INDICE Pag. Lezione1: La logica matematica ………………………………………………. 1 Lezione2: Il naso di Pinocchio …………………………………………………. 10 Lezione3: Le gambe di Achille ………………………………………………… 19 Lezione4: Il teatro dell’assurdo ………………………………………………... 28 Lezione5: Idee accademiche ……………………………………………………. 37 Lezione6: Una metafisica liceale ……………………………………………….. 46 Lezione7: Lezione sotto il portico …………………………………………........ 54 Lezione8: Interregno ……………………………………………………………. 63 Lezione9: Un inglese calcolatore ……………………………………………….. 71 Lezione10: Un tedesco sensato e (in)significante ……………………………… 79 Lezione11: Un Nobeluomo paradossale ………………………………………... 87 Lezione12: Alle ricerche del trattato perduto ………………………………… 96 Lezione13: Questioni di forma …………………………………………………. 105 Lezione14: L’intuizione al potere …………………………………………….... 114 Lezione15: Un austriaci (mica tanto) completo ………………………………. 124 Lezione16: Metamorfosi di un teorema ……………………………………….. 132 Lezione17: Risposta a Pilato ……………………………………………………. 141 Lezione18: L’enigma dell’informatica ………………………………………… 150 Lezione19: Gran finale …………………………………………………………. 159 Lezione20: Un secolo di fondamenti ……………………………………………. 167 Note: Le seguenti 20 lezioni di logica matematica sono state da me trascritte dalle relative videolezioni del Prof. P. G. Odifreddi, adattate al linguaggio scritto, aggiustate e da me interpretate, spero in modo corretto, in certi passaggi non del tutto chiari o espliciti. Ho fatto questo lavoro spinto solo dall’interesse per questa materia, che non ho potuto soddisfare nei lontani tempi dell’università, per mancanza del materiale didattico adeguato o difficoltà di reperirlo. Questo corso di logica mi ha aperto le idee sulla matematica moderna, in particolare l’algebra astratta e la teoria insiemistica avanzata, ostiche per me quand’ero studente di fisica, soprattutto nella comprensione di certi teoremi. Consiglio di seguire questi corso agli studenti dei primi anni di fisica e naturalmente di matematica. Prof. C. Cella LEZIONE 1: La logica matematica Mi chiamo Piergiorgio Odifreddi e vi invito a seguire un corso di logica matematica. Questa è la prima lezione, una lezione introduttiva che divideremo in due parti, poi naturalmente sarà seguita da un lungo ciclo di 19 altre lezioni in cui entreremo ovviamente nei dettagli di questa materia. Cerchiamo però di capire che cos'è la logica matematica, anzi dovrei cercare di convincervi a seguire le prossime lezioni, perciò cercherò di spiegarvi in parole povere e anche cercando di attirare la vostra attenzione, che cos'è la logica matematica. Cominciamo subito a vedere qualcuna delle slide. Vi dico anche, già dagli inizi, che queste slide voi potrete trovarle sul sito del Nettuno e quindi ogni volta che faremo una nuova lezione potrete andare a rivedervi queste cose, piano piano e a ripassare ciò che è stato detto. Allora, dicevo, incominciamo con una definizione, perché come avrete capito dall'aggettivo matematica, questo corso è qualche cosa che ha a che fare appunto con la matematica e soprattutto con i procedimenti della matematica. Ora questi procedimenti, qualcuno di voi lo saprà, anzi mi immagino che la maggior parte di voi, visto che seguite corsi di questo genere, saprà cosa significa fare matematica, significa in particolare seguire il metodo matematico, che è un metodo assiomatico, che parte da definizioni, parte da assiomi e poi sviluppa via via nozioni più complesse e proposizioni più complicate che vengono derivate dagli assiomi. Allora cominciammo, anche noi subito, dalla migliore tradizione della matematica con una definizione: che cos'è la logica? Beh, la logica si può definire in tanti molti, ma io ho scelto questo modo qua: “la logica è semplicemente la scienza del ragionamento”. Ci sono ovviamente due termini del discorso, cioè scienza e ragionamento e su questi dobbiamo soffermarci per un momento, anzitutto ragionamento. Questo significa LOGICA che stiamo cercando di costruire una teoria però non una Scienza del ragionamento teoria, per esempio di come è fatto il mondo, di come è LOGICA MATEMATICA fatto il cervello o tante altre cose; a noi interessa in questo Scienza del ragionamento matematico corso e soprattutto nell'ambito della logica, della logica matematica, ma più in generale della logica, ci interessa studiare come l'uomo ragiona, l’uomo inteso ovviamente come essere umano. Questo è il primo termine di questa definizione, ma c'è anche quest'altro termine che ci dice anche come noi cercheremo di studiare questo ragionamento, cioè il termine è scienza e per l’appunto scienza significa che cercheremo di usare il metodo scientifico, che poi nel caso nostro sarà in particolare “il metodo matematico”. Quindi vi ho detto in breve quale sarà l'argomento del nostro discorso, cioè il ragionamento e quale sarà il metodo con cui noi affronteremo questo discorso, cioè “il metodo scientifico”. Ora questo, già in parte dovrebbe, dirvi come mai si parla di “logica matematica”, cioè il “matematica”, in questo titolo “logica matematica” può stare a significare per l’appunto, il fatto che noi seguiremo, adotteremo, useremo il metodo della matematica per studiare il ragionamento. In effetti, così è in parte, ma solo in parte e questo è il motivo o uno dei motivi, per cui la logica matematica si chiama, per l’appunto matematica, a differenza dalla logica in generale, che era invece una scienza o meglio un argomento che veniva studiato già dai tempi dei greci, come diremo anche fra pochi minuti, ma in un modo forse un po' diverso, in maniera più discorsiva, più filosofica, più intuitiva e quindi non in maniera scientifica, anche per un ovvio motivo, perché all'epoca la scienza non era ancora nata. Ma andiamo oltre e proseguiamo con una seconda definizione e qui veramente stiamo cercando di definire quale sarà il nostro soggetto, il soggetto di queste 20 lezioni, cioè che cosa è la logica matematica. Se “la logica” è “la scienza del ragionamento”, si può immaginare per analogia che “la logica matematica” sarà “la scienza del ragionamento matematico”. Ed ecco che allora qui il “matematico” interviene in una maniera diversa, non soltanto come nella prima definizione, come metodo di studio del ragionamento, ma anche come oggetto del ragionamento stesso, cioè ci interesseranno non soltanto i ragionamenti in generale, anche perché questo tra l'altro è un campo enorme, vastissimo su quale poi ovviamente diremo anche qualcosa, però noi cercheremo di concentrarci, com’è tipico tra l'altro del metodo scientifico di non fare grandi castelli, su un particolare aspetto del ragionamento, che è il ragionamento matematico. Questo per tanti motivi, in parte anche storici, ma anche dovute al fatto che nella matematica si pensa, si è sempre pensato fino dall'antichità, fino dai tempi di Pitagora, che il ragionamento matematico sia forse la forma più perfetta, più astratta, più sviluppata di ragionamento. Ed ecco che allora si va a studiare matematicamente il ragionamento che viene fatto nella matematica. Dunque la matematica interviene in due maniere contrapposte, in parte come oggetto dello studio ed in parte come metodo di studio. Quindi questo è più o meno quello che vorremmo fare. Allora 1 adesso cerchiamo di avvicinare il nostro soggetto. Ovviamente, come vi ho già detto, questa è una lezione introduttiva, tutte le cose di cui parleremo quest'oggi, a cui accennerò quest'oggi, saranno riprese in lezioni, anzi dedicheremo a ciascuno degli argomenti di cui parlerò adesso e a ciascuno dei personaggi a cui accennerò in seguito, una lezione speciale e poi naturalmente parleremo anche di altre cose, ma questa lezione introduttiva vuole essere un invito per l’appunto, una specie di scheletro, per cercare di farvi vedere quali saranno gli argomenti da una parte e i personaggi dall'altra, di cui parleremo in queste lezioni. Vediamo più da vicino quali sono appunto gli argomenti che ho indicati in questo modo, premetto che cercheremo sempre di usare dei titoli un pochettino anche fantasiosi, per cercare di attirare l'attenzione, perché questo è anche il modo di insegnare, allora dicevo le tre vie della logica: come si arriva a studiare la logica, perché si è pensato in certi periodi storici di studiare la logica, cioè di studiare in maniera scientifica e poi successivamente in maniera matematica il ragionamento?. Le tre vie che ho indicato sono: la dialettica, i paradossi e le dimostrazioni, su ciascuna delle quali dirò adesso alcune parole e poi in seguito cominceremo già dalla prossima lezione ad affrontare più da vicino e più in dettaglio. La prima via, come ho detto, è la via della dialettica, che è stata iniziata perlomeno in Occidente dalla Scuola greca dei sofisti e qui nella slide vediamo un'immagine di sofista. Sofista oggi è un aggettivo non particolarmente piacevole, perchè quando si dà a qualcuno del sofista questo lo si fa in genere maniera negativa, significa che questo qualcuno sta facendo un discorso capzioso, sta cercando di menare il can per l’aria, sta usando parole spesse volte senza significato, giocando pure sull'equivoco e così via. Ebbene i sofisti erano in parte anche questo, non soltanto questo. Ci furono grandi personaggi nella Scuola sofista, in particolare questi due che si chiamano Protagora e Gorgia. Qualcuno di voi li riconoscerà, coloro che hanno fatto gli studi classici, perché sono i titoli di due famosi dialoghi di Platone, che appunto Platone dedicò a questi due personaggi. Platone era ovviamente in contrapposizione con i sofisti e quando parleremo di Platone, perché a lui dedicheremo una lezione, vedremo meglio, più da vicino, come mai c'era questa contrapposizione. Ora i sofisti erano interessati in particolare all'arte della parola, all'arte del discorso e allora per cercare di catturare il discorso, per cercare di fare il discorso in una maniera più incisiva possibile, ecco che i sofisti incominciarono anzitutto a studiare quali erano le regole che stavano dietro, che soggiacevano al discorso, per cercare di usarle ai propri fini. Su questa tradizione io non dirò molto di più, perché in realtà questa è una via che se ne va, noi diremo in matematica per la tangente, se ne va da un'altra parte e dico soltanto per concludere questa idea, questa prima via che approccia alla logica, che in realtà la via della dialettica è qualche cosa che viene usata ancora oggi ovunque; la si usa nei tribunali, la si usa nei parlamenti, la si usa nei media, in televisione, eccetera. E’ la via meno scientifica, ma è quella che poi tutto sommato noi usiamo, quando cerchiamo di convincere un avversario o un pubblico, qualcuno appunto che cerchiamo di convincere di qualche cosa, usando le arti del discorso e l'arte del discorso per antonomasia era per l’appunto la dialettica e per usare l'arte del discorso bisogna conoscerne le regole. Questo è il primo motivo per cui storicamente si è cominciata a studiare la logica. Però come vi ho detto, questo è un motivo che noi non tratteremo, perché è una cosa più filosofica, certamente meno matematica e meno scientifica. La seconda via invece, che è la via dei paradossi, è qualche cosa che veramente ha a che fare con il nucleo del nostro di discorso e infatti a questi paradossi, cioè al paradosso del mentitore e al paradosso di Achille e la tartaruga che sono i due più famosi paradossi della storia ai quali brevemente accennerò fra un momento, dedicheremo per ciascuno un'intera lezione, cioè un'intera lezione al paradosso del mentitore e un’intera lezione al paradosso di Achille e la tartaruga, ma prima di parlare di queste paradossi vediamo meglio che 2 cosa sono i paradossi. Ebbene i paradossi sono dei ragionamenti che apparentemente sono corretti e che, però tutto sommato, dovrebbero essere sbagliati, perché le loro conclusioni sono per l’appunto paradossali, vanno contro l'opinione comune, paradoxa significa proprio questo. Doxa, qualcuno di voi si ricorderà che c'è addirittura un'azienda che fa inchieste, indagini su ciò che la gente pensa, che si chiama per l’appunto doxa e para significa oltre, quindi paradoxa significa oltre l'opinione comune. Invero questi paradossi ebbero un'origine antichissima, non soltanto in Grecia, ma addirittura in Cina, lo vedremo meglio quando parleremo nelle due prossime lezioni di questi argomenti, cioè dei due paradossi più famosi, il paradosso del mentitore e il paradosso di Achille e la tartaruga. Qual’è il paradosso del mentitore? Molto semplicemente il paradosso del mentitore è il paradosso di qualcuno che dice “io sto mentendo”. Come mai è paradossale? Perché a prima vista questa è un'affermazione che potrebbe sembrare sensata e coerente, però se voi ci pensate bene, se andate a riflettere un momentino da vicino, uno che vi dica “io sto mentendo”, non si capisce bene se sta dicendo la verità o se sta dicendo il falso. Infatti, se supponiamo che sta dicendo la verità, allora quello che sta dicendo è vero, però sta dicendo che sta mentendo, quindi se dice la verità dice il falso. Va bene, voi potrete dire, allora non dice la verità, dice il falso; beh, la storia è perfettamente simmetrica. Se dice il falso, allora quello che sta dicendo, cioè dice di mentire, non è vero, è vero il contrario, ma se non è vero, ovviamente allora dice la verità. Quindi se supponiamo che, chi dice “io sto mentendo”, dica il vero, allora abbiamo dedotto che dice il falso e se invece supponiamo che dica il falso, abbiamo dedotto che dice il vero, perciò siamo entrati in un circolo vizioso. Se la cosa è vi è sembrata un po' veloce, un po' da mal di testa, magari da farvi girare la testa, aspettate con pazienza la prossima lezione e la prossima lezione parleremo per l’appunto del paradosso del mentitore, cercheremo di affrontarlo più da vicino e quindi andremo a scavare non soltanto nella sua storia, ma cercheremo anche di vedere qual è, o se c’è, una soluzione di questo paradosso. Il secondo paradosso invece, di cui parliamo oggi, è il famoso paradosso di Achille e la tartaruga, che è qui illustrato. La storiella forse tutti la conoscete, è una gara tra Achille piè veloce e la tartaruga zampa lenta, cioè i due simboli della velocità e della lentezza. Ora sembrerebbe una gara poco sensata a far correre Achille contro la tartaruga, quindi per dare alla tartaruga, almeno un minimo di vantaggio, si permette alla tartaruga di partire un po' davanti ad Achille. Quindi Achille parte in questo punto (v. grafico) e la tartaruga parte in quest’altro. Scatta il cronometro, si sente lo sparo della pistola che dà il via alla gara, ecco che tutti e due partono. Naturalmente la tartaruga fa quello che può, cioè si muove un pochettino e ad un certo punto percorre un certo percorso. Nel momento in cui Achille ha raggiunto il punto in cui è partita la tartaruga, la tartaruga si è mossa di una certa quantità di spazio. Benissimo, Achille continua la sua corsa molto veloce, percorre la quantità di spazio che la tartaruga aveva percorso nel tempo in cui lui aveva raggiunto il punto d'inizio della gara della tartaruga, la tartaruga si è a sua volta mossa di nuovo di un altro pezzettino di spazio. Achille percorre quel pezzo di spazio e così via e il problema sta proprio nel così via, perché sembra che a questo punto il gioco possa andare avanti all'infinito; dunque Achille non raggiungerà mai la tartaruga perché ogni volta deve prima percorrere lo spazio che, anzitutto lo separa dal punto di partenza della gara della tartaruga, poi lo separa dal punto in cui la tartaruga è arrivata mentre lui faceva il primo pezzo e così via. Sembrerebbe, dunque, che Achille non possa mai raggiungere la tartaruga. C'è qualcosa di sbagliato, perché sappiamo tutti che se ci mettiamo a correre dietro una tartaruga prima o poi, anzi molto prima, la raggiungiamo; dove sta l'errore, qual'è il problema, eccetera? Quindi vedete che ci sono effettivamente dei problemi dietro a queste cose, dietro a questi ragionamenti e la logica cerca anche di studiare, questa è la seconda via, per l’appunto la via dei paradossi, cerca di studiare quali sono i problemi che stanno dietro a questi tipi di ragionamenti, cerca di andar a vedere dove sta 3 l'inghippo, come diremmo oggi, dove sta l'errore, se c'è un errore, qual è il modo di riformularli, insomma cerca di analizzare queste cose. Quindi questa è la seconda via a cui dedicheremo, come ho detto, due intere lezioni, le prossime due. Ma c'è una terza via, che è invece quella che ci interessa più da vicino, perché come vi ho detto prima stiamo facendo o cercheremo di fare, di avvicinarci pian piano alla logica matematica e dunque ci interessa la matematica, il ragionamento matematico e la terza via è la cosiddetta via delle dimostrazioni. Come mai? Ma perché come forse qualcuno di voi saprà, agli inizi la matematica è nata senza dimostrazioni; qualcuno intuiva che c'erano dei risultati che si potevano ottenere, li scriveva, per esempio il famoso papiro di Rhind, che riporta alcuni dei risultati egiziani che risalgono a 2000 anni a.C. e più. Ebbene questi risultati venivano semplicemente scritti, trascritti senza nessuna giustificazione, senza nessun motivo per il quale noi avremmo dovuto credere. Ci fu un momento nella storia della Grecia, cioè verso il 600 a.C. in cui i greci capirono che non si doveva più fare così, anche perché non c'era modo di sapere se un risultato era giusto o sbagliato, a volte gli egiziani effettivamente intuivano il risultato corretto, altre volte invece si sbagliavano e intuivano, per modo di dire, quello sbagliato. Allora come si fa a decidere di fronte ad un'intuizione, a quello che ci sembra vero, se questa cosa è effettivamente vera oppure no? Bisogna dimostrare. Oggi per noi la cosa è lapalissiana, è lampante che per avere un teorema matematico bisogna avere una dimostrazione. Ebbene non è stato sempre così lampante e i greci inventarono questo nuovo modo di fare matematica; in particolare furono stimolati allo studio delle dimostrazioni da due famosi risultati che sono collegati fra di loro, anche a questo personaggio di cui parliamo adesso, cioè Pitagora, a cui dedicheremo un'intera lezione perché Pitagora è il punto di partenza della filosofia occidentale, della scienza occidentale, della matematico occidentale, quindi veramente un personaggio in cui si racchiudono tantissime idee, tantissime cose che furono scoperte per la prima volta in quel periodo e quindi torneremo a parlare, forse non con molta profondità, ma per un'ora intera di questo personaggio. Il teorema di Pitagora, il famoso teorema che tutti riconoscono, tutti conoscono, tutti ricordano, ebbene questo teorema di Pitagora, il fatto che, se si prende un triangolo rettangolo, si ha che il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente in area alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, è un qualcosa che molte civiltà intuirono, come i babilonesi, gli egiziani, i cinesi, gli indiani eccetera, ma un conto è intuire, come dicevo prima e un conto è dimostrare. La dimostrazione del teorema di Pitagora, perlomeno la prima dimostrazione che c'è pervenuta negli “elementi di Euclide”, è una dimostrazione molto complicata. Ed ecco che allora sorge immediatamente il motivo, il bisogno di andare ad analizzare queste dimostrazioni, cercare di capire che cosa sta dietro alle dimostrazioni, quali sono i mezzi che fanno sì che una dimostrazione sia corretta e la logica parla, si interessa precisamente di questo argomento. Il secondo risultato di cui parleremo a fondo, quando affronteremo nella terza lezione l'argomento di Pitagora, è la fa molta scoperta che, se voi prendete un quadrato e considerate la diagonale del quadrato, ebbene non c'è nessuna unità di misura che stia in una maniera intera, sia nel lato che nella diagonale. Questo viene detto, in altri modi, dicendo che la diagonale e il lato del quadrato sono fra loro incommensurabili, cioè non c'è nessuna misura comune, misura intesa nel senso di numeri interi ovviamente. Ebbene questo che oggi esprimiamo dicendo che la radice quadrata di 2, cioè la diagonale del quadrato è irrazionale per l’appunto, non si può scrivere come un rapporto di numeri interi, in maniera razionale, anche questo è un qualche cosa che scoprirono i pitagorici, una scoperta veramente dovuta Pitagora o perlomeno alla sua scuola. Questa scoperta è basata su una dimostrazione, non è qualcosa che si veda ad occhio e questa dimostrazione, la dimostrazione che sta dietro alla irrazionalità della radice di 2, è qualche cosa che era nuovo all'epoca e forse è il primo esempio di quello che viene chiamato dimostrazione per assurdo. Ed ecco quindi un nuovo motivo per cercare di capire che cosa sta dietro alle dimostrazioni, quali sono le leggi che regolano queste dimostrazioni e dunque una nuova via, un altro modo di arrivare a questa logica matematica. Quindi queste sono le tre figlie: la dialettica, i paradossi e le dimostrazioni. Sulla dialettica, come ho detto, non diremo altro, ma sui paradossi e sulle dimostrazioni invece diremo parecchio, perché cercheremo di andare a fondo. Che cos'altro faremo in queste lezioni? Ebbene oltre che a parlare di teoremi, di risultati, di pensieri, faremo anche un tentativo di affrontare 4 l'argomento in una maniera più umana o umanistica, se così vogliamo, cioè cercando anche di parlare di coloro che questi pensieri hanno pensato, cioè dei pensatori e in particolare faremo tutto una serie, anzi organizzeremo le nostre lezioni proprio sulle vite dei logici e quindi si potrebbe quasi dire che i simboli, il motto delle nostre lezioni potrebbe essere “vite da logico”, che non è ovviamente un gioco di parole, come scritte da cani, ma vite da logico non è così brutto, appunto come tante altre. Praticamente quest’oggi io voglio soltanto farvi familiarizzare con le facce e i nomi di coloro dei quali parleremo, quindi andremo molto brevemente ad affrontarli o meglio a presentarli e poi ripeto, a ciascuno di questi dedicheremo una lezione per vedere esattamente quali sono stati i loro contributi. ANTICHITA’ Ci sono stati tre periodi principali della storia della logica: l'antichità, poi l'era ¾ Platone moderna, per così dire e poi un'era contemporanea. La logica oggi è un qualche ¾ Aristotele cosa che parte dalla matematica, è una delle grandi aree della matematica mo¾ Crisippo derna, ma non è stato sempre stato così, agli inizi dovete nascere ovviamente, poi svilupparsi, adesso ha raggiunto completa maturità. Quindi vedremo anche, cercheremo di affrontare in qualche modo le basi storiche, di vedere da dove sono nati e chi ha fatto nascere, chi è stato il primo o chi sono stati primi a pensare in termini logici. Ebbene, questa prima parte della storia della logica è la storia dell'antichità. I tre personaggi, coloro che hanno fatto di più per la logica moderna sono appunto: Platone, Aristotele, Crisippo. Platone e Aristotele sono due personaggi sul quale non c'è bisogno di aggiungere molto, perché tutti certamente conoscerete perlomeno i nomi; sono i due più famosi filosofi dell'antichità, coloro che ancora con le loro teorie oggi in qualche modo informano la filosofia moderna. Crisippo è meno noto, ovviamente su Crisippo faremo anche su di lui una lezione, ma forse sarà più una scoperta, mentre invece su Platone e Aristotele sarà più un dire qualche cosa che già sapevamo o magari rivedere le cose che hanno fatto in maniera diversa, dal nostro punto di vista, dalla nostra angolazione. Cominciamo subito con Platone. Sotto Platone vedete iscritto Accademia, perché ovviamente questa era la scuola che Platone aveva fondato e credo che il più grande risultato che Platone portò. Platone ovviamente è questo signore che voi vedete nella statua, mentre alla destra c’è una parte del dipinto famoso della scuola di Atene di Raffaello. Ebbene il regalo che Platone portò alla logica, che fece alla logica, è quello che oggi viene chiamato il “principio di non contraddizione”. Ho parlato poco fa dei sofisti, i sofisti non usavano questo principio di non contraddizione, non è chiaro che non lo usassero perché non lo conoscevano o se invece lo conoscevano e facevano finta di non conoscerlo, cioè facevano i finti tonti come si potrebbe dire. Il principio di non contraddizione significa che non si può impunemente dire una cosa e il suo contrario