SALUTO INAUGURALE E PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO Vito Ferrara Vice Presidente APLETI onlus Bari Un sentito ringraziamento al Rotary club di Martina Franca, alla Fondazione Nicolaus, alla Lundbeck, alle Autorità e agli illustri relatori e moderatori intervenuti a questo Convegno. Un ringraziamento particolare va rivolto ad Antonella e Saverio Santoro che, nel ricordo di Miriam, hanno avuto l’idea di realizzare un convegno dedicato al Neuroblastoma, coinvolgendo i medici di Martina Franca, la Fondazione NB e l’Associazione APLETI. Tutti hanno aderito con grande entusiasmo. In particolare, l’Associazione APLETI ha permesso che l’oncologia pediatrica pugliese si arricchisse di nuove competenze, dalla medicina palliativa e procedure senza dolore, all’assistenza domiciliare, ma non basta. E’ necessario avere nella nostra Regione centri d’eccellenza dove eseguire trapianti di cellule staminali e di midollo osseo, per evitare l’emigrazione verso il Nord. E’ necessaria la condivisione delle scelte diagnostiche e terapeutiche con il bambino e i loro genitori: oggi si parla spesso d’informazione, comunicazione e partecipazione, ma purtroppo queste rimangono solo parole. Certamente non è facile comunicare e condividere scelte difficili che richiedono conoscenze, impegno, professionalità, umanità, disponibilità e coinvolgimento emotivo. Il senso di questo Convegno è quello di richiamare l’attenzione dei presenti sui sintomi dei bambini malati e, in particolare, serve a ri-conoscere il Neuroblastoma. Al fine di ridurre le sofferenze dei bambini oncologici e dei loro genitori, quest’incontro ha l’obiettivo di formare e sensibilizzare il personale sanitario e no; è un’occasione per crescere insieme, con l’intento di essere sempre più professionali, capaci e pratici nel comprendere e ascoltare. “Neuroblastoma una diagnosi difficile”, difficile perché, purtroppo spesso, non è stato ri-conosciuto, in quanto la diagnosi quasi sempre è stata errata o tardiva, con le conseguenze che si possono ben immaginare per il bambino che continua a soffrire. Bambini che ci hanno insegnato e trasmesso la forza che abbiamo per coinvolgere le istituzioni e gli operatori del settore. Questa giornata vuole offrire un contributo a quanti, genitori, medici e operatori sanitari sono coinvolti nelle scelte di un percorso oncologico: la prima parte del convegno è dedicata alla diagnosi clinica e ai nuovi approcci terapeutici del Neuroblastoma e tumori solidi infantili; la seconda è riservata all’Assistenza domiciliare per i bambini emato-oncologici. L’Associazione APLETI, con ostinazione, ha voluto avviare un progetto pilota “Care-net”, partito il 17 ottobre 2008, grazie al contributo della Regione Puglia, nelle persone del Presidente Nichi Vendola e dell’Assessore Alberto Tedesco. Questo progetto permetterà alla Clinica Pediatrica del Policlinico di Bari di essere il primo centro del Sud che si avvale dell’assistenza a casa dei piccoli pazienti, in linea con le direttive nazionali. E se oggi si parla di Assistenza domiciliare pediatrica è merito anche del dott. Luca Manfredini, dell’Istituto Gaslini di Genova, a cui l’Associazione APLETI ha dedicato la targa di Socio onorario. L’IMPEGNO DELL’APLETI: UMANIZZARE L’ASSISTENZA ONCOLOGICA PEDIATRICA Francesco P. Murgolo Presidente APLETI onlus Bari L’APLETI (Associazione Pugliese per la Lotta contro le Emopatie e i Tumori nella Infanzia) è una onlus, accreditata presso le Cliniche Pediatriche dell’A. O. Policlinico di Bari, impegnata nell’assistenza dei pazienti oncologici in età pediatrica e nel sostegno delle loro famiglie. L’APLETI è sorta nel 1980 ed è iscritta nel Registro Regionale delle Organizzazioni di Volontariato ed alla FIAGOP (Federazione Italiana Associazioni Genitori di Oncoematologia Pediatrica). L’impegno e gli sforzi dell’APLETI mirano, in maniera sinergica tra loro, al conseguimento di importanti obiettivi: meno ospedalizzazione meno dolore meno viaggi della speranza più sorrisi attraverso l’allestimento di una rete per l’assistenza domiciliare oncologica pediatrica, favorendo in tal modo di realizzare condizioni di vita il più possibile "normali" per i piccoli pazienti; assicurando l’esecuzione in narcosi di procedure invasive e dolorose previste dai protocolli di cura e favorendo l’affermarsi della “cultura” delle cure palliative; migliorando la qualità dell’assistenza, attraverso l’ampliamento del numero di medici del reparto e sostenendo iniziative di formazione, borse di studio e contratti per i medici e paramedici; tutto questo contribuisce ad avere grazie allo sforzo e all’impegno di tutti. L'Associazione, di concerto con il Reparto di Pediatria Oncologica del Policlinico di Bari e grazie anche al sostegno della Fondazione Nicolaus, è impegnata, in una logica di continuità assistenziale, in iniziative volte a favorire la riduzione del periodo di permanenza in ospedale dei piccoli pazienti. Tale obiettivo è conseguito attraverso l’organizzazione di Care-Net per assistere il bambino presso il suo domicilio. L’APLETI è anche impegnata nella organizzazione di servizi di ospitalità in strutture abitative esterne, ma contigue al Policlinico, dei piccoli pazienti residenti fuori provincia e delle loro famiglie. La collaborazione con la Fondazione Nicolaus, onlus del Gruppo Megamark di Trani, favorirà la nascita presso il Policlinico di Bari di un Centro di competenza sulle Cure palliative in Pediatria. Il Centro sarà così in grado di aiutare i bambini e le famiglie che affrontano la fase più disperata della malattia: quella in cui non è più possibile curare, ma in cui ci si prende cura del congiunto. Care-Net intende allestire una rete di professionisti per l'umanizzazione dell'assistenza oncologica dei pazienti in età pediatrica capace di dare risposte adeguate, non solo ai problemi di natura strettamente oncologica, ma complessivamente a tutte le situazioni correlate alla malattia. Care-Net vuole migliorare la qualità della vita dei piccoli pazienti e dei loro famigliari: permettendo di ridurne il disagio fisico e psicologico, favorendo dimissioni precoci, riducendo i costi dell'assistenza. Care-Net vuole affermare un cambiamento sostanziale: non più il malato che gravita intorno alla struttura sanitaria, ma è l'organizzazione dei servizi assistenziali a gravitare intorno al paziente ed ai suoi bisogni. L'iniziativa ha il suo fulcro operativo presso l'U. O. "F. Vecchio" delle Cliniche Pediatriche del Policlinico di Bari e ne completa e complementa l'offerta assistenziale. Infatti, l'assistenza domiciliare rappresenta un miglioramento della qualità della vita: permettendo di ridurre il disagio fisico e psicologico di bambini e loro familiari, favorendo dimissioni precoci, riducendo i costi dell'assistenza. La Giunta Regionale Pugliese ha ammesso a finanziamento Care-Net tra i Progetti di Rilevanza Regionale nell'ambito del DIEF 2007 e 2008. Sali sul Nostro Treno con la tua Solidarietà, quando Scenderemo Saremo tutti più Ricchi Grazie al Sorriso di un Bambino Per contatti: Segreteria Apleti Onlus - c/o Cliniche Peditriche Policlinico di Bari Tel./ fax: 080.5574324 - [email protected] - www.apleti.it PRESENTAZIONE FONDAZIONE NEUROBLASTOMA Filippo Leonardo Vice Presidente Fondazione Neuroblastoma Nel 1998 nasce la Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma ONLUS, che è fonte di ricchezza per la ricerca scientifica sul Neuroblastoma e i tumori solidi pediatrici . La Fondazione sostiene e finanzia a livello internazionale i principali gruppi impegnati sul Neuroblastoma ed i tumori solidi pediatrici, oltre a potenziare il Laboratorio di Ricerca che già oggi in Genova è realtà. Nel laboratorio si svolgono ricerche nel campo della genetica, biologia molecolare, diagnostica, attraverso l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia. La Fondazione finanzia studi di ricerca clinica traslazionale e applicata, di biostatistica, di epidemiologia e progetti speciali su tutto il territorio nazionale, ovunque esistano studi promettenti. Da sempre sostiene il progetto clinico isto-patologico che consente una tempestiva e precisa diagnosi al fine di individuare un trattamento terapeutico d’eccellenza personalizzato per il piccolo paziente, ovunque sia in Italia il centro di cura. La Fondazione si impegna a: migliorare le conoscenze biologiche del Neuroblastoma ed i tumori solidi pediatrici attraverso ricerche su base molecolare genetica; individuare nuovi farmaci specifici ed efficaci per i piccoli pazienti; applicare i risultati ottenuti sostenendo progetti di ricerca traslazionale; assicurare una diagnostica all’avangardia per tutti i pazienti italiani afferenti ai protocolli terapeutici. La mission della Fondazione è raggiungere la più profonda conoscenza biologica sul Neuroblastoma ed i tumori solidi pediatrici al fine di sviluppare le cure che rendano queste patologie guaribili. PRESENTAZIONE FONDAZIONE NICOLAUS Giovanni Pomarico Presidente Fondazione Nicolaus Onlus La Fondazione Nicolaus è una onlus (organizzazione non lucrativa di utilità sociale) costituita nel 2000 ad opera del Gruppo Megamark di Trani. La fondazione è nata per volontà del presidente del gruppo, il cavaliere del lavoro Giovanni Pomarico, in ricordo del fratello Nicola. Le risorse donate alla fondazione sono impiegate in progetti in ambito sociale, sportivo, culturale e turistico. L’organizzazione ha lo scopo di promuovere e favorire concrete iniziative di filantropia e di promozione sociale e sanitaria atte a consentire la crescita e lo sviluppo di una collettività rispettosa dei valori della solidarietà ed attenta alle esigenze delle persone, considerate individualmente e nel loro aggregato familiare e sociale in tutti gli stadi della loro vita. Nel 2008, la Fondazione Nicolaus ha scelto di schierarsi al fianco dei bambini pugliesi nella lotta contro le patologie oncologiche. Si tratta di patologie gravi (dalle quali un numero elevato di pazienti riesce a guarire) che necessitano di periodiche cure sanitarie, un’assistenza assidua e un progressivo sviluppo della ricerca scientifica. La Fondazione Nicolaus si è impegnata a supportare le principali associazioni di volontariato del territorio pugliese che si occupano della cura dei bambini oncologici. Tra l’associazione pugliese APLETI, il reparto di Pediatria Oncologica del Policlinico di Bari e la Fondazione Nicolaus è nata una partnership, una preziosa collaborazione che mira a raggiungere insieme degli obiettivi comuni: in particolare migliorare le condizioni dei piccoli pazienti, finanziare la ricerca, stanziare fondi e borse di studio per giovani medici specializzandi e specializzati. Di qui la nascita de La casa di Pedro, il progetto di responsabilità sociale che la Fondazione Nicolaus del Gruppo Megamark, con il sostegno dei propri supermercati dok, A&O e Famila e in partnership con l’ APLETI, ha l’obiettivo di sostenere il Reparto di Pediatria Oncologica del Policlinico di Bari e i suoi piccoli degenti. Con La casa di Pedro la fondazione sosterrà direttamente o attraverso iniziative di raccolta fondi il finanziamento di attività volte a migliorare la qualità della vita dei piccoli pazienti oncologici pugliesi e delle loro famiglie. Tra le attività, la formazione di medici e paramedici, la costituzione di un centro di competenza sulle ‘cure palliative e terapie del dolore in pediatria’, l'assistenza domiciliare e l’organizzazione di convegni scientifici su queste tematiche. Pedro è la mascotte del progetto: è un simpatico bambino, caratterizzato da grandi occhi azzurri. Pedro è un bimbo sano, felice, vivace, buono e amico di tutti. Il nome Pedro deriva dell’acronimo Pediatria Reparto Oncologico. Pedro ha amici d’eccezione, in particolare due illustri testimonial: Antonio Conte, l’allenatore dell’A.S. Bari, e Giovanni Muciaccia, conosciuto dal grande pubblico dei bambini per il suo programma televisivo ‘Art Attack’. Per maggiori info: www.fondazionenicolaus.it PRESENTAZIONE ROTARY CLUB Vincenzo Fedele Presidente Rotary Club Martina Franca Tra le malattie che colpiscono i bambini, il neuroblastoma è certamente tra le più nefaste e soprattutto subdole. Aver contribuito alla realizzazione di questo convegno ci onora, ma principalmente ci dona la speranza affinchè i medici possano in un immediato futuro diagnosticarle in tempo. Il Rotary pone da sempre massima attenzione a queste problematiche e proprio quest’anno, il Presidente Internazionale ha spronato ogni Club (ne siamo nel mondo circa 32.000 con oltre 1.200.000 soci) ad intervenire con impegno e concretamente alla loro soluzione. Auspico pertanto che questa giornata, dedicata ad una più profonda conoscenza di questo male, possa dare agli operatori del settore più certezza e sicurezza nel loro impegno quotidiano. EPIDEMIOLOGIA DEL NEUROBLASTOMA Francesco De Leonardis Bari Il neuroblastoma è il più frequente tumore extracranico dell’infanzia rappresentando circa l’8-10% di tutti le neoplasie dell’età pediatrica. Il neuroblastoma ha una prevalenza di 1 caso ogni 7000 nati vivi corrispondente a circa 10.5 ogni milione di bambini di età inferiore a 15 anni per anno. L’incidenza di tale neoplasia è pressoché identica in ogni parte del mondo o perlomeno fra i paesi industrializzati. La neoplasia è appena più frequente nei maschi con un rapporto maschi/femmine di 1,1:1. L’età media alla diagnosi è di 19 mesi; il 36% dei nuovi casi ha un’età inferiore a 1 anno, l’ 89% ha meno di 5 anni ed il 98% meno di 10 anni. L’eziologia è essenzialmente ignota. INQUADRAMENTO CLINICO-DIAGNOSTICO Massimo Conte Genova Il Nb rappresenta circa l’8 -10% dei tumori che insorgono in età pediatrica, preceduto per frequenza solo dalla leucemia acuta e dai tumori del sistema nervoso centrale. Come avviene per tutti i tumori di origine embrionale colpisce in particolare i bambini nei primi anni di vita (0-5 anni); in generale l’età mediana alla diagnosi non supera i 18 mesi ed è sicuramente la neoplasia di più frequente diagnosi nell’epoca neonatale o nel primo anno di vita. Notevoli progressi sono stati fatti negli ultimi decenni nella comprensione dell’oncogenesi e della biologia del NB e per alcune di queste acquisizioni è ormai certa la stretta correlazione con la prognosi (es. oncogene MYCN, grado di differenziazione istologica). Dal punto di vista clinico il NB è un tumore con caratteristiche del tutto peculiari che possono così essere sintetizzate: 1. diverso comportamento a secondo che l’età sia inferiore o maggiore all’anno alla diagnosi; 2. elevata frequenza di metastasi (> 50% dei casi) all’atto della prima