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Vito Riviello (1933-2009)
UN POETA FUNAMBOLO DELLA PAROLA ‘ASSURDA E FAMILIARE’
Se ne è andato l’autore lucano che nell’arco di oltre mezzo secolo ha prodotto una
vasta, estrosa e assai godibile opera in versi comico-giocosa che lo apparenta alla
linea burlesco-satirica e antilirica dei Cenne de la Chitarra e Cecco Angiolieri, Berni
e il Burchiello, Folengo e il Ruzante, Tassoni e il Basile e Redi. Una linea in sostanza
espunta dal ‘canone’ letterario ufficiale, ma invero vitalissima e che ha fiancheggiato
le avanguardie novecentesche. Da non dimenticare anche i suoi stralunati, bizzarri,
extravaganti libri in prosa da “Premaman” (1968) a “Qui abitava Pitagora” (1993), a
“E arrivò il giorno della prassi” (1999), in cui si rinvenivano pungenti ritratti della
società provinciale, nonché sardoniche schegge memoriali della natia Potenza.
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di Plinio Perilli
…
I bicchieri caddero s’infransero
E imparammo a ridere
Ci avviammo allora pellegrini della perdizione
Attraverso le vie attraverso le contrade attraverso la ragione
…
- Guillaume Apollinaire: Alcools -
Trasgressivo e trasversale; tagliente e impertinente… Se ne potrebbero usare tanti, di aggettivi,
per raccontare la parabola espressiva, il guizzo intellettuale, la satirica flânerie di un poeta come
Vito Riviello… Ma nessuna coppia antitetica e dirompentemente grottesca supera l’effetto
madornale, la clownerie filosofica di due attribuzioni (e sentenze) al contempo privatissime ed
epocali come Assurdo e Familiare – che infatti ben volentieri adottò come titolo (nella raccolta
omonima dell’86, per Empirìa) e poi come titolo dei titoli (nella densa, spassosa antologia
riepilogativa, prefata da Giulio Ferroni e certo minuziosamente ragionata, annotata d’irrazionale…
che gli curai da Manni nel 1997).
Cosa altra cosa
se no è la stessa cosa,
che sia la cosa stessa
a essere più se stessa
sino ad essere fuori cosa
e cosa in se stessa.
Da una cosa all’altra
la cosa non rinunzia
alla sostanza stessa della cosa,
una cosa è una cosa e una cosa
cosa che sia sempre
nata dalla stessa cosa
ma diversa pur essendo la cosa stessa.
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Cosa cosae cosae cosam cosa cosa
quale cosa? il nome della cosa…
è sempre nella cosa.
“Riviello ha saputo entrare, insieme con viva partecipazione e con ironico distacco,” – rilevava
già allora Ferroni, acuto e amabilissimo – “entro le pieghe più intime di quel tessuto provinciale e
piccolo borghese, ne ha estratto la colorata materia (fatta di esibizioni e di pudori, di incongrue
aspirazioni, di piccoli oggetti familiari, di voci di retrobottega e di dopopartita, di un brulicare di
commercianti sull’orlo del fallimento, di accaniti ascoltatori della radio, di cascamorti e di
dongiovanni senza donne da conquistare, di bizzarri viveurs frequentatori del teatro di varietà e
pronti a rovinarsi per soubrettes di passaggio) insieme ad un senso di insufficienza, di sproporzione,
che appunto spinge sempre a volgere lo sguardo altrove, a cercare altri universi. (…)
Si ritrovano qui le modalità in cui lo spirito comico di Riviello emerge proprio da questo fondo
meridionale, lucano, cittadino, piccolo-borghese, nello squilibrio di potenze scatenato a Potenza e
da Potenza: un fondo dietro cui si affacciano le tracce appena visibili di arcaiche maschere grecoitaliche congelate in rictus indecifrabili, l’eco lontana dell’enigmatico sorriso apulo del venosino
Orazio, l’humour nero e celeste, cosmopolita e parigino del surrealismo novecentesco, l’ammiccare
verbale e corporeo dell’avanspettacolo meridionale (fino alla smorfia slogata e metafisica della
moderna maschera del grande Totò), e ancora le varie coniugazioni dell’assurdo post-bellico.”
Uno dei più bei “kukù” di Vito Riviello (cfr. Kukulatria, del 1991, sorta di haiku parodiati e
nostrani, velenosi quanto veloci d’ironia – sberleffi in versi, li plaude Paolo Mauri – tutti giocati a
lapidaria equazione sorniona, epigrammatico mortaretto/calembour), è appunto dedicato alla
neapolitana marionetta vivente di Fifa e arena o 47 morto che parla, I pompieri di Viggiù ma
anche del pasoliniano, candido e polemico Uccellacci e uccellini:
Nascono nel qui pro quo
le ragioni di Totò.
Sfottò, posa, critica dall’interno, transfert emotivo o archetipo immaginifico, e per soluzione
finale, diciamo pure: mimata, loica parodia di fervorose, moralità del Moderno (contro-minima
moralia?!), la dolente risata etica, il contrappasso stilistico, il grimaldello autocritico del Motto di
Spirito come aguzzo, postfreudiano frammento d’autocoscienza collettiva…
Epitaffio
Se un giorno io trovassi
in un vecchio cimitero d’Europa
la tomba d’un uomo col seguente epitaffio:
“Qui riposa Adolf Hitler
imbianchino
n… m…”
Nel 1907 nasce mio padre
che con le demoiselles d’Avignon
mette in crisi la vecchia
figuration.