allo stesso tempo. Non si può dire “oggi piove” e dire “oggi non piove” e poi pretendere che la gente creda a tutte le due cose, se ci stiamo riferendo allo stesso momento e allo stesso giorno. Ebbene, la prima formulazione del principio di non contraddizione è per l’appunto in alcuni dei dialoghi platonici dei quali parleremo. Quindi questo è un grosso risultato, è il primo tentativo di isolare una delle grandi leggi della logica. Aristotele, invece, viene considerato in realtà il padre fondatore della logica moderna e se dobbiamo dire il nome del più grande logico mai vissuto, ebbene questo forse è veramente Aristotele e se invece dobbiamo dirne due, allora questi due sono Aristotele e Goedel, di cui parleremo fra poco, verso la fine di questa lezione. Qui di nuovo abbiamo Aristotele anche lui ritratto come Platone alla scuola di Atene, mentre qui alla sx c'è un'altra statua dedicata a lui. Qual è stato l'apporto fondamentale di Aristotele alla logica? Beh, è stato lo studio dei quantificatori, cioè lo studio delle leggi che regolano il funzionamento e l'uso di particelle come nessuno, qualcuno e tutti. Nessuno e tutti sono ovviamente contrapposti fra di loro, qualcuno sta a metà, non è nessuno né tutti. Ebbene, Aristotele fece uno studio dettagliato di 5 queste particelle che vengono chiamate quantificatori. I quantificatori solo una delle parti fondamentali della logica moderna. Il terzo personaggio della logica antica, della logica greca, è Crisippo. Platone aveva la sua Scuola che era l'Accademia, Aristotele aveva la sua Scuola che era il Liceo, Crisippo aveva anche lui la sua scuola che era la Stoà. Questi erano le tre grandi Scuole di Atene, cioè l’Accademia, il Liceo e la Stoà e di ciascuna di queste parleremo. Qual'è stato il contributo invece di Crisippo? Ebbene, mentre Aristotele studiò le regole dell'uso di questi quantificatori, Crisippo invece studiò ciò che oggi viene chiamata “la logica proposizionale” o meglio queste particelle linguistiche che sono quelle che servono a mettere insieme delle frasi semplici per costruirne di più complicate, queste particelle vengono chiamate “connettivi”. Si chiamano connettivi perché connettono, mettono insieme per l’appunto queste parti diverse. I connettivi che useremo e abuseremo anzi, verranno forse persino a noia, perché ne parleremo tantissimo e d'altra parte sono le parti più essenziali del discorso logico, sono (questa è la prima volta che li sentiamo, ma non sarà l'ultima) la negazione (il non), la congiunzione ( l’e), la disgiunzione ( l’o) e inoltre, il più importante di tutti dal punto di vista matematico e dal punto di vista del ragionamento, la implicazione (il se è... allora). Un esempio con “non”: se voi avete una frase “oggi piove”, potete negarla, potete ottenere una frase che dice il contrario di questa, dicendo “oggi non piove” oppure “non è vero che oggi piove”. Un esempio con “e”: se voi avete due frasi: “oggi piove” ed “io ho l'ombrello”, potete metterle insieme dicendo: “oggi piove e io ho l'ombrello”, questa è la congiunzione. Un esempio con “o “: poiché la disgiunzione è il connettivo che si usa quando si ha la possibilità di scegliere fra due cose, quando si ha un'alternativa , perciò “oggi mangio una pastasciutta o una bistecca”, questa è l'alternativa, la disgiunzione. Infine il “se... allora”, come dicevo, è il connettivo tipico dei ragionamenti matematici: “se questo è vero, allora anche quest'altro vero”, cioè se l'ipotesi è vera, allora anche la conclusione è vera. Il “se.... allora” è per l’appunto la congiunzione, la connessione, appunto per questo si chiamano connettivi, la connessione tra l'ipotesi e la tesi, cioè tra ciò che si postula e ciò che invece viene dimostrato. Quindi questi furono i grandi risultati della logica greca, a parte Platone che appunto fu praticamente un precursore, abbiamo da una parte Aristotele lo studio dei quantificatori, dall'altra parte Crisippo, con lo studio dei connettivi e su questo appunto, come vi ho detto, ci fermeremo a lungo. Veniamo più da vicini all'era moderna ed ecco che dopo lunghi secoli, naturalmente nella logica ci furono altri personaggi che si interessarono di logica nei secoli, in particolare durante la Scolastica, durante il Medioevo, ma di quelli parleremo poi in una delle lezioni che abbiamo chiamato ”interregno”, appunto per far capire che era il passaggio dalla logica antica, dall’era antica, all'età moderna, ma oggi non è il caso di vederli, stiamo soltanto citando i nomi e i risultati più importanti . Quando veniamo all'epoca moderna, ecco che qui abbiamo un'altra trinità e questa trinità è costituita da Leibniz, Boole e Frege. Vediamo appunto più da vicino anzitutto le loro facce e poi cerchiamo di dire due parole su ciò che fecero. Questa è la faccia di Leibniz, naturalmente non pensate che questo signore avesse questi bei boccoli in testa, erano delle parrucche, ci sono anche delle foto di Leibniz senza parrucca, completamente calvo, ma forse sono cose meno piacevoli da vedere, quindi non le ho messe qua. Leibniz, come tutti sapete, è stato un grandissimo e poi dovrebbero esserci dei puntini, perché è stato tantissime cose: è stato giurista, diplomatico, ambasciatore, filosofo, matematico e così via e fra le tante cose che ha fatto un uomo così versatile e così multiforme, è stato anche un grande logico. È stato colui che verso il 1600, fine del 1600, ebbe la visione non in sogno, ma la visione filosofica, cioè precorse i tempi e praticamente informò con il suo pensiero, con i suoi sogni quella che poi sarebbe diventata la logica moderna. Il 6 suo sogno più grande fu quello di avere, quello che appunto lui chiamava in latino “la caracteristica universalis”, cioè di riuscire a costruire una lingua formale ovviamente, una lingua che fosse adatta a poter esprimere tutti i contenuti delle scienze, un qualche cosa che non fosse come la lingua naturale, che usiamo tutti i giorni, che ha le sue imperfezioni, che ha anche i suoi problemi, tipo le antinomie che abbiamo visto, come quella del mentitore, eccetera, ma una lingua costruita a tavolino in qualche modo e che fosse però formalmente perfetta. Ed ecco che questo sogno, che all'epoca era. soltanto un sogno, poi piano piano nel corso degli anni, dei decenni, perché praticamente questo cominciò verso il 1850 e sono passati dunque 150 anni, questo sogno si è concretizzato ed è diventato praticamente quello che oggi noi potremo dire la lingua della logica matematica, ma per rendere più chiaro la cosa, oggi che stiamo appunto soltanto facendo soltanto l'introduzione a questo argomento, si potrebbero dire che il sogno di Leibniz oggi si è concretizzato in quella che è diventata la lingua dei calcolatori elettronici. L'informatica o meglio i programmi informatici sono precisamente versioni di quello che Leibniz sognava si potesse fare di questa “caratteristica universale”, questo linguaggio perfetto e puramente formale. Il prossimo personaggio invece è quello che forse potremo considerare veramente il primo logico moderno. Con Leibniz, con questo suo sogno si era appunto nel 1676, mentre con Boole siamo nel 1849. Ebbene, a metà dell'800, finalmente la logica matematica incomincia ad uscire dal bossolo, a trasformarsi in qualche cosa d'altro e a prendere vita autonoma. Boole, questo signore di cui ci sono pochissime foto, soltanto questa anzi io conosco, ebbene questo signore introdusse quella che oggi addirittura è diventata qualche cosa che si chiama con il suo cognome, cioè la cosiddetta algebra booleana. Sulla algebra booleana di nuovo parleremo per un intera lezione, perché l'algebra booleana è da una parte un uovo di colombo, cioè un'idea brillante che viene in mente soltanto a persone geniali, perché così semplice che noi tutti ci passiamo vicino senza mai riuscire ad usarla. Ebbene, questa algebra booleana è semplicemente l'idea di usare lo zero e l'uno, cioè i primi due numeri interi, come se fossero l'analogo, dal punto di vista matematico, di ciò che nella logica, nel linguaggio, sono il vero e il falso. L'uno corrisponde al vero, lo zero corrisponde al falso, la scoperta di Boole fu che le leggi logiche, che regolano il comportamento di vero e falso, sono praticamente le stesse leggi che regolano matematicamente o algebricamente il comportamento dello zero e dell'uno. Ed ecco che allora algebra booleana significa precisamente questo, cioè comportarsi, lavorare, fare operazioni sullo zero e sull'uno, come se in realtà questi zero e uno stessero lì ad indicare il vero e il falso. Ebbene questa è una grande scoperta e fu veramente in qualche modo il punto finale, dico finale, dell'evoluzione della logica. Come mai il punto finale? Perché in realtà con l'algebra booleana si poteva descrivere da una parte la logica aristotelica, il comportamento di quei quantificatori di cui abbiamo parlato prima, perlomeno nel modo in cui li usava Aristotele e dall'altra parte il comportamento dei connettivi come veniva usato da Crisippo, cioè l'algebra booleana è un unico mezzo che permette di parlare e di prendere sotto lo stesso tetto, due cose apparentemente diverse, come la logica aristotelica e la logica di Crisippo. Questo era in qualche modo la chiusura, il completamento, la fine di un'epoca. Subito dopo ci si poteva fermare lì, ma invece venne questo signore austero, che si chiama Frege, colui che veramente iniziò la logica moderna, perché, come ho detto, Boole era più che altro un completatore. La logica che Frege introdusse, per la prima volta fu qualche cosa che andava oltre la logica che avevano già studiato i greci, in particolare Aristotele e Crisippo. Si chiama oggi “logica predicativa” ed è “la logica dei predicati”, “la logica delle relazioni”, è quello che veramente serve nella matematica, perché in matematica non si parla soltanto di cose tipo soggetto e predicato alle quali si interessava Aristotele, ma si parla di relazioni in cui c'è non soltanto un soggetto, ma ci possono essere più soggetti, più complementi anche, quindi una struttura molto più complicata. Tanto per fare un esempio, la relazione d'uguaglianza o disuguaglianza fra numeri, ecco che coinvolge due numeri e non soltanto uno, la relazione di maggiore 7 oppure di minore e cosi via, sono relazioni che coinvolgono per l’appunto due cose e non soltanto una e poi ce ne sono tante altre che ne coinvolgono più di due addirittura. Senza una logica che permettesse di parlare di queste relazioni multiple, invece che univoche, unarie come quelle di Aristotele, ebbene senza una logica di questo genere il sogno di Leibniz di avere una lingua per le scienze non si sarebbe potuto concretizzare. Quindi a Frege, anche lui, dedicheremo un intera lezione. Poi finalmente arriviamo all’era contemporanea, cioè al ‘900, a coloro che, non sono forse più vivi, ma di cui, in qualche modo, abbiamo la memoria ben viva. E questi personaggi sono Post e Wittgenstein, che sono due persone, non una sola, non un cognome doppio e Goedel e Turing. Questi sono veramente grandi nomi. Di questi ovviamente parleremo non soltanto una volta, ma più di una volta, ma per ora appunto cerchiamo di dare un anteprima e di fare un ERA CONTEMORANEA trailer come nei film. Ebbene Post, nel 1920, scopre che la logica di ¾ Post-Wittgenstein Crisippo, la cosiddetta “logica proposizionale” era completa. Non si ¾ Goedel poteva andare oltre, l’analisi che aveva fatto Crisippo, benché l’avesse ¾ Turing fatta 2200 anni prima in realtà era un analisi conclusiva.Boole l’aveva riformulata in termini algebrici, ma oltre Crisippo, se si rimaneva POST nell’ambito dei connettivi, non si poteva andare. Questo fu un grande (1920) risultato che fu scoperto non solo da Post, ma in qualche modo fu Completezza della intravisto anche da Wittgenstein in quegli stessi anni, il 1921.Anche logica proposizionale Wittgentein è stato un famoso filosofo, oggi è certamente più famoso come filosofo soprattutto del linguaggio, che non come logico matematico, perché il suo contributo è stato un pochettino minimale e marginale, ma qualche cosa rimane e rimangono in particolare queste tavole di verità, che sono dei mezzi di cui parleremo quando sarà il momento, dei mezzi per cercare di capire qual è il valore di verità, cioè il vero e il falso di una proposizione composta, riducendola in base ai valori di verità delle proposizioni che la compongono, cioè sapendo che se le proposizioni semplici che costituiscono una proposizione composta sono vere o false, allora possiamo con questo mezzo delle tavole di verità dedurre se la proposizione intera è vera o falsa, quindi qualche cosa di tecnicamente utile. Ma a questo punto veniamo veramente al secondo logico della storia, qualcuno dice addirittura il primo, comunque uno delle due grandi divinità di questo corso e non soltanto del corso, ma anche addirittura di questo soggetto, cioè della logica matematica. Goedel che è questo signore che vedete qui vestito con panama, con un vestito bianco e con questa aria piuttosto truce, fu uno dei più grandi pensatori del ‘900, scrivo qui 1930-31, perché Goedel fece tantissime cose e a lui dedicheremo più di una lezione, perchè non è possibile appunto fare un corso di logica e poi trattarlo come tutti gli altri ovviamente, però i suoi due primi grandi risultati furono nel 1930 e 1931. Nel ’30 dimostrò la completezza della logica predicativa, cioè l’analogo di ciò che Post aveva fatto per “la logica proposizionale”. Post aveva dimostrato che oltre Crisippo non si poteva andare, cioè l’analisi di Crisippo era stata completa per quanto riguardava quei connettivi, ebbene Goedel dimostrò che l’analisi di Frege per quanto riguarda invece la logica predicativa anch’essa era stata completa, oltre Frege non si poteva andare, se si voleva rimanere all’interno di quell’ambito li. E poi invece nel 1931, Goedel dimostrò il suo più famoso teorema, il cosi detto teorema di incompletezza della aritmetica; mentre sia la logica proposizionale, che la logica predicativa sono complete e quindi in qualche modo noi siamo arrivati alla fine della storia della logica e quindi non c’è più altro da aggiungere, a meno di non scoprire, inventare altre logiche nuove, ebbene invece in matematica le cose stanno diversamente. Il teorema di Goedel dice per l’appunto che “l’aritmetica è incompleta”, non nel senso che oggi non si sono ancora trovati tutti i suoi assiomi, tutte le sue proprietà e dunque bisogna aspettare qualche altro genio che lo faccia, ma lo dice nel senso che qualunque sistema di 8 assiomi per l’aritmetica sarà sempre incompleto, l’aritmetica non si può completare; cioè mentre con “la completezza della logica predicativa” siamo arrivati alla fine della storia della logica, con “l’incompletezza dell’aritmetica” invece siamo arrivati di fronte ad un muro, abbiamo capito che noi come uomini abbiamo delle limitazioni nei confronti della matematica e questo è il motivo per cui il risultato di Goedel è così importante. L’ultimo personaggio invece di cui parliamo quest’oggi, ma anche a lui dedicheremo una lezione e non sarà l’ultimo di cui parleremo quando faremo le nostre 20 lezioni, ebbene questo signore si chiama Turing, che come vedete era uno sportivo, Turing correva poi con questo numero 01, che sta appunto a significare la logica dei computer e così via; non a caso la logica dei computer, perché nel 1936 questo signore inventò quella che all’epoca fu chiamata e tutt’ora viene chiamata nei dipartimenti di matematica e di informatica la machina di Turing, che non è un automobile, non è una competizione per la General motors o per la Ford o per la Fiat, è quello che oggi noi chiameremo semplicemente il computer. L’idea del computer venne precisamente ad un logico matematico, venne a questo sig. Turing, quando poi aveva tra l’altro 24-25 anni, così come Goedel, cioè questi geni dimostrano i loro risultati quando sono molto giovani, ebbene gli venne, dicevo a Turing, l’idea della machina del computer studiando i teoremi di Goedel, cercando di affrontare un problema diverso, che era appunto il problema della decibilità della logica predicativa. Ho detto prima che le tavole di verità di Wittgenstein sono qualche cosa che permette di decidere per le formule, per le proposizioni della logica proposizionale di Crisippo, se sono vere o false, c’è un metodo che permette di fare questa decisione. Ebbene ciò che Turing dimostrò è che non c’è un metodo analogo per la logica, quindi benché la logica predicativa sia completa, come ha dimostrato Goedel, in realtà qualche problema ce l’ha già e non c’è nessun metodo che permetta di decidere ciò che è vero o falso in generale per la logica predicativa. Ebbene mi sembra di aver dato più o meno un idea di ciò che sarà questo corso e soprattutto di ciò che è la logica matematica, cioè è qualche cosa che ha a che fare con tre aree differenti, infatti se avete fatto attenzione, abbiamo parlato praticamente di tre aspetti molto diversi tra di loro, che sembrerebbero essere staccati a prima vista, che sono la filosofia anzi tutto, con Platone, Aristotele, Crisippo e così via, poi abbiamo parlato di matematica , abbiamo visto Boole, Frege e così via, che facevano analisi matematica e poi siamo arrivati alla fine a parlare di machina di Turing, cioè di computer, cioè di informatica. Ebbene uno dei motivi, non il solo, ma uno dei motivi che rendono la logica matematica interessante è proprio questo: il fatto che sia una materia che non soltanto serve, ma che sta in qualche modo nell’intersezione di tre aree così diverse, da una parte la filosofia, dall'altra parte la matematica e dall’altra parte l’informatica e allora la logica matematica può essere interessante, per l’appunto, per i filosofi, coloro che si interessano di filosofia, è interessante per i matematici, perché è parte della matematica e studia la matematica, studia il ragionamento matematico con metodi matematici ed è interessante anche per gli infornatici perché l’informatica è nata precisamente da problematiche logiche, è stata creata da uno dei logici ed è una parte praticamente di quella che è la logica matematica moderna. Quindi questi sono i grandi argomenti di cui parleremo nelle prossime 19 lezioni e vi do semplicemente l’arrivederci alle prossime lezioni, sperando di avervi convinto che la logica matematica è un qualche cosa che vale la pena di conoscere, vale la pena di studiare. 9 LEZIONE 2: Il naso di Pinocchio Sono Piergiorgio Odifreddi e sono qui per incominciare finalmente il corso di logica matematica. Abbiamo avuto una lezione introduttiva, in cui abbiamo cercato di familiarizzarsi con alcuni dei problemi e delle nozioni della logica matematica e anche soprattutto con alcuni dei personaggi, ma finalmente siamo arrivati agli inizi del corso di lezioni e questo corso di lezioni ho pensato di organizzarlo sulla base dei personaggi, di alcuni dei quali abbiamo già parlato, cioè ogni lezione sarà dedicata ad uno dei grandi logici del passato o a uno dei grandi problemi della logica del passato. Cominceremo ovviamente molto da lontano, verso il 500 - 600 a. C., parleremo di filosofia per qualche lezione, poi piano piano ci avvicineremo alla matematica, alla logica matematica come è stata sviluppata a partire da Leibniz, Boole, Frege, Russell e così via, tutti nomi alcuni dei quali avete già sentito e finalmente poi concluderemo in bellezza, diciamo così, il gran finale di questo corso con l'informatica, perché ho già detto appunto un'altra volta che logica matematica ha questo interesse, il fatto di essere nell'intersezione di tre aree molto diverse fra di loro, che sono appunto quelle che ho appena citato, cioè la filosofica, la matematica e l'informatica, quindi è uno strumento molto versatile, molto variegato che permette di essere utilizzato appunto in tanti campi differenti. Benissimo, incominceremo come ho detto molto da lontano e quest'oggi la nostra prima lezione di questo corso sarà fatta su uno dei paradossi più importanti, che qualcuno di voi avrà già capito, è il paradosso del mentitore. Questa lezione, anzi tutte le lezioni saranno intitolate in una maniera un pochettino inventiva, per cercare di stimolare anche l'attenzione. Il naso di Pinocchio è ovviamente il simbolo della menzogna e quindi quest'oggi parleremo di menzogna, cercheremo di andare ad analizzare più da vicino questo concetto di verità e di falsità e soprattutto lo faremo parlando per l’appunto di uno dei paradossi più famosi, il famoso paradosso di Epimenide, di questo signore raffigurato nella slide o perlomeno uno che gli rassomigliava. Naturalmente quando si tratta di andare così lontano nel tempo, il sesto secolo a. C., non è mai chiaro di quali personaggi fossero queste raffigurazioni. Comunque era un greco del sesto secolo a. C., in realtà un cretese, che un giorno ebbe la bella idea di dire questa frase “i cretesi sono bugiardi”. Intendeva dire tutti i cretesi sono sempre bugiardi, dicono sempre la falsità. Ebbene, che cosa pensate di una frase di questo genere detta da un cretese, che cosa significa? Può essere vera una frase di questo genere? Ovviamente non può essere vera, perché se è vero che i cretesi sono dei bugiardi, il signor Epimenide viene da Creta, quindi è un cretese e se essere dei bugiardi significa dire sempre la falsità, beh, insomma questo era semplicemente qualche cosa che non poteva essere vero. Allora abbiamo già fatto un primo passo, abbiamo già ottenuto un qualche risultato, abbiamo scoperto che questa frase detta da Epimenide, non può essere vera. Il problema però è che la cosa si ferma qui, perché non c'è nessun motivo di credere che questa frase possa essere vera. Che cosa vuol dire che questa frase non può essere vera? Vuol dire che non è vero che tutti i cretesi dicono sempre il falso, il che significa che qualche cretese a volte dice la verità. Ora quel “qualche cretese”, non è affatto detto che sia per forza Epimenide, colui che parlava e se anche fosse lui, poiché qualche cretese dice a volte la verità, non è affatto vero, non è affatto detto che sia proprio questa la frase di cui si sta parlando. Quindi abbiamo una frase di fronte a noi che sembra problematica, ma è semplicemente una frase falsa, che non può essere vera, ma la cosa si ferma qui, non c'è ancora nessun paradosso. Il fatto che questa frase che in genere viene ripetuta, perché una frase molto famosa appunto, viene ripetuta come se fosse un paradosso, già dice che forse ci sarebbe bisogno, per coloro che lo fanno, di seguire questo corso che è appunto un corso di logica, che ci insegnerà pian piano a districarsi in questi rompicapo, a cercare di capire dove sono i problemi in questo caso. Benissimo, se non è un paradosso questa frase, però è abbastanza vicina ad un 10 paradosso. Quest’altra frase invece è dovuta a un signore che si chiama Eubulide di Megara del quinto secolo a. C., il quale ovviamente di nuovo non è lui nella raffigurazione, questo è Pinocchio appunto, al cui naso abbiamo intitolato la nostra lezione; ebbene Eubulide riformulò quest'osservazione di Epimenide, che diceva “tutti i cretesi mentono, ma io sono un cretese”, perchè c’era qualche cosa di strano e la riformulò dicendo semplicemente “io sto mentendo”, cioè quello che sto dicendo in questo momento è una menzogna. Allora andiamo a vedere più da vicino se effettivamente questa frase di Eubulide ha dei problemi. Può essere vera una frase di qualcuno che dice “io sto mentendo”?. Beh, ovviamente no, perché se fosse vera sarebbe vero che lui sta mentendo e dunque quello che sta dicendo dovrebbe essere falso; quindi certamente non può essere vera, ma questo era già il caso anche della frase di Epimenide. Vediamo adesso se questa frase può essere falsa. Beh, se fosse falsa, allora sarebbe vero il contrario di quello che dite, ma sta dicendo “io sto mentendo”, dunque il contrario dovrebbe essere “io sto dicendo la verità”. Allora nemmeno falsa può essere questa frase. Ed ecco che finalmente Eubulide un secolo o un secolo e mezzo dopo Epimenide, riuscì a trasformare questa frase di Epimenide in un vero e proprio paradosso, a costruire una frase che a prima vista sembra innocua, però attenzione, c'è un qualche cosa di molto interessante, qui c'è un autoriferimento, si sta parlando di se stessi, anzi la frase sta dicendo qualche