Dintorni
teatro
Il progetto «Beckett&Puppet» nel centenario
della nascita del grande drammaturgo
C
di Fernando Marchiori
on un fitto programma di spettacoli, inconcomprende come un altro grande obiettivo del progettri, performance, proiezioni, giornate di stuto sia stato pienamente raggiunto: aprire il teatro di figudio, si è concluso a Gorizia e Trieste il progetra alle nuove generazioni. Sul piano teorico, il rapporto
to Beckett&Puppet, organizzato dal Cta – Centro Teatsuggestivo tra Beckett e l’universo burattinesco è stato
ro di Animazione e di Figure di Gorizia – che da 16 anni
affrontato in un convegno internazionale che ha raccolporta marionette e burattini da tutto il mondo nella città
to all’auditorium di Gorizia studiosi, critici, traduttori e
giuliana facendone una capitale europea del teatro di fiartisti, invitati a considerare alcuni dei molteplici aspetgura. Tra i meriti del progetto, iniziato oltre un anno fa,
ti dell’opera del Nobel irlandese dal punto di vista del tequello di avere unito numerosi soggetti in diverse città
atro di figura e a verificare i linguaggi di quest’ultimo, la
italiane nello sforzo di superare il mero pretesto celebraloro contemporaneità, anche attraverso lo sguardo bectivo – un centenario del resto sottotono nel nostro Paese
kettiano. Alternate a video (Variaciones sobre B del gruppo
– per aprire un confronto inedito tra il drammaturgo irargentino Periférico de objetos e A place that again di Molandese e il teatro di figura. Al PuppetFestival di Gorizia
tus) e frammenti spettacolari degli artisti presenti al fessi sono infatti affiancate (con scambi o repliche di iniziatival (tra cui Bruno Leone, Gaspare Nasuto, Dino Artive spettacolari e approfondimenti) altre manifestazioni
ru, Il Teatrino Giullare, Paolo Papparotto), le relazioni
internazionali di settore, come il festival Incanti di Toridi Gabriele Frasca, Ana Alvarado, Edvard Majaron, Mano, insieme a grandi eventi teatrali, come il MittelFest di
risa Sestito, Luca Scarlini, John McCormick e Roberto
Cividale del Friuli e il Festival delle Colline Torinesi, ma
Canziani hanno ricordato i numerosi allestimenti con
anche istituzioni e associazioni quali il Teatro Stabile di
fantocci e oggetti che all’opera dell’autore di Aspettando
Torino, la Scuola Holden, Alpe Adria Cinema e il TeatGodot si sono ispirati, analizzando le tecniche compositiro Miela di Trieste. Cuore dell’iniziativa è stato il bando
ve del drammaturgo e del regista: scarnificazione scenidi concorso per un progetto di spettacolo da realizzare
ca, scomposizione del corpo, ricomposizione in una parnei linguaggi specifici del teatro
di figura (burattini, marionette,
ombre, pupazzi, oggetti, ecc.) o
Beckett Box di TeatroPersona
tramite una commistione di linguaggi riconducibile tuttavia
all’ambito e all’orizzonte artistico del teatro di figura contemporaneo. La giuria – composta
da Francesco Tullio Altan, Mario Brandolin, Roberto Canziani, Antonella Caruzzi, Edvard
Majaron, Renato Manzoni e da
chi scrive – ha esaminato i progetti presentati da ben ventitré
compagnie, italiane ed estere.
Un ricco ventaglio di proposte,
tanto più interessanti in quanto
provenienti da artisti non sempre riconducibili all’ambito specifico del featro di figura. Vincitore dei settemila euro in palio è risultato il progetto Beckett
Box della compagnia TeatroPersona di Civitavecchia, diretta
da Alessandro Serra. Ma la qualità dei lavori ha indottitura gestuale differente, sdoppiamenti e scarti linguisto la giuria a segnalarne altri tre, invitando inoltre tuttici, scrittura come referto di fenomeni e non di psicoloti i finalisti a presentare materiali o frammenti di allestigie, frammentazione dell’evento, ingrandimento del detmenti. A Gorizia così sono stati sei, tra studi e spettacotaglio, ripetizione come ritmo interno alla pagina e alla
li compiuti, i progetti portati in scena. Se si considera che
scena. Come ha affermato l’irlandese McCormick, uno
il regista dello spettacolo vincitore ha 33 anni, e che due
dei massimi esperti mondiali in materia di marionette e
dei tre finalisti (la compagnia fiorentina Zachès e quelpupazzi, se assumiamo il termine «teatro di figura» nel
la veneziana Pathosformel – il terzo è l’ungherese Figupiù ampio senso possibile, Beckett ne è probabilmente lo
rina Animation Theatre) hanno una media under 25, si
scrittore più grande.
