a.a. 2013-2014 Dispense di FILOLOGIA MEDIEVALE E UMANISTICA (prof. Claudia Corfiati) L’AEGIDIUS DEL PONTANO E LA CULTURA NAPOLETANA ALLA FINE DEL QUATTROCENTO 1 INDICE M. BARBI, La nuova filologia G. PASQUALI, Cattedre di filologia italiana F. PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina Commedia MASUCCIO, Il Novellino, Dedica MASUCCIO, Il Novellino, I III T. CARACCIOLO, Vita di G. Pontano B. GARETH, Sonetto C J. SANNAZARO, Elegiae IX B. GARETH, Canzone X J. SANNAZARO, Arcadia XII VESPASIANO DA BISTICCI, Vita di Alfonso ADAM DE MONTALDO, De clara vita divi Regis Alfonsi oratio G. BRANCATI, Raccomandazione per la biblioteca EGIDIO DA VITERBO, Lettera al Pontano G. PONTANO, Lettera ad Egidio 1 1 2 3 4 9 11 12 15 16 22 23 24 30 32 2 MICHELE BARBI, La nuova filologia e l’edizione dei nostri scrittori, da Dante a Manzoni, Firenze 1938 GIORGIO PASQUALI, Cattedre di Filologia Italiana, Romanza, Medievale, in «Lo Spettatore Italiano» (settembre 1949) p. VIII Anche allora grande incertezza d’idee e non felice applicazione di quelle che s’avevano per migliori: c’era sì fra i giovani un grande interesse e diciamo pure un grande entusiasmo, per questi studi [di filologia], e maestri quali il Carducci, il Bartoli, il Monaci, il Rajna, incoraggiavano il movimento con l’esempio e con buone iniziative; era un correre di città in città e da biblioteca a biblioteca, per dare alla luce scritti antichi con quello stesso ardore con cui gli umanisti correvano a liberare i classici dagli ergastoli dei barbari, e non mancò chi si spingesse fino in Inghilterra per togliere dalla clausura degli ultimi Britanni il fiorentissimo Sacchetti. Un Molteni e un Mazzatinti non erano di meno dei più fervidi scopritori del Quattrocento. p. X Noi uscivamo [dalla scuola del Rajna] con la giusta idea che ogni testo ha il suo problema critico, ogni problema la sua soluzione e che quindi le edizioni non si fanno su modello. All’uscita dall’Università uno scolaro sufficiente di latino e greco, purché abbia avuto maestri non dico eminenti ma a modo, sa, anzi per assuefazione sente che ha il dovere di interpretare ogni testo antico parola per parola, studiandosi di rivivere il valore stilistico di ogni locuzione, riesce anche di regola a leggere un apparato critico e a rendersi conto, informandosi, qualora sia necessario, nella prefazione critica, se la coincidenza di determinati manoscritti in una determinata lezione garantisca la scrittura dell’archetipo, sicchè ogni altra lezione non possa essere se non o errore o congettura (recensio chiusa) o se e in che limiti l’editore e il lettore abbiano diritto a scegliere tra le varianti, regolandosi con i criteri del significato, dell’usus scribendi, della lectio difficilior e pesando ciascuno di questi contro tutti gli altri (recensio aperta); sa anche giudicare quanto in un certo scritto valga una tradizione, se cioè e in che limiti vi sia il diritto, cioè il dovere di congetturare. Diversamente un laureato in lettere moderne non sa quasi mai rendersi ragione dei particolari, non sa interpretare… L’italianista non si degna nemmeno di chiedersi cosa sia un testo e come si costituisca… L’insegnamento della filologia italiana nelle Università perlomeno insegnerebbe agli scolari a non credere ai maestri ciecamente, ma invece a discutere con loro liberamente, perché i filologi, sia classici sia romanzi, non sono dogmatici e sono tolleranti: filologo in Platone, quando la filologia non esisteva, significa amator della discussione… 1 FRANCESCO PASTONCHI, Il manoscritto originale della Divina Commedia, in «Corriere della sera» del 27 novembre 1949 (terza pagina) Chi avesse potuto, quel mattino, da una fessura, vedere nel suo studio il professor Eusebio Calanzi, il più insigne studioso di Dante e il più citato, le cui affermazioni facevano legge, l’uomo che fin dalla giovinezza – se giovinezza fu la sua, trascorsa nel chiuso della biblioteca – non si era concesso altri svaghi, altri viaggi, altri entusiasmi, infine altro amore che non toccasse il Divino poema, ricercandone e compulsandone le centinaia di codici sparsi nel mondo per riuscire a darne una precisa classifica e rintracciarne le ascendenze e le varie famiglie, e, pubblicato il colossale volume di tutte le varianti comparate e discusse, risalire così al più probabile testo originale, chi avesse potuto osservarlo, presso un enorme cassone, donde traboccavano confusamente antiche ingiallite carte, davanti alla tavola su cui stava aperto un infolio, agitarsi, gesticolare, convulso e ora chinarsi a voltare una pagina e un poco leggervi e quindi rilevatosi alzar le braccia gettando sospiri e mettersi a saltabeccare in giro allo studio con rotte esclamazioni, per tornare all’infolio e di nuovo piegato su di esso sfogliarlo affannosamente e mormorare: “non è possibile, non è possibile, eppure sì, è certo…” e allora correre all’uscio e tentarlo ad assicurarsi che fosse ben chiuso e ancora accostarsi alla tavola, premersi tra le mani la testa canuta quasi in atto disperato e a un tratto ergersi nella piccola persona e quasi ingrandire in aspetto raggiante, ma subito poi ricadere prostrato: quegli non avrebbe certo riconosciuto in lui così trasfigurato, l’ometto che s’era soliti incontrare rasente muro, con sempre un libro sotto braccio, la persona incurvata, la testa bassa, il passo schivante, come a dissimularsi, estraneo a tutti, temente di venir trattenuto e interrotto nelle sue elucubrazioni […] Insomma col procedere nella consultazione Eusebio Calanzi vedeva profondarsi tutti i testi architettati dagli studiosi e soprattutto il suo. La testa gli ronzava, dovette smettere la lettura, confuso, annichilito. Stava lì sospeso del come fare. Divulgare la scoperta distruggendo il suo onore di studioso? Il sogghigno dei colleghi strisciò lungo gli scaffali della biblioteca, danzò grottescamente sull’infolio della Commedia e sulle sue povere sudate carte. Egli pensò, e con insolita tenerezza, alla moglie e soprattutto a quelle terribili figlie che questa volta non si sarebbero divertite e non avrebbero riso. Rinascondere il manoscitto lasciando che altri, lui morto, lo scoprissero? Ma dove nasconderlo? E in qual modo sopportare un tanto seguito? E se avesse dato la notizia della scoperta, accompagnandovi la confessione del proprio fallimento, comune infine a quello di tanti altri interpreti? Muoia Calanzi e tutti i filistei! Ritirarsi, sparire dal mondo? Follia! Deliberò infine di soprassedere differendo ogni decisione, e riprendere l’esame, esaurirlo, preparare un’edizione definitiva. Gli parve di potersi acquietare in questa promessa d’attesa fatta a se stesso. Illusione. Col passare dei giorni crebbe l’angoscia e, tenendola in sé chiusa tanto più lo rodeva. Dalle pareti dello studio i suoi libri lo irridevano ironici. Le mura della casa lo opprimevano. Prese ad errare per le strade senza meta, sempre più curvo, parlottando a gran gesti. In famiglia si sforzava di parer calmo, ma, se non la moglie, astratta, lo atterrivano le figliole nella loro sfidante bellezza. Le notti insonni gli si riempivano d’incubi. Un mattino tuttavia lo invase una strana allegrezza: balzò dal letto con passo di danza. […] Lo costrinsero al letto, prima si ribellò, poi vi si assopì vaneggiante. Si avvicinava l’inverno e già nelle alte stanze di quel vecchio palazzo stagnava il freddo. Un giorno Eusebio Calanzi levatosi d’impeto corse nell’attiguo studio e si mise a vuotare gli scaffali e a scaraventare con rabbia i suoi cari libri qua e là sul pavimento: vi finì anche il fatale manoscritto scioltosi dalla custodia e sfasciato: un misero scartafaccio. La moglie accorse a tanta rovina, invocò le figliole che l’aiutarono a riportarlo in camera e metterlo a letto. Subitamente ammansito egli vi si lasciò ricondurre piagnucolando come un bambino. Poi le ragazze tornarono nello studio per riordinarlo alla meglio. “Qui si gela. Se facessimo una fiammata…”, propose Lia. Ma la legna, già preparata nel camino era umida e il fuoco stentava ad appigliarvisi. “Ci vorrebbe un po’ di carta…”. “Prendiamo queste”, disse Matelda, accennando allo scartafaccio. “Che cos’è?” – “Aspetta che guardo…: un Dante! Uno dei tanti…” – “Maledetti! Sono i maggiori colpevoli dello stato di papà” – “Allora dammi” – “È vecchio e sdrucito, ma ha una carta spessa… brucierà bene”. Cominciarono a strapparne i fogli e a gettarli via via nel camino, alla fiamma 2 NOVELLINO DEL NOBELE MATERNO POETA MASUCCIO GUARDATO DA SALERNO, INTITULATO A LA ILLUSTRISSIMA IPOLITA D'ARAGONA E DE' VISCONTI, DUCHESSA DE CALABRIA; E IN PRIMO IL PROLOGO FELICEMENTE COMENCIA. [Dedica] Como che io manifestamente comprenda e per indubitato tenga, inclita ed eccelsa madonna, che al suono de la mia bassa e rauca lira non si convenga de libro comporre, né meno de proprio nome intitularlo, e che più de temerità dignamente sarò redarguito, che d'alcuna eloquenzia né multo né poco commendato; nondemeno avendo da la mia tenera età faticato per esercicio il mio grosso e rudissimo ingegno, e de la pigra e rozza mano scritte alcune novelle per autentiche istorie approbate, ne gli moderni e antiqui tempi travenute, e quelle a diverse dignissime persone per me mandate, sì como chiaro ne' loro tituli si demostra, per la cui accagione ho voluto quelle che erano già disperse congregare, e de quelle insieme unite fabricare il presente libretto, e quello per la sua poca qualità nominare il Novellino, ed a te, sulo presidio e lume de la nostra italica regione, intitulare e mandare; a tale che tu, con la facondia del tuo ornatissimo idioma ed eccellencia del tuo peregrino ingegno, pulendo le multe rugine che in esso sono, e togliendo e resecando le sue superfluità, ne la tua sublime e gloriosa biblioteca lo possi licet indigne aggregare. E quantunque multe ragione da quello me avessero quasi retratto, e dissuasomi lo non intrar a tal lavore, pur novamente occurrendomi un vulgare esempio, quale non sono già multi anni passati che dadovero intervenne a la nostra salernitana cità, a ciò sequire m'ha confortato e spronato; e quello, primo che più ultra vada, de ricontare intendo. Dico adunque che nel tempo de la felice e illustra recordazione de la regina Margarita fu in questa nominata cità un ricchissimo mercatante genovese, de gran trafico e notivole per tutta Italia, il cui nome fu messere Guardo Salusgio, de assai onorevole fameglia ne la sua cità. Costui dunque passeggiando un dì davanti il suo banco posto in una strata chiamata la Drapparia, ove erano de multi altri banchi e bottege de argentieri e sartori, e in quello passeggiare gli venne veduto dinanzi ai pedi d'un povero sarto un ducato vineciano; il quale como che lutulente e pisto multo fusse, nondemeno il gran mercatante, como multo familiare de quella stampa, incontinente il cognobbe, e, senza indugio inclinatosi, ridendo disse: - Per mia fé, ecco un ducato! Lo misero sarto, che repezzava un giuppone per avere del pane, como ciò vide, vinto da venenosa invidia e, per la estrema povertà, da rabia con dolore, si revoltò verso il cielo con le pugne serrate e turbato multo, maledicendo la iusticia con la potenzia insieme di Dio, aggiungendo: - Ben si dice, oro ad oro curre, e la mala sorte da gli miseri non si move già mai. Io dolente, che tutto ogge me ho faticato e non ho guadagnato cinque tornesi, non trovo si non sassi che mi rompono le scarpe, e costui, che è signore d'un tesoro, ha trovato un ducato d'oro dinanzi li pedi mei, che ne ha quel bisogno che hanno gli morti de l'incenso. Il prudente e savio mercatante, che avea fra questo mezzo da l'argenteri che gli stava de rimpetto con fuoco ed altri argomenti fatto retornare il ducato a la pristina bellezza con piacevole viso si revoltò al povero sarto, e sì gli disse: - Buono uomo, tu hai torto rimaricarti de Dio, per accagione che Lui ha iustamente operato farmi trovar questo ducato, imperò che si ti fusse recapitato in tue mani, lo averisti alienato da te, e se pur lo avessi tenuto, lo averisti in qualche vili stracci posto, e sulo e a non proprio luoco lasciato stare; de che a me avverrà tutto il contrario, perché 'l ponerò con suoi pari, e in una grande e bella compagnia. E ciò ditto, se rivolse al suo banco, e buttollo a la sumità di multe migliara de fiorini che in quello erano. Dunque avendo, como de supra ho già ditto, de le disperse novelle composto il multo pisto e lutulente libretto, per tutte le già ditte ragione ho voluto a te, dignissima argentera e perottima cognoscitrice de questa stampa, mandarlo, acciò che cum gli tuoi facilissimi argomenti lo possi rembellire, e quello, devenuto bello, tra gli tuoi ornati ed elegantissimi libri abbia qualche minimo luoco. Quale a la loro decorazione ne adiungerà una altra maiore, perché, como vole il filosofo, le cose opposite insieme coniunte, con maiore luce se distingue la loro disaguaglianza. E ultre a ciò te supplico che, quando ti sarà concesso alcuno ocio, lo leggere de ditte mie novelle non te sia molesto, però che in esse troverai de multe facecie e giocose piacevolezze, che continuo nuovo piacere porgerti saranno accagione. E si per aventura tra gli ascoltanti fusse alcuno santesso seguace de' ficti religiosi, de la scelerata vita e nefandi vicii de' quali io intendo ne le prime dieci novelle alcuna cosellina trattarne, che mordendo me volesse lacerare, e dire ch'io como maledico e cum la venenosa lingua ho ditto male de' servi de Iddio, ti piaccia per quello dal cominciato camino non desistere; però che supra tale lite sulo prego la Verità, ch'al bisogno l'arme prenda in mia difesa, e rendami testimonio che ciò non procede per dir male d'altrui, né per veruno odio privato o particulare ch'io con tal gente me abbia. 