Focus On
Quel dolce sapore di Da Ponte
Andrea Zanzotto a ruota libera sul poeta vagabondo
A
dicembre verrà rappresentata la Vita di Lorenzo Da Ponte scritta anni fa da Andrea Zanzotto per la televisione con
la collaborazione dello storico del cinema Luciano De Giusti.
Il poeta ci racconta questa avventura dapontiana in una chiacchierata
straripante e fantasiosa stimolata anche dalle domande di Paolo Cattelan, che ha curato l’adattamento musicologico dello spettacolo che andrà al Teatro Goldoni di Venezia e al Verdi di Padova.
Come cominciare... forse da Da Ponte e Metastasio?
Metastasio e Da Ponte formano praticamente un’unica
immagine, anche se il primo era più naturale, e il secondo
rimane comunque un «imitatore», anche se non è proprio
questo il termine più adatto perché sembra poco generoso con Da Ponte. Ma è stato Metastasio a inventare questo
tipo di espressione artistica, consolidando poeticamente il
genere del dramma musicale. Direi che Da Ponte era forse l’unico possibile continuatore della grandezza propria
di Metastasio, come un ramoscello che nasce non del tutto
previsto dal tronco metastasiano, producendo un certo tipo di poesia nato proprio per una certa musica che è quella
delle sue opere. I due, Metastasio e Da Ponte, sono una biforcazione di un unico impulso creativo, e anche di un senso dell’udito che conduce verso una direzione precisa. Metastasio ha sempre più pompa, ma nel contempo è dotato
proprio di un orecchio capace di sfruttare le minime differenze. I suoi sono accordi o anche minime discordie
basate proprio su intervalli mentali piccolissimi. Dà
perciò il senso di un flusso continuo, di una lactea
ubertas, possiamo dire, forse esagerando, rispetto a quella che era la parola giusta per uno storico come Tito Livio. Da
Ponte è più diretto, dicia-
mo pure qui di casa, non per niente il suo campo è la commedia per musica.
Per spiegare come si rapporta questo binomio parola/
musica una volta ho utilizzato l’immagine dell’iperbole: la
poesia e la musica sono come un’iperbole, gravitano per arrivare a essere molto vicine ma senza toccarsi mai. Io ho
sempre avuto grande considerazione per la poesia di Metastasio, che rappresenta l’apice dell’avvicinamento di queste due figure. Quando ero giovane, anzi giovanissimo, ho
scritto molte poesie che poi normalmente stracciavo. Ma
ho conservato alcuni testi di imitazione metastasiana, che
adesso con tutti gli altri miei materiali di archivio andranno
a Pavia. Era nata in quell’epoca la moda di fare delle antifrasi con i versi di Metastasio. Io ne ho composta qualcuna,
come per esempio questa che a volte mi diverte ricordare:
Ovunque il guardo io giro
immenso caos ti vedo
per l’opre tue mi adiro
ti riconosco in me.
che è l’antifrasi del famoso passo della Passione
Ovunque il guardo io giro
immenso Dio ti vedo
nell’opere tue ti ammiro
ti riconosco in me.
D’altro canto bisogna dire che Da Ponte è di Cèneda,
quindi si è formato in un ambiente dialettale che non è
quello veneziano, e nella sua opera si sentono i rintocchi e
le «durezze» di quel dialetto. Certo queste cose possono oggi essere percepite come sfumature...
E poi Da Ponte e Mozart vivono in un periodo cruciale per la storia occidentale…
«Conobbi un Arturo Capenna... Capenna... Capenna...
Sicuro! Alla Corte di Vienna!»: questo è Gozzano… Sì, è
un bel Settecento, che faceva prevedere scombussolamenti enormi, anche se non così grandi come quelli che si sono verificati poi. Mi viene in mente un grande personaggio, che forse avrei potuto introdurre nel testo: è il Girella
«emerito / di molto merito», di cui parla Giusti nella poesia
che recita «Se cadde il prete, / io feci l’ateo». Girella è stato
un grande diplomatico, ed è riuscito a far passare nel Congresso di Vienna il principio di legittimità, che storicamente fu un fatto molto importante. Aveva una rete di spionaggio privata composta da persone di sua conoscenza, che a
una certa ora del mattino lo informavano se i vari personaggi politici – ambasciatori, diplomatici ecc. – avevano
avuto o no il «benefizio del ventre». Soltanto allora si presentava e otteneva quello che voleva, perché sapeva che chi
non aveva ancora avuto questo «benefizio» poteva essere
capriccioso. Ed è giusto, soprattutto se si pensa al mondo
di allora, in cui si abbuffavano di cibi in contrasto l’uno con
l’altro, e dove era tutto un pranzo e un sovrapranzo.
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Anche Casanova e Da Ponte formano un’unica immagine? In una
graduatoria chi è più libertino tra i due?
È difficile fare un paragone tra due simili assi. Direi che
in partenza è lo stesso tipo di libertinismo, ma in Casanova doveva esserci anche una specie di meditazione teorica. Casanova viene incontro a un’esigenza che era apparsa
già nell’Illuminismo. Infatti quelli che si occupano della storia del periodo
danno un posto maggiore
a Casanova che a Da Ponte. Non so se sia giusto o
no, perché la deformazione con cui noi dal futuro
vediamo quel passato mi
risulta sempre molto grande. Io credo che adesso
sottointendiamo che tutti
questi personaggi abbiano
il telefonino in tasca. Senza volerlo, perché tutta la
civiltà cambia in una certa
maniera, quando retrodatiamo inconsapevolmente
capita che attribuiamo gesti o pensieri che sono più
compatibili con il telefonino che con un dialogo.
Da Ponte uomo?
Per lui provo una sincera
simpatia, perché è un personaggio che sembra fatto apposta per imbrogliare
tutti lasciando in bocca un
gusto non proprio tossico.