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teatro
Dintorni
I «Sette a Tebe» tra Eschilo, danza e Medioriente
La rilettura della tragedia eschilea
del Balletto Civile di Michela Lucenti
D
opo essere stata al Teatro Toniolo a ottobre, ora Michela
che potesse essere interessante scandagliare il personagLucenti porta a Udine, la città del Centro Servizi e Spetgio di Ismene anche perché il pubblico forse ci si può ricotacoli di Udine, che coproduce lo spettacolo, la sua lettura
noscere un po’ meglio. Siamo tutti un po’ più Ismene.
dei Sette a Tebe eschilei. Che tipo di approccio alla tragedia è staIl tuo gruppo si chiama Balletto Civile. Perché hai unito queste
to il vostro?
due parole?
L’intento iniziale è stato quello di cercare di attualizzarIo provengo dall’Impasto, un gruppo teatrale che si
la. Dei versi eschilei abbiamo preso il senso più filosofico,
chiamava così proprio perché mescolava più linguaggi.
più assoluto. Ci è sembrato importante parlare di quelIn seguito ho deciso di fare un percorso più profondo sul
li che non avevano voce all’interno della tragedia. L’opecorpo, e nonostante noi si sia sostanzialmente degli atrazione principale è stata quindi quella di far parlare Potori per me era importante definirci «Balletto» per ridalinice e gli altri «sette a Tebe». È un processo abbastanza
re un’identità a questo nome che erroneamente rimanda
simile a quello che abbiamo portato avanti nelle Troiane,
nell’immaginario ai ballerini col tutù. Ma il balletto, prodove abbiamo dato voce anche gli invasori.
prio a livello di dizionario, implica chi si esprime con il
Che tipo di testo avete utilizzato?
Si tratta di un esperimento che
comprende alcuni brani tratti da
Eschilo che sono stati ritradotti,
cui si aggiungono alcune dichiarazioni reali di Arafat e Sharon,
che sono i nostri Eteocle e Polinice. C’è poi tutta una parte scritta da
me, anche sulla base dell’improvvisazione. E infine c’è un lavoro
completamente musicale, una spe«Sette a Tebe» di Michela Lucenti
cie di recitar cantato.
Tu incarni Ismene, la sorella «timorosa» di Antigone.
Mi interessava parlare di Ismene perché secondo me è la figura più vicina a quello che noi stiamo vivendo in questo momento.
Non ci sono grandi eroi, oggi. Il
lato affascinante di Ismene è che
assiste alla tragedia, ne è partecipe e ne soffre, però chi le è vicino sente che non ha quella forza
eroica di sacrificio. È quindi un
personaggio assolutamente contemporaneo, uno dei più moderni di tutta la tragedia, è sofferente
per quello che accade alla sua famiglia però allo stesso tempo rischia nella sua non-aziocorpo. Desideravo che ci fosse un’altra ondata, un’altra
ne di essere accusata di connivenza con il potere o cogenerazione che potesse fare del balletto qualcosa di molmunque di codardia. Questo è un concetto sul quale tutti
to contemporaneo, molto virile. La parola «Civile» poi
dobbiamo riflettere: noi assistiamo alla storia, la vediamo
definisce un aspetto fondamentale per le persone che laogni giorno e la domanda che nasce è: siamo dei semplici
vorano con me: dopo la sbarra, ogni mattina, leggiamo
osservatori che cercano di cambiare le cose con la nostra
i giornali. Molto spesso si pensa che la danza sia un atto
testimonianza oppure siamo più semplicemente dei coestetico, mentre credo che il corpo assorba moltissimo di
dardi, anche a fare teatro? Io poi lavoro molto con la psiquello che noi siamo, sentiamo e viviamo.
chiatria e con i disabili, perciò mi chiedo spesso se sarebbe
Per me il Balletto Civile è un gruppo di persone che si
meglio mollare tutto e partire, fare delle cose concrete. In
esprimono con il corpo ma sono sveglie, attente a quelquesto senso mi sentivo molto vicina a
lo che succede nel mondo. Non c’è solaUdine – Teatro Contatto
Ismene, più vicina a lei che ad Antigone,
mente l’attore con l’orazione civile, c’è
17, 18, 19 novembre, ore 21.00
che è un mito anarchico e giovanile ma
anche il danzatore con il suo corpo ciun po’ lontano da tutti noi. Mi sembrava
vile. (l.m.)
