Recensioni > Musica > Cultura - Mercoledì 20 Giugno 2012, 09:30
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Qui Teatro alla Scala: Luisa Miller
La fiaba perturbante di Verdi e Cammarano, diretta da Gianandrea Noseda con la regia di Mario
Martone "
Paola De Ambrosis Vigna
Dal podio dell’energico, quanto delicato e composto, M° Noseda al palcoscenico onirico che
ispira le profonde performances degli interpreti: tutto in questo spettacolo contribuisce a
sottolineare la realtà viva e cruda dei rapporti tra i personaggi, “proprio come avviene nei sogni
in cui tutto sembra vero”, dice il regista Mario Martone. In questi giorni è in scena al Teatro alla
Scala di Milano la tormentata ed intimistica opera Luisa Miller di Giuseppe Verdi, lavoro che
partendo dall’interiorità dei protagonisti mette in scena tematiche profonde ed universali,
facendole emergere dall’inconscio. Un perfetto preludio ai più maturi Rigoletto, Trovatore,
Traviata, ed un’anticipazione che, soprattutto nelle scelte stilistiche, deve molto al contesto
internazionale cui prese parte Verdi durante il suo soggiorno parigino alla fine degli anni
Quaranta dell’Ottocento.
Tre, come gli atti, sono i motori dell’azione: l’amore, l’intrigo e il veleno.
Nel primo atto, la cavatina di Luisa “Lo vidi, e il primo palpito”, sintetizza il sentimento che
domina nella giovane, semplice e pura Luisa. È una cabaletta che trova nel canto staccato lo
stile vocale che meglio può esprimere il palpitare di un cuore. La melodia cerca di imitare il
tipico sussulto del cuore ed il respiro corto tipici degli innamorati. Uno strumento che Verdi
metterà ancor più a frutto in Rigoletto nel brano di Gilda“Caro nome, che il mio cor festi primo
palpitar”. Elena Mosuc è molto abile e sensibile in questi passaggi, che si ritrovano in più punti
dell’opera, senza tuttavia risultare ripetitivi.
Particolarmente toccante, per la grande esperienza e per il sentimento espresso da Nucci, è
stato nel Finale Primo il largo concertato “Tra i mortali ancora oppressa”, a seguito del quale
sulla scena si assiste a molteplici concitate reazioni dei protagonisti, quindi le poche battute
orchestrali e, subito, il calo del sipario. Un coupe de théâtre musicale che è stato enfatizzato da
scelte di regia e scenografia, che lasciano predominare tinte di rosso e nero, emblematici
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Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale reperibile al link http://www.lindro.it/cultura/2012-06-20/9338-qui-teatro-alla-scala-luisa-miller
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della violenza del potere del conte di Walter e del suo diabolico castellano.
I versi del libretto composto da Cammarano non possono prescindere dalla musica scritta da
Verdi con il preciso scopo di esprimere la gravità dei sentimenti. Per questo il ruolo affidato
all’orchestra è particolarmente incisivo e l’ottima riuscita dell’esecuzione, già dopo il primo
atto, è stata testimoniata dalla calorosa accoglienza riservata dal pubblico per il direttore, al suo
accesso al golfo mistico.
Più dell’amore, a catturare l’attenzione dello spettatore in quest’opera è il tema della gelosia e
dell’intrigo, che spunta minaccioso in chiusura del primo atto e che si esplica poi nel
successivo. Tutti gli interpreti hanno dato prova della loro bravura, coro compreso. All’inizio del
secondo atto, le contadine che insieme a Laura si esprimono nel brano Al villaggio dai campi
tornando, sono sublimi, celestiali, e nondimeno tuonanti nel passaggio “Havvi un Giusto, un
Possente che il guardo tien rivolto sui miseri ognor!”