3 Anzi, per non tacere il vero, ho voluto ad alcuno gran principe e ad altri mei singulari amici dare noticia de certi moderni e d'altri non multo antiqui travenuti casi, per li quali se potrà comprendere cum quanti diversi modi e viciose arti nel preterito gli sciocchi o vero non multo prodenti seculari siano da' falsi religiosi stati ingannati, a tale che gli presenti faccia accorti, e gli futuri siano provisti che da sì vile e corrutta generazione non si facciano per lo inanzi sotto la fede de ficta bontà aviluppare. E ultra ciò cognoscendo io gli religiosi assai buone persone, me pare de necessità esser costretto in alcuna cosa imitare i costumi loro, e massime che la maior parte de essi, como hanno la cappa adosso, pare che loro sia permesso e secreto e publico dire male de' seculari, aggiungendo che tutti siamo dannati, e altre bestiagine da esserne lapidati. E se fuorsi opporre volessero che, predicando, remordeno gli difetti de' gattivi, io a questo facilmente respondo che, scrivendo, non parlo contra la vertù de' buoni; e cossì senza inganno o vantaggio trapassaremo, e da pari morsi saremo tutti trafitti. Dunque andando dietro a loro orme, e con verità scrivere le sceleragine e guasta vita d'alcun de loro, niuno sel deve a noia recare. Nondemeno a coloro che hanno l'orecchie impiastrate de santa pasta, che non possono de' religiosi udir male, ottimo e sulo remedio me pare che a ditta infirmità sia, che, senza leggere o ascoltare ditte mie novelle, andasseno con Dio, e sequendo la prattica de' frati, ogne dì la cognosceranno più fruttuosa a l'anima e al corpo; i quali, essendo abundanti d'ogne carità, de continuo la comunicaranno con le loro brigate. E tu, valerosa e formosissima madonna, con la costumata umanità leggendovi, tra le multe spine troverai alcun fioretto, quale te sarà accagione talvolta farte ricordare del tuo minimo servo e ossequiosissimo Masuccio, quale de continuo a te si ricomanda, e gli Dii priega per lo augmento de tuo felice e secundo stato. Vale. *** I III Argomento Fra Nicolò da Nargni, innamorato de Agata, ottene il suo disiderio; vene il marito, e la muglie dice il frate averla con certe reliquie liberata; trova le brache del frate a capo del letto; il marito si turba; la muglie dice esser state de San Griffone, il marito sel crede e lo frate con solenne processione ne le conduce a casa. AL CLARISSIMO POETA IOANNE PONTANO Se de' veri amici como de se medesmo, magnifico mio Pontano, lo onore e commodità se recerca, io, ancora che del numero de' tuoi minimi amici sia, a quello cercare e volere e per ogne debito disiderare son costretto. Il che, cognoscendote de tante singularissime vertù accompagnato, che lume de' retorici e specchio de' poeti meritamente appellar te potremo, ultre le infinite altre notivoli parte che in te sono, vedendo quelle de una sola macchia contaminate, quale facilmente nettar si puote, non ho voluto in alcun modo tacerla. Ciò è il continuo e con stretta prattica tuo conversare con religiosi d'ogne sorte; che quanto ad un uomo de tanta integrità, como tu sei, maior mancamento e più repreensibile sia che con eretici tener trame, tu medesmo iudicarlo porrai, atteso con loro non altri che usurari, fornicatori e omini de mala sorte conversar si vedono, a ciò che sotto tale ipocrita conversazione possano il compagno ingannare. Dunque, non essendo lupo, non conviensi de la sua pelle foderarsi il tuo mantello. Remuovite, ti priego, da sì reprobato e dannabile camino, persuadendote massimamente a non sulo da tal prattiche al tutto retrarti, ma de tua casa, como fussero de la contagiosa peste ammorbati, con decreto eterno equalmente gli priva; e, ciò operando, d'ogne futuro suspetto ti traerai, e a loro non darai materia intrar per l'uschio de la tua amistà a contaminar, como sogliono, le tue brigate. E a ciò che a ditto precipicio correr non ti veggia, ultre le prenotate ragione, ti mostrarò, per autorità del mio parlare e per esempio del tuo futuro operare, ne la sequente novella a te dirizzata, che ragione rendìo l'amicicia d'un santo religioso ad un medico catanese, de loro più ch'altro sequace, ancora che gelosissimo fusse, e como e con quanta sottilissima arte da la muglie e dal frate fusse stato il poveretto tradito e beffato. Catania nobile e clarissima, como chiaro sapemo tra le notivole cità de l'insula de Sicilia è nominata; ne la quale, non è gran tempo, vi fu un dottore de medicina, maestro Rogero Campisciano nominato. Costui, quantunque de anni fusse pieno, prise per muglie una giovenetta chiamata Agata, de assai onorevele fameglia de la cità preditta, la quale, secundo la comune sentencia, era la più bella e legiadra donna che in quelli tempi in tutta l'insula si trovasse; unde il marito non meno che la propria vita l'amava. E perché rare volte o mai sì fatto amore vien senza gelosia, in brevissimo tempo senz'altra accagione sì geloso ne divenne, che non 4 sulamente dagli estrani ma da amici e parenti gli avia già la conversazione interditta. E quantunque lui fusse multo domestico de' fra' minori, guardatore de' loro dinari e procuratore de l'ordene, e finalmente tutto familiare e cosa loro, nondemeno per maior sua cautela a la sua donna avia imposto e ordenato che de loro conversazione, non manco che de' disonesti seculari, guardar si dovesse. Avvenne intanto non poi longo tempo, che in Catania arrivò un fra minore, fra Nicolò da Nargni nominato: questo, ancor che de' bizzochi sembrasse, e con un paio de zochi como cippi de carcere, col corame al petto del mantello, col collo torto e tutto pieno de ipocrisia andasse, pur egli era giovene, bello e ben complessionato; ed ultra che in Peroscia studiato avesse e in la loro dottrina solenne maestro devenuto, era un famoso predicatore, e stato già compagno tra gli altri de san Bernardino, secundo chiaramente confirmava, del quale dicea aver alcune reliquie, per le cui vertù Idio gli avia mostrati e continuamente de multi miraculi gli mostrava; per la cui accagione e per divozione de l'ordene un mirabilissimo concorso a la sua predicazione avea. De che accadde che, una matina fra l'altre, predicando, vide tra la feminile turba madonna Agata nominata, quale un carbunco tra multe bianchissime perle gli parve; e con la coda de l'occhio talvolta percotendola, senza punto interrompere il suo sermone, fra seco medesmo più volte disse felicissimo potersi tener colui, che de lo amore d'una sì vaga giovanetta fusse fatto digno. Agata, como de ciascuno è usanza che la predica ascolta, mirando fiso de continuo a lui, e parendoli ultre modo bello, non con alcuna disordenata sensualità, che 'l marito fusse como il predicatore bello fra se medesma disiderava, venendogli anche in pensamento e diliberazione da lui volersi confessare. E con tal proposito dimorando, sì tosto como dal pergolo scender il vide, fattaglise incontro, che gli donasse udienza il supplicoe. Il frate, che ne l'intrinseco letissimo era, ma per occultar in faccia la sua magagna, respuose non esser officio il confessare. A cui la donna disse: - Or non goderò io per amor de maestro Rogero mio marito alcun privilegio con vui? suoi peccati, contando de la grandissima gelosia del suo marito, gli domandò de gracia che per tal modo con sua vertù se adoperasse, che al marito tal fantasia del capo traesse in omne modo, credendo fuorsi che tale infirmità si sanasse con erbe e con impiastri, como il marito gli suoi infirmi guariva. Il frate, che a tal proposta letissimo era tornato, parendogli la sua prospera fortuna aprirgli l'uschio unde a fornire il suo disiderato camino intrar dovesse, dopo che con assai ornate parole l'ebbe confortata, in cotal forma gli respuose: - Figliola mia, non è da maravigliare che 'l tuo marito sì forte de te sia ingelosito, perché, altramente facendo, per ben che savio e da me e da ogn'altro ne sarìa reputato. Né de ciò lui inculpar si deve, procedendo questo per sula operazione de la natura, quale avendote con tante e sì angeliche bellezze produtta, per niun modo potrebbono senza grandissima gelosia esser possedute. La donna, de ciò ridendosi, parendoli omai tempo retornarsi a le compagne che l'attendeano, dopo alcun'altri dulci mutti, pregò il frate che l'assolvesse; quale, gittato un gran suspiro, a lei pietosamente volto, cossì respuose: - Figliola mia, niuna persona ligata può altri assolvere; unde, avendome tu in sì piccolo spacio ligato, né me né te senza il tuo ausilio assolver porrei. La gentil giovane, che siciliana era, la chiara cifra subito intese; e como che per vederlo sì bello, e che de lei fusse priso summamente gli piacesse, pur che i frati attendessero a sì fatte cose non poco maravigliosa ne devenne, como colei che per la sua tenera età e per la solenne guardia del marito non sulamente con veruno religioso avea avuta per alcun tempo prattica, ma per fermo si persuadeva che 'l fare de' frati agli uomini non altramente fusse che a' pulli quando se castrano. Ma cognoscendo chiaramente costui esser gallo e non capone, con disiderio mai simile gostato, diliberandosi del tutto donargli il suo amore cossì gli respuose: Respuose il frate: - Patre mio, lasciate il dolore a me, che venendo qui libera, tornarò serva de vui e d'Amore. - Poi che vui site muglie del nostro procuratore, veniti ultre, ché per suo rispetto volenter intendo da ascoltarvi. Il frate, con la maior gloria che mai sentisse, a la donna respuose: E da parte tiratisi, e postosi il frate al solito luoco ove si confessa, e lei davanti inginocchiatalisi, per ordene a confessare s'incominciò. E avendo narrati parte de' - Dunque, poi che le nostre voglie son sì conforme, non trovarai tu modo che, da questa cruda carcere in un medesmo punto uscendo, parimente la nostra florida gioventù godiamo? 5 Al che respuose che lei volentere il farebbe, se potesse: - Io medesma andarò per esse. - Nondemeno - soggiugnendo - pur adesso un modo nel pensier me occorre, che con tutta la gelosia estrema de mio marito la nostra intenzione esequiremo. Unde essendo io solita aver quasi ogne mese nel core una fiera passione, e tal che d'ogne sentimento quasi me priva, né trovandosi insino a qui per argomento de medico posser a quella in minima parte remediare, ed essendomi dichiarato da donne antique ciò procedere da la matrice, e che com'io giovane sia e atta a produrre figlioli né per la vecchiezza de mio marito ciò far si potrebbe, ho pensato che, un de questi giorni che lui andarà in prattica in contado, me fingerò esser da la solita passione oppressa; e mandando subito per vui che me prestate alcuna reliquia de san Griffone, a conferirvi con esse a me secretamente apparicchiato e con l'opera de una mia fidatissima fante, al nostro bel piacere saremo insiemi. E rattissima de quinci partitasi, trovato il frate e a lui fatta la ordenata commissione, con un suo compagno, secundo avea promisso, giovene multo e al mestiero attissimo, subito se misse in camino. E giunti in camera, accostatosi divotamente fra Nicolò al letto ove la donna sula iacea, e da lei che caramente lo aspettava con umilità grandissima recevuto, disse: Il frate allegro disse: - Figliola mia, beneditta sia da Dio, de quanto bene hai pensato, e parmi che tal ordene esequire si deggia, e io menarò il nostro compagno meco, qual per compassione non farà stare indarno la tua fidata fante. E in tal conclusione remasti, con caldi e amorosi suspiri si diparterno. La donna, tornata in casa, a la sua fante fe' palese l'ordene priso col frate per la comune loro satisfacione e piacere. La fante, che multo lieta fu de tale novella, respuose ad ogne suo commandamento essere de continuo apparicchiata. E como la loro benigna fortuna permise, il maestro Rogero andò in prattica, secundo lo antiveduto pensiero de la muglie, la sequente matina fora de la cità; e per non dare a l'opera alcuno indugio, fingendose subito esser da la solita passione assaglita, cominciò ad invocare san Griffone in suo soccorso. Al che la fante consigliando disse: - Perché non mandate vui per le sue sante reliquie, che da ogne uomo son sì miraculose riputate? La donna, como già tra loro preposto aveano, fando vista con fatica posser parlare, a la fante voltatasi, disse: - Anzi ch'io ten priego vi mandi. A cui, pietosa mostrandosi, disse: - Patre mio, pregate Dio e 'l glorioso san Griffone per me. Al che il frate respuose: - Esso Creatore ce ne faccia digni! Ma a vui bisogna aver buona divozione dal canto vostro; che se la gracia sua volite recevere mediante la vertù de le reliquie ho meco portate, convien che prima contritamente recorramo a la santa confessione, a ciò che, sanata l'anima, facilmente il corpo si possa guarire. La donna, respondendo, disse: - Io non pensava né disiderava altro, e de ciò summamente ve supplico. E ciò ditto, dato onesto conviato a quanti in camera dimoravano, non remanendovi altro che la fante e 'l compagno del frate, serratisi dentro ottimamente, a ciò che da nulla fussero impediti, ciascuno scrapistratamente con la sua se appiccoe. Fra Nicolò sul letto montato, per meglio e senza alcuno impazzo menare le gambe, parendogli fuorsi stare in sul securo, trattese le mutande e al capo del letto bottatele, e con la bella giovene abbracciatose, la dolce e disiata caccia incominciorno; e avendo il suo amaistrato levrere tenuto uno longo spacio a laccio, da una medesma tana cavò arditamente dui lèpori; e raccolto a sé il cane per cercare il terzo, senterno in su l'uschio de la strata maestro Rogero a cavallo, quale era già da prattica tornato. Il frate con la maiore pressa del mundo del letto bottatosi, da pagura e dolore vinto, de pigliar le brache, che avia poste al capo del letto, totalmente si dimenticoe. La fante, anche con poco piacere dal cominciato lavoro remossa, aperta la camera, e chiamate le genti che in sala attendeano, dicendo che la sua madonna era per la Dio gracia quasi del tutto guarita, laudando tutti e rengraziando Idio e san Griffone, gli fece dentro a lor piacere intrare. E arrivando fra questo mezzo il maestro Rogero in camera, trovando queste novità, non meno del vedere esser cominciati a venir frati in sua casa fu dolente 6 che del nuovo accidente de l'amata donna; la quale, a la vista ricognosciutolo ultre modo cambiato, disse: - Oh! Dio volesse - disse il frate - che retornare a la già lassata caccia a me fusse concesso, como tu, quando a grato te sia, potrai fornire tuoi chiodi a centinaia! - Marito mio, veramente io ero morta, se 'l nostro patre predicatore con le reliquie del beatissimo Griffone non mi succorrea; quale avendomele al core approssimate, non altramente da multa acqua è un piccolo fuoco spento, che ogne mio dolore sostenuto mi fu per quelle immediate tolto. Al che respuose il compagno: Il marito credendo, udito che salutifero remedio a sì incurabile infirmità si era già trovato, non poco fu contento, rengraciando Dio e san Griffone; ma al frate a l'ultimo voltatosi, gli rendé infinite mercè, de quanto bene avea adoperato; e cossì dopo alcuni altri divoti e santi ragionamenti priso conviato, il frate e 'l compagno onestamente da là se parterno. E caminando, sentito il suo buon cane or là or qua andar fuora de la scapola, recordandosi aver la catena al capo del letto dimenticata, dolente ultre modo, al compagno revoltatosi, il successo accidente gli racontoe; dal quale essendo al non dubitar confortato con ciò sia cosa che la fante sarìa la prima che le trovarebbe e quelle occoltarìa, quasi ridendo, tale parole suggiunse: Il frate de ciò ridendose, con multi altri faceti mutti de lor fatta baruffa occultamente tra loro si godevano. - Maestro mio, ben demostrate non esser avezzo de star in disagio, volendo, ad ogni luoco ove vi trovate, donare al vostro cane tutta la scapola ad un tratto; ma fuorsi vui esequiti lo esemplo de' frati dominichini, quali de continuo portano i lor cani senza alcuna lassa, e quantunque facciano de gran prede, nondemeno gli cani allacciati sono più fieri e meglio aboccati, quando in la caccia se retrovano. A cui il frate respuose: - Tu di' il vero, e voglia Idio che del mio commisso errore scandolo non ne siegua; ma tu como facisti de la preda che tra le unghie ti lasciai? So ben io che 'l mio sparaveri prise ad un volo due starne, ed avendo per la terza tentato, se venne il maestro; cossì egli se avesse prima fiaccato il collo! Respuose il compagno: - Quantunque io fabro non sia, m'era con tutte mie forze ingegnato fare dui chiodi ad una calda, e già n'avia finito l'uno, e de l'altro tanto composto, che appena vi restava a far si non la testa, quando la fante, l'ora che nacque biastemando, disse: “Ecco il mio messere a l'uschio!”