cosa su se stesso, sta dicendo di essere falsa, cioè colui che parla sta dicendo qualche cosa su se stesso, sta dicendo che sta mentendo. Ebbene, abbiamo costruito una frase che non può essere né vera né falsa. Questo fu effettivamente un trauma, perché si pensava che la verità fosse un concetto universale, che le frasi appunto fossero tutte o vere o false, le frasi ovviamente ben poste, ben formate nel linguaggio e invece Epimenide e Eubulide scoprirono questo trucco, fecero vedere che la verità ha dei problemi e vedremo che ne ha parecchi. In questa lezione cercheremo di vedere varie versioni, varie metamorfosi di questo paradosso, per cercare di familiarizzarsi proprio con questa nozione di verità. Una delle prime versioni è quella data dallo stoico Diogene Laerzio nel secondo secolo a. C., è una storiella che parla di una mamma e di un coccodrillo. Eccolo qua il coccodrillo, questo non è naturalmente la mamma, nella figura ci sono due coccodrilli. Ebbene la storiella è la seguente: i coccodrilli, si sa sono cattivelli, a d un certo punto un coccodrillo rapisce il figlio di questa mamma e ad un certo punto le dice: te lo ridò questo figlio, altrimenti me lo mangio, te lo ridò se tu riesci a indovinare che cosa io farò. La mamma gioca con il fuoco ovviamente e dice al coccodrillo: io credo che tu ti mangerai mio figlio. Ovviamente questa è una riformulazione del paradosso del mentitore, perché se la mamma ha detto il vero, se ha indovinato che coccodrillo voleva mangiare il figlio, allora effettivamente il coccodrillo ha promesso che nel caso che la mamma indovinasse le avrebbe restituito il figlio. Quindi la madre, giocando con questo trucco, diciamo così, inventato da Eubulide e Epimenide, riesce a salvare il bambino dalle fauci del coccodrillo, che come vedete qui erano già ben aperte per papparsi il povero bambino. Quindi questa è una riformulazione in chiave, diciamo così, scherzosa, storica del paradosso di Epimenide. Un'altra riformulazione, naturalmente facciamo salti, passi da gigante in questo corso, in cui stiamo imparando molto, la ritroviamo nel quattordicesimo secolo, anche perché le metamorfosi del paradosso di Epimenide, cioè il paradosso del mentitore, sono infinite, non possiamo fare altro che parlarne un pochettino così, dare un accenno a qualcuna di queste metamorfosi. Una di queste metamorfosi, una di queste forme, fu inventata dal famoso Buridano, dico famoso non come filosofo, ma perché tutti conoscono il cosiddetto asino di Buridano, che è a un certo punto morì di fame perché si trovava alla stessa distanza da due mucchi di fieno e non sapeva quale scegliere di due e non 11 riuscì a decidersi, ad andare da nessuna parte e così morì. Ebbene, Buridano in realtà non inventò soltanto la storiella dell'asino, ma era un logico, per l’appunto, del quattordicesimo secolo, che formulò una versione molto interessante del paradosso di Epimenide, perché si era sempre pensato fin a quell'epoca, durante la Scolastica, che i problemi del paradosso del mentitore, fossero per l’appunto in questa autoreferenza, nel fatto che si sta parlando di qualche cosa dicendo “io sto facendo qualche cosa”, “io sto mentendo” e si pensava che il problema fosse per l’appunto quello. Ebbene, Buridano fece vedere che il problema non era affatto quello, perché immaginò una storiella in cui c'era da una parte Socrate e dall'altra parte Platone due dei grandi filosofi che aprirono un pochettino la storia della filosofia occidentale, della filosofia greca. Ebbene, Buridano immaginò il seguente dialogo fra i due, Socrate è questo signore qua giù, che sta parlando appunto ai suoi discepoli e dice “Platone dice il falso”. Platone che cosa risponde? Platone qua giù, nel dipinto di Raffaello, la Scuola di Atene, Platone dice ovviamente che “Socrate dice il falso”. Allora abbiamo una situazione in cui il maestro dice che l’allievo sta dicendo il falso e l’allievo sta dicendo che invece il maestro dice il falso, cioè l'autoriferimento si è semplicemente spezzato in due parti e non c'è più quell'autoriferimento diretto, diciamo così, che c'era invece nel paradosso del mentitore. Possiamo vedere questo autoriferimento più da vicino, in una maniera un pochettino più logica, forse un pochettino più seria, in questa slide: la prima fase dice “la frase seguente è falsa”. La seconda fase dice “la fase precedente è vera”. Queste frasi, una qualunque di quelle frasi, è vera o falsa o qual'è la situazione? Proviamo a vedere, cominciamo con la prima. Questa frase, se appunto la verità fosse qualche cosa che merita il nome del delegato, dovrebbe o essere vera o falsa. Cominciamo a supporre che sia vera: se la prima frase è vera, quello che dice deve essere effettivamente quello che succede, cioè la frase seguente deve La frase seguente è falsa dev’essere falsa. Allora quello che dice la frase che segue non può essere vero, poiché la frase che segue dice “la fase precedente è vera”, allora La frase precedente è vera poiché questa frase non può essere vera, questo significa che “la frase precedente” deve essere falsa. Allora abbiamo supposto che la prima frase fosse vera, abbiamo dedotto che la seconda frase non può essere vera, poiché la seconda frase stava dicendo che la prima era vera, dunque abbiamo dedotto che la prima è falsa, quindi non è possibile che la prima frase sia vera, dev’essere allora falsa. Ora vediamo se è vera: se la prima frase fosse falsa, sta dicendo che la frase seguente è falsa e se questa non è vera, allora la frase seguente deve essere vera. Andiamo a vedere che cosa dice la frase seguente; beh, la frase seguente dice: la precedente è vera; abbiamo supposto che la prima frase fosse falsa, abbiamo dedotto che quello che diceva la seconda era vera, la seconda diceva che la prima era vera. Quindi qui notate, non c'è nessun autoriferimento, si sta soltanto parlando della frase seguente; se sopra ci fosse scritto “la frase seguente è falsa” e sotto ci fosse scritto “io sono il capo di governo”, effettivamente sarebbe stata una situazione perfetta, perché io non sono capo di governo, quindi la frase seguente sarebbe effettivamente stata falsa e così pure per questa frase qui “la fase precedente è vera”, se sopra ci fosse stato scritto “io sono professore di logica che sta facendo il corso adesso a Nettuno”, insomma questa frase sarebbe stata vera, la frase precedente sarebbe stata vera. Queste due frasi di per sé, staccate, possono benissimo essere vere e naturalmente possono anche benissimo essere false, non c'è nessuna contraddizione in nessuna delle due, ma nel momento in cui le si mette insieme, ecco che succedono i pasticci, un po' come a volte succedono nei matrimoni o nei fidanzamenti, che le persone singolarmente possono essere simpaticissime eccetera, quando poi le si mettono insieme succedono i pandemoni. Questo è precisamente quello che succede in questo caso. Allora, abbiamo capito già una cosa, che nel paradosso del mentitore, nel paradosso di Epimenide, di Eubulide, nel fatto di dire “io sono falso” e di trovare dei problemi, delle conseguenze non aspettate e non piacevoli in questa frase, ebbene il problema non sta nel fatto che ci si sta autoreferendo, non sta nel fatto di dire: bah, una frase che dice “io sono falsa”, insomma potrebbe non avere nessun significato, perché è possibile spaccare questo autoreferenza, distruggere, diciamo così, l'autoreferenza, il circolo vizioso e separare la frase in due frasi differenti che hanno gli stessi problemi della frase precedente. Benissimo, quali sono le soluzioni che sono state proposte di questo paradosso? 12 Naturalmente prima dei tempi moderni, perché la logica matematica fortunatamente ha fatto dei passi avanti e quindi è arrivata a dei risultati molto concreti. Ebbene delle soluzioni che sono state proposte dai greci e dagli Scolastici soprattutto, perché queste sono le due scuole filosofiche che più si sono interessate di questi argomenti, prima per l’appunto dei tempi moderni, la prima soluzione è stata semplicemente quella di dire che le frasi paradossali erano cose senza senso, erano dei “non sense”, direbbero gli inglesi o senza Soluzioni del paradosso senso, come diremo noi in italiano, cioè addirittura arrivarono 1. Non-senso a sostenere che la verità è qualcosa di sottile, di evanescente, di 2. Uso e menzione sfuggente e che ci sono delle frasi e degli esempi, del tipo ”io 3. Linguaggio e metalinguaggio non sono vero”, “io sto dicendo il falso”, che sono per l’appunto 4. Più valori di verità frasi che non possono essere ne vere ne false, ma per l'unico motivo che non hanno nessun senso. Sono frasi che sembrano grammaticalmente corrette, sembrano fatte come le altre frasi e quindi dovrebbero a prima vista essere o vere o false, poi però c'è qualche cosa di nascosto, qualche germe che inficia la loro correttezza sintattica. C'è stato un tentativo differente di dire, bah bisogna stare attenti, perché qui si sta facendo una confusione tra quello che oggi noi chiameremo “l'uso e la menzione”, cioè quando si dice che una frase è vera, si sta parlando di un qualche cosa di diverso, si sta usando la frase, mentre invece la frase che dice di se stessa di non essere vera, non sta usando un'altra frase, perché è lei stessa che lo sta dicendo e quindi c'è questo circolo vizioso e forse dicevano gli scolastici potrebbe esserci la soluzione del paradosso in questa separazione fra queste due nozioni. Vedremo poi in seguito che, in realtà, non è qui il problema. Questa invece che è una proposta Medioevale, una proposta Scolastica, è più vicina a quello che oggi noi diremo è la vera soluzione del paradosso del mentitore, cioè una distinzione tra linguaggio e meta-linguaggio. Qui bisogna che diciamo due parole su questi due concetti che sono veramente importanti: il linguaggio è praticamente la lingua di cui si sta parlando e il metalinguaggio è la lingua in cui noi parliamo del linguaggio. Il modo più semplice di capire la differenza fra linguaggio e meta linguaggio è supporre, per esempio, di stare imparando una lingua straniera, ad esempio l'inglese. Quando noi impariamo l'inglese, agli inizi ovviamente non cominciamo subito a parlare in inglese, si va a scuola e si comincia a dire, bah, l'inglese è fatto così, è scritto in questo modo, ci sono queste regole eccetera. Notate, stiamo imparando una lingua, che si chiama per l’appunto il linguaggio dal p. di v. logico, ma ne stiamo parlando, la stiamo imparando in un’altra lingua che si chiama per l’appunto il metalinguaggio. Nel caso dell’esempio che ho appena fatto, cioè di imparare una lingua straniera, la lingua straniera è il linguaggio e l'italiano in cui noi descriviamo la grammatica, la sintassi, la semantica eccetera, di questa lingua che non ancora conosciamo si chiama metalinguaggio, quindi questi due livelli. Ebbene, l'idea di questa soluzione, di distinzione tra linguaggio e meta- linguaggio è appunto quella di dire: quando si dice che qualcosa è vero o qualche cosa è falso, si fa un'affermazione nel meta-linguaggio (italiano), mentre si sta parlando del linguaggio(inglese) e le frasi che dicono “io non sono vera”, fanno una confusione fra questi due livelli, perché mischiano i due livelli in uno solo. Dicono ”io non sono vera”, ma io dovrei essere nel linguaggio (inglese) e il fatto di dire vera, vuol dire che mi sto ponendo invece fuori dal linguaggio, mi sto ponendo nel metalinguaggio (italiano). Vedremo che questo è precisamente uno dei tentativi di soluzione di Tarski. Un altro tentativo, a cui accenno soltanto, ma per dirvi che in realtà la logica si è sviluppata anche in direzioni differenti, è quello di dire, bah, ci sono forse tanti valori di verità, il vero e il falso sono due prime approssimazioni, sono i più importanti valori di verità che una frase può avere, ma il fatto che ci siano delle antinomie, come quella appunto del mentitore, ci fa supporre che ci possono essere altri valori di verità, cioè ci possono essere delle frasi che non possono essere ne vere e ne false e devono essere qualche cosa altro, cioè questo è anche un modo molto elegante di uscire dall'impasse che il paradosso del mentitore, ma più in generale i paradossi provocano, dicendo appunto è troppo restrittivo limitarsi a considerare soltanto verità e falsità, ci devono essere altri valori di verità e i paradossi sono precisamente delle frasi che hanno quegli altri valori di verità. Queste sono appunto alcune delle soluzioni, diciamo così , classiche medioevali. Veniamo un po' più vicino a noi, questa è una fotografia e questa è la firma del famoso scrittore spagnolo Cervantes che scrisse per l’appunto il Don Chisciote. Ebbene, in uno degli episodi del Don Chisciote, ad un certo punto Sancho Panza, che voi tutti ricorderete era il cavaliere, lo scudiero di Don Chisciote della Mancha, diventa governatore di una di una provincia della Spagna, il 13 Barataria. Diventa governatore e come sempre succede ai governatori, gli si presentano dei casi molto strani , in particolare un giorno arriva in tribunale un signore che dice: ad un certo punto ci siamo trovati, noi siamo dei militari, ci siamo trovati di fronte ad una situazione insostenibile perché siamo stati messi in origine di fronte ad un ponte, con l'idea che possiamo far passare da questo ponte soltanto coloro che diconola verità e dobbiamo invece impiccare coloro che chiedono invece impiccare coloro che chiedono di passare il ponte che ci dicono il falso, quando ne chiediamo il motivo. Quindi in questo ponte possono passare i veritieri, coloro che dicono il vero, ma non possono passare i bugiardi, coloro che dicono il falso. Ebbene, succede dicono i militari, che un giorno arriva un signore, lo fermano, gli dicono: tu vuoi passare questo ponte, dici come mai vuoi passare questo ponte. Questo signore dice: sono venuto qui, voglio passare il ponte perché voglio farmi impiccare in base a questa legge ed ecco che di nuovo si riproduce il paradosso del mentitore. Se fosse vero che lui vuole farsi impiccare in base alla legge, starebbe dicendo il vero e dunque bisognerebbe farlo passare e viceversa. Allora Sancho Panza ha una sentenza molto salomonica. Dice, bah, evidentemente questo signore, una parte della frase che ha detto era vera, l'altra parte era falsa, voi militari dovreste implicare la parte di questo signore che ha detto il falso e lasciare passare la parte di questo signore che invece ha detto il vero; naturalmente una soluzione un pochettino ironica, tipica appunto di questo romanzo, di quest'epoca. Bene, vediamo invece più vicino a noi, perché in realtà stiamo facendo un corso di logica per l’appunto e quindi vorremmo cercare di capire più da vicino dove si situano i problemi. Ebbene, nel 1908 questo filosofo Grelling, non molto noto, noto soprattutto per questa riformulazione del paradosso del mentitore, scoprì appunto che situazioni analoghe a quelle del paradosso del mentitore si trovano in tanti campi del sapere e in particolare si trovano addirittura anche nella linguistica, nella Grelling grammatica normale. Lui definì due aggettivi di cui non avete mai (1908) sentito parlare, perché appunto li ha definiti questo signor Grelling. ¾ autologico: Il primo aggettivo si chiama “autologico” e come dice la parola è si riferisce a se stesso qualche cosa che si riferisce a se stesso. Quand’è che un aggettivo è ¾ eterologico: autologico? Quando si riferisce a se stesso. Per es. corto, beh, corto non si riferisce a se stesso è un aggettivo molto corto, quindi per l’appunto è un aggettivo autologico. Lungo, beh, lungo non è più lungo di corto, perché ha lo stesso numero di lettere, quindi certamente non si riferisce a se stesso e allora Grelling inventò per questo tipo di aggettivi, come lungo, la parola eterologico, cioè che non si riferisce a se stesso. Quindi ricordatevi “autologico”, un aggettivo che descrive una proprietà che è vera per se stessa e eterologico un aggettivo che descrive una proprietà che invece non è vera dell'aggettivo stesso. Il problema che Grelling pose fu: eterologico come aggettivo è autologico o eterologico? Eterologico è: Cioè l’aggettivo eterologico, cioè che non si riferisce a se stesso, si riferisce a autologico? se stesso oppure no? Ed è chiaro che qui siamo di nuovo alle stesse solfe. Avrete capito che il paradosso del mentitore nasce sempre quando si tratta di parlare di eterologico? un caso di vero e falso, in questo caso di riferirsi a se stesso oppure no. Si fa una frase oppure si costruisce un concetto, che anzitutto si riferisce a se stesso e che poi usano, nel caso della verità il falso e nel caso del riferirsi a se stesso usano l’eterologico, cioè non riferirsi a se stesso. Potete fare come esercizio, se volete a casa, cercate di vedere se eterologico è autologico o eterologico, ovviamente vi accorgerete che in tutti e due i casi non c'è possibilità di rispondere, perché se eterologico fosse autologico dovrebbe essere qualche cosa che si riferisce a se stesso e dunque dovrebbe appunto essere eterologico e dunque non riferirsi a se stesso e così via. Quindi queste cose sembrano un po’ dei giochi di prestigio, dei giochi d'equilibrio, ma fanno vedere come il paradosso del mentitore non ha niente a che vedere con la verità o con la falsità, si può anche riformulare in un modo che appunto si riferisce soltanto alla grammatica. Andiamo avanti e qui vediamo un signore che è stato uno dei più grandi logici di questo secolo. Ho detto più volte in altre edizioni che il più grande logico del secolo e forse della storia è stato questo Goedel, di cui 14 abbiamo già accennato, ai cui teoremi abbiamo già accennato, ma allo stesso livello o poco meno, diciamo così, del livello di Goedel c’era questo signore, Tarski, un logico polacco che emigrò negli Stati Uniti e che nel 1936 fece uno dei grandi teoremi appunto della logica moderna,cioè riuscì a dare una definizione di verità. Di questa definizione di verità parleremo molto estesamente in una lezione che dedicheremo soltanto a Tarski, perché cercheremo di andare nei dettagli, di vedere com’è che Tarski definì la verità, ma la cosa che c'interessa in questo momento da vicino è che, questa definizione di verità, Tarski la diede ovviamente per i linguaggi formali, per i linguaggi della matematica, ma il grande teorema, il teorema importante di Tarski fu il seguente: il fatto che la verità, così come lui la definì, non è definibile nel linguaggio, ma soltanto nel metalinguaggio. Ricordate la distinzione che abbiamo fatto prima: il linguaggio è quello nel quale parliamo (inglese) e il metalinguaggio è il linguaggio nel quale parliamo del linguaggio (italiano), cioè in qualche modo un livello superiore. Ebbene la definizione di verità di Tarski è una definizione per la verità del La verità non è definibile nel linguaggio, linguaggio e nel caso del linguaggio della matematica, solo nel metalinguaggio per esempio, dell'aritmetica, Tarski diede una descrizione molto precisa, molto matematica, diciamo così, senza assolutamente nessun problema filosofico. Però il problema è che, questa definizione di verità che viene data per il linguaggio, deve essere data nel metalinguaggio, cioè in un linguaggio diverso; non è possibile per una teoria matematica, che il linguaggio matematico sia in grado di dare la sua stessa definizione di verità. Come mai? Beh, non è possibile proprio perché c'è il paradosso del mentitore, cioè nel 1936 Tarski riscopre non il paradosso del mentitore, perché quello non era mai stato dimenticato, ma scopre diciamo così meglio, la possibilità di utilizzare il paradosso del mentitore all'interno della matematica. Trova una definizione di verità per il linguaggio e dimostra che, se questa definizione fosse esprimibile nel linguaggio stesso, allora sarebbe possibile derivare nel linguaggio il paradosso del mentitore e dunque ci sarebbe una contraddizione nella matematica; se noi invece supponiamo che la matematica sia libera da contraddizioni, ossia quella che i logici chiamano consistente, ebbene in qualunque teoria consistente non è possibile costruire nessun paradosso, in particolare il paradosso del mentitore e questo significa che non è possibile dare la nozione di verità, la definizione di verità all'interno del metalinguaggio. Questa è in realtà una versione del teorema di Goedel, che dice che le teorie matematiche sono incomplete, sono limitate e questo tipo di limitazione che scoprì Tarski è proprio una limitazione che oggi chiameremo “semantica”. È la limitazione del fatto di non poter parlare della propria verità all'interno del sistema. Quindi in pratica è proprio la soluzione o perlomeno un uso moderno delle soluzioni medioevali a cui ho accennato poco fa, dicendo che appunto non si poteva pensare di risolvere il paradosso del mentitore, separando questi due livelli, cioè il linguaggio e il metalinguaggio e dicendo”io dico il falso” è qualcosa che non si può costruire, perché mi obbliga a stare nel linguaggio e “dico il falso”, mi obbliga invece a stare fuori, a stare nel metalinguaggio e queste due cose devono essere distinte, devono essere tenute separate. Il teorema di Tarski dimostra, per l’appunto, che devono essere separate, perché esiste una definizione di verità, ma se questa definizione di verità del linguaggio fosse dentro il linguaggio ci sarebbe una contraddizione e allora deve stare fuori. Questo è per appunto uno dei grandi risultati della logica moderna. Qui vediamo invece Bertrand Russell che fu insomma un famoso filosofo, come logico agli inizi del secolo sembrava che sarebbe stato destinato a diventare il più importante, invece forse i suoi contributi non furono così grandi, ma oggi ne parliamo per quanto riguarda il paradosso del mentitore, anche a lui dedicheremo una lezione molto più in là, verso la fine del corso e quindi vedremo meglio quali sono stati i suoi contributi. Ebbene, Russell nel 1918 scopre questa riformulazione del paradosso del mentitore: consideriamo un barbiere in un villaggio che rade tutti e soli gli abitanti del villaggio che non si radono da soli, cioè il villaggio è piccolo, non c'è bisogno di più di un barbiere 15 comune, questo barbiere fa la barba a tutti gli abitanti del villaggio che non si fanno la barba da soli, ma soltanto a loro. Allora domanda che Russell pose è: chi rade il barbiere? Ovviamente il barbiere non si può radere da solo perché, per definizione, abbiamo appena detto che questo è un barbiere, che fa la barba soltanto agli abitanti della città che non si fanno la barba da soli, quindi non se la può fare lui. E allora non si rade, voi direte, eh, no, perché se lui non si rade, allora è uno degli abitanti della città che non si fanno la barba da soli, quindi deve andare dal barbiere, quindi deve farsi la barba. Ed ecco che di nuovo, il solito trucco, il solito circolo vizioso viene scoperto in una forma molto diversa. Attenzione, questo non è un paradosso, perché questo vuol soltanto dire che non c'è nessun barbiere di quel genere, non esiste un villaggio in cui ci sia un barbiere che rade tutti e soltanto gli abitanti della città. Però possiamo avvicinarci un pochettino di più e andare a scavare, diciamo così meglio, sotto questo paradosso del mentitore nella forma del barbiere. Questa nuova riformulazione fu fatta nel 1947 da questo filosofo Reichenbach, un filosofo della scienza che non è, ovviamente, questo signore, l’avrete conosciuto, è Kirk Douglas, il papà di Michel Douglas, che oggi forse più famoso per i giovani. Questo è un fotogramma di un famoso film di Kubrick che si chiama “orizzonti di gloria”, un grande film antimilitarista degli anni 50, un bellissimo film, forse uno dei più belli di Kubrick; ebbene, lo abbiamo messo qui soltanto perché Reichenbach diede una riformulazione del paradosso del mentitore nella forma di Russell del barbiere, parlando di barbieri della caserma. Che cos'è cambiato questa volta? E’ cambiato il fatto che quando si è in caserma, qualcuno di voi avrà fatto il militare, qualcuno di voi dovrà farlo primo o poi, ebbene sapete tutti che in caserma, quando si danno gli ordini, agli ordini si deve obbedire e non si può stare a questionare, a dire, mah, scusi il suo ordine non mi sembra un qualche cosa di logico, mi sembra contraddittorio, perché si finisce subito in galera