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Dintorni
teatro
Thomas Bernhard
secondo il Teatrino Giullare
Al Teatro Maddalene di Padova va in scena «Alla meta»
N
ella casistica spesso prevedibile e ripetitiva del
teatro italiano, a un successo inatteso, a uno
spettacolo-rivelazione deve per forza fare seguito – quasi per una legge non scritta o un fatale contrappasso – una caduta di tensione, un errore di scelta,
una proposta per qualche motivo comunque deludente. Se la regola valeva per Kantor o per Nekrosius, figurarsi per un gruppo sconosciuto e per giunta formatosi a contatto col pubblico dei ragazzi come il Teatrino
Teatrino Giullare, Alla meta
Giullare, che quel suo Finale di partita ambientato su una
scacchiera con gli attori-animatori che muovevano personaggi ridotti a pedine di legno pareva averlo estratto
dal cilindro, quasi per una coincidenza miracolosa.
Non erano in pochi, probabilmente, a chiedersi già
durante le repliche dell’inquietante exploit beckettiano
come una simile prova – nel suo genere praticamente
perfetta – avrebbe potuto sfociare in un proseguimento di pari livello. Due erano evidentemente, per Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro, fondatori e artefici del
Teatrino Giullare, i rischi più incombenti in una situazione come questa: di non riuscire a trovare un altro testo adatto, ovvero ugualmente gelido, feroce, apparentemente del tutto inadatto a essere rappresentato con
fantocci e oggetti, o di rifugiarsi, pur in altra veste, in
un calco ripetitivo dell’esperienza che aveva garantito
loro notorietà e attenzione.
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di Renato Palazzi
Ebbene, qualunque sia il giudizio specifico sul loro
nuovo spettacolo, Alla meta, che come qualunque creazione teatrale potrà piacere o non piacere, potrà convincere in tutto o in parte ed essere soggetto a correzioni
e assestamenti, sembra di poter dire che a queste insidie
più immediate la coppia abbia risposto alla grande, con
lucidità e coraggio, in ciò confermando di non essere
un’effimera meteora della scena: perché il testo di Bern­
hard, benché ovviamente diverso, si presenta non meno denso e misterioso, e forse persino più
impegnativo di quello di Beckett. E perché, pur nella fedeltà
a una tecnica e a uno
stile personale, le due
operazioni muovono da presupposti del
tutto differenti.
Se infatti l’allestimento micro-scacchistico di Finale di
partita – su un piccolo tavolino a riquadri
bianchi e neri – seguiva nell’impianto
drammaturgico l’impostazione per certi versi «ludica» della pièce beckettiana, il
cui dialogo, per esplicita d ic h i a r a z ione
dell’autore, riproduce una serie di mosse
e contromosse attraverso le quali i protagonisti cercano di «mangiarsi» a vicenda, in Alla meta
prevalgono chiaramente gli aspetti del confronto, dello
scontro, dell’ambigua mescolanza fra la natura umana
e la creatura artificiale: mentre là gli interpreti viventi
spostavano dall’esterno le loro sinistre statuette, qui si
immergono nella materia, diventano materia essi stessi.
Dal punto di vista della messinscena questa oscura
contiguità attraversa vari gradi: c’è la presenza centrale della vecchia dispotica rattrappita nella sua poltroncina, che è un essere a metà, una marionetta in carne e
ossa dai movimenti rigidi, meccanici, col volto di legno
scuro dietro il quale la bravissima Dall’Ongaro svela
un altro volto ugualmente nero e inespressivo. C’è poi
la figuretta della figlia, che essendo una pura propaggine della madre è ridotta a un’entità totalmente priva di
vita, un mostruoso fantoccio a rotelle. E poi c’è l’autore
teatrale loro ospite, che avendo solo una cupa maschera
Dintorni
teatro
in viso è il personaggio che appare più vicino a una sorta di vaga umanità.