osservazione; 3. capacità di regredire spontaneamente nei bambini molto piccoli anche con malattia metastica (INSS, stadio 4s); 4. scarso impatto sulla prognosi da parte della moderna terapia multidisciplinare a differenza di quanto avvenuto negli ultimi anni per altre neoplasie pediatriche. PRESENTAZIONE CLINICA La prevalenza del sistema nervoso simpatico a livello addominale (surrene-gangli paravertebrali e retroperitoneali) fa sì che in oltre i due terzi dei casi il NB si presenti sotto forma di una massa addominale di forma, dimensioni e consistenza assolutamente variabili. In questi casi i sintomi d’esordio sono generalmente rappresentati da dolore addominale, turbe dell’alvo, inappetenza, tumefazione addominale. Meno frequente (circa il 20%) è la localizzazione mediastinica posteriore che può manifestarsi con disturbi respiratori, tosse da compressione tracheale, infezioni respiratorie recidivanti, febbre, o talvolta essere reperto casuale ad un esame RX eseguito per altre motivazioni. Infrequenti (circa 5-10%) i casi con localizzazione primitiva pelvica che si manifestano con l’evidenza di una massa ipogastrica o disturbi dell’alvo e della diuresi, o laterocervicale che possono mimare un’adenopatia infiammatoria. In caso di malattia disseminata a midollo osseo e/o scheletro, sedi queste più frequenti di metastatizzazione del NB, ai sintomi di distretto causati dalla massa tumorale possono aggiungersi quelli dovuti all’infiltrazione metastatica e quindi il dolore osseo, l’esoftalmo bilaterale, le ecchimosi palpebrali, petecchie ed ematomi cutanei, febbre persistente; a tali segni clinici si associano nella quasi totalità dei casi la presenza di un’anemia e piastrinopenia marcata. PARTICOLARI QUADRI CLINICI D’ESORDIO Compressione midollare Seguendo le connessioni del sistema nervoso simpatico con quello centrale il NB può accedere al canale midollare e comprimere il midollo spinale e/o le radici sottostanti determinando un quadro clinico caratterizzato da dolore rachideo, turbe motorie e sensoriali ingravescenti, alterazioni sfinteriali che spesso nel bambino sono di difficile identificazione. In questi casi la precocità della diagnosi e l’inizio quindi di un’adeguata terapia medica o chirurgica (decompressione midollare) sono fondamentali per un completo recupero neurologico che è invece estremamente difficile di fronte a quadri di conclamata paraplegia flaccida. Encefalopatia mioclonica Circa il 2% dei casi con NB sviluppa un quadro neurologico caratterizzato da: opsoclonoatassia-mioclonie diffuse, estrema irritabilità e regressione delle acquisizioni psicomotorie con esiti invalidanti nella sfera psico-cognitiva. Questa sindrome conosciuta anche come “sindrome degli occhi danzanti” può insorgere in assenza di altri segni di neoplasia o in alcuni casi precedere il tumore anche di diversi mesi. La sua eziopatogenesi è legata ad una condizione autoimmunitaria che comporta la produzione di auto-anticorpi in grado di reagire con le cellule tumorali e con quelle neuronali del cervelletto provocando la comparsa dei sintomi neurologici attraverso una desincronizzazione elettrica delle cellule neuronali. L’encefalopatia mioclonica è la sindrome paraneoplastica più frequente e più tipica del NB e quindi il tumore va sempre ricercato di fronte ad un bambino che presenti questo tipo di sintomatologia. Diarrea acquosa Meno dell’1% dei casi di NB sviluppa all’esordio un quadro di grave diarrea acquosa insensibile alle terapie specifiche. La causa del fenomeno risiede nella produzione da parte della neoplasia di un ormone attivo sui vasi intestinali, il VIP. Il disturbo regredisce solitamente con la cura del tumore. INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO L’inquadramento diagnostico del NB prevede: 1. Lo studio del tumore primitivo con esame ecografico e TC, nelle localizzazioni mediastinicheparavertebrali e pelviche è indicata l’esecuzione della risonanza magnetica per meglio definire i rapporti anatomici con le strutture contigue o l’eventuale interessamento del canale midollare. L’imaging tumorale deve essere poi completato anche con l’esame scintigrafico mediante 123I-MIBG. 2. Lo studio della malattia midollare ed ossea mediante scintigrafia con 123-I-MIBG, l’aspirato midollare (2-4 sedi) e l’esecuzione di almeno 2 biopsie ossee dalle creste iliache (queste ultime non sono mandatorie nel bambino con età < 1 anno alla diagnosi). 3. Lo studio dei markers tumorali: dosaggio di LDH-NSE-Ferritina sierica e catecolamine urinarie su urine di 24 ore (VMA-HVA). 4. Lo studio istologico e biologico del tumore : grading istologico, studio dell’amplificazione di MYCN, delezione di 1p e contenuto di DNA delle cellule tumorali. Questo esteso work-up tumorale permette di stadiare adeguatamente la malattia utilizzando criteri internazionali (INSS) e definirne le caratteristiche isto-biologiche alfine di ottimizzare sempre più il trattamento di questi piccoli pazienti. IL PEDIATRA DI BASE E L’ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA Valerio Cecinati Bari Ci sono 130-140 nuove diagnosi di tumore per milione di bambini per anno,questo implica 2.000 casi di tumore / milione di bambini nell’arco della vita pediatrica (15 anni), in altri termini, un bambino su 500 bambini svilupperà un tumore. Almeno 1.300 dei 2.000 bambini con tumore (65-70%) va incontro a guarigione (nelle aree del mondo tecnologicamente evolute). In Italia sono 1300 circa i casi di nuove diagnosi. Nel periodo 1967-2001 (Registro del Piemonte) si sono rilevati: aumenti dei tassi di incidenza per tutti i tumori nel loro insieme – aumenti dei tassi di incidenza – leucemie, tutti i tipi e tutte le classi di età – leucemie linfatiche acute nella classe di età 1-4 anni – tumori cerebrali (miglioramento diagnostico) – neuroblastoma (ecografie in gravidanza) – diminuzioni dei tassi di incidenza per i Linfomi NH, in controtendenza con gli altri tumori. Ad un pediatra di base si verifica che mediamente segue 500 bambini e 1 è il numero di tumori che si svilupperanno in 500 bambini nel corso dei 15 anni della vita pediatrica 2 - 4 è il numero di casi di tumore che un pediatra di base incontrerà nella sua vita professionale. Il curante può sentirsi inadeguato a gestire le problematiche per lui inusuali che un bambino con tumore pone durante il suo iter diagnostico-terapeutico. L’ipotesi di un tumore è lontana psicologicamente dalla mente del pediatra, per cui si cerca di rimuoverla. La seconda difficoltà è il notevole coinvolgimento emotivo come rischio del pediatra ed inoltre c’è difficoltà ed incertezza nell’interpretazione dei sintomi, spesso aspecifici. Da un sondaggio condotto qualche anno fa (FIMP) emerge che la richiesta di aggiornamento su argomenti di ematologia ed oncologia è molto modesta (10-12%), forse perché è un problema non ritenuto rilevante. La gestione del bambino affetto da neoplasia ha subito negli ultimi anni una evoluzione profonda, legata a molteplici fattori. La complessità crescente dei trattamenti, sempre più differenziati e modulati per intensità a seconda di specifici fattori di rischio, ha comportato un impegno sempre maggiore da parte dei Centri di Oncoematologia Pediatrica e ha reso evidente la necessità di stabilire una collaborazione con i pediatri di base. La conoscenza del bambino e della sua famiglia, il rapporto di fiducia che si è instaurato con gli anni, rendono indispensabile la partecipazione del pediatra a tutto il percorso diagnostico-terapeutico. L’iter di un bambino con patologia onco-ematologica è abbastanza complesso, dal momento dell’accoglienza, alla diagnosi, alla recidiva che può esitare in guarigione od exitus. LA DEPRESSIONE DEI GENITORI: ASPETTI PSICOLOGICI Mariagrazia Carone Bari Negli anni di esperienza psico-terapeutica sui sistemi umani, ed in particolare sulla famiglia, mi è capitato di approcciare spesso problemi psicologici e relazionali di familiari di piccoli pazienti (o ex pazienti) onco-ematologici. Quando mi è stato proposto di svolgere una consulenza per i bambini ricoverati in oncoematologia, tale evidenza mi ha ulteriormente rafforzata nell’idea di dover stilare un progetto che contemplasse un servizio a sostegno dell’intero nucleo familiare e, ove si fosse reso necessario, mirato alla ristrutturazione terapeutica dello stesso. Nell’ambito dell’Ambulatorio dell’U. O. “F. Vecchio” della Clinica Pediatrica A.O. Policlinico di Bari, è stato portato avanti un lavoro di ricerca, assieme agli oncologi pediatrici Nicola Santoro e Valerio Cecinati, alla psicologa Fara Dolce e ad un team di specializzandi medici e di psicologi tirocinanti, mirato a: verificare come i genitori percepiscono gli stati d’animo del figlio e come gli stessi vivono questa situazione problematica riscontrare eventuali correlazioni tra le difficoltà emozionali del figlio e gli stati ansiosi e depressivi dei genitori e capire quanto le difficoltà dei bambini siano associate al disagio psicologico dei genitori aiutare genitori e figli a confrontarsi con i disagi emotivi e relazionali collegati al manifestarsi della patologia onco-ematologica per agevolare una formulazione di richiesta di aiuto, mirata a prevenire l’insorgenza, immediata o dilazionata nel tempo, di possibili danni psicopatologici. Sono stati adoperati allo scopo i questionari di personalità auto-somministrati: SDQ (The Strength and Difficulties Questionnaire) di R. Goodman e SQ (Sympton Questionnaire) di R. Kellner. Il primo, mirato ad indagare la salute mentale e l’adattamento psicosociale di bambini ed adolescenti può essere proposto, oltre che a tutti i genitori di minori tra i 3 e i 16 anni, anche direttamente ai ragazzi tra gli 11 e i 16 anni. Si basa su 25 items, 10 dei quali centrati sull’esplorazione di eventuali punti di “forza”, 14 per evidenziare potenziali difficoltà ed 1 da intendere come “neutro”. Il test contempla cinque scale cliniche: a. scala dell’iperattività b. scala dei sintomi emozionali c. scala dei problemi di comportamento d. scala dei rapporti con i pari e. scala del comportamento prosociale. Accanto a tale strumento, già adoperato in precedenti ricerche in campo onco-ematologico, è stato utilizzato anche l’SQ, somministrabile solo ai genitori, per ottenere informazioni anche sul loro distress e sul loro vissuto relativo alla condizione del figlio ammalato. Esso si compone di 92 item suddivisi in quattro scale: Ansia, Depressione, Sintomi somatici, Rabbia/Ostilità. Il campione del presente studio era stato costituito da: 65 madri, 47 padri e 74 piccoli pazienti (45 tra i 3 e gli 11 anni, 29 tra gli 11 e i 16 anni). Dei 74 pazienti, 50 avevano terminato la terapia (25 dei quali tra 1 e 3 anni, 12 da 4 a 6 anni, 6 tra i 7 e 10 anni e 7 da meno di un anno), mentre 24 erano ancora in terapia. In totale hanno preso parte alla ricerca 186 persone. I dati sono stati espressi come medie e deviazioni standard. Per analizzare tutte le varie correlazioni è stato usato il G-test. È stato calcolato l’intervallo di confidenza del 95% e per ridurre il rischio di commettere errori di primo tipo, connessi alle correlazioni multiple e numerose. E’ stato scelto il livello di correzione alpha di 0.01, altrimenti il livello di significatività sarebbe settato a p<0.05. Per tutta l’analisi statistica è stato usato il “The Statistical Package for the Social Science” (SPSS 14.0), un programma statistico per Windows ampiamente utilizzato nelle ricerche in ambito sociale. Il 17.24% dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni riconosce le proprie difficoltà nella concentrazione e una certa tendenza all’impulsività. Un elevato punteggio (da 14 a 40), infatti, è stato ottenuto nella scala che valuta l’iperattività/disattenzione. Il 36.92% delle madri ha evidenziato difficoltà comportamentali e psicosociali nei loro figli contro il 27.65% dei padri. madre padre ragazzo Totale SDQ % 36,92% 27,65% 17,24% Scala dell’iperattività 3,8 3,4 3,2 Scala dei sintomi emozionali 2,7 2,5 2,2 Scala dei problemi di condotta 2,6 2,7 2,2 Scala del comportamento prosociale 8 8,5 7,4 Scala dei rapporti con i pari 2,4 2,2 1,6 Tabella 3: SDQ padre, madre, ragazzo Dall’elaborazione dei risultati, relativi alla somministrazione dell’SQ, si evince che i genitori, in particolare le madri (43% vs 23.4%), hanno ottenuto elevati punteggi nella scala che valuta l’ansia e in quella dei sintomi somatici. madre padre Ansia 8,84 5 Sintomi somatici 9,4 5,6 Depressione 6,7 4,5 Rabbia/ostilità 5,1 4,7 Totale SQ % 43% 23,4% Tabella 4: SQ genitori Abbiamo analizzato numerose correlazioni statistiche tra madre-bambino, padre-bambino e madre-padre, le più significative delle quali sono apparse quelle tra: • i sintomi emozionali manifestati dal bambino e i sintomi somatici e l’ostilità della madre • i punteggi nella scala che indaga il comportamento pro sociale dei bambini e quelli nella scala della depressione delle madri • i punteggi dei bambini nella scala dei rapporti con i pari e quelli nella scala dell’ansia e dell’ostilità delle madri • i punteggi dei bambini nella scala dei sintomi emozionali, dell’iperattività e il punteggio dei padri nella scala dell’ostilità • l’ SQ totale elevato dei padri e i problemi di iperattività, i problemi nei rapporti con i pari, i sintomi emozionali del bambino • l’ostilità del padre e l’ansia (49%), la depressione (55%), i sintomi somatici (67%) o altri problemi emozionali della madre • il riconoscimento da parte del padre della presenza di rapporti problematici tra il figlio e i suoi pari e la depressione (43% dei casi), l’ostilità (21% dei casi), l’SQ totale (43% dei casi) della madre • il riconoscimento da parte del padre della presenza di problemi di condotta nel figlio e il punteggio elevato nell’SQ totale della madre (43% dei casi). A seguito della restituzione dei risultati, hanno aderito ad un percorso psicoterapeutico 4 madri, 2 padri, 3 coppie genitoriali e 3 minori. I risultati della ricerca ci hanno indicato che, contrariamente a quanto comunemente ci si potrebbe aspettare, i genitori risultano più provati sotto il profilo emozionale rispetto agli stessi piccoli pazienti. Inoltre, le madri, che quasi sempre sono le caregiver, sono quelle a maggior rischio di sviluppo di psicopatologia. Esse, nel nostro studio, compaiono in numero maggiore rispetto ai padri nel campione, in quanto sono quelle che molto più spesso accompagnano il figlio per il controllo ambulatoriale. Inoltre, riconoscono in misura maggiore dei padri i disagi psicologici del figlio, mostrando anche un maggior grado di empatia nei suoi confronti poiché si focalizzano sulla sofferenza interiore