Chi veniva imbrogliato da
Da Ponte suo malgrado si
ritrovava sul palato un certo sapore dolce. Da Ponte
è un tipo in gamba, che
ha saputo passare per tanti momenti cruciali, e poi
non bisogna dimenticare i suoi meriti americani, che sono
fondamentali anche quelli. Devo dire che non mi è parso
inopportuno tirar fuori questa vecchia cosa che avevamo
scritto De Giusti e io. Fosse stato per me magari l’avrei lasciata dormire, ma in realtà ha occupato il mio tempo per
alcuni mesi, non è un lavoro buttato lì. E d’altra parte erano cose che in qualche maniera erano state già terreno di lavoro sia per me che per De Giusti.
Le Memorie di Da Ponte occultano più che rivelare, fin
dall’inizio…
Sono memorie piuttosto reticenti, da questo punto di vista. In effetti il vescovo Da Ponte aveva protetto questo intelligente giovane, con l’intenzione di fargli intraprendere la strada curiale. Tra l’altro bisogna dire che i protetti dei
prelati avevano fama di «ossequientissimi», come una specie di burattini in mano ai loro benefattori. Invece Da Ponte si dimostrò essere tutto il contrario. Anche nel lasciarsi
crescere come «ossequientissimo» a tutte le leggi e soprattutto al suo vescovo si celava un imbroglio. Tutta la sua vita
è stata improntata all’imbroglio. Ma allora non era raro per
gli ebrei essere accettati dalla Chiesa, che li accoglieva più
che volentieri, purché ufficialmente si staccassero dalla loro religione. Addirittura ci fu un momento in cui a Genova
per battezzare un ebreo bastava buttarlo in acqua e una volta immerso compiere il rito, anche senza l’assenso del malcapitato. E lo stesso facevano gli islamici con i cristiani. Sul
modo in cui i Turchi attiravano i non musulmani nella loro orbita sono nate tantissime storie. Addirittura da
anni esiste un eroe dei fumetti che si chiama «Dago il rinnegato» e ripensandoci molti erano gli italiani al servizio dell’esercito e della flotta navale turca così come anche Otello
in quella veneziana... I rinnegati facevano carriera,
perché davano una garanzia in più. E Da Ponte come rinnegato ha fatto davvero una bella figura.
Elementi schiettamente veneti
nell’opera di Da Ponte?
M i viene in mente
l’«eccellente marzemino»
che ha ficcato dentro il
Don Giovanni. In tempi recenti c’è stata una polemica incredibile, e alla fine si
è deciso che il vero marzemino è solo quello
trentino, ma
questa questione è
Andrea Zanzotto
in una foto
di Diego Landi
molto posteriore a Da
Ponte. Il marzemino
veneto ha in Refrontolo la sua sede più famosa, ed era veramente
il migliore. (l.m.)
Qui e nelle pagine seguenti
i bozzetti e i disegni ideati da
Massimo Gasparon per lo
spettacolo dapontiano su testo
di Andrea Zanzotto.
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Zanzotto, Da Ponte
e la partitura musicale
di Paolo Cattelan
«R
allentata solo dalle interruzioni necessarie a
intingerla nell’inchiostro, la penna scorre veloce sul foglio faticando a tener dietro ai ricordi che scaturiscono l’uno dall’altro: “Il giorno decimo di
marzo 1749 nacqui a Cèneda, piccola, ma non oscura città dello stato Veneto”.»
Così comincia la Vita di Lorenzo Da Ponte scritta da Andrea Zanzotto e così comincia anche lo spettacolo musicale che andrà in scena nel prossimo dicembre al Teatro
Goldoni di Venezia e al Teatro Verdi di Padova.
Quando Marisa Zanzotto mi ha messo in mano il manoscritto inedito, nato nel 1984 dalla collaborazione del
Maestro con lo storico del cinema Luciano De Giusti per
un film-tv che non fu mai girato, mi ha subito affascinato
la ricchezza delle soluzioni escogitate per raccontare Da
Ponte, la fluidità con cui la scrittura lascia trasparire precedenti esperienze compiute sul Settecento veneziano e
in particolare il Casanova di Fellini. Mi sono quindi sentito lusingato dall’opportunità di continuare a scrutare nei
rapporti tra Venezia, Mozart e Da Ponte che nello spettacolo vedremo incrociarsi una prima volta sullo sfondo
ludico di un allucinato Carnevale e rincorrersi poi quasi
sempre comunicando per enigmi senza giungere ad alcun
disvelamento fittizio del grande mistero della loro collaborazione. Del resto, si sa, Da Ponte è inattendibile su
Mozart nelle Memorie, mentre Mozart non fa che uno
scarnissimo accenno a Da Ponte nelle Lettere.
La vita di Da Ponte, come Da Ponte stesso ce
l’ha narrata nelle sue tarde Memorie pubblicate in America, si presenta in un tourbillon
di verità e finzione ricchissimo di situazioni teatrali. Ed è proprio la voce del poeta che ci accompagna nel
percorso teatrale collegandone le situazioni. Quello che si materializza
poi sulla scena è l’intreccio tra questa voce e quelle di altri testimoni che portano il loro particolarissimo contributo di suggestioni – quasi tableaux vivants della società veneziana di quel tempo –
come nel caso degli
interrogatori trascritti nel processo subito dal nostro personaggio a Venezia
nel 1779.
«Se conosca certo prè Lorenzo Da Ponte?
