Dintorni teatro Il progetto «Beckett&Puppet» nel centenario della nascita del grande drammaturgo C di Fernando Marchiori on un fitto programma di spettacoli, inconcomprende come un altro grande obiettivo del progettri, performance, proiezioni, giornate di stuto sia stato pienamente raggiunto: aprire il teatro di figudio, si è concluso a Gorizia e Trieste il progetra alle nuove generazioni. Sul piano teorico, il rapporto to Beckett&Puppet, organizzato dal Cta – Centro Teatsuggestivo tra Beckett e l’universo burattinesco è stato ro di Animazione e di Figure di Gorizia – che da 16 anni affrontato in un convegno internazionale che ha raccolporta marionette e burattini da tutto il mondo nella città to all’auditorium di Gorizia studiosi, critici, traduttori e giuliana facendone una capitale europea del teatro di fiartisti, invitati a considerare alcuni dei molteplici aspetgura. Tra i meriti del progetto, iniziato oltre un anno fa, ti dell’opera del Nobel irlandese dal punto di vista del tequello di avere unito numerosi soggetti in diverse città atro di figura e a verificare i linguaggi di quest’ultimo, la italiane nello sforzo di superare il mero pretesto celebraloro contemporaneità, anche attraverso lo sguardo bectivo – un centenario del resto sottotono nel nostro Paese kettiano. Alternate a video (Variaciones sobre B del gruppo – per aprire un confronto inedito tra il drammaturgo irargentino Periférico de objetos e A place that again di Molandese e il teatro di figura. Al PuppetFestival di Gorizia tus) e frammenti spettacolari degli artisti presenti al fessi sono infatti affiancate (con scambi o repliche di iniziatival (tra cui Bruno Leone, Gaspare Nasuto, Dino Artive spettacolari e approfondimenti) altre manifestazioni ru, Il Teatrino Giullare, Paolo Papparotto), le relazioni internazionali di settore, come il festival Incanti di Toridi Gabriele Frasca, Ana Alvarado, Edvard Majaron, Mano, insieme a grandi eventi teatrali, come il MittelFest di risa Sestito, Luca Scarlini, John McCormick e Roberto Cividale del Friuli e il Festival delle Colline Torinesi, ma Canziani hanno ricordato i numerosi allestimenti con anche istituzioni e associazioni quali il Teatro Stabile di fantocci e oggetti che all’opera dell’autore di Aspettando Torino, la Scuola Holden, Alpe Adria Cinema e il TeatGodot si sono ispirati, analizzando le tecniche compositiro Miela di Trieste. Cuore dell’iniziativa è stato il bando ve del drammaturgo e del regista: scarnificazione scenidi concorso per un progetto di spettacolo da realizzare ca, scomposizione del corpo, ricomposizione in una parnei linguaggi specifici del teatro di figura (burattini, marionette, ombre, pupazzi, oggetti, ecc.) o Beckett Box di TeatroPersona tramite una commistione di linguaggi riconducibile tuttavia all’ambito e all’orizzonte artistico del teatro di figura contemporaneo. La giuria – composta da Francesco Tullio Altan, Mario Brandolin, Roberto Canziani, Antonella Caruzzi, Edvard Majaron, Renato Manzoni e da chi scrive – ha esaminato i progetti presentati da ben ventitré compagnie, italiane ed estere. Un ricco ventaglio di proposte, tanto più interessanti in quanto provenienti da artisti non sempre riconducibili all’ambito specifico del featro di figura. Vincitore dei settemila euro in palio è risultato il progetto Beckett Box della compagnia TeatroPersona di Civitavecchia, diretta da Alessandro Serra. Ma la qualità dei lavori ha indottitura gestuale differente, sdoppiamenti e scarti linguisto la giuria a segnalarne altri tre, invitando inoltre tuttici, scrittura come referto di fenomeni e non di psicoloti i finalisti a presentare materiali o frammenti di allestigie, frammentazione dell’evento, ingrandimento del detmenti. A Gorizia così sono stati sei, tra studi e spettacotaglio, ripetizione come ritmo interno alla pagina e alla li compiuti, i progetti portati in scena. Se si considera che scena. Come ha affermato l’irlandese McCormick, uno il regista dello spettacolo vincitore ha 33 anni, e che due dei massimi esperti mondiali in materia di marionette e dei tre finalisti (la compagnia fiorentina Zachès e quelpupazzi, se assumiamo il termine «teatro di figura» nel la veneziana Pathosformel – il terzo è l’ungherese Figupiù ampio senso possibile, Beckett ne è probabilmente lo rina Animation Theatre) hanno una media under 25, si scrittore più grande. 