del figlio, mentre i padri pongono più attenzione al disagio sociale causato dal suo comportamento: infatti, le madri del nostro campione risultano più attente ai problemi psicocomportamentali, mentre i padri notano ed evidenziano problemi relativi all’iperattività/disattenzione. Analizzando i dati offertici era facile aspettarsi la percentuale individuata dalla ricerca di disagi emotivi nei minori onco-ematologici; infatti, durante il decorso della malattia: • il bambino è sottoposto spesso a pratiche mediche dolorose ed invasive • il bambino perde per molto tempo il contatto con il suo ambiente, vuoi per i lunghi periodi di ospedalizzazione, vuoi per i timori di contagio legati alle insufficienze del sistema immunitario • i genitori sono spesso portati a sorvolare su molti aspetti educativi per “ricompensare” il bambino ammalato delle sue sofferenze e privazioni • si determina spesso un legame simbiotico con il caregiver, che può diventare deleterio per l’autonomia e la crescita psicologica dello stesso • alcuni dei farmaci usati per la cura, presentando un’elevata tossicità, determinano delle difficoltà per il pieno sviluppo delle abilità cognitivo-motorie • a volte, la malattia e le cure determinano delle mutilazioni, ecc. Tra i possibili motivi di lettura della sofferenza psicologica evidenziata dai dati relativi ai genitori possiamo notare che: • gli stessi, così come il bambino, si confrontano costantemente con il rischio di un decesso prematuro • l’intimità tra madre/caregiver e padre viene messa in difficoltà dai lunghi periodi di ospedalizzazione e, comunque, anche dall’ipercoinvolgimento successivo, che perdura anche successivamente alla dimissione, tra la madre ed un figlio che, per i problemi legati al deficit immunitario, può avere scarsi contatti con l’ambiente • viene a crearsi un nuovo equilibrio, in alcuni casi disfunzionale, tra il nucleo familiare e la famiglia allargata, poiché diventa necessario per la famiglia mobilitare nuove risorse per l’accudimento di altri figli • possono subentrare delle difficoltà lavorative ed economiche • i genitori possono nutrire la preoccupazione che gli altri figli si sentano defraudati della loro presenza e del loro sostegno, ecc. • • In particolare, per quanto concerne i caregiver: essi perdono per lungo tempo il contatto con il proprio ambiente lavorativo e sociale il loro rapporto con gli altri figli viene particolarmente messo in difficoltà, vuoi dai lunghi periodi di ospedalizzazione vuoi dall’ipercoinvolgimento con i problemi del figlio malato. TERAPIA DELLA DEPRESSIONE Ferrara Vito Acquaviva delle Fonti (BA) Cosa è la depressione Questo termine indica una "modificazione, passeggera o durevole, della disposizione affettiva fondamentale (cioè dell’umore) inquadrabile in una situazione patologica esistenziale". La depressione entro il 2020 sarà la seconda malattia più diffusa al mondo. L'Italia è un paese sempre più depresso. Cresce, infatti, rispetto al passato il numero degli italiani vittime della patologia; ne soffrono in media 17 italiani su 100 e ogni anno si verificano 250 casi in più, ogni 10 mila abitanti. A essere colpiti sono soprattutto donne e giovani. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato recentemente che entro il 2020 la depressione sarà una delle prime cause disabilitanti dopo le malattie cardiovascolari. Ma c'è un altro dato allarmante: la depressione colpisce sempre più i bambini (anche sotto i 10 anni), che cominciano a presentarne i primi segni, il più delle volte attraverso il dolore fisico. La soglia d'età della malattia si sta quindi abbassando in maniera preoccupante: ''Per quanto riguarda i bambini non esistono stime numeriche precise, mentre gli adolescenti depressi sono circa il 15-17%''. Un bambino su 5 soffre di disturbi mentali. E' il dolore il sintomo con cui molto spesso si manifesta la depressione. Si tratta di un dolore che non ha alcuna causa organica, ma che dipende da una componente emozionale. Spesso però questa componente non viene riconosciuta dal medico e la diagnosi quindi risulta scorretta. I dolori più denunciati dai depressi sono quelli lombari (circa il 40 per cento dei casi), poi quelli ai muscoli della nuca, i crampi addominali, il colon irritabile. Ma c'è un altro dato che preoccupa gli esperti: il tempo che intercorre fra l'insorgenza della depressione e il ricorso alle cure, che può raggiungere anche gli otto anni e nel caso della psicosi i dodici anni. Un ultimo dato: tra quanti soffrono di depressione, la metà non ha avuto diagnosi, mentre la metà dei pazienti che pur hanno ricevuto una diagnosi non riceve cure adeguate. EZIOPATOGENESI La depressione si presenta, dal punto di vista biologico, come una malattia sistemica, che coinvolge molteplici meccanismi. In primo luogo i ben noti sistemi neurotrasmettitoriali serotoninergici e noradrenergici, ma non meno importante è l'iperattività dell'asse ipotalamo ipofisi surrene e il ruolo dei corticosteroidi. Anche meccanismi immunologici sono chiamati in causa, soprattutto nelle forme legate a patologie organiche sistemiche. Da ultimo è rilevante l'azione dei fattori neurotrofici come il BDNF. Regole per prevenire la depressione 1) Non separare mai il bene dal male: rifiuta le classificazioni rigide che ti sono state insegnate da bambino (bene/male, vero/falso, buono/cattivo). Non giudicare, goditi la vita nella sua totalità di sfaccettature e angolazioni sempre diverse. 2) Sveglia il nuovo: non c’è nulla di immobile, tutto si muove, tutto è dinamico. Smetti dunque di resistere alle novità, lascia che la tua vita e la tua mente si rinnovino. Impara ogni giorno qualcosa di nuovo e renderai le tue giornate sempre diverse le une dalle altre. 3) Ritrova la semplicità: quando avrai una casa, un buon lavoro e una bella macchina nel garage, comincia a pensare né a ieri né a domani, ma al fatto che oggi potrebbe non occorrerti niente altro per essere felice. 4) Basta abitudini: basta con gli automatismi, ritrova il piacere di farti il caffè, di allacciarti con consapevolezza le scarpe, di assaporare fino in fondo le dolci sensazioni di una caramella. Non costringere la mente a ripetere quando potrebbe creare. 5) Metti in pratica i pensieri: fai cose pratiche, ritagliati del tempo per fare una torta, riordinare vecchie foto, tagliare il prato. Fai sforzi fisici per contrastare un’attività mentale spesso troppo lunga e portatrice solo di pensieri cupi. 6) Ridi: Il consiglio più prezioso, più grande. Non fare il presuntuoso, non essere troppo serio, l’ironia sprigiona energia e fa bene a tutto il corpo. Sdrammatizza dunque e non prendere troppo sul serio i personaggi che interpreti nella vita. DIAGNOSI E FORME DI DEPRESSIONE Disturbo depressivo maggiore (DDM) Noto anche come depressione unipolare e disturbo unipolare, si tratta di un disturbo depressivo episodico grave. I sintomi devono essere presenti per almeno due settimane e rappresentano una modificazione rispetto al funzionamento precedente. Più comune nelle donne che negli uomini (2:1). Variazione diurna dei sintomi con peggioramento nelle prime ore del mattino. Sono presenti rallentamento o agitazione psicomotoria. Associato a segni vegetativi e deliri congruenti con l'umore; possono essere presenti allucinazioni. Età mediana di esordio 40 anni, ma può manifestarsi ad ogni età. Disturbo distimico (precedentemente noto come nevrosi depressiva) Meno grave del DDM, è più comune e cronico nelle donne. Esordio insidioso. Si manifesta più spesso con storia di stress cronico o perdite improvvise; spesso coesiste con altri disturbi psichiatrici, ad esempio abuso di sostanze, disturbi di personalità e DOC. Dovrebbero essere presenti almeno due dei seguenti sintomi: scarso appetito, iperfagia, disturbi del sonno, facile affaticabilità, scarsa autostima, scarsa capacità di concentrazione o difficoltà nel prendere decisioni e sentimenti di disperazione, per almeno 2 anni. Depressione reattiva o reazione depressiva Da non confondersi con DDM, si ha quando i sintomi sono legati ad un evento scatenante (lutto, stress elevato). Si tratta di un fenomeno senza caratteri cronici (sintomi per meno di due mesi). Criteri del DSM-IV per la diagnosi dell'episodio depressivo maggiore Cinque o più dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi è costituito da umore depresso o perdita di interesse o piacere. a) Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto o come osservato da altri. b) Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno. c) Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell'appetito quasi ogni giorno. d) Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno. e) Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno. f) Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno. g) Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa quasi ogni giorno. h) Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi ogni giorno. i) Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici, oppure un tentativo di suicidio o l'elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio. I sintomi causano disagio clinicamente significativo o un'alterazione del funzionamento sociale, lavorativo, o di altre importanti aree, non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o a una condizione medica generale, non sono meglio giustificati da lutto, cioè dopo la perdita di una persona cara i sintomi persistono per più di due mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio. L'alterazione dell'umore è sufficientemente grave da causare una marcata compromissione del funzionamento lavorativo, o delle attività sociali abituali, o delle relazioni interpersonali, o da richiedere l'ospedalizzazione per prevenire danni a sè o agli altri, oppure sono presenti manifestazioni psicotiche. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale. La Depressione ed i sintomi correlati sono scarsamente riportati dai pazienti e, purtroppo, anche sotto-diagnosticati a livello clinico e, quindi, sotto-trattati a livello terapeutico. TERAPIA Gli interventi efficaci nel trattamento della depressione sono suddivisibili in due tipi principali: quello farmacologico e quello psicoterapeutico. Farmacologico I criteri di scelta sono diversi e molteplici ma sono affidati all’esperienza ed alla competenza del medico (o dello psichiatra). Ne possiamo citare qualcuno: • se nella sintomatologia prevale il rallentamento, l’inibizione psicomotoria, opteremo per farmaci più attivanti, disinibenti • se prevale la componente ansiosa, sceglieremo quelli più sedativi • se il soggetto tende a somatizzare, o se ha una comorbidità con il disturbo di panico, cercheremo di usare farmaci e dosi che potenzialmente diano meno effetti indesiderati • nelle depressioni gravi, la preoccupazione per gli effetti indesiderati può essere minore • negli uomini, dovremo tener conto dei possibili effetti sulla sfera sessuale e, negli anziani, dei problemi prostatici • nelle donne, dovremo preoccuparci di evitare o limitare l’incremento ponderale, della gravidanza e dell’allattamento • nei pazienti con disturbo bipolare, si dovranno evitare farmaci che favoriscono il viraggio verso la mania I primi farmaci furono scoperti verso la metà degli anni Cinquanta. Da allora numerosi sono stati gli antidepressivi immessi nel mercato. Non tutti hanno avuto successo, alcuni hanno resistito all’arrivo dei nuovi farmaci, altri sono usciti dal commercio perché o poco efficaci di per sé o perché surclassati dai nuovi arrivati o perché gravati da maggiori effetti collaterali. Generalmente gli antidepressivi si suddividono in gruppi in funzione della struttura chimica o del/i neuro-mediatore/i su cui agiscono. I gruppi principali sono: 1) gli inibitori delle monoaminoossidasi o I-MAO, tali farmaci inibiscono l'enzima monoamminossidasi che catabolizza la serotonina, la noradrenalina e la dopamina; i rischi nell'uso di questi farmaci risiedono nella loro cattiva interazione con i triciclici e con i cibi contenenti l'aminoacido tirosina. 2) gli antidepressivi triciclici o TCA, sono stati i farmaci antidepressivi più utilizzati; le amine terziarie hanno gravi effetti collaterali (stipsi, tossicità cardiaca, ansia, ipotensione ortostatica); le amine secondarie hanno effetti collaterali più lievi. Questi farmaci inibiscono il riassorbimento noradrenalina, serotonina o dopamina. 3) gli antidepressivi Atipci, e gli inibitori selettivi del reuptake di uno o più neuromediatori: gli SSRI: serotonin selective reuptake inhibitors, Inibitori selettivi del reuptake della serotonina, bloccano il riassorbimento della serotonina. Questi farmaci possono vantare il minor numero di effetti collaterali. i NaRI: noradrenalin reuptake inhibitors, gli SNRI: serotonin-noradrenalin reuptake inhibitors, i NaSSA: noradrenergic and specific serotonergic antidepressants, modulatori della trasmissione serotoninergica e noradrenergica. Queste terapie devono quindi avere come obiettivo l'intervento precoce, il raggiungimento di una remissione anche dei cosiddetti sintomi residui e una durata adeguata a prevenire le recidive, che risultano più serie e più complesse da curare. Efficacia della terapia farmacologica dopo circa sei settimane e dopo circa quattro mesi All’atto della prescrizione farmacologica è stato consigliato ai pazienti un controllo a distanza di un periodo di 4-6 settimane, tempo necessario per valutare l’efficacia dei farmaci sulla sintomatologia clinica. I riscontri sono stati estremamente positivi, nel senso che, in circa l’80% dei casi, si è avuto un miglioramento della depressione, dell’ansia e del dap. Si trattava di un miglioramento in linea con le attese, considerando che, nel primo mese di terapia, è stata data l'indicazione di una dose di farmaci bassa. Era comunque presente la chiara percezione soggettiva del miglioramento ottenuto e ciò determinava, da parte del paziente, un atteggiamento più positivo sul fatto di poter uscire dallo stato di crisi e quindi uno stato d’animo più fiducioso. Circa la metà trae beneficio nell’arco di un mese. Sospensione della terapia farmacologica dopo 6-8 mesi Per quanto riguarda le sospensioni del trattamento farmacologico dopo circa 6-8 mesi di cura, sono state riscontrate delle difficoltà, nel senso che molti pazienti sono resistenti a lasciare la terapia (ricordiamo che gli antidepressivi non danno dipendenza fisica). Il timore di fondo è che i sintomi tornino a manifestarsi. Psicoterapeutico Si è visto che i pazienti rispondono positivamente alle terapie cognitive/comportamentali/psicodinamiche di gruppo o individuali purché brevi. L'ampia