Purtroppo lo conosco, e appresi a conoscerlo: si invaghì
detto prete di mia cognata e trovò già pronta corrispondenza. Dirò che una sera nel mese di Luglio essendo io all’oscuro nella mia camera, ed essi due con lume nel portico tutti e due seduti ad un tavolino ella lavorando di penne e lui dimostrando di scrivere viddi ch’esso gli poneva
le mani sotto le cottole, ed essa nelli bragoni a lui. Viddi
anche un giorno nel momento che ritornavo una mattina
a casa detto prete ignudo nella sua camera, e mia cognata
seduta in portico di facciata che volendolo essa pettinare egli con le mani la toccava dinanzi. Mia madre lo vidde che faceva a mia cognata de’ moti; mia cognata si pose
in veste e zendale e partì pur essa senza dire dove andasse
ed il giorno doppo abbiamo saputo da una tal Betta Mastellara ch’era montata in una gondola.»
«Se conosca certo prè Lorenzo Da Ponte e su quanto fu
introdotto?
Lo conosco perché saranno circa dieci otto venti mesi
che in casa di certa Maria Lanzatti la quale mi abitava di
facciata venne ad abitare certo prè Lorenzo di cui non so
il cognome; colà viddi varie volte andar da lui una giovine
che intesi nominar per una lontana dal marito... universalmente si dice che dormano assieme e viene
essa connotata per la donna del prete. Se infatti dormano assieme non lo
sò, quello posso dire si è di aver veduto stando in casa mia della mattina a buon ora, o il doppo pranso alle volte lui in camiscia
venir ad aprir il scuro
della camera e ritornar poi a letto, essendo essa per camera in abito confidenziale; e alle
volte essa in letto, e lui confidenzialmente aprir
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il scuro, ma non rittornar in letto; questo però succedevami di vedere mentre la fissavo dalla coltrina, che tenevano sempre chiusa, quando erano in tal positura, ma in letto tutti due assieme io però mai li viddi. Come io poco stò
al balcone, così rare volte lo veggo, e forse mia figlia Cecilia che come ragazza stà qualche poco al balcone potrà
esser più di me informata su tal proposito.»
Mazzolà, Gazzaniga per Bertati. Non mancano alcuni
anonimi autori di canzoni veneziane settecentesche che
piace credere fossero proprio quelli che il giovane abate
suonava al violino a Venezia nel corso dei banchetti cui
era solito recarsi. Non si può comunque essere inconsapevoli di come questa struttura evochi il pasticcio musicale
operistico settecentesco e in un certo senso vada incontro proprio a Da Ponte riprendendo il motivo dell’ape che
vola di musica in musica alla ricerca del nettare più gustoso come nel suo ben noto libretto (L’Ape musicale, Vienna
1789). Ma nei pasticci curati da Da Ponte gli equilibri musicali sono diversi: Mozart non vi compare che per il solo Là ci darem la mano, mentre qui c’è molto di più anche
se le scelte non sono state operate solo in base a un criterio di valore puramente estetico, bensì perché funzionali a rappresentare lo stretto contesto ««sociale» della corte di Giuseppe II in cui l’azione co-creativa dapontiana si
svolge. Tutte le musiche o hanno un’ attinenza cronologica o, diciamo così, tematica rispetto alll’azione, a volte rispecchiandola, a volte anticipandola in un alternarsi continuo e vicendevole del raccontare senza veli questa biografia posta sotto lo sguardo vigile, ma talora abbandonato a
fantasmagoriche visoni, di Andrea Zanzotto. «Le strade
sono piene di gente. Donne e uomini, quasi tutti in maschera, affollano ogni angolo della città. Finte dame dagli
abiti sgargianti, giocolieri, mangiatori di fuoco, venditori di bagigi e di vino, saltimbanchi, prostitute maliziose e
sorridenti, suonatori di violino e tamburello, efebi imparruccati di biondo, mucchi di spazzatura e gatti, luminarie di candele che si sciolgono sui davanzali delle case più
ricche, vociare confuso dal quale emergono parole straniere, canti dalle barche nei canali addobbate di frasche
e lampioncini colorati, capre e buoi dipinti a colori sgargianti condotte dalla catena, scimmie vestite da gentiluomo accoccolate sulle spalle di alcuni passanti, raffiche di
petardi cinesi, rifiuti solidi e liquidi che piombano sulla folla dalle finestre,
urla, risate, musiche,
incontri, contatti segreti e fugaci negli
angoli più scuri. La grande festa è al
culmine».
ll testo originale, strutturato in quattro puntate, è stato
necessariamente ridotto alle dimensioni di una sola pièce;
l’inserimento della musica lo fa quasi diventare l’ossatura di un «libretto» dove il periodo rappresentato corrisponde a quella parte della vita che Da Ponte trascorre in
Europa: da Cèneda a Venezia fino alla condanna subita
in contumacia; quindi l’esilio e gli esordi nella professione di autore di drammi per musica a Dresda e poi a Vienna dove, superando insidiosi intrighi e cabale, Da Ponte
riesce a essere coautore di uno dei capitoli più importanti della storia dell’opera italiana. Alla morte di Giuseppe
II e poi di Mozart segue la fase calante della sua fortuna
che però coincide con il matrimonio con Nancy, l’incontro e la ripresa dei rapporti con Casanova, e il trasferimento a Londra dove si conclude inesorabilmente la sua carriera di librettista. Di qui comincia l’America per sfuggire
i creditori: Da Ponte non farà mai più ritorno e nel Nuovo Mondo cambia radicalmente professione e stile di vita, mentre la sua produzione poetica per musica si affievolisce quasi del tutto.
La partitura predisposta si compone di una ventina di
numeri (brani musicali) tra Arie, Duetti, Terzetti e Finali
che intercalano, nelle diverse scene, rapidi dialoghi recitati come in un Singspiel. Quanto ai compositori, ci sono Salieri, Martin y Soler, Mozart, vale a dire gli autori preferiti
da Da Ponte, e ci sono
però anche quelli
preferiti da alcuni dei suoi rivali:
Paisiello per Casti, Schuster per
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L’idea di tempo
tra poesia e teatro
Pensieri a partire dalla «Vita di Lorenzo Da Ponte»
di Andrea Zanzotto
di Massimo Gasparon
È
stata per me una straordinaria avventura il poter esplorare l’universo
emotivo e culturale di due intellettuali e poeti quali Lorenzo
da Ponte e Andrea Zanzotto, legati da una venezianità cosmopolita nella
continua ricerca di un ritorno impossibile alla felicità del loro passato.