. Per il che da l'imperfetta opera tolto, ove vui eravate me condussi. - Io nol niego, ma più vale la piuma de tue prise starne, che quanti chiodi a Milano si fanno. Maestro Rogero, subito partiti i frati, accostatosi a la muglie e quella accarizzando, toccandogli la gola e 'l petto, se 'l dolore gli avia data multa noia la domandava; e in più diversi ragionamenti intrati, mossa la mano per acconciarli il guanciale sotto 'l capo, gli venne priso un nastaro de le brache ivi dal frate lassate; e fora tiratele, e cognosciuto de continente quelle esser de frati, cambiato tutto nel vulto disse: - Che diavolo vuol dire questo, o Agata? che vogliono queste brache de frati significare? La giovane donna, che prodentissima era, e nuovamente amor gli avia più svegliato l'ingegno, non indugiando punto a la resposta, disse: - E che è quello ch'io te ho ditto, marito mio, si non che queste miraculose mutande essendo state del glorioso messer san Griffone, como una de sue famose reliquie avendole il patre predicatore qui portate, l'onnipotente Dio per vertù de quelle me ha già fatta gracia, e cognoscome esser del tutto liberata? E per maior mia cautela e divozione, volendonele lui portare, de gracia gli chiesi che insino a vespro me le lasciasse, e dopo lui medesmo o altro avesse per quelle mandato. Il marito, udita la subita resposta e sì bene ordenata, o il crese o de creder mostrava; ma essendo natura de gelosi, da dui contrari venti era de tale accidente il suo cervello continuo combattuto, che, senza altramente replicarlo, a la già fatta resposta se quietoe. La donna, che sagacissima era, cognoscendolo alquanto supra de sé stare, con nuova arte pensò toglierli totalmente dal petto ogne prisa suspicione, e, revolta a la fante, gli disse: 7 - Va via in convento, e, trovato il predicatore, gli dirai che mandi per la reliquia me lascioe, che la Dio mercè insino a qui non ne ho più de bisogno. La discreta fante, inteso a pieno quanto la donna in effetto disiderava, ratta al convento conduttasi, fatto subito chiamare il predicatore, qual venuto a l'uschio, credendosi fuorsi gli portasse la recordanza da lui già lasciata, con allegro viso disse: - Che novella? La fante mal contenta respuose: - Non buona, mercè de la vostra trascorragine; e sarìa ben stato peggio, si non per la prodencia de la mia madonna. - Che c'è? - disse il frate. La fante puntualmente il fatto racontandogli, e soggiunto che gli parea, senza più indugiare che con qualche cerimonia a pigliar la ditta reliquia mandar si dovesse; e resposto il frate: “Sia in buon'ora!” e a quella donata licenzia e speranza de ogne cosa mal fatta raconciare, andatosene de botto al guardiano, in tal forma gli disse: - Patre mio, io ho fatto de presente un grandissimo errore, quale possendose col tempo punire, vi supplico non tardate col vostro soccorso, secundo la necessità cerca, a quello in promptu remediare. E per lo più breve modo possette ricontata la istoria, non poco il guardiano de ciò turbandosi, e de la sua improdencia agramente reprendendolo, cossì gli prise a dire: - Or ecco le tue prodezze, valente uomo. Ben te credevi tu stare al sicuro; e se non potivi far senza de cavartele, non avevi tu altro modo de occultarle, o in petto o a la manica, o in qualunque altro luoco che supra de te fusse stato? Ma vui, como avezzi a fare de questi scandalazzi, non pensate con quanto piso de coscienzia e infamia del mundo nui li abbiamo a raconciare. Veramente io non so qual causa me ritiene ch'io non te faccia, como a te si converrebbe, senza misericordia incarcerare; nientedemeno essendo al presente più de bisogno usar remedio che repreensione, correndoce massimamente l'onor de l'ordene, per altra volta il serbaremo. E fatta sonar la campanella a capitulo, congregati insiemi tutti i frati, e narrato loro como in casa de maestro Rogero medico, per la vertù de le mutande che furono del loro san Griffone, un miraculo evidentissimo Idio ce avia in quel giorno mostrato; quale a tutti brevemente recordato, gli persuase che de continente s'andasse in casa de ditto maestro, donde ad onore e gloria de Dio, e augmentazione de' miraculi de lor santo, solennemente e con la processione la ditta reliquia se pigliasse. E cossì ordenato, fattili a coppia dividere, con la croce inanzi verso la signata casa se avviarno. Il guardiano de un ricco piuviale vestito, col tabernaculo de l'altare in braccio, con gran silenzio ordenati, a la ditta casa del maestro arrivarono. Qui da lui sentiti, fattosi incontro al guardiano, e domandatolo de l'accagione de tal novità, con allegro volto cossì, como preposto avea, gli respuose: - Maestro nostro carissimo, le nostre ordinazione vogliono che occultamente debbiamo portare le reliquie de' nostri santi in casa de coloro che le domandano, a tal che se l'infermo per alcun suo mancamento non recevesse la gracia, per non diminuere in parte alcuna la fama de' miraculi, de nascoso ne le possiamo a casa retornare; ma ove Idio mediante ditte reliquie un evidente miraculo mostrar volesse, nui dovemo in tal caso, con ogne cerimonia e solennità che possiamo, condurnele in chiesa, manifestando il ditto miraculo, e quello ascrivere in publica forma. Unde essendo, como già sapete, la donna vostra de la sua periculosa infirmità liberata e per la vertù de le nostre reliquie, semo venuti con questa solennità a retornarnele a casa. Il maestro, che tutto 'l capitulo de' frati con tanta divozione vedea, estimò che a niun mal fare ne sarebbero mai tanti concursi; e donata indubia fede a le simulate ragione del guardiano, avendo ogne suspetto pensiero da sé al tutto remosso, respuose: - Vui siate i benvenuti! - e prisi per mano lui e 'l predicatore, in camera, ove la moglie stava, li menoe. La donna, che in tal punto non dormia, con una tovaglia bianca e odorifera in fra quel mezzo avea le ditte brache fasciate; quale il guardiano scoperte, con grandissima reverenza le bascioe, e fattele dal maestro e da la muglie, e finalmente da quanti in camera dimoravano, divotamente basciare, postele nel tabernaculo che per ciò portato avea, dato il signo a' compagni, tutti 8 accordandosi, “Veni Creator Spiritus” a cantare incominciorno. E in tal forma discorrendo per la cità, da infinita turba accompagnati, a la lor chiesa condutti, postele supra l'altare maiore, paricchi dì, per divozione de tutto il populo, che aveano già il fatto miraculo sentito, star le lasciarono. Maestro Rogero, disideroso de l'augmento de la divozione de le genti verso quell'ordene, andando de continuo in prattica e fuori e dentro la cità, dovunque si trovava, a pieno populo ricontava il solenne miraculo, che per vertù de le brache de san Griffone Idio avea in sua casa demostrato. E fin che lui dimorava a far tale officio, fra Nicolò e 'l compagno de continuare la cominciata e fertile caccia non si scordavano, con piacere grandissimo de la fante e de la madonna. Quale, ultre ogn'altra sensualità, seco medesma iudicava veramente tale operazione esser sulo remedio a la sua acerba passione, sì como quello ch'era più approssimato al luoco, unde tale infirmità si era causata; ed essendo lei muglie de medico, se ricordava avere inteso allegare quel testo de Avicenna, dove dice che li remedii approssimati giovano e li continuati sanano; per questo lei, e l'uno e l'altro con piacere gostando, cognobbe del tutto essere de la non curabile passione de la matre liberata per lo remedio oportuno del santo frate. Ancora che tutte le parte de la narrata novella de gran piacevolezza siano piene, e da spesso releggerle e ascoltare, nondemeno io vorrei che nel cospetto de color se leggessero, che de continuo me stanno adosso con l'arco teso, mordendo e remproverando il mio scrivere contro de questi falsi ingannamundo, a ciò che con loro susurrare, ultre l'inganno e commisso adulterio per lo ribaldo frate, dessero perfetto iudicio, qual publico eretico, qual de la fede de Cristo notorio dispregiatore e de le sue opere e dottrina, avesse, non che fatto, ma pur pensato, ponere un paio de brache fetide, albergo de pidocchi, de mill'altre spurcizie repiene, dentro lo eletto vaso e vero recettaculo del sacratissimo corpo del Figliolo de Dio. Leggasi pur ne la enormissima Passione de Cristo, ché non si trovarà che i perfidi giudei, quantunque con grandissima iniquità e vituperio l'uccidessero, li avesser mai fatto sì gran dispregio che a questo aguagliar si potesse. Aprasi adunque la terra, e, una con li lor fautori, la multitudine de tanti poltroni vivi li trangutisca, non sulo per gastigamento de' presenti, ma per timore ed eterno esemplo di tutt'i futuri scelerati lor pari. Tuttavia, per non sostenir che i mormoriti de ditti mei avversarii abbiano tanta forza, che dal cominciato ordene, de narrare quel che con verità sento de questi tal soldati de Lucifero, possano retrarmi, mostrarò appresso, ancora che non vogliano, un sottilissimo partito da dui altri dannati religiosi pensato, per accumular pecunie e per cupidigia de farsi prelati, secundo intenderite, nel mostrare de' loro ingannevoli miraculi, che senza posserce reparare faciano. *** TRISTANO CARACCIOLO, Vita di Giovanni Pontano (da LILIANA MONTI SABIA, Un profilo moderno e due Vitae antiche di Giovanni Pontano, Napoli 1998, pp. 49-53; trad. Monti Sabia) Tu desideri sapere da me chi era, al suo primo giungere fra noi, Giovanni Pontano (che più tardi poeticamente preferì dirsi Gioviano); il Pontano già affermato e che esercitava alte cariche, grande nella scienza e nel sapere, e dopo la morte addirittura grandissimo, quello lo conosci da te, poiché l’affetto e la premura degli amici nel dare alle stampe le sue opere sono stati tali che, grazie alla loro fatica e alla loro operosità, hanno trovato diffusione, oltre a quelle che lui stesso aveva pubblicate, anche moltissime altre, rimaste finora ignote, che così hanno potuto essere lette e ascritte a gloria del loro autore da tutto il mondo che si diletta della lingua latina. È vero, su questo personaggio così grande io - lo confesso sinceramente - conosco più particolari di te, a causa della mia età, ma tali particolari li hanno resi degni del nostro ricordo la vastità del suo sapere e l’integrità della sua vita successiva. In realtà, esordi ben più illustri di quelli del Pontano li ha coperti di oblio l'inerzia che ad essi poi tenne dietro: e infatti sono gli archi di trionfo e i palazzi di marmo che ci hanno fatto conoscere le casupole della Roma primitiva. Egli arrivò dunque fra noi quasi adolescente ancora, in grandi ristrettezze economiche, da Perugia, dove, stando in esilio, aveva appreso i primi rudimenti delle lettere: infatti dalla nativa Ponto (da cui deriva il nome di Pontano), nella quale suo padre aveva perso la vita a causa delle discordie civili, sottratto dall’accortezza della madre alla ferocia della fazione avversaria, era andato a nascondersi a Perugia. Egli giunse, dunque, tra noi mentre era re Alfonso primo d'Aragona, con la speranza di far fortuna alla corte di un principe tanto grande, speranza che la sua bravura da una parte e l’amicizia degli uomini colti dall'altra non resero vana: infatti dal giorno in cui approdò fra di noi si fece conoscere dagli amanti delle lettere e da quanti potessero appoggiarlo. Fra i personaggi di primo piano c'era allora Antonio Panormita, che illustrava al sovrano la storia e la filosofia morale; egli, oltre ad essere ritenuto coltissimo, si adoperava anche per sostenere e far progredire le persone colte; e siccome gli piacevano il carattere e la condotta del Pontano, e soprattutto quelle poesie di 9 argomento leggero, nelle quali egli veniva mostrando a quale grandezza sarebbe pervenuto, e parlava frequentemente di lui e del suo ingegno con gli amici, accadde che lo accolse presso di sé Giulio Forte, persona ricca e generosa. Era infatti capo della Tesoreria e, poiché era siciliano e conterraneo del medesimo Antonio, gli prestava fede volentieri: indotto da lui, chiamò presso di sé il Pontano e lo trattenne per un certo tempo in casa sua, vestendolo con grande decoro e offrendogli il vitto della propria mensa. Da quel momento il nome del Pontano cominciò ad esser noto come quello di persona di chiaro ingegno, e quando il Panormita dovette recarsi come ambasciatore a Venezia, gli sembrò opportuno condurre con sé il Pontano. Questi durante tutto il viaggio si mostrò tale, quale in seguito noi lo abbiamo conosciuto, ma particolarmente a Firenze, dove Cosimo de' Medici, persona acuta e resa esperta dalla lunga vita e dalla pratica degli uomini, si vuole che abbia espresso su di lui un pronostico: infatti, dopo aver ascoltato per caso alcune poesiole che il Pontano aveva diffuso tra i Veneziani, avrebbe detto che, se la vita glielo avesse permesso, egli sarebbe divenuto illustre per eloquenza e dottrina. Ritornò dunque dalla missione diplomatica insieme con l'ambasciatore, nei riguardi del quale e di tutto il resto del seguito egli si era comportato in modo tale da rendersi caro ed amabile a tutti, e dovunque giungesse non tralasciava di andare a riverire nessuna delle persone colte, ovunque lasciando di sé quella speranza che in seguito realizzò. Poiché dunque tanti meriti lo raccomandavano, agli amici, che si era procurati in gran numero e fra persone di elevata posizione sociale, sembrò opportuno indirizzarlo a compiti più importanti e perciò lo fecero ammettere fra i più ristretti collaboratori del segretario maggiore, che era, in quel tempo, il catalano Antonio [sc. Giovanni] Olzina, per la lunga vita espertissimo del suo mestiere e carissimo al re. Questi scrutato il viso del Pontano e ascoltate le sue parole, lo ammise nella segreteria con molta benevolenza, e in seguito non cessò di affidargli il disbrigo della corrispondenza ed altre mansioni consone a quell'ufficio; ed egli le eseguiva in modo tale che pochissimi colleghi della segreteria riuscivano a superarlo e molti, per giunta, benché più anziani nella stessa carica, venivano da lui scavalcati. Nel frattempo si chiariva la sua vocazione naturale: tutto il tempo in cui gli era concesso di esser libero dalle sue mansioni di segretario, egli lo consumava nello scrivere, componendo in particolare poesie di ogni genere, ed anche prosa, con grandissimo successo. E già cominciava ad essere ascoltato con grandissima ammirazione dal pubblico e a diventare famoso e, quando in qualche casa privata commentava poeti e storici antichi, accorrevano ad ascoltarlo la maggior parte delle autorità politiche ed i personaggi più importanti della nobiltà. E poiché la fama delle sue virtù e del suo sapere era giunta al re Alfonso, a questi sembrò di ben provvedere a don Giovanni di Navarra, suo nipote per parte del fratello, se di un uomo tale, di straordinaria cultura e di specchiati costumi, facesse il suo precettore ed educatore. A corte, anche se in una carica più elevata, egli tenne la stessa condotta che gli era stata solita in precedenza. C'era lì un personaggio che si prendeva cura del giovane e di tutto il suo seguito, Pietro Torella, uomo severo e che faceva, come si suol dire, di testa sua: con lui, e con tutti gli altri familiari del principe, il Pontano instaurò rapporti tali, che non soltanto lo amavano, ma gli portavano anche grandissimo rispetto, finché, morto il re Alfonso, a Giovanni di Navarra convenne tornare da suo padre, che stava in Catalogna. In seguito a ciò, ritornando alla sua carica di segretario, che nel frattempo non aveva abbandonato del tutto, prese a lavorare con tale precisione e zelo, che cominciarono ad essere tenuti in gran conto i privilegi e le lettere concepiti dalla sua mente e vergati dalla sua mano. In questa carica egli perdurò, fra i primi segretari, fino all'arrivo di Ippolita Maria, duchessa di Calabria e qui da parte di Antonello de Petruciis, primo segretario, molte pratiche furono affidate a lui e, quando le circostanze richiedevano senno ed eloquenza, rimesse alla sua discrezione. Tra queste occupazioni si risolse a prender moglie, cosa dalla quale fino allora aveva rifuggito, e agli amici che gli chiedevano perché mai ora, così all’improvviso, si decidesse a fare una cosa che a lungo aveva ostinatamente rifiutato diede questa risposta: «Per non essere di nuovo ammalato sotto il trattamento di Giovanni» (era questo un servo che egli si cresceva); e sposò Ariadna Sassone, che spiccava per bellezza ed onestà. In realtà il re Alfonso aveva apprezzato la moralità e la dottrina, di cui il Pontano aveva dato prova nel vivere, un tempo, insieme con suo nipote, Giovanni di Navarra; e fu in seguito ad un suo suggerimento che il figlio Ferdinando lo fece nominare segretario e accompagnatore di Ippolita Maria, sua nuora, in quanto uomo già sperimentato: in tale ruolo, come era stato promosso di grado, così egli si mostrò più grande del solito. Ecco, ti ho presentato la vita di questo personaggio a partire da quegli avvenimenti che, per la tua età, tu forse ignoravi; per quel che ad essi segue, penso che tu la conosca bene tutta quanta per conto tuo, e non ho alcun dubbio che, dato il suo carattere e la familiarità con cui egli visse con te, ti sia cosa notissima come egli, quale segretario maggiore, quale consigliere negli eventi bellici, quale ambasciatore presso i principi e infine quale padre di famiglia, sia stato veramente grandissimo. 