E se è già accaduto tanto
perfino ch’io nascessi nel 1933
anno dell’avvento.
Per anni, interminabili decenni, anzi brevissimi secoli… l’Italia non ha mai avuto il coraggio di
concedere eguale dignità agli scrittori, ai poeti eminentemente lirici così come a quelli,
sapientemente, sacrosantemente comici… Solo da poco, le nostre stesse antologie e storie letterarie
predispongono una corsia vera e propria, un sito equivalente ed equipollente – a partire dal più
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canonico e glorioso Dugento fecondatore – ad autori in realtà essenziali, e finora accantonati,
occultati, pressoché rimossi, quali Cenne de la Chitarra e Cecco Angiolieri, Berni e il Burchiello,
Folengo e il Ruzante, Tassoni e il Basile, Redi coi suoi bacchici ditirambi, eccetera eccetera.
L’equivoco, il peccato originale anche del ’900 è stato più o meno, ahinoi, lo stesso… Una linea
vincente, in luce, ufficiale, accademica, canonica (quasi sempre verticale), e un’altra secondaria,
serbata scioccamente e maldestramente in ombra (guarda caso, quasi sempre orizzontale)… Alla
cosiddetta poesia giocosa non viene insomma preparato il regolare posto a tavola, ma al massimo si
tollera che ci diletti mentre mangiamo, confinata e recepita a mo’ di giullarata conviviale, di pur
nobile, ameno e sapido passatempo…
L’ufficialità finanche poetica ha da sempre cieca e immensa paura dell’agudeza, della salacità,
della tirata ironica, del motteggio irridente e irriverente… Pessima forma mentis e sterile
risultanza…
Come se il Leopardi dei Canti, tanto per dire, non avesse perfettamente convissuto con le prove
giovanili, la satira abilissima dei Paralipomeni della Batracomiomachia, e soprattutto con le
inesauribili illuminazioni antropologico-culturali, le supreme, necessarie e adorabili forzature,
sprezzature insomma delle Operette morali!…
Finissimo conoscitore oltretutto dell’arte visiva, nonché inesauribile e inesausto Critico del
Costume, Vito sapeva bene – nella ridda felice delle avanguardie che si sono succedute per
impadronirsi, commentare, ripudiare o fors’anche epurare, ristrutturare e rinsanguare il nostro ’900
– che orizzontale e verticale, nei casi migliori convivono come dentro un gigantesco, immortale
Calligramma di Apollinaire… Vito Riviello se ne fregava altamente della scrittura rubricata,
elogiata alta, così come di quella denigrata, subordinata come bassa: entrambe in lui perfettamente
convivevano, si rintuzzavano e sfruculiavano con esiti tra i più esilaranti e dunque sintomatici dei
nostri ultimi lustri.
Un tempo era casuale il tempo
il male abitudine fissa
il sole o la luna
nella celeste calata prefissa.
L’orientamento era sgomento
un quartiere uno sciame,
il vento bloccava l’aria più della sventura.
Ci sono voluti milioni di affanni,
di morti da una morte atomica fermati
per vedere atomi di pace
sciogliersi dolci nei cuori.
…
Partito da regolare, paziente adepto della vulgata realista (neo o meno, che dir si voglia), con
raccolte anche memorabili quali L’astuzia della realtà (non a caso prefata – era il 1975 – da un
lucido e fervoroso Paolo Volponi: “Riviello illumina le sue giornate come queste poesie, a strappi,
con indolenza, e con una vecchia sapienza per il risparmio di ogni cosa, del quale già si conosce
l’inutile virtù. Le sue poesie sono certe collane di luci colorate nelle feste meridionali intorno alle
giostre o tra i muri della piazza e la facciata della chiesa: talvolta un vento indolente le dondola, le
spegne e le riaccende, altre volte uno più aspro si diverte a dileggiarle, fulminando alcune lampade,
creando nuovi spazi che senza raggiungere quelli siderali gravano sull’anima degli ultimi
spettatori.”), Vito ha proseguito libro dopo libro, spesso opere smilze e volutamente episodiche,
circoscritte), una poderosa, avvolgente ricognizione organica della realtà mentale, psicologica,
stilistica, comportamentistica del nostro essere, volerci, illuderci assolutamente contemporanei…
Ne è derivata un’opera insieme frammentaria e omogenea, bizzosa e rigorosa, giocosa e invece
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drammatica, ludica e disperata, ma sempre perfettamente risolta, affilata in termini ed esiti
linguistici.