66 teatro Dintorni I «Sette a Tebe» tra Eschilo, danza e Medioriente La rilettura della tragedia eschilea del Balletto Civile di Michela Lucenti D opo essere stata al Teatro Toniolo a ottobre, ora Michela che potesse essere interessante scandagliare il personagLucenti porta a Udine, la città del Centro Servizi e Spetgio di Ismene anche perché il pubblico forse ci si può ricotacoli di Udine, che coproduce lo spettacolo, la sua lettura noscere un po’ meglio. Siamo tutti un po’ più Ismene. dei Sette a Tebe eschilei. Che tipo di approccio alla tragedia è staIl tuo gruppo si chiama Balletto Civile. Perché hai unito queste to il vostro? due parole? L’intento iniziale è stato quello di cercare di attualizzarIo provengo dall’Impasto, un gruppo teatrale che si la. Dei versi eschilei abbiamo preso il senso più filosofico, chiamava così proprio perché mescolava più linguaggi. più assoluto. Ci è sembrato importante parlare di quelIn seguito ho deciso di fare un percorso più profondo sul li che non avevano voce all’interno della tragedia. L’opecorpo, e nonostante noi si sia sostanzialmente degli atrazione principale è stata quindi quella di far parlare Potori per me era importante definirci «Balletto» per ridalinice e gli altri «sette a Tebe». È un processo abbastanza re un’identità a questo nome che erroneamente rimanda simile a quello che abbiamo portato avanti nelle Troiane, nell’immaginario ai ballerini col tutù. Ma il balletto, prodove abbiamo dato voce anche gli invasori. prio a livello di dizionario, implica chi si esprime con il Che tipo di testo avete utilizzato? Si tratta di un esperimento che comprende alcuni brani tratti da Eschilo che sono stati ritradotti, cui si aggiungono alcune dichiarazioni reali di Arafat e Sharon, che sono i nostri Eteocle e Polinice. C’è poi tutta una parte scritta da me, anche sulla base dell’improvvisazione. E infine c’è un lavoro completamente musicale, una spe«Sette a Tebe» di Michela Lucenti cie di recitar cantato. Tu incarni Ismene, la sorella «timorosa» di Antigone. Mi interessava parlare di Ismene perché secondo me è la figura più vicina a quello che noi stiamo vivendo in questo momento. Non ci sono grandi eroi, oggi. Il lato affascinante di Ismene è che assiste alla tragedia, ne è partecipe e ne soffre, però chi le è vicino sente che non ha quella forza eroica di sacrificio. È quindi un personaggio assolutamente contemporaneo, uno dei più moderni di tutta la tragedia, è sofferente per quello che accade alla sua famiglia però allo stesso tempo rischia nella sua non-aziocorpo. Desideravo che ci fosse un’altra ondata, un’altra ne di essere accusata di connivenza con il potere o cogenerazione che potesse fare del balletto qualcosa di molmunque di codardia. Questo è un concetto sul quale tutti to contemporaneo, molto virile. La parola «Civile» poi dobbiamo riflettere: noi assistiamo alla storia, la vediamo definisce un aspetto fondamentale per le persone che laogni giorno e la domanda che nasce è: siamo dei semplici vorano con me: dopo la sbarra, ogni mattina, leggiamo osservatori che cercano di cambiare le cose con la nostra i giornali. Molto spesso si pensa che la danza sia un atto testimonianza oppure siamo più semplicemente dei coestetico, mentre credo che il corpo assorba moltissimo di dardi, anche a fare teatro? Io poi lavoro molto con la psiquello che noi siamo, sentiamo e viviamo. chiatria e con i disabili, perciò mi chiedo spesso se sarebbe Per me il Balletto Civile è un gruppo di persone che si meglio mollare tutto e partire, fare delle cose concrete. In esprimono con il corpo ma sono sveglie, attente a quelquesto senso mi sentivo molto vicina a lo che succede nel mondo. Non c’è solaUdine – Teatro Contatto Ismene, più vicina a lei che ad Antigone, mente