10 BENEDETTO GARETH (IL CARITEO), Le Rime, cur. E. Percopo, Napoli 1892, pp. 118-119 Mostresi chiaro il dì più che non suole, Et d'ogni nebbia scarco il ciel profondo, Ch'oggi natura die' tal luce al mondo, Che splende in terra, qual nel cielo il sole. Dicamo hor caste, pie, sante parole, Ecco 'l dolce natal , fausto et giocondo Del gran Pontano, a null'altro secondo In le virtù, ch'Apollo honore et cole. Maio, salvo sii tu, sereno, adorno Di rose et fior, ch'al lume di Poeti Apresti gli anni al tuo septimo giorno. Volgi et rinova i tuoi tempi quïeti, Et sia sempre meglior il tuo ritorno, Et più felice, et pien d'augurii lieti. 11 J. SANNAZARO, I 9 (Jacobi, sive Actii Synceri Sannazari Poemata, Patavii, Josephus Cominus, 1751) Elegia nona, de studiis suis, et libris Joviani Pontani. Qui primus patrios potuit liquisse penates Et maris, et longae taedia ferre viae; Quem non moesta domus, quem non revocare parentes, Non potuit fusis blanda puella comis: Impius, et scopulis, et duro robore natus Atque inter tygres editus ille fuit. Non mihi circumstat solidum praecordia ferrum; Nec riget in nostro pectore dura silex: Ut possim dulcesque lares, limenque puellae Linquere, et ignoto quaerere in orbe domum, Sed Phoebi sacros cogor lustrare recessus, Vocalemque undam, Thespiadumque choros: Ut fugiam nigras supremo in funere flammas; Et volitem populi docta per ora mei: Meque inter claros attollat fama poëtas; Nec rapiat nomen nigra favilla meum: Et nostro celebrata superbiat Umbra sepulcro Spernat et e Phariis marmora caesa jugis Non tamen ut magni tumulum tentare Maronis Audeat; aut tantum speret habere decus. Sed quis tam niveis vellat mea colla lacertis? Quis vetet optato membra fovere sinu? An tanti fuerit sacro Parnassus hiatu, Perque suas passim templa habitata Deas: Ut tibi sit nitidos lacrimis corrumpere ocellos, Discessumque fleas, cara puella, meum? Ah pereat, quicumque leves sectatur honores; Et sequitur famae nomina vana suae. Tecum ego nocturnis dubitem cessare choreis? Tecum ego conspersa gaudia inire rosa? Deductumque levi crinem perfundere amomo? Et noctem insolitis ducere blanditiis? Trad. C. Corfiati Sulle sue passioni e sulle opere del Pontano 5 10 15 20 Chi ebbe il coraggio di lasciare prima i patrii penati e poi affrontare i fastidi del mare e di un lungo viaggio, e che né la triste casa, né i genitori riuscirono a richiamare indietro, né la dolce fanciulla dai capelli sciolti: quello fu tacciato di essere empio, nato dalle roccie e dalla dura quercia e tra le tigri. Il mio cuore non è corazzato di forte ferro, né nel mio petto c’è un una dura pietra, tale che possa lasciare e i dolci antenati e la casa della mia ragazza e andare a cercare in una terra sconosciuta una casa. Sono invece costretto a percorrere i sacri rifugi di Febo, l’onda sonora e il coro delle Tespiadi, per fuggire le nere fiamme nel momento estremo della morte e svolazzare per le bocche dotte della mia terra. Che la fama mi accolga tra i poeti famosi e non porti via una nera fiamma il mio nome e insuperbisca sul nostro sepolcro lo spirito oramai famoso e disprezzi i marmi tagliati dalle alture di Faro, non tuttavia tanto da osare sfidare la tomba del grande Marone o da sperare di avere tanto onore. Ma chi strapperà il mio collo da tanto bianche braccia? Chi impedirà che il mio corpo si riscaldi nell’amato abbraccio? Forse di tanto potrebbe essere capace il Parnaso con la sacra fonte, e i tempi abitati qua e là dalle sue dee, a far sì che tu guasti con le lacrime i chiari occhietti e pianga, cara ragazza, la mia partenza? Ah vada al diavolo, chiunque insegue i leggeri onori e va dietro ai vani nomi della sua fama. Dovrei forse io esitare ad abbandonarmi alle danze notturne con te? Con te di darmi ai piaceri al profumo di rosa? E di bagnare di leggero amomo i capelli pettinati? E di passare la notte in insolite moine? 25 30 12 Scilicet et Turcas Pontanus in aequora classes, Alfonsi et fortes ducat in arma manus, Qui nunc nascentis canit incunabula mundi, Aureaque aetherea sidera fixa domo: Utque imbres, lapidesque pluant, ut nubibus ignes Exsiliant, salsas ut mare volvant aquas: Hesperidumque hortos, excussaque poma draconi, Rusticaque ad primos munera missa toros: Delicias, Lepidina, tuas, resonansque vicissim Pastorum argutis carmen arundinibus: Qualiter et fulvis radiet Sertorius armis; Et Pompejanus praelia tentet eques: Audeat arguto neu quis contendere versu, Ille vel aeterno digna Marone sonat. Te pater irriguis audit Sebethus in antris, Jurgia ad ingratas dum jacis ipse fores. Inde vocas sacrum festas Hymenaeon ad aras, Optati referens foedera coniugii: Utque tuis primum surgens complexibus uxor, Visa sit erepta virginitate queri. Felix, qui fidos expertus conjugis ignes, Vidisti sobolis pignora certa tuae: Naeniolasque rudes cecinisti, et blanda parentis Oscula, et ad cunas murmura nata suas. Felix, excultum torsit quae Fannia vatem Quaque illic regnum cinnama subripuit. Quamvis dissidii leges patiantur amaras, Spectabunt cineres nomen habere suos. Eridani post haec sed te quis credat ad amnem Populea canas fronde ligasse comas? Et stellam cecinisse, atque impendisse querelas Spectandos quum jam vix daret illa pedes: Bajanosque sinus, myrtetaque cognita Nymphis, Clausaque sulphureis antra recurva jugis: Tum Superûm laudem, mutisque incisa sepulcris Nomina, collapsos et reparare rogos: 35 40 45 50 55 Sì? E allora Pontano condurrà per mare le flotte Turche e farà guerra al forte esercito di Alfonso. E invece lui ora canta le origini del mondo creato e le stelle dorate fisse nella casa del cielo, e come le piogge e i meteoriti cadano dal cielo e come il fuoco si sprigioni dalle nubi e come scorrano nel mare acque salate, i giardini delle Esperidi e i frutti portati via dal drago, e i doni della campagna mandati per le prime nozze, tue delizie, o Lepidina, e il canto dei pastori che risuona d’intorno con le acute canne; e come rifulse Sertorio con le armi splendenti e il cavaliere Pompeiano attaccò battaglia. E nessuno osi gareggiare con lui con versi arguti perché egli scrive cose degne dell’eterno Marone. Il padre Sebeto nelle grotte umide ti ascolta, mentre lanci maledizioni davanti alle porte ingrate; da lì chiami il santo Imeneo agli altari di festa, raccontando i patti del caro matrimonio, e come la moglie alzandosi dai tuoi abbracci sembrò in un primo momento lamentarsi della perduta verginità. Beato te, che conoscendo il fedele sentimento della moglie, hai visto il certo frutto della tua discendenza: hai cantato le rozze ninne nanne, e i dolci baci del genitore e i sussurri nati vicino alla sua culla. Felice fu Fannia che tormentò il poeta venerato, e alla quale il regno strappò Cinnama. Benché soffrono delle amare leggi della separazione, aspetteranno che le loro ceneri acquistino fama. Dopo di ciò chi crederebbe che tu presso al fiume Eridano hai cinto le chiome con una corona di pioppo? E che hai cantato Stella, e hai profuso lamenti quando lei ormai a stento ti concedeva di guardarle i piedi, e le spiagge di Baia e i mirteti conosciuti alle Ninfe e le grotte chiuse e incurvate tra le colline sulfuree; e ancora che ti metti a restaurare le lodi degli dei e i nomi incisi su molti sepolcri, e le tombe andate in rovina. 60 65 13 Denique Pindaricosque modos, resonantia plectra, Et Methymnaeae fila novasse lyrae: Quum tamen interea motus, atque agmina Regum, Bellaque Campanae discutis historiae. Quin et jucundo distringis saecula morsu; dum vafer in Stygio disputat amne Charon. Varronisque tui, Nigidique exempla secutus, Grammaticae haud spretas incipis ire vias. Carminis hinc numeros nostris depromis ab ausis, Dignatus pueri verba referre senex. Quid loquar, ut sacros Mariani exhauriat amnes Aegidius, verum dum canit ore Deum? Aut apta ingratos taxet sub imagine mores Qui super infusas spernit Asellus aquas? Te juvenesque, senesque colunt praecepta ferentem, Parthenope spreto quae Cicerone legit: Ex adytis quidquid Divûm sapientia pandit; Et, Stagera, tui dogmata firma Senis: Quid deceat fortemque virum; quae principis artes; Largificas praestet quae dare dona manus: Parendi leges quae sint, legesque loquendi: Edat ut argutus lingua diserta sales: Quid fortuna homini, quid det prudentia; quantum Immanes animos incitus ardor agat; Magnanimique viri quae sint ad singula partes, Sive colat pacem, seu fera bella gerat Nec fugis astrorum causas aperire latentes, Et Ptolemaeaei fata reposta poli. Salve, sancte Senex, vatum quem rite parentem Praefecit terris Delius Ausoniis. Non te Letheae carpent oblivia ripae; Nec totum in cineres vertet avara dies. Nec tibi plebejo ponetur in aggere bustum Niliacas dabitur vincere Pyramidas. Quid tibi victrices exspectas, Umbria, palmas? Moenibus has patriae rettulit ille meae. Ille suis longum studiis, et laude fruatur: me juvet in dominae consenuisse sinu. 70 75 80 85 90 95 E infine che tu hai rinnovato lo stile di Pindaro e i plettri sonanti e le corde della lira di Metinna: mentre nel frattempo racconti le vicende e le schiere dei Re e le guerre della storia campana. Certamente metti alle strette i moderni con morsi salaci, quando sul fiume Stige fai disputare lo scaltro Caronte. E seguendo gli esempi del tuo Varrone e di Nigidio, inizi ad andare per le strade non disprezzate della grammatica. Per ciò partendo dalle nostre audaci osservazioni parli il ritmo dei versi, degnandoti tu vecchio di riferire le parole di un ragazzo. Che dire del fatto che Egidio si abbevera ai sacri fiumi di Mariano mentre canta con la voce il vero Dio? O del fatto che l’asinello che disprezza l’acqua versatagli sopra, censuri sotto una immagine appropriata i costumi degli ingrati? E i giovani e i vecchi ti venerano come colui che offre insegnamenti, che Partenope, messo da parte Cicerone, raccoglie: dalla tua casa si spande una qualche sapienza divina, e, Stagira, i fermi ammaestramenti del tuo Vecchio: cosa è appropriato per un uomo forte; quali sono le arti del Principe, quali doni può dare una mano liberale, quale siano le leggi dell’obbedienza e le leggi del parlare, come un uomo faceto costruisca i suoi scherzi con linguaggio facondo, cosa dia la fortuna all’uomo e cosa la prudenza; quanto un ardore infiammato guidi gli animi immani; e quali siano le funzioni di un uomo magnanimo ad una ad una, sia che coltivi la pace sia che conduca guerre feroci. Né lasci da parte la trattazione delle cause nascoste degli astri e dei fati nascosti del cielo Tolemaico. Salute, santo Vecchio, che giustamente padre dei poeti Apollo mise a capo delle terre ausonie. Non ti coglierà la dimenticanza della riva del Lete, né l’avido tempo ti ridurrà tutto in cenere, né in un campo pubblico si porrà la tua tomba, che potrà vincere le Piramidi del Nilo. A che aspetti per te, o Umbria, i premi del vincitore? Lui li ha riportati alle mura della mia patria, lui con i suoi studii a lungo godrà della lode, io godrò di starmene nelle braccia della mia donna. 100 105 14 BENEDETTO GARETH (IL CARITEO), Le Rime, cur. E. Percopo, Napoli 1892, pp. 129-134 Canzone X O non volgare honor del secol nostro, Tra noi, come tra stelle un vivo sole, Nato da generoso sangue, antico; Quel che nel volto, in atto et in parole, Et in pensiero al volgo ognihor dimostro, No’ ’l celo a te, perfetto et raro amico. Io piango et canto ardendo; et m’affatico Indarno sempre in exaltar costei, Ch’io adoro; onde, s’io veggio, Intendo et laudo il meglio, et seguo il peggio, Né ’ncolpo i duri fati, iniqui et rei. Ché, ben ch’altra prometta quant’io cheggio, Et d’ella io speri morte per mercede, Sarà pur verso lei L’ultima tal, qual fu la prima fede. Così vivo, seguendo mia ventura Fera et crudele, et quel, che posso, io voglio, Poiché quel, che vorrei, non si può fare. Sì cieco Amor mi tien, che non mi doglio Di vedermi sepolto in fama oscura, Lasciando a voi le palme insigni et chiare. Non cominciai sì follemente amare, Ch’io spere più d’Amor posser fuggire: Ché passa il decimo anno, Ch’io pugno meco per fuggir d’affanno, Et per questo pugnar cresce il martìre; Ché correr con la voglia è minor danno. Poi che non può sospiro, o voce alcuna Da la mia bocca uscire, Che non risone Amore et la mia Luna. Colui, che con soäve ingegno et arte, Infiammar prima fe’ gli ombrosi mirti, D’Ariadna cantando in dolci accenti; Poi con più audaci et animosi spirti, Examinando il ciel di parte in parte, Dinumerò le aurate stelle, ardenti; Scendendo poi, cantò degli elementi Le nature diverse, e i varii mostri Di quella discordante Concordia, giunta in fede sì constante; Lui celebre gli heroi di tempi nostri, Lui de gli Alfonsi et di Ferrandi cante; A me lasciando il chiaro, almo pianeta, Ché co’ i favori vostri Non può mancarmi il nome di Poëta. Come fu vinta la novella Troia Da man de l’Aragonio novo Achille, Che restò vivo et lieto, et pien di honore; Et come, extinte le vive faville De l’ardor Tarentino, in pace et gioia Ricovrò il patrio regno, vincitore, Potrà cantar con voci alte et sonore Pardo, che ’l somno oscuro in Helicona Con chiari versi ha desto. A lui conven, che faccia manifesto Il glorïoso nome d’Aragona A quei che poi verranno; et io con questo Più dolce stil cantando la mia Diva, Di sua bella persona Farrò forse memoria eterna et viva. L’insignie, li trophei, le opime spoglie, Rapte da man di barbari infideli, Di che ’l Rettor del ciel s’allegra et gloria; Il domar di tyranni, impii, crudeli, Il moderar de le sfrenate voglie, Il sapersi goder de la vittoria, Cante con versi d’immortal memoria 15 Altilio, al cui cantar terso et polito Le Nymphe di Sebeto Menavan le lor danze, onde quel lieto Hymeneo, Hymeneo sonava il lito Del bel Tyrrheno mar, tranquillo et cheto. Non vo’ ch’altro, ch’io sol, la lyra tempre, Per far che l’infinito Valor de la mia donna viva sempre. Et tu, di cui l’ingegno ogni altro avanza, Che l’una, et l’altra lingua hai exornata, L’alme Muse evangeliche illustrando, L’alma gentil per te più celebrata, Da l’Aragonio honor l’altra speranza Potrai lodar, sì come hor fai, cantando. Né gir conven per lode incerte errando, Ché da qua l’alpe et oltre, in mare, in terra Son conosciuti et chiari Gli atti di sua vertù, preclari et rari, Giocondi in pace et animosi in guerra. Et io vo’ pur cantar quei dolci et cari Occhi celesti et quelle gote intatte, Ché (se ’l veder non erra) Son fresche rose, asperse in puro latte. Ché, s’io contemplo o miro il chiaro aspetto, Il riposato et non mortale incesso, Da la mia bocca nasce un suon più vivo. Ma se pur gli occhi miei guardar da presso Ponno il soave, casto et latteo petto, Mille Eneïde allhor, mille opre scrivo. Se ’l fato non m’havesse in tutto privo. Del grandiloquo stilo, in quel più bello, Antiquo, alto idïoma Non cantarei de la possente Roma, Di Cesare, di Paulo o di Marcello; Il mio signor, con l’honorata soma Di trophei, mi darebbe nome altero, Et non minor di quello Forse, che diede Achille al grande Homero. Canzon, nel sacro fonte d’Aganippe Un poeta vedrai, sublime et raro, Di lauro ornar la chiome, Da le Muse chiamato in vario nome, Hor Actio et hor Syncero, hor Sannazaro, A lui la fronte inclina, et digli come, Vivend’io ascoso in questa sorte humìle, Di contentarmi imparo, Ché non ogniuno arriva a l’alto stile. *** JACOPO SANNAZARO, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Milano 1990, pp. 220-237 XII […] Miserando spettacolo, vedendo io questo, si offerse agli occhi miei. E già fra me cominciai a conoscere per qual cagione inanzi tempo la mia guida abandonato mi avea; ma trovandomi ivi condotto, né confidandomi di tornare più indietro, senza altro consiglio prendere, tutto doloroso e pien di sospetto mi inclinai a basciar prima la terra, e poi cominciai queste parole: — O liquidissimo fiume, o Re del mio paese, o piacevole e grazioso Sebeto, che con le tue chiare e freddissime acque irrighi la mia bella patria, Dio ti esalte! Dio vi esalte, o Ninfe, generosa progenie del vostro padre! Siate, prego, propizie al mio venire, e benigne et umane tra le vostre selve mi