“Riviello cerca di tenersi lontano dalle tecniche sperimentali della Neoavanguardia, adoperando
soprattutto i suoi felici calembours, e confidando apertamente nel tripudio delle sue metafore, dei
suoi giochi verbali, con un linguaggio insieme dissodato e fluido.” – segnalava Giacinto
Spagnoletti, ben collegandolo alla succosa, implosiva e adorabile tradizione satirica dei Delfini e
dei Wilcock, dei Flaiano e dei Balestra, dei Vòllaro e dei Fratini, per non dire del “più grande” di
tutti, il geniale e per fortuna anarchico Emilio Villa – “Il suo modo di sconsacrare non ha alle spalle
altra pretesa che il gioco letterario; ma questo che per altri potrebbe significare una difficile
avventura, in lui si attua con un’autentica qualità espressiva. Della sua migliore raccolta,
Dagherrotipo, citiamo questo ‘1943’: «Chi siamo sgolava il filosofo. / Dove andiamo? Si batteva la
testa / nella villa mesta. Da dove veniamo? ‘Da Foggia, signor tenente!’».
Se il gran malato è comunque l’Homo Erectus Contemporaneus, facciamo parlare la sua poesia
con le sue stesse pause, vizi e vezzi, cadute e illusioni, categorie e decentramenti, tic e pulsioni,
poesia sliricata e prosa nutrice del verso… Se poi invece del paziente sul lettino ci mettiamo il
medesimo letterato-psicotereapetuta, anzi ancor più l’entità Linguaggio, l’impresa sarà perfetta, e la
cura (l’acquisizione, l’autocoscienza, la medicina-antidoto) garantita: assurda e familiare.
Ricordo della cena
Junghianamente parlando
mi ricordo d’una sala da pranzo
in cui sedevano i micenei
e poi mia madre
l’altare della patria
pieno di candele all’infinito.
Dopo un ballo alle Terme
gli Egizi chiusero il canale
e chi scese in apnea
e chi ebbe l’adenoide.
Al dolce il desiderio passivo
di assistere alla caduta
della monarchia.
Ricorderemo di Vito Riviello, in egual modo, l’amicizia e l’ironia, l’attenzione e il sarcasmo, la
noia e la dedizione; insomma il malessere goloso, quella sentenziosità affabile da perditempo
esemplare, da pantomimo-profeta di ogni astuta Realtà. I conti non tornano, i torni non contano…
si sa, ma questo lo sapevamo – voleva dirci – fin dall’inizio. L’importante che la gara, l’astratta e
muscolare contesa col Futuro sempre ci trovi, ci trovasse pronti, egualmente creduli e interdetti,
scettici e appassionati…
La questione meridionale
Nella mia terra adombrata
d’ombre d’uomini hombres,
si sposavano gli alberi
le bianche cerre coi cerri
dalle chiome dominanti,
le acacie provocanti in tulle bianco
e i telemoni acaci,
forti ed elastici,
fecondi idilli senza potature,
cedre con cedri
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dalle radici cedrate.
Amore boschivo sorgivo
che stupiva gli uomini
anch’essi scossi dal vento
anzi percossi.
Le quercie erano nonne
e i nonni querci, immobili,
grandi creatori d’ombre
per digiunar sull’erba.
Questi alberi hanno camminato
molti hanno fatto gli alberi
nelle lontane Americhe,
altri sono stati abbattuti
disboscati da celebri
coiffeurs pour arbres.
La poesia è lì – né verticale né orizzontale, o entrambe le cose insieme, come l’orografia,
l’altimetria sportiva di una tappa ciclistica… Perché la Fantasia che si rispetti è sempre
all’avanguardia, e la tachicardia del cuore sublima il muscolo, incorona lo stile, il vero portamento
regale della scrittura… I lapsus quotidiani fanno il resto, e “l’anello che non tiene” (Montale docet),
per paradosso salvifico e propedeutico, rinsalda tutto, collega non solo i progetti, le idealità, ma
perfino gli stili…
Personal
Anche l’Italia è computer.
Torna la nostalgia del mare
il latte della razza bovina
sociologica bruno-alpina,
la neve del postiglione
e l’eco del suo corno
dalla Cornovaglia.
Torna il tango nella festa
la finta sciatalgia.
E quel Mazzin di fiori
sulle vesti di Maria.
Tornano amari, cedrate
di zie che sognavano l’harem
torna ferito Garibaldi,
torna il tuono torna il vento
torna il monaco nel convento.
Le ultime raccolte insieme disperdevano certezze, idealità, abitudini e medesime radici
novecentesche – ma tanto più e meglio s’immergevano invece in quest’immenso, pletorico,
fastidioso e risibile Paradosso, assurdo e familiare, che è dunque, e ormai temo, temiamo,
inesorabilmente, la nostra definitiva, ineludibile e maldestra Contemporaneità. Definirla o no postmoderna, diciamolo, è oramai solo un alibi e un luogo comune: poco più che un’etichetta di
comodo, colta e insieme prolungatamente sbarazzina… Vito lo sapeva e ci si tuffò, ci giocò
molto…Basta ritornare, ritrovare via via il cursus, la posizione pozione postazione omeopatica delle
nuove opere…
A un primo periodo di nobile sarcasmo intimista, di critica d’autoritratto antropologico culturale,
da gruppo di famiglia in un interno (L’astuzia della realtà, 1975; Dagherròtipo, 1978; Sindrome dei
ritratti austeri, 1980; Tabarin, 1985; Assurdo e familiare, 1986; Apparizioni, 1989) seppiata in un
bianco e nero che più che quello dei vecchi televisori è quello delle antiche stampe o litografie
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velenose e fiorite insieme dei Longanesi e dei Maccari (il Ci salveranno le vecchie zie?, il Parliamo
dell’elefante o L’antipatico – per intenderci: o ancora la vecchia rispolverata e trastullante polemica
anni ’30 su Strapaese o Stracittà), Riviello prende il telecomando e un bel 29 pollici a colori, per
concedersi un vorticoso zapping sulla nostra vertiginosa, vellutata o urticante (è lo stesso) Irrealtà
quotidiana… Ma senza accelerazioni o impaludamenti teorico-psicotici alla Ottiero Ottieri (il titolo
è suo, e fu un capolavoro di rara giustezza), bensì un’eterna, sorniona vena postdadaista (ha ragione
Mario Lunetta) da iperironico Surrealista Gnoseologico…
Tutto ci è consentito please
il peccato è stato reso trasparente
da una pronta scienza
e le virtù si sono appianate
nell’ordine di perseguirle.