l’attore con l’orazione civile, c’è 17, 18, 19 novembre, ore 21.00 che è un mito anarchico e giovanile ma anche il danzatore con il suo corpo ciun po’ lontano da tutti noi. Mi sembrava vile. (l.m.) 67 Dintorni teatro Thomas Bernhard secondo il Teatrino Giullare Al Teatro Maddalene di Padova va in scena «Alla meta» N ella casistica spesso prevedibile e ripetitiva del teatro italiano, a un successo inatteso, a uno spettacolo-rivelazione deve per forza fare seguito – quasi per una legge non scritta o un fatale contrappasso – una caduta di tensione, un errore di scelta, una proposta per qualche motivo comunque deludente. Se la regola valeva per Kantor o per Nekrosius, figurarsi per un gruppo sconosciuto e per giunta formatosi a contatto col pubblico dei ragazzi come il Teatrino Teatrino Giullare, Alla meta Giullare, che quel suo Finale di partita ambientato su una scacchiera con gli attori-animatori che muovevano personaggi ridotti a pedine di legno pareva averlo estratto dal cilindro, quasi per una coincidenza miracolosa. Non erano in pochi, probabilmente, a chiedersi già durante le repliche dell’inquietante exploit beckettiano come una simile prova – nel suo genere praticamente perfetta – avrebbe potuto sfociare in un proseguimento di pari livello. Due erano evidentemente, per Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro, fondatori e artefici del Teatrino Giullare, i rischi più incombenti in una situazione come questa: di non riuscire a trovare un altro testo adatto, ovvero ugualmente gelido, feroce, apparentemente del tutto inadatto a essere rappresentato con fantocci e oggetti, o di rifugiarsi, pur in altra veste, in un calco ripetitivo dell’esperienza che aveva garantito loro notorietà e attenzione. 68 di Renato Palazzi Ebbene, qualunque sia il giudizio specifico sul loro nuovo spettacolo, Alla meta, che come qualunque creazione teatrale potrà piacere o non piacere, potrà convincere in tutto o in parte ed essere soggetto a correzioni e assestamenti, sembra di poter dire che a queste insidie più immediate la coppia abbia risposto alla grande, con lucidità e coraggio, in ciò confermando di non essere un’effimera meteora della scena: perché il testo di Bern hard, benché ovviamente diverso, si presenta non meno denso e misterioso, e forse persino più impegnativo di quello di Beckett. E perché, pur nella fedeltà a una tecnica e a uno stile personale, le due operazioni muovono da presupposti del tutto differenti. Se infatti l’allestimento micro-scacchistico di Finale di partita – su un piccolo tavolino a riquadri bianchi e neri – seguiva nell’impianto drammaturgico l’impostazione per certi versi «ludica» della pièce beckettiana, il cui dialogo, per esplicita d ic h i a r a z ione dell’autore, riproduce una serie di mosse e contromosse attraverso le quali i protagonisti cercano di «mangiarsi» a vicenda, in Alla meta prevalgono chiaramente gli aspetti del confronto, dello scontro, dell’ambigua mescolanza fra la natura umana e la creatura artificiale: mentre là gli interpreti viventi spostavano dall’esterno le loro sinistre statuette, qui si immergono nella materia, diventano materia essi stessi. Dal punto di vista della messinscena questa oscura contiguità attraversa vari gradi: c’è la presenza centrale della vecchia dispotica rattrappita nella sua poltroncina, che è un essere a metà, una marionetta in carne e ossa dai movimenti rigidi, meccanici, col volto di legno scuro dietro il quale la bravissima Dall’Ongaro svela un altro volto ugualmente nero e inespressivo. C’è poi la figuretta della figlia, che essendo una pura propaggine della madre è ridotta a un’entità totalmente priva di vita, un mostruoso fantoccio a rotelle. E poi c’è l’autore teatrale loro ospite, che avendo solo una cupa maschera Dintorni teatro in viso è il personaggio che appare più vicino a una sorta di vaga umanità. Il rapporto fra natura e artificio penetra anche fra le pieghe del testo: mentre infatti l’idea delle due donne che ogni anno si preparano con gli stessi gesti alla partenza per il mare, ripongono gli