SALUTO INAUGURALE E PRESENTAZIONE DEL CONVEGNO
Vito Ferrara
Vice Presidente APLETI onlus Bari
Un sentito ringraziamento al Rotary club di Martina Franca, alla Fondazione Nicolaus, alla Lundbeck,
alle Autorità e agli illustri relatori e moderatori intervenuti a questo Convegno.
Un ringraziamento particolare va rivolto ad Antonella e Saverio Santoro che, nel ricordo di Miriam,
hanno avuto l’idea di realizzare un convegno dedicato al Neuroblastoma, coinvolgendo i medici di Martina
Franca, la Fondazione NB e l’Associazione APLETI. Tutti hanno aderito con grande entusiasmo.
In particolare, l’Associazione APLETI ha permesso che l’oncologia pediatrica pugliese si arricchisse di
nuove competenze, dalla medicina palliativa e procedure senza dolore, all’assistenza domiciliare, ma non
basta.
E’ necessario avere nella nostra Regione centri d’eccellenza dove eseguire trapianti di cellule
staminali e di midollo osseo, per evitare l’emigrazione verso il Nord.
E’ necessaria la condivisione delle scelte diagnostiche e terapeutiche con il bambino e i loro
genitori: oggi si parla spesso d’informazione, comunicazione e partecipazione, ma purtroppo queste
rimangono solo parole. Certamente non è facile comunicare e condividere scelte difficili che richiedono
conoscenze, impegno, professionalità, umanità, disponibilità e coinvolgimento emotivo.
Il senso di questo Convegno è quello di richiamare l’attenzione dei presenti sui sintomi dei bambini
malati e, in particolare, serve a ri-conoscere il Neuroblastoma. Al fine di ridurre le sofferenze dei bambini
oncologici e dei loro genitori, quest’incontro ha l’obiettivo di formare e sensibilizzare il personale sanitario
e no; è un’occasione per crescere insieme, con l’intento di essere sempre più professionali, capaci e
pratici nel comprendere e ascoltare.
“Neuroblastoma una diagnosi difficile”, difficile perché, purtroppo spesso, non è stato ri-conosciuto,
in quanto la diagnosi quasi sempre è stata errata o tardiva, con le conseguenze che si possono ben
immaginare per il bambino che continua a soffrire. Bambini che ci hanno insegnato e trasmesso la forza
che abbiamo per coinvolgere le istituzioni e gli operatori del settore.
Questa giornata vuole offrire un contributo a quanti, genitori, medici e operatori sanitari sono
coinvolti nelle scelte di un percorso oncologico: la prima parte del convegno è dedicata alla diagnosi clinica
e ai nuovi approcci terapeutici del Neuroblastoma e tumori solidi infantili; la seconda è riservata all’Assistenza
domiciliare per i bambini emato-oncologici. L’Associazione APLETI, con ostinazione, ha voluto avviare
un progetto pilota “Care-net”, partito il 17 ottobre 2008, grazie al contributo della Regione Puglia, nelle
persone del Presidente Nichi Vendola e dell’Assessore Alberto Tedesco. Questo progetto permetterà alla
Clinica Pediatrica del Policlinico di Bari di essere il primo centro del Sud che si avvale dell’assistenza a
casa dei piccoli pazienti, in linea con le direttive nazionali. E se oggi si parla di Assistenza domiciliare
pediatrica è merito anche del dott. Luca Manfredini, dell’Istituto Gaslini di Genova, a cui l’Associazione
APLETI ha dedicato la targa di Socio onorario.
L’IMPEGNO DELL’APLETI: UMANIZZARE L’ASSISTENZA ONCOLOGICA PEDIATRICA
Francesco P. Murgolo
Presidente APLETI onlus Bari
L’APLETI (Associazione Pugliese per la Lotta contro le Emopatie e i Tumori
nella Infanzia) è una onlus, accreditata presso le Cliniche Pediatriche dell’A.
O. Policlinico di Bari, impegnata nell’assistenza dei pazienti oncologici in
età pediatrica e nel sostegno delle loro famiglie.
L’APLETI è sorta nel 1980 ed è iscritta nel Registro Regionale delle Organizzazioni di
Volontariato ed alla FIAGOP (Federazione Italiana Associazioni Genitori di Oncoematologia
Pediatrica).
L’impegno e gli sforzi dell’APLETI mirano, in maniera sinergica tra loro, al conseguimento
di importanti obiettivi:
meno ospedalizzazione
meno dolore
meno viaggi della speranza
più sorrisi
attraverso l’allestimento di una rete per l’assistenza domiciliare
oncologica pediatrica, favorendo in tal modo di realizzare
condizioni di vita il più possibile "normali" per i piccoli pazienti;
assicurando l’esecuzione in narcosi di procedure invasive e
dolorose previste dai protocolli di cura e favorendo l’affermarsi
della “cultura” delle cure palliative;
migliorando la qualità dell’assistenza, attraverso l’ampliamento
del numero di medici del reparto e sostenendo iniziative di
formazione, borse di studio e contratti per i medici e paramedici;
tutto questo contribuisce ad avere
grazie allo sforzo e all’impegno di tutti.
L'Associazione, di concerto con il Reparto di Pediatria Oncologica del Policlinico di Bari
e grazie anche al sostegno della Fondazione Nicolaus, è impegnata, in una logica di continuità
assistenziale, in iniziative volte a favorire la riduzione del periodo di permanenza in ospedale
dei piccoli pazienti. Tale obiettivo è conseguito attraverso l’organizzazione di Care-Net per
assistere il bambino presso il suo domicilio. L’APLETI è anche impegnata nella organizzazione
di servizi di ospitalità in strutture abitative esterne, ma contigue al Policlinico, dei piccoli pazienti
residenti fuori provincia e delle loro famiglie.
La collaborazione con la Fondazione Nicolaus, onlus del Gruppo Megamark di Trani,
favorirà la nascita presso il Policlinico di Bari di un Centro di competenza sulle Cure palliative
in Pediatria. Il Centro sarà così in grado di aiutare i bambini e le famiglie che affrontano la fase
più disperata della malattia: quella in cui non è più possibile curare, ma in cui ci si prende cura
del congiunto. Care-Net intende allestire una rete di professionisti per l'umanizzazione dell'assistenza
oncologica dei pazienti in età pediatrica capace di dare risposte adeguate, non solo ai problemi
di natura strettamente oncologica, ma complessivamente a tutte le situazioni correlate alla
malattia. Care-Net vuole migliorare la qualità della vita dei piccoli pazienti e dei loro famigliari:
permettendo di ridurne il disagio fisico e psicologico, favorendo dimissioni precoci, riducendo i
costi dell'assistenza. Care-Net vuole affermare un cambiamento sostanziale: non più il malato
che gravita intorno alla struttura sanitaria, ma è l'organizzazione dei servizi assistenziali a gravitare
intorno al paziente ed ai suoi bisogni.
L'iniziativa ha il suo fulcro operativo presso l'U. O. "F. Vecchio" delle Cliniche Pediatriche
del Policlinico di Bari e ne completa e complementa l'offerta assistenziale. Infatti, l'assistenza
domiciliare rappresenta un miglioramento della qualità della vita: permettendo di ridurre il disagio
fisico e psicologico di bambini e loro familiari, favorendo dimissioni precoci, riducendo i costi
dell'assistenza.
La Giunta Regionale Pugliese ha ammesso a finanziamento Care-Net tra i Progetti di
Rilevanza Regionale nell'ambito del DIEF 2007 e 2008.
Sali sul Nostro Treno con la tua Solidarietà, quando Scenderemo Saremo tutti più
Ricchi Grazie al Sorriso di un Bambino
Per contatti:
Segreteria Apleti Onlus - c/o Cliniche Peditriche Policlinico di Bari
Tel./ fax: 080.5574324 - [email protected] - www.apleti.it
PRESENTAZIONE FONDAZIONE NEUROBLASTOMA
Filippo Leonardo
Vice Presidente Fondazione Neuroblastoma
Nel 1998 nasce la Fondazione Italiana per la Lotta al Neuroblastoma ONLUS, che è fonte
di ricchezza per la ricerca scientifica sul Neuroblastoma e i tumori solidi pediatrici .
La Fondazione sostiene e finanzia a livello internazionale i principali gruppi impegnati sul
Neuroblastoma ed i tumori solidi pediatrici, oltre a potenziare il Laboratorio di Ricerca che già
oggi in Genova è realtà.
Nel laboratorio si svolgono ricerche nel campo della genetica, biologia molecolare,
diagnostica, attraverso l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia.
La Fondazione finanzia studi di ricerca clinica traslazionale e applicata, di biostatistica,
di epidemiologia e progetti speciali su tutto il territorio nazionale, ovunque esistano studi promettenti.
Da sempre sostiene il progetto clinico isto-patologico che consente una tempestiva e
precisa diagnosi al fine di individuare un trattamento terapeutico d’eccellenza personalizzato per
il piccolo paziente, ovunque sia in Italia il centro di cura.
La Fondazione si impegna a:
migliorare le conoscenze biologiche del Neuroblastoma ed i tumori solidi pediatrici
attraverso ricerche su base molecolare genetica;
individuare nuovi farmaci specifici ed efficaci per i piccoli pazienti;
applicare i risultati ottenuti sostenendo progetti di ricerca traslazionale;
assicurare una diagnostica all’avangardia per tutti i pazienti italiani afferenti ai protocolli
terapeutici.
La mission della Fondazione è raggiungere la più profonda conoscenza biologica sul
Neuroblastoma ed i tumori solidi pediatrici al fine di sviluppare le cure che rendano queste
patologie guaribili.
PRESENTAZIONE FONDAZIONE NICOLAUS
Giovanni Pomarico
Presidente Fondazione Nicolaus Onlus
La Fondazione Nicolaus è una onlus (organizzazione non lucrativa di utilità sociale)
costituita nel 2000 ad opera del Gruppo Megamark di Trani. La fondazione è nata per volontà
del presidente del gruppo, il cavaliere del lavoro Giovanni Pomarico, in ricordo del fratello Nicola.
Le risorse donate alla fondazione sono impiegate in progetti in ambito sociale, sportivo,
culturale e turistico. L’organizzazione ha lo scopo di promuovere e favorire concrete iniziative
di filantropia e di promozione sociale e sanitaria atte a consentire la crescita e lo sviluppo di una
collettività rispettosa dei valori della solidarietà ed attenta alle esigenze delle persone, considerate
individualmente e nel loro aggregato familiare e sociale in tutti gli stadi della loro vita.
Nel 2008, la Fondazione Nicolaus ha scelto di schierarsi al fianco dei bambini pugliesi
nella lotta contro le patologie oncologiche. Si tratta di patologie gravi (dalle quali un numero
elevato di pazienti riesce a guarire) che necessitano di periodiche cure sanitarie, un’assistenza
assidua e un progressivo sviluppo della ricerca scientifica.
La Fondazione Nicolaus si è impegnata a supportare le principali associazioni di volontariato
del territorio pugliese che si occupano della cura dei bambini oncologici. Tra l’associazione
pugliese APLETI, il reparto di Pediatria Oncologica del Policlinico di Bari e la Fondazione Nicolaus
è nata una partnership, una preziosa collaborazione che mira a raggiungere insieme degli obiettivi
comuni: in particolare migliorare le condizioni dei piccoli pazienti, finanziare la ricerca, stanziare
fondi e borse di studio per giovani medici specializzandi e specializzati.
Di qui la nascita de La casa di Pedro, il progetto di responsabilità sociale che la Fondazione
Nicolaus del Gruppo Megamark, con il sostegno dei propri supermercati dok, A&O e Famila e
in partnership con l’ APLETI, ha l’obiettivo di sostenere il Reparto di Pediatria Oncologica del
Policlinico di Bari e i suoi piccoli degenti. Con La casa di Pedro la fondazione sosterrà direttamente
o attraverso iniziative di raccolta fondi il finanziamento di attività volte a migliorare la qualità della
vita dei piccoli pazienti oncologici pugliesi e delle loro famiglie. Tra le attività, la formazione di
medici e paramedici, la costituzione di un centro di competenza sulle ‘cure palliative e terapie
del dolore in pediatria’, l'assistenza domiciliare e l’organizzazione di convegni scientifici su queste
tematiche. Pedro è la mascotte del progetto: è un simpatico bambino, caratterizzato da grandi
occhi azzurri. Pedro è un bimbo sano, felice, vivace, buono e amico di tutti. Il nome Pedro deriva
dell’acronimo Pediatria Reparto Oncologico. Pedro ha amici d’eccezione, in particolare due illustri
testimonial: Antonio Conte, l’allenatore dell’A.S. Bari, e Giovanni Muciaccia, conosciuto dal grande
pubblico dei bambini per il suo programma televisivo ‘Art Attack’.
Per maggiori info: www.fondazionenicolaus.it
PRESENTAZIONE ROTARY CLUB
Vincenzo Fedele
Presidente Rotary Club Martina Franca
Tra le malattie che colpiscono i bambini, il neuroblastoma è certamente tra le più nefaste
e soprattutto subdole. Aver contribuito alla realizzazione di questo convegno ci onora, ma
principalmente ci dona la speranza affinchè i medici possano in un immediato futuro diagnosticarle
in tempo.
Il Rotary pone da sempre massima attenzione a queste problematiche e proprio quest’anno,
il Presidente Internazionale ha spronato ogni Club (ne siamo nel mondo circa 32.000 con oltre
1.200.000 soci) ad intervenire con impegno e concretamente alla loro soluzione.
Auspico pertanto che questa giornata, dedicata ad una più profonda conoscenza di questo
male, possa dare agli operatori del settore più certezza e sicurezza nel loro impegno quotidiano.
EPIDEMIOLOGIA DEL NEUROBLASTOMA
Francesco De Leonardis
Bari
Il neuroblastoma è il più frequente tumore extracranico dell’infanzia rappresentando circa
l’8-10% di tutti le neoplasie dell’età pediatrica. Il neuroblastoma ha una prevalenza di 1 caso
ogni 7000 nati vivi corrispondente a circa 10.5 ogni milione di bambini di età inferiore a 15 anni
per anno.
L’incidenza di tale neoplasia è pressoché identica in ogni parte del mondo o perlomeno
fra i paesi industrializzati. La neoplasia è appena più frequente nei maschi con un rapporto
maschi/femmine di 1,1:1. L’età media alla diagnosi è di 19 mesi; il 36% dei nuovi casi ha un’età
inferiore a 1 anno, l’ 89% ha meno di 5 anni ed il 98% meno di 10 anni.
L’eziologia è essenzialmente ignota.
INQUADRAMENTO CLINICO-DIAGNOSTICO
Massimo Conte
Genova
Il Nb rappresenta circa l’8 -10% dei tumori che insorgono in età pediatrica, preceduto per
frequenza solo dalla leucemia acuta e dai tumori del sistema nervoso centrale. Come avviene
per tutti i tumori di origine embrionale colpisce in particolare i bambini nei primi anni di vita (0-5
anni); in generale l’età mediana alla diagnosi non supera i 18 mesi ed è sicuramente la neoplasia
di più frequente diagnosi nell’epoca neonatale o nel primo anno di vita.