Il rapporto fra natura e artificio penetra anche fra
le pieghe del testo: mentre infatti
l’idea delle due donne che ogni anno si preparano con gli stessi gesti
alla partenza per il mare, ripongono gli stessi abiti, arrivano con le
stesse aspettative e lo stesso senso di delusione – viene affrontata
come una gabbia di parole e azioni ottusamente ripetitive, quasi ridotte a mero automatismo, mentre la scrittura di Bernhard procede come sempre per volute circolari che non portano da nessuna parte, in questo vuoto del cuore e della mente l’apparire dello scrittore
sembra mettere a nudo un vago nucleo di desideri repressi, quasi il sospetto di un’inconfessata tensione
erotica, che si esprime nel progressivo scoprirsi i piedi e poi le gambe
da parte della madre.
Rispetto allo «studio» visto la
scorsa estate a Castiglioncello, lo
spettacolo presentato all’Arsenale di Milano è parso più corposo e
compatto, di sicuro più risolto nei rapporti fra i personaggi, specialmente per quanto riguarda lo scrittore. Se
ho visto giusto, sono state anche ulteriormente sottolineate certe componenti, come quelle relative all’osses-
siva meccanicità dei movimenti: c’è ancora a mio avviso qualcosa da mettere a punto per far sì che essa non
risulti fine a se stessa, rischiando semplicemente di ap-
piattire il testo, ma ne accentui il clima da incubo. Resta
un po’ di strada da fare per arrivare agli equilibri di Finale di partita: ma sull’ingegno, sulla qualità dell’invenzione non si discute.
L’umanità lacerata di «Alla meta»
Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro
spiegano la loro lettura del testo
I
l Teatrino Giullare è una delle nuove realtà teatrali più interessanti nel panorama delle scene italiane. Dopo un’applauditissimo Finale di partita beckettiano si è dedicato
a un altro testo contemporaneo, l’impegnativo e affascinante Alla meta di Thomas Bernhard. I due artisti che compongono il
gruppo, Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro, ci raccontano il
loro rapporto con questa pièce e con lo scrittore austriaco.
E.D. Più che rivolgerci noi a Bernhard, è stato questo testo, Alla meta, a venire verso di noi. In generale Bernhard ci ha sempre affascinato per il ritmo e la
particolarità della sua scrittura teatrale oltre che per i
suoi temi.
G.D.O. Noi facciamo sempre molta attenzione al testo, e Bernhard è un’assoluta sfida, perché l’unica possibilità di metterlo in scena è seguirlo alla lettera, parola per parola.
Come mai Alla meta?
G.D.O. È un testo difficilissimo, che leggevamo e rileggevamo quando eravamo alla ricerca di qualcosa da
rappresentare. Ma ci ripetevamo sempre: Mai Alla meta! E poi invece era l’unico che continuava a entrarci
in testa sia come sonorità che per il fascino che suscita la sua ambiguità.
Come avete pensato i due personaggi femminili?
E.D. Siamo partiti da un’osservazione dell’autore,
che parlando dei suoi personaggi li ha definiti non uomini, ma marionette. Leggendo tra le righe il testo, ci
siamo accorti che questi personaggi parlavano di sé
come se avessero dei meccanismi particolari. Spesso le
stesse battute ci hanno illuminato su come costruire i
personaggi. Per esempio si parla della rigidità della figlia, o del «meccanismo di vita» della madre.
Passando da Beckett a Bernhard quali sono le differenze più
evidenti che avete incontrato?
G.D.O. Con Beckett ci troviamo di fronte a una forma teatrale perfetta, in cui c’è un forte equilibrio tra
comico e tragico, c’è un giusto dosaggio di tutto. Bernhard è completamente diverso, siamo quasi all’interno di un monologo, la sua scrittura è un continuo ripetersi di frasi, ma ogni volta con significati diversi.
Bisogna fare attenzione a tutte le sfumature di senso.
L’umanità di Bernhard è sì alterata ma in un altro senso rispetto a Beckett. Non è un’umanità posta in uno
scenario apocalittico e postatomico, è lacerata internamente e quotidianamente. (l.m.)
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Dintorni
cinema
Un «Flauto magico» tra leggerezza e conflitti
A favore della pace, il grido in pellicola
di Kenneth Branagh
U
n piccolo albero di Natale in un grande campo innevato. Appesi ai rami due doni molto speciali: un
flauto magico e dei campanellini. Sono i doni che
guideranno Tamino e Papageno tra i pericoli e le insidie
del magico viaggio che dovranno intraprendere. Così li ha
raffigurati Kenneth Branagh nella trasposizione cinematografica del Flauto magico di W.A. Mozart. Ed è tra la leggerezza di fiaba e neve e l’orrore dei conflitti e del sangue che
si snoda il film di Branagh.