stessi abiti, arrivano con le stesse aspettative e lo stesso senso di delusione – viene affrontata come una gabbia di parole e azioni ottusamente ripetitive, quasi ridotte a mero automatismo, mentre la scrittura di Bernhard procede come sempre per volute circolari che non portano da nessuna parte, in questo vuoto del cuore e della mente l’apparire dello scrittore sembra mettere a nudo un vago nucleo di desideri repressi, quasi il sospetto di un’inconfessata tensione erotica, che si esprime nel progressivo scoprirsi i piedi e poi le gambe da parte della madre. Rispetto allo «studio» visto la scorsa estate a Castiglioncello, lo spettacolo presentato all’Arsenale di Milano è parso più corposo e compatto, di sicuro più risolto nei rapporti fra i personaggi, specialmente per quanto riguarda lo scrittore. Se ho visto giusto, sono state anche ulteriormente sottolineate certe componenti, come quelle relative all’osses- siva meccanicità dei movimenti: c’è ancora a mio avviso qualcosa da mettere a punto per far sì che essa non risulti fine a se stessa, rischiando semplicemente di ap- piattire il testo, ma ne accentui il clima da incubo. Resta un po’ di strada da fare per arrivare agli equilibri di Finale di partita: ma sull’ingegno, sulla qualità dell’invenzione non si discute. L’umanità lacerata di «Alla meta» Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro spiegano la loro lettura del testo I l Teatrino Giullare è una delle nuove realtà teatrali più interessanti nel panorama delle scene italiane. Dopo un’applauditissimo Finale di partita beckettiano si è dedicato a un altro testo contemporaneo, l’impegnativo e affascinante Alla meta di Thomas Bernhard. I due artisti che compongono il gruppo, Enrico Deotti e Giulia Dall’Ongaro, ci raccontano il loro rapporto con questa pièce e con lo scrittore austriaco. E.D. Più che rivolgerci noi a Bernhard, è stato questo testo, Alla meta, a venire verso di noi. In generale Bernhard ci ha sempre affascinato per il ritmo e la particolarità della sua scrittura teatrale oltre che per i suoi temi. G.D.O. Noi facciamo sempre molta attenzione al testo, e Bernhard è un’assoluta sfida, perché l’unica possibilità di metterlo in scena è seguirlo alla lettera, parola per parola. Come mai Alla meta? G.D.O. È un testo difficilissimo, che leggevamo e rileggevamo quando eravamo alla ricerca di qualcosa da rappresentare. Ma ci ripetevamo sempre: Mai Alla meta! E poi invece era l’unico che continuava a entrarci in testa sia come sonorità che per il fascino che suscita la sua ambiguità. Come avete pensato i due personaggi femminili? E.D. Siamo partiti da un’osservazione dell’autore, che parlando dei suoi personaggi li ha definiti non uomini, ma marionette. Leggendo tra le righe il testo, ci siamo accorti che questi personaggi parlavano di sé come se avessero dei meccanismi particolari. Spesso le stesse battute ci hanno illuminato su come costruire i personaggi. Per esempio si parla della rigidità della figlia, o del «meccanismo di vita» della madre. Passando da Beckett a Bernhard quali sono le differenze più evidenti che avete incontrato? G.D.O. Con Beckett ci troviamo di fronte a una forma teatrale perfetta, in cui c’è un forte equilibrio tra comico e tragico, c’è un giusto dosaggio di tutto. Bernhard è completamente diverso, siamo quasi all’interno di un monologo, la sua scrittura è un continuo ripetersi di frasi, ma ogni volta con significati diversi. Bisogna fare attenzione a tutte le sfumature di senso. L’umanità di Bernhard è sì alterata ma in un altro senso rispetto a Beckett. Non è un’umanità posta in uno scenario apocalittico e postatomico, è lacerata internamente e quotidianamente. (l.m.) 69 Dintorni cinema Un «Flauto magico» tra leggerezza e conflitti A favore della pace, il grido in pellicola di Kenneth Branagh U n piccolo albero di Natale in un grande campo innevato. Appesi ai rami due doni molto speciali: un flauto magico e dei campanellini. Sono i doni che guideranno Tamino e Papageno tra i pericoli e le insidie del magico viaggio che dovranno intraprendere. Così