Notevoli progressi sono stati fatti negli ultimi decenni nella comprensione dell’oncogenesi
e della biologia del NB e per alcune di queste acquisizioni è ormai certa la stretta correlazione
con la prognosi (es. oncogene MYCN, grado di differenziazione istologica).
Dal punto di vista clinico il NB è un tumore con caratteristiche del tutto peculiari che
possono così essere sintetizzate:
1. diverso comportamento a secondo che l’età sia inferiore o maggiore all’anno alla diagnosi;
2. elevata frequenza di metastasi (> 50% dei casi) all’atto della prima osservazione;
3. capacità di regredire spontaneamente nei bambini molto piccoli anche con malattia metastica
(INSS, stadio 4s);
4. scarso impatto sulla prognosi da parte della moderna terapia multidisciplinare a differenza
di quanto avvenuto negli ultimi anni per altre neoplasie pediatriche.
PRESENTAZIONE CLINICA
La prevalenza del sistema nervoso simpatico a livello addominale (surrene-gangli
paravertebrali e retroperitoneali) fa sì che in oltre i due terzi dei casi il NB si presenti sotto forma
di una massa addominale di forma, dimensioni e consistenza assolutamente variabili.
In questi casi i sintomi d’esordio sono generalmente rappresentati da dolore addominale,
turbe dell’alvo, inappetenza, tumefazione addominale.
Meno frequente (circa il 20%) è la localizzazione mediastinica posteriore che può manifestarsi
con disturbi respiratori, tosse da compressione tracheale, infezioni respiratorie recidivanti, febbre,
o talvolta essere reperto casuale ad un esame RX eseguito per altre motivazioni.
Infrequenti (circa 5-10%) i casi con localizzazione primitiva pelvica che si manifestano con
l’evidenza di una massa ipogastrica o disturbi dell’alvo e della diuresi, o laterocervicale che
possono mimare un’adenopatia infiammatoria.
In caso di malattia disseminata a midollo osseo e/o scheletro, sedi queste più frequenti
di metastatizzazione del NB, ai sintomi di distretto causati dalla massa tumorale possono
aggiungersi quelli dovuti all’infiltrazione metastatica e quindi il dolore osseo, l’esoftalmo bilaterale,
le ecchimosi palpebrali, petecchie ed ematomi cutanei, febbre persistente; a tali segni clinici si
associano nella quasi totalità dei casi la presenza di un’anemia e piastrinopenia marcata.
PARTICOLARI QUADRI CLINICI D’ESORDIO
Compressione midollare
Seguendo le connessioni del sistema nervoso simpatico con quello centrale il NB può
accedere al canale midollare e comprimere il midollo spinale e/o le radici sottostanti determinando
un quadro clinico caratterizzato da dolore rachideo, turbe motorie e sensoriali ingravescenti,
alterazioni sfinteriali che spesso nel bambino sono di difficile identificazione.
In questi casi la precocità della diagnosi e l’inizio quindi di un’adeguata terapia medica o
chirurgica (decompressione midollare) sono fondamentali per un completo recupero neurologico
che è invece estremamente difficile di fronte a quadri di conclamata paraplegia flaccida.
Encefalopatia mioclonica
Circa il 2% dei casi con NB sviluppa un quadro neurologico caratterizzato da: opsoclonoatassia-mioclonie diffuse, estrema irritabilità e regressione delle acquisizioni psicomotorie con
esiti invalidanti nella sfera psico-cognitiva.
Questa sindrome conosciuta anche come “sindrome degli occhi danzanti” può insorgere
in assenza di altri segni di neoplasia o in alcuni casi precedere il tumore anche di diversi mesi.
La sua eziopatogenesi è legata ad una condizione autoimmunitaria che comporta la
produzione di auto-anticorpi in grado di reagire con le cellule tumorali e con quelle neuronali del
cervelletto provocando la comparsa dei sintomi neurologici attraverso una desincronizzazione
elettrica delle cellule neuronali.
L’encefalopatia mioclonica è la sindrome paraneoplastica più frequente e più tipica del
NB e quindi il tumore va sempre ricercato di fronte ad un bambino che presenti questo tipo di
sintomatologia.
Diarrea acquosa
Meno dell’1% dei casi di NB sviluppa all’esordio un quadro di grave diarrea acquosa
insensibile alle terapie specifiche. La causa del fenomeno risiede nella produzione da parte della
neoplasia di un ormone attivo sui vasi intestinali, il VIP. Il disturbo regredisce solitamente con
la cura del tumore.
INQUADRAMENTO DIAGNOSTICO
L’inquadramento diagnostico del NB prevede:
1.
Lo studio del tumore primitivo con esame ecografico e TC, nelle localizzazioni mediastinicheparavertebrali e pelviche è indicata l’esecuzione della risonanza magnetica per meglio definire
i rapporti anatomici con le strutture contigue o l’eventuale interessamento del canale midollare.
L’imaging tumorale deve essere poi completato anche con l’esame scintigrafico mediante 123I-MIBG.
2.
Lo studio della malattia midollare ed ossea mediante scintigrafia con 123-I-MIBG, l’aspirato
midollare (2-4 sedi) e l’esecuzione di almeno 2 biopsie ossee dalle creste iliache (queste ultime
non sono mandatorie nel bambino con età < 1 anno alla diagnosi).
3.
Lo studio dei markers tumorali: dosaggio di LDH-NSE-Ferritina sierica e catecolamine
urinarie su urine di 24 ore (VMA-HVA).
4.
Lo studio istologico e biologico del tumore : grading istologico, studio dell’amplificazione
di MYCN, delezione di 1p e contenuto di DNA delle cellule tumorali.
Questo esteso work-up tumorale permette di stadiare adeguatamente la malattia utilizzando
criteri internazionali (INSS) e definirne le caratteristiche isto-biologiche alfine di ottimizzare sempre
più il trattamento di questi piccoli pazienti.
IL PEDIATRA DI BASE E L’ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA
Valerio Cecinati
Bari
Ci sono 130-140 nuove diagnosi di tumore per milione di bambini per anno,questo implica
2.000 casi di tumore / milione di bambini nell’arco della vita pediatrica (15 anni), in altri termini,
un bambino su 500 bambini svilupperà un tumore. Almeno 1.300 dei 2.000 bambini con tumore
(65-70%) va incontro a guarigione (nelle aree del mondo tecnologicamente evolute).
In Italia sono 1300 circa i casi di nuove diagnosi. Nel periodo 1967-2001 (Registro del
Piemonte) si sono rilevati:
aumenti dei tassi di incidenza per tutti i tumori nel loro insieme
–
aumenti dei tassi di incidenza
–
leucemie, tutti i tipi e tutte le classi di età
–
leucemie linfatiche acute nella classe di età 1-4 anni
–
tumori cerebrali (miglioramento diagnostico)
–
neuroblastoma (ecografie in gravidanza)
–
diminuzioni dei tassi di incidenza per i Linfomi NH, in controtendenza con gli altri tumori.
Ad un pediatra di base si verifica che mediamente segue 500 bambini e 1 è il numero di
tumori che si svilupperanno in 500 bambini nel corso dei 15 anni della vita pediatrica 2 - 4 è il
numero di casi di tumore che un pediatra di base incontrerà nella sua vita professionale. Il curante
può sentirsi inadeguato a gestire le problematiche per lui inusuali che un bambino con tumore
pone durante il suo iter diagnostico-terapeutico.
L’ipotesi di un tumore è lontana psicologicamente dalla mente del pediatra, per cui si cerca
di rimuoverla. La seconda difficoltà è il notevole coinvolgimento emotivo come rischio del pediatra
ed inoltre c’è difficoltà ed incertezza nell’interpretazione dei sintomi, spesso aspecifici.
Da un sondaggio condotto qualche anno fa (FIMP) emerge che la richiesta di aggiornamento
su argomenti di ematologia ed oncologia è molto modesta (10-12%), forse perché è un problema
non ritenuto rilevante.
La gestione del bambino affetto da neoplasia ha subito negli ultimi anni una evoluzione
profonda, legata a molteplici fattori.
La complessità crescente dei trattamenti, sempre più differenziati e modulati per intensità
a seconda di specifici fattori di rischio, ha comportato un impegno sempre maggiore da parte
dei Centri di Oncoematologia Pediatrica e ha reso evidente la necessità di stabilire una collaborazione
con i pediatri di base. La conoscenza del bambino e della sua famiglia, il rapporto di fiducia che
si è instaurato con gli anni, rendono indispensabile la partecipazione del pediatra a tutto il percorso
diagnostico-terapeutico.
L’iter di un bambino con patologia onco-ematologica è abbastanza complesso, dal momento
dell’accoglienza, alla diagnosi, alla recidiva che può esitare in guarigione od exitus.
LA DEPRESSIONE DEI GENITORI: ASPETTI PSICOLOGICI
Mariagrazia Carone
Bari
Negli anni di esperienza psico-terapeutica sui sistemi umani, ed in particolare sulla famiglia,
mi è capitato di approcciare spesso problemi psicologici e relazionali di familiari di piccoli pazienti
(o ex pazienti) onco-ematologici.
Quando mi è stato proposto di svolgere una consulenza per i bambini ricoverati in oncoematologia, tale evidenza mi ha ulteriormente rafforzata nell’idea di dover stilare un progetto che
contemplasse un servizio a sostegno dell’intero nucleo familiare e, ove si fosse reso necessario,
mirato alla ristrutturazione terapeutica dello stesso.
Nell’ambito dell’Ambulatorio dell’U. O. “F. Vecchio” della Clinica Pediatrica A.O. Policlinico
di Bari, è stato portato avanti un lavoro di ricerca, assieme agli oncologi pediatrici Nicola Santoro
e Valerio Cecinati, alla psicologa Fara Dolce e ad un team di specializzandi medici e di psicologi
tirocinanti, mirato a:
verificare come i genitori percepiscono gli stati d’animo del figlio e come gli stessi vivono
questa situazione problematica
riscontrare eventuali correlazioni tra le difficoltà emozionali del figlio e gli stati ansiosi e
depressivi dei genitori e capire quanto le difficoltà dei bambini siano associate al disagio
psicologico dei genitori
aiutare genitori e figli a confrontarsi con i disagi emotivi e relazionali collegati al manifestarsi
della patologia onco-ematologica per agevolare una formulazione di richiesta di aiuto,
mirata a prevenire l’insorgenza, immediata o dilazionata nel tempo, di possibili danni
psicopatologici.
Sono stati adoperati allo scopo i questionari di personalità auto-somministrati: SDQ (The
Strength and Difficulties Questionnaire) di R. Goodman e SQ (Sympton Questionnaire) di R.
Kellner. Il primo, mirato ad indagare la salute mentale e l’adattamento psicosociale di bambini
ed adolescenti può essere proposto, oltre che a tutti i genitori di minori tra i 3 e i 16 anni, anche
direttamente ai ragazzi tra gli 11 e i 16 anni. Si basa su 25 items, 10 dei quali centrati
sull’esplorazione di eventuali punti di “forza”, 14 per evidenziare potenziali difficoltà ed 1 da
intendere come “neutro”. Il test contempla cinque scale cliniche:
a.
scala dell’iperattività
b.
scala dei sintomi emozionali
c.
scala dei problemi di comportamento
d.
scala dei rapporti con i pari
e.
scala del comportamento prosociale.
Accanto a tale strumento, già adoperato in precedenti ricerche in campo onco-ematologico,
è stato utilizzato anche l’SQ, somministrabile solo ai genitori, per ottenere informazioni anche
sul loro distress e sul loro vissuto relativo alla condizione del figlio ammalato. Esso si compone
di 92 item suddivisi in quattro scale: Ansia, Depressione, Sintomi somatici, Rabbia/Ostilità.
Il campione del presente studio era stato costituito da: 65 madri, 47 padri e 74 piccoli pazienti
(45 tra i 3 e gli 11 anni, 29 tra gli 11 e i 16 anni). Dei 74 pazienti, 50 avevano terminato la terapia
(25 dei quali tra 1 e 3 anni, 12 da 4 a 6 anni, 6 tra i 7 e 10 anni e 7 da meno di un anno), mentre
24 erano ancora in terapia. In totale hanno preso parte alla ricerca 186 persone.
I dati sono stati espressi come medie e deviazioni standard. Per analizzare tutte le varie
correlazioni è stato usato il G-test.
È stato calcolato l’intervallo di confidenza del 95% e per ridurre il rischio di commettere
errori di primo tipo, connessi alle correlazioni multiple e numerose.
E’ stato scelto il livello di correzione alpha di 0.01, altrimenti il livello di significatività
sarebbe settato a p<0.05.
Per tutta l’analisi statistica è stato usato il “The Statistical Package for the Social Science”
(SPSS 14.0), un programma statistico per Windows ampiamente utilizzato nelle ricerche in ambito
sociale.
Il 17.24% dei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni riconosce le proprie difficoltà nella concentrazione
e una certa tendenza all’impulsività. Un elevato punteggio (da 14 a 40), infatti, è stato ottenuto
nella scala che valuta l’iperattività/disattenzione.
Il 36.92% delle madri ha evidenziato difficoltà comportamentali e psicosociali nei loro figli
contro il 27.65% dei padri.
madre
padre
ragazzo
Totale SDQ %
36,92%
27,65%
17,24%
Scala dell’iperattività
3,8
3,4
3,2
Scala dei sintomi emozionali
2,7
2,5
2,2
Scala dei problemi di condotta
2,6
2,7
2,2
Scala del comportamento prosociale
8
8,5
7,4
Scala dei rapporti con i pari
2,4
2,2
1,6
Tabella 3: SDQ padre, madre, ragazzo
Dall’elaborazione dei risultati, relativi alla somministrazione dell’SQ, si evince che i genitori,
in particolare le madri (43% vs 23.4%), hanno ottenuto elevati punteggi nella scala che valuta
l’ansia e in quella dei sintomi somatici.
madre
padre
Ansia
8,84
5
Sintomi somatici
9,4
5,6
Depressione
6,7
4,5
Rabbia/ostilità
5,1
4,7
Totale SQ %
43%
23,4%
Tabella 4: SQ genitori
Abbiamo analizzato numerose correlazioni statistiche tra madre-bambino, padre-bambino
e madre-padre, le più significative delle quali sono apparse quelle tra:
•
i sintomi emozionali manifestati dal bambino e i sintomi somatici e l’ostilità della madre
•
i punteggi nella scala che indaga il comportamento pro sociale dei bambini e quelli nella
scala della depressione delle madri
•
i punteggi dei bambini nella scala dei rapporti con i pari e quelli nella scala dell’ansia e
dell’ostilità delle madri
•
i punteggi dei bambini nella scala dei sintomi emozionali, dell’iperattività e il punteggio dei
padri nella scala dell’ostilità
•
l’ SQ totale elevato dei padri e i problemi di iperattività, i problemi nei rapporti con i pari,
i sintomi emozionali del bambino
•
l’ostilità del padre e l’ansia (49%), la depressione (55%), i sintomi somatici (67%) o altri
problemi emozionali della madre
•
il riconoscimento da parte del padre della presenza di rapporti problematici tra il figlio e i
suoi pari e la depressione (43% dei casi), l’ostilità (21% dei casi), l’SQ totale (43% dei
casi) della madre
•
il riconoscimento da parte del padre della presenza di problemi di condotta nel figlio e il
punteggio elevato nell’SQ totale della madre (43% dei casi).
