
La Prova
Si viene a contatto con la sostanza nei modi più diversi. Chi si accosta per la prima volta al fumo di
sigaretta è nella maggioranza dei casi giovane o giovanissimo, in genere dai 12 ai 14 anni.
Lo fa per curiosità, per circostanze del tutto occasionali, perché si trova in gruppo, per dimostrare
qualcosa a sé e agli altri, o per fare piacere un amico. Non è detto che diventerà un fumatore
abituale, in quanto che l’esperienza, con le sensazioni che l’accompagnano, deve prima essere
elaborata dal soggetto. Non importa se sia piacevole o spiacevole. Nella ipotesi che la prova abbia
provocato malessere, come infatti accade per il fumo, il soggetto può percepire l’esperienza come
un ostacolo da superare per sentirsi ed essere riconosciuto, un rituale iniziatico per accedere
all’olimpo dei soggetti forti e cresciuti. Chi ha fumato è in grado di rievocare i disturbi delle prime
boccate. Vertigini, tremori, nausea, dolori al petto, tosse. Continuando però a fumare i disturbi
tendono presto a sparire lasciando posto ad un relativo benessere, creando così l’ennesimo rinforzo
mentale positivo per il fatto di avere superato la fase critica. E’ l’accesso a quella “sindrome da
onnipotenza” tipicamente adolescenziale, con la sensazione di possedere for ze illimitate, di avere
dimostrato a sé stessi e agli altri la propria capacità di dominio sulla sostanza e sui suoi effetti.
L’esperienza successiva prova tutto il contrario naturalmente, ma da questo momento in poi il
fumare avrà una sua significanza nell’universo dei valori del ragazzo, ed una sua conseguente
funzionalità: “ Io fumo per sentirmi… vivo, forte, grande, capace di affrontare disagi, sofferenze e
persino la morte (la famigerata ultima sigaretta del condannato)”.
Ricerche note da anni (Mc.Kennel, 1976) dimostrano che gli adolescenti che fumano più di una
sigaretta al giorno avrebbero l’85% di probabilità di diventare tabacco -dipendenti, per il 13 % circa
smetteranno prima, e solo nel 2 % fumeranno in modo occasionale o intermittente. L'indaginedi
Russel, condotta alcuni anni prima, riportava una percentuale di rischio del 70 %. Sono cifre degne
di molta attenzione se si pensa che le ricerche statunitensi di Hunt e Zimberg, riportate da Arnao
(1982), presentavano negli anni Settanta una popolazione di eroinomani americani pari a 500 mila
su 6 milioni di consumatori occasionali di droga: una percentuale al di sotto del 10 per cento. Ciò
vale anche per l’alcol. Tra le decine di milioni di persone che in Italia bevono abitualmente e
moderatamente bevande alcoliche, solo un percentuale del 3-5% diventano bevitori problematici e
alcolisti.
L’Uso
E’ certo che provando e riprovando si hanno sempre maggiori probabilità di traghettare verso l’uso,
ovvero verso il consumo sistematico. In questa fase la persona rafforza il carico di significati
attribuiti alla sua abitudine acquisita. Il termine di “ significanza” identifica questo graduale
processo di attribuzione di significati, attraverso cui fumare diventa funzionale a qualcosa, uno
strumento in grado di eseguire operazioni complesse come atteggiarsi, mostrare una certa immagine
di sé, fronteggiare situazioni di disagio, concentrarsi, scaricare le tensioni, attenuare l’ansia,
stimolare l’attenzione, esprimere la personalità, ostentare aggressività, domin anza o la propria
carica erotica. Gli elementi di significanza provengono da tre direzioni: il modello parentale, i
modelli sociali di riferimento (gruppo dei pari), la promozione pubblicitaria. Se venissero attuati
interventi sistematici con lo scopo preciso di demitizzare il prodotto e il suo marchio, e di svalutare
l’immagine positiva del fumo e del fumatore, si potrebbe ipotizzare un mutamento di tendenza con
riduzione dei giovani fumatori, utile a contrastare la tendenza dell’ultimo decennio e attuale, che
invece è la crescita di incidenza giovanile nella iniziazione al tabacco. E’ la conseguenza di azioni
di marketing sapientemente gestite e amministrate.