li ha raffigurati Kenneth Branagh nella trasposizione cinematografica del Flauto magico di W.A. Mozart. Ed è tra la leggerezza di fiaba e neve e l’orrore dei conflitti e del sangue che si snoda il film di Branagh. Tra i precedenti adattamenti del Flauto magico, quello di Bergman rimane forse il più affascinante. Lei come si è posto di fronte a quell’opera cinematografica nel momento in cui ha accettato di girare il suo Flauto magico? Ho ammirato molto il film di Bergman, è fantastico, ma è molto diverso da ciò che volevamo fare e questo mi ha sollevato. Ho ascoltato molte versioni dell’opera e, poco a poco, mi sono familiarizzato con la musica. Seguendo la stessa volontà di Mozart, che aveva preferito un libretto tedesco per rendere nella sua epoca questo lavoro più popolare, ho adottato la lingua inglese. Il libretto è stato tradotto da Stephen Fry. L’idea era di avere una versione più vicina possibile all’originale, ma di renderlo, al tempo stesso, cantabile. Si è anche deciso di non lavorare solo in direzio70 di Patrizia Parnisari ne della fiaba, ma in modo più ampio e complesso. Rispetto alle trasposizioni da Shakespeare che lei ha intrapreso, in che cosa quella da Mozart si differenzia? La sfida è stata molto simile a quella che mi pongo ogniqualvolta mi accingo a lavorare a un film tratto da un lavoro teatrale di Shakespeare. Si tratta di riuscire a traghettare un’opera d’arte da un medium ad un altro, senza che se ne perda la magnificenza. Come Shakespeare, Mozart è molto resistente. Il flauto magico, come del resto Amleto, ha visto innumerevoli ambientazioni, ha «visitato» molti luoghi: è stato sulla luna, al circo, a Stonehenge, in spiaggia… ed è sempre sopravvissuto. Una chiave per me è la fedeltà della performance, non importa quanto siano estreme le problematiche tecniche, che si tratti di Shakespeare, di Mozart o di qualunque altro autore. Continuo comunque a preferire i classici. Hanno una ricchezza e una complessità incredibili. Amo la sfida dei classici perché affrontano temi universali. Le storie contemporanee sono meno interessanti. Anche se credo che fare oggi, ad esempio, un lavoro lirico sull’Iraq sarebbe una bella epopea. Al centro comunque anche qui la guerra, più precisamente la I Guerra Mondiale. Perché? Nel Flauto magico c’è l’analisi di un conflitto, incarnato dalla musica, e lo sviluppo dell’opera riguarda la determinazione degli antagonisti. La luce opposta alle tenebre, l’amore e l’odio e, nel nostro caso, la pace opposta alla guerra. Lo scontro più aperto è tra Sarastro e la Regina della Notte. Quest’opera è colma di mistero e bisognava trovare un’ambientazione che potesse controllare i pieni e i vuoti, per questo subito abbiamo pensato a questo periodo storico in cui molte cose sono inspiegabili e misteriose. Sono rimasto molto colpito dal conflitto personale pre- cinema sente nella musica; c’è un grido a favore della pace. Ho creduto allora che la musica potesse avere un paesaggio visivo che andasse bene con la I Guerra Mondiale, con la perdita di tante vite. Ambientandolo visivamente durante un conflitto e assegnando ad ognuno un esercito, si dava il senso delle dimensioni delle azioni dei personaggi. La Grande Guerra fornisce un territorio sia letterario sia metaforico, emotivo e complesso come è l’opera stessa. Anche il romanticismo, l’umorismo e «l’opera comica» emergono con forza. In termini di plot fornisce anche il set per un’avventura epica e di suspence coerente con la narrazione cinematografica. Quali sono i personaggi che più vivono il conflitto? Tamino appare subito in trincea pronto ad affrontare la sua prova iniziatica «verso la luce» nel buio e nella paura di cecchini e bombe. Le dame della Regina della Notte vestono abiti di infermiere di ospedali da campo. Papageno è il custode di canarini utilizzati nel conflitto per rilevare la presenza di gas letali. La Regina della Notte fa il proprio ingresso potente su di un carro armato. Sarastro è una sorta di leader pacifista. Tutti, in fin dei conti, incarnano la vicenda del conflitto. Ci sono molte scene spettacolari, molti effetti speciali e sorprenden- Dintorni ti nel suo film. Questa storia dunque è anche una favola ammaliatrice narrata a tutti… La musica invita all’immaginazione. Le reazioni a una grande opera d’arte sono necessariamente oggettive. Noi abbiamo tentato di offrire una sorta di mappa con il nostro adattamento dell’intreccio. Abbiamo usato tutte le risorse creative del cinema, ma vogliamo che il pubblico sia affascinato da Mozart. 