letteratura a suo sostegno e la preferenza manifestata dai pazienti, fanno oggi optare più favorevolmente per la psicoterapia cognitiva della depressione che lavora sul nucleo della malattia, ovvero l'ideazione depressiva (teoria interpretativa della realtà molto stereotipata da parte del paziente). La psicoterapia cognitiva consiste nel: far rendere conto al soggetto di questa stereotipia interpretativa attraverso l'uso di diari personali. Il paziente per ogni episodio depressivo significativo deve descrivere l'antecedente e il suo conseguente comportamento. ristrutturazione cognitiva: modifica delle convinzioni stereotipate del paziente. Terapia elettroconvulsivante Benché i meccanismi che la rendono efficace siano ancora sconosciuti, l'induzione di convulsioni di 25-30 sec. attraverso elettrodi, si è dimostrata efficace contro la depressione. Tuttavia essa è sconsigliabile nel caso siano presenti lesioni al SNC associate a pressione endocranica, con problemi cardiovascolari e in concomitanza all'uso di farmaci ipertensivi e antidepressivi. Conclusioni Innanzi tutto, va rilevata la difficoltà di contatto tra chi soffre di disturbi depressivi e d’ansia e lo specialista neuro-psichiatra a causa di pregiudizi profondi e radicati sia nei confronti del tipo di disturbo, sia nei confronti di questa figura professionale. Pregiudizi investono anche gli psicofarmaci, da alcuni ritenuti come droghe che creano dipendenza, da altri investiti, al contrario, di valenze magico-salvifiche. I dati scientifici attestano che, una volta superate le varie barriere pregiudiziali, l’intervento farmacologico ha altissime probabilità di successo: in circa il 90% dei casi è, infatti, efficace sulla sintomatologia clinica. L’intervento con i farmaci va in ogni caso considerato un intervento da effettuare nella fase acuta del disturbo, per un periodo limitato di tempo. Nella fase successiva devono essere presi in esame gli elementi causali che l’hanno determinata. E’ fondamentale, in questa fase, la collaborazione tra il medico e il paziente, poiché gli elementi causali variano da caso a caso. La loro individuazione è molto importante, poiché da essa derivano le successive indicazioni terapeutiche. Per affrontare il malessere psichico è necessario mettere in atto una strategia terapeutica, la prima fase della quale è spesso, ma non sempre, di tipo farmacologico. Ad essa deve seguire un’indicazione personalizzata che non è assolutamente possibile standardizzare, poiché dipendente dalla storia, dalla personalità e dalla vita affettiva della singola persona. TERAPIA MEDICA Bruno De Bernardi Genova TERAPIA Il trattamento dei bambini con neuroblastoma dipende da 3 fattori principali: l’età, l’estensione della malattia (stadio) e dal numero di copie dell’oncogene MYCN. Le modalità terapeutiche correntemente adottate sono chirurgia, chemioterapia e radioterapia e, nei tempi più recenti, dalla terapia differenziativa, che viene somministrata ai pazienti ad alto rischio, una volta acquisita la remissione completa della malattia. La possibilità di guarigione del neuroblastoma con l’approccio multidisciplinare sopra indicato, è tuttora insoddisfacente. Si spiega il grande sforzo dei pediatri oncologi e dei ricercatori per identificare nuove e più efficaci terapie. Chirurgia La chirurgia viene utilizzata sia a scopo diagnostico che per il trattamento dei pazienti. Il primo approccio chirurgico (chirurgia primaria) ha i seguenti obiettivi: 1. asportare il tumore primitivo, in assenza di fattori di rischio chirurgico documentati dagli studi radiologici; 2. definire l’estensione tumorale; 3. fornire all’anatomopatologo ed al biologo una quantità sufficiente di tessuto tumorale. Nella chirurgia secondaria (second look), il chirurgo interviene per resecare un tumore che la chemioterapia ha ridotto di dimensioni, riducendo i fattori di rischio. La chirurgia è solitamente l’unica terapia, in assenza di fattori biologici sfavorevoli, nei pazienti con tumore localizzato, anche se l’intervento non è stato radicale e ha lasciato quindi residui micro- o macroscopici. Recentemente, si è ipotizzato che il tumore localizzato scoperto nei primi mesi di vita possa essere oggetto di osservazione longitudinale, in considerazione della sua tendenza alla regressione spontanea a questa età. Radioterapia Benché il neuroblastoma sia considerato un tumore radiosensibile, il ruolo della terapia radiante nell’approccio terapeutico complessivo è ancora mal definito. Tuttavia, in presenza di amplificazione dell’oncogene MYCN, si ritiene attualmente che la sede del tumore primitivo debba essere sottoposta a radioterapia. Nei casi di malattia stadio 4 invece, non è ancora definito se la radioterapia possa ridurre il rischio di recidiva locale. Altre condizioni cliniche che potrebbero trarre beneficio dalla terapia radiante sono: 1. l’ingrandimento progressivo delle dimensioni epatiche nei casi 4s; 2. un quadro di compressione midollare sintomatico; e 3. la presenza di lesioni metastatiche ossee che causano sintomatologia dolorosa. La radioterapia metabolica con MIBG associata a Iodio-131 può avere efficacia nell’eradicazione di residui tumorali locali, e forse anche di focolai metastatici ossei isolati. Chemioterapia La chemioterapia è la principale modalità terapeutica del neuroblastoma nei pazienti con malattia a rischio intermedio o elevato. Negli ultimi tre decenni sono stati identificati vari farmaci efficaci su questo tumore, come risultato di studi di fase 1 e 2, eseguiti su bambini con malattia non responsiva o recidivata. Questi studi hanno identificato sostanze ad azione diversa, ed in particolare: 1. veleni del fuso mitotico (es. vincristina), 2. agenti alchilanti (es. ciclofosfamide ), 3. analoghi del platino (es. carboplatino), 4. podofillotossine (es. etoposide), 5. prodotti naturali o semisintetici (es. doxorubicina) che agiscono con diverso meccanismo d’azione. Combinando questi farmaci i ricercatori clinici hanno disegnato protocolli polichemioterapici con i quali si sono ottenute risposte tumorali di crescente entità, anche se la percentuale di guarigione dei pazienti è rimasta insoddisfacente, e comunque inferiore a quelle ottenute nella maggior parte dei tumori infantili. Tra le recenti acquisizioni della ricerca farmacologica antitumorale, va segnalato il Topotecan, un inibitore della topoisomerasi 1, che ha un’elevata attività in pazienti con neuroblastoma recidivato. Altri farmaci, in particolare l’irinotecan e la combinazione di melphalan e butionina sulfoximide appaiono promettenti e sono in corso di studio. Va segnalato infine l’uso orale dell’etoposide, che si è dimostrato particolarmente efficace come farmaco palliativo, anche per la sua modesta tossicità. Terapia guidata da fattori di rischio Un notevole sforzo si è fatto nell’ultimo decennio per adattare la terapia del neuroblastoma alla presenza di fattori che predicono un cattivo andamento clinico, che incrementano cioè l’insorgenza di recidiva. A tale scopo, la maggioranza dei gruppi clinici che nel mondo si occupano di neuroblastoma hanno collaborato per creare un comune database e hanno così costruito uno schema operativo che costituisce la base per studi riguardanti sottogruppi di pazienti a rischio basso, intermedio ed elevato. Basso rischio La sopravvivenza per i pazienti di questo gruppo è superiore al 95%. Vi sono inclusi tutti i bambini di stadio 1 e quelli di stadio 2A/2B e di stadio 4s, purchè senza amplificazione del gene MYCN. I pazienti di stadio 1, 2A/2B sono trattati solamente con chirurgia e la chemioterapia è indicata unicamente in caso di recidiva. I pazienti di stadio 4s che non presentano sintomi alla diagnosi non ricevono alcuna terapia e sono quindi sottoposti ad osservazione longitudinale, mentre quelli sintomatici (soprattutto di stress respiratorio secondario ad epatomegalia), richiedono chemioterapia fino a regressione dei sintomi stessi. Il Gruppo Europeo Neuroblastoma (SIOPEN) ritiene che la definizione di Basso Rischio possa essere estesa ai bambini di età inferiore all’anno di stadio 4, purchè non presentino metastasi al polmone, sistema nervoso centrale e scheletro, intendendo per interessamento scheletrico la positività scintigrafia associata ad alterazioni radiologiche. Rischio intermedio La possibilità di guarigione di questi pazienti è superiore all’80%. Vi sono inclusi tutti i bambini con tumore primitivo inoperabile e bambini di età inferiore all’anno, con stadio 4 metastatico al polmone, allo scheletro, e al sistema nervoso centrale. Ambedue questi gruppi di pazienti ricevono chemioterapia allo scopo di ridurre la massa tumorale e, nel secondo caso, di eradicare la malattia metastatica. Alto rischio La sopravvivenza di questi pazienti è inferiore al 30%. Si tratta di bambini di stadio 4, di età superiore all’anno e di stadio 2, 3 e 4s con l’amplificazione dell’oncogene MYCN. La cattiva prognosi di questi pazienti ha indotto a disegnare protocolli terapeutici aggressivi che includono chemioterapia ad alte dosi seguita da inclusione di cellule staminali emopoietiche autologhe. Questi pazienti ricevono anche radioterapia sul letto tumorale dopo l’intervento chirurgico. Questi pazienti ricevono poi acido retinoico orale sulla base della dimostrazione che questa sostanza induce effetto differenziativo su cellule tumorali in coltura. Uno studio randomizzato del Children’s Cancer Group ha inoltre dimostrato che anche in vivo questa terapia produce effetti benefici. NUOVE TERAPIE La ricerca di farmaci e strategie terapeutiche innovative è necessaria e dovrebbe essere attivamente perseguita per migliorare la prognosi dei pazienti con neuroblastoma ad alto rischio. Retinoidi I retinoidi sono derivati della Vitamina A che includono l’acido all-trans-retinoico (ATRA), l’acido 9-cis retinico (RA), l’acido 13-cis retinico, e la N-(4-idrossifenilretinamide) (HPR), nota anche come fenretinide. L’acido 13-cis retinico è un componente dei protocolli per pazienti ad alto rischio. Il suo presunto meccanismo d’azione è quello di indurre la differenziazione delle cellule tumorali residue dopo trapianto di midollo autologo e chemioterapia ad alte dosi. L’HPR è un potente induttore di apoptosi per cellule di neuroblastoma in vitro. In uno studio di fase l’HPR è stata somministrata per via orale per periodi fino a 28 giorni con buona tollerabilità e scarsa tossicità. I livelli plasmatici del farmaco erano comparabili a quelli capaci di indurre apoptosi in vitro delle linee di neuroblastoma. Questi risultati sono stati confermati in uno studio successivo di fase I in cui la fenretinide è stata somministrata per via orale a 54 bambini affetti da tumori solidi ad alto rischio, 39 dei quali affetti da neuroblstoma. Anticorpi monoclonali diretti contro antigeni tumore-associati Anticorpi monoclonali murini e chimerici specifici per il ganglioside GD2 sono stati testati in trias clinici di fase I-II. I meccanismi tramite i quali gli anticorpi anti-GD2 uccidono le cellule tumorali dipendono dall’attivazione del complemento e della citotossicità cellulare mediata da anticorpi (ADCC). Proteine di fusione Una proteina di fusione in cui la citochina interleuchina 2 (IL-2) è stata fusa ad un anticorpo antiGD2 (EMD 273063) ha dimostrato un’eccellente attività anti-neuroblastoma in modelli pre-clinici legata al reclutamento di linfociti T e cellule NK attivati nella massa tumorale. In un recente studio di fase I la proteina di fusione si è dimostrata ben tollerata e capace di attivare il sistema immunitario del paziente. Terapia genica Tutti gli studi clinici condotti fino ad oggi hanno arruolato pazienti con malattia avanzata o refrattaria, che sono stati vaccinati con cellule tumorali autologhe o allogeniche trasfettate con geni di citochine (IL-2, IL-2 e linfotactina) usando diversi protocolli. Complessivamente sono stati trattati 42 pazienti in 4 studi pubblicati usando vaccini e schemi terapeutici differenti. Nel sangue periferico dei bambini vaccinati è stata dimostrata chiaramente l’attivazione del sistema immunitario sotto forma di eosinofilia indotta da IL-2, generazione di linfociti T citotossici e anticorpi anti-tumore. Terapia anti-angiogenica Il grado di vascolarizzazione nel neuroblastoma è associato a cattiva prognosi e l’elevata espressione di fattori pro-angiogenici, specialmente di Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF), è stata dimostrata negli stadi avanzati di questo tumore. Il bevacizumab (Avastin) è un anticorpo monoclonale umanizzato anti-VEGF dotato di attività anti-angiogenica ed anti-tumorale in modelli preclinici attualmente utilizzato in molti trial clinici. Al momento Avastin non è stato sperimentato in trial con pazienti affetti da neuroblastoma. Imatinib mesilato (ST571 o Gleevec) è un inibitore selettivo della tiroxina chinasi Abl in cellule di leucemia mieloide cronica che blocca anche le attività tirosino-chinasiche di c-Kit (il recettore per stem cell factor) e del recettore per platelet derived growth factor (PDGFR). Imatinib inibisce la crescita di cellule di neuroblastoma sia in vitro sia in vivo in virtù della loro espressione di ckit e PDGFR a e b. L’inibizione è legata alla soppressione della fosforilazione di c-Kit o PDGFR ed all’inibizione dell’espressione di VEGF, risultante nella compromissione della neoangiogenesi tumorale. Pertanto Gleevec è candidato promettente per il trattamento del neuroblastoma. Targeting liposomiale di tumore e vasi tumorali Liposomi rivestiti di anticorpi monolclonali anti-GD2 o peptici capaci di legare specificamente i vasi del tumore sono stati usati in alcuni modelli preclinici per veicolare sulla massa neoplastica alcune molecole ad attività anti-neuroblastoma come retinoidi, farmaci citotossici e oligonucleotidi antisenso. Questa strategia terapeutica risparmia i tessuti sani dalla tossicità dei farmaci che vengono indirizzati al tumore. TERAPIA CHIRURGICA Antonino Rizzo Bari Il ruolo del chirurgo si realizza nel contesto multidisciplinare – alla diagnosi • Biopsia, o exeresi • Posizionamento di CVC – dopo “preparazione” chemioterapica • Exeresi, o biopsia – nella osservazione longitudinale • Complicanze in corso di terapia • Complicanze a lungo termine – analisi critica del ruolo della chirurgia Neuroblastoma Quesiti chirurgici in corsi di studio • Definizione dei fattori di rischio (studio europeo in corso) • L’asportazione radicale della neoplasia è sempre necessaria? • La resezione del tumore primitivo è utile nello stadio 4s? L’Unità di Pediatria, oltre ad offrire standard terapeutici ottimali ai bambini e adolescenti