Ma della divinità che se ne va?
Parlo dell’onniscienza dell’eternità.
Siamo lontani dalla notizia
almeno di trenta giorni,
solito tramestìo di vettovaglie
accampamenti elettronici
che han fatto a meno degli elefanti
ma gli odori i suoni i frastuoni
sono riducibili a segnali convenuti
infatti i convenevoli i convitati
si dispongono come da secoli.
Sarebbe veramente l’ora
che i morti spiattellassero.
Erano gli anni in cui lo attraeva, ricordo bene, non tanto la patafisica storica di Alfred Jarry, ma
quella reinventata, codificata con un vago, fumettistico sentore e strascico di pop-art, dunque quasi
“illustrata”, alla maniera – che so – di un grottesco, polimaterico Enrico Baj, frammentato tra
collages, medaglie, conchiglie e specchietti infranti… O magari perpetuando, e se possibile
accelerando, l’affollata, gustosa tecnica dei decollages del caro vecchio Mimmo Rotella…
Gemmano infatti i nuovi titoli: Kukulatrìa, 1991; Monumentànee, 1992; Il passaggio della
televisione, 1993 (su progetto grafico di Gianfranco Baruchello e con disegni del vecio amico
potentino Giuseppe Pedota); Plurime scissioni, 2001…
Ed ecco dunque la smodata e snudata accensione delle metafore, “La parola di pietra”,
parafrasiamo Montale, che mondi possa aprirci:
Aspro il monte, il contrafforte,
le allegorie sono loquaci
una tale asprezza non s’era mai vista prima,
anche le tue parole d’uso
sono violente, hanno perso
lo smalto chimerico
che le poteva aleggiare,
conoscono l’abuso.
…
E il reoconfesso, viscerale abuso di “Sogni barocchi”:
Il brivido dell’incostanza
quando la brezza lucidava
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i falchi rossi del tramonto,
i pullover alla rovescia
e s’andava dall’altra parte del mondo.
ma quale parte, non v’era stata la neve
a dire che il silenzio
è un passo d’uomo?
…
Ma ecco soprattutto l’eccezionale esito di una critica della Modernità che passa dal Museo,
ahinoi, dell’Orrore a quello, sic!, delle Cere, e in fondo li apparenta – magari dentro il baratro
catodico (oggi rinnovato, categorizzato come digitale terrestre…) di un monitor televisivo:
Futura
Vi ricordate i futuri campi di sterminio?
A prima vista sembravano simili a quelli del passato
ma a vederli più da vicino si discostavano
per tecnologia avanzata, anche il dolore
anche l’angoscia senza più psicanalisi.
Spettacolarizzata la visione animata degli eccidi
dei massacri e delle tecniche efferate.
Intervalli pubblicitari degli strumenti usati
da quelli medievali ai giorni nostri
perfino tipi di corda in casa degli impiccati,
spregiudicate correlazioni
con vittime autostradali e morti d’etnie obliterate,
naufragi esodali e scontri a fuoco nell’urbano
a quest’ora in altre ore di questo tempo.
Plurime scissioni, sentenzia, ripetiamo, il titolo, deflagrantemente già sintomatico… “È la
divisione, l’andare in pezzi, la frammentarietà dell’io da cui tutti siamo pervasi in questo torno di
tempi.” – argomenta con molta finezza e specchiata perentorietà sociologica, un maieuta fra Logos
ed Epokè quale Francesco Muzzioli (e la sua prefazione gioca un titolo che accarezza, titilla il
thrilling psicodinamico: “La poesia comica nel puzzle dell’io”) – “È una pluralità psichica (ma
anche corporea: non dimentichiamo le polemiche sulla donazione di organi, gli espianti, ecc.) che
ha un lato intrinseco e uno estrinseco. Da un lato, la pluralità emerge da dentro ed è positiva, perché
l’io che noi siamo è fatto di tante parti che è riduttivo poi restringere all’uno, all’unico ‘io sono’
imposto dal ruolo sociale; ma dall’altro lato, la pluralità è imposta dall’esterno (dai messaggi dei
media, che fanno appello in noi a tante persone diverse, per vendere al medesimo consumatore tutta
la gamma dei prodotti; dalla tecnologia, che pretende attenzioni e saperi specialistici e differenziati;
dall’economia, che vuole flessibilità e adesione al continuo cambiamento) e quindi è subita
negativamente, con conseguenze patologiche, che producono, alle somme, come compensazione
all’insicurezza, il rigurgito dei vecchi fantasmi.”