Tra i precedenti adattamenti del Flauto magico, quello di Bergman rimane forse il più affascinante. Lei come si è posto di fronte a
quell’opera cinematografica nel momento in cui ha accettato di girare il
suo Flauto magico?
Ho ammirato molto il film di Bergman, è fantastico, ma
è molto diverso da ciò che volevamo fare e questo mi ha
sollevato. Ho ascoltato molte versioni dell’opera e, poco a
poco, mi sono familiarizzato con la musica. Seguendo la
stessa volontà di Mozart, che aveva preferito un libretto tedesco per rendere nella sua epoca questo lavoro più popolare, ho adottato la lingua inglese. Il libretto è stato tradotto da Stephen Fry. L’idea era di avere una versione più vicina possibile all’originale, ma di renderlo, al tempo stesso,
cantabile. Si è anche deciso di non lavorare solo in direzio70
di Patrizia Parnisari
ne della fiaba, ma in modo più ampio e complesso.
Rispetto alle trasposizioni da Shakespeare che lei ha intrapreso, in
che cosa quella da Mozart si differenzia?
La sfida è stata molto simile a quella che mi pongo ogniqualvolta mi accingo a lavorare a un film tratto da un lavoro teatrale di Shakespeare. Si tratta di riuscire a traghettare
un’opera d’arte da un medium ad un altro, senza che se ne
perda la magnificenza. Come Shakespeare, Mozart è molto resistente. Il flauto magico, come del resto Amleto, ha visto innumerevoli ambientazioni,
ha «visitato» molti luoghi: è stato
sulla luna, al circo, a Stonehenge, in spiaggia…
ed è sempre sopravvissuto. Una
chiave per me è la
fedeltà della performance, non
importa quanto siano estreme le problematiche tecniche, che
si tratti di Shakespeare, di Mozart
o di qualunque altro autore. Continuo comunque
a preferire i classici. Hanno una
ricchezza e una
complessità incredibili. Amo la
sfida dei classici
perché affrontano temi universali. Le storie contemporanee sono
meno interessanti. Anche se credo che fare oggi, ad esempio, un lavoro lirico sull’Iraq sarebbe una bella epopea.
Al centro comunque anche qui la guerra, più precisamente la I
Guerra Mondiale. Perché?
Nel Flauto magico c’è l’analisi di un conflitto, incarnato dalla musica, e lo sviluppo dell’opera riguarda la determinazione degli antagonisti. La luce opposta alle tenebre, l’amore e l’odio e, nel nostro caso, la pace opposta alla guerra. Lo scontro più aperto è tra Sarastro e la Regina
della Notte. Quest’opera è colma di mistero e bisognava
trovare un’ambientazione che potesse controllare i pieni e
i vuoti, per questo subito abbiamo pensato a questo periodo storico in cui molte cose sono inspiegabili e misteriose. Sono rimasto molto colpito dal conflitto personale pre-
cinema
sente nella musica; c’è un grido a favore della pace. Ho creduto allora che la musica potesse avere un paesaggio visivo
che andasse bene con la I Guerra Mondiale, con la perdita
di tante vite. Ambientandolo visivamente durante un conflitto e assegnando ad ognuno un esercito, si dava il senso delle dimensioni delle
azioni dei personaggi. La Grande Guerra fornisce un territorio sia letterario sia
metaforico, emotivo e complesso come
è l’opera stessa. Anche il romanticismo,
l’umorismo e «l’opera comica» emergono con forza. In termini di plot fornisce anche il set per un’avventura epica e
di suspence coerente con la narrazione
cinematografica.
Quali sono i personaggi che più vivono il
conflitto?
Tamino appare subito in trincea pronto ad affrontare la sua prova iniziatica
«verso la luce» nel buio e nella paura di
cecchini e bombe. Le dame della Regina della Notte vestono abiti di infermiere di ospedali da campo. Papageno è il
custode di canarini utilizzati nel conflitto per rilevare la presenza di gas letali. La
Regina della Notte fa il proprio ingresso potente su di un carro armato. Sarastro è una sorta di
leader pacifista. Tutti, in fin dei conti, incarnano la vicenda del conflitto.
Ci sono molte scene spettacolari, molti effetti speciali e sorprenden-
Dintorni
ti nel suo film. Questa storia dunque è anche una favola ammaliatrice narrata a tutti…
La musica invita all’immaginazione. Le reazioni a una
grande opera d’arte sono necessariamente oggettive. Noi
abbiamo tentato di offrire una sorta di mappa con il nostro
adattamento dell’intreccio. Abbiamo usato tutte le risorse
creative del cinema, ma vogliamo che il pubblico sia affascinato da Mozart.