con patologie tumorali, è coinvolta in progetti di studi clinici a livello nazionale e internazionale con la finalità di identificare programmi di trattamento correlati alle caratteristiche biologiche di ogni specifica malattia. In aggiunta a questo aspetto squisitamente scientifico, l’equipe terapeutica rivolge un’attenzione particolare alla necessità di realizzare con le famiglie dei giovani pazienti l’indispensabile “alleanza terapeutica” per consentire a bambini e adolescenti ammalati una vita quotidiana fatta di rapporti familiari, gioco e studio sia in ospedale, sia nelle successive fasi di cure e controlli ambulatoriali. Questa strategia è condivisa da tutta l’equipe nella quale, accanto a medici e infermieri, lavorano insegnanti, educatori, operatori psico-sociali e volontari. La ricerca clinica è particolarmente attiva nei seguenti ambiti: rappresentano più del 50% delle patologie ogni anno diagnosticate presso l’Unità di Pediatria e sono secondi solo alle leucemie come frequenza fra le neoplasie infantili. In questo ambito sono in corso per i diversi istotipi studi mono o multi-istituzionali che intendono migliorare le probabilità di sopravvivenza o indagare nuovi approcci terapeutici per le forme meno responsive. Il protocollo istituzionale per i bambini maggiori di 3 anni affetti da medulloblastoma/PNET localizzato ha permesso di ottenere percentuali di EFS e OS a 3 anni rispettivamente del 70% e 78%. Lo studio multicentrico italiano per l’ependimoma ha evidenziato una prognosi migliore per i pazienti con istotipo classico (PFS 76%, OS 90%) rispetto a quelli con istotipo anaplastico (PFS e OS del 35% e 45%, rispettivamente), consentendo così di disegnare un nuovo programma di ricerca basato su tale stratificazione istologica. LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI IN ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA Momcilo Jankovic Monza (MI) Il malato, prima di essere “un caso clinico” è una persona e quindi è molto importante che il medico abbia una carica di umanità nell’approccio al paziente tanto più se è “un piccolo paziente” ed è altrettanto importante che tale approccio sia un insieme di comunicatività e di cuore. Una volta in ospedale, o meglio, ogni volta che hanno iniziato un processo diagnostico e terapeutico, il bambino malato e la sua famiglia non devono essere lasciati soli con le loro angosce, le loro incertezze, i fantasmi delle loro fantasie, ma deve iniziare per loro un cammino il più strutturato e supportato possibile: è essenziale creare con loro una comunicazione franca e aperta che li aiuti a capire e gestire la malattia, facendo comunque ricorso soprattutto alle capacità di ciascun componente della famiglia. Le energie di ognuno vanno perciò fatte confluire verso un obiettivo concreto comune: la vera guarigione della malattia, sia essa grave o meno grave, acuta o cronica, e il raggiungimento di quella che definiamo oggi con tanta enfasi la maggior qualità di vita possibile. Le modalità con cui instaurare e realizzare tale comunicazione nelle varie fasi di una malattia costituiscono ancor oggi motivo di controversia e incertezza. La comunicazione medico-paziente è una comunicazione sbilanciata, in quanto esiste solamente in uno dei due interlocutori (il paziente) un evidente stato di necessità. Di conseguenza è il medico (soggetto “forte” all’interno del processo) ad avere la maggior responsabilità del successo o meno della comunicazione. La comunicazione medico-paziente avviene solitamente in modo diretto ed è quindi una comunicazione ricca di informazioni verbali e non verbali. Se l’obiettivo del medico è, come naturale che sia, quello di facilitare il processo di comunicazione, questi dovrà essere particolarmente attento a trasmettere verbalmente ed extraverbalmente messaggi coerenti che non pongano il suo interlocutore nella condizione di dover decidere quali interpretare come più significativi. L’interlocutore sarà poi attentissimo a cogliere ogni sfumatura del messaggio che proviene dal suo medico e riempirà ogni “vuoto comunicativo” di interpretazioni sue. Interpreterà i silenzi, le incertezze, l’aggrottare della fronte, così come anche eventuali differenze dal modo di comportarsi abituale del medico. Non considererà mai che il medico è un individuo come lui e che quindi è portatore (indipendentemente dall’immutata professionalità con la quale svolgerà il suo lavoro) di stati d’animo contingenti e personali che potranno, in momenti diversi, renderlo più o meno affabile, più o meno loquace… D’altro canto anche il medico dovrà essere attento a recepire dal paziente non solo quanto questi gli stia dicendo a parole, ma anche i messaggi non verbali che possono, con discreta probabilità, non essere coerenti. Quanto più la comunicazione sarà ricca di feedback, ovvero di verifiche, domande, richieste di chiarimenti e di precisazioni, tanto più sarà difficile, per il paziente, dissimulare a parole ciò che in realtà pensa o sente. La maggior difficoltà nel comunicare una diagnosi o meglio un “progetto di cura” non è tanto nel “cosa” dire ma nel “come” dirlo, e con quanti dettagli: anche il bambino richiede e merita rispetto. Molti genitori trovano difficile parlare ai propri figli, specie se piccoli, di argomenti o malattie “gravi” o comunque a prognosi incerta e questo rende ancora più necessario un intervento convinto e convincente dell’operatore sanitario. Infatti il genitore ha paura a rivelare tutto al bambino; il mistero attiva nel bambino le fantasie più negative; il genitore traduce le fantasie negative del bambino in stress e il bambino pur realizzando che qualcosa non va bene tace per non fare del male al genitore. Non è un “gioco” ma un insieme di situazioni nelle quali occorre mettere ordine per costruire al meglio per i genitori e per il figlio quel progetto di cura che sta alla base dell’interruzione del “circuito chiuso” che viene a crearsi. Essere “trasparenti” vuol dire saper comunicare, e saper comunicare vuol dire mettere in comune qualcosa, quindi dare ma saper anche ricevere da loro ... e i bambini danno molto. I bambini non dimentichiamolo sono i migliori maestri; il loro insegnamento però è molto spesso non verbale e quindi va accolto e ricercato nel loro modo di “essere” e di star loro vicini. Facciamo riferimento alla patologia oncologica più frequente, la leucemia, e alla sua modalità di comunicazione di diagnosi. I punti essenziali del procedere, consolidati nel corso degli anni, sono così riassumibili: 1. Comunicazione ad entrambi i genitori del progetto di cura da parte del responsabile del Centro (direttore) o di un responsabile clinico da lui delegato; presenza anche del medico di reparto, di un’infermiera e se possibile del pediatra di famiglia; l’ambiente di colloquio deve essere tranquillo, senza telefono, e con l’obiettivo di registrare l’incontro (della durata media di 40 minuti). 2. Dato che il Centro periferico non può avere gli elementi completi (tipizzazione immunologica, biologia molecolare) per formulare il cosiddetto “progetto di cura” (appropriatezza del protocollo di assegnazione e conseguente “iter terapeutico”) è giusto che, se ha la certezza che si tratti di una leucemia/tumore, lo comunichi ai genitori; deve essere motivata la necessità di essere impostati e seguiti da un Centro di riferimento, mentre il Centro periferico si comporterà da Centro “satellite” per controlli ed esecuzione di alcune terapie su indicazione del Cento di riferimento stesso. Qualora invece il Centro periferico non abbia elementi per poter parlare di leucemia/tumore è sufficiente riferire il bambino ad un Centro maggiore parlando di “anemia” da inquadrare o, comunque, di “malattia del sangue” o “massa” da identificare. Alla domanda: ma può essere leucemia/tumore? Non escluderla, ma nemmeno confermarla: l’incertezza, in questi casi, è preferibile ad una certezza dubbiosa. 3. Il medico, da solo o insieme ad un’infermiera o a un giovane medico, parla al bambino e agli eventuali fratelli. I genitori sono volutamente esclusi dalla presentazione. La metodologia utilizzata è quella “dialogata”; viene fatta la comunicazione con il supporto di un set di 25 diapositive (trasferite più recentemente su un libretto per facilità di somministrazione), molte delle quali sono cartoni animati, nelle quali il processo patologico (la malattia) viene illustrato con un’analogia con un giardino fiorito: gli elementi che rendono bello un giardino, i fiori, le piante e l’erba come quelli che rendono funzionale il midollo, i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine sono minacciati rispettivamente dalle erbacce (ortiche) e dai blasti (cellule cattive) che crescendo spontaneamente rovinano il giardino e il midollo. Il giardiniere per un po’ di tempo deve strappare le erbacce come il medico, tramite i farmaci per bocca o endovena deve distruggere i blasti. Pur rispettando la volontà dei genitori, è stato previsto di chiamare la malattia con il suo vero nome (leucemia, tumore). La comunicazione al bambino ha una durata massima di 15 minuti, quindi volutamente breve per non infastidirlo troppo. 4. La comunicazione viene eseguita nei primi giorni dall’ingresso in ospedale dopo che è stata fatta la comunicazione ai genitori (che vengono ovviamente informati della metodologia e sui contenuti che verranno presentati ai bambini) e soprattutto nel rispetto delle sue condizioni cliniche (che devono prevedere la sua partecipazione dialogata). 5. Il bambino (ed eventuali fratelli) viene sollecitato a riferire ai genitori quello di cui si è parlato insieme; ai più piccoli viene richiesto un disegno e ai più grandicelli un temino sui contenuti discussi insieme: tutto ciò che ha il compito di “aprire” la comunicazione intrafamiliare. Da circa 5 anni, sempre con l’approvazione dei genitori, vengono coinvolti nella comunicazione della diagnosi anche i fratelli. Si parla quindi al bambino della sua malattia insieme ai fratelli (si è arrivati a parlare a 6 bambini di diverse età tutti insieme!) che vengono personalmente, o tramite genitori, invitati ad esserci. La metodologia è quella sopraindicata e anche a loro, compatibilmente con l’età, viene richiesto un temino o un disegno, e comunque di spiegare il tutto ai genitori insieme al fratellino (o sorellina) malato. Il processo di comunicazione inizia con la diagnosi ma, rispetto alla fase dell'anamnesi, è a ruoli invertiti, cioè il pediatra è il trasmittente ed il genitore (ed eventualmente il bambino) il ricevente. Il medico deve essere particolarmente attento a recepire il feedback (e se questo non sorge spontaneo deve essere pronto a sollecitarlo), per rendersi perfettamente conto se, cosa e quanto del messaggio da lui trasmesso è stato recepito. E’ molto frequente che il genitore, già prima di far intervenire il medico, abbia elaborato una “sua" diagnosi sulla base di convinzioni personali, di reale o presunta esperienza empirica, di colloqui con amici e parenti, di notizie lette o sentite da qualche parte. In questo caso, se la diagnosi del pediatra dovesse casualmente coincidere con quella ipotizzata dal genitore o quantomeno "contenerla", l'accettazione sarà facile, mentre lo sarà molto meno se dovesse smentirla o se dovesse contenere degli elementi che il genitore potrebbe essere portato a leggere come conseguenza di una sua negligenza. Lo stesso iniziale rifiuto, istintivo, può avvenire in caso venga diagnosticata una patologia grave o dall’esito incerto. In questo momento il processo di comunicazione vive la sua fase più critica. Il genitore è riluttante nell'accettare la diagnosi del medico, d'altra parte è cosciente di non potersi sostituire ad esso ed inoltre, per quanto si senta legittimato a rappresentare il figlio in tutto e per tutto, sente di non potersi assumere la responsabilità, nei confronti di una terza persona, di far prevalere il suo parere su quello del medico. A questo punto, se il medico ha avuto già il modo ed il tempo di instaurare un buon rapporto di fiducia, potrà spendere l'autorità che da questa fiducia gli deriva; altrimenti, dovrà fronteggiare la reazione del genitore. Il genitore ha, per dirla in termini scacchistici, due "mosse”: una è la delegittimazione del medico. Naturalmente non una delegittimazione sul piano professionale, anche perché è consapevole di non avere gli strumenti oggettivi per poterlo fare, ma dal punto di vista comportamentale. L’altra mossa è quella di cercare di far regredire il processo di comunicazione alla fase dell’anamnesi ritornando soggetto trasmittente e aggiungendo ulteriori informazioni che ritiene funzionali a far propendere per la "sua" diagnosi. La prima "mossa" dovrà essere prevenuta: nella comunicazione diretta sono di fondamentale importanza, al di là delle parole, i comportamenti, ed è a questi che il medico dovrà porre sempre la massima attenzione. Il suo approccio alla comunicazione sarà sempre inevitabilmente valutato alla stessa stregua (se non con peso maggiore) delle sue capacità professionali. Alla seconda "mossa" si potrà rispondere attivando una comunicazione a due vie con il genitore che lo rassicuri sull'efficacia e la funzionalità del suo contributo informativo per l'elaborazione della diagnosi. Valorizzando il ruolo del genitore in fase di anamnesi, il pediatra protegge il proprio ruolo in fase di diagnosi. La possibilità di comunicare la diagnosi anche al bambino, sempre che questi sia in grado di poterla comprendere, dipende dalla accettazione, da parte del genitore, che ciò avvenga. La cosa risulta comunque auspicabile dal punto di vista della efficacia della comunicazione. Se la diagnosi viene comunicata solo al genitore, il bambino esce dal processo di comunicazione. Il genitore ha, a questo punto, il controllo esclusivo del rapporto col bambino. Se la diagnosi viene, viceversa, comunicata anche al bambino o all’adolescente, il pediatra avrà due interlocutori distinti. La comunicazione della diagnosi è uno dei momenti più delicati nel rapporto medico-paziente o, come nel caso della pediatria, medico-genitore-bambino e deve quindi essere affrontato nel migliore possibile dei modi. Innanzi tutto, nessuna fretta. Meglio qualche ora o qualche giorno di ritardo nella sua comunicazione, che non anticiparla a quando il medico, seppur già relativamente sicuro, non ha ancora in suo possesso la totalità degli elementi necessari ad una formulazione completa. E poi è importantissimo che il medico abbia la consapevolezza che comunicare la diagnosi non significa informare qualcuno di qualcosa, ma significa «mettere in comune”, "condividere", con i