Né va comunque dimenticata l’intrigante vena antropologico-culturale, da storico del costume, da
exragazzo, o eterno monello colto del sud che era infatti cresciuto con le mitiche inchieste
liriconarrative o saggistiche o etnografiche di Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Ernesto De Martino…
E si era fatto l’orecchio con grandissimi poeti e, per dir meglio, artisti totali, della pagina, dei
quadri, del cuore, nella Storia, quali – soprattutto – Alfonso Gatto e Leonardo Sinisgalli…
Quest’ultimo anzi, lucano nume tutelare, esimio e assiso Ingegnere (un po’ come “il Gran
Lombardo” Carolus Aemilius Gadda) nonché struggente, ungarettiano aedo ermetico, amico di
artisti, e vigoroso eclettico artifex, a Milano, di una vera sapiente collaborazione tra i trovatori del
’900 e la “Civiltà delle Macchine”, stampò a Vito il primo, decisivo libretto, Città fra paesi
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(Schwartz, 1955), che l’autore di Vidi le Muse (e ormai illustre nativo di Montemurro) non esitò a
battezzare e incoronare come “il primo ritratto letterario di Potenza”…
Frutto nobile di quest’attitudine saranno svariate prose, racconti, inchiestine, sempre in bilico –
lunatico e rarefatto – fra il romanzesco e lo scanzonato, l’esigesi affilata, e la divagazione elevata al
cubo (o forse sfaccettata, arrischiata e rigiocata al “cubismo” – come ben asserisce Francesco
Muzzioli)… Una piccola, strampalata, stralunata messe di titoli che riconsiderati tutti assieme,
coniugano una sorta di bizzarra, extravagante analisi sociologica, e una lirica, inveterata diagnosi
italiota, con le buffe, aspre pulsioni e i misteriosi, alienati rituali dell’Io: Premaman (1968), La
neve all’occhiello (1986), Manualetto del calcio sognato (1992), Qui abitava Pitagora (1993), E
arrivò il giorno della prassi (1999)…
Fideiussore prezioso di Premaman, Gilberto Finzi disvela procedimenti stilistici e aggregazioni
psichiche come perfettamente correlati, trasfusi, annodati: “La comunione con la realtà-irrealtà è
ormai l’assenza di nessi visibili, la solidità di cerniere tenute nascoste: mentre tra gli interlocutori
(uomo-donna) del dialogo-racconto ancora resiste una pur tenuissima, labile distinzione, gli irreali
(ma sacri, come rituali) modi di trapasso, gli stacchi impercettibili eppure (controsenso?) vischiosi e
densi, il taglio morbido, con modulazioni prevalentemente affettive, di scene o pseudoscene, i
lapsus o i calembours, tensione razionale o memoria caritativa e meridionalmente ipersensiva, sono
già ‘forme’ di organizzazione etica (sic) e strutturale.”
Rispolveriamo dunque una scheggia narrativa, un residuo tenero e feroce di questo mancato,
aggirato stream of consciousness:
Nei nostri paesi si conserva ancora la paura per l’inconscio, sono tutti rassegnati a subirlo nelle incredibili
conseguenze né credono che la scienza possa guarirli, il colloquio e il monologo avvengono al buio con
l’alibi dell’istinto, della natura prorompente, ed è proprio in questi paesi che la psicanalisi potrebbe essere la
fiat degli animi comunali e la guarigione per lo meno della fissità con cui gli uomini guardano lo specchio, il
non-essere mattutino e l’ombra di se stessi nel corpo della sera. Si rimane per sempre neonati, con gli occhi
sbarrati sul viso della madre come su di un cielo compatto ed elementare dove piove o si accende la luna.
Bisogna scarmigliare questo cielo, entrare nelle nuvole del sacro, turbinare agli orizzonti e precipitare in
sonno, per ripetere la propria esistenza con una donna. Ti conobbi così, spostato un poco dal vento di una
ricerca sacrilega, tuttavia situato nel solco consueto, tra sogno e realtà nell’itinerario difficile e fiabesco.
E flusso di coscienza (parodiato, mimato al contempo: come la smorfia con cui un pittore si
specchia, si valuta e forse si giudica nel mentre s’autoritrae!) scorre, aleggia anche nella plastica,
vocata prosa memoriale, saga d’autocoscienza di E arrivò il giorno della prassi, di cui un critico
come Giorgio Patrizi non esita a sottolineare l’originalità e l’importanza: “La perizia che Riviello
dimostra in questo racconto-lungo è tutta legata alla capacità di ritrarre uno spaccato sociale che è
insieme autobiografico e storico, con microeventi – i rituali della vita scolastica, il contrasto tra
studenti e professori, le ‘maschere’ dei ragazzi protagonisti di piccole epopee quotidiane – che
divengono emblematici di un mondo non ancora in trasformazione ma certo non statico, mosso da
inquietudini e fermenti, da malesseri, entusiasmi, minimi e grandi eroismi.”