Il consolidamento della significanza si accompagna e sviluppa rinforzi positivi che hanno come
obbiettivo il radicamento dell’automatismo. A questo contribuisce la sequenza gestuale che viene
attuata e che sfocia nella forma coattiva, apparentemente inarrestabile. La coazione a ripetere una
numerosa sequenza di gesti, alla lunga determina una sorta di "immobilità" mentale ovvero un
percorso obbligato che contribuisce a ridurre la capacità assertiva e decisionale della persona. E se
non vi è possibilità di scelta non vi è neppure crescita, ovvero capacità critica, assertiva e
decisionale. Si rimane chiusi nella propria routine, a seguire le tracce segnate profondamente nella
psiche. L’automatismo conduce poi alla perdita del controllo sulla sostanza. Il fumatore incallito
nega perciò il suo problema oppure “vorrebbe” smettere ma non ci riesce.
Questa fase può durare decenni. Una sua peculiare caratteristica è lo sviluppo della “tolleranza”,
concetto che ha incorporato quello di “assuefazione” della vecchia nomenclatura in auge fino a
metà degli anni Novanta.
Tab.2 – Il percorso della dipendenza
Un’altra caratteristica che dà forza al concetto di dipendenza è l’astinenza. La sospensione
dell’assunzione della sostanza provoca disagi fisici e psichici. Talvolta sono tali che spesso non si
vuole smettere per paura di provarli, o perché si è già sperimentata una certa sofferenza. Da rilievi
effettuati in Italia su oltre trentamila partecipanti ai programmi antifumo da me coordinati, sono
stati rilevati questi sintomi: cefalea, irritabilità, stato ansioso, sonnolenza, insonnia, risveglio
precoce, vuoti di memoria, difficoltà di concentrazione, disturbi visivi, iperfagia o bulimia,
riduzione dell’appetito, facile esauribilità, stitichezza, diarrea, nausea, astenia, ipotensione,
vertigini, tremori, sudore alle mani, crampi muscolari, fosfeni e acufeni, dolori ai globi oculari,
alterazioni della frequenza cardiaca, formicolio agli arti e alla superficie corporea.
Ricerche cliniche hanno evidenziato anche alterazioni dell'elettroencefalogramma caratterizzate da
rallentamento delle onde alfa ed incremento della fase REM (Domino, 1998).
Occorre però precisare che l’astinenza nel Tabagismo, nell’esperienza da me condotta con le terapie
di gruppo dal 1975 ad oggi, ha una durata relativamente breve, da poche ore a pochi giorni, tant’è
che viene per così dire utilizzata a scopo “terapeutico” nei gruppi. Il fatto di vederla comparire e
sparire, dopo astinenza, entro un periodo massimo di 5 giorni, offre al corsista informazioni
rassicuranti sulla capacità di controllo della propria ansia.
Conclusioni
Fumare crea dipendenza. Questa dipendenza ha più dimensioni.
1. Innanzitutto il tabacco contiene nicotina, alcaloide le cui proprietà addittive sono ormai note
e chiare. Esiste la possibilità di coltivare tabacco senza nicotina, ma per ovvie ragioni i
grandi produttori di tabacco hanno rifiutato una proposta di tal genere. Ne conseguirebbe un
crollo dei consumi.
2. La sequenza gestuale propone percorsi mentali “obbligati” per cui la persona gradualmente
va a strutturare la sua personalità sul piano comportamentale. Smettere comporterebbe
grosse difficoltà di ri-adattamento e ri-adeguamento a nuovi schemi e comportamenti.
3. Il fumo permette di soddisfare “bisogni primari” come l’oralità e l’incorporazione, la
gestione del tempo e le relazioni umane, e persino quello di dipendenza in sé.
E’ in questa ampia cornice che rigorosamente occorre inquadrare il problema del Fumo.
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