L’occasione di mettere
in scena un testo scritto
da Zanzotto per una serie televisiva sulla vita di Da
Ponte e mai giunto alla realizzazione mi ha offerto di approfondirne le peculiarità di uomini e
letterati attraverso uno studio attento delle loro opere. L’elemento
cardine che permea i loro percorsi artistici è sempre la forma poetica aristotelicamente intesa: prodotto artistico di ritmo, parola e musica attraverso l’imitazione
di azione. In questo senso
sono entrambi poeti assoluti.
Ciò che mi ha profondamente scosso durante la lettura delle Memorie di
Da Ponte è stata la sua co-
sciente e assoluta consapevolezza, in ogni fase della sua
rocambolesca vita: poco importa se ciò che gli preme raccontarci corrisponde molto raramente a verità. Quale inesauribile fantasia lo salva da mille pericoli e quali capacità di adattamento e di lucida analisi lo proteggono anche nei momenti realmente critici. Non viene
mai meno la sua fede nell’intelletto
umano, più precisamente nel proprio, ad onta di centinaia di sbagli più o meno colpevoli. Ciò che
sempre stupisce è la sua acutissima percezione della realtà che
lo circonda di volta in volta, trasformata in esotico argomento di osservazione. Piccolo borghese ante litteram nel secondo
Settecento, si pone poi a baluardo della cultura italiana ed europ e a nell’America del primo Ottocento, rilevandone le gravi insufficienze con spirito
acuto e caustico degno di un Voltaire. Mai
abdica alla sua dignità di letterato
e fino alla fine dei suoi giorni
ne fa un motivo di vita, di guadagno e spesso di perdita.
La caratteristica più impressionante della figura di Da
Ponte è la sua straordinaria
modernità, quella di un
uomo vissuto tra due
secoli tanto diversi quanto fecondi e
sempre attento alla minima innovazione culturale. Fin
dalle prime esperienze teatrali imparò che «non
bastava essere gran poeta per comporre un buon
dramma; ma necessarissima cosa esser acquistar
molte cognizioni, saper
conoscere gli attori, saper bene vestirli, osservar sulla scena gli
altrui falli ed i propri e ,dopo due o tremila fischiate, saper
correggerli». Praticamente, oltre a essere poeta e librettista
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d’opera, spesso svolse anche la professione di regista, scenografo e costumista collaborando con personalità eccezionali quali Salieri, Mozart, Martin y Soler, García, Maria Malibran, Rossini: circostanza che ci pone il senso di
grande difficoltà nel poter comprendere esaustivamente la vastità della sua opera di artista e intellettuale. Nelle sue Memorie tratteggia in modo mirabile l’analisi musicale del Don Giovanni di Mozart e del Barbiere di Siviglia di
Rossini, messi a confronto in una stagione da lui organizzata a New York agli inizi degli anni trenta dell’Ottocento: certamente si rivela meno accurato di Stendhal, ma è
protagonista e creatore sempre perfettamente consapevole della propria e dell’altrui arte. Singolare segnalare la
sua accorata difesa di Rossini e dell’italianità della melodia nonostante le straordinarie avventure creative vissute con Mozart.
Mi sono pertanto posto l’obiettivo di filtrare le vicende
della sua vita attraverso il velo poetico del ricordo, presente e passato allo stesso tempo, ma all’interno di una
logica temporale necessaria e rigorosa. Interessante è la
definizione di tempo che Pasolini introduce nel suo concetto di fare teatro: «Il concetto del tempo è tipicamente
borghese e regola anzi tiranneggia le nostre esistenze…
L’Avanguardia si prefigge la dissacrazione dell’idea che
noi abbiamo del tempo. In realtà non c’è miglior modo
per non compromettersi e vivere tranquillamente, pensando al domani, che operare a parole la distruzione del
tempo… Io non appartengo a questa razza di fannulloni
e di buffoni di corte. Continuo imperterrito ad affrontare il tempo come Flaubert…»
Affermazioni forti e dure ma che racchiudono una flebile speranza nella possibilità di fare ancora poesia, di
poter ancora rinsaldare l’esile legame che ci riconduce ai
poeti che ci hanno preceduto, proprio come opera Zanzotto, attraverso una propria personale e speciale
proposta, che comunque non neghi la necessità del tempo e della temporalità.
Virgilio e Orazio, Dante e Petrarca, Molière e Goldoni, Foscolo e Monti hanno rappresentato le fonti letterarie comuni a Da
Ponte e a Zanzotto e hanno loro offerto
forme e contenuti infiniti da rielaborare e sublimare. Per Da Ponte Metastasio in particolare rappresentò un modello di successo e di risultato poetico insuperato, in quanto acuto drammaturgo e fine
psicologo di sottili caratteri. La sua spesso equivocata superficialità nasconde invece una consumata arte teatrale che certamente pose le basi di
tanto teatro moderno. E anche
per lo stesso Zanzotto Metastasio rappresenta un modello di coerenza e ricerca poetica che vanno al di là del testo
in sé. L’interesse in questo caso viene posto sulla ricerca della musicalità delle
parole che crea già poesia; come ci racconta
il poeta, si sente accomunato al Metastasio
dal piacere che si riceve nel percepire la musica assoluta
suonata dalle parole, e perciò sempre provava «qualcosa
di infinitamente dolce ascoltando cantilene, filastrocche,
strofette non in quanto cantate, ma in quanto pronunciate o anche semplicemente dette, in relazione a un’armonia
legata proprio al funzionamento stesso del linguaggio, al
suo canto interno».