e quindi è bene non farlo. Allora la riformulazione data da Reichenbach del paradosso del barbiere, nella forma di Russell, è la seguente: supponiamo di essere in caserma, supponiamo che questo signore con l'aria veramente burbera, stia dicendo a questo signore, che è sempre un militare, “tu devi radere tutti e soli i militari della caserma che non si radono da soli”. Ora ci troviamo nella stessa situazione in cui ci eravamo trovati prima, parlando ovviamente di Russell, cioè non sarebbe possibile per il militare radere tutti e soli i militari della caserma che non si radono da soli, perché c'è questo circolo vizioso, se lui non si rade, allora dovrebbe radersi e se invece si rade, allora non dovrebbe radersi. La differenza, quello che è cambiato dal caso precedente, è che il signore (qui appunto Kirk Douglas) ha dato un ordine e il militare non può rifiutarsi di obbedire; però l'ordine è contraddittorio, quindi che cosa può fare il povero militare? Ed ecco che stiamo scoprendo che l'antinomia, diciamo così, il paradosso del mentitore, che sembrava essere poi un giochetto di questi poveri greci, cretesi che dicevano “tutti i cretesi mentono” eccetera, in realtà può avere anche delle applicazioni nella vita quotidiana e in particolare possono esserci delle situazioni in cui qualcuno si trova, per l’appunto, come questo povero soldato nella caserma, a dover ubbidire o a dover sottostare a degli ordini che sono contraddittori. Che cosa succede? Ebbene succedono delle cose purtroppo molto spiacevoli, perché come ci ha insegnato questo signore, vedete è Gregory Bateson, uno dei grandi filosofi della fine della seconda metà del secolo ventesimo, che ha spaziato in tanti campi, che ha scoperto che il paradosso del mentitore, sta alla base praticamente o i meccanismi che sottostanno al paradosso del mentitore, stanno alla base di alcune malattie mentali ed in particolare, guardate un po’, c'è questa malattia che si chiama ebefrenia, forse pochi di voi la conoscono. L’ebefrenia è una fissazione sul linguaggio; molti di voi, io non posso dirlo perché stiamo registrando in televisione, ma molti di voi a volte avranno detto ai loro amici, ma vai..., per esempio possiamo dare una versione edulcorata, ma vai a dormire; ebbene l’ebefrenico che ha questa malattia mentale, sente la frase del linguaggio, io gli dico vai a dormire e lui va a dormire, nel senso che non capisce che vai a dormire è un modo così, diciamo, obliquo di dirgli togliti dai 16 piedi. Crede che il linguaggio dica effettivamente quello che effettivamente il linguaggio dice in maniera aperta e c'è questa sensazione, cioè l'incapacità di capire che dietro il linguaggio, dietro il primo strato, dietro appunto l'aspetto linguistico, ci può essere il metalinguaggio, ci può essere un secondo significato e sentirsi dire vai a dormire, può significare appunto semplicemente togliti dai piedi. C'è una malattia uguale e contraria che si chiama paranoia; la paranoia è invece la fissazione sul metalinguaggio. Questa volta il paranoico invece cerca sempre un livello diverso delle cose che gli vengono dette e non riesce mai a capire che a volte le cose che gli vengono dette sono quelle che vengono dette; per esempio, se incontrate una signora o una signorina paranoica e le dite; oh, come sei bella quest'oggi, magari intendendolo, la signorina paranoica, ah, ho capito cosa vuoi dire, ecco mi stai dicendo che sono bella perché in realtà hai visto che sono vecchia o cose del genere. Il paranoico fa questa cosa. Ed ecco che allora la distinzione fra linguaggio e meta- linguaggio che sembrava essere una distinzione innocua, praticamente, semplicemente linguistica e logica, in realtà sta sotto per l’appunto queste malattie e quindi si potrebbe dire un motto, in qualche modo sintetizzare il pensiero di Bateson in un motto, dicendo “o si è logici o si riesce a distinguere tra linguaggio e meta linguaggio o si è patologici”, cioè si diventa dei malati mentali in qualche modo. Quindi l'idea del paradosso del mentitore può aiutare, addirittura, secondo Bateson a superare queste malattie mentali, che non riescono a capire la differenza tra linguaggio e metalinguaggio e uno degli ordini che hanno reso famoso per l’appunto Bateson nelle sue terapie con i malati mentali è il seguente ordine: disobbedisci! Ora un malato che si trovi di fronte ad un ordine di questo genere, ma non soltanto malato, ma anche chiunque di noi, si troverebbe nei problemi. Come si fa a disobbedire, a obbedire ad un ordine che dice “disobbedisci”. Disobbedire significa non stare a seguire l'ordine che ti sto dicendo; se ti ordino però di disobbedire, allora se tu effettivamente mi disobbedisci, stai obbedendo e se invece obbedisci deve disobbedire e quindi c'è questo circolo vizioso. È sembra, io non ho esperienza, fortunatamente di questi ambienti, però sembra che effettivamente questa terapia paradossale, questo tipo di ordini che cercano di rompere i circoli viziosi che si trovano a volte nelle malattie mentali, si possono effettivamente utilizzare per questo tipo di ordini, per l’appunto, per spezzare la malattia e in qualche modo squilibrare lo squilibrato, cioè per evitare che continui questa fissazione. Ebbene allora, abbiamo capito, credo che ci stiamo avvicinando per lo meno, alla comprensione del fatto che la verità e la menzogna non sono poi cose così secondarie, non sono cose di cui si devono interessare soltanto i logici, soltanto i matematici o se volete, più in generale, soltanto i filosofi; sono qualche cosa che hanno a che fare con la vita quotidiana. Ebbene, allora per finire, per arrivare più vicini a noi, voglio farvi alcuni esempi di come effettivamente si riesca anche nell'arte, anche nella cultura, ad usare il paradosso del mentitore in maniera a volte abbastanza inaspettata. Noi non ce ne accorgiamo, ma una volta che noi siamo stati allertati, quindi forse anche voi dopo questa lezione, incomincerete a vedere che effettivamente verità e menzogna sono un pochettino ubique dappertutto, si trovano anche nella cultura più in generale. Questo signore che molti di voi conosceranno, è uno dei grandi scrittori di questo secolo, uno scrittore che ebbe dei grandi problemi a causa delle sue preferenze sessuali e del fatto che poi finì in galera, finì sotto processo ed è Oscar Wilde. Ebbene, Oscar Wilde fece della menzogna addirittura una bandiera e una delle sue frasi celebri, Oscar Wilde era famoso per i suoi aforismi, una delle sue frasi più celebri è precisamente questa che “la menzogna è lo scopo dell'arte”. Ebbene, se voi ci pensate un momentino, effettivamente capite che l'arte è in realtà tutta fatta sulla menzogna. Quando voi guardate per esempio un dipinto o quando guardate anche soltanto una figura, una raffigurazione, una immagine, una fotografia, ebbene tutto questo è menzogna. Qui si sta ponendo, sulla carta, diciamo così, del 17 colore e questo colore, che è una raffigurazione, dovrebbe in qualche modo indicare una persona, ecco la differenza fra il linguaggio e il metalinguaggio. Il linguaggio è l'immagine, la fotografia, il meta linguaggio è il significato, Oscar Wilde stesso in questo caso. Ebbene, l'arte è tutta basata su questo; pensate alla prospettiva per esempio, che è un modo di distorcere le linee in maniera apposita, così da far pensare, da far risultare l'immagine che poi noi vediamo, come se fosse vera. Si mente per dire la verità, si disegnano le cose appositamente distorte in modo da farle apparire quasi vere, di farle apparire proporzionali. Per esempio la famosa anamorfosi: voi andate a Roma a visitare la Cappella Sistina, ebbene ciò che voi vedete dal basso della Cappella Sistina, queste meravigliose immagini di Michelangelo, vi appaiono in perfetta proporzione. Se avete visto alcuni dei filmati che sono stati fatti vedere quando vi era per esempio il restauro della basilica, ebbene se voi questi dipinti che stanno sulla volta della Cappella Sistina poteste vederli da vicino, vedreste che sono tutti distorti. Perché? Ma perché sono stati disegnati da Michelangelo per l’appunto in modo distorto, così che, coloro che li guardano dal di sotto, possono vederli come se fossero invece nelle proporzioni giuste. Quindi la menzogna è effettivamente non soltanto una boutade, è quello che diceva Wilde, cioè la menzogna è un po’ lo scopo, ma è anche il linguaggio dell'arte, cioè l'arte parla attraverso queste menzogne. Un altro artista molto noto, questo signore dal sorriso molto simpatico, dalla risata simpatica che è John Cage, il famoso musicista, famoso anche per alcune delle provocazioni più grosse della musica, per esempio scrisse un pezzo per pianoforte che si chiamava 4 minuti e 33 secondi e questo pezzo è in realtà più famoso come “il silenzio”, perché consisteva nel fatto di sedersi di fronte al pianoforte e non suonare nulla, non suonare nulla, perché Cage voleva farci capire che in realtà il silenzio non esiste, quindi se un'artista si pone di fronte ad un pianoforte e non suona assolutamente nulla, poi in realtà si sentono lo stesso dei rumori, si sentono dei signori che tossiscono, quelli che si muovono o magari l'uccellino che è entrato dentro la sala da concerto e così via, quindi l'idea che il silenzio non c'è. Ma in parte Cage era anche l'espressione di una poetica moderna, quella che l'opera d'arte è finita, che non c'è più niente da dire. Ed una delle frasi più famoso è proprio questa “non ho niente da dire e lo sto dicendo”. Anche questa, una versione molto sottile del paradosso del mentitore, perché uno che non ha niente da dire dovrebbe star zitto e invece sta dicendo, per appunto di non aver niente da dire. Bene, siamo arrivati alla fine di questa nostra carrellata sul paradosso del mentitore e ritroviamo qua giù Pinocchio. Potremmo dire forse alla conclusione della nostra lezione che forse abbiamo capito che tutto è menzogna. Però, attenzione, perchè “tutto è menzogna” è una frase del tipo di quelle di Epimenide “tutti i cretesi mentono”, perché se fosse vero che tutto è menzogna, allora anche questa frase sarebbe vera e in particolare sarebbe falsa, perché tutto è se è falsa può dire che non è menzogna, lei sarebbe falsa. Quindi non è possibile che questa frase sia vera, allora deve essere falsa, ma se è falsa allora vuol dire che non è vero che tutto è menzogna, vuol dire che ci sono alcune le verità. Quindi oggi abbiamo scoperto qualche cosa e questo per i logici certamente c'importa, perché abbiamo scoperto che ci sono delle verità e nel futuro cercheremo di avvicinarsi a queste verità, di scoprirne altre, comunque per quest'oggi abbiamo finito.. 18 LEZIONE 3: Le gambe di Achille Siete ormai stati introdotti nelle lezioni precedenti ad alcuni dei problemi della logica. La scorsa lezione, che è stata la prima vera lezione di questo corso, abbiamo cercato di parlare di uno dei paradossi più famosi, il paradosso del mentitore. Quest’oggi faremo una seconda lezione sui paradossi che, come ricorderete forse da alcune delle lezioni introduttive, sono stati uno dei motivi introduttori della logica, uno dei motivi che hanno spinto i logici filosofi ad interessarsi di questa materia, che è per l'appunto la logica, che poi sarebbe diventata la logica matematica. Se il paradosso del mentitore è uno dei più famosi paradossi della storia, il più famoso di tutti, forse, è quello di cui si vede qui il nome, cioè Achille. Abbiamo intitolato come al solito la nostra lezione in maniera un po' scherzosa, la scorsa volta era il naso di Pinocchio, per ricordare appunto la menzogna, che è un po' caratterizzata da Pinocchio e invece in questo caso siamo passati ad un'altra parte del corpo e questa volta le gambe, le gambe di Achille. Avete capito immediatamente che stiamo cercando di parlare, stiamo cercando di introdurre, il discorso sul paradosso diZenone, i famosi paradossi di Zenone, uno dei quali, il più famoso di tutti tra questi paradossi di Zenone, è per l’appunto quello che si chiama Achille e la tartaruga. Vediamo più da vicino di cosa si tratta. Questo signore è per l’appunto Zenone o una statua che ricorda le fattezze di questo filosofo, che è vissuto nel quinto secolo a. C. Vedete qui scritto sotto a Zenone “Scuola di Elea”, perché in realtà Zenone non è stato il fondatore di questa Scuola. Il vero fondatore della Scuola di Elea, la Scuola cosi detta Eleatica che si trovava vicino a Napoli, una delle grandi Scuole della Magna Grecia, era Parmenide. Parmenide aveva questa idea, che tutti forse ricorderanno dagli studi di filosofia, che per lui esisteva l'essere e non il divenire. Il divenire era in qualche modo la filosofia di Eraclito e invece la filosofia di Parmenide era la filosofia dell'essere, cioè che tutto è statico, niente succede, niente si muove e ciò che noi pensiamo invece si muova, il movimento appunto, è un illusione in qualche modo. E allora proprio per cercare di dare man forte al suo maestro Parmenide, Zenone il quale bisogna anche dire così, in vena di aneddoto, non era soltanto discepolo, ma anche amante di Parmenide, quelli erano tempi un pochettino diversi e succedevano queste cose anche nelle scuole, ebbene Zenone cercò di inventare degli argomenti che poi sarebbero diventati quasi più famosi addirittura degli argomenti del suo maestro Parmenide, a favore dell'essere. Questi argomenti Zenone li propose, questo era uno dei motivi per cui diventarono così famosi, sotto forma di paradossi. I paradossi sono delle storielle, lo abbiamo già visto altre volte nella lezione introduttiva e nella scorsa lezione, sono delle storielle che cercano di avere una morale nascosta; c’è un ragionamento che sembra corretto, però il sembra è dovuta al fatto che in realtà la conclusione è paradossale, sembra quasi che non stia in piedi. Cerchiamo di vedere più da vicino quali sono stati i paradossi per l’appunto che Zenone ha introdotto nella filosofia. Sono tutti paradossi che si riferiscono al moto, perché come abbiamo appena ripetuto e appena ricordato, Parmenide era contrario a questa idea del moto. L'idea sua era che c'era per l’appunto quest'essere immobile; allora il primo paradosso di Zenone che ovviamente è un paradosso, è che non si può partire. Come mai? Mah, supponete di essere in una certa posizione, in un certo punto della città per esempio e di dover andare in un' altra parte della città. Paradossi del moto Potete partire? Evidentemente no, perché per partire questo significherebbe che dovette incominciare un viaggio che va dal ¾ non si può partire punto di partenza al punto di arrivo, ma questo viaggio non si ¾ non si può essere in viaggio ¾ non si può arrivare può incominciare, perché prima di andare dal punto di partenza al punto di arrivo dovete andare dal punto di partenza a metà strada. Voi direte, va bene, questa è metà del mio viaggio, metà del proposito che mi sono posto; però per arrivare dalla partenza a metà della strada, dovete prima arrivare dalla partenza ad un quarto della strada e così via ovviamente, perché questi paradossi si basano tutti su questo regresso all'infinito, su questo “e così via”, su questi “puntini” che sono lasciati così in sospensione. Allora, per andare dagli inizi alla fine, bisogna prima arrivare a metà, bisogna prima arrivare ad un quarto, bisogna prima arrivare ad 1/8 e così via, per distanze sempre più piccole, il che significa che non si può mai partire, perché bisognerebbe sempre percorrere una distanza ancora più piccola di quella che si dice che serva per iniziare il viaggio. Bene, il secondo paradosso di Zenone è che “non si può essere in 19 viaggio”. Questo è il famoso paradosso della freccia. Come mai non si può essere in viaggio? Ma perché, prendete per esempio una freccia che sta volando in cielo oppure un'automobile oggi, un aeroplano che sta volando nel cielo, le automobili oggi volano, in genere su autostrade ad una velocità che non dovrebbe essere permessa, ebbene dicevo, se voi prendete una freccia o qualche cosa che si muova nello spazio e incominciate a fare delle fotografie di questa freccia, vedete che la freccia è ferma, in qualunque momento del suo motto, in qualunque momento del suo viaggio la freccia sta ferma. E allora il paradosso è: com'è possibile essere in viaggio, se il viaggio consiste di una serie infinita di momenti in ciascuno dei quali si sta fermi, cioè il paradosso sta appunto in questa paradossale commistione; da una parte il fatto che c'è un movimento, tutti sappiamo che effettivamente ci si muove da una parte all'altra e dall'altra parte invece c'è questa assurdità che sembra che il moto sia fatto invece di tanti istanti in ciascuno dei quali noi siamo fermi, cioè il moto è fatto di tante fermezze, per così dire. Oggi è chiaro che soprattutto questo secondo paradosso di Zenone è poco convincente, perché noi siamo abituati, tutti noi abbiamo avuto forse delle cineprese e soprattutto quelle vecchie cineprese in cui si metteva una pellicola; oggi si fanno le cose diversamente, in maniera digitale, ma quando c'era la pellicola, la pellicola era fatta di una serie di fotogrammi ed era proprio basata su questo trucco, cioè in altre parole il cinematografo era una incarnazione del paradosso di Zenone, nel senso che si faceva una serie di fotogrammi, una serie di fotografie, ciascuna delle quali statiche, perché la fotografia in qualche modo congela il movimento e poi facendo percorrere, facendo vedere velocemente queste fotografie in successione una dietro l'altra, si creava un'illusione di movimento, ma è proprio questo voleva dire sia Parmenide che Zenone, che il movimento è un illusione, perché noi in realtà siamo sempre fermi e ci sembra che sia noi che gli altri ci muoviamo, ma in realtà se andiamo a vedere l'essenza di questo movimento, se andiamo a vedere gli istanti di cui questo movimento si compone, ci accorgiamo che non siamo mai movimento. Quindi questo secondo paradosso dice che non soltanto non si può partire, ma non si può nemmeno essere in viaggio e il terzo è simmetrico a questo qui ovviamente, cioè non si può nemmeno arrivare, come mai? Beh, l'argomento è ovviamente simmetrico a quello per cui non si può partire. Se dovete partire da un certo punto e arrivare ad una certa metà, prima di arrivare a quella meta, dovete percorrere la prima metà della strada, questo è lo stesso inizio che abbiamo gia usato nel primo paradosso, quando siete a metà della strada, dovete ancora percorrere la seconda metà, ma prima di fare l’intera seconda metà, dovete fare la sua metà, cioè un quarto, poi dovete fare 1/8, poi dovete fare 1/16 e così via e non arriverete mai alla vostra meta. Questo è praticamente in sintesi, diciamo così, il succo dei paradossi di Zenone sul moto. Il moto è impossibile perché non è possibile partire, non è possibile arrivare e non è possibile essere in moto e quindi insomma non ci può assolutamente muoversi. Naturalmente, come ho detto, questi paradossi sono convincenti fino ad un certo punto, perché coloro che non credono che la vita in generale e il movimento più in particolare siano un'illusione, magari qualcuno ci crede, ad esempio altre filosofie, altre culture per esempio quelle orientali, effettivamente sono più vicine a questi tipi di atteggiamenti, ma noi che siamo occidentali, non crediamo che la vita sia una di un'illusione, non crediamo che il movimento sia una un'illusione e dunque prendiamo questi paradossi di Zenone o i paradossi più in generale della scuola di Elea come delle contraddizioni. Ci dev'essere qualche cosa di sbagliato in questi ragionamenti e la logica ha come uno degli scopi, quello di andare ad analizzare questi ragionamenti più da vicino, cercare di vedere dove sta l'errore, dove sta l'inghippo. E allora vediamo che cosa succede nella storia della logica riguardo in questo caso, quest'oggi, al paradosso di Zenone. Naturalmente questi paradossi, come ho detto prima nel titolo, non c’è più il caso di ripeterli, raccontando la storiella di Achille e la tartaruga, l'abbiamo già fatto in una delle lesioni introduttive, una delle storie di Zenone era per l’appunto questo fatto, il fatto che, se la tartaruga parte con un handicap che gli viene dato da Achille per esempio 10 m, ebbene Achille in qualche modo si è giocato l'intera gara perché non potrà mai superare la tartaruga, perché prima dovrà percorrere la distanza che le ha concesso come handicap, nel frattempo la tartaruga si mossa di una certa distanza, Achille deve percorrere questa seconda distanza e così via all'infinito e quindi quella è soltanto una forma più duratura, più sempiterna, perché anche letterariamente più efficace degli stessi tipi di paradossi che qui abbiamo analizzato in una maniera un pochettino più astratta; però, poiché non vogliamo essere assolutamente astratti, vogliamo cercare di vedere più da vicino come il paradosso si è mosso nella storia, ma prima di andare a vedere appunto altre metamorfosi di questo paradosso, dobbiamo cercare di capire che cosa i greci dedussero da questo paradosso. Ebbene i problemi che i greci videro in 20 questi argomenti eleatici furono due sostanzialmente: il primo, un problema di fisica, cioè il paradosso funziona soltanto se è possibile fare un'ipotesi che in questo ragionamento è nascosta ed è, appunto questo che dicevano, che la logica cerca di mettere in maniera esplicita queste assunzioni implicite. L'assunzione Problemi implicita che sta fisicamente dietro questi paradossi è che Fisica: divisibilità dello spazio lo spazio sia divisibile all'infinito, cioè che sia possibile dire che tra questi due punti ce ne stanno una infinità”. Ora da Logica: regresso all’infinito un punto di vista matematico questo è vero, ma da un punto di vista fisico questo non è assolutamente detto che sia vero e infatti di qui o per lo meno, in base a questi ragionamenti, nacque poi anche la teoria dell'atomismo, che sosteneva, che supponeva che, in realtà, i corpi che ci sembrano essere fatti in maniera divisibile all'infinito, in realtà sono fatti di particelle indivisibili che i greci chiamavano atomi e poi sono diventati gli atomi della chimica della fine dell'800, quando si pensava di essere effettivamente arrivati ai mattoni dell'esistenza e che poi oggi invece sono diventate le particelle che costituiscono la materia, i quanti di energia, le stringhe, alle quali accenneremo in una lezione seguente e così via. Quindi effettivamente questo problema che esiste, cioè dietro gli argomenti di Zenone, dietro i paradossi di Achille e la tartaruga e alle sue varianti, c'è questo problema della divisibilità dello spazio. È possibile dividere lo spazio, dividere un segmento fisicamente spaziale in una infinità di punti oppure questa è soltanto una idealizzazione che fanno i matematici e invece i fisici non possono permettersi queste idealizzazioni, perché lo spazio non è divisibile oppure siamo nel caso contrario? Questo è il problema sollevato per quanto riguarda la fisica. Per quanto invece riguarda la logica, il problema è quello al quale abbiamo già accennato altre volte ed è il regresso all'infinito. Tutti questi paradossi si basano sul “e così via”, sui “puntini”, sulla possibilità di ripetere lo stesso argomento decine e decine di volte, anzi un'infinità di volte. Ed è proprio questo che appunto i greci rifiutarono all’epoca , rifiutando il concetto di infinito. Benissimo, andiamo a vedere allora più da vicino quali sono le possibili soluzioni di questo paradosso e le soluzioni sono per l'appunto queste: rifiuto dell'infinito da una parte fisico, cioè lo spazio non si può dividere all'infinito e dall'altra parte rifiuto dell'infinito logico, cioè non è possibile fare regressi all'infinito. Ebbene, questo sostanzialmente è l'impianto del pensiero greco, l'impianto del pensiero greco, Soluzione del pensiero eleatico e quali sono stati i problemi che ha sollevato, quali sono Rifiuto dell’infinito state le soluzioni che sono state proposte. E adesso invece affrontiamo quello che abbiamo annunciato poco fa, cioè le metamorfosi del paradosso nella storia. Una prima metamorfosi è come vedete molto vicina al Zenone, qualcuno pensa che sia addirittura indipendente, un secolo soltanto dopo in Cina, dall'altra parte del mondo all'epoca sconosciuto. Questo filosofo che si chiama Chuang Tzu, è un filosofo della scuola Taoista che ha