La ronzante macchina da presa della scrittura, gira e rievoca come un baldo film tardoneorealista
anni ’50, affidato più che alle parole alle occhiate in tralice, alle ombreggiature interiori, al forte
gioco in bianco e nero dei contrasti sia cromatici che emotivi:
Nino, il pittore del gruppo, con Fedora, culagna e signorosa. Pepè con Aida, mulagna. Con me Lilli
cinciallegra. Il tango venne sollevato e al suo posto calò l’aria di “Cincillà” e fummo cavalieri evanescenti di
cuori e quadri, picche e fiori. Un critico bilioso direbbe che faccio i soliti giochi di parole. Ma le parole si
intrecciano da sole e si amano sui sedili di pietra con i colori spremuti delle foglie di mirto. Le parole
finiscono col somigliarsi, le analogie scoprono complicità clandestine che il linguaggio ufficiale interrompe
bruscamente. Pertanto tra zia e psicologia c’è veramente una parentela, oltre che, marciando insieme, una
riacquisita funzionalità demistificatoria.
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Anche i racconti, i veri e propri scenari di costume, vien fatto di dire, de La neve all’occhiello,
ritualizzano giovinezza borbottante e radici antique, staticità adulta e brulichìo sensuale, in una
ridda d’esperienze che di ogni sguardo, o attesa, o golosità, o débâcle eroicomica, riescono a fare
romanzo, opera buffa seppur tachicardica…
Il babà la cui invenzione qualche Popov ha accreditato ai cosacchi è invece un dolce napoletano, anzi è il
dolce più dolce, morbido, tenerissimo.
È il simbolo della dolcezza meridionale in opposizione alla durezza della vita. L’originaria forma di spillo
ingrandito, amuleto portafortuna, è stata in seguito modificata da un “designer” che ha disegnato una valvola
elettronica, una valvola che genera felicità. Più che assorbire rhum se ne inzuppa, se ne ubriaca con estasi. Il
babà è un uomo quando vuol essere maschio e femmina quando vuol essere donna, un ermafrodito sui
generis. Ecco perché il grande pasticciere di S. Lucia non si rizelò quando uno straniero gli chiese: “Per
favore, signore, una babà!”.
“Riviello esercita contemporaneamente, come spetta ai poeti,” – arguisce e proclama uno storico e
ancor più noto osservatore quale Giovannino Russo, squisito amico d’antan e devoto prosecutore
della laica schiatta flaianense ovverosia maccariana: pungente e amena, tenera e fustigante – “il
diritto alla trasformazione della realtà senza travisarla; usa la figura retorica dell’iperbole o fa
balenare l’ironia che spesso è feroce, ma è sempre stemperata nel gioco, ogni volta che si sofferma
sulla descrizione della limitatezza dei borghesi, sulle ambizioni sbagliate tra l’aspirazione (o la
pretesa) a vivere come cittadini e la mancanza di autocritica, di lucidità nel riconoscere i limiti fra
sogno e realtà.”
Restano poi fuori una miriade di articoli, presentazioni, interviste, testimonianze in cui talora
spesso si annida la sua parte onnivora e migliore, visionaria e astutissima: come quella Realtà che
egli sempre nascondeva e lo nascondeva, per tragicomiche vie di fuga perfino più concrete dei
ricordi ameni, nostalgici, dunque mitici e indelebili… Considero ad esempio le Memorie
d’avanspettacolo che Vito pubblicò nel ’94 sul mensile “Il Grifo”, un piccolo capolavoro, sorta di
felliniana, crepuscolare e bislacca Caricatura d’Immaginario; melanconica e carnascialesca, laida e
solitaria; elegantissima come un abito rétro, birichina come la rossa estatica giarrettiera donataci da
una cocotte gozzaniana che ha confuso secolo (’800, ’900 o 2000?!) ed eccitato – bravissima! –
tutte le nostre mascule … virtù:
… La storia del “mio” avanspettacolo si svolge tra zio Michelino e zio Michelone. Zio Michelino era un
play boy degli anni ’30, imbrillantinato, azzimato, vestito con abito scuro d’inverno e di gabardin beige
d’estate. In autunno-primavera sciorinava un Principe di Galles da “gita al lago”. Michelino, deluso da un
matrimonio commissionatogli giocoforza, intravvedeva nelle ballerinette del tempo le ideali compagne
ahimè svanite. Per esse si era trasformato in una specie di impresario teatrale, un manager occasionale che
camuffava raptus d’amore. Michelino lavorava in proprio, quando gli piaceva una soubrettina alle prime
armi la ingaggiava nella sua scuderia provvisoria. La svezzava con una corte furiosa e l’accudiva con bigné e
brillantini d’orafi specializzati nel cingere colli e polsi di bellezze campesine. La mia adolescenza coincise
con l’avvento di Dudù ventenne primadonna nata tra i pomodori di Scafati e Pompei. Dudù era gentile e
bella, di una bellezza ancora non alterata da trucchi eversivi. Seguace di Anna Fougez non disdegnava dopo
lo spettacolo di cenare con trippa paesana e baccalà su cui beveva qualche bicchiere di rosso mediterraneo
nelle cantine che allora erano luoghi trasgressivi di intrattenimento. Tra i convitati v’era spesso il gruppo
“intellettuale” della provincia. …
E non è un caso che Vito abbia in fondo sublimato, esorcizzato al massimo tutto questo percorso,
pellegrinaggio, forse, nel post-camusiano, post-ioneschiano Assurdo familiare, con un’operina
allampanata e inesorabile quale Fumoir (2003): un fiducioso, sacramentato omaggio al suo adorato
mondo dei “fumetti” (quello da cui in fondo vennero anche Zavattini e Fellini, Flaiano e Alberto
Sordi…), capace davvero e finalmente di “trattare gli eroi di carta come se fossero persone,” –
annota Vincenzo Mollica – “liberandoli dai confini psicolabili del mondo delle nuvole parlanti. È la
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prima volta che un poeta con i suoi versi dà corpo ad un universo sconsacrato da tutte le culture
ufficiali, fa circolare il sangue della poesia in esseri in cui normalmente il diritto di esistenza in vita
equivale a quello di un paradosso.”