71 Dintorni cinema La«VoixHumaine»diCocteau,RosselliniePoulenc Il 18 novembre al Teatro Malibran la riscrittura di un capolavoro L di Domenico Cardone a sera del 15 febbraio 1930 ta alla fama internazionale nel suo alla Comédie Française il Roma città aperta: Anna Magnani. sipario si alza sul nuovo La sfida è alta, un’inedita alleanza dramma di Jean Cocteau. La scetra teatro d’avanguardia e quel cina che si presenta al pubblico, sonematografo che sta dando il colspettoso nei confronti di un artista po di grazia al boulevard; ma Rostroppo originale nell’arte e nella sellini, inventore di forme espresvita, è una stanza spoglia: ai piedi sive e sperimentatore di soluzioni di un letto disfatto giace «una donintermediali, non si lascia spavenna», l’attrice Berthe Bovy, che pretare dall’apparente inadeguatezza sto si rivela in spasmodica attesa del testo per il medium di moda. di una telefonata. La storia è cruLa macchina da presa gli consenda, essenziale: la donna, aggrappate piuttosto di rappresentare e, nel ta al filo di una conversazione so«primo piano», amplificare quello Anna Magnani sul set vente disturbata o interrotta, cerca stile clinico-scientifico di narraziodi proteggere il sentimento d’amone suggerito da Cocteau. «La mia re che prova per l’uomo che la sta Voix Humaine», avrà a dire egli stesmalamente abbandonando e, doloso, è «l’anatomia di un sentimento. rosamente, combatte contro il velo C’è un individuo afferrato di peso, dell’ipocrisia. Al testo di quel momesso sotto il microscopio; scrunologo disperato e commovente tato sino in fondo». Cocteau ne fu che simula un dialogo (ma si può entusiasta. Il film conquista i critipersino dubitare che l’interlocutore ci più attenti e meno ideologizzati, sia davvero presente…) il pubblico come il giovane François Truffaut, può giustapporre, con l’immaginaprima ammiratore e poi amico inzione, anche il testo inaudibile deltimo sia di Cocteau che di Rosselle parole e dei toni dell’altro. Perciò lini. L’«esercizio di stile», da allora, silenzi, pause, esitazioni raccontaavvince altri registi di teatro e cineno pure un non detto, un persoma (merita una segnalazione l’inAnna Magnani e Jean Cocteau naggio invisibile. Nella deliranterpretazione di Ingrid Bergman te disperazione generata dall’amodiretta da Ted Kotcheff) ma anche re ferito, in quell’anonimo, e percoreografi (tra cui Bejart, che ideò ciò universale, dolore, non vi è chi un’indimenticabile interpretazione non possa riconoscersi, ed è questa per Luciana Savignano…). La sfida una delle tante ragioni del successi rinnova con l’arte musicale; qui so della pièce che resta non solo uno riscrivere appare ancor più proibidegli spettacoli più rappresentati al tivo, ai limiti del possibile: si pomondo ma anche uno dei testi più tranno cantare frasi, pensieri, revolte oggetto di riscrittura e adatgistri umorali così freneticamentamento. La Voix Humaine è divente instabili, cangianti, frammentatato negli anni la prova per antoti, ambigui? A Montparnasse, danomasia delle attrici migliori che, gli anni venti si è andato configuin quell’assolo lungo quarantacinrando un gruppo di giovani e brilque minuti, possono esprimere lanti compositori, «Les Six»: tra loAnna Magnani e Roberto Rossellini tutto il talento, rivelare la capacità ro, proprio da Francis Poulenc nel di scoprire le sfumature più sottili 1958 nasce la brillantissima soludella loro arte espressiva. Cocteau zione espressiva per il teatro musidelinea un’atmosfera macabra e ospedaliera: nell’esporcale, una «tragédie lyrique» che punta a rivelare dramre