genitori, ma anche con il bambino, il risultato al quale egli è giunto. Naturalmente non tutte le diagnosi che un pediatra deve comunicare riguardano patologie importanti e/o dall'esito non scontato, ma qualora si sia in uno di questi casi bisogna avere sempre l'accortezza di comunicarla contemporaneamente ad entrambi i genitori, se non anche a qualche altro parente particolarmente vicino al bambino (ad esempio qualche nonno). Questo perché è da evitare che uno dei due genitori sia informato, in modo indiretto, dall'altro, con il rischio che l'informazione trasferita non sia completa e corretta o risenta del carico emozionale che inevitabilmente il genitore "informato" porta con sé. Ma cosa va detto ai genitori? Senz'altro "cos'è" la malattia (e non solo qual è il suo nome), quale percorso sarà necessario intraprendere per affrontarla e alcune indicazioni riguardo la prognosi. Legare immediatamente la comunicazione della diagnosi al cosiddetto "progetto di cura" è di grande importanza, perché dà la sensazione ai genitori che c'è il modo di intervenire e che il loro medico è già proiettato verso questo obiettivo. In caso di patologie impegnative (pensiamo ad esempio, come riportato, ad una leucemia) sarebbe sempre indicato coinvolgere al momento della comunicazione della diagnosi anche il pediatra curante del bambino: questi potrà essere un utilissimo alleato nel sostenere la famiglia durante il percorso terapeutico. Oggi sta anche consolidandosi la tendenza a registrare la comunicazione della diagnosi, ovviamente previa autorizzazione, e fornire ai genitori la "cassetta" in modo che possano eventualmente risentire con calma alcuni passaggi. Senza considerare che la registrazione può essere anche uno stimolo, per il medico, a farla "al meglio". A questo punto sorge l'impegnativo dilemma se comunicare o meno al bambino, nei termini nei quali è in grado di comprenderlo, che ha una determinata malattia e che pertanto dovrà, per guarire, affrontare delle cure. La risposta è senz'altro sì. Innanzi tutto, glielo si dica o meno, il bambino percepisce comunque, già dai primissimi momenti, che c'è qualcosa che "non va" e che lo riguarda. Lo legge, molto più facilmente di come forse immaginiamo, negli occhi, negli atteggiamenti dei suoi genitori e familiari, e questa aurea di mistero lo può portare a considerare la sua malattia ancora più grave di quanto non sia. La comunicazione al bambino è, comprensibilmente, un momento delicatissimo. In pochi minuti (sappiamo come la soglia di attenzione di un bambino sia di brevissima durata) dobbiamo "raccontargli" la sua malattia utilizzando modelli (che devono essere adattati da soggetto a soggetto) a lui comprensibili; dargli sicurezza circa la possibilità di superarla attraverso cure che però devono durare "un certo tempo" (inutile dare indicazioni precise ma prepararlo - nei casi di malattia cronica - a qualcosa che non si risolve immediatamente); giustificare ai suoi occhi alcune trasformazioni che potranno riguardare il mondo che lo circonda (genitori preoccupati, abitudini familiari modificate) e, soprattutto, rassicurarlo sulla "spontaneità" della malattia, per prevenire i sensi di colpa che molto frequentemente il bambino si addossa quando è colpito da una malattia, attribuendola ad una conseguenza a suoi comportamenti, quando non addirittura ad una "punizione". Non tutte le diagnosi riguardano patologie gravi. Il pediatra si trova molto più spesso - fortunatamente - a diagnosticare patologie di lieve entità e certamente benigne. La comunicazione della diagnosi perderà, in questi casi, molto della drammaticità qui descritta (certo non registreremo la comunicazione di una diagnosi di bronchite), ma ciò che invece non deve cambiare mai è lo spirito, da parte del pediatra, con il quale la si affronta. La comunicazione della diagnosi non deve essere considerata un "momento", ma l'inizio di un processo di comunicazione che terminerà quando tutto il decorso della patologia, sia pure una banale influenza, sarà compiuto. ASSISTENZA DOMICILIARE AL BAMBINO CON NEUROBLASTOMA Pierangela Rana Bisceglie (BA) L’assistenza domiciliare al bambino oncologico non è regolata da alcun codice. È un’ assistenza domiciliare ordinaria. È affidata esclusivamente al tipo di rapporto tra la famiglia e il pediatra. La famiglia, una volta diagnosticata la malattia, si affida al parere dell’oncologo per ogni sintomo, anche i compiti specifici (per es eparinizzazione del Broviac) vengono eseguiti dagli stessi genitori adeguatamente addestrati dal personale ospedaliero. Il pediatra viene interpellato in caso di malattie intercorrenti se lo specialista lo richiede espressamente. Provvede alla compilazione delle richieste di farmaci ed esami necessari per il follow up. L’assistenza domiciliare da parte del pediatra è condizionata da: 1. coinvolgimento emotivo delle parti 2. disponibilità del pediatra al sostegno della famiglia 3. conoscenza sufficiente della malattia per una informazione empatica sul decorso 4. presenza e sostegno nelle fasi terminali. ASSISTENZA DOMICILIARE NEL PAZIENTE ONCOLOGICO Luca Manfredini - Lucia Derosas Genova DEFINIZIONE DELLE CURE DOMICILIARI Le cure domiciliari (così come definito dal documento del Ministero della Salute) consistono in trattamenti medici, infermieristici, riabilitativi, prestati da personale qualificato per la cura e l’assistenza alle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità, con patologie in atto o esiti delle stesse, per stabilizzare il quadro clinico, limitare il declino funzionale e migliorare la qualità della vita quotidiana. Il livello di bisogno clinico, funzionale e sociale deve essere valutato di volta in volta attraverso idonei strumenti che consentano la definizione del programma assistenziale ed il conseguente impegno di risorse. Le cure domiciliari non sono infatti un contenitore “rigido” di semplici prestazioni ripetitive ma, al contrario, devono essere uno strumento flessibile in grado di rispondere al bisogno in maniera soddisfacente. Per tale motivo la differente intensità di cura dell’Assistenza domiciliare deve essere in funzione del bisogno e della complessità e non subordinata a rigidi assetti organizzativi. Una logica fondamentale delle cure domiciliari è costituita dalla loro stretta integrazione con l’ospedale, costituendo diversi momenti di un unico processo in cui ricovero ospedaliero, accesso di day-hospital od ambulatoriale e cura domiciliare si intersecano tra di loro. Vi deve quindi essere tra questi vari momenti assistenziali un’integrazione al massimo livello in grado di definire un percorso senza interruzioni e differenze nella qualità dell’assistenza. Gli obiettivi principali delle cure domiciliari sono: a) l’assistenza a persone con patologie trattabili a domicilio al fine di evitare il ricorso inappropriato al ricovero in ospedale o ad altra struttura residenziale b) la continuità assistenziale per i dimessi dalle strutture sanitarie con necessità di prosecuzione delle cure c) il supporto alla famiglia d) il recupero delle capacità residue di autonomia e di relazione e) il miglioramento della qualità di vita anche nella fase terminale. I Piani Sanitari Nazionali degli ultimi anni hanno dedicato un’attenzione particolare al rilancio e allo sviluppo dei progetti di cure a domicilio, rilevando l’importanza di un approccio alla salute che valorizzi gli interventi domiciliari e territoriali al pari di quelli ospedalieri. Le nuove risposte assistenziali (de-ospedalizzazione – consolidamento cure domiciliari) richiedono pertanto un forte incremento della flessibilità organizzativa e la ricerca di nuovi strumenti gestionali che assicurino l’appropriatezza degli interventi, la sostenibilità dei modelli, il gradimento dei pazienti, la qualità professionale e l’efficacia degli interventi, per poter permettere il trasferimento al domicilio di competenze specialistiche tipiche della degenza ospedaliera. Oltre che al miglioramento della qualità delle cure ed all’erogazione di una più adeguata personalizzazione dell’assistenza, tutto ciò è anche orientato alla ricerca del miglior utilizzo delle risorse, a garanzia di un razionale impiego della spesa sanitaria, di una riduzione dei ricoveri impropri, e quindi anche di un migliore funzionamento degli ospedali stessi destinati ad assumere sempre più il ruolo di strutture erogatrici di cure intensive in fase acuta e di prestazioni diagnosticoterapeutiche ad elevata complessità. COME MISURARE L’ATTIVITÀ DELLE CURE DOMICILIARI Come per tutte le prestazioni sanitarie anche le cure domiciliari necessitano di indicatori che ne valutino complessità, intensità e che siano in grado di valorizzare al meglio l’aspetto economico, in termini di risorse impiegate e risorse risparmiate. Nome Codice Descrizione dell’indicatore Giornate di cura GDC Durata in giorni del piano di cura dalla presa in carico alla dimissione dal servizio o al decesso (data dimissione-data presa in carico) - 1 Giornate effettive di assistenza GEA Numero di giorni nei quali è stato effettuato almeno un accesso domiciliare viene incluso il 1°giorno Coefficiente di intensità CIA % di giorni in cui è stato effettuato un accesso GEA/GDC Valore GEA VG Valore in euro di una giornata effettiva di degenza Costo medio mensile CMM Valore in euro dei costi sostenuti per un certo paziente per un mese Formula di calcolo costo totale del paziente /GEA CIA x valore GEA x 30 (Scaccabarozzi et al. 2006) La combinazione di questi indicatori porta alla identificazione di diversi gruppi con caratteristiche cliniche ed organizzative omogenee, che possono poi essere valorizzati in base ad un costo per ciclo di cura che quindi sintetizza in un unico parametro economico intensità e complessità. Tale parametro rappresenta anche lo strumento indispensabile per valutazioni comparative con altre modalità di assistenza (p. es. ricovero ordinario, accessi di Day-Hospital). Le esperienze ed i modelli di Assistenza domiciliare presenti sul territorio italiano, la legislazione e le referenze bibliografiche disponibili si rifanno in larga misura al paziente anziano, affetto da patologie non solo neoplastiche ma anche degenerative, cardiovascolari, ortopediche, neurologiche ecc., con caratteristiche e bisogni assistenziali ben diverse da quelle del bambino. In questo contesto l'assistenza domiciliare al paziente pediatrico affetto da patologia neoplastica rappresenta un aspetto peculiare ed interessante di un auspicabile processo di riqualificazione della funzione di assistenza ospedaliera che tenga conto della necessità di una maggiore attenzione agli aspetti qualitativi delle cure. Nei successivi paragrafi descriveremo l’esperienza dell’Unità Operativa Semplice (U.O.S.) di Assistenza domiciliare istituita nel 2000 all'interno del Dipartimento di Emato-Oncologia Pediatrica (D.E.O.P.) dell'Istituto Giannina Gaslini. ASSISTENZA DOMICILIARE ALL’ISTITUTO GASLINI Dall’aprile 2000 è attiva presso il D.E.O.P. l’U.O.S. di Assistenza domiciliare, istituita per fornire a pazienti affetti da patologia emato-oncologiche la possibilità di eseguire a domicilio controlli clinici, emato-biochimici e prestazioni terapeutiche usualmente effettuate in ospedale. L’obiettivo che ci si era posti era quello di ridurre il più possibile, nelle varie fasi della malattia, gli accessi in ospedale, e di eseguire presso il domicilio prelievi ematici, visite mediche, terapie endovenose, trasfusioni di emoderivati, interventi riabilitativi, per facilitare l'inserimento dell'"esperienza malattia" nella globalità della più ampia e complessa esperienza di vita, favorendo il recupero della quotidianità nella gestione domestica; ciò anche in considerazione che circa il 75% dei pazienti da noi seguiti proviene da fuori regione, in particolare dal Sud o da paesi extra-comunitari, aspetto che ulteriormente negativo oltre quello di dover affrontare malattie severe e spesso a prognosi severa. In particolare per i bambini in fase terminale e per i loro genitori, la possibilità di poter rimanere a domicilio avrebbe permesso di vivere questo momento in un ambiente più intimo e raccolto, evitando interferenze estranee ed inopportune. Parallelamente la riduzione degli accessi in ospedale avrebbe determinato una miglior utilizzazione delle risorse ospedaliere, in termini di minor congestione della struttura di day-hospital ed un utilizzo dei settori degenziali per un maggior numero di pazienti sottoposti a terapie aggressive e a protocolli di seconda linea. Dal punto di vista organizzativo in fase iniziale l’equipe dell’U.O.S. Assistenza domiciliare era costituito da 1 medico, 1 infermiera ed una psicologa, nel 2008 l’equipe è costituita da 1 medico co-ordinatore, 2 medici impegnati nell’assistenza, una caposala, 3 infermiere pediatriche, 1 psicologa, 1 fisioterapista. Sono a disposizione, acquisite tramite donazioni, 2 autovetture e numerose apparecchiature elettromedicali (pompe infusionali, saturimetri, cardio-monitor, etc.). L’attività è strutturata sulle 12 ore diurne (7-19), cinque giorni alla settimana ed è evoluta da una iniziale fase prevalentemente prestazionale (prelievi, antibiotico terapia, trasfusioni e visita medica) ad una maggiore complessità che include la somministrazione di chemioterapia, la nutrizione entrale e parenterale totale, l’esecuzione di procedure in sedazione, la gestione delle piaghe da decubito e la riabilitazione. Sin dall’inizio è stata garantita l’assistenza palliativa ai pazienti in fase terminale. Una importante caratteristica dell’U.O.S. di Assistenza domiciliare dell’Istituto Gaslini è rappresentata dalla stretta integrazione del personale, medico ed infermieristico ad essa afferente, con l’attività dell’intero Dipartimento. Infatti, a differenza delle classiche organizzazioni di assistenza sul territorio, nelle quali i medici domiciliaristi, pur avendo stretti contatti sia col territorio (medici di medicina generale, ASL) che con le strutture ospedaliere dimettenti, rappresentano una struttura a sé, i sanitari della nostra U.O.S. sono parte integrante della struttura ospedaliera, partecipano regolarmente alle riunioni interdisciplinari, sono impiegati a rotazione in altre attività del reparto (pur dedicando gran parte del loro tempo-lavoro alla Assistenza domiciliare), conoscono ed applicano i protocolli di chemioterapia e terapia di supporto. L’assistenza nasce quindi dalla valutazione unitaria del bisogno, procede alla definizione unitaria del progetto di intervento, si realizza con logica collaborativa e valuta in modo integrato i benefici di salute prodotti. Ne discende