Un paradosso, per l’appunto, assurdo e familiare, come magari i tratti e le gesta elastiche,
effigiate, di “Tiramolla”:
Si stende si tende si scolla, Tiramolla
a tutte l’estensioni, le propensioni,
richieste dalla vita.
Per vivere fa salti mortali
e spesso anche immortali,
mai che i suoi slanci, i prolungamenti
siano immorali. Anzi del suo destino
può esser fiero. Per vivere sul serio
s’accorcia, s’allunga caracolla
ritorna al primo punto, Tiramolla.
Da L’astuzia della realtà a “Minnie” o al “Sor Pampurio”, a “Mandrake” ed “Eta Beta”, “Tex
Willer” o “L’Uomo ragno”, il passo è breve e l’approdo infinito… È come se il Cervantes avesse
riscritto oggi un Don Chisciotte da sceneggiare con Almodóvar, ma dove il vero protagonista è
Sancho Panza, lui il panciuto, obeso e satollo cavaliere di ogni saggezza, insomma il Familiare –, e
il prode, goffissimo Hidalgo solo l’emaciato, lungagnone, iracondo e perciò scompisciante Assurdo
da cui veniamo…
Assurdo e Familiare…
Rileggiamo per esempio e a caso l’affabulante, secentesco Cervantes del capitolo trentasettesimo:
“ – Si calmi Vossignoria, signor mio, – rispose Sancio; – potrebbe anche darsi che io mi sia ingannato, per
quanto riguarda il cambiamento della signora principessa Miccomiccona. Ma quanto alla testa del gigante o,
meglio, degli otri sforacchiati, e per il sangue ch’era vino rosso, non m’inganno vivaddio, perché gli otri
stanno là sbudellati dietro di Vossignoria, e il vino rosso ha allagato la stanza. E se non ci crede, lo vedrà alla
frittura delle uova, cioè lo vedrà quando sua signoria il signor oste le domanderà il risarcimento di tutto. Per
il resto, se la signora regina è ancora tale, me ne rallegro, perché anch’io avrò la mia parte, come ogni altro
figlio di mamma. ”
Ecco, Vito avrebbe invece concesso, spinto Sancho a interloquire con don Chisciotte in un
ribaltato, reboante barocco da inizio terzomillennio:
Parata di stelle
Donde vas, estrella?
Se lo sapessi, amigo,
non te lo direi
perché certamente
ti inquieterebbe
sapere che in fondo
non lo so.
E qui sabe? Quien sabe?
Qualche verso di Saba.
E voi sapete?
Sbottonatevi è tempo
che chi sa dica
di non sapere niente,
lo dica e non lo tenga in mente.
Se no ferma per sempre
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la nescioscienza!
Il niente si trastulla col nulla
ma ha bisogno di credere
di non sapere niente
che è poco più di nulla.
…
Sì, la raggelante nescioscienza come unica bussola – e in cielo, l’estrella smarrita ed eterna,
pallida e assorta… dell’inseguita, concupita, trasognata, pomiciata, arrapata poesia… La venusta
venustà della lirica Beltà, avrebbe sorriso e motteggiato Vito, ieri, oggi, domani, ma sempre e solo
Come la vidi da ragazzo – una donna, forse, ma molto di più un’isola, mitica eppure ironica: una
Capri del mattino che la sera rima Caprera…
Vedendola da ragazzo la vidi
desnuda d’incomparabile bellezza
giovinezza senza vecchiaia,
vi zufolava il mito ebbro e giocondo
quasi nordico biondo
che mi chiamava Vito
e le capre capresi
capricciose col Capricorno,
i Faraglioni fratelli mormoni
pel mormorìo del mare
e la gotta azzurra che fa sognare
le fossili zitelle di Podagra
e i seguaci del Kaiser,
Rilke che gronda rime
plenilunio ed effluvio,
Gorki alla pescatora
che sciogliendo l’inverno russo
ballava il tango in una stanza bassa
Goethe a cui l’isola apparve
dagli scogli delle Sirene
una bonaccia serena e completa
e tutti i celebri che giunsero
a celebrarla in solitudine
meno che Garibaldi desìoso
al mattino di rifugiarsi a Capri,
per colpa della sera
finì i suoi giorni a Caprera.