Zanzotto non ha usato strutture metriche codificate, se
non quando si è voluto esibire stilisticamente sfoggiando il gusto dell’esercizio tecnico: si pone certo al di là della dimensione storica utilizzando un linguaggio astratto
e allusivo, definito anche iperletterario, ma proprio attraverso questo linguaggio opera un lunghissimo percorso
di sperimentazione e ricerca artistica che rende alle parole una assoluta e autentica proprietà di comunicazione di
significato. E se la sperimentazione necessita di forme da
snaturare, sempre di forme parliamo.
Si parte dalla forma e si opera un viaggio nell’oscurità
nei labirinti della nostra coscienza, dove psiche, linguaggio, storia e cultura si fondono e ricreano il magma primordiale necessario alla rinascita. La sua poesia non è
mai gratuita poiché sempre tesa alla ricerca dell’illuminazione e della uscita liberatoria dal caos dell’insensato,
attraverso la ricerca più o meno consapevole e cosciente
di possibili barlumi di significato che redimano il poeta
contemporaneo.
Fellini suggerisce a Zanzotto una ricerca sul dialetto veneto inteso non solo come lingua originaria, naturale e
rassicurante, ma capace altresì di rivestirsi di nuove emozioni, attraverso suoni e musicalità arcaiche, esotiche, penetranti e incessanti. Alla richiesta di Fellini Zanzotto offre straordinarie cantilene per il suo Casanova, attraverso una acuta traiettoria
sonora che diventa cifra espressiva di tutto il lungometraggio
felliniano, in un misto di lingua cara a Goldoni e Ruzante, che si erge a potente inno
arcaico del linguaggio. Ogni
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momento del film ci accarezza con suoni che ondeggiano
tra il senso e il capriccio, ridandoci la brevissima illusione
di una possibile felicità antica.
Il senso della infanzia felice, del focolare familiare oramai consunto, della casa come rifugio è tema caro a Zanzotto come a Da Ponte: il primo più fortunato può invecchiare nei luoghi dell’infanzia consolato dalla familiarità
del circostante, mentre il secondo sarà condannato a un
incessante viaggio senza ritorno, dove l’America è vissuta
con totale distacco e la speranza di un impossibile ritorno
accende e colora di felicità una vecchiaia comune e sconosciuta. In fondo Zanzotto assiste alla parabola umana
e letteraria di Da Ponte con la stessa pietà di compatriota
che ha per Casanova, amico e compagno di sventure del
librettista mozartiano. E il poeta osserva malinconico le
sorti dei due antichi concittadini, ironicamente destinati
a morire lontani dall’amata patria, sconosciuti e disperati,
ma con il fuoco inestinguibile della poesia della vita che li
assiste nell’ora estrema.
Ecco pertanto quale agitato scenario ho davanti ai miei
occhi e con quale sforzo devo operare il mio personale
viaggio alla ricerca della ideale rappresentazione teatrale
e poetica necessaria. È sempre molto diff ici le
descrivere uno spettacolo prima ancora di averlo affrontato, nonostante tutto sia già deciso. La grande magia del
palcoscenico permette una conoscenza attraverso la sintesi emotiva e il risultato deve essere necessariamente non prevedibile in toto. Ogni spettacolo rappresenta un’incognita affascinante
e spaventosa.
Nella mia ricerca teatrale
e registica, avvenuta sostanzialmente nel campo dell’opera lirica, ho
sempre vissuto il fare teatro come forma di comunicazione collettiva, che
deve necessariamente osservare dei principi fondamentali attraverso i quali l’espressione acquisti
forza e carattere. Credo infatti che il dovere di noi registi sia di
ordine, prima ancora che poetico, etico e
morale, e consiste nell’individuare sempre
l’urgenza della forma teatrale in funzione dell’oggetto teatrale che ci proponiamo
di rappresentare. E la rappresentazione teatrale è sempre e comunque imitazione attraverso ritmo, parola e musica. Attraverso
questi tre principi possiamo definire tutti i tipi di rappresentazione possibili: possiamo usarli separatamente
o fonderli. Abbiamo la poesia se usiamo la sola parola, la
danza se utilizziamo il ritmo solo, l’opera lirica se li fondiamo. Ma rimangono i principi essenziali di ogni rappresentazione. Ai giorni nostri facilmente si rincorrono nuo-
vi linguaggi, nuovi capolavori, nuovissime forme teatrali
che spesso rivelano ben poche novità.
Se concordiamo sul senso dell’arte poetica e quindi del
teatro, cioè di un’imitazione che si compie agendo, il racconto è solo e necessariamente l’imitazione dell’azione.
Dopodiché subentrano tutte le singole scelte, di epoca, di
luogo, di recitazione. Ma dobbiamo ammettere che l’imitazione è connaturata all’uomo, come la musica e il ritmo
e da questo nasce la necessità del fare teatro. Questi sono
per me gli unici principi che mi hanno guidato in questa
straordinaria avventura, e pur ammirando la poeticità assoluta dell’estetica zanzottiana, mi sono dovuto confrontare con il fare teatro, con l’azione, con le categorie di spazio e tempo necessarie all’azione scenica. Lo stesso Zanzotto opera una scelta di tipo dialogico e temporale che
vede in pensieri espressi ad alta voce la coscienza di Da
Ponte già vecchio sovrapporsi al flusso delle vicende ricordate e rivissute.
Questo testo teatrale ha perciò ritmo, parola e musica in
varie combinazioni, sempre esaltate nel loro aspetto poetico. L’unità risiede nella poesia del racconto, nella poesia
della vita di Da Ponte (che per decisione del poeta si descrive fino al momento della sua partenza da Londra per
le Americhe) e nelle discrete e gentili incursioni zanzottiane nell’intimità dapontiana.