che, fermo restando che il medico dell’Assistenza domiciliare è titolare della responsabilità clinica della scelta delle opzioni assistenziali e dei percorsi diagnostico terapeutici, il paziente è sempre inserito in un unico percorso assistenziale e percepisce anche soggettivamente il senso del lavoro di equipe, non avvertendo nessun distacco dalla gestione ospedaliera, solitamente ritenuta più protettiva, a quella territoriale, potenziale causa di insicurezza e senso di abbandono. Dal punto di vista pratico i medici “di reparto” propongono ai medici “domiciliaristi” la presa in carico del paziente, insieme al quale ne valutano le caratteristiche e l’eligibilità (vedi criteri di accettazione), decidono la frequenza e la tipologia dei controlli, predispongono il piano di cura ed i punti di rivalutazione e/o di ripresa in carico in regime di ricovero. Il tutto si esplicita in appositi moduli inseriti nella cartella clinica, che è comune tra periodo degenziale e periodo a domicilio e nella formale presentazione dell’equipe al paziente ed alla famiglia, solitamente il giorno della dimissione. Un’importante miglioramento nella qualità dell’assistenza è stata nel 2007 la possibilità di attivare il servizio di pronta disponibilità medico-infermieristica, notturna e festiva, a favore di pazienti in fase avanzata di malattia o in terapia palliativa. La possibilità di trascorrere a casa le fasi terminali della malattia, sino al decesso, viene offerta alla famiglia come opzione, in alternativa al rientro a domicilio (come detto nel 75% dei casi fuori Regione se non addirittura in Paesi stranieri) o all’ospedalizzazione. La scelta dell’assistenza a domicilio era ovviamente subordinata alla possibilità di mantenere il contatto con l’equipe medico-infermieristica senza soluzione di continuità, includendo le ore notturne e gli week-end, garantite appunto dal servizio di pronta disponibilità. UN ASPETTO PECULIARE: LE CURE PALLIATIVE Per tutti i pazienti, e soprattutto per i pazienti in fase terminale, la possibilità di poter essere seguiti a domicilio permette di vivere in modo meno esclusivo la malattia e di affrontare il momento delicato della terminalità in un ambiente intimo, protetto da interferenze esterne, spesso inutili o dannose. L’assistenza domiciliare di tali pazienti rappresenta, pertanto, non solo una valida alternativa al ricovero ospedaliero, ma una reale opportunità di miglioramento della qualità della vita e della morte. Per curare un bambino a domicilio è fondamentale valutare l’adeguatezza pratica e psicologica del nucleo familiare, averne la collaborazione con l’obbiettivo principale di offrire qualcosa in più rispetto al ricovero ospedaliero evitando di generare un senso di abbandono, riducendo o addirittura annullando il desiderato beneficio. Irrinunciabile in questo contesto il lavoro in equipe per: • analizzare e consentire la verbalizzazione delle paure soggettive nei confronti della morte all’interno di una relazione professionale, ma empatica con il paziente e la sua famiglia; • verificare il grado di comprensione e consapevolezza dei genitori al fine di instaurare un percorso comunicativo efficace, pur ricordando che esistono limiti autentici e meccanismi di difesa, che rischiano di limitare o posporre decisioni circa le problematiche di fine vita. È, al contempo, importante lasciare un legittimo spazio di “consapevole negazione” e speranza che permette ai genitori di rimanere accanto al figlio in modo attivo; • trovare un punto di incontro tra il desiderio legittimo di continuare la terapia cancro-diretta e la necessità di evitare inutili sofferenze. Possono essere definite tre tipologie di pazienti con malattia in progressione che in tempi diversi vengono affidati al servizio di Assistenza domiciliare per cure palliative “bambino inguaribile”: paziente nella fase di progressione di malattia con un periodo di vita relativamente lungo; sebbene i trattamenti standard si sono dimostrati inefficaci, ci possono essere trattamenti sperimentali o palliativi che possono prolungare la vita di mesi od anni; “bambino terminale”: tutti i trattamenti per arrestare la progressione di malattia si sono dimostrati inefficaci e vengono somministrati trattamenti esclusivamente palliativi. “bambino morente”: paziente in cui le condizioni cliniche sono compromesse in modo importante ed in cui le modificazioni dei parametri vitali denunciano l’imminenza dell’exitus. La differenziazione in fasi non è un puro esercizio didattico o nosologico, ma corrisponde a momenti clinici diversi, dove approcci diagnostici e terapeutici sono concettualmente e praticamente differenti non solo per gli operatori sanitari, ma anche per l’entourage familiare al quale vanno ripetutamente esplicitati e spiegati. La presa in carico da parte del Servizio di Assistenza domiciliare di un bambino in terapia palliativa prevede un processo a più fasi comprendente: 1. rivalutazione della storia clinica e di malattia del paziente tra i membri dell’equipe curante, l’equipe dell’Assistenza domiciliare ed i genitori; 2. valutazione delle terapie, mediche e psicologiche disponibili, dirette ad alleviare le sofferenze, informando i genitori sulle diverse procedure di cura, inclusa la sedazione terminale, da utilizzare in base alla evoluzione dei sintomi e della malattia; 3. confronto sulle modalità e sull’intensità dell’assistenza, sul luogo del possibile decesso (ospedale o domicilio). In ogni caso la disponibilità del ricovero ospedaliero è sempre stata garantita anche nei casi in cui il gruppo famigliare aveva scelto in prima battuta la permanenza a domicilio fino all’exitus; 4. periodica rivalutazione collegiale del caso da parte dell’equipe dell’Assistenza domiciliare e successivo aggiornamento con la famiglia; 5. qualora sia necessario intraprendere la sedazione terminale (dolore non controllato, agitazione psicomotoria, disturbi respiratori, ecc.), la famiglia viene ulteriormente informata sui dettagli di questa procedura, sugli operatori che la somministrano, su vantaggi e conseguenze. Per il controllo del dolore sono stati seguiti i criteri dell’O.M.S., impiegando dapprima farmaci antinfiammatori non steroidei, da soli o in associazione con oppiodi deboli (codeina o tramadolo) sino all’utilizzo degli oppioidi maggiori (morfina). IL RUOLO DELL’INFERMIERE IN ASSISTENZA DOMICILIARE Fondamentale in un setting domiciliare è il ruolo dell’infermiere pediatrico, consapevole e determinato. Requisito indispensabile è la forte motivazione che ogni singolo professionista deve necessariamente avere nel credere innanzitutto che “lo stare a casa” nelle varie fasi della malattia del bambino sia importante. E’ altresì indispensabile che in Assistenza domiciliare vengano coinvolti operatori “esperti”, con alle spalle una solida formazione assistenziale ed esperienza specifica nell’approcciare le malattie emato-oncologiche, evitando, laddove le problematiche amministrative ed organizzative lo permettono, di assegnare alle strutture di Assistenza domiciliare personale neo-assunto ed inesperto. Altra caratteristica importante è la capacità e l’elasticità di inserirsi nell’ambiente familiare, senza venir meno alla propria professionalità: gli operatori dell’Assistenza domiciliare che quotidianamente vanno a svolgere il proprio lavoro in un ambiente nuovo, spesso si descrivono come “ospiti” che, rispettosi dei ruoli allo stesso tempo devono dare delle regole, avendo non raramente la sensazione di “comandare a casa altrui”. In questi otto anni di attività la crescita professionale delle infermiere pediatriche impegnate nell’assistenza domiciliare è stata notevole: all’inizio dell’attività domiciliare era “ovvio“ portare schema e modalità lavorative tipiche del setting ospedaliero a casa, poi si è gradatamente modificato l’atteggiamento sino a raggiungere una sempre più spiccata flessibilità, dettata anche dalla necessità di improvvisare soluzioni a fronte di situazioni non preventivate al momento della partenza dall’ospedale verso il domicilio del paziente. L’infermiera domiciliare, diversamente da quella del reparto di degenza, non riceve consegne al mattino quando entra in servizio e non sempre la famiglia avvisa tempestivamente di problemi insorti nella notte o è comunque precisa nel “raccordo anamnestico” con la situazione clinica precedentemente nota. Anche per far fronte a ciò, nell’ambito di una progressiva autonomizzazione del lavoro infermieristico (come previsto dal codice deontologico) è stato concordato, per la somministrazione di farmaci a domicilio, un “protocollo medico-infermieristico condiviso”, che permette una maggiore agilità e tempestività nell’affrontare situazioni impreviste quali il malfunzionamento del catetere venoso centrale, la comparsa di febbre, la gestione del dolore, le reazioni allergiche, etc. La necessità di un approccio flessibile al paziente a domicilio non esclude peraltro la rilevanza di una precisa organizzazione interna all’equipe che permetta a tutte le prestazioni assistenziali di essere erogate durante l’orario di servizio evitando spostamenti “a vuoto” o ripetuti per insufficiente programmazione. L’altra componente che caratterizza le modalità di Assistenza domiciliare è il nucleo famigliare del paziente. In una prima fase del progetto sono stati selezionati i nuclei familiari così detti “adeguati” per i quali il requisito fondamentale era la collaborazione attiva. Negli ultimi anni esigenze diverse, presenza di pazienti stranieri, carenza di posti di degenza, accompagnate da una crescente maturità del servizio, hanno portato ad un “arruolamento” in assistenza domiciliare di ogni tipologia familiare. Per un adeguato e fruttuoso approccio domiciliare è necessaria l’identificazione di un care-giver, ovvero di colui (solitamente un famigliare) che si prende cura attivamente del paziente. La diversità di cultura, abitudini consolidate (diverse modalità di gestione nei centri onco-ematologici di provenienza) e lingua madre (sono sempre più numerosi i pazienti stranieri presi in carico) costituiscono un ulteriore difficoltà a cui si fa fronte con periodi di prolungato addestramento del care-giver da parte del personale infermieristico, con l’utilizzo, quando disponibile, di mediatori culturali, e spesso grazie alla solidarietà ed all’impegno di altre famiglie in analoghe situazioni. VALUTAZIONE DEI COSTI E DELLA QUALITÀ DELLE CURE A DOMICILIO Dopo una prima fase di attività, in cui il riferimento è stato un sistema basato sul nomenclatore tariffario che elenca le prestazioni remunerabili, rappresentante uno strumento inadeguato per valorizzare il complesso delle prestazioni erogate, è apparsa evidente la necessità di meglio analizzare i costi dell’”investimento” domiciliare, fatto da Istituto, Regione e Associazione genitori (ABEO). Analogamente si sta cercando di proporre metodologie il più oggettive possibili per misurare la qualità delle cure erogate, che vadano oltre una sensazione generalizzata di apprezzamento espressa in questi anni dai gruppi famigliari presi in carico. E’ stato quindi messo a punto, in collaborazione con la Direzione Generale ed il Centro di Controllo Direzionale dell’Azienda, un progetto di studio che ha i seguenti obbiettivi: Analisi della capacità di soddisfacimento della domanda (misurata in termini percentuali derivanti dal rapporto tra n° di pazienti proposti all’Assistenza domiciliare da parte dei 3 settori degenziali del Dipartimento di Emato-Oncologia e n° di pazienti effettivamente presi in carico); Validazione dei criteri attualmente in uso per l’inserimento dei pazienti in protocolli prestazionali ed assistenziali differenziati a seconda di complessità ed assorbimento risorse; Definizione del valore delle cure domiciliari secondo criteri basati sulla complessità (bassa, media, alta e cure palliative) del livello assistenziale, della prestazione erogata e del mix di risorse utilizzate, superando la remunerazione come somma delle singole prestazioni; Analisi e confronto dei costi di trattamento di categorie omogenee di pazienti in regime di ricovero ordinario o di day-hospital e di ospedalizzazione domiciliare. La naturale evoluzione dello studio dovrebbe poi essere la proposta alla Regione Liguria di DRG specifici per le cure domiciliari pediatriche, remunerativi per gruppi omogenei, da sottoporre come ipotesi di lavoro ad altre Regioni ed in definitiva al Ministero della salute per una loro analisi e validazione. CONCLUSIONE L’esperienza maturata in questi anni ha dimostrato come un servizio di Assistenza domiciliare per pazienti in età pediatrica affetti da patologie Emato-Oncologiche sia ben accetto dalle famiglie e di valido aiuto ad un miglior utilizzo delle risorse sanitarie. Il personale sanitario (medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti) impegnato nella gestione del bambino in progressione di malattia ha sperimentato che l’assistenza domiciliare rappresenta una possibilità di instaurare un migliore rapporto bambino - famiglia - equipe assistenziale, un’occasione di fattiva riqualificazione e rimotivazione ed anche una risorsa contro il burn-out a cui frequentemente è esposto il personale in assistenza impegnato nelle cosiddette “professioni di aiuto”. Per gli operatori impegnati nel progetto di domiciliarizzazione, poter assistere contemporaneamente pazienti con buona prognosi e bambini in progressione di malattia permette inoltre una visione più ampia e globale, seppur specialistica, del “care”, consente di personalizzare lo stile dell’assistenza pur nel rispetto del ruolo professionale, uscendo dalla routine del reparto e, nonostante una responsabilità meno condivisa nell’azione, sembra avere un effetto positivo in termini di riduzione di burn out. Tabella riassuntiva dell'attività svolta 15 Aprile 2000 – Marzo 2008 La nostra esperienza porta anche ad Aprile 2000 Aprile 2000 interrogarsi sulla necessità e sulla PERIODO di Marzo 2001 Marzo 2008 possibilità di estendere questo servizio OSSERVAZIONE a pazienti affetti da altre patologie cui TOTALE ATTIVITÀ l’Istituto Gaslini offre una qualificata risposta in termini di ricovero ordinario Nuovi pazienti trattati in Dipartimento 144 1297 e/o day-hospital ma che potrebbero 46 425 giovarsi di un programma di cure Nuovi pazienti arruolati in A.D. 46 578 domiciliari. Si pensi ad esempio a Pazienti complessivi pazienti con patologie croniche quali Fasi terapeutiche 49 541 fibrosi cistica, neuropatie, nefropatie, 1364 45628 Giorni totali di presa in carico pazienti “fragili” dimessi dalla terapia 881 7500 intensiva. Per essi è auspicabile che Accessi medico-infermieristici domiciliari 551 nei progetti di sviluppo dell’azienda Giornate di DH evitate 4492 trovi spazio il concetto delle cure Giornate di Ricovero ospedaliero evitate 330 1974 domiciliari, con programmi e finan49 608 Cicli di Fisioterapia complessivi ziamenti dedicati. 