una storia praticamente simile, che dice: beh, se voi prendete un bastone, anzi addirittura uno scettro reale e se ogni volta che muore il re, tagliate metà dello scettro e consegnate quello che rimane al successore di questo re, non importa perché in fin dei conti le dinastie potranno andare avanti, come diceva lui, per 10.000 anni, che era il modo di dire dei greci all'infinito. Anche qui, c'è un'idea del bastone che si può praticamente tagliare a metà ogni volta, senza che il bastone mai scompaia, sempre ci sarà una parte di questo bastone che rimane, così come questa cosa che io ho in mano (bastone!), lo possiamo prima dividere a metà, poi dividere a metà, poi continuare a dividerlo a metà, qui io mi fermo, ma naturalmente nel paradosso si può continuare all'infinito. Quindi anche in Cina, non soltanto in Grecia, questi argomenti furono scoperti più o meno nello stesso tempo. Invece nell'occidente, che è la parte su cui noi ci concentreremo per ovvi motivi, ci fu tutta un'intera scuola, che si chiama “la Scuola dello scetticismo”, di cui ho elencato qui tre dei massimi esponenti, cioè Pirrone nel quarto secolo a. C., Agrippa nel primo secolo a. C. e Sesto empirico nel secondo secolo d. C, che è quello da cui poi in realtà traiamo quasi tutte le nostre informazioni, perché lasciò una enorme varietà di scritti, dei quali poi parleremo anche in seguito, quando Scetticismo parleremo della logica stoica. Quali sono gli argomenti su cui ¾ Pirrone (IV secolo a. C.) si basarono gli scettici? Ebbene gli scettici si basarono su un 21 ¾ Agrippa (I secolo a. C.) argomento molto interessante, cioè il fatto di dire che il tipo di ¾ Sesto Empirico (II secolo a. C.) argomento che Zenone aveva inaugurato con i suoi paradossi, in realtà si poteva trasportare nel campo in questo caso della logica, che proprio quello che interessa a noi e in particolare si potevano ottenere, io qui ho scritto “problemi”, ma sono anche qui dei paradossi, delle antinomie, problemi che hanno a che fare con il concetto di dimostrazione e con il concetto di definizione, che sono per l’appunto due concetti essenziali della matematica e delle scienze in generale, ma soprattutto della logica, perché di questo che noi ci interessiamo. Problemi Il primo paradosso è che “niente si può provare”. Come mai niente si può provare? Ma perché, se voi volete dimostrare qualche cosa, ¾ Niente si può provare ebbene questo qualche cosa o lo prendetelo come evidente, ma ¾ Niente si può definire questa non è una dimostrazione, non si può dire “tu devi accettare questo perché lo dico io perché la cosa è evidente, ma le dimostrazioni sono qualcosa che si basano su un'ipotesi. Benissimo, allora se una certa affermazione viene dimostrata basandola su un'ipotesi, allora quest'ipotesi per quale motivo noi dovremmo accettarla? Beh, per lo stesso motivo per cui accettavamo la conclusione, perché in qualche modo si basa anche lei su un'altra ipotesi e questa seconda ipotesi che sta ancora monte della prima, come mai dovremmo accettarla? Per lo stesso motivo, perché dovremo ridurre questa ipotesi ad una terza ipotesi e così via. Quindi vedete qui, lo stesso regresso all'infinito che abbiamo visto prima nei paradossi del moto, riappare nello stesso modo praticamente e crea un problema per quanto riguarda le dimostrazioni. Non è possibile dimostrare nulla perché dimostrare significa basarsi su ipotesi, questa ipotesi a loro volta devono essere dimostrati e così via. Stessa cosa per quanto riguarda le definizioni. Vogliamo definire un termine, quando parliamo con qualcuno che ci chiede, mah, che cos'è l’amore per esempio e questo spesse volte succede: che cos'è l'amore? Allora bisogna definire in qualche modo, con qualche frase, che cosa significa per amore. Ma questa frase userà delle parole e se vogliamo intenderci su quelle parole, dovremmo definire anche quelle parole; a loro volta tutte queste definizioni saranno basate su parole, le quali hanno bisogno di definizione e così via. Si risale all’indietro e non c'è mai possibilità di arrivare alla fine. Qual è stata la soluzione di questi problemi, perché se prima i problemi del moto non davano poi molto fastidio, perché se si dice che “Zenone dice che Achille non può raggiungere la tartaruga”, a noi importa abbastanza poco, perché sappiamo benissimo che se dobbiamo andare da una parte all'altra della città, partiamo la mattina, partiamo al momento in cui dobbiamo partire e arriviamo, perché, insomma, facciamo il moto, quindi quei paradossi lì erano poco convincenti. Ma quando invece si parla di logica, quando si tratta di provare qualche cosa, di definire qualche cosa, beh, questi sono problemi che non si possono semplicemente spazzare sotto il tappeto. Ed ecco che allora le soluzioni che sono state trovate dai greci, sono le soluzioni che ancora oggi vengono accettate dalla comunità dei matematici, dalla comunità dei logici, perché sono quelle che effettivamente in qualche modo sono definitive. Soluzioni Per quanto riguarda il primo problema, cioè il fatto che non si possa dimostrare niente, perché se uno vuole dimostrare tutte ipotesi sulle ¾ Assiomi quali si basa un ragionamento, allora dovrà risalire indietro l'infinito, ¾ Nozioni primitive ebbene si traduce semplicemente nel fatto che, ad un certo punto, questo regresso all'infinito bisogna fermarlo, bisogna arrivare ad un punto in cui non si dice più, questa cosa la dobbiamo ancora dimostrare, ma semplicemente questa cosa l'accettiamo, perché altrimenti non sarebbe possibile fare nessun ragionamento. Queste cose, queste affermazioni, queste proposizioni che noi accettiamo senza dimostrazione, vengono chiamate in matematica assiomi. Ed ecco qui che abbiamo introdotto, magari così scherzando, parlando di paradossi, uno dei concetti fondamentali della matematica, non soltanto moderna, ma già anche di quell'antica, già euclidea, perché Euclide fece questo primo grande lavoro, questo primo grande trattato di geometria “elementi di geometria” di Euclide, che si basavano proprio questo impianto, cioè sul fatto di stabilire una volta per tutte quali sono i punti di partenza,dopo di che si prendono questi per buoni e si deducono i teoremi, si deducono le conclusioni, ma prima insomma bisogna in qualche modo porre le fondamenta e le fondamenta si chiamano per l’appunto assiomi.. Questo per quanto riguarda le dimostrazioni, ma per quanto riguarda le definizioni dobbiamo fare qualche cosa di analogo. E allora ciò che corrisponde agli assiomi per i teoremi, nel caso delle definizioni sono le “nozioni primitive”, cioè molte delle cose, molti dei concetti di cui si parla in matematica, nelle teorie matematiche, 22 anche in filosofia, sono ovviamente delle cose che definiamo, sono concetti definiti, ma tutte le definizioni, per avere un senso, devono ad un certo punto arrivare al punto di partenza e fermarsi, cioè devono arrivare a dei punti che non sono più definiti, così come le proposizioni, devono arrivare a dei punti in cui non si dimostra più. Le cose che non si dimostrano si chiamano “assiomi”, le cose che non si definiscono si chiamano “nozioni primitive” e proprio su questo impianto, Euclide basò la sua grande opera, il suo grande monumento alla matematica, appunto questi elementi. Quindi i “cinque famosi assiomi di Euclide”, di cui parleremo poi ancora in seguito, quando arriveremo verso il ‘700-‘800 e le “nozioni primitive”. Bene, facciamo un salto nel tempo e andiamo a vedere che cosa successe ai paradossi di Zenone nel campo della teologia invece, perché verso il 1300, ma anche prima, tra il 1000 e il 1300 fiorì questo movimento, il cosiddetto movimento della Scolastica, che fu il movimento che diede vita alla teologia razionale di cui abbiamo già parlato in una delle lezioni introduttive. Qui ho segnato alcun dei tre, anzi i tre personaggi più importanti, la trinità diciamo così di questa teologia razionale: sono Aristotele, Avicenna e Tommaso. Tutti e tre questi personaggi cercarono di utilizzare queste nozioni per arrivare a definire e dimostrare l'esistenza di Dio; quindi vedete che già queste nozioni di definizione e di dimostrabilità erano entrate nel saper comune, erano entrate nella pratica filosofica e anche teologica. Allora vediamo più da vicino che cosa succede, cioè le nozioni di Dio che questi signori avevano in mente. Nelle figure ci sono Aristotele e Tommaso d’Acquino, un po’ i due capisaldi, l’inizio e la fine di questo genere di discussioni e ci sono anche le cinque famose definizioni che si riferiscono alle cinque vie di Tommaso, cioè i cinque modi per arrivare alla divinità. La divinità viene definita come “l'ente necessario”, cioè qualche cosa che non richiede nessun motivo per esistere, esiste semplicemente perché è lì, perché è necessario che esista. La seconda definizione “l’ente perfetto”, perché la divinità è in contrapposizione con l'ente imperfetto, con tutte le cose che noi vediamo sulla terra che sono ovviamente imperfette e Dio dovrebbe essere l’astrazione di queste cose e l’astrazione di ciò che noi abbiamo intorno, è un essere per l’appunto perfetto. La terza definizione “il primo motore”, cioè vediamo in terra cose che si muovono il cui moto è causato da qualche cos'altro e se noi risaliamo all'indietro in questa successione, in questa catena di cause, arriviamo,ad un certo punto a quello che si chiama “il primo motore”, cioè ciò che muove senza essere mosso. La quarta definizione “la causa prima” è lo stesso tipo di argomento, lo stesso tipo di nozione, però riferito non più al moto, bensì alla casualità. La quinta definizione “il fine ultimo” è semplicemente l'ente simmetrico dall'altra parte, cioè guardare non a che cosa causa, ma a che cosa viene causato, perché si fanno le azioni e allora ciascuna delle nostre azioni ha un certo fine, il fine a sua volta avrà un altro fine e così via, però se vogliamo evitare questo regresso all'infinito o in questo caso progresso all'infinito, dobbiamo ad un certo punto fermarci e arrivare a dire, bene, ci dev'essere qualcosa che è fine di ciò che viene prima, ma che non ha a sua volta un fine, è l'ultimo fine, così come la cosa prima o il primo motore erano i primi. Ebbene tutte queste nozioni di Dio, tutti gli argomenti della scolastica o perlomeno anche della teologia, alla maniera in cui la faceva Aristotele, sono tutti basati su argomenti che sono l’analogo costruttivo di questi paradossi di Zenone, cioè il rifiuto del regresso all'infinito. Però come potete immaginare, queste cose oggi sono un pochettino passate in giudicato, diciamo così, non sono più quelle che noi oggi seguiamo nella nostra storia. Ebbene, allora cerchiamo di venire più da vicino a noi e cercare di vedere come il paradosso di Zenone è stato affrontato nei secoli più moderni. Il 1600, questo signore Gregorio di San Vincenzo, che era un filosofo, anche lui un teologo, finalmente per la prima volta introduce quella che oggi è, o una di quelle, che oggi vengono considerate come le soluzioni del paradosso di Zenone. Gregorio di San Vincenzo rivede il paradosso di 23 Zenone e scopre che cosa? La cosa più ovvia diremmo oggi, cioè che qui abbiamo un segmento che possiamo chiamare uno, che non sappiamo quanto sia, per esempio 1 km o 1 m, quello che vogliamo, una distanza che vogliamo percorrere. Che cosa dice il paradosso? E’ impossibile percorrere questa distanza, perché prima dobbiamo fare metà di questa distanza ed ecco che metà, lo scriviamo adesso in termini matematici, 1/2, poi dobbiamo fare la metà di quel che rimane, che sarebbe metà di metà, cioè un quarto, che scriviamo di nuovo in termini matematici con +1/4, perchè lo dobbiamo sommare a quello che già abbiamo già fatto, cioè alla prima metà del percorso, poi dobbiamo sommare la metà della metà della metà, cioè +1/8 e così via. Il così via lo scriviamo, come si scrive ovviamente, cioè con i puntini, perché bisogna andare all'infinito e la soluzione di Gregorio di San Vincenzo è che non c'è nessun paradosso. Queste è una somma infinita, ci sono infiniti termini, ma non c'è nessun paradosso nel supporre che una somma d’infiniti termini sia in realtà finita lei stessa, cioè è possibile introdurre delle somme analoghe a quelle solite che facciamo con i numeri interi o frazionari, però se di solito aggiungiamo soltanto una quantità finita di numeri, ebbene in questo caso ne aggiungiamo una quantità infinita, ma la somma in questo caso rimane finita. Questo è l'inizio di quello che viene chiamata l'analisi matematica moderna, cioè la cosiddetta teoria delle serie; una somma di questo genere viene chiamata serie, perché appunto ci sono tanti termini in serie. Ebbene, qui si scopre per la prima volta, che il risultato di Zenone poteva essere interpretato in maniera positiva dicendo: una serie di numeri infiniti sommati l'uno all'altro può avere una somma finita. Attenzione, non tutte le serie possono avere una somma finita, se voi fate per esempio 1/2+1/3+1/4+1/5+…, cioè l'inverso di tutti i numeri, questa è una serie che invece non ha somma. Ed ecco che allora di lì nasce il problema, il bisogno di sapere quand’è che una serie ha una somma, quand'è che non ce l’ha e di qui nasce per l’appunto l'analisi che sarà poi portata allo sviluppo da Newton, Leibniz e così via ed è proprio l'analisi che serve per far nascere la fisica moderna, quella su cui si basano le teorie della fisica, della meccanica e così via, fino alle teorie più moderne. Quindi vedete come un paradosso apparentemente innocuo e poi magari anche fastidioso, potrebbe sembrare una storiellina da nulla, in realtà nascondeva una perla come in un'ostrica e la perla era che Zenone aveva scoperto un fatto importante e questo gli sembrava paradossale, ma 2000 anni dopo sembrerà meno paradossale, aveva scoperto che una somma infinita di numeri che sono tutti positivi, benché via via più piccoli, può avere come somma una quantità finita. Bene, questo è un risultato molto importante, ma il paradosso di Zenone ovviamente venne usato in tante maniere. Per l'appunto in questo caso, ho riportato Lorence Sterne, che scrisse questo famoso romanzo Tristam Shandy, nel 1760. Sterne fece un uso abbastanza paradossale esso stesso del paradosso di Zenone dicendo che non è possibile scrivere la propria autobiografia.Vi leggo la sua paginetta, perlomeno una frase del suo capolavoro. La frase dice la seguente cosa: questo mese sono un intero anno più vecchio di quand'ero a questa epoca 12 mesi fa; essendo arrivato, come potete vedere, quasi a metà del mio quarto volume, ma non oltre il primo giorno della mia vita, questo dimostra che ho 364 giorni in più da scrivere ora di quando ho iniziato, cosicché invece di avanzare nel mio lavoro come qualunque altro scrittore mi ritrovo al contrario in ritardo di altrettanti volumi. Se ogni giorno della mia vita fosse così denso e gli avventi le considerazioni su di esso richiedessero altrettante descrizioni, a questo ritmo, vivrei 364 volte più veloce di quanto possa scrivere; ne consegue che, più scrivo, più avrò da scrivere e di conseguenza voi lettori più leggete e più avrete da leggere. Beh, il paradosso di Sterne era precisamente questo, cioè che lui si mise a scrivere la propria autobiografia nel 1760, produsse quattro volumi come dice e alla fine del quarto volume aveva appena finito di raccontare il primo giorno della sua vita. A questo ritmo è chiaro che ogni volta che un giorno della vita è passato, bisogna scrivere quattro volumi che richiedono un anno di tempo e ovviamente la vita se ne va, perché questa cosa si ingigantisce sempre più e il paradosso è che non è possibile scrivere la propria autobiografia, perché più si vive più c'è da scrivere e più c'è da scrivere, ovviamente, più c'è bisogno 24 di tempo per scrivere eccetera. Quindi questo è ovviamente un modo scherzoso, ma molto interessante, molto arguto, perfettamente inglese tra l'altro, di usare il paradosso di Zenone. Sempre per rimanere in Inghilterra, ma per arrivare più vicini a noi, Lewis Carroll, che tutti voi conoscerete, questo signore vestito da prete, perché prete era, lavorava in un collegio di Oxford, era un professore di matematica, ma voi lo conoscete quasi tutti per motivi differenti. Lewis Carroll è noto per aver scritto due romanzi, due racconti molto noti per bambini, che si chiamano appunto “Alice nel paese delle meraviglie” e “Alice attraverso lo specchio”. Ebbene, Carroll insegnava matematica, scriveva questi racconti per delle sue amichette, delle bambine a cui li raccontava e però ogni tanto si interessava anche di logica, perché di professionista quello faceva. Ebbene scrisse un saggio che si intitola “Ciò che la tartaruga disse ad Achille” nel 1895, quindi la fine dell'800, nel periodo in cui incominciavano ad arrivare questi paradossi anche nella matematica, il paradosso di Russell a cui abbiamo accennato e su cui ritorneremo; ebbene Lewis Carroll propose un paradosso che faceva vedere che non è possibile ragionare. E’ un paradosso molto simile a quello degli scettici a cui abbiamo accennato prima; gli scettici dicevano non è possibile dimostrare nulla perché c'è bisogno sempre di riportare all'indietro l'ipotesi, non è possibile definire nulla, perché c'è sempre bisogno di spostare indietro le definizioni. Ebbene, Lewis Carroll dice che non è possibile nemmeno ragionare perché bisogna usare delle regole, ma come facciamo a capire come si usano le regole; beh, c'è bisogno che qualcuno ce lo dica. Ebbene, dirci come si usano le regole significa dare un'altra regola, una metaregola, per così dire, che ci dice come usare le regole. Benissimo, ma questa meta-regola come facciamo a capirla? Anche lei a sua volta avrà bisogno di un'altra meta-metaregola che si spiega come fare a usare questa metaregola e così via; quindi anche le regole che noi diamo del ragionamento, non soltanto i punti di partenza, non soltanto gli assiomi, ma anche le regole stesse del ragionamento logico, sono cose che in teoria dovrebbero continuare a risalire all'infinito. Quindi vedete lo stesso tipo di argomenti usati in maniera scherzosa e il titolo si riferisce al fatto che il saggio di Lewis Carroll è scritto come un dialogo tra Achille e la tartaruga e il dialogo è fatto quando si suppone che in realtà Achille e la tartaruga si siano fermati Ovviamente sappiamo che, per il paradosso Achille, non poteva raggiungere la tartaruga, si suppone che la tartaruga si sia fermata, Achille arriva, si siedono e incominciano a discutere di logica matematica. Quindi, vedete come queste cose, ancora 2500 anni dopo, continuavano ad avere vitalità. Un'altra formulazione molto interessante del paradosso di Zenone è questo qui, dato da Joshua Royce, che è un filosofo verso la fine dell'800. Questo che vedete qui, in questo rettangolo, dovrebbe essere l'Inghilterra, perché Royce era anche lui inglese, tanto per rimanere in questa scia. Ebbene, questa è una é mappa dell'Inghilterra, come potete vedere, un pezzo soltanto del territorio. Se questa mappa è ben messa, è ben fatta, cioè riporta tutti i particolari, poiché sul territorio dell'Inghilterra c'è anche lei, c’è anche la mappa, all'interno di questo territorio ci dev'essere una parte che abbiamo segnato qua giù con un altro rettangolino (fig. centrale) che è la mappa della mappa, cioè la mappa riporta tutto ciò che è sul territorio; una parte del territorio è la mappa stessa e il rettangolino verde è quello che all’interno del territorio individua la mappa dentro il territorio. Benissimo, ma una volta che abbiamo fatto questo gioco, all’interno di questa mappa ci sarà una mappa della mappa e cosi via e infatti qui (fig. dx) ne abbiamo messo una dentro l’altra di questo genere. Ebbene, la cosa interessante è che questo ragionamento di Royce si può rivoltare, lungi dall'essere un paradosso, si può far diventare una teorema e il teorema è il cosiddetto teorema del punto fisso. Eccolo qua (fig. dx), se voi continuate a prendere una mappa all'interno della quale 25 c'è una mappa, della mappa, della mappa, della mappa, ad un certo punto arriverete a definire un unico punto, soltanto uno e questo ha una particolarità molto speciale, cioè è un punto che ovviamente sta sul territorio, perché la mappa è posata sul territorio, ma sta anche sulla mappa, perciò è un punto che coincide sia sulla mappa che sul territorio. Notate per esempio che questo angolo qui sulla mappa (fig.1a, angolo dx in alto), quando noi andiamo a vedere dove è messo dentro la mappa è questo qui (segui la mano), questo è quello, questo è quello e così via; quasi tutti i punti vengono spostati man mano che noi andiamo a prenderli e metterli dentro la mappa, ma uno di questi punti rimane fermo, si chiama “punto fisso”, per l’appunto ed è un teorema questo, il “teorema del punto fisso”, cioè quando si fanno giochi di questo genere, questi tipi di contrazioni, c'è sempre almeno un punto che rimane fermo. Bene, un altra versione del paradosso di Zenone è data da Franca Kafka. Anzi si dice che tutti i romanzi di Kafka siano in realtà delle incarnazioni del paradosso di Zenone, perché se voi pensate i protagonisti dei romanzi di Kafka sono sempre lì di fronte ad infiniti ostacoli, ne passano uno e poi alla fine c'è ne un altro, ce n'è un altro, ce n'è un altro, ce n'è un'infinità, sono tutti dello stesso genere, uno più piccolo, l'altro più grande; quindi l'intera letteratura kafkiana è basata sul paradosso di Zenone. Qui invece ho citato un particolare esempio, si chiama il messaggio dell'imperatore, è solo una pagina, ve la lego perché è proprio una versione letteraria del paradosso di Zenone, si tratta di un brevissimo racconto. Dice: “l'imperatore, così si racconta, ha inviato a te, ad un singolo, ad un misero suddito, minima ombra sperduta nelle più lontane delle lontananze del sole imperiale, proprio a te l'imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandoli il messaggio e gli premeva tanto che se le fatto ripetere all'orecchio; con un cenno del capo ha confermato l'esattezza di ciò che gli veniva detto e dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte, dinanzi a tutti ha congedato il messaggero. Questi si è messo subito in moto, è un uomo robusto, instancabile, manovrando or con l'uno or con l'altro braccio, si fa strada nella folla; se lo si ostacola accenna al petto su cui ha segnato il sole e procede così più facilmente di chiunque altro, ma la folla è così enorme e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all'aperto come volerebbe e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta, ma invece si stanca inutilmente. Cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno, non uscirà mai a superarle e anche se gli riuscisse, non servirebbe a nulla, dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale e anche se gli riuscisse non servirebbe a nulla; c'è ancora da attraversare tutti i cortili, dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell'ultima porta, ma questo mai e mai e poi mai potrà venire, c'è tutta la città imperiale di fronte a lui, il centro del mondo ripieno di tutti i suoi rifiuti, nessuno riesce a passare di lì e tanto meno con il messaggio di un morto, ma tu vai alla finestra e ne sogni quando giunge la sera”. Quindi vedete proprio una riedizione, un riscrivere il paradosso di Zenone in maniera letteraria, questi infiniti ostacoli che si frappongono al messaggero che cerca di portare il messaggio dell'imperatore che l’imperatore gli ha mandato dal suo letto di morte. Voi siete lì che aspettate che arrivi il messaggero, il messaggero non arriverà mai; è proprio semplicemente lo stesso paradosso di Zenone rifatto in maniera letteraria. Ebbene, ci sono tanti altri autori 26 che hanno scritto sul paradosso di Zenone, ne ho citato soltanto uno dei miei preferiti, soltanto non vi posso leggere di nuovo altre pezzi, perché ormai il tempo vola e arriveremo purtroppo alla fine della lezione anche se c'è il paradosso di Zenone che dice che intanto non saremmo mai arrivato alla fine. Ebbene, però vi consiglio perlomeno di leggere alcuni dei saggi di Jorge Louis Borges, in particolare questi passaggi sulla metempsicosi della tartaruga. Borghese aveva fatto degli studi sui paradossi di Zenone, li ha raccontati nella maniera impareggiabile che sapeva fare lui, li ha anche usati in