Pasolini spesso si chiedeva «il perché di tanta paura del naturalismo?Cosa nasconde questa paura? (…) Non nasconderà, per caso, la paura della realtà? E non sono forse gli intellettuali borghesi che hanno
paura della realtà?» Certamente immersi nella mentalità borghese e piccoloborghese, possiamo almeno cercare di scuoterci di dosso questa patina
pesante di ovvietà e snobismo intellettuali e poterci finalmente immergere, anche solo lo spazio
di qualche ora, nell’assoluto della poesia. Liberarci
dalla paura della realtà affrontandola, plasmandola, dominandola nel rispetto di
questo grande nostro
poeta ancora vivente,
ricercando quella particolare dimensione di
pudore poetico spesso
tanto oltraggiato. Sento
la fatica felice e la grandissima responsabilità di non allontanare la musa di questi due straordinari poeti,
intenta nel suo antico ufficio, cercando di non
spaventarla con strepiti o rumorosi proclami
quanto piuttosto di accontentarmi d’osservarla,
spiarla in silenzio con innocente rispetto, per poter regalare allo spettatore e a me stesso tutto lo stupore e
la commozione che sarò in grado di rubarle.
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«Vita di Lorenzo Da Ponte»:
stralci dal testo dello spettacolo
R
allentata solo dalle interruzioni necessarie a intingerla nell’inchiostro,
la penna scorre veloce faticando a tener dietro ai ricordi che scaturiscono l’uno
dall’altro.
N. 1 Introduzione strumentale
Scena I
N. 2 Coro di bambini in latino
Presentiamo qualche stralcio della Vita di
Lorenzo Da Ponte composta da Andrea
Zanzotto, e oltre a rimandare al numero 15 di
VeneziaMusica e dintorni (p. 44), dove già avevamo
pubblicato qualche scena, invitiamo tutti a vedere lo
spettacolo che si terrà tra Venezia e Padova nel mese
di dicembre, come evidenziato dalla locandina che
segue. Le parti in corpo minore sono gli inserimenti
musicali previsti.
Voce off Il giorno decimo di marzo
dell’anno 1749 nacqui a Cèneda, piccola ma non oscura città dello Stato Veneto. All’età di cinque anni perdei la madre. I padri prendono poco cura generalmente de’ primi anni de’ loro figli. Furono questi negletti interamente dal mio: all’età di undici anni leggere e scrivere era tutto quel ch’io sapeva. Fu allora solamente che mio padre pensò a darmi qualche educazione:
scelse per mia disgrazia un cattivo maestro...
Personent hodie
voces puerulae
laudantes iocunde
qui nobis est natus
summo deodatus
Scena IV
Voce off Cominciarono da quell’epoca i grandi avvenimenti della mia
vita, e fui spinto da quel punto in una
carriera affatto diversa da quella per cui, dagli usi, dalle circostanze e dagli studi già da me fatti io mi credea destinato.
Il nodaro del tribunale (scrive) Ritrovatta nella casella delle denuncie segrete a S. Moisè: (legge) «Si ricorre a far notto
al mio Serenissimo prenzipe li esecrandi ed enormi delitti e
scandalli che senza righuardi venghono giornalmente pratichatti dal Rev.do Sig. Don Lorenzo Da Ponte da Ceneda venutto alla fede per calpestarla e deriderlla, per fino con scritti di gia ben notti alla Serenità Sua. Questo tiene in grandi
ramazzi due onorate familgie che per scudo non anno altro
che la riputazione, e tal sedusse una molgie che secho lui la fa
convivere, lontana da Sacramantti e di partti nefandi ed inlegitemi capaze di giuramenti sacrileghi per seducere le anime
più giuste che se sollo uno di questi che un giorno sarà fatto
notto basterebbe per meritarsi quel castigho che si implora
dall’Eccelenti.mo Magistrato.»
Il piccolo Lorenzo è seduto al suo tavolo di studio. Dietro di lui c’è il
maestro assunto dal padre per la sua istruzione. La grammatica latina
dell’Alvaro aperta sul tavolo, Lorenzo sta tentando di fare esercizi per lui
difficili. Poiché non si era riscontrato nessun progresso nel ragazzo, il padre quel giorno, capitato nella stanza, si mette inosservato dietro le spalle del maestro e sta a vedere.
Da Ponte (sta leggendo e facendo molti errori, ad ognuno il maestro
sussulta e alla fine esplode) Iam facies enormis et os prolixum et
nares hiantes et labiae pendulae: sic et aures immodicis horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis video solacium, nisi quod mihi natura crèscebat.
Sfilano i testimoni al processo (bocche che parlano anche
simultaneamente).
(...Ormai avevo un muso smisurato, una bocca lunga e larga, delle narici splancate, delle labbra pendule; e così pure le
orecchie eran cresciute in modo esagerato e s’eran ricoperte di peli. Un solo conforto vedevo a questa mia sciagurata metamorfosi ed è che i miei attributi si eran notevolmente sviluppati)
Prima voce di testimone Venne ad abitare detto Don Lorenzo in mia casa in una camera, che mia madre gli aveva affittato. Due mesi doppo si accorse mia sorella Catterina stando in un’altra camera, che detto Frate poneva le mani sotto
le cottole a mia moglie, e questa ne’ bragoni a lui. Detto prete
Lorenzo mi prottestava non esser vero coll’invocazioni le più
esecrande, cioè che pregava il Signore, che quando celebrava la messa, lo incenerisse sul momento mi pregò di ascoltarlo, dicendomi di accompagnarlo sino a Ca’ Zaguri, dove allora frequentava, credo per insegnar poesie perché riscuoteva
due zecchini al mese. Andato a casa verso le 24, non rittrovai
mia moglie, e mi disse mia madre ch’era poco prima partita.
Fù poi veduta montar in gondola da una sorda di nome Betta
Mastallar che casualmente trovavasi in quella situazione.