A seguito della restituzione dei risultati, hanno aderito ad un percorso psicoterapeutico 4
madri, 2 padri, 3 coppie genitoriali e 3 minori.
I risultati della ricerca ci hanno indicato che, contrariamente a quanto comunemente ci
si potrebbe aspettare, i genitori risultano più provati sotto il profilo emozionale rispetto agli stessi
piccoli pazienti.
Inoltre, le madri, che quasi sempre sono le caregiver, sono quelle a maggior rischio di
sviluppo di psicopatologia.
Esse, nel nostro studio, compaiono in numero maggiore rispetto ai padri nel campione,
in quanto sono quelle che molto più spesso accompagnano il figlio per il controllo ambulatoriale.
Inoltre, riconoscono in misura maggiore dei padri i disagi psicologici del figlio, mostrando
anche un maggior grado di empatia nei suoi confronti poiché si focalizzano sulla sofferenza
interiore del figlio, mentre i padri pongono più attenzione al disagio sociale causato dal suo
comportamento: infatti, le madri del nostro campione risultano più attente ai problemi psicocomportamentali, mentre i padri notano ed evidenziano problemi relativi all’iperattività/disattenzione.
Analizzando i dati offertici era facile aspettarsi la percentuale individuata dalla ricerca di
disagi emotivi nei minori onco-ematologici; infatti, durante il decorso della malattia:
•
il bambino è sottoposto spesso a pratiche mediche dolorose ed invasive
•
il bambino perde per molto tempo il contatto con il suo ambiente, vuoi per i lunghi periodi
di ospedalizzazione, vuoi per i timori di contagio legati alle insufficienze del sistema
immunitario
•
i genitori sono spesso portati a sorvolare su molti aspetti educativi per “ricompensare” il
bambino ammalato delle sue sofferenze e privazioni
•
si determina spesso un legame simbiotico con il caregiver, che può diventare deleterio
per l’autonomia e la crescita psicologica dello stesso
•
alcuni dei farmaci usati per la cura, presentando un’elevata tossicità, determinano delle
difficoltà per il pieno sviluppo delle abilità cognitivo-motorie
•
a volte, la malattia e le cure determinano delle mutilazioni, ecc.
Tra i possibili motivi di lettura della sofferenza psicologica evidenziata dai dati relativi ai
genitori possiamo notare che:
•
gli stessi, così come il bambino, si confrontano costantemente con il rischio di un decesso
prematuro
•
l’intimità tra madre/caregiver e padre viene messa in difficoltà dai lunghi periodi di
ospedalizzazione e, comunque, anche dall’ipercoinvolgimento successivo, che perdura
anche successivamente alla dimissione, tra la madre ed un figlio che, per i problemi legati
al deficit immunitario, può avere scarsi contatti con l’ambiente
•
viene a crearsi un nuovo equilibrio, in alcuni casi disfunzionale, tra il nucleo familiare e
la famiglia allargata, poiché diventa necessario per la famiglia mobilitare nuove risorse
per l’accudimento di altri figli
•
possono subentrare delle difficoltà lavorative ed economiche
•
i genitori possono nutrire la preoccupazione che gli altri figli si sentano defraudati della
loro presenza e del loro sostegno, ecc.
•
•
In particolare, per quanto concerne i caregiver:
essi perdono per lungo tempo il contatto con il proprio ambiente lavorativo e sociale
il loro rapporto con gli altri figli viene particolarmente messo in difficoltà, vuoi dai lunghi
periodi di ospedalizzazione vuoi dall’ipercoinvolgimento con i problemi del figlio malato.
TERAPIA DELLA DEPRESSIONE
Ferrara Vito
Acquaviva delle Fonti (BA)
Cosa è la depressione
Questo termine indica una "modificazione, passeggera o durevole, della disposizione affettiva
fondamentale (cioè dell’umore) inquadrabile in una situazione patologica esistenziale".
La depressione entro il 2020 sarà la seconda malattia più diffusa al mondo. L'Italia è un
paese sempre più depresso. Cresce, infatti, rispetto al passato il numero degli italiani vittime della
patologia; ne soffrono in media 17 italiani su 100 e ogni anno si verificano 250 casi in più, ogni
10 mila abitanti. A essere colpiti sono soprattutto donne e giovani.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha affermato recentemente che entro il 2020 la depressione
sarà una delle prime cause disabilitanti dopo le malattie cardiovascolari.
Ma c'è un altro dato allarmante: la depressione colpisce sempre più i bambini (anche sotto i 10
anni), che cominciano a presentarne i primi segni, il più delle volte attraverso il dolore fisico.
La soglia d'età della malattia si sta quindi abbassando in maniera preoccupante:
''Per quanto riguarda i bambini non esistono stime numeriche precise, mentre gli adolescenti
depressi sono circa il 15-17%''. Un bambino su 5 soffre di disturbi mentali.
E' il dolore il sintomo con cui molto spesso si manifesta la depressione. Si tratta di un dolore che
non ha alcuna causa organica, ma che dipende da una componente emozionale. Spesso però
questa componente non viene riconosciuta dal medico e la diagnosi quindi risulta scorretta. I
dolori più denunciati dai depressi sono quelli lombari (circa il 40 per cento dei casi), poi quelli ai
muscoli della nuca, i crampi addominali, il colon irritabile.
Ma c'è un altro dato che preoccupa gli esperti: il tempo che intercorre fra l'insorgenza della
depressione e il ricorso alle cure, che può raggiungere anche gli otto anni e nel caso della psicosi
i dodici anni. Un ultimo dato: tra quanti soffrono di depressione, la metà non ha avuto diagnosi,
mentre la metà dei pazienti che pur hanno ricevuto una diagnosi non riceve cure adeguate.
EZIOPATOGENESI
La depressione si presenta, dal punto di vista biologico, come una malattia sistemica, che coinvolge
molteplici meccanismi. In primo luogo i ben noti sistemi neurotrasmettitoriali serotoninergici e
noradrenergici, ma non meno importante è l'iperattività dell'asse ipotalamo ipofisi surrene e il
ruolo dei corticosteroidi. Anche meccanismi immunologici sono chiamati in causa, soprattutto
nelle forme legate a patologie organiche sistemiche. Da ultimo è rilevante l'azione dei fattori
neurotrofici come il BDNF.
Regole per prevenire la depressione
1) Non separare mai il bene dal male: rifiuta le classificazioni rigide che ti sono state insegnate
da bambino (bene/male, vero/falso, buono/cattivo). Non giudicare, goditi la vita nella sua totalità
di sfaccettature e angolazioni sempre diverse.
2) Sveglia il nuovo: non c’è nulla di immobile, tutto si muove, tutto è dinamico.
Smetti dunque di resistere alle novità, lascia che la tua vita e la tua mente si rinnovino. Impara
ogni giorno qualcosa di nuovo e renderai le tue giornate sempre diverse le une dalle altre.
3) Ritrova la semplicità: quando avrai una casa, un buon lavoro e una bella macchina nel garage,
comincia a pensare né a ieri né a domani, ma al fatto che oggi potrebbe non occorrerti niente
altro per essere felice.
4) Basta abitudini: basta con gli automatismi, ritrova il piacere di farti il caffè, di allacciarti con
consapevolezza le scarpe, di assaporare fino in fondo le dolci sensazioni di una caramella. Non
costringere la mente a ripetere quando potrebbe creare.
5) Metti in pratica i pensieri: fai cose pratiche, ritagliati del tempo per fare una torta, riordinare
vecchie foto, tagliare il prato. Fai sforzi fisici per contrastare un’attività mentale spesso troppo
lunga e portatrice solo di pensieri cupi.
6) Ridi: Il consiglio più prezioso, più grande. Non fare il presuntuoso, non essere troppo serio,
l’ironia sprigiona energia e fa bene a tutto il corpo. Sdrammatizza dunque e non prendere troppo
sul serio i personaggi che interpreti nella vita.
DIAGNOSI E FORME DI DEPRESSIONE
Disturbo depressivo maggiore (DDM)
Noto anche come depressione unipolare e disturbo unipolare, si tratta di un disturbo depressivo
episodico grave.
I sintomi devono essere presenti per almeno due settimane e rappresentano una modificazione
rispetto al funzionamento precedente. Più comune nelle donne che negli uomini (2:1). Variazione
diurna dei sintomi con peggioramento nelle prime ore del mattino.
Sono presenti rallentamento o agitazione psicomotoria. Associato a segni vegetativi e deliri
congruenti con l'umore; possono essere presenti allucinazioni. Età mediana di esordio 40 anni,
ma può manifestarsi ad ogni età.
Disturbo distimico (precedentemente noto come nevrosi depressiva)
Meno grave del DDM, è più comune e cronico nelle donne. Esordio insidioso. Si manifesta più
spesso con storia di stress cronico o perdite improvvise; spesso coesiste con altri disturbi
psichiatrici, ad esempio abuso di sostanze, disturbi di personalità e DOC. Dovrebbero essere
presenti almeno due dei seguenti sintomi: scarso appetito, iperfagia, disturbi del sonno, facile
affaticabilità, scarsa autostima, scarsa capacità di concentrazione o difficoltà nel prendere
decisioni e sentimenti di disperazione, per almeno 2 anni.
Depressione reattiva o reazione depressiva
Da non confondersi con DDM, si ha quando i sintomi sono legati ad un evento scatenante (lutto,
stress elevato). Si tratta di un fenomeno senza caratteri cronici (sintomi per meno di due mesi).
Criteri del DSM-IV per la diagnosi dell'episodio depressivo maggiore
Cinque o più dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo
di 2 settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento;
almeno uno dei sintomi è costituito da umore depresso o perdita di interesse o piacere.
a) Umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto
o come osservato da altri.
b) Marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior
parte del giorno, quasi ogni giorno.
c) Significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure
diminuzione o aumento dell'appetito quasi ogni giorno.
d) Insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno.
e) Agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
f) Faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno.
g) Sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati di colpa quasi ogni
giorno.
h) Diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi, o difficoltà a prendere decisioni, quasi
ogni giorno.
i) Ricorrenti pensieri di morte, ricorrente ideazione suicida senza elaborazione di piani specifici,
oppure un tentativo di suicidio o l'elaborazione di un piano specifico per commettere suicidio.
I sintomi causano disagio clinicamente significativo o un'alterazione del funzionamento sociale,
lavorativo, o di altre importanti aree, non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza
o a una condizione medica generale, non sono meglio giustificati da lutto, cioè dopo la perdita
di una persona cara i sintomi persistono per più di due mesi o sono caratterizzati da una
compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi
psicotici o rallentamento psicomotorio.
L'alterazione dell'umore è sufficientemente grave da causare una marcata compromissione del
funzionamento lavorativo, o delle attività sociali abituali, o delle relazioni interpersonali, o da
richiedere l'ospedalizzazione per prevenire danni a sè o agli altri, oppure sono presenti
manifestazioni psicotiche. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza
o di una condizione medica generale. La Depressione ed i sintomi correlati sono scarsamente
riportati dai pazienti e, purtroppo, anche sotto-diagnosticati a livello clinico e, quindi, sotto-trattati
a livello terapeutico.
TERAPIA
Gli interventi efficaci nel trattamento della depressione sono suddivisibili in due tipi principali:
quello farmacologico e quello psicoterapeutico.
Farmacologico
I criteri di scelta sono diversi e molteplici ma sono affidati all’esperienza ed alla competenza del
medico (o dello psichiatra). Ne possiamo citare qualcuno:
•
se nella sintomatologia prevale il rallentamento, l’inibizione psicomotoria, opteremo per
farmaci più attivanti, disinibenti
•
se prevale la componente ansiosa, sceglieremo quelli più sedativi
•
se il soggetto tende a somatizzare, o se ha una comorbidità con il disturbo di panico,
cercheremo di usare farmaci e dosi che potenzialmente diano meno effetti indesiderati
•
nelle depressioni gravi, la preoccupazione per gli effetti indesiderati può essere minore
•
negli uomini, dovremo tener conto dei possibili effetti sulla sfera sessuale e, negli anziani,
dei problemi prostatici
•
nelle donne, dovremo preoccuparci di evitare o limitare l’incremento ponderale, della
gravidanza e dell’allattamento
•
nei pazienti con disturbo bipolare, si dovranno evitare farmaci che favoriscono il viraggio
verso la mania
I primi farmaci furono scoperti verso la metà degli anni Cinquanta. Da allora numerosi sono stati
gli antidepressivi immessi nel mercato. Non tutti hanno avuto successo, alcuni hanno resistito
all’arrivo dei nuovi farmaci, altri sono usciti dal commercio perché o poco efficaci di per sé o
perché surclassati dai nuovi arrivati o perché gravati da maggiori effetti collaterali.
Generalmente gli antidepressivi si suddividono in gruppi in funzione della struttura chimica o del/i
neuro-mediatore/i su cui agiscono.
I gruppi principali sono:
1)
gli inibitori delle monoaminoossidasi o I-MAO, tali farmaci inibiscono l'enzima
monoamminossidasi che catabolizza la serotonina, la noradrenalina e la dopamina;
i rischi nell'uso di questi farmaci risiedono nella loro cattiva interazione con i triciclici e con
i cibi contenenti l'aminoacido tirosina.
2)
gli antidepressivi triciclici o TCA, sono stati i farmaci antidepressivi più utilizzati;
le amine terziarie hanno gravi effetti collaterali (stipsi, tossicità cardiaca, ansia, ipotensione
ortostatica); le amine secondarie hanno effetti collaterali più lievi. Questi farmaci inibiscono
il riassorbimento noradrenalina, serotonina o dopamina.
3) gli antidepressivi Atipci, e gli inibitori selettivi del reuptake di uno o più
neuromediatori:
gli SSRI: serotonin selective reuptake inhibitors, Inibitori selettivi del reuptake della
serotonina, bloccano il riassorbimento della serotonina. Questi farmaci possono vantare
il minor numero di effetti collaterali.
i NaRI: noradrenalin reuptake inhibitors,
gli SNRI: serotonin-noradrenalin reuptake inhibitors,
i NaSSA: noradrenergic and specific serotonergic antidepressants, modulatori della
trasmissione serotoninergica e noradrenergica.
Queste terapie devono quindi avere come obiettivo l'intervento precoce, il raggiungimento di una
remissione anche dei cosiddetti sintomi residui e una durata adeguata a prevenire le recidive,
che risultano più serie e più complesse da curare.
Efficacia della terapia farmacologica dopo circa sei settimane e dopo circa quattro mesi
All’atto della prescrizione farmacologica è stato consigliato ai pazienti un controllo a distanza di
un periodo di 4-6 settimane, tempo necessario per valutare l’efficacia dei farmaci sulla sintomatologia
clinica.