alcuni dei suoi racconti originali, per esempio in questo qui “la morte e la bussola del 1944”, in cui c'è un assassinio; ebbene c'è un detective che sta seguendo questo assassino, sta cercando di capire dov'è che avverrà il prossimo delitto, ad un certo punto arriva nel luogo che lui prevede è quello del prossimo delitto e lì trova effettivamente l'assassino che sta aspettando, che aveva fatto i delitti precedenti semplicemente per attirare lui, detective, in quel luogo e ammazzarlo. Allora il detective gli dice: però mi hai fregato in una maniera un po' strana, la prossima volta fammi almeno un labirinto come quello di Zenone, cioè attirami in un luogo, poi a metà, poi ad ¼, poi ad 1/8, eccetera e l’altro gli dice, si va bene, la prossima volta in un’altra vita, in un’altra delle tue metempsicosi, per l’appunto, come in uno di questi casi, ti aspetterò così, ma per questa volta ti sparo e ti faccio fuori adesso. Quindi questo è il modo in cui Borges, appunto uno dei grandi scrittori latino americani di questo secolo, ha usato anche lui il paradosso. Quindi vedete che il paradosso è stato usato nella filosofia, è stato usato nella teologia, lo abbiamo visto nelle prove dell’esistenza di Dio, è stato usato nella letteratura, abbiamo fatto degli esempi abbastanza vari, nella letteratura inglese con Sterne e Louis Carroll, nella letteratura di lingua tedesca con Kafka, nella letteratura di lingua spagnola con Borges. Quindi effettivamente è una grande profusione di questi argomenti, ma per finire vorrei invece farvi vedere delle rappresentazioni grafiche del paradosso di Zenone ed ho scelto uno degli autori che più si prestano a raccontare queste cose dal p. di v. matematico, perché è un autore che è a metà tra la matematica e l’arte, si chiama Escher. Molti di voi lo conosceranno, perché alcune delle sue pitture sono precisamente delle pitture paradossali, lui ha usato molti dei paradossi visivi cercando di farli diventare arte indipendente, fine a se stessa. Ebbene due di questi due lavori che si chiamano appunto “Sempre più piccolo” del 1956 e “Limite del quadrato” del 1964, sono basati direttamente sul paradosso di Zenone e sono questi qui (fig.1a) fatti vedere in piccolo, che adesso vediamo più da vicino in grande. Il primo quadro “Sempre più piccolo”, è un tentativo di far vedere il paradosso di Zenone quando ci sono delle figure; vedete qui delle specie di pesci, che sono fatte a grandezza naturale nel centro del quadrato e poi si avvicinano verso il bordo del quadrato in maniera da diventare appunto come dice il titolo, sempre più piccoli, ma l’idea che ovviamente ha mutuato, come tutti gli altri di cui abbiamo parlato poco fa, dai paradossi di Zenone è che questo dipinto non può mai essere terminato, perché ogni volta questi pesci diventano più piccoli, però non c’è mai la fine, cioè se voi prendete una lente di ingrandimento vi accorgete che potete farne ancora di più piccoli, ancora di più piccoli, Escher stesso lavorava con delle enormi lenti di ingrandimento, cercando di incidere figure sempre più piccole. E questa è l’idea quindi, vedete come dal centro si dipartono delle figure che diventano sempre più piccole. Nel quadro successivo “limite del quadrato” si ha invece, per questo lo scelto, la figura esattamente opposta, cioè in questo quadro voi vedete figure di nuovo analoghe, questa volta sono delle lucertole, però la grandezza naturale è sui lati e sui bordi e 27 le figure rimpiccioliscono andando verso il centro, quindi una figura perfettamente speculare, ogni volta diventano più piccole, ma anche qui verso questo centro, c’è questo buco, diciamo così, che non ha mai fine, che non viene mai completato, che non viene mai raggiunto, perché precisamente c’è quel famoso punto fisso di cui abbiamo parlato poco fa. Notate che il punto fisso è qualcosa che anche Dante aveva in mente, perché ad un certo punto c’è un verso della Divina Commedia che dice “io sentiva osannar di coro in coro al punto fisso che li tiene uniti”. Ebbene io credo che con questa citazione tratta dalla Divina Commedia, possiamo concludere questa nostra lezione sul paradosso di Zenone. Spero di essere riuscito a convincervi che il paradosso di Zenone, così come l’altra volta quello del mentitore, non è soltanto un giochetto. I paradossi sono delle spine nel fianco, sono degli argomenti che possono essere presi in maniera sotto gamba, per così dire, però possono anche essere presi in maniera seria e si possono analizzare da un p. di v. matematico, da un p. di v. filosofico, da un p. di v. letterario e artistico LEZIONE 4: IL teatro dell’assurdo Benvenuti a questa terza lezione del nostro corso di logia matematica, dopo quella introduttiva naturalmente. Nelle prime due lezioni abbiamo cercato di analizzare una delle tre radici della logica, che avevamo anticipato. La prima radice l’abbiamo appena toccata nell’introduzione, poi non ne abbiamo più parlato ed era “la dialettica”, il tentativo di formalizzare gli argomenti che usano i giuristi , i politici nelle discussioni e così via: Il secondo argomento, la seconda via, la seconda radice della logica matematica era lo studio dei paradossi ed abbiamo cercato di vedere in dettaglio due dei paradossi più importanti, cioè il paradosso del mentitore e il paradosso di Achille e la tartaruga, i paradossi cosiddetti di Zenone. Oggi invece entriamo più nel vivo, nella faccenda, il nostro corso si chiama per l’appunto logica matematica e quindi dovremmo incominciare a parlare di matematica, ma non vi preoccupate perché in realtà la matematica è qualche cosa che a che vedere con l'intera cultura e il modo con cui ne parleremo oggi è per l’appunto cercare di vedere qual è stato l'influsso di uno dei più grandi matematici della storia, che si chiama appunto Pitagora, di cui parleremo per tutta l'ora. Il nostro personaggio Pitagora, nacque verso il 570 a.C. e morì il 496 a. C., quindi sesto secolo a. C. È stato uno degli iniziatori della matematica greca, è stato uno dei matematici a cui viene associato uno dei teoremi più famosi, il teorema di Pitagora, di cui parleremo verso la fine di questa nostra lezione. Cerchiamo di vedere più da vicino quale era il tipo di lavoro che faceva Pitagora. Pitagora era in realtà un profeta, era l'iniziatore di una scuola, era un qualcuno che veramente trascinava folle di studenti e così via. Ebbene, forse non molti di voi sanno da dove arriva il nome di matematico. Pitagora faceva lezione a due tipi di pubblico differenti, il primo pubblico era un pubblico di uditori, erano quelli che oggi potremmo identificare con coloro che vanno a vedere, a sentire più che altro, le conferenze divulgative dei grandi maestri, dei premi Nobel, ma anche dei professori come noi, Acusmatici = uditori che cercano di spiegare alcuni aspetti della scienza, della matematica e di tante altre cose. Questi uditori ovviamente vogliono sentire delle Matematici = apprendisti cose che si possono capire, vogliono sentire delle conferenze di natura didattica, ebbene gli uditori in greco venivano chiamati acusmatici, come tutti voi e anche coloro che non sanno greco, intuiranno che acustica è per l'appunto la scienza dell'udito, la scienza di ciò che si sente con l'orecchio. Però il lavoro del professore, il lavoro del ricercatore non è soltanto quello di divulgare i suoi risultati, di far capire ad un pubblico più vasto, quali sono le cose che ha ottenuto, ma ovviamente anche di ottenere queste cose, prima di andare a divulgarle e per ottenere queste cose ci vuole naturalmente una ricerca molto approfondita, un lavoro quotidiano di studio e di fatica. Questo lavoro viene in genere fatto dai professori nelle università oggi diremmo, cioè parlando, facendo lezione, come quella che stiamo facendo oggi insieme, ebbene coloro che avevano invece accesso a questo secondo livello dell'insegnamento pitagorico, cioè coloro che non erano dei puri e semplici uditori, ma che erano dei veri e propri apprendisti, cioè che cercavano di andare a scuola per imparare la matematica e poi mettere in pratica, per diventare a 28 loro volta loro stessi dei matematici, dei professori e così via, questi apprendisti venivano chiamati in greco matematici, perché matè era per l’appunto l’apprendimento. Ecco che matematico allora vuol soltanto dire apprendista, cioè matematico è colui che non si ferma al primo livello, che non vuole soltanto fare l'ascoltatore di cose che gli possono interessare, ma che sono cose che lo interessano più da vicino, nel profondo, vuole in realtà apprendere, vuole diventare qualcuno che sappia sporcarsi le mani, che sappia imparare il mestiere praticamente. Il mestierante, diciamo così, i ragazzi di bottega di Pitagora, erano quelli che in realtà si chiamavano matematici e oggi il termine naturalmente è stato esteso, perché matematici oggi sono coloro che invece si applicano più precisamente nel campo della matematica e la matematica è diventata semplicemente un nome per ciò che Pitagora insegnava ai matematici, cioè a questo pubblico ristretto di uditori. Che cosa insegnava Pitagora? Pitagora aveva una visione dell'universo molto precisa , molto particolare, di cui appunto adesso cercherò di darvi di alcuni cenni, ma questa visione non era una visione campata per aria. Pitagora è stato forse il primo grande scienziato della storia, perché la sua visione matematica e la sua visione filosofica, in realtà era entrambe queste cose, è nata da un episodio molto particolare, di cui adesso vi racconto. Si dice che Pitagora passeggiava un giorno in città, passò vicino ad un'officina di un fabbro che stava lavorando con i suoi garzoni, anche lui aveva i suoi matematici, gli apprendisti e c’erano anche gli uditori, coloro che sentivano i rumori dei martelli. Pitagora passa e sente dei martelli che battono e si accorge, cosa che non ci voleva molto a capire, che alcuni suoni sono consonanti, cioè non stridono fra di loro e alcuni suoni invece sono dissonanti, cioè danno fastidio quando vengono suonati insieme. Io penso che, come siamo abituati oggi, se entrassimo in una bottega d'un fabbro ci darebbero fastidio tutti i rumori, ma all'epoca forse c'era una battuta di martelli ogni tanto. Allora cosa fece Pitagora? Entrò dentro questo negozio di fabbro, dentro quest'officina e volle andare a fondo e questa è la differenza tra noi e Pitagora, che noi forse passeremo, sentiremo i rumori, ci piaccia e non ci piaccia e poi ce ne andremo. Lui cercò invece di andare a fondo e di indagare, scoprire qual’era il motivo per cui alcuni suoni erano dissonanti e alcuni suoni erano consonanti. Che cosa scoprì? Scoprì anzitutto questo primo fatto, che quando due suoni erano lo stesso suono, noi diremmo oggi la stessa nota, per esempio due “do”, è ovvio che i due martelli devono avere lo stesso peso (devo fare una piccola premessa, cioè se due martelli sono uguali devono avere lo stesso suono, il cosiddetto unisono e il rapporto fra due martelli dev’essere per l’appunto uno a uno). Rapporti armonici Rapporti numerici Però il problema è che a volte lo stesso suono può succedere ¾ ottava 2:1 ad altezze diverse; per esempio un “do” ad una certa altezza ¾ quinta 3:2 e poi un “do” un'ottava superiore. Allora Pitagora scoprì che ¾ quarta 4:3 i rapporti tra i pesi dei martelli che risuonavano ad un'ottava erano di due ad uno, cioè due martelli che suonavano la stessa nota, però a distanza di “un'ottava” uno dall'altro (cioè a frequenza doppia), erano uno il doppio dell'altro, cioè pesavano uno il doppio dell'altro. Benissimo, altri esperimenti, altro suono. Pitagora scopre che c'è un rapporto anche fra due suoni che stanno fra di loro come “una quinta” diremmo noi, per dirla in termini musicali moderni, per esempio tra il “do” e il “sol”, quindi una differenza di cinque note della scala solita (do, re, mi fa, sol, la, si; do1, re1, mi1, fa1, sol1, la1, sil1; do2, re2., . . . . . . eccetera). Ebbene, la scoperta di Pitagora fu che il rapporto tra i pesi dei martelli per la quinta era di tre a due, cioè invece di essere uno doppio dell'altro, perché in questo, come caso abbiamo detto prima, ci sarebbe stato un suono di 1/8, erano una volta e mezza dell'altro, 50% in più di peso e il suono che risuonava fra i due, era un accordo di “quinta”. Ancora una cosa, per l'accordo di quarta, per esempio “do” e “fa”, cioè la differenza di quattro note, i rapporti peso erano di quattro a tre. Ebbene questa fu una scoperta sensazionale, perché in realtà Pitagora si accorse che era possibile esprimere quelli che oggi ancora chiamiamo rapporti armonici, cioè i rapporti tra note, per esempio “l'ottava”, due note a distanza di un ottava, per esempio “do-do1”, la “quinta” per esempio “do-sol”, la quarta “do-fa” e quindi rapporti musicali, cioè quelli che oggi noi faremo su una tastiera, facendo degli accordi, ebbene era possibile esprimere questi rapporti armonici mediante rapporti numerici, cioè mediante delle frazioni, che in realtà non erano soltanto dei numeri, ma indicavano i rapporti tra i pesi dei martelli. E questa fu veramente una scoperta sensazionale, che ho cercato di indicare qui in un triangolo, in cui si vede da una parte la matematica che interviene con questi rapporti che ho detto 2 a 1, 3 a 2, 4 a 3 e così via e dall'altra parte la fisica, perché i pesi dei martelli sono cose che riguardano il mondo fisico. Da una parte abbiamo una certa 29 quantità in peso del martello e dall'altra parte la musica, cioè i rapporti musicali e c'era questa specie di trinità, questa specie di rapporto tra tre cose, così apparentemente diverse come la matematica, (lo studio delle idee, dei numeri, delle figure), la fisica, (lo studio del mondo esterno, i pesi, le lunghezze eccetera) e la musica lo studio dei suoni. Pitagora su questo ovviamente meditò, cercò di costruire addirittura un'intera filosofia e da questo nacque il pitagorismo per l’appunto. Ora questa commistione tra musica, matematica e fisica, oggi non è moderna, benché anche su questo vedremo tra poco che c'è qualche cosa da dire, però se dimentichiamo per un momento la musica, oggi il rapporto tra matematica e fisica è qualche cosa di strettissimo ed è veramente ciò che sta alla base, se vogliamo chiamarla in questo modo, dell'ideologia scientifica, cioè il fatto che la fisica, cioè lo studio delle cose che succedono nel mondo esterno, è qualche cosa che si può descrivere attraverso un linguaggio che è il linguaggio della matematica, il linguaggio dei numeri, che a prima vista insomma non hanno niente di comune. Questa fu veramente una scoperta grandiosa e come abbiamo visto per Pitagora c'era anche qualche cosa in più, c'era addirittura anche la musica, cioè l’arte, quindi c'era la scienza, c'era l'arte, c'era la matematica che metteva un po' tutto insieme. Ebbene su queste basi, su questi esperimenti di natura musicale e anche appunto di natura fisica e matematica, Pitagora scrisse un credo, che non è un credo naturalmente del tipo di quelli a cui siamo abituati quando andiamo, chi ci va naturalmente in chiesa, è un credo che per cui non si deve credere semplicemente perché qualche profeta l'ha detto. Veramente anche all'epoca i seguaci di Pitagora facevano effettivamente così, tutti voi ricorderete il detto “ipse dixit”, che in genere viene riferito ad Aristotele, perché così si diceva nella Scolastica nel Medioevo, “lo ha detto” lui Aristotele, siccome i greci non parlavano in latino, l'analogo di questo detto l’ipse dixit era e fu usato per la prima volta dai seguaci di Pitagora, il genio che aveva scoperto questi segreti della natura, il fatto che la natura aveva qualche cosa a che vedere con la musica e con la matematica, il fatto che la matematica era questo linguaggio segreto, quasi arcano, esoterico che poteva permettere di raccontare da una parte come era fatta l'arte, dall'altra parte la scienza. Ebbene Pitagora divenne quasi un profeta ed il credo fu effettivamente una specie di credo religioso. Questo credo era “tutto è numero nazionale”. Come mai? Il Credo di Pitagora Tutto è numero nazionale perché Pitagora aveva scoperta che questi Tutto è rapporti musicali si potevano esprimere attraverso una frazione, cioè numero razionale appunto attraverso quello che oggi noi chiamiamo numero razionale e su questa terminologia arriveremo, ritorneremo tra un momento. Dicevo, una volta scoperto che in un caso così strano, come quello della musica, si poteva trovare la possibilità di usare la matematica, il linguaggio della matematica per esprimere delle cose che fossero fondamentali per quanto riguarda musica e fisica, ebbene Pitagora fece quello che fanno in genere i visionari, cioè decise che questo non era un caso, non era soltanto un esempio fortuito, ma era il segno tangibile di qualche cosa di invisibile, per dirla in termini più vicina al credo, cioè era effettivamente l'idea che poteva stare dietro ad un'intera filosofia, che non soltanto quel caso particolare dei suoni creati da martelli e dei rapporti armonici musicali potevano essere espressi mediante numeri razionale, ma tutta la natura, tutta l'arte e così via. Quindi Pitagora fu il primo, colui che introdusse questa nozione che la matematica poteva essere un linguaggio di natura universale. Vediamo più da vicino però questa terminologia, perché è molto importante capirla, spesse volte poi si fa anche confusione. Come chiamavano i greci ciò che noi oggi chiamano rapporto, rapporto numerico, cioè tra frazioni? Ebbene anzitutto vediamo come lo chiamavano i latini: lo chiamavano “ratio”, cioè la “ratio”, la razionalità per i latini era semplicemente quello che i greci chiamavano il “logos” ed era semplicemente la possibilità di esprimere cose attraverso i rapporti, cioè erano cose veramente basate sulla matematica. Il “razionale” era ciò che si poteva descrivere in modo matematico attraverso la matematica che allora si logos = ratio = rapporto conosceva , cioè quella dei numeri razionali. L’irrazionale, su cui torneremo poi tra un pochettino, all'epoca Pitagora linguaggio = pensiero = matematica non l’aveva ancora scoperto, non pensava che ci fosse qualche cosa di irrazionale, che non era ciò che noi oggi, dopotutto il romanticismo, per esempio dopo l’800, pensiamo come qualche cosa che va al di là della ragione, ma era semplicemente ciò che non si 30 poteva scrivere in termini di rapporti matematici. Il “logos” è anche qui una parola universale, che descrive tantissime cose, però ricordatevi, per esempio il Vangelo secondo Giovanni che era scritto in greco e l’inizio, la prima frase, del Vangelo secondo Giovanni noi la traduciamo malamente come “in principio era il verbo, il verbo era Dio, il verbo era presso Dio”, ebbene la parola che si usa in greco era logos, perciò “in principio era il logos e il logos era Dio”, se voi “logos” lo traducete in questi termini, andrebbe tradotto letteralmente “in principio era la ragione, cioè in principio era il rapporto numerico, cioè la frazione e allora la divinità era che cosa? Era la ragione in un senso ed era il numero dall'altro, quindi vedete che l'inizio del Vangelo secondo Giovanni, che tra l'altro è un vangelo gnostico, cioè un vangelo di tipo differente dai tre vangeli cosiddetti sinottici che lo precedono, è il Vangelo che insomma si presta a delle interpretazioni molto diverse, anche da quelle che ormai si sono sedimentate nella storia delle religioni, ma questo è un altro discorso che abbiamo già affrontato in un'altra sede. Ebbene questa identità tra logos in greco, fra ratio in latino e fra rapporto in italiano, è qualche cosa che sta sotto un'identità più importante, perché il rapporto è per l'appunto qualche cosa di matematico, la ratio nel momento in cui noi intendiamo “ragione” con qualche cosa di più generale, diventa la razionalità, la possibilità di pensare e il logos è, come si fa in genere nelle traduzioni del Vangelo secondo Giovanni, il verbo, il linguaggio. Ed ecco che allora il credo pitagorico è qualche cosa di più generale, che dice che in realtà il linguaggio, il pensiero e la matematica sono indissolubilmente legati, non è soltanto una questione di legare fra loro il linguaggio universale della matematica e la fisica, cioè scienza, musica e arte, bensì di legare fra loro tutto praticamente, la capacità di parlare, la capacità di pensare, con la matematica. Benissimo, allora cerchiamo di analizzare più da vicino, visto che questo credo pitagorico era così importante, quali sono stati i suoi influssi in tre campi diversi, cioè la scienza, musica e la matematica. Pitagorismo in: Allora cominciamo subito con la scienza; ebbene il primo che prese 1. Scienza seriamente questo credo pitagorico fu Platone il quale, perlomeno in uno 2. Musica dei suoi dialoghi più importanti, più esoterici che si chiama il “Timeo”, 3. Matematica quarto secolo a.C., costruì un'intera cosmogonia, cioè cercò di capire, di far capire come era fatto il mondo e il mondo secondo il Timeo di Platone era un mondo fatto di natura Scienza matematica, cioè il mondo era costituito da oggetti le cui forme elementari, Platone quelle che noi oggi chiameremo gli atomi, le particelle elementari, erano (IV secolo a. C.) in realtà gli angoli, cerchi, quadrati e così via. Sono poi quelli che Galileo Timeo avrebbe detto sono i simboli dell'alfabeto del linguaggio della natura. Quindi pensate che già subito dopo Pitagora, già qualcuno avesse pensato di costruire una cosmogonia, un immagine dell'universo basata su un pensiero matematico, che all'epoca era ovviamente ancora rudimentale, ma che poi la scienza avrebbe sviluppato, avrebbe fatto diventare quello che poi è diventato effettivamente oggi, cioè la possibilità di descrivere un'infinità enorme veramente di fatti disparati, attraverso un unico linguaggio comune che è quello della matematica. Ebbene altri personaggi che s'ispirarono a Pitagora furono per esempio Keplero e Newton a cui arriveremo tra breve. Keplero addirittura intitolò uno dei suoi capolavori, uno dei suoi libri Keplero Armonia del mondo più importanti ” L’armonia del mondo”, 1619; “De armunicae mundi” (1619) era questo mondo, in cui da una parte c'è la natura, l'universo e dall'altra Terza legge parte c’è la musica e la musica si esprime appunto attraverso l'armonia. Ebbene Keplero era talmente addentro a questa filosofia pitagorica che i suoi calcoli, le sue scoperte anche nel campo della fisica, vengono fatte proprio riferendosi a questo credo pitagorico, al fatto che ci sia un'identità tra linguaggio, tra matematica, tra musica e così via. Addirittura vi ricordo, come saprete tutti, che Keplero scoprì, usando i risultati di esperimenti fatti da astronomi, le famose tre leggi di Keplero, le tre leggi che poi Newton derivò dai suoi principi, ebbene le tre leggi, la prima di esse molto semplice, diceva che i pianeti girano intorno al sole seguendo delle orbite ellittiche e il sole sta in uno dei fuochi, mentre la seconda legge diceva come si muovono questi pianeti, cioè spazzano delle aree che sono proporzionali, cioè le stesse aree sono spazzate in tempi uguali, poiché l’ellissi non è una figura regolare come un cerchio, per cui in un cerchio semplicemente si sarebbe detto in tempi uguali si fa un percorso uguale, mentre invece nell’ellisse bisogna andare più veloci o più lenti, a seconda di dove ci si trova, cioè che l’area che viene spazzata è la stessa in un tempo che è lo stesso, infine la terza legge, che è una legge strabiliante, molto 31 difficile da derivare e addirittura non è nemmeno una legge precisissima, tanto che Newton la derivò soltanto in maniera approssimata, ebbene la terza legge diceva che “la distanza al quadrato di un pianeta è proporzionale al cubo del tempo che il pianeta ci mette a fare la rivoluzione intorno al sole, non importa quali siano i dettagli di questa legge, quello che vi invito a considerare sono questi due numeri, il quadrato della distanza e il cubo del tempo impiegato, cioè 2 e 3, cioè il rapporto di 3 a 2; ebbene Keplero disse d'aver scoperto questa terza legge perché doveva esserci per l'appunto un armonia dell'universo, un armonia del mondo e uno dei modi in cui l'armonia si manifesta è precisamente attraverso i rapporti musicali e questo rapporto di 3 a 2 significava che c'era un rapporto di “quinta”. Quindi pensate voi che oggi, che