ricevete. Baste fin qui a la mia dura Fortuna avermi per diversi casi menato; ormai, o reconciliata o sazia de le mie fatiche, deponga le arme. — Non avea ancora io fornito il mio dire, quando da quella mesta schiera due Ninfe si mossono, e con lacrimosi volti vèr me venendo, mi pusero mezzo tra loro. De le quali una alquanto più che l'altra col viso levato, prendendomi per mano, mi menò verso la uscita, ove quella picciola acqua in due parti si divide, l'una effundendosi per le campagne, l'altra per occolta via andandone a' commodi et ornamenti de la città. E quivi fermatasi, mi mostrò il camino, significandomi in mio arbitrio essere omai lo uscire. Poi per manifestarmi chi esse fusseno, mi disse: 16 — Questa, la qual tu ora da nubilosa caligine oppresso pare che non riconoschi, è la bella Ninfa che bagna lo amato nido de la tua singulare Fenice; il cui liquore tante volte insino al colmo da le tue lacrime fu aumentato. Me, che ora ti parlo, troverai ben tosto sotto le pendici del monte ove ella si posa. — E 'l dire di queste parole, e 'l convertirsi in acqua, e l'aviarsi per la coverta via, fu una medesma cosa. Lettore, io ti giuro, se quella deità che in fin qui di scriver questo mi ha prestato grazia, conceda, qualunque elli si siano, immortalità agli scritti miei, che io mi trovai in tal punto sì desideroso di morire, che di qualsivoglia maniera di morte mi sarei contentato. Et essendo a me medesmo venuto in odio, maladissi l'ora che da Arcadia partito mi era, e qualche volta intrai in speranza che quello che io vedeva et udiva fusse pur sogno; massimamente non sapendo fra me stesso stimare, quanto stato fusse lo spazio ch'io sotterra dimorato era. Così tra pensieri, dolore e confusione, tutto lasso e rotto, e già fuora me, mi condussi a la designata fontana. La quale sì tosto come mi sentì venire, cominciò forte a bollire et a gorgogliare più che il solito, quasi dir mi volesse: — Io son colei cui tu poco inanzi vedesti. — Per la qual cosa girandomi io da la destra mano, vidi e riconobbi il già detto colle, famoso molto per la bellezza de l'alto tugurio che in esso si vede, denominato da quel gran bifolco Africano, rettore di tanti armenti, il quale a' suoi tempi, quasi un altro Anfione, col suono de la soave cornamusa edificò le eterne mura de la divina cittade. E volendo io più oltre andare, trovai per sòrte appiè de la non alta salita Barcinio e Summonzio, pastori fra le nostre selve notissimi, i quali con le loro gregge al tepido sole, però che vento facea, si erano retirati, e, per quanto dai gesti comprender si potea, mostravano di voler cantare. Onde io, benché con orecchie piene venisse de' canti di Arcadia, pur per udire quelli del mio paese e vedere in quanto gli si avvicinasseno, non mi parve disdicevole il fermarmi; et a tanto altro tempo per me sì malamente dispeso, questo breve spazio, questa picciola dimoranza ancora aggiungere. Così non molto discosto da loro, sovra la verde erba mi pusi a giacere. A la qual cosa mi porse ancor animo il vedere che da essi conosciuto non era; tanto il cangiato abito e 'l soverchio dolore mi aveano in non molto lungo tempo transfigurato. Ma rivolgendomi ora per la memoria il lor cantare, e con quali accenti i casi del misero Meliseo deplorasseno, mi piace sommamente con attenzione avergli uditi; non già per conferirli con quegli che di là ascoltai, né per porre queste canzoni con quelle, ma per allegrarmi del mio cielo, che non del tutto vacue abbia voluto lasciare le sue selve; le quali in ogni tempo nobilissimi pastori han da sé produtti, e dagli altri paesi con amorevoli accoglienze e materno amore a sé tirati. Onde mi si fa leggiero il credere, che da vero in alcun tempo le Sirene vi abitasseno, e con la dolcezza del cantare detinesseno quegli che per la lor via si andavano. Ma tornando omai ai nostri pastori, poi che Barcinio per buono spazio assai dolcemente sonata ebbe la sua sampogna, cominciò così a dire, col viso rivolto verso il compagno; il quale similmente assiso in una pietra, stava per rispondergli attentissimo: Barcinio, Summonzio, Meliseo Barc. Qui cantò Meliseo, qui proprio assisimi, quand'ei scrisse in quel faggio: — Vidi, io misero, vidi Filli morire, e non uccisimi. — Summ. Oh pietà grande! E quali Dii permisero a Meliseo venir fato tant'aspero? perché di vita pria non lo divisero? Barc. Quest'è sol la cagione ond'io mi esaspero incontra 'l cielo, anzi mi indrago e invipero, e via più dentro al cor mi induro e inaspero, pensando a quel che scrisse in un giunipero: — Filli, nel tuo morir morendo lassimi. — Oh dolor sommo, a cui null'altro equipero! Summ. Questa pianta vorrei che tu mostrassimi, per poter a mia posta in quella piangere; forse a dir le mie pene oggi incitassimi! Barc. Mille ne son, che qui vedere e tangere a tua posta potrai; cerca in quel nespilo; ma destro nel toccar, guarda nol frangere. Summ. — Quel biondo crine, o Filli, or non increspilo con le tue man, né di ghirlande infiorilo, ma del mio lacrimar lo inerbi e incespilo. — Barc. Volgi in qua gli occhi e mira in su quel corilo: 17 — Filli, deh non fuggir, ch'io seguo; aspettami, portane il cor, che qui lasciando accorilo. — Summ. Dir non potrei quanto lo udir dilettami; ma cerca ben se v'è pur altro arbuscolo, quantunque il mio bisogno altrove affrettami. Barc. Una tabella puse per munuscolo in su quel pin. Se vuoi vederla, or àlzati, ch'io ti terrò su l'uno e l'altro muscolo. Ma per miglior salirvi, prima scàlzati, e depon qui la pera, il manto e 'l bacolo, e con un salto poi ti apprendi e sbàlzati. Summ. Quinci si vede ben, senz'altro ostacolo — Filli, quest'alto pino io ti sacrifico; qui Dïana ti lascia l'arco e 'l iacolo, Questo è l'altar che in tua memoria edifico; quest'è 'l tempio onorato, e questo è il tumulo in ch'io piangendo il tuo bel nome amplifico. Qui sempre ti farò di fiori un cumulo: ma tu, se 'l più bel luogo il ciel destìnati, non disprezzar ciò che in tua gloria accumulo. Vèr noi più spesso omai lieta avicìnati; e vedrai scritto un verso in su lo stipite: «Arbor di Filli io son; pastore, inclìnati». — Barc. Or che dirai, quand'ei gittò precipite quella sampogna sua dolce et amabile, e per ferirsi prese il ferro ancipite? Non gian con un suon tristo e miserabile, «Filli, Filli» gridando tutti i calami? che pur parve ad udir cosa mirabile. Summ. Or non si mosse da' superni talami Filli a tal suon? ch'io già tutto commovomi; tanta pietà il tuo dir nel petto esalami. Barc. Taci, mentre fra me ripenso, e provomi se quell'altre sue rime or mi ricordano, de le quali il principio sol ritrovomi. Summ. Tanto i miei sensi al tuo parlar si ingordano, che temprar non gli so. Comincia, agiùtati; ché ai primi versi poi gli altri s'accordano. Barc. — Che farai, Meliseo? Morte refùtati, poi che Filli t'ha posto in doglia e lacrime, né più, come solea, lieta salùtati. Dunque, amici pastor, ciascun consacrime versi sol di dolor, lamenti e ritimi; e chi altro non può, meco collacrime. A pianger col suo pianto ognuno incitimi ognun la pena sua meco communiche, benché 'l mio duol da sé dì e notte invitimi. Scrissi i miei versi in su le poma puniche, e ratto diventàr sorba e corbezzoli; sì son le sòrti mie mostrose et uniche. E se per inestar li incido o spezzoli, mandan sugo di fuor sì tinto e livido, che mostran ben che nel mio amaro avezzoli. Le rose non han più quel color vivido, poi che 'l mio sol nascose i raggi lucidi, dai quai per tanto spazio oggi mi dìvido. Mostransi l'erbe e i fior languidi e mucidi, i pesci per li fiumi infermi e sontici, e gli animai nei boschi incolti e sucidi. Vegna Vesevo, e i suoi dolor racontici. Vedrem se le sue viti si lambruscano e se son li suoi frutti amari e pontici. Vedrem poi che di nubi ognor si offuscano le spalle sue, con l'uno e l'altro vertice; forse pur novi incendii in lui coruscano. Ma chi verrà che de' tuoi danni accertice Mergilina gentil, che sì ti inceneri, e i lauri tuoi son secche e nude pertice? 18 Antinïana, e tu perché degeneri? Perché ruschi pungenti in te diventano quei mirti che fur già sì molli e teneri? Dimmi, Nisida mia (così non sentano le rive tue giamai crucciata Dorida, né Pausilipo in te venir consentano!), non ti vid'io poc'anzi erbosa e florida, abitata da lepri e da cuniculi? Non ti veggi'or più c'altra incolta et orida? Non veggio i tuoi recessi e i diverticuli tutti cangiati, e freddi quelli scopuli dove temprava Amor suo' ardenti spiculi? Quanti pastor, Sebeto, e quanti populi morir vedrai di quei che in te s'annidano, pria che la riva tua si inolmi o impopuli! Lasso, già ti onorava il grande Eridano, e 'l Tebro al nome tuo lieto inchinavasi; or le tue Ninfe appena in te si fidano. Morta è colei che al tuo bel fonte ornavasi e preponea il tuo fondo a tutt'i specoli: onde tua fama al ciel volando alzavasi. Or vedrai ben passar stagioni e secoli, e cangiar rastri, stive, aratri e capoli, pria che mai sì bel volto in te si specoli. Dunque, miser, perché non rompi e scapoli tutte l'onde in un punto et inabissiti, poi che Napoli tua non è più Napoli? Questo dolore, oimè, pur non predissiti quel giorno, o patria mia, c'allegro et ilare tante lode, cantando, in carta scrissiti. Or vo' che 'l senta pur Vulturno e Silare c'oggi sarà fornita la mia fabula, né cosa verrà mai che 'l cor mi esilare. Né vedrò mai per boschi sasso o tabula ch'io non vi scriva «Filli», acciò che piangane qualunque altro pastor vi pasce o stabula. E se avverrà che alcun che zappe o mangane, da qualche fratta, ov'io languisca, ascoltemi, dolente e stupefatto al fin rimangane. Ma pur convien che a voi spesso rivoltemi, luoghi, un tempo al mio cor soavi e lepidi, poi che non trovo ove piangendo occoltemi. O Cuma, o Baia, o fonti ameni e tepidi, or non fia mai che alcun vi lodi o nomini, che 'l mio cor di dolor non sude e trepidi. E poi che morte vuol che vita abomini, quasi vacca che piange la sua vitula andrò noiando il ciel, la terra e gli uomini. Non vedrò mai Lucrino, Averno o Tritula, che con sospir non corra a quella ascondita valle, che dal mio sogno ancor si intitula. Forse qualche bella orma ivi recondita lasciàr quei santi piè, quando fermarosi al suon de la mia voce aspra et incondita; e forse i fior che lieti allor mostrarosi faran gir li miei sensi infiati e tumidi de l'alta visïon ch'ivi sognarosi. Ma come vedrò voi, ardenti e fumidi monti, dove Vulcan bollendo insolfasi, che gli occhi miei non sian bagnati et umidi? Però che ove quell'acqua irata ingolfasi, ove più rutta al ciel la gran voragine e più grave lo odor redunda et olfasi, veder mi par la mia celeste imagine sedersi, e con diletto in quel gran fremito tener le orecchie intente a le mie pagine. Oh lasso, oh dì miei vòlti in pianto e gemito! Dove viva la amai, morta sospirola, e per quell'orme ancor m'indrizzo e insemito. Il giorno sol fra me contemplo e mirola, e la notte la chiamo a gridi altissimi; tal che sovente in fin qua giù ritirola. Sovente il dardo, ond'io stesso trafissimi, mi mostra in sogno entro i begli occhi, e dicemi: «ECco il rimedio di tuoi pianti asprissimi». E mentre star con lei piangendo licemi, 19 avrei poter di far pietoso un aspide; sì cocenti sospir dal petto elicemi. Né grifo ebbe giamai terra arimaspide sì crudo, oimè, c'al dipartir sì sùbito non desïasse un cor di dura iaspide. Ond'io rimango in sul sinestro cubito mirando, e parmi un sol che splenda e rutile; e così verso lei gridar non dubito: «Qual tauro in selva con le corna mutile, e quale arbusto senza vite o pampino, tal sono io senza te, manco e disutile». — Summ. Dunque esser può che dentro un cor si stampino sì fisse passïon di cosa mobile, e del foco già spento i sensi avampino? Qual fiera sì crudel, qual sasso immobile tremar non si sentisse entro le viscere al miserabil suon del canto nobile? Barc. E' ti parrà che 'l ciel voglia deiscere, se sentrai lamentar quella sua citera, e che pietà ti roda, amor ti sviscere. La qual, mentre pur «Filli» alterna et itera, e «Filli» i sassi, i pin «Filli» rispondono, ogni altra melodia dal cor mi oblitera. Summ. Or dimmi, a tanto umor che gli occhi fondono, non vide mover mai lo avaro carcere di quelle inique Dee che la nascondono? Barc. — O Atropo crudel, potesti parcere a Filli mia — gridava —; o Cloto, o Lachesi, deh consentite omai ch'io mi discarcere!— Summ. Moran gli armenti, e per le selve vachesi in arbor fronda, in terra erba non pulule, poi che è pur ver che 'l fiero ciel non plachesi. Barc. Vedresti intorno a lui star cigni et ulule, quando avvien che talor con la sua lodola si lagne, e quella a lui risponda et ulule. O ver quando in su l'alba esclama e modola: — Ingrato sol, per cui ti affretti a nascere? Tua luce a me che val, s'io più non godola? Ritorni tu, perch'io ritorne a pascere gli armenti in queste selve? o perché struggami? o perché più vèr te mi possa irascere? Se 'l fai che al tuo venir la notte fuggami, sappi che gli occhi usati in pianto e tenebre non vo' che 'l raggio tuo rischiare o suggami. Ovunque miro, par che 'l ciel si ottenebre, ché quel mio sol che l'altro mondo allumina, è or cagion ch'io mai non mi distenebre. Qual bove all'ombra che si posa e rumina, mi stava un tempo; et or, lasso, abandonomi, qual vite che per pal non si statumina. Talor mentre fra me piango e ragionomi, sento la lira dir con voci querule: «Di lauro, o Meliseo, più non coronomi». Talor veggio venir frisoni e merule ad un mio roscignuol che stride e vocita: «Voi meco, o mirti, e voi piangete, o ferule». Talor d'un'alta rupe il corbo crocita: «Assorbere a tal duolo il mar devrebbesi, Ischia, Capre, Ateneo, Miseno e Procita». La tortorella, che al tuo grembo crebbesi, poi mi si mostra, o Filli, sopra un alvano secco, ché in verde già non poserebbesi; e dice: «ECco che i monti già si incalvano; o vacche, ecco le nevi e i tempi nubili; qual'ombre o qua' difese omai vi salvano?». Chi fia che, udendo ciò, mai rida o giubili? E' par che i tori a me, muggendo, dicano: «Tu sei, che con sospir quest'aria annubili». — Summ. Con gran ragion le genti s'affaticano 20 per veder Meliseo, poi che i suoi cantici son tai che ancor nei sassi amor nutricano. Barc. Ben sai tu, faggio, che coi rami ammantici, quante fïate a' suoi sospir movendoti ti parve di sentir suffioni o mantici. O Meliseo, la notte e 'l giorno intendoti, e sì fissi mi stan gli accenti e i sibili nel petto, che, tacendo ancor, comprendoti. Summ. Deh, se ti cal di me, Barcinio, scribili, a tal che poi, mirando in questi cortici, l'un arbor per pietà con l'altro assibili. Fa che del vento il mormorar confortici, fa che si spandan le parole e i numeri, tal che ne sone ancor Resina e Portici. Barc. Un lauro gli vid'io portar su gli umeri, e dir: — Col bel sepolcro, o lauro, abbràcciati, mentre io semino qui menta e cucumeri. Il cielo, o diva mia, non vuol ch'io tàcciati, anzi, perché ognor più ti onori e celebre, dal fondo del mio cor mai non discàcciati. Onde con questo mio dir non incelebre, s'io vivo, ancor farò tra questi rustici la sepoltura tua famosa e celebre. E da' monti toscani e da' ligustici verran pastori a venerar quest'angulo, sol per cagion che alcuna volta fustici. E leggeran nel bel sasso quadrangulo il titol che a tutt'ore il cor m'infrigida, per cui tanto dolor nel petto strangulo: «Quella che a Meliseo sì altera e rigida si mostrò sempre, or mansueta et umile si sta sepolta in questa pietra frigida». — Summ. Se queste rime troppo dir presumile, Barcinio mio, tra queste basse pergole, ben veggio che col fiato un giorno allumile. Barc. Summonzio, io per li tronchi scrivo e vergole, e perché la lor fama più dilatesi, per longinqui paesi ancor dispergole; tal che farò che 'l gran Tesino et Atesi, udendo Meliseo, per modo il cantino, che Filli il senta et a se stessa aggratesi; e che i pastor di Mincio poi gli piantino un bel lauro in memoria del suo scrivere, ancor che del gran Titiro si vantino. Summ. Degno fu Meliseo di sempre vivere con la sua Filli, e starsi in pace amandola; ma chi può le sue leggi al ciel prescrivere? Barc. Solea spesso per qui venir chiamandola; or davanti un altare, in su quel culmine, con incensi si sta sempre adorandola. Summ. Deh, socio mio, se 'l ciel giamai non fulmine ove tu pasca, e mai per vento o grandine la capannuola tua non si disculmine; qui sovra l'erba fresca il manto spandine, e poi corri a chiamarlo in su quel limite; forse impetri che 'l ciel la grazia mandine. Barc. Più tosto, se vorrai che 'l finga et imite, potrò cantar; ché farlo qui discendere leggier non è, come tu forse estimite. Summ. Io vorrei pur la viva voce intendere, per notar de' suoi gesti ogni particola; onde, s'io pecco in ciò, non mi riprendere. Barc. Poggiamo, orsù, vèr quella sacra edicola; ché del bel colle e del sorgente pastino lui solo è il sacerdote e lui lo agricola. 