Maestro crescèbat! crescèbat! sei un asino, una bestia! (incomincia a picchiarlo)
Allora il padre si avvicina, prende l’insegnante e imprecando lo trascina fuori spingendolo giù dalla scala e tirandogli addosso grammatica,
penna e calamaio. Il bambino guarda incredulo la scena e suo padre come un salvatore, cominciando ad incubare l’idea che deve esserci qualche
santo che lo protegge.
Voce off Per più di tre anni non si parlò più di latino. L’effetto però fu per me fatale. Rimasi fino all’età di 14 anni del
tutto ignorante.
Seconda voce di testimone Dirò che una sera nel mese di
Luglio essendo io all’oscuro nella mia camera, ed essi due
con lume nel portico tutti e due seduti ad un tavolino ella lavorando di panni e lui dimostrando di scrivere viddi ch’esso
gli poneva le mani sotto le cottole, ed essa nelli bragoni a lui.
Dubitavo di travedere, e mi trattenni in osservazione fin-
Entrano alcuni bambini ed eseguono un canto in latino. Il piccolo Da
Ponte resta a guardarli.
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Focus On
ché li viddi tre volte replicar la cosa stessa.
Terza voce di testimone Viddi anche un giorno nel momento che ritornavo una mattina a casa detto prete ignudo nella sua camera, e mia nuora seduta in portico di facciata che volendolo essa pettinare egli con le mani la toccava dinanzi.
Nell’ambito della rassegna
«Wolfango De’ Serenissimi Mozartini»
Quarta voce di testimone Purtroppo lo conosco, e appresi
a conoscerlo perché fu motivo, che di me si parlasse in modo di poner in dubbio la mia onestà, di cui mi vanto. Con
l’occasione che passava tra la famiglia mia e quella dei Bellandi, per l’addotto motivo del fanciullo scolaro appresso di
me, amicizia confidenziale, e andavo io in casa Bellandi e li
detti Bellandi venivano in casa mia. Questo fece che Carlo
si pensasse di scrivermi qualche lettera, che niente più conteneva, se non la stima che diceva avere per me, dentro i limiti dell’onestà. Partendo di casa essa Angela moglie di Carlo Bellandi col Prete questi vantava che per mio motivo fosse essa partita dal marito e che io avessi ricevuta una lettera
dal marito in cui mi scrivesse che se sua moglie fosse morta
mi avrebbe isposato e che era il tossico preparato; cosa questa assolutamente falsa.
Gli Amici della Musica di Venezia
con Comune di Padova, Regione Veneto,
Comune di Venezia
presentano
Venezia, 1-4 dicembre, Teatro Goldoni
Padova, 18-20 dicembre, Teatro Verdi
Vita di Lorenzo Da Ponte
Quinta voce di testimone Io poi non sò il vero motivo per
cui sia partita: presa una gondola andò in traccia di detto
Don Lorenzo alla casa dove sapeva che pratticava; che non
trovatolo in alcun luogo smontò in riva del Carbon, anzi che
non avendo con che supplire gli lasciò in pegno un fazzoletto. Che tormentata dalle doglie si ridusse in Calle de’ Zendali a S. Luca dove si abbandonò distesa e stette dalle ore 24 sino le ore quattro della notte ora in terra ora in piedi, che finalmente alle dette quattro ore passò per di là detto Pre’ Lorenzo e ritrovatala, si raccomandò essa di assisterla, e la condusse poi a Santa Margarita, pagando il barcajuolo, a cui aveva lasciato il fazzoletto in pegno. Io però non son persuasa,
tanto più che quella Calle de’ Zendali è una Calle ristrettissima di molto passaggio, essendovi anche dei posti di donne di mal fare. Il contegno tra essi era liberissimo, operavano
in piedi, perché, venendo sorpresi presto si occultavano essa
col lasciar cadder la cottola e lui col chiudersi nel tabarro, che
teneva sempre indosso. Li vedevo reciprocamente basciarsi,
gettarsi sul letto, toccarla nel petto, essa senza alcuna riserva
alzandosi la cottola in sua presenza, invitarlo a più avanzate
confidenze. La viddi bene a slaciargli li bragoni; e chiamavasi un con l’altro il mio Nino, la mia Nina.
scritta da Andrea Zanzotto e Luciano De Giusti
(1984, inedita)
musiche di Wolfgang Amadeus Mozart,
Vicente Martin y Soler, Antonio Salieri,
Giovanni Paisiello, Joseph Schuster,
Giuseppe Gazzaniga, Niccolò Piccinni,
Gioachino Rossini, Anonimi Veneziani XVIII sec.
riduzione e adattamento drammaturgico-musicale a cura di
Paolo Cattelan e Susanna Armani
attori Giorgio Sangati, Giacomo Rossetto,
Cecilia Lamonaca
cantanti Susanna Armani, Gino Nitta, Lara Matteini
coro di voci bianche Città di Padova
diretto da Marina Malavasi
concertazione e direzione d’orchestra Francesco Fanna
regia scene e costumi Massimo Gasparon
Collaborazioni musicali e musicologiche Giovanna Gordini,
Federica Bressan, Gian Luca Zoccatelli,
Virginio Zoccatelli
Si ringraziano
Direzione e Ufficio produzione del Teatro Stabile del
Veneto, Gabinetto del Sindaco di Padova, Assessorati
alla Cultura dei Comuni di Venezia e Padova, Bruno
Brizi, Angelo Rusconi, Eduardo Rescigno per la
generosa collaborazione scientifica
N. 5 Canzone anonima, sec. XVIII, mezzosoprano
M’avè diito abbiè giudiizio,
Co’v’ho messo le man là,
E mi pronto a quell commando
Le ho lassae dove le giera
Come un che sia incantà.
El giudizio infatti è questo
Co’ le arriva in certi loghi
No tirarle via mai presto
Ma lassarle un pezzo là.