A loro fa seguito il ritorno in scena del temibile Wurm, con un Kwangchul Youn bravissimo
interprete del malvagio antagonista. Le sue doti vocali gli permettono di essere incisivo nelle
note più gravi e insinuare il timore negli ascoltatori. La scenografia concepisce al centro del
palcoscenico un cerchio in movimento ed attorno un altro settore che si muove in senso
opposto. Su quest’ultimo si trova Luisa, in preda alla confusione e vittima delle minacce del
castellano. L’intrigo combinato da Wurm e Walter s’intesse mano a mano anche nella partitura
ed è raccontato dall’energica sinfonia dell’orchestra. Nel cantabile Tu puniscimi pure, o Signore,
lo struggimento di Luisa è interpretato da Mosuc con una grinta che le permette di esprimersi in
filati virtuosismi vocali, potenti e lievi al tempo stesso. Un passaggio che infatti è omaggiato dal
pubblico con un applauso a scena aperta, insieme ai “Brava!” degli estimatori più soddisfatti.
Ma i lamenti della giovane nulla possono contro l’incalzare della minaccia di Wurm; la
drammaticità del momento sale e ritornano in mente le parole più volte ripetute nella preghiera
rivolta poco prima da Luisa al Signore, “Non lasciarmi in abbandono”. Questo cantabile consiste
in un andante agitato in la maggiore, che estremizza la drammaticità dello strazio di Luisa,
già ben descritto dai versi di Cammarano. Poi la cesura del quartetto “a capella” di Luisa,
Federica, Walter e Wurm crea ancor più il senso di rottura, smarrimento vissuto dalla povera
protagonista, come se fosse inghiottita da un triste destino, come vortice inesorabile (“Ahimé,
l’infranto core/più regger non può!.../ Se qui rimango, esanime a’ piedi suoi cadrò!”), che è ancor
più aggravato dallo stato di felicità vissuto da Federica (“Un sogno di letizia/par quel
ch’io veggo e sento!”. Simmetricamente a quello di Luisa, si accompagna lo struggimento di
Rodolfo nella celeberrima romanza Quando le sere al placido, all’interno della quale, come
fosse una canzone popolare si ripete il verso “Ah! Mi tradia”, ed Álvarez risulta molto
convincente in ogni nota, sapendo declinare le ripetizioni con diversa intensità. Altrettanto
apprezzata la sua cabaletta L’ara, o l’avello apprestami, nella quale il suo personaggio, dopo
aver espresso tutto il suo dolore nella romanza, immagina la sua vendetta, incalzato dal padre,
tra il tuonare del coro al canto Del genitor propizio
Il terzo atto vede il proprio motore, oltre che nel desiderio di vendetta, nell’inganno e nel
veleno: sia Rodolfo sia Luisa muoiono infatti vittima di una pozione letale, e reo ne è Rodolfo
stesso. Ma il tragico epilogo è già scritto nella musica degli atti precedenti, il pubblico non
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si aspetta altro che un triste destino. Di qui risulta ancor più dolce vedere la tenerezza del Miller
di Nucci, soprattutto nel duetto tra padre e figlia. Il corno scandisce l’affanno del padre, poi gli
archi introducono la leggiadra cabaletta di Luisa, La tomba è un letto sparso di fiori. Brano
allegro con colorature e virtuosismi nei quali Mosuc è deliziosa, e che fanno per poco
dimenticare la gravità del momento, richiamando la spensierata aria del primo atto“Lo vidi, e il
primo palpito”.
Di qui seguono una serie di momenti di profonda valenza melodrammatica, come il
commovente passaggio di Nucci in Di rughe il volto ed il successivo duetto con Mosuc, che si
conclude con il sottile acuto di lei al pronunciare “Iddio benedirà”.
Il finale incombe e Rodolfo si affaccia nella casa di Luisa, il pathos sale tra i pianissimo filati del
soprano ed il suono dei rintocchi dell’orologio del castello. Attimi di puro teatro in musica, un
angosciante incalzare di suoni.
Il veleno è già nel corpo dell’ignara Luisa e del reo Rodolfo, quand’ella svela all’amato la sua
innocenza, fra le note precise e singhiozzanti di Mosuc, “Rodolfo arresta, già mi serpeggia la
morte in sen”. E’ rimasto solo il tempo per l’estremo atto di rivalsa di Rodolfo nei confronti del
padre cinico calcolatore, “A te sia pena, empio, la morte…La pena tua… mira!”. Quale peggior
castigo per un padre del vedere la morte del proprio figlio.
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