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Dintorni
cinema
La«VoixHumaine»diCocteau,RosselliniePoulenc
Il 18 novembre al Teatro Malibran
la riscrittura di un capolavoro
L
di Domenico Cardone
a sera del 15 febbraio 1930
ta alla fama internazionale nel suo
alla Comédie Française il
Roma città aperta: Anna Magnani.
sipario si alza sul nuovo
La sfida è alta, un’inedita alleanza
dramma di Jean Cocteau. La scetra teatro d’avanguardia e quel cina che si presenta al pubblico, sonematografo che sta dando il colspettoso nei confronti di un artista
po di grazia al boulevard; ma Rostroppo originale nell’arte e nella
sellini, inventore di forme espresvita, è una stanza spoglia: ai piedi
sive e sperimentatore di soluzioni
di un letto disfatto giace «una donintermediali, non si lascia spavenna», l’attrice Berthe Bovy, che pretare dall’apparente inadeguatezza
sto si rivela in spasmodica attesa
del testo per il medium di moda.
di una telefonata. La storia è cruLa macchina da presa gli consenda, essenziale: la donna, aggrappate piuttosto di rappresentare e, nel
ta al filo di una conversazione so«primo piano», amplificare quello
Anna Magnani sul set
vente disturbata o interrotta, cerca
stile clinico-scientifico di narraziodi proteggere il sentimento d’amone suggerito da Cocteau. «La mia
re che prova per l’uomo che la sta
Voix Humaine», avrà a dire egli stesmalamente abbandonando e, doloso, è «l’anatomia di un sentimento.
rosamente, combatte contro il velo
C’è un individuo afferrato di peso,
dell’ipocrisia. Al testo di quel momesso sotto il microscopio; scrunologo disperato e commovente
tato sino in fondo». Cocteau ne fu
che simula un dialogo (ma si può
entusiasta. Il film conquista i critipersino dubitare che l’interlocutore
ci più attenti e meno ideologizzati,
sia davvero presente…) il pubblico
come il giovane François Truffaut,
può giustapporre, con l’immaginaprima ammiratore e poi amico inzione, anche il testo inaudibile deltimo sia di Cocteau che di Rosselle parole e dei toni dell’altro. Perciò
lini. L’«esercizio di stile», da allora,
silenzi, pause, esitazioni raccontaavvince altri registi di teatro e cineno pure un non detto, un persoma (merita una segnalazione l’inAnna Magnani e Jean Cocteau
naggio invisibile. Nella deliranterpretazione di Ingrid Bergman
te disperazione generata dall’amodiretta da Ted Kotcheff) ma anche
re ferito, in quell’anonimo, e percoreografi (tra cui Bejart, che ideò
ciò universale, dolore, non vi è chi
un’indimenticabile interpretazione
non possa riconoscersi, ed è questa
per Luciana Savignano…). La sfida
una delle tante ragioni del successi rinnova con l’arte musicale; qui
so della pièce che resta non solo uno
riscrivere appare ancor più proibidegli spettacoli più rappresentati al
tivo, ai limiti del possibile: si pomondo ma anche uno dei testi più
tranno cantare frasi, pensieri, revolte oggetto di riscrittura e adatgistri umorali così freneticamentamento. La Voix Humaine è divente instabili, cangianti, frammentatato negli anni la prova per antoti, ambigui? A Montparnasse, danomasia delle attrici migliori che,
gli anni venti si è andato configuin quell’assolo lungo quarantacinrando un gruppo di giovani e brilque minuti, possono esprimere
lanti compositori, «Les Six»: tra loAnna Magnani e Roberto Rossellini
tutto il talento, rivelare la capacità
ro, proprio da Francis Poulenc nel
di scoprire le sfumature più sottili
1958 nasce la brillantissima soludella loro arte espressiva. Cocteau
zione espressiva per il teatro musidelinea un’atmosfera macabra e ospedaliera: nell’esporcale, una «tragédie lyrique» che punta a rivelare dramre intimamente, psicologicamente, fisicamente, davanmaticamente l’amore ma anche l’erotismo nascosto nel
ti al pubblico la protagonista prescrive freddezza di lutesto. Il direttore della Ricordi parigina, Hervé Duce, prevalenza del bianco (dall’arredamento alla sotgardin, propugnatore dell’impresa, dimostrerà dunque
toveste). È, questa, un’indicazione colta appieno nella
gran fiuto imprenditoriale. Cocteau stesso, che cura dipiù famosa delle riscritture cinematografiche del testo
rettamente scena e regia del lavoro, ha modo di dichiateatrale, quella di Roberto Rossellini che nel 1947 dirare che il suo dramma ha trovato un’altra stabile fisiorige un’attrice straordinaria, da poco scoperta e portanomia in cui si riconosce.