I riscontri sono stati estremamente positivi, nel senso che, in circa l’80% dei casi, si è avuto un
miglioramento della depressione, dell’ansia e del dap.
Si trattava di un miglioramento in linea con le attese, considerando che, nel primo mese di terapia,
è stata data l'indicazione di una dose di farmaci bassa. Era comunque presente la chiara
percezione soggettiva del miglioramento ottenuto e ciò determinava, da parte del paziente, un
atteggiamento più positivo sul fatto di poter uscire dallo stato di crisi e quindi uno stato d’animo
più fiducioso. Circa la metà trae beneficio nell’arco di un mese.
Sospensione della terapia farmacologica dopo 6-8 mesi
Per quanto riguarda le sospensioni del trattamento farmacologico dopo circa 6-8 mesi di cura,
sono state riscontrate delle difficoltà, nel senso che molti pazienti sono resistenti a lasciare la
terapia (ricordiamo che gli antidepressivi non danno dipendenza fisica). Il timore di fondo è che
i sintomi tornino a manifestarsi.
Psicoterapeutico
Si è visto che i pazienti rispondono positivamente alle terapie cognitive/comportamentali/psicodinamiche di gruppo o individuali purché brevi. L'ampia letteratura a suo sostegno e la preferenza
manifestata dai pazienti, fanno oggi optare più favorevolmente per la psicoterapia cognitiva della
depressione che lavora sul nucleo della malattia, ovvero l'ideazione depressiva (teoria interpretativa
della realtà molto stereotipata da parte del paziente).
La psicoterapia cognitiva consiste nel:
far rendere conto al soggetto di questa stereotipia interpretativa attraverso l'uso di diari
personali. Il paziente per ogni episodio depressivo significativo deve descrivere l'antecedente
e il suo conseguente comportamento.
ristrutturazione cognitiva: modifica delle convinzioni stereotipate del paziente.
Terapia elettroconvulsivante
Benché i meccanismi che la rendono efficace siano ancora sconosciuti, l'induzione di convulsioni
di 25-30 sec. attraverso elettrodi, si è dimostrata efficace contro la depressione. Tuttavia essa
è sconsigliabile nel caso siano presenti lesioni al SNC associate a pressione endocranica, con
problemi cardiovascolari e in concomitanza all'uso di farmaci ipertensivi e antidepressivi.
Conclusioni
Innanzi tutto, va rilevata la difficoltà di contatto tra chi soffre di disturbi depressivi e d’ansia e
lo specialista neuro-psichiatra a causa di pregiudizi profondi e radicati sia nei confronti del tipo
di disturbo, sia nei confronti di questa figura professionale.
Pregiudizi investono anche gli psicofarmaci, da alcuni ritenuti come droghe che creano dipendenza,
da altri investiti, al contrario, di valenze magico-salvifiche.
I dati scientifici attestano che, una volta superate le varie barriere pregiudiziali, l’intervento
farmacologico ha altissime probabilità di successo: in circa il 90% dei casi è, infatti, efficace sulla
sintomatologia clinica. L’intervento con i farmaci va in ogni caso considerato un intervento da
effettuare nella fase acuta del disturbo, per un periodo limitato di tempo.
Nella fase successiva devono essere presi in esame gli elementi causali che l’hanno determinata.
E’ fondamentale, in questa fase, la collaborazione tra il medico e il paziente, poiché gli elementi
causali variano da caso a caso. La loro individuazione è molto importante, poiché da essa
derivano le successive indicazioni terapeutiche.
Per affrontare il malessere psichico è necessario mettere in atto una strategia terapeutica, la
prima fase della quale è spesso, ma non sempre, di tipo farmacologico.
Ad essa deve seguire un’indicazione personalizzata che non è assolutamente possibile
standardizzare, poiché dipendente dalla storia, dalla personalità e dalla vita affettiva della singola
persona.
TERAPIA MEDICA
Bruno De Bernardi
Genova
TERAPIA
Il trattamento dei bambini con neuroblastoma dipende da 3 fattori principali: l’età, l’estensione
della malattia (stadio) e dal numero di copie dell’oncogene MYCN. Le modalità terapeutiche
correntemente adottate sono chirurgia, chemioterapia e radioterapia e, nei tempi più recenti, dalla
terapia differenziativa, che viene somministrata ai pazienti ad alto rischio, una volta acquisita la
remissione completa della malattia. La possibilità di guarigione del neuroblastoma con l’approccio
multidisciplinare sopra indicato, è tuttora insoddisfacente. Si spiega il grande sforzo dei pediatri
oncologi e dei ricercatori per identificare nuove e più efficaci terapie.
Chirurgia
La chirurgia viene utilizzata sia a scopo diagnostico che per il trattamento dei pazienti.
Il primo approccio chirurgico (chirurgia primaria) ha i seguenti obiettivi: 1. asportare il tumore
primitivo, in assenza di fattori di rischio chirurgico documentati dagli studi radiologici; 2. definire
l’estensione tumorale; 3. fornire all’anatomopatologo ed al biologo una quantità sufficiente di
tessuto tumorale.
Nella chirurgia secondaria (second look), il chirurgo interviene per resecare un tumore che la
chemioterapia ha ridotto di dimensioni, riducendo i fattori di rischio.
La chirurgia è solitamente l’unica terapia, in assenza di fattori biologici sfavorevoli, nei pazienti
con tumore localizzato, anche se l’intervento non è stato radicale e ha lasciato quindi residui
micro- o macroscopici.
Recentemente, si è ipotizzato che il tumore localizzato scoperto nei primi mesi di vita possa
essere oggetto di osservazione longitudinale, in considerazione della sua tendenza alla regressione
spontanea a questa età.
Radioterapia
Benché il neuroblastoma sia considerato un tumore radiosensibile, il ruolo della terapia radiante
nell’approccio terapeutico complessivo è ancora mal definito. Tuttavia, in presenza di amplificazione
dell’oncogene MYCN, si ritiene attualmente che la sede del tumore primitivo debba essere
sottoposta a radioterapia. Nei casi di malattia stadio 4 invece, non è ancora definito se la
radioterapia possa ridurre il rischio di recidiva locale. Altre condizioni cliniche che potrebbero
trarre beneficio dalla terapia radiante sono:
1. l’ingrandimento progressivo delle dimensioni epatiche nei casi 4s;
2. un quadro di compressione midollare sintomatico; e 3. la presenza di lesioni metastatiche
ossee che causano sintomatologia dolorosa.
La radioterapia metabolica con MIBG associata a Iodio-131 può avere efficacia nell’eradicazione
di residui tumorali locali, e forse anche di focolai metastatici ossei isolati.
Chemioterapia
La chemioterapia è la principale modalità terapeutica del neuroblastoma nei pazienti con malattia
a rischio intermedio o elevato. Negli ultimi tre decenni sono stati identificati vari farmaci efficaci
su questo tumore, come risultato di studi di fase 1 e 2, eseguiti su bambini con malattia non
responsiva o recidivata.
Questi studi hanno identificato sostanze ad azione diversa, ed in particolare: 1. veleni del fuso
mitotico (es. vincristina), 2. agenti alchilanti (es. ciclofosfamide ), 3. analoghi del platino (es.
carboplatino), 4. podofillotossine (es. etoposide), 5. prodotti naturali o semisintetici (es. doxorubicina)
che agiscono con diverso meccanismo d’azione. Combinando questi farmaci i ricercatori clinici
hanno disegnato protocolli polichemioterapici con i quali si sono ottenute risposte tumorali di
crescente entità, anche se la percentuale di guarigione dei pazienti è rimasta insoddisfacente,
e comunque inferiore a quelle ottenute nella maggior parte dei tumori infantili.
Tra le recenti acquisizioni della ricerca farmacologica antitumorale, va segnalato il Topotecan,
un inibitore della topoisomerasi 1, che ha un’elevata attività in pazienti con neuroblastoma
recidivato. Altri farmaci, in particolare l’irinotecan e la combinazione di melphalan e butionina
sulfoximide appaiono promettenti e sono in corso di studio.
Va segnalato infine l’uso orale dell’etoposide, che si è dimostrato particolarmente efficace come
farmaco palliativo, anche per la sua modesta tossicità.
Terapia guidata da fattori di rischio
Un notevole sforzo si è fatto nell’ultimo decennio per adattare la terapia del neuroblastoma alla
presenza di fattori che predicono un cattivo andamento clinico, che incrementano cioè l’insorgenza
di recidiva. A tale scopo, la maggioranza dei gruppi clinici che nel mondo si occupano di
neuroblastoma hanno collaborato per creare un comune database e hanno così costruito uno
schema operativo che costituisce la base per studi riguardanti sottogruppi di pazienti a rischio
basso, intermedio ed elevato.
Basso rischio
La sopravvivenza per i pazienti di questo gruppo è superiore al 95%. Vi sono inclusi tutti i bambini
di stadio 1 e quelli di stadio 2A/2B e di stadio 4s, purchè senza amplificazione del gene MYCN.
I pazienti di stadio 1, 2A/2B sono trattati solamente con chirurgia e la chemioterapia è indicata
unicamente in caso di recidiva.
I pazienti di stadio 4s che non presentano sintomi alla diagnosi non ricevono alcuna terapia e
sono quindi sottoposti ad osservazione longitudinale, mentre quelli sintomatici (soprattutto di
stress respiratorio secondario ad epatomegalia), richiedono chemioterapia fino a regressione
dei sintomi stessi.
Il Gruppo Europeo Neuroblastoma (SIOPEN) ritiene che la definizione di Basso Rischio possa
essere estesa ai bambini di età inferiore all’anno di stadio 4, purchè non presentino metastasi
al polmone, sistema nervoso centrale e scheletro, intendendo per interessamento scheletrico
la positività scintigrafia associata ad alterazioni radiologiche.
Rischio intermedio
La possibilità di guarigione di questi pazienti è superiore all’80%. Vi sono inclusi tutti i bambini
con tumore primitivo inoperabile e bambini di età inferiore all’anno, con stadio 4 metastatico al
polmone, allo scheletro, e al sistema nervoso centrale. Ambedue questi gruppi di pazienti ricevono
chemioterapia allo scopo di ridurre la massa tumorale e, nel secondo caso, di eradicare la malattia
metastatica.
Alto rischio
La sopravvivenza di questi pazienti è inferiore al 30%. Si tratta di bambini di stadio 4, di età
superiore all’anno e di stadio 2, 3 e 4s con l’amplificazione dell’oncogene MYCN. La cattiva
prognosi di questi pazienti ha indotto a disegnare protocolli terapeutici aggressivi che includono
chemioterapia ad alte dosi seguita da inclusione di cellule staminali emopoietiche autologhe.
Questi pazienti ricevono anche radioterapia sul letto tumorale dopo l’intervento chirurgico. Questi
pazienti ricevono poi acido retinoico orale sulla base della dimostrazione che questa sostanza
induce effetto differenziativo su cellule tumorali in coltura. Uno studio randomizzato del Children’s
Cancer Group ha inoltre dimostrato che anche in vivo questa terapia produce effetti benefici.
NUOVE TERAPIE
La ricerca di farmaci e strategie terapeutiche innovative è necessaria e dovrebbe essere
attivamente perseguita per migliorare la prognosi dei pazienti con neuroblastoma ad alto rischio.
Retinoidi
I retinoidi sono derivati della Vitamina A che includono l’acido all-trans-retinoico (ATRA), l’acido
9-cis retinico (RA), l’acido 13-cis retinico, e la N-(4-idrossifenilretinamide) (HPR), nota anche
come fenretinide.
L’acido 13-cis retinico è un componente dei protocolli per pazienti ad alto rischio. Il suo presunto
meccanismo d’azione è quello di indurre la differenziazione delle cellule tumorali residue dopo
trapianto di midollo autologo e chemioterapia ad alte dosi.
L’HPR è un potente induttore di apoptosi per cellule di neuroblastoma in vitro. In uno studio di
fase l’HPR è stata somministrata per via orale per periodi fino a 28 giorni con buona tollerabilità
e scarsa tossicità. I livelli plasmatici del farmaco erano comparabili a quelli capaci di indurre
apoptosi in vitro delle linee di neuroblastoma. Questi risultati sono stati confermati in uno studio
successivo di fase I in cui la fenretinide è stata somministrata per via orale a 54 bambini affetti
da tumori solidi ad alto rischio, 39 dei quali affetti da neuroblstoma.
Anticorpi monoclonali diretti contro antigeni tumore-associati
Anticorpi monoclonali murini e chimerici specifici per il ganglioside GD2 sono stati testati in trias
clinici di fase I-II. I meccanismi tramite i quali gli anticorpi anti-GD2 uccidono le cellule tumorali
dipendono dall’attivazione del complemento e della citotossicità cellulare mediata da anticorpi
(ADCC).
Proteine di fusione
Una proteina di fusione in cui la citochina interleuchina 2 (IL-2) è stata fusa ad un anticorpo antiGD2 (EMD 273063) ha dimostrato un’eccellente attività anti-neuroblastoma in modelli pre-clinici
legata al reclutamento di linfociti T e cellule NK attivati nella massa tumorale. In un recente studio
di fase I la proteina di fusione si è dimostrata ben tollerata e capace di attivare il sistema
immunitario del paziente.
Terapia genica
Tutti gli studi clinici condotti fino ad oggi hanno arruolato pazienti con malattia avanzata o
refrattaria, che sono stati vaccinati con cellule tumorali autologhe o allogeniche trasfettate con
geni di citochine (IL-2, IL-2 e linfotactina) usando diversi protocolli. Complessivamente sono stati
trattati 42 pazienti in 4 studi pubblicati usando vaccini e schemi terapeutici differenti.
Nel sangue periferico dei bambini vaccinati è stata dimostrata chiaramente l’attivazione del
sistema immunitario sotto forma di eosinofilia indotta da IL-2, generazione di linfociti T citotossici
e anticorpi anti-tumore.
Terapia anti-angiogenica
Il grado di vascolarizzazione nel neuroblastoma è associato a cattiva prognosi e l’elevata
espressione di fattori pro-angiogenici, specialmente di Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF),
è stata dimostrata negli stadi avanzati di questo tumore. Il bevacizumab (Avastin) è un anticorpo
monoclonale umanizzato anti-VEGF dotato di attività anti-angiogenica ed anti-tumorale in modelli
preclinici attualmente utilizzato in molti trial clinici. Al momento Avastin non è stato sperimentato
in trial con pazienti affetti da neuroblastoma.
Imatinib mesilato (ST571 o Gleevec) è un inibitore selettivo della tiroxina chinasi Abl in cellule
di leucemia mieloide cronica che blocca anche le attività tirosino-chinasiche di c-Kit (il recettore
per stem cell factor) e del recettore per platelet derived growth factor (PDGFR). Imatinib inibisce
la crescita di cellule di neuroblastoma sia in vitro sia in vivo in virtù della loro espressione di ckit e PDGFR a e b. L’inibizione è legata alla soppressione della fosforilazione di c-Kit o PDGFR
ed all’inibizione dell’espressione di VEGF, risultante nella compromissione della neoangiogenesi
tumorale. Pertanto Gleevec è candidato promettente per il trattamento del neuroblastoma.