Dalla pascoliana Digitale purpurea, evocante d’arcano, sino al fantasmagorico, attualissimo
Digitale terrestre, è un’unica immensa, secolare orbita, parabola nell’ètere, non meno lirica che
tecnologica… Una nuova, allucinata, inopinata Metamorfosi occidentale, ci aspetta al varco!: quella
che Zio Franz praghese non fece in tempo a scrivere, ma solo magari abbozzò, in una lettera a
Milena in versi che certo mai e poi mai le spedì... Vito, chissà?, la divinò, la immaginò forse come
capace di livellare, omologare perfettamente il Comico nel Tragico, e viceversa, in linea del resto
con la migliore tradizione del Witz da teatro ebraico:
Kafkiana
Uscire dai labirinti è stato
per secoli un progetto tenace
mostrare il buio alla luce
i tormenti i tanghi della mente
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e le contorte forme del pudore
smarritesi nelle pieghe retoriche
di burocrazie austere, ridarle
in immagini salde e vere,
così ballerine severe
vestite di sola oscenità
escono da un uomo solo
dalle sue congrue profondità.
“… Per Mauron (che qui legge Freud attraverso le precisazioni e gli aggiornamenti di Kris)” –
Giulio Ferroni indaga e richiama la sua scandagliante Psychocritique du genre comique – “il riso
nasce dall’avvertimento di una differenza tra una rappresentazione ricalcata sull’esperienza adulta
normale e un’altra dotata di caratteri infantili, che ‘suggerisce una regressione verso stati superati’
(p. 22): la scarica derivante, secondo il noto meccanismo ‘economico’, da questa differenza, si
configura sotto l’aspetto di un ‘trionfo’, di una ‘vittoria sull’angoscia’. L’affacciarsi sullo spazio
della regressione si rivela dunque innocuo, la liberazione dalle costrizioni adulte, lungi dal
dissolvere l’integrità dell’io, arriva ad offrirgli un gratificante ‘sentimento di trionfo’.”
È in questo vertice e vortice (che possiamo ben chiamare spazio della regressione, certo, ma
anche e insieme fantasia di trionfo, vittoria sull’angoscia), che il Nostro colloca quella che nella
sua ultima raccolta, Livelli di coincidenza (2006), battezza come “Psicanalisi asciutta”: tutta, si
capisce, all’insegna – rileva Gabriele Perretta – di un vivissimo “Senso dell’autoversione
comica”…
De senectute
Vennero le pie donne,
chiesero d’accompagnarmi,
discrete, fino alla morte.
Non avevano più paura del comico
ridevano perché sapevano
che il pianto è infinito.
Mi chiamavano con dolci nomi
come amanti di teatro
sincere fino all’ossimoro.
Facendosi sempre donne
mimavano la fragilità del maschio
accarezzando la mia mano
che sembrava un cane
che iniziasse a dormire.
L’importante, per Riviello (e credo per noi tutti) è che la trappola della retorica fosse sempre
acutamente evitata; che l’avanguardia che conti e che resti sia sempre la prossima; che il vulnus
d’esistenza o d’amore, l’eterna prorogata ferita romantica si chiuda e si cicatrizzi da sé… E che la
morte – la morte nella vita e quella della vita, dopo la vita – come intonava, ammoniva Cardarelli
(un altro e ancor più supremo poeta moralista, esimio “cinico che ha fede in quel che fa”), la morte,
dicevamo, ci rispetti, ci sospetti, ci sorrida, ci arrida, e che soprattutto… ci trovi vivi: “… E in
quell’ultimo istante essere allegri / come quando si contano i minuti / dell’orologio della stazione / e
ognuno vale un secolo. / Poi che la morte è la sposa fedele / che subentra all’amante traditrice, / non
vogliamo riceverla da intrusa, / né fuggire con lei. / Troppe volte partimmo / senza commiato!”…
La sua estrema, esaustiva agnizione, si prospetta insomma – perifrasiamola così – più plautina che
plotiniana, meno rapita che divertita… Ma forse anche questo è un riviellesco punto d’arrivo,
perfino filosofico: “Non c’è rosa senza Spinoza”.
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…
Il niente si trastulla col nulla
ma ha bisogno di credere
di non sapere niente
che è poco più di nulla.
È immensa l’ignoranza
che porta alla stelle
si esplora l’infinito nel nulla.
Un infinito fatto di infiniti niente
quantificati al nulla.
Sempre più prospettive
d’essere infiniti
perché finiti nel nulla.
…
So per certo che in quell’ultimo istante effimero ed eternante, nullifico di noir, Vito avrà chiamato
la Madama con un nome o lapsus, sì, da baiadera, da venerea sciantosa d’avanspettacolo (Cocò?…
Dudù?…), o da donchisciottesca – anch’Essa – “signora principessa Miccomiccona”, recitandole
infine il più assurdo e familiare dei suoi mitici, smitizzanti “Neokukù”:
Sulla mia tomba:
sono momentaneamente assente.
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“Assurdo e familiare”