21 Ma prega tu che i vènti non tel guastino, ch'io ti farò fermar dietro a quei frutici, pur che a salir fin su l'ore ne bastino. Summ. Voto fo io, se tu, Fortuna, agiutici, una agna dare a te de le mie pecore, una a la Tempestà, che 'l ciel non mutici. Non consentire, o ciel, ch'io mora indecore; ché sol pensando udir quel suo dolce organo, par che mi spolpe, snerve e mi disiecore. Barc. Or via, che i fati a bon camin ne scorgano! Non senti or tu sonar la dolce fistula? Férmati omai, che i can non se ne accorgano. Melis. I tuoi capelli, o Filli, in una cistula serbati tegno, e spesso, quand'io volgoli, il cor mi passa una pungente aristula. Spesso gli lego e spesso, oimè, disciolgoli, e lascio sopra lor quest'occhi piovere; poi con sospir gli asciugo, e inseme accolgoli. Basse son queste rime, esili e povere; ma se 'l pianger in cielo ha qualche merito, dovrebbe tanta fé Morte commovere. Io piango, o Filli, il tuo spietato interito, e 'l mondo del mio mal tutto rinverdesi. Deh pensa, prego, al bel viver preterito, se nel passar di Lete amor non perdesi. BISTICCI, Vita di Alfonso, in Vite di uomini illustri, a cura di A. Greco, Firenze 1970, pp. 94-97 VESPASIANO DA Amava assai i litterati, come è detto, et sempre, mentre che istava a Napoli, ogni dì si faceva legere a meser Antonio Panormita le Deche di Livio, alle quali letioni andavano molti signori, legevale il Panormita. Facevasi legere altre letioni della Sancta Scrittura, et d'opere di Seneca, et di filosofia. Poco tempo gli restava, ch'egli nollo consumassi degnamente. Sendo nella Marca con gli exerciti, per ricuperalla alla Chiesa, che la teneva il duca Francesco ne' tempi di papa Eugenio, fece in modo tra la gente di sua Maestà, e l'autorità sua d'eservi in persona, et Nicolò Picinino che v'era mandato dal Duca Filippo, feceno in modo, che in brieve tempo riebe alla Chiesa ogni cosa, che fu tenuta cosa maravigliosa. In questo tempo, sendo di state, ogni dì si legeva una lettione di Livio per lo Panormita, et andavanvi tutti quegli signori aveva seco, ch'era cosa degna a vedere, che in luogo dove molti perderebono tempo a giucare sua Maestà lo spendeva in queste letioni. Aveva seco maestri in teologia et filosofi singularissimi. Eranvi, in fra gli altri, dua excellentissimi uomini, uno si chiamava maestro Sogliere, che gli dette il vescovado di Barzalona, eravene uno altro, si chiamava meser Ferando, uomo maraviglioso, et di sanctità di vita et grandissimo teologo et filosofo. Questo fu di tanta sanctità di vita, che il re, per la riverentia aveva in lui, non solo aveva in grandissima riputatione, ma egli lo teneva assai, perchè quand'egli udiva cosa alcuna che sua Maestà avessi fatto, che non fussi giusta et onesta, egli lo riprendeva; et era di tanta autorità, et di tanta sanctità di vita, che avendogli voluto il re dare più benefici et vescovadi et altri benefici, mai ne volle ignuno, per non volere quello peso alla sua conscientia. Era confessoro di sua Maestà et fu cagione per la sua <Maestà> di grandissimo bene, come nel fine si dirà. Era ispesso con questi maestri in teologia, o a domandare di dubi, o fagli disputare di varie cose. Era in modo afetionato agli uomini dotti, che quanti ne potè avere a provisione, gli toglieva. ADAM DE MONTALDO GENUENSIS AD CALISTUM TERTIUM SUMMUM ROMANORUM PONTIFICEM De clara vita divi Regis Alfonsi oratio (da T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, I, pp. 225-227: 226) Diem ueneris custodit in qua pro solio sedens omnium se exhibet auditorem. Deinde adit prandium in quo magis quam esse disserere quidem solicitus est. Sumpto autem prandio se retrahit in eminentiori castelli loco unde paululum moratus bibliothecam librorum omnium uoluminibus singularem redit more praehabito audiundi legi a doctissimo uiro quodam, imperat quicquam lectionis dari. Illic enim auscultandi omnium maxima fit delectatio, cum multifaria humanae monumenta vitae atque historiarum elegantiae ad exempla uirtutum et uitiorum audiuntium militum cuiusque generis ac caeterorum tradantur. Ibique concursus uehementissimus est dominorum auctoritatis quorum propter maiestatis clementiam custodes introeundi nemini libertatem denegauere. Postea uero quam perfecta lectionis congratulatio est, consuetudine principis communi refectionem multi generis pomorum regi et reliquorum praesentiae gratia communicandi ferunt. Subsequenter cratheras magnos statuunt et uina 22 coronant. Inter quae autem histrio quandoquidem burlazotus facetus caeterorum omnium fabulator miranda interponit cuiusmodi regiae eo tempore maiestati solent plurimum delectationi esse. Trad. Corfiati Si riserva [da altri impegni] il venerdì, nel quale sedendo davanti al trono dà udienza a tutti. Poi va a pranzare, anche se più che a mangiare è dedito a conversare. Quindi finito il pranzo si ritira nella parte più alta del castello, da dove dopo essersi trattenuto alquanto si reca nella sua biblioteca speciale per le copie presenti di tutte le opere e secondo un costume consueto di ascoltare qualcosa letto da un uomo di cultura, ordina che sia data lettura di qualcosa. E lì infatti vi è grandissimo diletto ad ascoltare di tutto, perché vengono esposti svariate testimonianze della vita umana e della eleganza delle storie perché siano esempio di virtù e di vizi per chi ascolta che siano soldati o di tal genere o di altro. E lì vi è un’enorme affluenza di signori di un certo rango a cui per la clemenza di sua maestà i custodi non negarono mai a nessuno la libertà di entrare. Poi però che vi è stata perfetta soddisfazione della lettura, per abitudine da principe cortese portano alla presenza del re e degli altri un rinfresco di frutta di molti tipi da condividere. In seguito sistemano grandi coppe e coronano i vini. E tra queste cose poi talvolta un attore, un buffone, un narratore faceto tra tutti gli altri si esibisce in spettacoli di tal fatta che sogliono in quei momenti procurare grandissimo divertimento alla regia Maestà. 23 GIOVANNI BRANCATI, Raccomandazione per la biblioteca (da T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, I, pp. ) Franciscum Petrucianum Antonelli Petruciani secretarii tui filium, virum sane omnium iudicio et moribus et doctrina praestantissimum, cum de te mecum aliquando incidisset in collocutionem dicere memini, ad ceteras tuas virtutes accedere extemporaneam miram quandam ac prope divinam eloquentiam, nec se putare quenquam aut fuisse aut fore unquam, qui inter loquendum sententiis uteretur aut frequentioribus aut gravioribus; retulitque ex iis mihi plurimas quibus equidem sic sum oblectatus ut eas velut oracula quaedam Apollinis Delphici memoriae mandarim. Sed illa me omnium maxime oblectavit qua idem ipse Franciscus se dixit fuisse aliquando abs te admonitum, illud esse optimi viri fidissimique ministri officium ut Principis cui ministrat, si possit quam maxime commodum procuret; si id non possit, quam minime incommodum. Hanc enim ipsam sententiam usque adeo iudicavi omnium dignissimam ut eandem non modo memoriae, verum etiam litteris mandaverim, quibus in omne aevum cum ceteris a te praeclarissime et factis et dictis elucere possit; quae sit eiusmodi, ut eam equidem possim facile contendere superare singulas quae fuerint ex ingenio Socratis profectae, illius qui oraculo Apollinis eiusdem quem modo nominavi sapientissimus iudicatus est. Nam qui alteri non principi modo, sed cuivis ministrat, nisi eius aut commodum procuret aut minus incommodum, hic iniquissimus planeque infidissimus sit, nihil quidem minus quam si eius sit proditor a quo beneficii plurimum acceperit; recteque illud praecipitur ministrum aeque domini rem debere procurare ac uxorem mariti rem procurare certum est, quam hoc ipso naturam parentem parciorem avarioremque genuisse omnes suspicantur. Neque eandem ipsam sententiam memoriae litterisque mandare mihi satis visum est, sed ei me etiam egregie parere, sicque debere, ut quoad vires meae patientur, semper sim aut tuum commodum procuraturus aut minus incommodum: qui summa tua erga me beneficentia munere fungens tui Bibliothecarii, iure optimo in numero ministrorum tuorum et esse et videri debeo. Trad. Corfiati Ricordo che Francesco Petrucci, figlio del tuo segretario Antonello Petrucci, uomo sicuramente tra tutti molto eminente per giudizio costumi e dottrina, una volta che con me si era trovatao a parlare di te, diceva che alle altre tue virtù si aggiungeva una certa ammirabile e quesi divina estemporanea eloquenza, e che lui non credeva che nessuno sia esistito o mai esisterà, tale che sappia utilizzare massime all’interno di un discorso o con maggiore frequenza o più importanti; e me ne riferì molte di queste, delle quali veramente mi sono così compiaciuto che le ho mandate a memoria quasi fossero oracoli di Apollo delfico. Ma una in particolare tra tutte mi piacque soprattutto, con la quale lo stesso Francesco disse di essere stato una volta da te ripreso, ovvero che è compito proprio di un uomo ottimo e fedelissimo ministro che quando può persegua il più gran vantaggio per il principe che serve; quando non è possibile, ciò che è il più piccolo svantaggio. Questa massima infatti fino a tal punto ho stimato la più giusta che non solo l’ho imparata a memoria, ma l’ho anche trascritta, in modo che in ogni tempo possa risplendere insieme agli altri famosissimi tuoi e fatti e detti; e che è di tal fatta, che potrei facilmente affermare che questa supera ogni singola sentenza che fu prodotta dall’ingegno di Socrate, di colui che per oracolo di quel medesimo Apollo che ho nominato poco fa fu giudicato il più sapiente. Infatti chi serve non solo il principe ma un’altra qualsiasi persona, se non ottiene o il suo vantaggio o il minimo svantaggio, è ingiustissimo e chiaramente infedelissimo, niente meno che se fosse traditore di colui dal quale ha ricevuto grandissimi benefici; e giustamente si consiglia che il ministro con equità debba occuparsi delle cose del signore ed è certo che la moglie si occupa delle cose del marito, che madre natura ha generato più avara e più avida di lui, come tutti immaginano. Né questa medesima massima mi è sembrato sufficiente affidare alla memoria e alla scrittura, ma credo che io debba anche nel miglior modo obbedirvi, sicché per quanto lo permettano le mie forze, sempre mi occuperò del tuo vantaggio o del minor tuo svantaggio: io che per grandissima tua benevolenza nei miei confronti ho la funzione di Bibliotecario, devo essere e essere considerato nel numero dei tuoi servi più che giustamente. 24 Quamobrem semper ex illo, ex quo idem ipse Franciscus eiusmodi me tuam docuit sententiam, altius cogitavi diligentiusque inspexi quid tibi mea haec ministratio commodi praestare possit, quo uti in te officio videar quod ipse optimi fidissimique ministri esse sapientissime rectissimeque censuisti. Sed quum omnia mihi ante oculos velut quodam in speculo se obiiciunt, quae mei ipsius sunt muneris, deprehendo equidem quattuor esse dumtaxat a me curanda, in quibus ut accepisti antehac non nihil incommodi, ita posthac si meo curentur arbitrio multum es accepturus commodi. Praeter enim chartas quibus constant volumina Bibliothecae unica supellex, praeterque librarios ea exscribentes, miniatores exornantes, compaginatores compaginantes, nihil equidem video eiusdem mei esse muneris, siquidem non de custodiendis in Bibliotheca ipsa libris, non de iisdem excolendis, non de emendandis nunc loquor, quae sunt quidem mei ipsius muneris velut minora quaedam membra, sed de maioribus illis loquor, quae neglecta multum videntur relatura incommodi: eaque illa ipsa sunt quattuor quae modo recensui. De chartis. Chartae hactenus in Etruria ab iis ipsis emptae sunt qui harum aeque ac ceterarum rerum negotiatores sunt; deprehendoque emptas cum lucro negotiatorum ipsorum non parvo, siquidem duobus verbi causa emptae sunt nummis quae vendi illic singulis consueverunt. Itaque primum tuum commodum fore intelligo, si Florentiae minimo a nobis ante intellecto pretio negotium detur aut amico aut ministro alicui tuo, qui sit eodem semper empturus, neque a negotiatoribus ipsis, sed a chartarum ipsarum autoribus, ne illis sit perlucrandi facultas; quandoquidem sine lucro interdum duplici interdum etiam triplici, nunquam simplici quicquam habent venale. Atque chartarum ipsarum vis parva vicibus singulis emenda non videtur, sed quantum vis maxima modo ei qui emit adsit iudicium, quo neque crassas neque scabras neque luteas emat, sed pro modo exiles leves ac candicantes. In parva enim vi rerum omnium saepius qui emit decipitur, in magna nonnunquam qui vendit. De librariis. Librarii sunt tibi ordinarii numero septem: quibus ante me Bibliothecarium pactum decretumque fuerat salarium et quantum eius causa iis esset mensibus singulis exscribendum. In his te decipi sunt qui ratione contendant, qua plus ipse solvis quam princeps ullus non in Italia modo sed in quavis parte orbis totius solvere dicatur; mihique fit verisimile, qui sim certior factus qua et Florentiae ipsi et Venetiis mercede exscribatur, quae sunt hoc quidem tempore orbis ipsius aut certe Italiae urbes omnium clarissimae. Per questo motivo, sempre per la stessa ragione per cui Francesco mi insegnò quella tua massima, ho meditato più profondamente e ho pensato con attenzione a cosa questo mio incarico possa portare di giovamento a te, di quale compito sembro investito nei tuoi confronti, cosa tu hai creduto e con somma sapienza e con somma giustizia bisognasse aspettarsi da un ottimo e fidatissimo servo. Ma dopo aver esaminato davanti agli occhi come in uno specchio tutte quelle cose, che sono di mia specifica pertinenza, ho capito che quattro sono sicuramente oggetto di mia particolare cura, e in queste come finora hai ricevuto un qualche svantaggio, così d’ora in poi, se saranno gestite come dico io, riceverai molto vantaggio. A parte infatti la carta, della quale sono fatti i volumi della Biblioteca, unico corredo, e a parte i copisti che ci scrivono, i miniatori che la ornano, e gli impaginatori che la rilegano, niente vendo veramente che sia mia propria pertinenza, e non parlo ora dell’attività di vigilare sui testi, che è certo di mia pertinenza, ma quasi come parte più piccola, ma parlo dei compiti più importanti, che qualora fossero oggetto di negligenza credo che porterebbero molto svantaggio: e si tratta di quelle quattro cose che ho elencato sopra. Sulla carta. La carta certo in Toscana viene acquistata da quegli stessi che fanno commercio di queste e di altre cose; faccio rilevare che sono comprate con guadagno di quegli stessi commercianti non piccolo, dal momento che vengono acquistate per esempio a due denari mentre lì solitamente sono vendute a uno. Quindi credo che potrebbe essere un primo tuo vangaggio, se una volta indagato preventivamene sul minor prezzo si dia incarico ad un amico o a un qualche tuo ministro, che vada a comprarle a quel medesimo prezzo, non da quei commercianti, ma dalle officine in cui si fabbricano le carte, per non dare a quelli possibilità di guadagno; senza guadagno infatti non vendono proprio niente e talvolta è il doppio talvolta il triplo, mai al prezzo di base. E inoltre non sembra giusto comprare piccole quantità di carte di volta il volta, ma una quantità massima purchè colui che compra abbia un certo discernimento, col quale compri carte né spesse né ruvide né sporche, ma nella giusta misura sottili leggere e bianche. In una piccola quantità infatti di tutte le cose spesso chi compra viene raggirato, in una grande talvolta chi vende. Sui copisti. Di copisti ordinari ce ne hai sette: per i quali, prima che io fossi bibliotecario, era stato pattuito e deciso un salario e quanto essi dovessero al mese trascrivere in base alla paga. Vi sono alcuni che a ragione vanno dicendo che tu su questi sei stato raggirato, perché spendi più tu di quanto si dica che spenda qualsiasi signore non solo in Italia ma in qualsiasi altra parte del mondo; e a me pare verisimile, perché sono stato informato a qual prezzo si trascriva a Firenze e a Venezia, che sono in questo momento certo le più famose città del mondo o certo dell’Italia. 