Targeting liposomiale di tumore e vasi tumorali
Liposomi rivestiti di anticorpi monolclonali anti-GD2 o peptici capaci di legare specificamente i
vasi del tumore sono stati usati in alcuni modelli preclinici per veicolare sulla massa neoplastica
alcune molecole ad attività anti-neuroblastoma come retinoidi, farmaci citotossici e oligonucleotidi
antisenso. Questa strategia terapeutica risparmia i tessuti sani dalla tossicità dei farmaci che
vengono indirizzati al tumore.
TERAPIA CHIRURGICA
Antonino Rizzo
Bari
Il ruolo del chirurgo si realizza nel contesto multidisciplinare
– alla diagnosi
• Biopsia, o exeresi
• Posizionamento di CVC
– dopo “preparazione” chemioterapica
• Exeresi, o biopsia
– nella osservazione longitudinale
• Complicanze in corso di terapia
• Complicanze a lungo termine
– analisi critica del ruolo della chirurgia
Neuroblastoma
Quesiti chirurgici in corsi di studio
•
Definizione dei fattori di rischio (studio europeo in corso)
•
L’asportazione radicale della neoplasia è sempre necessaria?
•
La resezione del tumore primitivo è utile nello stadio 4s?
L’Unità di Pediatria, oltre ad offrire standard terapeutici ottimali ai bambini e adolescenti con
patologie tumorali, è coinvolta in progetti di studi clinici a livello nazionale e internazionale con
la finalità di identificare programmi di trattamento correlati alle caratteristiche biologiche di ogni
specifica malattia.
In aggiunta a questo aspetto squisitamente scientifico, l’equipe terapeutica rivolge
un’attenzione particolare alla necessità di realizzare con le famiglie dei giovani pazienti l’indispensabile “alleanza terapeutica” per consentire a bambini e adolescenti ammalati una vita
quotidiana fatta di rapporti familiari, gioco e studio sia in ospedale, sia nelle successive fasi di
cure e controlli ambulatoriali.
Questa strategia è condivisa da tutta l’equipe nella quale, accanto a medici e infermieri,
lavorano insegnanti, educatori, operatori psico-sociali e volontari.
La ricerca clinica è particolarmente attiva nei seguenti ambiti:
rappresentano più del 50% delle patologie ogni anno diagnosticate presso l’Unità di Pediatria
e sono secondi solo alle leucemie come frequenza fra le neoplasie infantili.
In questo ambito sono in corso per i diversi istotipi studi mono o multi-istituzionali che intendono
migliorare le probabilità di sopravvivenza o indagare nuovi approcci terapeutici per le forme meno
responsive. Il protocollo istituzionale per i bambini maggiori di 3 anni affetti da medulloblastoma/PNET
localizzato ha permesso di ottenere percentuali di EFS e OS a 3 anni rispettivamente
del 70% e 78%. Lo studio multicentrico italiano per l’ependimoma ha evidenziato una prognosi
migliore per i pazienti con istotipo classico (PFS 76%, OS 90%) rispetto a quelli con istotipo
anaplastico (PFS e OS del 35% e 45%, rispettivamente), consentendo così di disegnare un
nuovo programma di ricerca basato su tale stratificazione istologica.
LA COMUNICAZIONE DELLA DIAGNOSI IN ONCOEMATOLOGIA PEDIATRICA
Momcilo Jankovic
Monza (MI)
Il malato, prima di essere “un caso clinico” è una persona e quindi è molto importante che il
medico abbia una carica di umanità nell’approccio al paziente tanto più se è “un piccolo paziente”
ed è altrettanto importante che tale approccio sia un insieme di comunicatività e di cuore.
Una volta in ospedale, o meglio, ogni volta che hanno iniziato un processo diagnostico e terapeutico,
il bambino malato e la sua famiglia non devono essere lasciati soli con le loro angosce, le loro
incertezze, i fantasmi delle loro fantasie, ma deve iniziare per loro un cammino il più strutturato
e supportato possibile: è essenziale creare con loro una comunicazione franca e aperta che li
aiuti a capire e gestire la malattia, facendo comunque ricorso soprattutto alle capacità di ciascun
componente della famiglia.
Le energie di ognuno vanno perciò fatte confluire verso un obiettivo concreto comune: la vera
guarigione della malattia, sia essa grave o meno grave, acuta o cronica, e il raggiungimento di
quella che definiamo oggi con tanta enfasi la maggior qualità di vita possibile.
Le modalità con cui instaurare e realizzare tale comunicazione nelle varie fasi di una malattia
costituiscono ancor oggi motivo di controversia e incertezza.
La comunicazione medico-paziente è una comunicazione sbilanciata, in quanto esiste solamente
in uno dei due interlocutori (il paziente) un evidente stato di necessità. Di conseguenza è il medico
(soggetto “forte” all’interno del processo) ad avere la maggior responsabilità del successo o meno
della comunicazione.
La comunicazione medico-paziente avviene solitamente in modo diretto ed è quindi una
comunicazione ricca di informazioni verbali e non verbali.
Se l’obiettivo del medico è, come naturale che sia, quello di facilitare il processo di comunicazione,
questi dovrà essere particolarmente attento a trasmettere verbalmente ed extraverbalmente
messaggi coerenti che non pongano il suo interlocutore nella condizione di dover decidere quali
interpretare come più significativi.
L’interlocutore sarà poi attentissimo a cogliere ogni sfumatura del messaggio che proviene dal
suo medico e riempirà ogni “vuoto comunicativo” di interpretazioni sue. Interpreterà i silenzi, le
incertezze, l’aggrottare della fronte, così come anche eventuali differenze dal modo di comportarsi
abituale del medico. Non considererà mai che il medico è un individuo come lui e che quindi è
portatore (indipendentemente dall’immutata professionalità con la quale svolgerà il suo lavoro)
di stati d’animo contingenti e personali che potranno, in momenti diversi, renderlo più o meno
affabile, più o meno loquace…
D’altro canto anche il medico dovrà essere attento a recepire dal paziente non solo quanto questi
gli stia dicendo a parole, ma anche i messaggi non verbali che possono, con discreta probabilità,
non essere coerenti.
Quanto più la comunicazione sarà ricca di feedback, ovvero di verifiche, domande, richieste di
chiarimenti e di precisazioni, tanto più sarà difficile, per il paziente, dissimulare a parole ciò che
in realtà pensa o sente.
La maggior difficoltà nel comunicare una diagnosi o meglio un “progetto di cura” non è tanto nel
“cosa” dire ma nel “come” dirlo, e con quanti dettagli: anche il bambino richiede e merita rispetto.
Molti genitori trovano difficile parlare ai propri figli, specie se piccoli, di argomenti o malattie
“gravi” o comunque a prognosi incerta e questo rende ancora più necessario un intervento convinto
e convincente dell’operatore sanitario.
Infatti il genitore ha paura a rivelare tutto al bambino; il mistero attiva nel bambino le fantasie più
negative; il genitore traduce le fantasie negative del bambino in stress e il bambino pur realizzando
che qualcosa non va bene tace per non fare del male al genitore.
Non è un “gioco” ma un insieme di situazioni nelle quali occorre mettere ordine per costruire al
meglio per i genitori e per il figlio quel progetto di cura che sta alla base dell’interruzione del
“circuito chiuso” che viene a crearsi. Essere “trasparenti” vuol dire saper comunicare, e saper
comunicare vuol dire mettere in comune qualcosa, quindi dare ma saper anche ricevere da loro
... e i bambini danno molto.
I bambini non dimentichiamolo sono i migliori maestri; il loro insegnamento però è molto spesso
non verbale e quindi va accolto e ricercato nel loro modo di “essere” e di star loro vicini.
Facciamo riferimento alla patologia oncologica più frequente, la leucemia, e alla sua modalità
di comunicazione di diagnosi.
I punti essenziali del procedere, consolidati nel corso degli anni, sono così riassumibili:
1.
Comunicazione ad entrambi i genitori del progetto di cura da parte del responsabile del
Centro (direttore) o di un responsabile clinico da lui delegato; presenza anche del medico di
reparto, di un’infermiera e se possibile del pediatra di famiglia; l’ambiente di colloquio deve essere
tranquillo, senza telefono, e con l’obiettivo di registrare l’incontro (della durata media di 40 minuti).
2.
Dato che il Centro periferico non può avere gli elementi completi (tipizzazione immunologica,
biologia molecolare) per formulare il cosiddetto “progetto di cura” (appropriatezza del protocollo
di assegnazione e conseguente “iter terapeutico”) è giusto che, se ha la certezza che si tratti di
una leucemia/tumore, lo comunichi ai genitori; deve essere motivata la necessità di essere
impostati e seguiti da un Centro di riferimento, mentre il Centro periferico si comporterà da Centro
“satellite” per controlli ed esecuzione di alcune terapie su indicazione del Cento di riferimento
stesso. Qualora invece il Centro periferico non abbia elementi per poter parlare di leucemia/tumore
è sufficiente riferire il bambino ad un Centro maggiore parlando di “anemia” da inquadrare o,
comunque, di “malattia del sangue” o “massa” da identificare. Alla domanda: ma può essere
leucemia/tumore? Non escluderla, ma nemmeno confermarla: l’incertezza, in questi casi, è
preferibile ad una certezza dubbiosa.
3.
Il medico, da solo o insieme ad un’infermiera o a un giovane medico, parla al bambino e
agli eventuali fratelli. I genitori sono volutamente esclusi dalla presentazione.
La metodologia utilizzata è quella “dialogata”; viene fatta la comunicazione con il supporto di un
set di 25 diapositive (trasferite più recentemente su un libretto per facilità di somministrazione),
molte delle quali sono cartoni animati, nelle quali il processo patologico (la malattia) viene illustrato
con un’analogia con un giardino fiorito: gli elementi che rendono bello un giardino, i fiori, le piante
e l’erba come quelli che rendono funzionale il midollo, i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine
sono minacciati rispettivamente dalle erbacce (ortiche) e dai blasti (cellule cattive) che crescendo
spontaneamente rovinano il giardino e il midollo. Il giardiniere per un po’ di tempo deve strappare
le erbacce come il medico, tramite i farmaci per bocca o endovena deve distruggere i blasti. Pur
rispettando la volontà dei genitori, è stato previsto di chiamare la malattia con il suo vero nome
(leucemia, tumore).
La comunicazione al bambino ha una durata massima di 15 minuti, quindi volutamente breve
per non infastidirlo troppo.
4.
La comunicazione viene eseguita nei primi giorni dall’ingresso in ospedale dopo che è
stata fatta la comunicazione ai genitori (che vengono ovviamente informati della metodologia e
sui contenuti che verranno presentati ai bambini) e soprattutto nel rispetto delle sue condizioni
cliniche (che devono prevedere la sua partecipazione dialogata).
5.
Il bambino (ed eventuali fratelli) viene sollecitato a riferire ai genitori quello di cui si è
parlato insieme; ai più piccoli viene richiesto un disegno e ai più grandicelli un temino sui contenuti
discussi insieme: tutto ciò che ha il compito di “aprire” la comunicazione intrafamiliare.
Da circa 5 anni, sempre con l’approvazione dei genitori, vengono coinvolti nella comunicazione
della diagnosi anche i fratelli. Si parla quindi al bambino della sua malattia insieme ai fratelli (si
è arrivati a parlare a 6 bambini di diverse età tutti insieme!) che vengono personalmente, o tramite
genitori, invitati ad esserci.
La metodologia è quella sopraindicata e anche a loro, compatibilmente con l’età, viene richiesto
un temino o un disegno, e comunque di spiegare il tutto ai genitori insieme al fratellino (o sorellina)
malato.
Il processo di comunicazione inizia con la diagnosi ma, rispetto alla fase dell'anamnesi, è a ruoli
invertiti, cioè il pediatra è il trasmittente ed il genitore (ed eventualmente il bambino) il ricevente.
Il medico deve essere particolarmente attento a recepire il feedback (e se questo non sorge
spontaneo deve essere pronto a sollecitarlo), per rendersi perfettamente conto se, cosa e quanto
del messaggio da lui trasmesso è stato recepito.
E’ molto frequente che il genitore, già prima di far intervenire il medico, abbia elaborato una “sua"
diagnosi sulla base di convinzioni personali, di reale o presunta esperienza empirica, di colloqui
con amici e parenti, di notizie lette o sentite da qualche parte.
In questo caso, se la diagnosi del pediatra dovesse casualmente coincidere con quella ipotizzata
dal genitore o quantomeno "contenerla", l'accettazione sarà facile, mentre lo sarà molto meno
se dovesse smentirla o se dovesse contenere degli elementi che il genitore potrebbe essere
portato a leggere come conseguenza di una sua negligenza. Lo stesso iniziale rifiuto, istintivo,
può avvenire in caso venga diagnosticata una patologia grave o dall’esito incerto.
In questo momento il processo di comunicazione vive la sua fase più critica.
Il genitore è riluttante nell'accettare la diagnosi del medico, d'altra parte è cosciente di non potersi
sostituire ad esso ed inoltre, per quanto si senta legittimato a rappresentare il figlio in tutto e per
tutto, sente di non potersi assumere la responsabilità, nei confronti di una terza persona, di far
prevalere il suo parere su quello del medico.
A questo punto, se il medico ha avuto già il modo ed il tempo di instaurare un buon rapporto di
fiducia, potrà spendere l'autorità che da questa fiducia gli deriva; altrimenti, dovrà fronteggiare
la reazione del genitore.
Il genitore ha, per dirla in termini scacchistici, due "mosse”: una è la delegittimazione del medico.
Naturalmente non una delegittimazione sul piano professionale, anche perché è consapevole
di non avere gli strumenti oggettivi per poterlo fare, ma dal punto di vista comportamentale. L’altra
mossa è quella di cercare di far regredire il processo di comunicazione alla fase dell’anamnesi
ritornando soggetto trasmittente e aggiungendo ulteriori informazioni che ritiene funzionali a far
propendere per la "sua" diagnosi.
La prima "mossa" dovrà essere prevenuta: nella comunicazione diretta sono di fondamentale
importanza, al di là delle parole, i comportamenti, ed è a questi che il medico dovrà porre sempre
la massima attenzione. Il suo approccio alla comunicazione sarà sempre inevitabilmente valutato
alla stessa stregua (se non con peso maggiore) delle sue capacità professionali.
Alla seconda "mossa" si potrà rispondere attivando una comunicazione a due vie con il genitore
che lo rassicuri sull'efficacia e la funzionalità del suo contributo informativo per l'elaborazione
della diagnosi. Valorizzando il ruolo del genitore in fase di anamnesi, il pediatra protegge il proprio
ruolo in fase di diagnosi.
La possibilità di comunicare la diagnosi anche al bambino, sempre che questi sia in grado di
poterla comprendere, dipende dalla accettazione, da parte del genitore, che ciò avvenga. La
cosa risulta comunque auspicabile dal punto di vista della efficacia della comunicazione.