72
Pietro Longhi, La presentazione (Parigi, Museo del Louvre)
arte
Dintorni
Picasso e la gioia di vivere
A Palazzo Grassi duecento opere
del felice periodo in Costa Azzurra
D
uecento opere all’insegna della gioia di vivel’ordine, sono notissimi. Altri molto meno. Nei mesi
re, dei colori e della mitologia. È un Picasso in
scorsi il Museo Picasso di Parigi ha reso omaggio all’arparticolare stato di grazia quello esposto a Patista con una mostra sul periodo grave e nero precedenlazzo Grassi nella seconda mostra dell’era Pinault intite e contemporaneo alla guerra. Palazzo Grassi si intolata «Picasso, La joie de vivre 1945-1948» che resterà
aperta al secondo piano dell’edificio fino all’11 marzo e
prende il titolo proprio da un’opera realizzata nell’ottobre del 1946 ad Antibes.
Una rassegna non immensa ma preziosa, considerato
che i dipinti, i disegni, le incisioni, le sculture e le ceramiche sono il contenuto del Museo Picasso di Antibes il
quale, chiuso per restauri, ha imprestato la sua collezione a Venezia. Accanto al museo «in trasferta» ci saranno altre opere provenienti da collezioni private e pubbliche eseguite nell’arco di quattro anni dell’immediato dopoguerra. È in questo periodo di particolare euforia – tra il 1945 e il 1948 – che Picasso ritrova l’amata
Costa Azzurra grazie alla fine dell’occupazione. In Costa Azzurra Picasso non è solo ma con un nuovo amore
che si chiama Françoise Gilot, dalla quale avrà due figli
Picasso nello studio di Antibes con «La joie de vivre»
(Claude e Paloma) e con la quale vivrà fino al 1953. La
ritrovata serenità vibra in
tutte le opere
dell’artista che
in questi anni
esplora i grandi temi mitologici mediterranei e, complice
la vicinanza di
Vallauris e dei
suoi laboratori di vasai, si
dedica alla ceramica e prova l’uso di supporti nuovi e
atipici come ad
Picasso «La joie de vivre»
esempio le lastre in fibrocemento. Ed è
proprio in questo momento che Picasso crea in tutta la
carica invece di riportare la luce sulle tele del maestro
sontuosità e ricchezza «La joie de vivre». La sua persoesponendo il frutto dei uno dei periodi più felici – sennale e pubblica gioia di vivere.
timentalmente e artisticamente – del maestro.
La mostra, curata da Jean-Louis Andral, conservaA Palazzo Grassi Picasso non sarà solo. Al primo piatore del Museo Picasso e direttore dei musei di Antino, infatti, ci sarà un’altra selezione delle opere della
bes, si annuncia come un «cammeo» nella lunghissima
collezione Pinault.
e fertile attività dell’artista. Vissuto 92 anni, attivo per
L’arte contemporanea sarà il centro anche della terza
quasi ottanta, Picasso si è costamente rimesso in caumostra del magnate francese, in programma a giugno
sa, esplorando temi e tecniche sempre rinnovati senza
in concomitanza con la Biennale di Arti Visive. Quinmai accontentarsi di ritornare sulle sue
di, nell’autunno del 2007, sarà la volta
precedenti esperienze artistiche.
di un omaggio a Roma e all’arte barbaVenezia - Palazzo Grassi
fino all’11 marzo 2007
Alcuni periodi, come quello blu e
rica mentre nel 2008 Palazzo Grassi si
quello rosa, il cubismo e il ritorno alaprirà all’Arte povera. (m.p.)
73
Dintorni
arte
Gesti di pittura
A Treviso un percorso che da Boccioni porta a Vedova
F
ino all’8 aprile del 2007 a Treviso, presso Casa dei
Carraresi, sarà possibile visitare la mostra «Venezia ‘900. Da Boccioni a Vedova», promossa dalla Fondazione Cassamarca. La mostra, curata da Nico
Stringa e Giuseppe Pavanello, si propone di illustrare lo
sviluppo dell’arte a Venezia dai primi del Novecento agli
anni sessanta ed è stata articolata in undici sezioni.