25 Equidem multorum verbis ausim affirmare qua librarii in utraque illa urbe exscribunt, mercedem parte paene tertia minorem esse qua nostri ipsi librarii exscribunt, tametsi illi neque inelegantius neque inconcinnius neque etiam inemendatius exscribere dicuntur. Quod quidem ipsum ne quis putet a me commentum tui ostentandi gratia commodi a me optati, velim omnes intelligant atque ipse imprimis eorum ipsorum quos nunc habes librariorum abiisse hinc quosdam sperantes alibi se conditionem adepturos praestantiorem, moxque omni spe frustratos eodem huc rediisse, palam profitentes nunquam librariis solvi liberalius quam Neapoli ubi ipse rex ades omnium qui vivant liberalissimus. Itaque hoc tuum fuerit alterum commodum, ut librariis ipsis aliquid addatur exscribendum quod sit aequum ferreque ipsi possint, non ex mercede demendum, ne aut Florentinorum aut Venetorum more librariorum a te tractari omnino videantur. Aequum est enim te utramque gentem liberalitate superare quam cetero virtutis genere superaveris. Habendam itaque censeo rationem et litterae manusque elegantiae et eius ipsius emendationis, atque ita pro his meritis scriptoribus ipsis singulis id ipsum quod modo dixi aliquid addendum: quod spero librarios ipsos non iniquo animo laturos si nolent iniquiores arrogantioresque videri ac sui commodi quam tui ministerii studiosiores. Certum est enim omnes minus exscribere quam aequum sit. De loanne Marco nihil me meminisse oportet: qualis enim mihi repertus est, talis videtur ferendus. Repertus est autem certo salario conductus, tecumque dicitur pepigisse ut sive exscribat, sive non exscribat, nihil possit interesse mea. Cynicum enim se esse ait, malleque omni conditione carere atque ex Italia universa abire exulem quam mihi laborum suorum reddere rationem nec alteri ulli ne tibi quidem ipsi, qui sui ipsius iuris esse statuerit alterius nullius. De miniatoribus nihil equidem adhuc habeo certi plusne hic quam alibi an minus iis solvatur; tamen cum plures Neapoli sint miniandi facultate praediti, omnesque ambitiosissime de praestantia contendant, nec minus de consequenda conditione, facillimum puto posse inveniri, qui miniandi Bibliothecae tuae volumina negocium suscipiant longe minore mercede quam ii faciant qui eadem ipsa volumina a se minianda patris tui privilegio contendunt convincereque conantur; iamque se mihi quidam obtulit hoc ipsum facturum et quidem elegantius ac concinnius quam qui magistri perhibentur celebriores. Quanto a me oserei dire contro le parole di molti che i copisti in entrambe quelle città trascrivono con un compenso che è quasi un terzo di quello con il quale i nostri copisti trascrivono, anche se dicono che quelli non lo fanno con minor eleganza o con minor ordine e nemmeno in maniera più sciatta. E questo certo, perché nessuno creda che me lo sia inventato per mettere in mostra il vantaggio che io desidero per te, vorrei che tutti sappiano e tu specialmente che alcuni di quelli stessi che ora hai come copisti se ne erano andati da qui sperando di trovare altrove una condizione migliore e poi persa ogni speranza sono tornati qui nuovamente, chiaramente dichiarando che mai i copisti vengono pagati con più liberalità che a Napoli dove sei presente tu re il più genereosi di tutti i viventi. Quindi questo sarà un secondo tuo vantaggio, che a questi stessi copisti bisogna dare qualcos’altro da scrivere, per quanto sia giusto e possano essi sopportare, e non bisogna diminuirgli il salario, perché non sembri che tu li tratti proprio come usano i Fiorentini o i Veneziani. E’ infatti giusto che tu superi per liberalità l’uno e l’altro popolo, che tu hai già superato per altro genere di virtù. Quindi penso che bisogna tenere il conto e dei caratteri e dell’eleganza della mano e della sua stessa correttezza, e così in base a questi meriti ad ogni scrittore affidare in più qualcosa come ho detto sopra: cosa che spero che i copisti sopporteranno con animo giusto, altrimenti, sembrerebbero più ingiusti e più arroganti e più attaccati al proprio vantaggio che al tuo servizio. Certo è infatti che tutti scrivono meno di quanto sia giusto. Su Giovan Marco non è necessario che ricordi alcunché: così come lo ho trovato, tale sembra che lo si debba sopportare. Ma l’ho trovato con un contratto a tempo indeterminato, e si dice che abbia pattuito con te che sia che scriva qualcosa, sia che non scriva, io non me ne debba occupare. Dichiara infatti di essere Cinico, e di preferire essere privo di qualsiasi sostentamento e lasciare l’Italia tutta esule piuttosto che render conto a me del suo lavoro o a qualsiasi altro che non sia tu stesso, perché ha deciso di essere sotto il suo stesso controllo e di nessun altro. Sui miniatori niente per conto mio finora so di sicuro sul fatto che si paghino qui più che altrove o meno; tuttavia dal momento che a Napoli ce ne sono molti dotati della capacità di ornare, e tutti con grande ambizione si fanno concorrenza e per avere rinomanza e per avere incarichi, ritengo che possa essere molto facile trovare qualcuno che prenda il lavoro di miniare i volumi della tua Biblioteca per un compenso molto inferiore rispetto a loro, che affermano che quei medesimi volumi devono essere miniati da loro per un decreto di tuo padre, e tentano di convincermi di ciò; e già qualcuno mi si è presentato che farebbe e certo in maniera più elegante e ordinata di questi sedicenti celebri maestri. 26 Neque ignoro eos ipsos quibus a nobis dantur volumina minianda, dare eadem aliis quibus mercedis minimum quiddam persolvant, ipsique sine suo labore multum lucrentur, mox ea dicturi a se miniata. Nec illud etiam ignoro, exclusos esse ab huiusmodi miniandi munere quosdam qui eorum ipsorum qui sunt recepti facile praeceptores esse possent, idque vel odio accidisse vel invidia vel affectu animi aliquo, quo quisque carere debet qui eius cui ministrat integre commodum procurare beneque rem gerere, cupit. Quare afferri res haec miniatoria in medium potest atque ei dari qui se opere commendabiliori, mercede viliore miniaturum pollicebitur; quanquam equidem luxuriam illam miniorum, in quam isti lucri gratia excurrunt, reiciendam censeo, recipiendamque simplicitatem aut certe mediocritatem, quod illa impendium, haec venustatem prae se ferat. Atque hoc tertium fuerit tuum commodum: non enim dubito quin aliquis novus accedet pro nostro voto miniaturus, aut iidem illi qui nunc miniant, lucrandi aviditatem deponentes, religioni fortasse sibi fore putabunt non aequa miniare mercede, hoc praesertim tempore, quo artificum fabrorumque multum, pecuniarum parum admodum inveniatur. De compaginatoribus. Quartum ex iis quae praeposueram commodum videbitur manifestius, si ei qui eadem ipsa compaginat volumina certum annuumque statuatur salarium, quo suo compaginandi munere uti quidem commode possit, sed quo ex tuo aerario pecuniarum minus exancletur. […] De emendis voluminibus nunc mihi videtur disserendum, utrum tibi utilius sit futurum foris ea emi an domi, hoc est Neapoli, vel emi vel exscribi. Nemo sane ibit inficias ubique longe viliore exscribi mercede quam Neapoli, ubi librarii sunt admodum pauci et qui sunt rei caritate quod exscribunt sanguine ipso, ut aiunt, commutare didicerunt. E so bene che questi stessi ai quali noi diamo i volumi da miniare, danno quelli stessi ad altri che pagano con un minimo compenso, e loro guadagnano molto senza alcuna fatica, e poi diranno che sono stati miniati da loro. Né ignoro inoltre il fatto che sono esclusi dall’incarico di miniatori alcuni che di quelli stessi che sono invece accettati facilmente potrebbero essere maestri, e questo credo che accada per odio o meglio invidia o per qualche altro sentimento ostile, dal quale dovrebbe astenersi chiunque desidera procurare giustamente vantaggio e governare bene le cose di colui che serve. Per ciò questa arte miniatoria andrebbe liberalizzata e che sia dato a colui che promette di eseguire l’opera in maniera più lodevole e con un compenso inferiore; benché a mio vedere quella lussuosità delle miniature, per la quale costoro per amor di guadagno incorrono, ritengo sia da rigettare, e da accogliere invece la semplicità o almeno una via di mezzo, perché quella porta spesa, questa eleganza. E questo sarebbe il tuo terzo vantaggio: non dubito infatti che si farà avanti qualche nuovo miniatore che corrisponda ai nostri desideri, o quelli stessi che ora miniano, abbandonando l’avidità, forse si faranno scrupolo di chiedere un compenso iniquo, in questo momento poi, in cui si trovano molti artisti certo e pochi soldi. Sui rilegatori. Tra questi vantaggi che ti avevo esposto il quarto ti sembrerà più che evidente, se decidereai di dare un compenso sicuro e annuo a colui che ti rilega quegli stessi volumi, in modo che possa eseguire al meglio il suo compito, certamente, ma in modo anche che si attinga il meno possibile dalle casse dello stato. […] Sull’acquisto dei volumi ora mi sembra di dover discutere, se sia più utile in futuro comprarli all’estero ovvero e comprarli e copiarli in patria, cioè a Napoli. Nessuno negherà sicuramente che ovunque si copia con un compenso inferiore che a Napoli, dove i copisti sono molto pochi e quelli che ci sono per la scarsezza di sostanze hanno imparato a scambiare ciò che scrivono, come dicono loro, con il sangue. 27 Florentiae audio inveniri facillime quicquid voluminum desideretur absolutum et quidem mercede adeo viliore, ut si illic omnia emerentur quae tuae desunt Bibliothecae, procul dubio tuis impensis non nihil parceretur. Sed illic emenda tibi esse nunquam equidem sic consuluerim ut dimittendos quos nunc habes librarios suadere videar, vel quod me nostratibus et librariis et miniatoribus et compaginatoribus adversari iniquissimum est, vel quod te hos habere addecet ut tuis prosis magis quam exteris, quemadmodum facere semper consuevisti, qui et excogitasti novas et exteras huc advocasti facultates non sane quo tibi, sed quo tuis ipsis plurimum prodesses, quos habueris semper carissimos, ut plures se tuo beneficio hodie domi suae degere profiteantur, quibus victus causa honestioris orbis universus erat peragrandus. Emenda itaque foris volumina consulo quidem, si qua erunt venalia, quorum exemplaria haberi hic non facile poterunt; sed non ita ut librarios ipsos dimittas, quibus consuluerim addendum aliquid exscribendum, quod ipsi erunt aequo animo laturi. Nam etsi commodum esset sine controversia non parvum volumina ipsa foris emere, tamen sit etiam commodum tuis prodesse, quale semper optasti. Illud non modo non consuluerim, sed plane faciendum dissuaserim, ut quae hic Neapoli exscribuntur volumina tibi ab aliis ullis emantur quam ab iis ipsis qui exscribunt vel quod aequum sit illud ipsum lucri te consequi quod ii consequuntur qui volumina ipsa emunt, quo tibi mox vendant, vel quod eisdem illis qui exscribunt et citius ipse solvis et liberalius. Neque hoc tibi commodum videatur negligendum, quod sit ante quam Bibliotheca ipsa libris omnibus compleatur tantum evasurum, ut eo agere utilius aliquid facile possis. Quod enim amiseris lucri quod potueris consequi sine alterius vel iniuria vel iactura, id imprudenter amisisse accusari mox poteris. Ho sentito dire che a Firenze si trovano molto facilmente tutti i volumi che si desiderano scolti e certo ad un prezzo a tal punto inferiore, che se si comprassero lì tutti quelli che mancano alla tua Biblioteca, senza dubbio si potrebbe risparmiare qualcosa sulle spese. Ma non ti sto dando questo consiglio di comprare lì per quanto mi riguarda perché voglio persuaderti a che tu debba licenziare i copisti che hai ora, sia perché sarebbe una cosa assurda mettermi contro i copisti i miniatori e i rilegatori nostrani, sia perché ti conviene averli presso di te perché tu possa favorire i tuoi piuttosto che gli stranieri, nel modo in cui hai sempre fatto, tu che non solo hai escogitato nuovi talenti, ma ne hai chiamati qui dall’estero non certamente per giovare a te, ma moltissimo proprio ai tuoi, che tu hai sempre avuto carissimi, sicché la maggior parte oggi per tuo beneficio possono dire di abitare in una loro casa, quando avrebbero dovuto andar girando il mondo intero alla ricerca di un più onesto sostentamento. Credo dunque che bisogna comprare fuori i volumi certo, se ve ne sono in vendita, di quelli di cui qui non è possibile reperire una copia facilmente; ma non così da licenziare i copisti, ai quali ti ho consigliato di dare qualcosa da copiare in più, cosa che loro accetteranno di buon animo. Infatti anche se senza ombra di dubbio sarebbe un vantaggio non piccolo comprare fuori i volumi, tuttavia è anche un vantaggio giovare ai tuoi, cosa che hai sempre scelto. E questo poi non solo non lo consiglierei, ma ti dissuaderei sicuramente dal fare, che i volumi che si copiano qui a Napoli tu li vada a comprare da altri che non siano gli stessi che li trascrivono sia perché è giusto che tu abbia lo stesso guadagno di quelli che li comprano, e che dopo te li vendono, sia perché tu paghi è più velocemente e con maggiore liberalità quelli che li scrivono. E non devi tralasciare questo altro vantaggio, che passerà tanto tempo prima che la Biblioteca si riempa di tutti i libri, che potrai facilmente fare qualcosa di più utile. Infatti ciò che perderesti in un quadagno, che avresti potuto ottenere senza offendere né calpestare altri, questo potresti poi essere accusato di aver perso per mancanza di saggezza. 28 Sic age, tibique persuade, inter ea quae commendatione dignissima unquam egisti, ita hanc ipsam tuam elucere Bibliothecam, ut omnium eam intuentium sit sententia, nihil te post victoriam regnumque pacatum fecisse vel melius vel utilius vel etiam gloriosius: litteras enim bonasque artes, quas musas poetae vocant, velut exstantes loco excepisti dignissimo easdemque sic dicasti, ut nihil tuis libris, qui musarum ipsarum dicuntur opera, aut dignius aut praestantius esse possit, ut iure bibliotheca ipsa sic loquatur: Bibliotheca fui multos neglecta per annos, Quae sum Ferrando principe culta pio. Invenies in me quae scripserit omnis vetustas, Seu te graeca magis sive latina iuvant. Omnia doctrinae miro congessit amore Ferrandus posthac alter in orbe deus. Vale. Suvvia, e convinciti, che tra le imprese che hai compiuto sempre molto degne di lode, tanto risplende questa tua Biblioteca, che è opinione comune di tutti quelli che la vedono, che niente hai fatto di meglio, di più utile e anche di più glorioso dopo la tua vittoria e la pace nel Regno: la letteratura infatti e le buone arti, che i poeti chiamano Muse, le hai accolte in un luogo molto degno come se fossero vive e a quelle stesse così lo dedicasti, che niente di più degno o di più grande può dirsi dei tuoi libri, che son detti opera delle stesse Muse, sicché a buon diritto la Biblioteca in persona dirà così: Fui una biblioteca trascurata per molti anni Ma ora sotto il pio Re Ferdinnado son rispettata Troverai in me cio che l’antichità tutta ha scritto Sia che ti piaccia la letteratura greca sia ancor più quella latina. Tutto per un ammirevole amore di sapienza raccolse Ferdinando, d’ora in poi un secondo dio nel mondo. 