Se la diagnosi viene comunicata solo al genitore, il bambino esce dal processo di comunicazione.
Il genitore ha, a questo punto, il controllo esclusivo del rapporto col bambino.
Se la diagnosi viene, viceversa, comunicata anche al bambino o all’adolescente, il pediatra avrà
due interlocutori distinti.
La comunicazione della diagnosi è uno dei momenti più delicati nel rapporto medico-paziente
o, come nel caso della pediatria, medico-genitore-bambino e deve quindi essere affrontato nel
migliore possibile dei modi. Innanzi tutto, nessuna fretta. Meglio qualche ora o qualche giorno
di ritardo nella sua comunicazione, che non anticiparla a quando il medico, seppur già relativamente
sicuro, non ha ancora in suo possesso la totalità degli elementi necessari ad una formulazione
completa.
E poi è importantissimo che il medico abbia la consapevolezza che comunicare la diagnosi non
significa informare qualcuno di qualcosa, ma significa «mettere in comune”, "condividere", con i
genitori, ma anche con il bambino, il risultato al quale egli è giunto.
Naturalmente non tutte le diagnosi che un pediatra deve comunicare riguardano patologie
importanti e/o dall'esito non scontato, ma qualora si sia in uno di questi casi bisogna avere sempre
l'accortezza di comunicarla contemporaneamente ad entrambi i genitori, se non anche a qualche
altro parente particolarmente vicino al bambino (ad esempio qualche nonno). Questo perché è
da evitare che uno dei due genitori sia informato, in modo indiretto, dall'altro, con il rischio che
l'informazione trasferita non sia completa e corretta o risenta del carico emozionale che
inevitabilmente il genitore "informato" porta con sé.
Ma cosa va detto ai genitori? Senz'altro "cos'è" la malattia (e non solo qual è il suo nome),
quale percorso sarà necessario intraprendere per affrontarla e alcune indicazioni riguardo
la prognosi.
Legare immediatamente la comunicazione della diagnosi al cosiddetto "progetto di cura" è di
grande importanza, perché dà la sensazione ai genitori che c'è il modo di intervenire e che il loro
medico è già proiettato verso questo obiettivo.
In caso di patologie impegnative (pensiamo ad esempio, come riportato, ad una leucemia) sarebbe
sempre indicato coinvolgere al momento della comunicazione della diagnosi anche il pediatra
curante del bambino: questi potrà essere un utilissimo alleato nel sostenere la famiglia durante
il percorso terapeutico.
Oggi sta anche consolidandosi la tendenza a registrare la comunicazione della diagnosi, ovviamente
previa autorizzazione, e fornire ai genitori la "cassetta" in modo che possano eventualmente
risentire con calma alcuni passaggi. Senza considerare che la registrazione può essere anche
uno stimolo, per il medico, a farla "al meglio".
A questo punto sorge l'impegnativo dilemma se comunicare o meno al bambino, nei termini nei
quali è in grado di comprenderlo, che ha una determinata malattia e che pertanto dovrà, per
guarire, affrontare delle cure. La risposta è senz'altro sì. Innanzi tutto, glielo si dica o meno, il
bambino percepisce comunque, già dai primissimi momenti, che c'è qualcosa che "non va" e che
lo riguarda. Lo legge, molto più facilmente di come forse immaginiamo, negli occhi, negli
atteggiamenti dei suoi genitori e familiari, e questa aurea di mistero lo può portare a considerare
la sua malattia ancora più grave di quanto non sia.
La comunicazione al bambino è, comprensibilmente, un momento delicatissimo. In pochi minuti
(sappiamo come la soglia di attenzione di un bambino sia di brevissima durata) dobbiamo
"raccontargli" la sua malattia utilizzando modelli (che devono essere adattati da soggetto a
soggetto) a lui comprensibili; dargli sicurezza circa la possibilità di superarla attraverso cure che
però devono durare "un certo tempo" (inutile dare indicazioni precise ma prepararlo - nei casi
di malattia cronica - a qualcosa che non si risolve immediatamente); giustificare ai suoi occhi
alcune trasformazioni che potranno riguardare il mondo che lo circonda (genitori preoccupati,
abitudini familiari modificate) e, soprattutto, rassicurarlo sulla "spontaneità" della malattia, per
prevenire i sensi di colpa che molto frequentemente il bambino si addossa quando è colpito da
una malattia, attribuendola ad una conseguenza a suoi comportamenti, quando non addirittura
ad una "punizione".
Non tutte le diagnosi riguardano patologie gravi. Il pediatra si trova molto più spesso - fortunatamente
- a diagnosticare patologie di lieve entità e certamente benigne. La comunicazione della diagnosi
perderà, in questi casi, molto della drammaticità qui descritta (certo non registreremo la
comunicazione di una diagnosi di bronchite), ma ciò che invece non deve cambiare mai è lo
spirito, da parte del pediatra, con il quale la si affronta. La comunicazione della diagnosi non
deve essere considerata un "momento", ma l'inizio di un processo di comunicazione che terminerà
quando tutto il decorso della patologia, sia pure una banale influenza, sarà compiuto.
ASSISTENZA DOMICILIARE AL BAMBINO CON NEUROBLASTOMA
Pierangela Rana
Bisceglie (BA)
L’assistenza domiciliare al bambino oncologico non è regolata da alcun codice.
È un’ assistenza domiciliare ordinaria.
È affidata esclusivamente al tipo di rapporto tra la famiglia e il pediatra.
La famiglia, una volta diagnosticata la malattia, si affida al parere dell’oncologo per ogni sintomo,
anche i compiti specifici (per es eparinizzazione del Broviac) vengono eseguiti dagli stessi genitori
adeguatamente addestrati dal personale ospedaliero.
Il pediatra viene interpellato in caso di malattie intercorrenti se lo specialista lo richiede
espressamente.
Provvede alla compilazione delle richieste di farmaci ed esami necessari per il follow up.
L’assistenza domiciliare da parte del pediatra è condizionata da:
1.
coinvolgimento emotivo delle parti
2.
disponibilità del pediatra al sostegno della famiglia
3.
conoscenza sufficiente della malattia per una informazione empatica sul decorso
4.
presenza e sostegno nelle fasi terminali.
ASSISTENZA DOMICILIARE NEL PAZIENTE ONCOLOGICO
Luca Manfredini - Lucia Derosas
Genova
DEFINIZIONE DELLE CURE DOMICILIARI
Le cure domiciliari (così come definito dal documento del Ministero della Salute) consistono in
trattamenti medici, infermieristici, riabilitativi, prestati da personale qualificato per la cura e
l’assistenza alle persone non autosufficienti e in condizioni di fragilità, con patologie in atto o
esiti delle stesse, per stabilizzare il quadro clinico, limitare il declino funzionale e migliorare la
qualità della vita quotidiana. Il livello di bisogno clinico, funzionale e sociale deve essere valutato
di volta in volta attraverso idonei strumenti che consentano la definizione del programma
assistenziale ed il conseguente impegno di risorse. Le cure domiciliari non sono infatti un
contenitore “rigido” di semplici prestazioni ripetitive ma, al contrario, devono essere uno strumento
flessibile in grado di rispondere al bisogno in maniera soddisfacente. Per tale motivo la differente
intensità di cura dell’Assistenza domiciliare deve essere in funzione del bisogno e della complessità
e non subordinata a rigidi assetti organizzativi.
Una logica fondamentale delle cure domiciliari è costituita dalla loro stretta integrazione con
l’ospedale, costituendo diversi momenti di un unico processo in cui ricovero ospedaliero, accesso
di day-hospital od ambulatoriale e cura domiciliare si intersecano tra di loro. Vi deve quindi essere
tra questi vari momenti assistenziali un’integrazione al massimo livello in grado di definire un
percorso senza interruzioni e differenze nella qualità dell’assistenza.
Gli obiettivi principali delle cure domiciliari sono:
a) l’assistenza a persone con patologie trattabili a domicilio al fine di evitare il ricorso inappropriato
al ricovero in ospedale o ad altra struttura residenziale
b) la continuità assistenziale per i dimessi dalle strutture sanitarie con necessità di prosecuzione
delle cure
c) il supporto alla famiglia
d) il recupero delle capacità residue di autonomia e di relazione
e) il miglioramento della qualità di vita anche nella fase terminale.
I Piani Sanitari Nazionali degli ultimi anni hanno dedicato un’attenzione particolare al rilancio e
allo sviluppo dei progetti di cure a domicilio, rilevando l’importanza di un approccio alla salute
che valorizzi gli interventi domiciliari e territoriali al pari di quelli ospedalieri. Le nuove risposte
assistenziali (de-ospedalizzazione – consolidamento cure domiciliari) richiedono pertanto un
forte incremento della flessibilità organizzativa e la ricerca di nuovi strumenti gestionali che
assicurino l’appropriatezza degli interventi, la sostenibilità dei modelli, il gradimento dei pazienti,
la qualità professionale e l’efficacia degli interventi, per poter permettere il trasferimento al
domicilio di competenze specialistiche tipiche della degenza ospedaliera.
Oltre che al miglioramento della qualità delle cure ed all’erogazione di una più adeguata
personalizzazione dell’assistenza, tutto ciò è anche orientato alla ricerca del miglior utilizzo delle
risorse, a garanzia di un razionale impiego della spesa sanitaria, di una riduzione dei ricoveri
impropri, e quindi anche di un migliore funzionamento degli ospedali stessi destinati ad assumere
sempre più il ruolo di strutture erogatrici di cure intensive in fase acuta e di prestazioni diagnosticoterapeutiche ad elevata complessità.
COME MISURARE L’ATTIVITÀ DELLE CURE DOMICILIARI
Come per tutte le prestazioni sanitarie anche le cure domiciliari necessitano di indicatori che ne
valutino complessità, intensità e che siano in grado di valorizzare al meglio l’aspetto economico,
in termini di risorse impiegate e risorse risparmiate.
Nome
Codice
Descrizione dell’indicatore
Giornate di cura
GDC
Durata in giorni del piano di cura dalla
presa in carico alla dimissione
dal servizio o al decesso
(data dimissione-data
presa in carico) - 1
Giornate effettive
di assistenza
GEA
Numero di giorni nei quali è stato effettuato
almeno un accesso domiciliare
viene incluso il 1°giorno
Coefficiente di
intensità
CIA
% di giorni in cui è stato effettuato un accesso
GEA/GDC
Valore GEA
VG
Valore in euro di una giornata
effettiva di degenza
Costo medio
mensile
CMM
Valore in euro dei costi sostenuti per
un certo paziente per un mese
Formula di calcolo
costo totale del
paziente /GEA
CIA x valore GEA x 30
(Scaccabarozzi et al. 2006)
La combinazione di questi indicatori porta alla identificazione di diversi gruppi con caratteristiche
cliniche ed organizzative omogenee, che possono poi essere valorizzati in base ad un costo per
ciclo di cura che quindi sintetizza in un unico parametro economico intensità e complessità. Tale
parametro rappresenta anche lo strumento indispensabile per valutazioni comparative con altre
modalità di assistenza (p. es. ricovero ordinario, accessi di Day-Hospital).
Le esperienze ed i modelli di Assistenza domiciliare presenti sul territorio italiano, la legislazione
e le referenze bibliografiche disponibili si rifanno in larga misura al paziente anziano, affetto da
patologie non solo neoplastiche ma anche degenerative, cardiovascolari, ortopediche, neurologiche
ecc., con caratteristiche e bisogni assistenziali ben diverse da quelle del bambino.
In questo contesto l'assistenza domiciliare al paziente pediatrico affetto da patologia neoplastica
rappresenta un aspetto peculiare ed interessante di un auspicabile processo di riqualificazione
della funzione di assistenza ospedaliera che tenga conto della necessità di una maggiore attenzione
agli aspetti qualitativi delle cure.
Nei successivi paragrafi descriveremo l’esperienza dell’Unità Operativa Semplice (U.O.S.) di
Assistenza domiciliare istituita nel 2000 all'interno del Dipartimento di Emato-Oncologia Pediatrica
(D.E.O.P.) dell'Istituto Giannina Gaslini.
ASSISTENZA DOMICILIARE ALL’ISTITUTO GASLINI
Dall’aprile 2000 è attiva presso il D.E.O.P. l’U.O.S. di Assistenza domiciliare, istituita per fornire a
pazienti affetti da patologia emato-oncologiche la possibilità di eseguire a domicilio controlli clinici,
emato-biochimici e prestazioni terapeutiche usualmente effettuate in ospedale. L’obiettivo che ci
si era posti era quello di ridurre il più possibile, nelle varie fasi della malattia, gli accessi in ospedale,
e di eseguire presso il domicilio prelievi ematici, visite mediche, terapie endovenose, trasfusioni
di emoderivati, interventi riabilitativi, per facilitare l'inserimento dell'"esperienza malattia" nella
globalità della più ampia e complessa esperienza di vita, favorendo il recupero della quotidianità
nella gestione domestica; ciò anche in considerazione che circa il 75% dei pazienti da noi seguiti
proviene da fuori regione, in particolare dal Sud o da paesi extra-comunitari, aspetto che ulteriormente
negativo oltre quello di dover affrontare malattie severe e spesso a prognosi severa. In particolare
per i bambini in fase terminale e per i loro genitori, la possibilità di poter rimanere a domicilio avrebbe
permesso di vivere questo momento in un ambiente più intimo e raccolto, evitando interferenze
estranee ed inopportune. Parallelamente la riduzione degli accessi in ospedale avrebbe determinato
una miglior utilizzazione delle risorse ospedaliere, in termini di minor congestione della struttura
di day-hospital ed un utilizzo dei settori degenziali per un maggior numero di pazienti sottoposti a
terapie aggressive e a protocolli di seconda linea.
Dal punto di vista organizzativo in fase iniziale l’equipe dell’U.O.S. Assistenza domiciliare era
costituito da 1 medico, 1 infermiera ed una psicologa, nel 2008 l’equipe è costituita da 1 medico
co-ordinatore, 2 medici impegnati nell’assistenza, una caposala, 3 infermiere pediatriche, 1 psicologa,
1 fisioterapista. Sono a disposizione, acquisite tramite donazioni, 2 autovetture e numerose
apparecchiature elettromedicali (pompe infusionali, saturimetri, cardio-monitor, etc.). L’attività è
strutturata sulle 12 ore diurne (7-19), cinque giorni alla settimana ed è evoluta da una iniziale fase
prevalentemente prestazionale (prelievi, antibiotico terapia, trasfusioni e visita medica) ad una
maggiore complessità che include la somministrazione di chemioterapia, la nutrizione entrale e
parenterale totale, l’esecuzione di procedure in sedazione, la gestione delle piaghe da decubito e
la riabilitazione. Sin dall’inizio è stata garantita l’assistenza palliativa ai pazienti in fase terminale.
Una importante caratteristica dell’U.O.S. di Assistenza domiciliare dell’Istituto Gaslini è rappresentata
dalla stretta integrazione del personale, medico ed infermieristico ad essa afferente, con l’attività
dell’intero Dipartimento.