Nota. Allo stato attuali i punti fermi sono molti, ma
permangono anche alcuni interrogativi in ordine al sostegno
economico della produzione dello spettacolo. I dati e le
informazioni contenute in questa anticipazione dell’organico
della produzione potranno quindi variare. Nell’imminenza
dello spettacolo uscirà sulle pagine di questa rivista il dettaglio
tecnico delle informazioni per il pubblico.
Scena IV (continua)
Entra una donna (scena dal vivo)
Nodaro Venuta a citazione Giovanna Taboga nata in questa
città disse di abitar in Calle della Bissa e lavorar per casa sua.
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Focus On
solo sento il caro bene,
solo veggo il suo dolor!
Giovanna Taboga Se sappia qualcosa sopra quanto fù in-
trodotto? Mi me fasso i fatti mii e no quei de ‘staltri. Quelo che sò xe che in casa de la Maria ghe xe ‘na zovine che lavora de penachi e che la xe gravida. E la dise che vien talvolta trovarla un prete che fa il maestro in Ca’Pisani o Grimani,
mi non me ricordo...
Qual attinenza abbia detto prete con detta giovine? Ela dise che i xe fradelo e sorela, ma se xe vero o no mi no sò...mi
stago poco al balcon, forse Cecilia, mia fia che xe puta, podarà saver de più. (Esce)
Non si lagni chi contende
ad un cor l’amato oggetto,
s’ei più freno non intende
se il rispetto vien furor!
Scena VI
Voce off Io non aveva parlato prima d’allora ad alcun monarca e aveva inteso dire ch’ei giudicava spessissimo gli uomini dalla lor fisionomia, parve che la mia non gli dispiacesse...
N. 7 Aria, dal Burbero di buon cuore,
Vicente Martin y Soler, mezzosoprano
Da Ponte, sempre loquace, alla vista di Giuseppe II fatica a parlare
sopraffatto dalla soggezione e dall’entità della posta in gioco: sente che da
quel colloquio dipende il suo destino. L’imperatore gli fa molte domande
in un suo italiano un po’ tedescato.
Voglio marito
ma voglio quello
ch’è tanto bello,
che qui mi sta.
Solo per ridere
vo’maritarmi,
e non per piangere
la libertà.
Imperatore E così avete studiato in Seminario a Venezia?
Da Ponte Sì...vostra Maestà...
Scena V
Imperatore Bene, bene, e qual buon vento vi porta in
Vienna?
Il giovane abate ha deciso di andare a Dresda dove c’è l’amico Cattarino Mazzolà, poeta del teatro di corte. Mazzolà è veneto come lui.
È nato a Longarone, in provincia di Belluno. Quando lo vede è stupito ma contento.
Da Ponte La passione...la passione per la poesia...per il tea-
tro, maestà.
Imperatore Bene, bene, e quanti drammi avete compo-
sto sin ora?
Mazzolà Da Ponte a Dresda!
Da Ponte Mm...ehm... nessuno, vostra maestà...
Da Ponte Mazzolà, amico mio, sono venuto per vedervi e
profittar del favore vostro e dei vostri amici!
Imperatore Bene, bene!... Vuol dire allora che avremo una
musa vergine!
Mazzolà Siete forse arrivato a tempo! Parlerò di voi al primo ministro e intanto, per non istar con le mani alla cintola,
sarete coadiutore delle mie teatrali fatiche.
Voce off Ben presto m’accorsi quanto più difficile in ogni
impresa sia l’eseguir che l’immaginare. Le difficoltà che incontrai furono infinite. Mi parve improvvisamente di non saper
più scrivere, soprattutto i Finali dove il recitativo è escluso e
bisogna trovar ogni tipo di canto: l’Allegro, l’Andante, l’armonico, l’armonioso, lo strepitoso, l’arcistrepitoso, lo strepitosissimo con cui, quasi sempre, il finale si chiude, il che, con voce musico-tecnica si chiama «chiusa» oppure «la stretta» forse perché dà una stretta al cervello del povero poeta che deve scriver le parole! E nel finale, per dogma, devono comparire tutti i cantanti in scena, anche se sono trecento, a due, a
tre, a sei, a sessanta, per cantarvi duetti, terzetti, sestetti, sessantetti! E se l’intreccio del dramma nono lo permette, bisogna che il poeta trovi la strada per farselo permettere, a dispetto di ogni criterio, buon senso e di tutti gli Aristotele della terra! E se poi la cosa va male peggio per lui!
Voce off Tradussi dunque o composi anch’io ne’ suoi
drammi or un’aria, or un duetto ed or una scena intera ch’ei
prima mi disegnava.
Da Ponte (legge o recita un’aria appena composta) In un mar di
tante pene / la ragion a me s’asconde…
Mazzolà Eccellente davvero Da Ponte, mi domando perché voi stesso non scrivete per i teatri d’Italia.
Da Ponte Voi sapete bene che l’arte drammatica nel nostro
paese è avvilita per la vergognosa avarizia di impresari venali
che pagano mille o duemila piastre un gorgheggiante Narsete e offriono 15 o 20 piastre per un libretto che costa tre mesi di sudato lavoro!
N. 9 concertato, Il Ricco d’ un giorno
di Salieri, Stretta del Finale I
Mazzolà E allora provate a Vienna, che ci state a fare a
Dresda senza impiego? A Vienna c’è Antonio Salieri che è
il maestro dell’Imperatore ed è Veneto anch’egli, sono certo che vi aiuterà.
Già non spiro che rabbia e furore
son confuso, non so cosa far,
mille smanie ho rinchiuse nel petto,
e non so né mi posso sfogar!
Che capricci, che impicci, che orrore,
dal dispetto mi sento crepar!
N. 8 Aria dal Bradamante di Mazzolà,
musica di Schuster, soprano
Bravi, bravi, mangiate, ballate,
dal dispetto si sentan crepar!
In un mar di tante pene
la ragion a me s’asconde,
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Focus - Euterpe Venezia