queste cose sono state completamente abbandonate, come invece ragionavano i nostri predecessori, i primi scienziati della storia, cioè ragionavano in questi termini musicali. Scoprirono le leggi perché ci dovevano essere dei numeri che corrispondevano a delle cose musicali. Veniamo a Newton ora, noi crederemo che Newton quando scrive il suo capolavoro “i principi di filosofia naturale”, del 1619, pensi in una maniera differente, cioè scopre la legge di gravitazione in una maniera che non è questa che avevamo detto di Newton Keplero e invece no. Newton disse in uno dei commenti ai Principia Principia Naturalis matematica, disse di aver scoperto la legge di gravitazione universale Philosophiae semplicemente andando a vedere quali erano le leggi che Pitagora (1619) aveva scoperto per l'armonia. Poiché l'universo doveva essere in realtà Legge di gravitazione come una lira che veniva suonata da Apollo e le corde della lira erano una forza che teneva unite da una parte il sole e dall'altra parte i pianeti, siccome una delle leggi pitagoriche dell'armonia era precisamente che la frequenza era inversamente proporzionale al quadrato della lunghezza, ebbene Newton disse allora che la frequenza, cioè semplicemente quello che corrisponde, diciamo così alla forza di attrazione, doveva essere inversamente proporzionale al quadrato della distanza del pianeta dal sole ed ecco quindi la famosa legge quadratica che lega la forza di gravità del sole con i pianeti, una forza che, secondo Newton, è stata scoperta da lui semplicemente mettendosi nell'ottica del pitagorismo. Ora voi direte, va bene, insomma queste sono cose un po' passate, sono cose di tanti secoli fa, ma passiamo quasi con un salto felino a oggi, questo signore che vedete qui in una fotografia, già la fotografia vi dice che ovviamente non possiamo essere molto lontani perché non è cosa di un secolo fa, ebbene questo Witten è in realtà uno dei vincitori della medaglia Fields, che è Fields l’analogo del premio nobel per la matematica, il premio Nobel non esiste per la matematica, c’è una medaglia analoga che si chiama appunto medaglia Fields e questo signore l’ha vinta nel 1990. La medaglia Fields viene data ogni 4 anni, quindi tre volte fa, perché poi c’è stato soltanto il congresso nel ‘94 e ’98. Ebbene questo signore Witten è uno dei matematici che vanno per la maggiore, è anzi uno dei fisici matematici che stanno cercando di trovare l'unificazione delle forze, cioè cercando di trovare quello che si chiama in realtà “la teoria del tutto”, di mettere insieme da una parte la teoria della gravitazione universale e dall'altra parte la meccanica quantistica. Una delle forme che Witten ha trovato per cercare di risolvere questo dilemma profondissimo della scienza moderna, è la cosiddetta “teoria delle stringhe”. Ebbene, le stringhe che cosa sono? Sono l'analogo degli atomi per questi signori moderni, cioè invece di pensare la materia come se fosse fatta di puntini, fate presente un piccolo sistema solare in cui c'è un nucleo e poi degli elettroni che girano intorno, ebbene invece di pensare alle particelle come punti materiali, questi signori pensano le particelle come stringhe, come dei lacci da scarpa che vibrano in qualche modo nello spazio. Queste vibrazioni sono precisamente l'analogo delle vibrazioni delle corde musicali di cui già parlava Pitagora e si pensa oggi che ci sia un solo tipo di stringhe, cioè questo sarebbe l'unificazione delle forze, tutte particelle sono la stessa particella, se uno guarda da un punto di vista fisico, sono tutti pezzi di corda, ma la differenza fra le varie particelle, per esempio ciò che fa di una stringa un elettrone e di un'altra stringa un protone per esempio, è semplicemente il fatto queste stringhe vibrano in maniera diversa, detta in termini musicali le particelle sarebbero le armoniche delle stringhe moderne. Quindi vedete come, questa visione, che unisce la matematica, la fisica e la musica, in realtà che è partita da Pitagora, continua ad essere ancora viva al giorno d'oggi e può essere forse, una delle soluzioni di uno dei problemi più fondamentali della fisica moderna. 32 Quindi effettivamente il pitagorismo è molto forte nel campo della scienza. Vediamo più da vicino invece il suo influsso nel campo della musica. Nel campo della musica ci fu subito un problema. Pitagora stesso, come dice questo nome del “comma pitagorico”, scoprì una cosa abbastanza interessante, cioè se voi prendete cinque ottave, cioè 5 scale musicali di 7 note, (il rapporto frequenze tra una scala e la successiva è doppio, doppio peso dei martelli, quindi alla seconda ottava corrisponde un peso del martello 2x2 , alla terza ottava (2x2)x 2, alla quarta ottava, (2x2x2)x2 e alla quinta 2 elevato 5), ebbene cinque ottave dovrebbero essere uguali a 12 quinte, (cioè partendo da do1 si arriva a do5), coloro di voi che suonano il pianoforte lo sanno. Ora ricordate che un'ottava è realizzata con un rapporto peso tra martelli 2 ad 1 e una quinta con rapporto peso tra martelli di 3/2, ebbene Pitagora scoprì che da un punto di vista numerico non c'è modo di Musica elevare 2 ad un esponente 5 in modo che venga uguale a 3/2 elevato ad Problema un altro esponente perché c'è quel 3 che dà fastidio; quindi già Pitagora Comma pitagorico sapeva che non è possibile dopo 5 ottave ritornare esattamente 5 ottave = 12 quinte all'analogo di 12 quinte detto e che il “ciclo delle quinte”, le 12 note che corrispondono a queste quinte in realtà non si chiude. Per Pitagora “il ciclo delle quinte” in realtà era una spirale infinita. Questa è qualche cosa che diede molto fastidio e che produsse appunto un problema che venne risolto molto tempo dopo, in realtà secoli dopo, verso le 1700 circa, da quello che oggi viene chiamato il “temperamento”. C’è l'idea di dire, è vero che i toni pitagorici sono toni che corrispondono a dei rapporti di tipo razionale 2 a 1 per le ottave”, 3 a 2 per le “quinte”, però se noi vogliamo continuare a mantenere questi numeri razionali, abbiamo il problema precedente, cioè abbiamo il fatto che il ciclo delle Soluzione quinte non si chiude. E allora, qual’è la soluzione? La soluzione Temperamento è quella di temperare l’accordatura degli strumenti e di far sì che Tono = radice 12a di 2 le 12 “quinte” vengano forzatamente a corrispondere a 5 “ottave”. Questo però corrisponde a far sì che un'ottava, ciò che è quello che corrisponde 2 a 1, cioè ad un peso o una lunghezza di 2, si possa ottenere mediante 12 applicazioni di qualche cosa che corrisponda ad un intorno. Come si fa a fare 12 applicazioni? Bisogna fare un elevamento alla dodicesima potenza, se noi vogliamo invece farne una sola, noi dobbiamo fare una radice dodicesima di 2. Ed ecco il motivo per cui Pitagora non poteva risolvere il problema; non poteva risolverlo perché la radice dodicesima di 2 è ovviamente un numero irrazionale, come vedremo fra poco, già anche altri numeri molto più semplici sono irrazionali. Quindi in questo problema del temperamento musicale c'era in realtà un altro problema, che era il problema appunto degli irrazionali. Bach Il temperamento, qui ho messo soltanto un esempio, il massimo esempio forse Clavicembalo di colui che lo prese seriamente, che scrisse quest'opera che si chiama appunto ben temperato “clavicembalo ben temperato” e che fece in due parti, la prima parte del 1722, (1722-1744) la seconda del 1744; 48 magnifici, grandissimi preludi e fughe, scritti per strumenti che fossero ben temperati. All'epoca, si diceva che non era possibile temperare gli strumenti, perché l'orecchio non avrebbe accettato queste approssimazioni; invece Bach fece vedere che non solo era possibile, ma che si poteva fare della grande musica e il temperamento finalmente venne accettato dai musicisti. Quindi questa fu, in qualche modo, la fine del pitagorismo nella musica, perlomeno per quanto riguarda l'uso dei rapporti razionali nel campo della musica. Ma, ovviamente, quello che a noi interessa più da vicino, è l'aspetto di Pitagora come matematico, cioè l'influsso che le idee di Pitagora hanno avuto nella matematica e in particolare nella logica, perché è di questo che stiamo parlando. Ebbene, i risultati più 4. Matematica importanti della Scuola pitagorica o di Pitagora stesso sono due: ¾ Teorema di Pitagora uno è quello che si chiama il teorema di Pitagora e vedremo tra ¾ Irrazionalità della poco che in realtà questa è la conclusione più che l'inizio di una diagonale del quadrato storia e il secondo invece è quello che probabilmente fu scoperto effettivamente dai pitagorici, cioè il cosiddetto problema della irrazionalità della diagonale del quadrato. Vediamo questi due risultati più da vicino, anzitutto il teorema di Pitagora; qui ho messo due immagini che fanno vedere come il teorema di Pitagora fosse già noto in tempi ben precedenti a Pitagora stesso. A sx c'è 33 una figura di un dio egizio, a dx c'è una statua greca, al centro ho fatto una lista di coloro che nella storia hanno dimostrato prima di Pitagora o anche in seguito, che però hanno dimostrato di essere arrivati probabilmente in maniera indipendente, alla scoperta di questo fondamentale teorema di Pitagora, cioè gli egiziani, i babilonesi, i greci, gli indiani, i cinesi, che in parti completamente diverse del mondo probabilmente senza nessuno contatto diretto, erano riusciti a scoprire appunto il teorema di Pitagora. Vediamo un po' da vicino invece, come ci siamo arrivati noi, cioè la nostra civiltà. In realtà non sappiamo molto, perché Pitagora non ha lasciato niente di scritto. Il primo passo della letteratura classica in cui si parla dei problemi legati al teorema di Pitagora nella filosofia greca, è un passo del Menone ed è anche il primo passo, notate questo è un dialogo di Platone, è un dialogo filosofico, che è stato il primo luogo in cui si trova una dimostrazione nel senso in cui la intendiamo oggi. La matematica prima dei greci, non era fatta in maniera dimostrativa, se voi prendete i papiri egizi, per esempio il famoso papiro di Rhind, che sta a Mosca, li trovate un certo numero di problemi matematici, trovate le soluzioni, quasi sempre corrette, ma non sempre, però non c'è nessuna dimostrazione, cioè le soluzioni venivano date in maniera oracolare. Si diceva: voi sapere come si fa a risolvere questo problema? Questa è la soluzione. È chiaro che su questo non si può basare una scienza, perché come si fa a trasmettere delle soluzioni che vengono in qualche modo indovinate o divinate, come se ci fosse quasi qualche cosa di divino che le suggerisce. La scienza è nata con i greci, proprio perché i greci hanno inventato questa nozione di dimostrazione, cioè la possibilità di arrivare ai risultati e di convincere gli altri che questi risultati sono corretti, perché questi risultati vengono proposti attraverso una dimostrazione allegata e non si dice soltanto la soluzione è questa, ma si dice la soluzione è questa perché c'è questo motivo e questo motivo. Ebbene dicevo, la prima registrazione storica di una dimostrazione è nel Menone, in questo dialogo platonico, in cui questo è Platone, che sta parlando quaggiù, vedete i suoi interlocutori a cui pone il problema del raddoppio del quadrato. Il problema del raddoppio del quadrato è questo: supponete di avere un quadrato di lato qualunque, come dev'essere il lato d'un quadrato che abbia area doppia? La soluzione ovvia che viene in mente subito, a coloro che non hanno studiato matematica, è quella di dire: abbiamo un quadrato, poi abbiamo l'area doppia, raddoppiamo il lato; però sapete tutti, che se raddoppiamo il lato, per esempio se il quadrato originale ha lato uno e la sua area è dunque uno, se raddoppiate il lato, il lato diventa due e l'area diventa quattro, quindi non è doppia, ma è quattro volte. Ebbene, dopo un lungo percorso e discussioni, Pitagora scoprì e Platone racconta nel dialogo come si fa ad arrivare a questa soluzione, che l'assoluzione del problema del raddoppio del quadrato è quella di prendere metà del quadrato, cioè questo triangolo cosiddetto rettangolo, considerare l'ipotenusa oppure se volete la diagonale del quadrato e costruire su questa diagonale un quadrato ed ecco che qui si vede subito che questo quadrato ha area doppia, come mai? Perché è fatto di 4 triangolini, questi triangolini che vedete qui in blu, 4 ovviamente è il dopo di 2, ebbene questi triangolini blu sono di area uguale a questo triangolino marrone e due triangolini marroni formano il quadrato originale. Quindi effettivamente vedette come la soluzione sia corretta, cioè bisogna prendere la diagonale del quadrato. Il problema del raddoppio del quadrato in realtà è qualche cosa che non era limitato soltanto a questa forma qui. Qui nella slide sulla destra ho fatto l'esempio dell'oracolo di Delo e questa è una parte delle rovine di Delo; 34 a Delo c’era il tempio di Apollo, ad un certo punto scoppiò una pestilenza ad Atene, gli ateniesi erano molto devoti di Apollo e credettero che andare al tempio di Apollo, dall'oracolo, per chiedere all'oracolo che cosa voleva il dio per far smettere la peste, sarebbe stata la soluzione giusta. Ci fu una missione che andò a chiedere all'oracolo quale doveva essere il responso e il responso dell'oracolo fu: la peste finirà quando l'altare del Dio, che era un altare cubico questa volta, invece che quadrato, cioè a tre dimensioni, sarà raddoppiato, cioè quando il volume dell'altare di Apollo sarà raddoppiato. I greci fecero l’errore a cui avevo accennato prima, raddoppiarono i lati di questo altare, il volume divenne ovviamente 2 x 2 x 2, cioè otto volte invece che due, Apollo rimase infuriato come prima e la peste non fini. Il problema della raddoppio del cubo è ovviamente analogo al problema del raddoppio del quadrato, si tratta di fare non la radice di due, ma la radice cubica di due in questo caso e il problema è che bisognava introdurre gli irrazionali per l’appunto, che sono ciò di cui parliamo tra poco. Però quel particolare esempio, a cui abbiamo accennato poco fa, cioè un triangolo rettangolo i cui lati sono i lati di un quadrato è un caso molto particolare del teorema di Pitagora. Il teorema di Pitagora per la prima volta ce lo abbiamo dimostrato soltanto negli elementi di Euclide, quindi verso il 300 a.C. Nel Menone c’è la prima dimostrazione di un qualunque teorema di matematica e in particolare di un caso speciale del teorema di Pitagora, ma il caso generale del teorema di Pitagora c'è soltanto negli elementi di Euclide nella proposizione 47, la penultima del primo libro ed eccolo qua, in un esempio, questa è la figura che poi è diventata classica, che tutti voi avrete visto andando a scuola e questo è un caso particolare il teorema di Pitagora che comunque era già noto per esempio agli egiziani e ai babilonesi. I casi in cui i due cateti del triangolo rettangolo siano di lunghezza 3 e lunghezza 4, cioè l’area di questo quadrato di lato 3 è nove come si vede dai quadratini, l'area di quest'altro quadrato di lato 4 è 16 come si vede dai quadratini, l’ipotenusa in questo caso è cinque e il quadrato sull’ipotenusa è 25, quindi 9 più 16 fa effettivamente 25, ma questa ovviamente non è una dimostrazione di nulla, la dimostrazione che c'è negli elementi di Euclide, è una dimostrazione molto complicata ovviamente, perché il teorema non è affatto semplice. Ebbene che cosa mancava in tutta questa storia? Mancava ancora l'elemento più importante, cioè quella seconda scoperta a cui ho accennato poco fa, che fece Pitagora, probabilmente proprio lui, mentre appunto come ho già detto più volte, anche in questa lezione, il teorema di Pitagora era qualche cosa che anche senza dimostrazione, per lo meno, era nell'aria. Ebbene la scoperta veramente geniale e anche traumatica dei pitagorici, fu che la diagonale del quadrato, di cui abbiamo parlato poco fa è irrazionale, cioè se il quadrato ha lunghezza uno per esempio, ebbene non c’è nessun numero nazionale che esprima la lunghezza del quadrato. Oggi noi diremo che la radice di 2 è irrazionale. Aristotele La prima dimostrazione del fatto che la radice quadrata di 2 è irraAnalitici primi(I, 23) zionale si deve ad Aristotele o perlomeno, la prima testimonianza Irrazionalitàdella diagonale che noi abbiamo, ancora più tarda di quella del Menone, più o meno contemporanea a quella di Euclide, è quella di Aristotele. Negli analitici primi, versetto 23, del primo libro si dimostra questa irrazionalità. Allora quest’oggi vorrei finire questa lezione facendo veramente la dimostrazione dell’irrazionalità della radice di due, non facendola nel modo in cui la fece Aristotele, perché è una cosa un po' macchinosa, si basa sul rifiuto del regresso all’infinito di cui abbiamo parlato nella precedente lezione, cioè il problema del paradosso di Zenone. Allora vediamo da vicino qual’è la dimostrazione che oggi noi daremo della irrazionalità della radice di 2. Allora supponiamo di avere due numeri m ed n che siano in questa relazione, cioè m2 = 2n2, questo precisamente è ciò che vorremo avere nel caso in cui la radice di 2 fosse razionale, cioè ci fosse un numero m diviso n il cui quadrato fosse 35 Se m2 = n2 allora l’esponente di 2 è: ¾ Pari nella decomposizione di m2 uguale a 2, (m/n)2=2 . Ebbene, allora andiamo a vedere qual’è dovrebbe essere l'esponente di 2 nella decomposizione in fattori di 2 di queste due parti. Cominciamo a vedere la parte a sinistra , cioè m2, che è un quadrato ¾ Dispari nella decomposizione di 2n2 Comunque si faccia la decomposizione in fattori primi, Contradizione qualunque fattore avrà un esponente che deve essere pari a causa di questo quadrato, cioè perchè m2 sia pari, quindi in particolare l'esponente di 2 deve essere pari nella decomposizione di m2. Andiamo a vedere la parte invece che è a destra dell’uguale 2n2 e qui abbiamo una cosa che è analoga a quella di prima, cioè anche n2 quadrato deve avere un esponente, nella decomposizione in fattori primi di 2, pari; però qui c'è un 2 in più e quindi la parte a destra è tale che, quando facciamo la decomposizione in fattori primi e andiamo a vedere l'esponente di 2, in questa decomposizione in fattori primi, questo esponente deve essere dispari. E allora abbiamo un uguaglianza tra due numeri; facciamo la decomposizione in fattori primi di questi due numeri che sono uguali, però da una parte l’esponente di 2 dev’essere pari in m2, dall'altra parte l’esponente di 2 devessere dispari in 2n2, perché c'è un 2 in più e questo non è possibile perché i due numeri dovrebbero essere uguali. Quindi questa è una dimostrazione veramente geniale, però una dimostrazioni per assurdo e quindi un nuovo tipo di ragionamento che in matematica probabilmente non c'era fino a Pitagora ed è stato questo che veramente ha cambiato la storia della matematica, perché poi di lì le dimostrazioni per assurdo sono diventate qualche cosa di pragmatico, cioè che si usa praticamente tutti i giorni. Ebbene questa “contraddizione” allora questo significa che non esistono dei numeri m ed n che hanno quella proprietà, significa che la radice di 2 è irrazionale. Quale è stato il risultato di questa scoperta? Anzitutto da un punto di vista politico è stata una cosa veramente traumatica, cioè i pitagorici giurarono fedeltà, giurarono che nessuno avrebbe potuto dirlo in giro, cioè loro sapevano che la radice quadrata di 2 era irrazionale, non si doveva dire in giro che c'erano degli irrazionali, perché il credo di Pitagora, ve lo ricorderete, era che “tutto è numero nazionale” e allora, se poi si scopre che la diagonale di un quadrato, cioè qualche cosa di così elementare, in realtà già lei non è più razionale, ecco che allora succedono dei pasticci. Giurarono quindi il segreto, qualcuno come sempre succede quando si giura di non dire qualche cosa, qualcuno tradì, si chiamava Ipaso di Metaponto, i pitagorici lo maledirono, lo raccomandarono malamente a Giove, Giove fecce affondare la nave su cui Ipaso di Metaponto andava in vacanza o forse scappava dai pitagorici, Ipaso morì, pagò con la morte il tradimento del giuramento, però il mondo venne a sapere che effettivamente esistevano dei numeri irrazionali. Nel momento in cui l'irrazionalità fa capolinea nella storia, nella filosofia, succede il patatrac. Quindi i pitagorici, praticamente perlomeno in quel momento, subirono una grande debacle, la filosofia e la matematica incominciarono a fare i conti con l’irrazionale. Ricordate che razionale significava soltanto ciò che si poteva esprimere attraverso un rapporto e irrazionale era ciò che non si poteva esprimere attraverso un rapporto, come appunto la diagonale di un quadrato. Ebbene come veniva chiamato un numero irrazionale dai greci? Veniva chiamato “surdo”, nel senso di sordo, proprio come direbbero i latini e allora l'assurdo era ciò che derivava dagli irrazionali. Ecco perché abbiamo intitolato questa nostra missione teatro dell'assurdo, oggi assurdo vuol dire una cosa completamente diversa, così come d’altra parte irrazionale vuol dire qualche cosa di diverso. Ebbene assurdo è semplicemente ciò che deriva da questa scoperta pitagorica. Noi ci fermiamo qui oggi e naturalmente proseguiremo in seguito con altre lezioni. 