Infatti, a differenza delle classiche organizzazioni di assistenza sul territorio, nelle quali i medici
domiciliaristi, pur avendo stretti contatti sia col territorio (medici di medicina generale, ASL) che
con le strutture ospedaliere dimettenti, rappresentano una struttura a sé, i sanitari della nostra
U.O.S. sono parte integrante della struttura ospedaliera, partecipano regolarmente alle riunioni
interdisciplinari, sono impiegati a rotazione in altre attività del reparto (pur dedicando gran parte
del loro tempo-lavoro alla Assistenza domiciliare), conoscono ed applicano i protocolli di
chemioterapia e terapia di supporto.
L’assistenza nasce quindi dalla valutazione unitaria del bisogno, procede alla definizione unitaria
del progetto di intervento, si realizza con logica collaborativa e valuta in modo integrato i benefici
di salute prodotti. Ne discende che, fermo restando che il medico dell’Assistenza domiciliare è
titolare della responsabilità clinica della scelta delle opzioni assistenziali e dei percorsi diagnostico
terapeutici, il paziente è sempre inserito in un unico percorso assistenziale e percepisce anche
soggettivamente il senso del lavoro di equipe, non avvertendo nessun distacco dalla gestione
ospedaliera, solitamente ritenuta più protettiva, a quella territoriale, potenziale causa di insicurezza
e senso di abbandono. Dal punto di vista pratico i medici “di reparto” propongono ai medici
“domiciliaristi” la presa in carico del paziente, insieme al quale ne valutano le caratteristiche e
l’eligibilità (vedi criteri di accettazione), decidono la frequenza e la tipologia dei controlli,
predispongono il piano di cura ed i punti di rivalutazione e/o di ripresa in carico in regime di
ricovero. Il tutto si esplicita in appositi moduli inseriti nella cartella clinica, che è comune tra
periodo degenziale e periodo a domicilio e nella formale presentazione dell’equipe al paziente
ed alla famiglia, solitamente il giorno della dimissione.
Un’importante miglioramento nella qualità dell’assistenza è stata nel 2007 la possibilità di attivare
il servizio di pronta disponibilità medico-infermieristica, notturna e festiva, a favore di pazienti
in fase avanzata di malattia o in terapia palliativa. La possibilità di trascorrere a casa le fasi
terminali della malattia, sino al decesso, viene offerta alla famiglia come opzione, in alternativa
al rientro a domicilio (come detto nel 75% dei casi fuori Regione se non addirittura in Paesi
stranieri) o all’ospedalizzazione. La scelta dell’assistenza a domicilio era ovviamente subordinata
alla possibilità di mantenere il contatto con l’equipe medico-infermieristica senza soluzione di
continuità, includendo le ore notturne e gli week-end, garantite appunto dal servizio di pronta
disponibilità.
UN ASPETTO PECULIARE: LE CURE PALLIATIVE
Per tutti i pazienti, e soprattutto per i pazienti in fase terminale, la possibilità di poter essere
seguiti a domicilio permette di vivere in modo meno esclusivo la malattia e di affrontare il momento
delicato della terminalità in un ambiente intimo, protetto da interferenze esterne, spesso inutili
o dannose. L’assistenza domiciliare di tali pazienti rappresenta, pertanto, non solo una valida
alternativa al ricovero ospedaliero, ma una reale opportunità di miglioramento della qualità della
vita e della morte. Per curare un bambino a domicilio è fondamentale valutare l’adeguatezza
pratica e psicologica del nucleo familiare, averne la collaborazione con l’obbiettivo principale di
offrire qualcosa in più rispetto al ricovero ospedaliero evitando di generare un senso di abbandono,
riducendo o addirittura annullando il desiderato beneficio.
Irrinunciabile in questo contesto il lavoro in equipe per:
•
analizzare e consentire la verbalizzazione delle paure soggettive nei confronti della morte
all’interno di una relazione professionale, ma empatica con il paziente e la sua famiglia;
•
verificare il grado di comprensione e consapevolezza dei genitori al fine di instaurare un
percorso comunicativo efficace, pur ricordando che esistono limiti autentici e meccanismi di
difesa, che rischiano di limitare o posporre decisioni circa le problematiche di fine vita. È, al
contempo, importante lasciare un legittimo spazio di “consapevole negazione” e speranza che
permette ai genitori di rimanere accanto al figlio in modo attivo;
•
trovare un punto di incontro tra il desiderio legittimo di continuare la terapia cancro-diretta
e la necessità di evitare inutili sofferenze.
Possono essere definite tre tipologie di pazienti con malattia in progressione che in tempi diversi
vengono affidati al servizio di Assistenza domiciliare per cure palliative
“bambino inguaribile”: paziente nella fase di progressione di malattia con un periodo di
vita relativamente lungo; sebbene i trattamenti standard si sono dimostrati inefficaci, ci possono
essere trattamenti sperimentali o palliativi che possono prolungare la vita di mesi od anni;
“bambino terminale”: tutti i trattamenti per arrestare la progressione di malattia si sono
dimostrati inefficaci e vengono somministrati trattamenti esclusivamente palliativi.
“bambino morente”: paziente in cui le condizioni cliniche sono compromesse in modo
importante ed in cui le modificazioni dei parametri vitali denunciano l’imminenza dell’exitus.
La differenziazione in fasi non è un puro esercizio didattico o nosologico, ma corrisponde a
momenti clinici diversi, dove approcci diagnostici e terapeutici sono concettualmente e praticamente
differenti non solo per gli operatori sanitari, ma anche per l’entourage familiare al quale vanno
ripetutamente esplicitati e spiegati.
La presa in carico da parte del Servizio di Assistenza domiciliare di un bambino in terapia palliativa
prevede un processo a più fasi comprendente:
1.
rivalutazione della storia clinica e di malattia del paziente tra i membri dell’equipe curante,
l’equipe dell’Assistenza domiciliare ed i genitori;
2.
valutazione delle terapie, mediche e psicologiche disponibili, dirette ad alleviare le sofferenze,
informando i genitori sulle diverse procedure di cura, inclusa la sedazione terminale, da utilizzare
in base alla evoluzione dei sintomi e della malattia;
3.
confronto sulle modalità e sull’intensità dell’assistenza, sul luogo del possibile decesso
(ospedale o domicilio). In ogni caso la disponibilità del ricovero ospedaliero è sempre stata
garantita anche nei casi in cui il gruppo famigliare aveva scelto in prima battuta la permanenza
a domicilio fino all’exitus;
4.
periodica rivalutazione collegiale del caso da parte dell’equipe dell’Assistenza domiciliare
e successivo aggiornamento con la famiglia;
5.
qualora sia necessario intraprendere la sedazione terminale (dolore non controllato,
agitazione psicomotoria, disturbi respiratori, ecc.), la famiglia viene ulteriormente informata sui
dettagli di questa procedura, sugli operatori che la somministrano, su vantaggi e conseguenze.
Per il controllo del dolore sono stati seguiti i criteri dell’O.M.S., impiegando dapprima farmaci
antinfiammatori non steroidei, da soli o in associazione con oppiodi deboli (codeina o tramadolo)
sino all’utilizzo degli oppioidi maggiori (morfina).
IL RUOLO DELL’INFERMIERE IN ASSISTENZA DOMICILIARE
Fondamentale in un setting domiciliare è il ruolo dell’infermiere pediatrico, consapevole e
determinato. Requisito indispensabile è la forte motivazione che ogni singolo professionista deve
necessariamente avere nel credere innanzitutto che “lo stare a casa” nelle varie fasi della malattia
del bambino sia importante. E’ altresì indispensabile che in Assistenza domiciliare vengano
coinvolti operatori “esperti”, con alle spalle una solida formazione assistenziale ed esperienza
specifica nell’approcciare le malattie emato-oncologiche, evitando, laddove le problematiche
amministrative ed organizzative lo permettono, di assegnare alle strutture di Assistenza domiciliare
personale neo-assunto ed inesperto. Altra caratteristica importante è la capacità e l’elasticità di
inserirsi nell’ambiente familiare, senza venir meno alla propria professionalità: gli operatori
dell’Assistenza domiciliare che quotidianamente vanno a svolgere il proprio lavoro in un ambiente
nuovo, spesso si descrivono come “ospiti” che, rispettosi dei ruoli allo stesso tempo devono dare
delle regole, avendo non raramente la sensazione di “comandare a casa altrui”.
In questi otto anni di attività la crescita professionale delle infermiere pediatriche impegnate
nell’assistenza domiciliare è stata notevole: all’inizio dell’attività domiciliare era “ovvio“ portare
schema e modalità lavorative tipiche del setting ospedaliero a casa, poi si è gradatamente
modificato l’atteggiamento sino a raggiungere una sempre più spiccata flessibilità, dettata anche
dalla necessità di improvvisare soluzioni a fronte di situazioni non preventivate al momento della
partenza dall’ospedale verso il domicilio del paziente. L’infermiera domiciliare, diversamente da
quella del reparto di degenza, non riceve consegne al mattino quando entra in servizio e non
sempre la famiglia avvisa tempestivamente di problemi insorti nella notte o è comunque precisa
nel “raccordo anamnestico” con la situazione clinica precedentemente nota. Anche per far fronte
a ciò, nell’ambito di una progressiva autonomizzazione del lavoro infermieristico (come previsto
dal codice deontologico) è stato concordato, per la somministrazione di farmaci a domicilio, un
“protocollo medico-infermieristico condiviso”, che permette una maggiore agilità e tempestività
nell’affrontare situazioni impreviste quali il malfunzionamento del catetere venoso centrale, la
comparsa di febbre, la gestione del dolore, le reazioni allergiche, etc. La necessità di un approccio
flessibile al paziente a domicilio non esclude peraltro la rilevanza di una precisa organizzazione
interna all’equipe che permetta a tutte le prestazioni assistenziali di essere erogate durante l’orario
di servizio evitando spostamenti “a vuoto” o ripetuti per insufficiente programmazione.
L’altra componente che caratterizza le modalità di Assistenza domiciliare è il nucleo famigliare
del paziente. In una prima fase del progetto sono stati selezionati i nuclei familiari così detti
“adeguati” per i quali il requisito fondamentale era la collaborazione attiva. Negli ultimi anni
esigenze diverse, presenza di pazienti stranieri, carenza di posti di degenza, accompagnate da
una crescente maturità del servizio, hanno portato ad un “arruolamento” in assistenza domiciliare
di ogni tipologia familiare. Per un adeguato e fruttuoso approccio domiciliare è necessaria
l’identificazione di un care-giver, ovvero di colui (solitamente un famigliare) che si prende cura
attivamente del paziente. La diversità di cultura, abitudini consolidate (diverse modalità di gestione
nei centri onco-ematologici di provenienza) e lingua madre (sono sempre più numerosi i pazienti
stranieri presi in carico) costituiscono un ulteriore difficoltà a cui si fa fronte con periodi di prolungato
addestramento del care-giver da parte del personale infermieristico, con l’utilizzo, quando
disponibile, di mediatori culturali, e spesso grazie alla solidarietà ed all’impegno di altre famiglie
in analoghe situazioni.
VALUTAZIONE DEI COSTI E DELLA QUALITÀ DELLE CURE A DOMICILIO
Dopo una prima fase di attività, in cui il riferimento è stato un sistema basato sul nomenclatore
tariffario che elenca le prestazioni remunerabili, rappresentante uno strumento inadeguato per
valorizzare il complesso delle prestazioni erogate, è apparsa evidente la necessità di meglio
analizzare i costi dell’”investimento” domiciliare, fatto da Istituto, Regione e Associazione genitori
(ABEO). Analogamente si sta cercando di proporre metodologie il più oggettive possibili per
misurare la qualità delle cure erogate, che vadano oltre una sensazione generalizzata di
apprezzamento espressa in questi anni dai gruppi famigliari presi in carico.
E’ stato quindi messo a punto, in collaborazione con la Direzione Generale ed il Centro di Controllo
Direzionale dell’Azienda, un progetto di studio che ha i seguenti obbiettivi:
Analisi della capacità di soddisfacimento della domanda (misurata in termini percentuali
derivanti dal rapporto tra n° di pazienti proposti all’Assistenza domiciliare da parte dei 3
settori degenziali del Dipartimento di Emato-Oncologia e n° di pazienti effettivamente presi
in carico);
Validazione dei criteri attualmente in uso per l’inserimento dei pazienti in protocolli
prestazionali ed assistenziali differenziati a seconda di complessità ed assorbimento
risorse;
Definizione del valore delle cure domiciliari secondo criteri basati sulla complessità (bassa,
media, alta e cure palliative) del livello assistenziale, della prestazione erogata e del mix
di risorse utilizzate, superando la remunerazione come somma delle singole prestazioni;
Analisi e confronto dei costi di trattamento di categorie omogenee di pazienti in regime
di ricovero ordinario o di day-hospital e di ospedalizzazione domiciliare.
La naturale evoluzione dello studio dovrebbe poi essere la proposta alla Regione Liguria di DRG
specifici per le cure domiciliari pediatriche, remunerativi per gruppi omogenei, da sottoporre come
ipotesi di lavoro ad altre Regioni ed in definitiva al Ministero della salute per una loro analisi e
validazione.
CONCLUSIONE
L’esperienza maturata in questi anni ha dimostrato come un servizio di Assistenza domiciliare
per pazienti in età pediatrica affetti da patologie Emato-Oncologiche sia ben accetto dalle famiglie
e di valido aiuto ad un miglior utilizzo delle risorse sanitarie.
Il personale sanitario (medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti) impegnato nella gestione del
bambino in progressione di malattia ha sperimentato che l’assistenza domiciliare rappresenta
una possibilità di instaurare un migliore rapporto bambino - famiglia - equipe assistenziale,
un’occasione di fattiva riqualificazione e rimotivazione ed anche una risorsa contro il burn-out
a cui frequentemente è esposto il personale in assistenza impegnato nelle cosiddette “professioni
di aiuto”. Per gli operatori impegnati nel progetto di domiciliarizzazione, poter assistere
contemporaneamente pazienti con buona prognosi e bambini in progressione di malattia permette
inoltre una visione più ampia e globale, seppur specialistica, del “care”, consente di personalizzare
lo stile dell’assistenza pur nel rispetto del ruolo professionale, uscendo dalla routine del reparto
e, nonostante una responsabilità meno condivisa nell’azione, sembra avere un effetto positivo
in termini di riduzione di burn out.
Tabella riassuntiva dell'attività svolta 15 Aprile 2000 – Marzo 2008
La nostra esperienza porta anche ad
Aprile 2000 Aprile 2000
interrogarsi sulla necessità e sulla PERIODO di
Marzo 2001 Marzo 2008
possibilità di estendere questo servizio OSSERVAZIONE
a pazienti affetti da altre patologie cui
TOTALE
ATTIVITÀ
l’Istituto Gaslini offre una qualificata
risposta in termini di ricovero ordinario Nuovi pazienti trattati in Dipartimento
144
1297
e/o day-hospital ma che potrebbero
46
425
giovarsi di un programma di cure Nuovi pazienti arruolati in A.D.