intimamente, psicologicamente, fisicamente, davanmaticamente l’amore ma anche l’erotismo nascosto nel ti al pubblico la protagonista prescrive freddezza di lutesto. Il direttore della Ricordi parigina, Hervé Duce, prevalenza del bianco (dall’arredamento alla sotgardin, propugnatore dell’impresa, dimostrerà dunque toveste). È, questa, un’indicazione colta appieno nella gran fiuto imprenditoriale. Cocteau stesso, che cura dipiù famosa delle riscritture cinematografiche del testo rettamente scena e regia del lavoro, ha modo di dichiateatrale, quella di Roberto Rossellini che nel 1947 dirare che il suo dramma ha trovato un’altra stabile fisiorige un’attrice straordinaria, da poco scoperta e portanomia in cui si riconosce. 72 Pietro Longhi, La presentazione (Parigi, Museo del Louvre) arte Dintorni Picasso e la gioia di vivere A Palazzo Grassi duecento opere del felice periodo in Costa Azzurra D uecento opere all’insegna della gioia di vivel’ordine, sono notissimi. Altri molto meno. Nei mesi re, dei colori e della mitologia. È un Picasso in scorsi il Museo Picasso di Parigi ha reso omaggio all’arparticolare stato di grazia quello esposto a Patista con una mostra sul periodo grave e nero precedenlazzo Grassi nella seconda mostra dell’era Pinault intite e contemporaneo alla guerra. Palazzo Grassi si intolata «Picasso, La joie de vivre 1945-1948» che resterà aperta al secondo piano dell’edificio fino all’11 marzo e prende il titolo proprio da un’opera realizzata nell’ottobre del 1946 ad Antibes. Una rassegna non immensa ma preziosa, considerato che i dipinti, i disegni, le incisioni, le sculture e le ceramiche sono il contenuto del Museo Picasso di Antibes il quale, chiuso per restauri, ha imprestato la sua collezione a Venezia. Accanto al museo «in trasferta» ci saranno altre opere provenienti da collezioni private e pubbliche eseguite nell’arco di quattro anni dell’immediato dopoguerra. È in questo periodo di particolare euforia – tra il 1945 e il 1948 – che Picasso ritrova l’amata Costa Azzurra grazie alla fine dell’occupazione. In Costa Azzurra Picasso non è solo ma con un nuovo amore che si chiama Françoise Gilot, dalla quale avrà due figli Picasso nello studio di Antibes con «La joie de vivre» (Claude e Paloma) e con la quale vivrà fino al 1953. La ritrovata serenità vibra in tutte le opere dell’artista che in questi anni esplora i grandi temi mitologici mediterranei e, complice la vicinanza di Vallauris e dei suoi laboratori di vasai, si dedica alla ceramica e prova l’uso di supporti nuovi e atipici come ad Picasso «La joie de vivre» esempio le lastre in fibrocemento. Ed è proprio in questo momento che Picasso crea in tutta la carica invece di riportare la luce sulle tele del maestro sontuosità e ricchezza «La joie de vivre». La sua persoesponendo il frutto dei uno dei periodi più felici – sennale e pubblica gioia di vivere. timentalmente e artisticamente – del maestro. La mostra, curata da Jean-Louis Andral, conservaA Palazzo Grassi Picasso non sarà solo. Al primo piatore del Museo Picasso e direttore dei musei di Antino, infatti, ci sarà un’altra selezione delle opere della bes, si annuncia come un «cammeo» nella lunghissima collezione Pinault. e fertile attività dell’artista. Vissuto 92 anni, attivo per L’arte contemporanea sarà il centro anche della terza quasi ottanta, Picasso si è costamente rimesso in caumostra del magnate francese, in programma a giugno sa, esplorando temi e tecniche sempre rinnovati senza in concomitanza con la Biennale di Arti Visive. Quinmai accontentarsi di ritornare sulle sue di, nell’autunno del 2007, sarà la volta precedenti esperienze artistiche. di un omaggio a Roma e all’arte barbaVenezia - Palazzo Grassi fino all’11 marzo 2007 Alcuni periodi, come quello blu e rica mentre nel 2008 Palazzo Grassi si quello rosa, il cubismo e il ritorno alaprirà all’Arte povera. (m.p.) 73 Dintorni arte Gesti di pittura A Treviso un percorso che da Boccioni porta a Vedova F ino all’8 aprile del 2007 a Treviso, presso Casa dei Carraresi, sarà possibile visitare la mostra «Venezia ‘900. Da Boccioni a