Apre la rassegna una sezione dedicata alla produzione
giovanile di Umberto Boccioni, individuato come emblema della nascita della «modernità» a Venezia. Infatti, proprio a Venezia, nell’estate del 1910, il giovane artista tenne la sua prima mostra personale.
La mostra, preceduta dal lancio del manifesto futurista «Contro Venezia passatista» e introdotta in catalogo da un testo
di Marinetti, suscitò in città aspettativa e
scalpore. In realtà Boccioni non presentò
opere ispirate alle teorie futuriste ma opere ancora legate a suggestioni derivate dal
simbolismo, dall’espressionismo e dal divisionismo; come risulta anche dalle opere raccolte in questa sezione, tra le qua-
di Giovanni Bianchi
però il suo ruolo di riferimento artistico internazionale. A testimoniare questo clima è la piccola sezione riservata alle Presenze internazionali, dove, tra le opere presentate, si notano in particolare Sentieri ondulati (1947) di
Jackson Pollock e Testa di toro (1942) di Pablo Picasso.
La sezione Dal Fronte Nuovo delle Arti allo Spazialismo accoglie opere di artisti che operarono a Venezia tra
la metà degli anni quaranta e la fine degli anni cinquanta. Sono esposte opere di Emilio Vedova, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Alberto Viani, Edmondo
Bacci, Gino Morandis, Mario Deluigi, Tancredi, accan-
Treviso – Casa dei Carraresi
fino all’8 aprile 2007
li spiccano Canal Grande a Venezia (1907)
e Nonna (1905-06). Segue uno spazio riservato agli Artisti di Ca’ Pesaro, con un
significativo omaggio all’artista più rappresentativo del «movimento» capesarino: Gino Rossi, che di Treviso fece la sua
città d’adozione. Come ricorda Nino BarUmberto Boccioni “Canal Grande” 1907 Galleria Dello Scudo Verona
bantini «i fasti di Ca’ Pesaro non ebbero
inizio che nel 1910, quando ci raggiunsero due tele, Il muto e La fanciulla del fiore».
Entrambi questi capolavori di Rossi sono raccolti nelto a opere di Renato Birolli, Luciano Gaspari e Salvatol’accurata selezione di opere proposte.
re Messina. Uno spazio esclusivo è riservato al più interUna galleria di Ritratti e di autoritratti presenta opere
nazionale degli artisti veneziani: Emilio Vedova. Viene
di pittori che ritraggono se stessi o che eseguono ritratti
documentata in particolare la produzione artistica degli
ad amici, a collezionisti e a critici d’arte, fra i quali si può
anni cinquanta, periodo in cui l’artista si afferma come
vedere uno strepitoso ritratto di Carlo Cardazzo realizuno dei maggiori esponenti dell’espressionismo astratto.
zato da Asger Jorn.
La sua pittura gestuale e aggressiva denuncia con forza
A Filippo de Pisis è dedicata una rassegna di dipinti
conflitti e drammi sociali.
eseguiti per la maggior parte negli anni quaranta. Ai proChiude il percorso espositivo un significativo omaggio
tagonisti della declinazione veneta del Realismo magico,
al più importante scultore italiano del novecento: Artucorrente che «associa» un crudo realismo neo-oggettivo
ro Martini, del quale viene proposta un’antologia di cadi stampo nordico ad atmosfere oniriche di sapore mepolavori, che testimoniano la sua complessa ricerca platafisico, è riservata una sezione, con opere di Cagnaccio
stica e la sua continua sperimentazione. Il marmo Dondi San Pietro, Corrado Martens, Astolfo de Maria, Guina che nuota sott’acqua (1941-42) conferisce alla mostra un
do Cadorin, Leone Minassian… Con il grande successo
carattere eccezionale, dato che è dal 1948 che la più imottenuto dalla Biennale d’Arte del 1948 – la prima dopo
portante scultura di Martini non è stata più disponibile
l’interruzione bellica - Venezia uscì da quell’isolamento
per esposizioni. Il catalogo della mostra è edito dalla caculturale in cui l’aveva relegata il regime fascista e recusa editrice Marsilio.
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arte
Dintorni
Emilio Vedova
Venezia, 9 agosto 1919 - 25 ottobre 2006
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Dintorni - Euterpe Venezia