29 EGIDIO DA VITERBO OSA, Lettere familiari, I, cur. A. M. Voci Roth, Roma 1990, pp. 111-115 Trad. Corfiati Egidius Pontano1 S.D. Roma, 3 novembre [1500?] Roma, 3 novembre 1500 Carissimo Pontano, Si consilii tui animique mei institutum sequerer, vir clarissime, nec tantum a te, immo vero nec a me ipso tantum abessem, ut nec te nec item mecum mihi nec horam quidem vel exiguam esse liceat. Me tibi mihique pari vi Roma abstulit, quodque forte vix credas, tecum loqui frequentissime videor, mecum vero nunquam. Quis enim sese ad me confert e cultiori turba, qui res tuas, studia tua, Lepidinam illam tuam Phosphoro et sole clariorem non plus admirando quam recensendo laudet? Quisquis is fuerit, quo cum de re litteraria sermo fiat, sive sideralis discipline, sive vite aut morum, sive oratorie, sive poesis studiis sit, sermonem protinus a te incipit, tecum trahit, ac tandem claudit tecum. Ut mecum audires interdum altercantium hominum pugnas, dum a suis quisque te studiis appellandum esse contendit. Philosophum te philosophi faciunt, vatem vates, mathematici mathematicum, ancipiti undecumque certamine que in te clarissimarum artium claritate prestet. Huiusce ea sunt que uti te et spectare et audire videar sepissime faciunt, mecum vero et esse et loqui Tyberini fluctus et urbanorum tumultuum estus prohibent, flantibus enim non ethesiis ut ad Pharias fauces, sed notis austrisque letalibus obruit miserrima civitas terre marisque imperiis [impetis] assueta. Expecto ut littere tue nubium et aquarum molestiam animo pellant meo, Lune enim laxam fluxamque licentiam Iovianis auris temperatum iri. Hortor postremo te (ut soleo) ad studia religionis et vias Domini, qui, fortunis, liberis, etate ipsa demum vite abeunte et abeunte in interitum mundo, unicum presidium esse potest. In omni vita per etatis gradus fuisse te scio probatissimum, integerrimum, optimum, sed qualem inter mortales esse decuit. Nunc vero, immortalibus adeundis factus promptior, indue immortalium mentem, nec inter homines claruisse sufficiat, sed te quoque iunge Deo, ut aut Deus evadas, aut certe ascribaris numero filiorum Dei. Se avessi seguito il tuo suggerimento e il mio cuore, o uomo illustre, non soltanto da te, ma certamente nemmeno da me stesso tanto mi sarei allontanato, che non mi sia possibile stare nemmeno una piccolissima ora né con te né con me stesso. Con pari violenza Roma mi ha portato via da te e da me, e cosa che a stento potrai credere, mi sembra di parlare molto spesso con te, con me invece mai. Non ve ne è uno tra i più dotti, che quando viene a trovarmi non lodi con ammirazione piuttosto che con un semplice resoconto le tue vicende, le tue opere, la tua famosa Lepidina, più brillante della stella del mattino e del sole. Chiunque sia colui col quale ci si mette a parlare di questioni letterarie, ovvero di scienza astronomica, o ancora dello studio della vita o dei costumi, o ancora di oratoria e poesia, il discorso inizia sempre da te, si muove con te e infine si conclude con te. Certo che con me ne sentiresti ogni tanto di accese contese tra persone che si mettono a litigare, perché ciascuno ribadisce con forza che tu devi essere enumerato nel loro settore disciplinare. I filosofi ti considerano un filosofo, i poeti un poeta, i matematici un matematico, e da una parte e dall’altra c’è aspra contesa su quale tra le discipline più illustri tu pratichi al meglio. Tali sono le circostanze che fanno in modo che mi sembri di avere a che fare con te e di vederti e di ascoltarti, ma le acque del Tevere e il fuoco delle risse cittadine mi impediscono di essere e parlare con me, poiché qui al soffio non certo di venti etesii, come alla foce del Nilo, ma di noti e di austri dannosi la città poverissima va in rovina, abituata oramai agli attacchi della terra e del mare. Attendo che le tue lettere caccino dal mio cuore il fastidio delle nubi e della pioggia, infatti sarà mitigata dalle brezze di Gioviano la dissolutezza sciolta e sfrenata della luna. Ti esorto infine (come sempre) agli studi religiosi e alla via di Cristo, che a chi sta per abbandonare i beni, i figli e lo stesso tempo infine della vita e sta abbandonando con la morte il mondo, può essere l’unico sostegno. In tutta la vita – lo so bene – ad ogni tappa dell’esistenza sei stato il più onesto, il più integro, il migliore, ma quale è giusto che uno sia tra i mortali. Ora invece, che sei diventato più pronto ad avvicinarti agli immortali, vesti l’animo degli immortali, né sia sufficiente essere stato famoso tra gli uomini, ma anche tu unisciti a Dio, in modo che o tu riesca un dio, o certamente tu sia ascritto nel numero dei figli di Dio. 30 Omnes dii esse possumus, ut David et apostolus canunt, et filii Excelsi omnes. Namque ut Lucretius non abnuit omnibus ille idem pater est, non aer, unde fecundus imber decidit, sed celi faber est et auriga Deus, qui ut sacer ei testatur interpres... Hoc itaque remo veloque in postremo navigationis insurgendum est, ut palme et premiorum certi, mortem non querelis et clamore perstrepentes more et vulgi et suum, sed sapientes viros atque bonorum prescios olores imitati cum cantu et voluptate subeamus. Quod quidem felicissimum genus mortis, immo beatissime vite genus qui sortiri possunt, non illi aut obire aut emori existimandi sunt, sed ab integro gigni et nasci potius, feliciore etiam genitura quam que in geminis et tertia domo obtinuit fortunatum procul a sole Mercurium. Quis enim in fortunis numeret abesse a formosissima luce, ab austro procul esse pulcherrimo? Cum sacrum vatem audias libentius, qui bene sancteque e mundi morte nascentes eo minus adire iustitie et vere lucis solem docet, et quoniam fons exuberantis est luminis, in eo sese prorsus mersabunt pie ac felices animule. Inebriabunt in alme lucis pelago, aquas haurient de fontibus Salvatoris, nec arceri ulla necessitate poterunt a solis fluvio et torrente voluptatis, unde superne fluviorum rex Eridanus devolvitur amnis, ut etiam in tuo vate arcanum agnoscas, qui fortunatos campos irrigari eo fluvio monet qui de filio solis leto prosilierit, quod sexto de republica magni Platonis didicit, ubi de boni filio, de sole animorum, de eorum luce a Dei filio propinata mentibus multa disputantur. Tandem ita claudi epistolam velim, si tamen nobis id persuaseris, ut qui a sole in terris abfuimus, illi saltem in celo iuncti simus. Vale. Ex Urbe, III Nonas Novembres. Tutti possiamo essere dei, come cantano Davide e l’apostolo, e tutti figli dell’Eccelso. Infatti come Lucrezio non negò che per tutti quanti vi è un unico padre [Lucr. II 992], non l’aria, da dove cade una feconda pioggia, ma il creatore del cielo e l’auriga Dio, che come gli testimonia quel sacro interprete… Con questo remo dunque e con questa vela bisogna muoversi nel tratto finale della navigazione, in modo che sicuri della palma e dei premi, affrontiamo la morte non con lamenti e grida schiamazzando secondo il costume e del volgo e dei maiali, ma come uomini sapienti e ben coscienti del bene futuro imitando i cigni con canti e gioia. E coloro che possono godere di questo certamente felicissimo genere di morte, anzi genere di vita beatissima, non bisogna credere che spariscano o muoiano, ma che siano generati ex novo e nascano piuttosto, con una genitura più fortunata anche di quella che nei Gemelli e nella terza casa presenta un Mercurio fortunato lontano dal Sole. Chi infatti considererebbe tra le fortune essere lontano da una luce bellissima, essere lontano da un bellissimo a[u]stro? Dal momento che ascolti volentieri il santo poeta, che insegna che coloro che nascono dalla morte del mondo bene e santamente eppure raggiungono il sole della giustizia e della vera luce, e poiché è fonte di luce traboccante, in lui le animucce pie e felici si immergeranno completamente. Si ubriacheranno del mare dell’alma luce, berranno le acque dalle fonti del Salvatore, né potrano trattenersi per nessun motivo dal fiume del sole e dal torrente del piacere, donde di sopra socrre l’acqua d’Eridano [Verg. Aen. VI 658-59) re dei fiumi, perché tu sappia riconoscere il mistero anche nel tuo poeta, che racconta che i campi fortunati sono bagnati da quel fiume che proruppe dal figlio del sole morto, cosa che nel sesto libro de re publica del grande Platone si dice, dove si discutono molte cose a proposito del figlio del bene, del sole delle anime, della loro luce che è offerta alle menti dal figlio di Dio. 31 Iohannes Iovianus Pontanus Egidio S.D. Napoli, 13 dicembre 1500 Bene habet, minime ipsi absumus. Nam et litteras tuas dum lego, mecum ipse loqueris, et cum tibi respondeo, presens tete alloquor, simulque congressi una etiam verba conferimus, qui presentie fructus quidem est quam suavissimus. Quid autem in amicitia optatius quam presentia uti mutuisque congressionibus? Aut quid amicitiam ipsam magis testatur aut constituit quam assidua sermonis familiaritas orationisque communicatio? Bene habet igitur, nam presentes ipsi sumus, et presentie ipsius muneribus fruimur utimurque officiis. Sed tu velim desinas eorum mihi mentionem facere, quibus vel ineptie mee sunt cordi vel ignorantia parum est cognita. Qua in re quid aliud tibi respondeam quam quod Egidius, ut vir bonus, consuevit benedicere, ut verax autem a natura non recessit? Non quod mentiri didicerit, sed quod ut Christianus et sacerdos, ut Augustinianus nimium in credulitatem propensus est atque fidem. Ut enim predicatorum eximius credi sibi in maximis atque divinis vult rebus, sic ipse aliis nimium credit, vel concedit potius, in amici presertim laudibus doctrineque commendatione. Qua in re eo etiam est propensior, quod se me alterum, ut quidem est, cum dicat, audit nimirum libenter laudes (ut hominum ingenium est) suas. Desina igitur his posthac moribus dissuere velle amicitiam nostram. Peccavi, corrigo unitatem, uni enim sumus et voluntate et cogitationibus, addam et expetitionibus ac rerum humanarum despicientia. Quod autem ingravescentis me etatis admones, dicam libere quid sentio. Primam quidem hominis etatem mortalem eam esse nominandam, quo tempore id quod e celo, id est a Deo, divinum in nos influxit, assuesceret mortalitate ab ipsa infici suaque ab excellentia declinare, postremam vero immortalem, quo rursum tempore divina illa pars, confecto iam itinere, regredi in celum incipiat. Itaque facile patior ab Egidio meo, a me scilicet ipso, in etate [im]mortali immortalitatis me<e> ipsius admoneri, id quod volens et sponte ipsa mea iam ago, acturus etiam libentius tali presertim admonitore ac consiliario. Caro Egidio, Fai bene, noi non siamo per niente lontani. Infatti e mentre leggo le tue lettere, tu parli con me, e quando ti rispondo, mi rivolgo a te come se fossi presente, e allora insieme incontratici ci scambiamo parole: e questo è certamente il più dolce frutto della vicinanza. Cosa poi più desiderabile in una amicizia che poter godere della vicinanza e di reciprochi incontri? O cosa più testimonia l’amicizia stessa o la sostanzia che una continua conversazione familiare e uno scambio di discorsi? Fai bene dunque, infatti noi siamo presenti, e godiamo dei doni di questa presenza e dei doveri connessi. Ma vorrei che la smettessi di farmi menzione di coloro, per i quali o le mie sciocchezze stanno a cuore ovvero che poco conoscono la mia ignoranza. Riguardo a questo che cosa altro dovrei risponderti se non che Egidio, da uomo onesto, era solito dire bene, poiché in vero il verace non si è allontanato dalla natura? Non per il fatto che ha imparato a mentire, ma perché da Cristiano e da sacerdote, da Agostiniano è eccessivamente propenso alla credulità e a prestar fede. In quanto è il più notevole dei predicatori vuole che gli si creda sulle questioni più importanti e divine e così lui crede troppo agli altri, o piuttosto cede, in particolare riguardo alle lodi di un amico e ai buoni giudizi sulla sua dottrina. E a questa cosa è ancor più propenso, per il fatto che poiché dice di essere quasi un secondo me, come veramente è, ascolta molto volentieri (cosa tipica degli uomini) le sue lodi. Smetti dunque d’ora in avanti di mettere a repentaglio con questo modo di fare la nostra amicizia - ho sbagliato, correggo – la nostra unità, infatti siamo una sola cosa e per volontà e per pensieri, e aggiungerei anche per desideri e per un po’ di follia riguardo le questioni umane. Sul fatto poi che mi ammonisci, dal momento che sto facendo vecchio, dirò liberamente quello che penso. La prima stagione certo dell’uomo va sicuramente chiamata mortale, e in questo periodo quel qualcosa di divino che dal cielo, cioè da Dio, è penetrato in noi, si abitua ad essere contaminato dalla mortalità e ad allontanarsi leggermente dal suo stato di eccellenza. L’ultima invece immortale, e in quel periodo nuovamente quella parte divina, ormai concluso il suo viaggio, comincia a ritornare verso il cielo. Quindi facilmente accetto di essere ammonito dal mio Egidio, ossia da me stesso, in questa stagione mortale su quella stessa mia immortalità, cosa che volentieri e spontaneamente già faccio, e farò ancora più volentieri soprattutto avendo avuto un tale ammonitore e consulente. 32 Quod vero ad me scribis, vel presens potius ac coram dicis, tecum esse non posse, in quod, obsecro, erratum, o bone Egidi, in quod, inquam, erratum adeo pronus incidis? An secum non est Egidius, qui assiduus cum Deo est, qui de Deo semper cogitat, Deum ubique et queritat, etiam inventum mortalibus ostendit, accedendique ad illum viam aperit, iterque maxime certum docet? Inundationes Tyberinas fero quam egerrime propter communia incommoda. Scias tamen agros quoque Campanos sataque fere omnia sub lacunis desedisse, ut future annone charitates sint non mediocriter extimescende. Sed claudenda est epistola, ne divinis a cogitationibus misteriisque ab illis suis Egidium sevocem. Itaque sic habeto desiderium tui Neapolitanos cepisse universos, mirifice vero tum litteratos tum patritios. Ad alias quasdam epistole tue partes nihil dicam, de iis enim quia presentes ipsi sumus coram rationem habebimus. Unus tamen ut absens te et rogabo et obtestabor, ut memineris Augustini te in verba iurasse, Mariani optimi et disertissimi viri memorie vel omnia quidem a te ipso deberi. Recte vale, atque in divinis sive sermonibus sive predicationibus regna. Neapoli, Idibus Decembribus MD. Ma il fatto che mi scrivi, ovvero presente piuttosto mi dici in faccia, che tu non puoi essere con te, in quale errore – per pietà – o buon Egidio, in quale – dico – errore sei caduto così malamente? Forse Egidio non è con sé, perché è continuamente con Dio, perché a Dio sempre pensa, Dio ovunque cerca, e una volta trovatolo lo mostra ai mortali, e apre la via che porta a lui, e insegna la strada massimamente sicura? Decisamente mal sopporto le inondazioni del Tevere per i fastidi che ne derivano per tutti. Sappi tuttavia che anche le campagne della Campania e quasi tutte le colture sono state allagate, sicché bisogna temere e non poco scarzezza dei prossimi raccolti. Ma devo chiudere questa lettera, per non tener lontano Egidio dalle meditazioni divine e da quei suoi ministeri. E così sappi che tutti i Napoletani hanno nostalgia di te, e in maniera particolare poi e i letterati e i patrizi. Sulle altre parti della tua lettera non dirò niente, su queste cose infatti qualora ci troveremo a quattr’occhi avremo modo di discutere. Uno solo tuttavia da assente e chiederò e supplicherò, che tu ti ricordi di aver giurato sulle parole di s. Agostino, che tutto quasi devi alla memoria dell’ottimo ed eloquente Mariano. Sta bene e sii il re dei discorsi sacri e delle prediche. Napoli, 13 dicembre 1500 33