Vedova», promossa dalla Fondazione Cassamarca. La mostra, curata da Nico Stringa e Giuseppe Pavanello, si propone di illustrare lo sviluppo dell’arte a Venezia dai primi del Novecento agli anni sessanta ed è stata articolata in undici sezioni. Apre la rassegna una sezione dedicata alla produzione giovanile di Umberto Boccioni, individuato come emblema della nascita della «modernità» a Venezia. Infatti, proprio a Venezia, nell’estate del 1910, il giovane artista tenne la sua prima mostra personale. La mostra, preceduta dal lancio del manifesto futurista «Contro Venezia passatista» e introdotta in catalogo da un testo di Marinetti, suscitò in città aspettativa e scalpore. In realtà Boccioni non presentò opere ispirate alle teorie futuriste ma opere ancora legate a suggestioni derivate dal simbolismo, dall’espressionismo e dal divisionismo; come risulta anche dalle opere raccolte in questa sezione, tra le qua- di Giovanni Bianchi però il suo ruolo di riferimento artistico internazionale. A testimoniare questo clima è la piccola sezione riservata alle Presenze internazionali, dove, tra le opere presentate, si notano in particolare Sentieri ondulati (1947) di Jackson Pollock e Testa di toro (1942) di Pablo Picasso. La sezione Dal Fronte Nuovo delle Arti allo Spazialismo accoglie opere di artisti che operarono a Venezia tra la metà degli anni quaranta e la fine degli anni cinquanta. Sono esposte opere di Emilio Vedova, Armando Pizzinato, Giuseppe Santomaso, Alberto Viani, Edmondo Bacci, Gino Morandis, Mario Deluigi, Tancredi, accan- Treviso – Casa dei Carraresi fino all’8 aprile 2007 li spiccano Canal Grande a Venezia (1907) e Nonna (1905-06). Segue uno spazio riservato agli Artisti di Ca’ Pesaro, con un significativo omaggio all’artista più rappresentativo del «movimento» capesarino: Gino Rossi, che di Treviso fece la sua città d’adozione. Come ricorda Nino BarUmberto Boccioni “Canal Grande” 1907 Galleria Dello Scudo Verona bantini «i fasti di Ca’ Pesaro non ebbero inizio che nel 1910, quando ci raggiunsero due tele, Il muto e La fanciulla del fiore». Entrambi questi capolavori di Rossi sono raccolti nelto a opere di Renato Birolli, Luciano Gaspari e Salvatol’accurata selezione di opere proposte. re Messina. Uno spazio esclusivo è riservato al più interUna galleria di Ritratti e di autoritratti presenta opere nazionale degli artisti veneziani: Emilio Vedova. Viene di pittori che ritraggono se stessi o che eseguono ritratti documentata in particolare la produzione artistica degli ad amici, a collezionisti e a critici d’arte, fra i quali si può anni cinquanta, periodo in cui l’artista si afferma come vedere uno strepitoso ritratto di Carlo Cardazzo realizuno dei maggiori esponenti dell’espressionismo astratto. zato da Asger Jorn. La sua pittura gestuale e aggressiva denuncia con forza A Filippo de Pisis è dedicata una rassegna di dipinti conflitti e drammi sociali. eseguiti per la maggior parte negli anni quaranta. Ai proChiude il percorso espositivo un significativo omaggio tagonisti della declinazione veneta del Realismo magico, al più importante scultore italiano del novecento: Artucorrente che «associa» un crudo realismo neo-oggettivo ro Martini, del quale viene proposta un’antologia di cadi stampo nordico ad atmosfere oniriche di sapore mepolavori, che testimoniano la sua complessa ricerca platafisico, è riservata una sezione, con opere di Cagnaccio stica e la sua continua sperimentazione. Il marmo Dondi San Pietro, Corrado Martens, Astolfo de Maria, Guina che nuota sott’acqua (1941-42) conferisce alla mostra un do Cadorin, Leone Minassian… Con il grande successo carattere eccezionale, dato che è dal 1948 che la più imottenuto dalla Biennale d’Arte del 1948 – la prima dopo portante scultura di Martini non è stata più disponibile l’interruzione bellica - Venezia uscì da quell’isolamento per esposizioni. Il catalogo della mostra è edito dalla caculturale in cui l’aveva relegata il regime fascista e recusa editrice Marsilio. 74 arte Dintorni Emilio Vedova Venezia, 9 agosto 1919 - 25 ottobre 2006 75