46
578
domiciliari. Si pensi ad esempio a Pazienti complessivi
pazienti con patologie croniche quali Fasi terapeutiche
49
541
fibrosi cistica, neuropatie, nefropatie,
1364
45628
Giorni
totali
di
presa
in
carico
pazienti “fragili” dimessi dalla terapia
881
7500
intensiva. Per essi è auspicabile che Accessi medico-infermieristici domiciliari
551
nei progetti di sviluppo dell’azienda Giornate di DH evitate
4492
trovi spazio il concetto delle cure Giornate di Ricovero ospedaliero evitate
330
1974
domiciliari, con programmi e finan49
608
Cicli di Fisioterapia complessivi
ziamenti dedicati.
530
6418
Non è più possibile oggi sottrarsi alla Prelievi ematici
responsabilità di progettare, program- Giornate terapia endovenosa
137
1172
mare, organizzare e verificare servizi
"
antinfettiva
515
1415
alternativi al ricovero ospedaliero per
"
ormonale
784
268
la cura del paziente in condizione di
"
idratazione
715
fragilità, che prevedano per il cittadino
204
modelli leggeri, non burocratici e
"
antidolorifica
374
163
fondati su una cultura della salute Chemioterapia
328
moderna ed incentrata sui bisogni, Nutrizione Parenterale Totale
28
501
che, diversi a seconda della patologia
Trasfusione
Concentrato
Globuli
Rossi
86
465
e delle situazioni, richiedono risposte
diverse, articolate e flessibili.
Trasfusione Piastrine
131
646
IL MEDICO DELL’ANT
Rosa Cannarile
Martina Franca (TA)
L’ANT è una fondazione che si occupa dell’assistenza domiciliare oncologica del paziente in fase
avanzata di malattia.
L’assistenza domiciliare al piccolo paziente oncologico può rappresentare un mazzo estremamente
utile in grado do migliorare la qualità di vita di questo,consentendo di evitare lunghi e penosi
ricoveri.
Per un bambino la sua casa, la sua famiglia, i suoi giocattoli, sono parte integrante della terapia.
Per poter permettere che il piccolo rimanga il più a lungo possibile a casa, c’è bisogno di un
approccio multi disciplinare composto almeno da tre figure professionali: medico, psicologo,
infermiere, integrato in un sistema di assistenza territoriale e ospedaliero.
IL PEDIATRA DI FAMIGLIA E IL BAMBINO CON PATOLOGIA TUMORALE
Claudio Chiarelli - Paolo Vinci
Martina Franca (TA)
Durante l’età evolutiva, i tumori costituiscono una patologia estremamente rara rispetto a quanto
si verifica nell’adulto e rappresentano infatti solo l’1-2% di tutti i tumori. Colpiscono 1 bambino
su 650 entro i 15 anni di età e costituiscono la prima causa di morte, per malattia, dopo il primo
anno di vita (al primo posto ci sono gli incidenti).
I vari tipi di tumore che si riscontrano in età pediatrica sono molto diversi da quelli che si hanno
in età adulta per sede d’insorgenza, velocità di accrescimento e caratteristiche istopatologiche.
Nel bambino il tipo di tumore più frequente è la leucemia (33%), seguito dai tumori del sistema
nervoso centrale (S.N.C.) (22%), dai linfomi (12%), dal neuroblastoma (7%), dai sarcomi dei
tessuti molli (7%), dai tumori ossei (6,4%). Attualmente circa il 70% dei pazienti ha concrete
possibilità di guarigione ma la diagnosi precoce è la parola d’ordine che vale per tutti i malati
oncologici, fondamentale anche nei più piccoli, che vengono curati in modo più efficace se la
malattia viene identificata subito.
Per il presentarsi della malattia tumorale quasi sempre in maniera subdola, fare una diagnosi
precoce non è sempre facile anche perché il pensiero che si tratti di un tumore è lontano dalla
mente del medico e anzi, psicologicamente, ogni tentativo viene fatto per rimuoverla dal quesito
diagnostico. Il coinvolgimento emotivo poi, in special modo per il pediatra di famiglia, non è
indifferente: quel bambino che abbiamo seguito fin dalla nascita, che è sempre stato bene,
improvvisamente si ammala in maniera così grave, quasi sempre curabile, ma talvolta anche
mortale. Al di là della diagnosi la malattia tumorale rientra in una branca della pediatria altamente
specialistica,di difficile approccio per il medico curante. Il fatto che questa patologia sia rara può
giustificare la scarsa esperienza, le incertezze, la difficoltà nell’interpretare alcuni sintomi. Si
calcola infatti che in tutta la carriera ciascun pediatra, non potrà diagnosticare che tre - cinque
casi. E’ comprensibile quindi lo stato d’animo in cui ci si viene a trovare.
Spesso i tumori dei bambini non danno sintomi specifici di malattia e diventa fondamentale,
allora, la conoscenza teorica, da parte del pediatra di famiglia, del “problema-cancro” e l’attenzione
ai pochi segnali che in casi specifici possono indirizzare alla diagnosi.
Ogni modificazione dello stato di salute di un bambino deve essere accuratamente valutato:
taluni sintomi depongono più di altri per sospetto di patologia tumorale.
Elementi a favore di una diagnosi precoce sono l’attenzione del pediatra, la capacità e qualità
nel dubbio diagnostico, la conoscenza delle patologie neoplastiche e le motivazioni psicologiche
(orientamento/rifiuto).
Il Pediatra di famiglia è spesso il primo medico a dover intuire che ad un pallore, ad una perdita
di peso e febbre, ad un mal di testa e vomito al mattino, ad una anomala stanchezza, ad un
gonfiore addominale, ad ecchimosi o emorragie, ad una linfadenopatia, a dolori ossei, ad una
massa addominale, a sintomi neurologici, possono corrispondere segni e sintomi di esordio di
una patologia tumorale. Senza creare angosce inutili nelle famiglie, ma sempre con cautela e
buon senso, quando questi malesseri sono ben descritti, in maniera ripetitiva, devono spingere
a fare delle indagini ulteriori che possono essere esami ematochimici di I livello ed esami
strumentali.
Occorre quindi conoscere i centri specialistici oncologici pediatrici di riferimento, se possibile
regionali, dove inviare o in qualche modo - sarebbe meglio - “accompagnare” il piccolo paziente
e la sua famiglia verso un percorso diagnostico-terapeutico valido.
Occorre che si attivino processi di scambio tra il Pediatra di famiglia e l’Oncologo pediatra per
perseguire interessi comuni. Sul piano burocratico l’attuale organizzazione sanitaria non sempre
facilita la collaborazione: il superamento delle difficoltà nel rapporto con i Pediatri di famiglia è
affidato soprattutto all’impegno personale dei singoli.
Ma il rapporto può essere proficuo e integrato se il Centro rende partecipe il Pediatra nella
comunicazione della diagnosi e dei percorsi clinico-terapeutici con un impegno da parte del
pediatra a non tentare di “liberarsi” di un “problema” difficile da gestire (mancanza di esperienza,
mancanza di tempo!). E’ necessario quindi, per la buona conduzione della malattia, in tutte le
sue fasi, sia che il bambino sia ricoverato sia che stia a casa, che si venga a stabilire una sorta
di alleanza terapeutica che si tradurrà non solo in una crescita culturale, ma che darà anche i
suoi frutti in termini di maggior tranquillità per la famiglia, nella consapevolezza che il bambino
è curato in maniera globale, che accanto a lui vigila quel medico che ha seguito i suoi primi passi
e al quale appunto si è data completa fiducia.
Si potrà combattere l’ansia che vivono i genitori lontano dall’ospedale, garantendo al bambino
un’assistenza valida anche a casa, cercando di tranquillizzare e nello stesso di capire se le
preoccupazioni dei genitori sono fondate.
Grazie a Miriam (ho avuto la fortuna di conoscerne il volto e il sorriso almeno una volta) e alla
sua famiglia e a quanti hanno favorito la realizzazione di questo Convegno.
Per apprendere, ma senz’altro e, forse, soprattutto, per sviluppare un confronto fra quanti si
occupano dei bambini e della loro salute e di malattie serie dalle quali il più delle volte possono
guarire.
IL MEDICO DI FAMIGLIA COME TECNICO DELLA MOTIVAZIONE
NEL FOLLOW-UP DEL NEUROBLASTOMA
Fedele Pavone - Giovanni Colucci - Pasquale Iacovazzo
Martina Franca (TA)
Ultimamente le malattie rare sono oggetto di attenzione e studio da parte del mondo scientifico
per una precoce diagnosi ed una appropriata gestione. Per noi Medici di Famiglia (MdF) la loro
conoscenza diventa sempre più importante, in quanto abbiamo un ruolo determinante nello
screening attraverso segni e sintomi che precocemente possono far diagnosticare la malattia e
nel management in collaborazione con gli specialisti.
Il neuroblastoma, per le sue manifestazioni molteplici ed insidiose e per la possibilità di recidive,
anche a notevole distanza di tempo, ne costituisce un esempio. Quando i minori, per legge, nella
fascia facoltativa e/o obbligatoria, passano alle nostre cure si dovrebbe instaurare una stretta
collaborazione tra Pediatra di Libera Scelta (PLS) e MdF. Attraverso la cartella clinica (cartacea
o informatica) veniamo a conoscenza del decorso della malattia per continuare a gestire un
corretto follow-up. Il rapporto con il collega PLS s’istaura anche in precedenza perché, come in
altre circostanze, siamo tra i primi ad essere informati del problema dai parenti e, messo da parte
il “camice bianco”, assumiamo il ruolo “dell’amico di sempre”. L’empatia, infatti, è caratteristica
peculiare della nostra professione e, pur comprendendo le conoscenze scientifiche e tecniche,
ci fa andare oltre per metterci in sintonia con il nostro assistito. Si può definire come la capacità
di vedere il mondo con gli occhi dell’altro e avere informazioni dal suo punto di vista, sia razionale
che emotivo; quindi non solo ciò che il paziente pensa, ma anche ciò che prova in termini di
vissuti, emozioni, significati. Quando siamo di fronte a una persona in difficoltà dobbiamo essere
nelle condizioni oggettive per esserle di aiuto, cercando di superare eventuali situazioni per noi
inaccettabili e non opportune e sanare il conflitto che in noi si può creare. Per il ragazzo in età
prepubere dobbiamo sforzarci di porci, anche fisicamente, all’altezza dei suoi occhi e vedere il
mondo in un modo diverso dal nostro e più vicino ai suoi problemi. Il rapporto empatico impone
al medico notevole impegno, forza e costanza perché, pur immedesimandosi nei problemi del
paziente, non deve mai lasciarsi coinvolgere al punto da mettere in discussione la propria capacità
logica e competenza professionale. Il nostro metodo clinico, è basato sul modello bio-psicosociale e considera la salute non soltanto come assenza di malattia, ma come benessere globale
che non prescinde dal contesto familiare, sociale e della vita di comunità: è il concetto che
sintetizziamo nella parola sanità dell’individuo. L’orientamento alla famiglia implica la sensibilizzazione
e il coinvolgimento di tutti i componenti che,costituendo una sorte di rete, si affiancano ai genitori
per ridurne il carico psicologico; questo può contribuire a non interrompere, per quanto è possibile,
la normalità e quotidianità della vita. La diagnosi della malattia porta a uno sconvolgimento
psicologico che si sviluppa in diverse fasi: shock iniziale, rifiuto, rivolta, depressione. Il panico
iniziale può paralizzare la famiglia, far rifiutare la diagnosi e cercare “qualcuno” che attraverso
visite, indagini o sistemi alternativi possa smentire quanto si è accertato. Questa è la fase più
pericolosa perché viaggi della speranza, terapie alternative o altro possono far perdere tempo
prezioso. Quando la diagnosi è stata definita subentra la fase di rivolta con atteggiamenti di
rabbia e poi quella di depressione che può portare ad una vera e propria psicopatologia. Nei
momenti di maggiore difficoltà o disagio il nostro compito è quello di ripristinare il dialogo in
famiglia per evitare tensioni e contrapposizioni tra diversi individui e andare oltre il semplice
Counselling, ricorrendo a presidi psicoterapeutici o farmacologici. Il concepimento di un altro
figlio in questi casi è un’utile terapia che vale a dare continuità, anche biologica, alla vita. L’ascolto
empatico rappresenta un ottimo strumento per prevenire situazioni conflittuali, ci aiuta a superare
le fasi di difficoltà nostre o del paziente e ci fa realizzare una giusta relazione basata su fatti che
si possono osservare e/o ascoltare offrendo aiuto attraverso il confronto. Questa forma di
comunicazione, che si serve anche dei nostri sentimenti come fonte di preziose indicazioni su
noi stessi e sugli altri, riporta il contesto familiare alla propria soggettività e fa assumere al MdF
il ruolo importante di tecnico della motivazione. Il MdF contribuisce a spiegare che “tumore” non
significa perdita di speranza o in guaribilità ed è giusto accettare la situazione e seguire i consigli
e le soluzioni proposte dagli specialisti spiegando che possono portare anche al successo.
L’intervento chirurgico, ad esempio, ha finalità diagnostiche e terapeutiche, e, come nella maggior
parte dei protocolli, va eseguito dopo una fase di chemioterapia di induzione che ha lo scopo
di ridurre il più possibile il volume neoplastico. L’atto chirurgico permette di giungere alla diagnosi
istologica, campionare il materiale per gli studi biologici e stadiare chirurgicamente il tumore.
Nella malattia non metastatica come neoplasia intratoracica o piccoli tumori surrenalici, la chirurgia
è il trattamento di elezione e nello stadio 1° non richiede alcun trattamento complementare.
Altre volte, come nello stadio 3°, è necessaria una chemio terapia preoperatoria. Il neuroblastoma
è un tumore radio sensibile e quindi i trattamenti sono spesso combinati: in ogni caso dobbiamo
sostenere il paziente e la sua famiglia incoraggiandoli a proseguire nelle cure. Talvolta, infatti,
la chemioterapia ad alte dosi può essere seguita da trapianto di midollo come modalità di
consolidamento. Se la neoplasia è localizzata e suscettibile di terapia chirurgica, come spesso
accade nelle localizzazioni cervicali e toraciche e negli stadi 1°e 2°, è possibile che possa essere
definitivamente controllata nella sua evoluzione. Il rischio di una recidiva locale o di una diffusione
ai linfonodi regionali o allo scheletro deve essere tenuto conto nel follow-up del paziente.
Ricordiamo che la già alla diagnosi circa il 60% dei bambini ha malattia metastatica allo scheletro,
ai linfonodi, al midollo osseo e che nel decorso della malattia è probabile, anche in presenza di
remissione dopo terapia, osservare una evoluzione neoplastica, sia locale che in altre sedi. E’
nostro compito dunque seguire nel tempo il paziente effettuando un appropriato follow-up. In
virtù della nostra esperienza in campo previdenziale, infine, dobbiamo tenere in considerazione
gli aspetti economici che riguardano questa malattia, come gli spostamenti per visite ed indagini
specialistiche e le giornate lavorative perdute. Possiamo perciò indirizzare la famiglia all’utilizzo
dei diversi sussidi ai quali può avere diritto.
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