530 6418 Non è più possibile oggi sottrarsi alla Prelievi ematici responsabilità di progettare, program- Giornate terapia endovenosa 137 1172 mare, organizzare e verificare servizi " antinfettiva 515 1415 alternativi al ricovero ospedaliero per " ormonale 784 268 la cura del paziente in condizione di " idratazione 715 fragilità, che prevedano per il cittadino 204 modelli leggeri, non burocratici e " antidolorifica 374 163 fondati su una cultura della salute Chemioterapia 328 moderna ed incentrata sui bisogni, Nutrizione Parenterale Totale 28 501 che, diversi a seconda della patologia Trasfusione Concentrato Globuli Rossi 86 465 e delle situazioni, richiedono risposte diverse, articolate e flessibili. Trasfusione Piastrine 131 646 IL MEDICO DELL’ANT Rosa Cannarile Martina Franca (TA) L’ANT è una fondazione che si occupa dell’assistenza domiciliare oncologica del paziente in fase avanzata di malattia. L’assistenza domiciliare al piccolo paziente oncologico può rappresentare un mazzo estremamente utile in grado do migliorare la qualità di vita di questo,consentendo di evitare lunghi e penosi ricoveri. Per un bambino la sua casa, la sua famiglia, i suoi giocattoli, sono parte integrante della terapia. Per poter permettere che il piccolo rimanga il più a lungo possibile a casa, c’è bisogno di un approccio multi disciplinare composto almeno da tre figure professionali: medico, psicologo, infermiere, integrato in un sistema di assistenza territoriale e ospedaliero. IL PEDIATRA DI FAMIGLIA E IL BAMBINO CON PATOLOGIA TUMORALE Claudio Chiarelli - Paolo Vinci Martina Franca (TA) Durante l’età evolutiva, i tumori costituiscono una patologia estremamente rara rispetto a quanto si verifica nell’adulto e rappresentano infatti solo l’1-2% di tutti i tumori. Colpiscono 1 bambino su 650 entro i 15 anni di età e costituiscono la prima causa di morte, per malattia, dopo il primo anno di vita (al primo posto ci sono gli incidenti). I vari tipi di tumore che si riscontrano in età pediatrica sono molto diversi da quelli che si hanno in età adulta per sede d’insorgenza, velocità di accrescimento e caratteristiche istopatologiche. Nel bambino il tipo di tumore più frequente è la leucemia (33%), seguito dai tumori del sistema nervoso centrale (S.N.C.) (22%), dai linfomi (12%), dal neuroblastoma (7%), dai sarcomi dei tessuti molli (7%), dai tumori ossei (6,4%). Attualmente circa il 70% dei pazienti ha concrete possibilità di guarigione ma la diagnosi precoce è la parola d’ordine che vale per tutti i malati oncologici, fondamentale anche nei più piccoli, che vengono curati in modo più efficace se la malattia viene identificata subito. Per il presentarsi della malattia tumorale quasi sempre in maniera subdola, fare una diagnosi precoce non è sempre facile anche perché il pensiero che si tratti di un tumore è lontano dalla mente del medico e anzi, psicologicamente, ogni tentativo viene fatto per rimuoverla dal quesito diagnostico. Il coinvolgimento emotivo poi, in special modo per il pediatra di famiglia, non è indifferente: quel bambino che abbiamo seguito fin dalla nascita, che è sempre stato bene, improvvisamente si ammala in maniera così grave, quasi sempre curabile, ma talvolta anche mortale. Al di là della diagnosi la malattia tumorale rientra in una branca della pediatria altamente specialistica,di difficile approccio per il medico curante. Il fatto che questa patologia sia rara può giustificare la scarsa esperienza, le incertezze, la difficoltà nell’interpretare alcuni sintomi. Si calcola infatti che in tutta la carriera ciascun pediatra, non potrà diagnosticare che tre - cinque casi. E’ comprensibile quindi lo stato d’animo in cui ci si viene a trovare. Spesso i tumori dei bambini non danno sintomi specifici di malattia e diventa fondamentale, allora, la conoscenza teorica, da parte del pediatra di famiglia, del “problema-cancro” e l’attenzione ai pochi segnali che in casi specifici possono indirizzare alla diagnosi. Ogni modificazione dello stato di salute di un bambino deve essere accuratamente valutato: taluni sintomi depongono più di altri per sospetto di patologia tumorale. Elementi a favore di una diagnosi precoce sono l’attenzione del pediatra, la capacità e qualità nel dubbio diagnostico, la conoscenza delle patologie neoplastiche e le motivazioni psicologiche (orientamento/rifiuto). Il Pediatra di famiglia è spesso il primo medico a dover intuire che ad un pallore, ad una perdita di peso e febbre, ad un mal di testa e vomito al mattino, ad una anomala stanchezza, ad un gonfiore addominale, ad ecchimosi o emorragie, ad una linfadenopatia, a dolori ossei, ad una massa addominale, a sintomi neurologici, possono corrispondere segni e sintomi di esordio di una patologia tumorale. Senza creare angosce inutili nelle famiglie, ma sempre con cautela e buon senso, quando questi malesseri sono ben descritti, in maniera ripetitiva, devono spingere a fare delle indagini ulteriori che possono essere esami ematochimici di I livello ed esami strumentali. Occorre quindi conoscere i centri specialistici oncologici pediatrici di riferimento, se possibile regionali, dove inviare o in qualche modo - sarebbe meglio - “accompagnare” il piccolo paziente e la sua famiglia verso un percorso diagnostico-terapeutico valido. Occorre che si attivino processi di scambio tra il Pediatra di famiglia e l’Oncologo pediatra per perseguire interessi comuni. Sul piano burocratico l’attuale organizzazione sanitaria non sempre facilita la collaborazione: il superamento delle difficoltà nel rapporto con i Pediatri di famiglia è affidato soprattutto all’impegno personale dei singoli. Ma il rapporto può essere proficuo e integrato se il Centro rende partecipe il Pediatra nella comunicazione della diagnosi e dei percorsi clinico-terapeutici con un impegno da parte del pediatra a non tentare di “liberarsi” di un “problema” difficile da gestire (mancanza di esperienza, mancanza di tempo!). E’ necessario quindi, per la buona conduzione della malattia, in tutte le sue fasi, sia che il bambino sia ricoverato sia che stia a casa, che si venga a stabilire una sorta di alleanza terapeutica che si tradurrà non solo in una crescita culturale, ma che darà anche i suoi frutti in termini di maggior tranquillità per la famiglia, nella consapevolezza che il bambino è curato in maniera globale, che accanto a lui vigila quel medico che ha seguito i suoi primi passi e al quale appunto si è data completa fiducia. Si potrà combattere l’ansia che vivono i genitori lontano dall’ospedale, garantendo al bambino un’assistenza valida anche a casa, cercando di tranquillizzare e nello stesso di capire se le preoccupazioni dei genitori sono fondate. Grazie a Miriam (ho avuto la fortuna di conoscerne il volto e il sorriso almeno una volta) e alla sua famiglia e a quanti hanno favorito la realizzazione di questo Convegno. Per apprendere, ma senz’altro e, forse, soprattutto, per sviluppare un confronto fra quanti si occupano dei bambini e della loro salute e di malattie serie dalle quali il più delle volte possono guarire. IL MEDICO DI FAMIGLIA COME TECNICO DELLA MOTIVAZIONE NEL FOLLOW-UP DEL NEUROBLASTOMA Fedele Pavone - Giovanni Colucci - Pasquale Iacovazzo Martina Franca (TA) Ultimamente le malattie rare sono oggetto di attenzione e studio da parte del mondo scientifico per una precoce diagnosi ed una appropriata gestione. Per noi Medici di Famiglia (MdF) la loro conoscenza diventa sempre più importante, in quanto abbiamo un ruolo determinante nello screening attraverso segni e sintomi che precocemente possono far diagnosticare la malattia e nel management in collaborazione con gli specialisti. Il neuroblastoma, per le sue manifestazioni molteplici ed insidiose e per la possibilità di recidive, anche a notevole distanza di tempo, ne costituisce un esempio. Quando i minori, per legge, nella fascia facoltativa e/o obbligatoria, passano alle nostre cure si dovrebbe instaurare una stretta collaborazione tra Pediatra di Libera Scelta (PLS) e MdF. Attraverso la cartella clinica (cartacea o informatica) veniamo a conoscenza del decorso della malattia per continuare a gestire un corretto follow-up. Il rapporto con il collega PLS s’istaura anche in precedenza perché, come in altre circostanze, siamo tra i primi ad essere informati del problema dai parenti e, messo da parte il “camice bianco”, assumiamo il ruolo “dell’amico di sempre”. L’empatia, infatti, è caratteristica peculiare della nostra professione e, pur comprendendo le conoscenze scientifiche e tecniche, ci fa andare oltre per metterci in sintonia con il nostro assistito. Si può definire come la capacità di vedere il mondo con gli occhi dell’altro e avere informazioni dal suo punto di vista, sia razionale che emotivo; quindi non solo ciò che il paziente pensa, ma anche ciò che prova in termini di vissuti, emozioni, significati. Quando siamo di fronte a una persona in difficoltà dobbiamo essere nelle condizioni oggettive per esserle di aiuto, cercando di superare eventuali situazioni per noi inaccettabili e non opportune e sanare il conflitto che in noi si può creare. Per il ragazzo in età prepubere dobbiamo sforzarci di porci, anche fisicamente, all’altezza dei suoi occhi e vedere il mondo in un modo diverso dal nostro e più vicino ai suoi problemi. Il rapporto empatico impone al medico notevole impegno, forza e costanza perché, pur immedesimandosi nei problemi del paziente, non deve mai lasciarsi coinvolgere al punto da mettere in discussione la propria capacità logica e competenza professionale. Il nostro metodo clinico, è basato sul modello bio-psicosociale e considera la salute non soltanto come assenza di malattia, ma come benessere globale che non prescinde dal contesto familiare, sociale e della vita di comunità: è il concetto che sintetizziamo nella parola sanità dell’individuo. L’orientamento alla famiglia implica la sensibilizzazione e il coinvolgimento di tutti i componenti che,costituendo una sorte di rete, si affiancano ai genitori per ridurne il carico psicologico; questo può contribuire a non interrompere, per quanto è possibile, la normalità e quotidianità della vita. La diagnosi della malattia porta a uno sconvolgimento psicologico che si sviluppa in diverse fasi: shock iniziale, rifiuto, rivolta, depressione. Il panico iniziale può paralizzare la famiglia, far rifiutare la diagnosi e cercare “qualcuno” che attraverso visite, indagini o sistemi alternativi possa smentire quanto si è accertato. Questa è la fase più pericolosa perché viaggi della speranza, terapie alternative o altro possono far perdere tempo prezioso. Quando la diagnosi è stata definita subentra la fase di rivolta con atteggiamenti di rabbia e poi quella di depressione che può portare ad una vera e propria psicopatologia. Nei momenti di maggiore difficoltà o disagio il nostro compito è quello di ripristinare il dialogo in famiglia per evitare tensioni e contrapposizioni tra diversi individui e andare oltre il semplice Counselling, ricorrendo a presidi psicoterapeutici o farmacologici. Il concepimento di un altro figlio in questi casi è un’utile terapia che vale a dare continuità, anche biologica, alla vita. L’ascolto empatico rappresenta un ottimo strumento per prevenire situazioni conflittuali, ci aiuta a superare le fasi di difficoltà nostre o del paziente e ci fa realizzare una giusta relazione basata su fatti che si possono osservare e/o ascoltare offrendo aiuto attraverso il confronto. Questa forma di comunicazione, che si serve anche dei nostri sentimenti come fonte di preziose indicazioni su noi stessi e sugli altri, riporta il contesto familiare alla propria soggettività e fa assumere al MdF il ruolo importante di tecnico della motivazione. Il MdF contribuisce a spiegare che “tumore” non significa perdita di speranza o in guaribilità ed è giusto accettare la situazione e seguire i consigli e le soluzioni proposte dagli specialisti spiegando che possono portare anche al successo. L’intervento chirurgico, ad esempio, ha finalità diagnostiche e terapeutiche, e, come nella maggior parte dei protocolli, va eseguito dopo una fase di chemioterapia di induzione che ha lo scopo di ridurre il più possibile il volume neoplastico. L’atto chirurgico permette di giungere alla diagnosi istologica, campionare il materiale per gli studi biologici e stadiare chirurgicamente il tumore. Nella malattia non metastatica come neoplasia intratoracica o piccoli tumori surrenalici, la chirurgia è il trattamento di elezione e nello stadio 1° non richiede alcun trattamento complementare. Altre volte, come nello stadio 3°, è necessaria una chemio terapia preoperatoria. Il neuroblastoma è un tumore radio sensibile e quindi i trattamenti sono spesso combinati: in ogni caso dobbiamo sostenere il paziente e la sua famiglia incoraggiandoli a proseguire nelle cure. Talvolta, infatti, la chemioterapia ad alte dosi può essere seguita da trapianto di midollo come modalità di consolidamento. Se la neoplasia è localizzata e suscettibile di terapia chirurgica, come spesso accade nelle localizzazioni cervicali e toraciche e negli stadi 1°e 2°, è possibile che possa essere definitivamente controllata nella sua evoluzione. Il rischio di una recidiva locale o di una diffusione ai linfonodi regionali o allo scheletro deve essere tenuto conto nel follow-up del paziente. Ricordiamo che la già alla diagnosi circa il 60% dei bambini ha malattia metastatica allo scheletro, ai linfonodi, al midollo osseo e che nel decorso della malattia è probabile, anche in presenza di remissione dopo terapia, osservare una evoluzione neoplastica, sia locale che in altre sedi. E’ nostro compito dunque seguire nel tempo il paziente effettuando un appropriato follow-up. In virtù della nostra esperienza in campo previdenziale, infine, dobbiamo tenere in considerazione gli aspetti economici che riguardano questa malattia, come gli spostamenti per visite ed indagini specialistiche e le giornate lavorative perdute. Possiamo perciò indirizzare la famiglia all’utilizzo dei diversi sussidi ai quali può avere diritto. Bibliografia 1. 2. 3. 4. 5. 6. Bert G., Quadrino S. Parole di medici, parole di pazienti. Counselling e narrativa in medicina. Il pensiero Scientifico editore, 2002. Bellet PS, Malloney MJ. 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