36 LEZIONE 5: Idee accademiche Nelle precedenti lezioni abbiamo anzi tutto introdotto l’argomento naturalmente e poi abbiamo incominciato ad interessarci dei logici, dei personaggi, i grandi pensatori di questa materia, della logica matematica pian piano. Abbiamo incominciato a parlare di paradossi, soprattutto parlato del paradosso del mentitore, del paradosso di Achille e la tartaruga e poi abbiamo finalmente cominciato nella scorsa lezione ad affrontare i personaggi. Abbiamo iniziato con Pitagora che è stato il primo grande matematico, filosofo, filosofo della matematica anche e quest’oggi invece parleremo di quello che è stato forse il primo grande filosofo della Grecia, cioè Platone. Voi direte come mai Platone? Platone, in realtà, interviene in una delle due lezioni di logica matematica. Platone è molto più noto ovviamente per altre cose che ha fatto, perchè è stato, come dicevo, il grande filosofo, colui che ha iniziato praticamente la filosofia greca, per lo meno quella che viene dopo i presocratici e che ha in cominciato a fare le grandi opere della filosofia greca. Però la cosa interessante è che Platone in realtà aveva una concezione della filosofia, come vedete qui nella slide, come matematica e quindi è proprio di questo che oggi vorremmo parlare, cioè parlare degli aspetti matematici della filosofia di Platone che in genere vengono trascurati, perché si parla ovviamente di altre cose che interessano di più i filosofi, anche perché i filosofi di oggi non sono più dei matematici, come quelli di allora. Quindi andiamo a vedere più da vicino questa figura: Platone è quaggiù che sta parlando, molto concentrato, queste sono le date di inizio e fine della sua vita, cioè la nascita nel 428 e la morte nel 347 circa a.C. e qui c'è questo motto in cui ho cercato di condensare l'idea della filosofia di Platone, che appunto è la filosofia come matematica. Vediamo allora da vicino come Platone intendeva effettivamente mettere in pratica, mettere in essere questa filosofia. Anzitutto incominciamo dalla didattica. Platone come tutti sapete, ha scritto decine e decine di dialoghi e questi dialoghi sono le opere di cui abbiamo già parlato una volta le cosiddette opere essoteriche, cioè opere che oggi chiameremo di divulgazione, in cui si cercava di raccontare in parole semplici, anche letterariamente interessanti, le cose che Platone poi raccontava oralmente in maniera esoterica ai discepoli, seguendo in questo una tradizione che aveva iniziato in realtà Pitagora, di cui abbiamo parlato la scorsa volta, ebbene incominciamo appunto da due dei grandi dialoghi che parlano della didattica, cioè come Platone pensava che bisognasse insegnare ai giovani ateniesi a diventare degli uomini, a diventare soprattutto dei bravi cittadini. La cosa interessante è che in questi due grandi dialoghi, che sono i più lunghi che lui ha scritto, dei veri e propri libri, soprattutto “Le leggi”, ma anche “La Repubblica”, che oggi vengono stampati separatamente perché hanno l'autosufficienza, l’autonomia, diciamo così, proprio come se fosse dei veri libri, ebbene sia nella Repubblica, che nelle Leggi, dove vengono trattati decine di argomenti, ovviamente di tutti i generi, su alcuni dei quali torneremo poi in seguito, in particolare si parla della didattica, si parla dell'educazione e qui nella slide vedete una scuola, in cui ci sono oggi naturalmente i maestri, i professori come saremo noi, come sareste voi all'università. Ebbene la cosa interessante è che Platone sosteneva in entrambi questi dialoghi che per fare un bravo cittadino, per insegnare l'educazione agli studenti bisognava imparare l'aritmetica e la geometria, cioè il fondamento dell'educazione doveva un qualche cosa di matematico, perché la matematica stava alla base di tutto praticamente, di tutto il pensiero e vedremo appunto in seguito anche della sua filosofia. Quindi l'aritmetica venne prima vista, non tanto come si fa oggi purtroppo, come una preparazione tecnica, cioè la matematica si studia questo oggi soprattutto nei licei scientifici e poi nelle facoltà e nelle università tecniche, ma si studia perché serve per la fisica, serve 37 per la chimica, più in generale serve per le scienze naturali. Ebbene questo non era l'atteggiamento di Platone. L'atteggiamento di Platone era invece che aritmetica e geometria dovessero essere imparate da tutti gli studenti perché erano il fondamento della vita ed anche più vicine all'umanesimo e all’etica. Ecco qui l'etica è la scienza del comportamento, ma nessuno all'epoca avrebbe parlato di scienza del comportamento e oggi si incomincia parlare di questo perché le scienze hanno un po' invaso, se non direttamente con i loro di pensare del mondo moderno. Il nostro mondo, parlo del mondo occidentale contemporaneo, è un mondo ETICA basato sulla tecnologia, sulle macchine, su tante cose; per (Filebo, Protagora) esempio, di fronte a me ho una telecamera, intorno a me ¾ Proporzione (giusto mezzo) ho delle luci elettriche, qui vicino ho un computer, quindi ¾ misura (più/meno, maggiore/minore) effettivamente la tecnologia oggi è un po' il modo in cui noi viviamo, che caratterizza questa nostra epoca, ma come tutti sanno la tecnologia è basata sulla scienza, la scienza naturale appunto, di cui fanno parte la fisica, la chimica e varie altre materie. Ebbene tutte queste materie in realtà traggono il loro linguaggio e anche i mezzi che usano per studiare il mondo dalla matematica ed è per questo che in qualche modo la matematica sta oggi a fondamento di tutta la nostra educazione scientifica, però all'epoca non era così naturalmente o meglio noi pensiamo, quasi sempre, che non fosse così. Ebbene qui per sfatare questo mito, volevo appunto parlare della concezione che dell’etica aveva Platone. Mi riferisco a due altri dialoghi, che sono dialoghi non così importanti ovviamente come la Repubblica e come le Leggi, però due dei dialoghi, cioè il Filebo e il Protagora, ma soprattutto il Protagora, sono stati centrali nel pensiero platonico. Se noi guardiamo da vicino che cosa ci insegnano questi due dialoghi, dal punto di vista dell'etica, ebbene ci insegnano che la cosa importante per quanto riguarda il nostro comportamento è avere il senso delle proporzioni, cioè non esagerare in un senso, non esagerare nell'altro, ma seguire quello che in qualche modo si potrebbe chiamare la via di mezzo, la “golden mean” la chiamerebbero gli inglesi. Il giusto mezzo è precisamente qualche cosa che Platone collegava con un atteggiamento matematico; sapere che cos'è il giusto mezzo significa conoscere la teoria delle proporzioni, sapere che tra due cose che noi abbiano di fronte, tra due alternative, si può parlare di una, si può parlare dell'altra, si può cercare in qualche modo di quantificare le cose a favore e le cose contro e poi bisogna seguire quella che è la strada del giusto mezzo. Quindi in realtà anche nel caso del comportamento umano Platone pensava che i metodi, non tanto i risultati, della matematica in questo caso, potessero essere importanti e potessero essere da guida del comportamento e poi in realtà c’è anche questa teoria della misura, cioè che cosa significa sapere come comportarsi? Significa sapere per l’appunto che cosa scegliere tra il più e il meno, tra il maggiore e il minore, saper scegliere, saper mettere in fila, saper ordinare in qualche modo le alternative che ci vengono proposte. Ed ecco che allora quello che in aritmetica ed in geometria potrebbero essere considerate come delle nozioni puramente tecniche, come la proporzione, le relazioni, gli ordini che ci sono in genere fra grandezze o fra numeri, tipo il maggiore o il minore o l'uguaglianza, in realtà hanno questa valenza molto più universale, molto più importante che è quella di aiutarci a comprendere, anche nelle situazioni quotidiane della vita, che cosa si deve fare, a stabilire quand’è che una cosa è migliore, quand’è che una cosa è peggiore e a scegliere quella che Platone sosteneva fosse la via giusta, cioè la via del giusto mezzo. Ed ecco, quindi, che abbiamo già visto come non soltanto la matematica interviene nella filosofia platonica come mezzo per insegnare agli studenti, cioè nella didattica e nell’educazione, ma interviene anche addirittura nel comportamento, cioè nella vita di tutti i giorni e nel comportamento corretto soprattutto, nell’etica, cioè nel sapere come comportarsi. Naturalmente queste sono cose oggi possono sembrare sorprendenti, ma certamente non sono le applicazioni più importanti della matematica, perché la matematica si è sviluppata in un'altra direzione e in particolare già all'epoca, già nella filosofia platonica la matematica serviva praticamente per fare da fondamento a quella che oggi noi chiameremo la fisica. Il dialogo platonico che parla della fisica, che parla di come è costruito mondo, di quale è la struttura dell'universo, diremmo oggi, è il famoso “Timeo”. Dico famoso perché il “Timeo” è un dialogo difficile, è un dialogo esoterico nel senso in cui noi oggi intendiamo la parola, non soltanto nel senso in cui la intendevano Pitagora e Platone, che era l’insegnamento da dare al circolo degli iniziati, cioè agli studenti e non al pubblico che viene a sentire la divulgazione. Dicevo che in un senso moderno è un dialogo 38 esoterico, perché è molto misterioso, racconta di cose che non si capiscono bene, riporta anche il sapere di civiltà diverse, come vedremo tra poco nelle successive slide. Il Timeo ha in realtà una concezione della natura, una concezione del mondo che si può sintetizzare dicendo che “la natura è geometrica”, cioè se noi guardiamo all'essenza vera dell'universo, se andiamo a vedere le forme che compongono l'universo queste sono geometriche. Qui per esempio abbiamo una goccia d'acqua, guardate come la goccia d'acqua si dispone, effettivamente in una forma perfettamente geometrica, quando la goccia cade quaggiù fa un qualche cosa che a prima vista sembrerebbe poco geometrico, ma che oggi viene studiato con le teorie del caos, con le cosiddette immagini frattali e così via. Per noi oggi è una cosa assodata, cioè per noi che siamo figli praticamente della scienza moderna, figli di Galileo, dopo 400 anni di sviluppo sappiamo benissimo effettivamente che la scienza e la fisica si basano sulla geometria e sulla matematica, però all'epoca la cosa non era affatto ovvia e lo era certamente poco dopo Pitagora. Se ricordate la scorsa lezione, l'idea di Pitagora era che la fisica e la natura fossero non geometriche, ma aritmetiche, cioè si basassero sull'altra parte della matematica che era appunto lo studio non delle forme, non delle figure geometriche, ma lo studio dei numeri. Come mai c'è stato questo cambiamento che oggi chiameremo di paradigma, seguendo il filosofo della scienza Kuhn? Come mai sono cambiati i paradigmi nel passaggio da Pitagora a Platone? Beh, non soltanto perché ai filosofi piace ovviamente contraddire i predecessori, anche per avere qualche cosa di nuovo da dire, ma soprattutto perché la filosofia pitagorica, cioè il fatto che l’idea della natura fosse aritmetica fu messa in crisi dalla scoperta della irrazionalità di radice di 2 di cui abbiamo parlato e su cui torneremo tra breve a riflettere. Allora questa scoperta fece vedere che l’aritmetica aveva dei problemi, aveva bisogno di una fondazione e i greci pensarono che la fondazione che si poteva dare alla aritmetica fosse una fondazione di natura geometrica, soprattutto fu poi Euclide che tradusse questo cambiamento di paradigmi nella sua grande opera gli “Elementi”, i cosiddetti “Elementi” di Euclide. Ebbene, però l'idea basilare c'è già in Platone che viene appunto prima di Euclide e soprattutto in questo dialogo “ Il Timeo”. Andiamo a vedere più da vicino che cosa succede in questo dialogo, che è un dialogo di cosmologia, cioè ci spiega come è fatto il mondo. Per spiegarci come è fatto il mondo, Platone introduce quelli che oggi vengono chiamati i solidi platonici, cioè c'è tutta una teoria che è una teoria per l’appunto geometrica, basata sia sulle forme piane, triangoli, quadrati, cerchi e così via, ma soprattutto sulle forme solide, cioè sui solidi e le figure che vedette qui intorno. Platone narra, racconta, discute di cinque solidi in particolare che sono i solidi che ho qui elencato e che possiamo vedere anche nella figura: il cubo è precisamente questo solido nella fig. in alto a destra, è un solido fatto con sei facce quadrate, il tetraedro che invece è il solido nella fig. giù a destra sotto il cubo, che è praticamente una piramide, una piramide non come quelle egizie perché quelle egizie avrebbero una base quadrata, bensì una piramide triangolare, perfettamente simmetrica, che ha soltanto quattro lati, ma questi quattro lati sono lati triangolari; poi c'è l’ottaedro che vediamo invece sulla sinistra in alto; l’ottaedro è anche lui fatto di piramidi, questa volta però le piramidi sono due, come incollate una sull'altra e sono precisamente piramide quadrate, anzi si pensa addirittura che metà dell’ottaedro sia stata la figura che ha ispirato gli egiziani nel fare le loro grandiose piramidi, soprattutto le tre grandi piramidi che stanno vicino al Cairo, le piramidi di Giza. Il prossimo solito è il dodecaedro, si chiama dodecaedro, per un ovvio motivo, cioè c'è qualche cosa che ha che fare col 12, ebbene 12 sono le facce di questo dodecaedro, che sono facce pentagonali. Ricordate i primi tre solide che abbiamo visto, avevano facce o triangolari o quadrate e invece questo, che è il solido successivo, ha facce pentagonali. E l'ultimo di questi cinque solidi si chiama icosaedro, è un solido che è fatto di 20 triangoli, mescolati in questo modo, una figura piuttosto complessa e che certamente non fu facile scoprire per i greci. Ebbene, come mai questi si chiamano solidi platonici? Si chiamano solidi platonici forse perché il primo punto, il primo luogo in cui si trovano elencati è precisamente questo dialogo platonico, questo Timeo. Questi solidi ovviamente non sono stati inventati da Platone; Platone tra l'altro non era un matematico professionista, benché conoscesse benissimo la matematica e lo dimostrano per l’appunto 39 i suoi dialoghi. Ebbene questi solidi sono stati probabilmente scoperti, perlomeno una parte di loro e soprattutto le parti che riguardano questi tetraedri e questi ottaedri, cioè le parti piramidali sono state scoperte dagli egizi. I pitagorici anche loro hanno avuto un buon ruolo nel definire questi solidi, ma Teeteto ¾ Egizi che è anche il personaggio che ha dato poi luogo a uno dei dialoghi di ¾ Pitagorici Platone, uno dei dialoghi più matematici, più scientifici su cui torneremo ¾ Teereto in seguito per un motivo diverso, ebbene dicevo, Teeteto che era il nome di ¾ Platone(Timeo) un matematico, fu colui che dimostrò che i solidi platonici, i solidi cosiddetti ¾ Euclide (XIII) regolari, erano soltanto cinque, cioè i cinque che ho elencato prima, i cinque che Platone usa nella sua cosmologia o nella sua cosmogonia, non sono messi caso, sono gli unici che si possono costruire. Che cosa vuol dire solido regolare? Solido regolare vuol dire un solido in cui le facce sono tutte fatte dello stesso poligono, cioè dev’essere un poligono regolare, cioè tutti i lati uguali, per esempio un triangolo equilatero oppure un quadrato oppure un pentagono regolare e così via; come vedete, soltanto queste tre figure piane, cioè triangolo, quadrato e pentagono regolare, generano dei solidi come quelli che abbiamo visto, cioè dei solidi regolari. Come mai? C'è una dimostrazione che non è il caso di fare oggi, ma la cosa importante è che questa dimostrazione fu trovata dai greci, cioè da Teeteto e in realtà Platone già la conosceva e questo dimostra come Platone fosse al corrente degli ultimi sviluppi della matematica del suo secolo e anche insomma del suo tempo. Platone, come ho appunto detto, ne parla nel Timeo e soprattutto la teoria matematica di questi solidi sarà poi sviluppata perfettamente da Euclide nel suo monumento alla geometria che si chiama “Gli elementi di geometria”, nell'ultimo libro, il tredicesimo, che è quello che conclude quest'opera maestosa, questa sinfonia.. Nell'ultimo libro Euclide dimostra che si sono soltanto questi cinque solidi, cioè dimostra il teorema di Teeteto e fa vedere come costruirli soprattutto, perché non è affatto facile, soprattutto nel caso di quelli più complicati come il dodecaedro, che è fatto appunto di 12 facce pentagonali e l’icosaedro di 20 facce triangolari. Voi direte che cosa c'entra tutto questo con la cosmologia e con l'immagine del mondo? Ebbene c'entra, perché per Platone, vi faccio un esempio soltanto ovviamente perché come vi ho detto il Timeo è un dialogo, molto complicato, molto difficile da leggere, ma è un esempio molto illuminante perché fa vedere come Platone avesse già in mente in realtà l'idea fondamentale della scienza e della chimica moderna. Secondo Platone l'acqua è un qualche cosa, è un corpo fatto di una parte di fuoco e due parti d'aria. Ora nella cosmologia platonica l'acqua veniva identificata con l’icosaedro, il solido che è fatto di 20 facce triangolari; il fuoco era identificato con il Acqua = un corpo di fuoco tetraedro e l'aria era identificata con l’ottaedro. Allora state attenti, e due d’aria perchè se andiamo a vedere il numero di facce che corrispondono al tetraedro, che come ho detto sono quattro facce triangolari e il icosaedro = un tetraedro e numero che corrisponde ad un ottaedro, che come dice il nome sono due ottaedri 8 facce triangolari, ebbene se prendiamo un tetraedro e due ottaedri abbiamo quattro facce per il tetraedro, 16 per i due ottaedri, perché 20 = 4 + 16 sono 2 x 8, allora 16+4 fa 20 e 20 diventa l’icosaedro. Ora questo è strabiliante, perché oggi noi sappiamo che la molecola di acqua, oggi noi diremo, è fatta non di un corpo, ma è fatta appunto di atomi, un atomo di ossigeno e due atomi di idrogeno, la famosa formula H2O eccola qui fatta in maniera geometrica, la stessa formula che oggi ancora noi ripetiamo da un punto di vista chimico. Quindi vedete come leggendo Platone, già si scoprono in nuce, in embrione le teorie che poi diventeranno la scienza e poi la chimica moderna. Passiamo ora a cose più vicino a noi, cioè all'aritmetica e alla geometria. Nei dialoghi di Platone si scoprono molti di questi risultati ed in particolare i dialoghi aritmetici che sono il “Menone”, il “Teeteto” e “Le leggi”, riportano dei fatti, dei risultati, dei teoremi che furono scoperti appunto dai greci e di cui brevemente vorrei parlare, per farvi vedere anche come nei dialoghi filosofici, cioè in quella che oggi viene considerata filosofia, quella che si insegna nei licei e nell'università,come filosofia, in realtà ci fosse molta matematica, anzi non ci fosse nemmeno la distinzione tra filosofia e matematica, come se fossero la stessa cosa. Nel Menone c'è il problema delle radici quadrate, nel Teeteto, il problema delle radici arbitrarie, cioè radici non soltanto di 2, ma radici di 3, radici di 4 e così via e nelle “Leggi” c'è un problema legato al fattoriale, che vediamo uno per uno adesso un pochettino Aritmetica più nel dettaglio. Ora incominciamo col Menone: sul Menone c'è ¾ Menone: radici quadrate poco da riflettere, c'è poco da soffermarci, perché lo abbiamo già 40 ¾ Teereto: radici arbitrarie considerato abbastanza la scorsa volta quando abbiamo parlato di ¾ Leggi: fattoriale Pitagora; vi ricordo soltanto che questa è la figura principale che appare nel Menone, che è questo triangolo rettangolare, che è un triangolo particolare perché i due cateti, cioè la base e l'altezza sono due lati della stessa lunghezza, un triangolo è un rettangolo equilatero in questo senso. Il problema che si pone Menone o meglio che Socrate pone allo schiavo, che rappresenta il personaggio di cui si parla nel Menone, è precisamente com’è possibile raddoppiare l'area di un quadrato. La soluzione che lo schiavo trova in questo processo di anamnesi, cioè che Socrate gliela tira fuori praticamente dalla bocca pezzo per pezzo, è che per raddoppiare l'area d'un quadrato come questo qui, bisogna costruire un quadrato sull'ipotenusa o diagonale. Il Menone è importante perché è la prima testimonianza storica di una dimostrazione. Voi direte, ma come la matematica non c'era prima di greci? Certo, c'era matematica in Egitto, c'era matematica in Babilonia e ce n'erano parecchi, ma non c'erano dimostrazioni. Il problema della dimostrazione, l'idea che fosse necessario dimostrare i risultati che venivano in qualche modo indovinati o di divinati, l'idea che bisognasse dimostrarlo è un idea che risale probabilmente a Talette, verso 6oo a.C., ma noi non abbiamo testimonianze storiche di dimostrazioni matematiche fino al Menone, cioè per l’appunto nel quarto secolo a. C. Il Menone, questa storia del dialogo tra Socrate e lo schiavo, è precisamente la prima registrazione di una dimostrazione, in particolare di uno dei teoremo più noti, cioè una forma speciale del teorema di Pitagora. Come dicevo, su questo abbiamo già discusso la scorsa volta, ne abbiamo già parlato e quindi è meglio invece che andiamo a vedere altre cose e in particolare quest’altro aspetto che si trova nel Teeteto. Teeteto, come vi ho detto, è il nome di questo matematico che, tra le altre cose, dimostrò che ci sono soltanto cinque solidi regolari, i famosi cinque solidi platonici. Nel Teeteto, in questo dialogo platonico, lui è il personaggio principale, è lui che parla, è lui il protagonista del dialogo ed in particolare si racconta ad un certo punto di questo problema, cioè che la radice quadrata di un numero intero, che non sia un quadrato, è un numero irrazionale. Cosa vuol dire questo? La cosa è innanzi tutto interessante già da un punto di vista matematico, quindi cerchiamo di capirla meglio, di affrontarla più da vicino. Il disegno precedente, cioè il problema de l Menone, faceva vedere la diagonale di un quadrato; ora se quel quadrato, noi supponiamo che abbia lato unitario, cioè il cui lato sia 1, ebbene la diagonale, sappiamo tutti per il teorema di Pitagora, ha come lunghezza la radice di 2. Ora radice di 2, per il grosso risultato a cui ho accennato prima, causò la crisi dei fondamenti della matematica pitagorica, perchè la radice di 2 è un numero irrazionale, cioè che non si può scrivere come rapporto di due numeri interi. Ebbene, ciò che Teeteto dimostrò, fu che in realtà questo è vero, non soltanto per la radice quadrata di 2, ma è vero anche per la radice di 3, è vero per la radice di 5, di 6, di 7, di 8, di 10, di 11, di 12 e così via, cioè è vero per la radice quadrata di qualunque numero intero che non sia ovviamente già un quadrato, cioè nel caso di 4 è chiaro che la radice di 4 è 2, nel caso di 9 la radice quadrata di 9 è 3, nel caso di 16 la radice quadrata di 16 è 4 e così via, ma a parte i numeri che sono già dei quadrati e cioè 4, 9, 16, 25 e così via, le radici di ogni altro numero provocano dei numeri irrazionali, cioè diventano dei numeri irrazionali. Ora la cosa interessante è che nel Teeteto c'è anche una testimonianza storica, perché si dice che Teeteto fu colui che dimostrò questo teorema e che prima di lui si sapeva soltanto che il risultato era vero, cioè che la radice di un numero che non sia un quadrato è irrazionale soltanto per numeri fino a 17, come mai fino a 17 ? Questo non lo sa nessuno, ma si suppone che il motivo fosse nascosto nella figura che sta al fondo della slide, cioè se noi prendiamo il primo triangolo, qui è raffigurata la radice di 2 , poi la radice di 3 con il secondo triangolo, poi la radice di 4, poi la radice di 5 e così via e se facciamo tutta la spirale ad un certo punto concludiamo la spirale con la radice di 17. Il problema è che quando arriviamo a 17 non si può più fare da un punto di vista geometrico la figura, bisognerebbe incominciare a scrivere sulla sabbia oltre questa spirale, cioè la spirale si avvolge su se stessa; quindi si pensa che, il motivo per il quale prima di 41 Teeteto si sapesse che la radice di un numero che non fosse quadrato era irrazionale soltanto fino al 17, è forse proprio questo perché si aveva un’idea geometrica della cosa, mentre invece probabilmente Teeteto dimostrò la cosa in maniera aritmetica, cioè fece un passo avanti. La dimostrazione di questo risultato Platone non ce la dice, ci dice solo che Teeteto trovò il risultato, comunque questo è una conseguenza, è una testimonianza del fatto che Platone conoscesse effettivamente molta matematica. Invece questa è una curiosità che si trova nelle Leggi, quel famoso dialogo di cui vi ho detto prima, il più lungo dialogo fra quelli platonici: ad un certo punto Platone si pone il problema di come dividere un appezzamento in parti, perché? Ma perché ovviamente sarebbe interessante riuscire a dividere un appezzamento in un numero di parti che avesse molti divisori, cosicché quando c'è bisogno di fare eredità, per esempio di smembrare quest'appezzamento, lo si può fare in tanti modi diversi. Ebbene, ad un certo punto, in questo dialogo Platone considera il numero 5040. Dice che sarebbe interessante che un appezzamento avesse area 5040 m2 Leggi oppure acri e così via. Come mai 5040? Se ci pensate per un 5040 = 1x2x3x4x5x6x7 momentino forse vi trovate anche voi la soluzione; 5040 non è nient'altro che il prodotto di tutti i numeri fino a sette, cioè di = 24 x32 x5x7 Divisori = 5x3x2x2 – 1 = 59 1 x 2 x 3 e 4 x 5 x 6 x 7, è quello che i matematici chiamerebbero oggi il fattoriale di sette, che viene scritto come 7!, cioè 7 con un punto esclamativo, che non è una affermazione, ma è semplicemente un modo per scrivere appunto questo prodotto. Ebbene, se voi guardate questo prodotto, qui c'è un 2, poi ci sono altri 2 nel 4 e poi ce ne ancora uno nel 6, quindi il prodotto dei 2 è 2 4; poi abbiamo il 3 che compare una volta nel 3 e un’altra volta nel 6 e quindi il prodotto dei 3 è 3 2 ; poi abbiamo un 51 e poi 71. Se voi andate a vedere quanti sono i possibili divisori di questo numero, ebbene ce ne sono cinque, perché qui c'è un 2 esponente 4, poi ce ne sono altri tre perchè c’è un 3 con esponente 2, poi ce ne sono altri due che derivano dal fatto che abbiamo un 5 ed un 7 hanno esponente 1, cioè ogni volta che c'è un esponente c'è un divisore in più e quindi ci sono tutti questi quadrati meno uno, perché ovviamente il numero stesso 5040 non ci interessa come divisore. Ebbene, questo numero è 59. Io ho fatto tutti i conti, per l’appunto ve lo fatto vedere, il numero dei divisori di 5040 è 59, ebbene lo sapeva anche Platone. Platone non dice com’è arrivato a questo risultato, però dice che è bene prendere gli apprezzamenti di area 5040, perché li si possono dividere in 59 modi diversi e quindi sono apprezzamenti che si prestano molto bene all'eredità e allo smembramento. Quindi vedete come e non a caso tra l’altro che questo veniva appunto fatto nelle leggi, perché bisognava imporre con una legislatura queste misure. Passiamo ora finalmente a cose che sono più vicine a quelle di cui dovremo interessarci in questo corso, cioè la logica. Ebbene i dialoghi logici di Platone sono parecchi, questi sono i più importanti: il Cratilo, il Teeteto di nuovo, perché è uno dei dialoghi più importanti che parlano di argomenti scientifici, il Sofista e la Repubblica nuovamente, uno dei grandi dialoghi. Andiamo a vedere quali sono stati, non soltanto in ciascun dialogo, ma nella loro Logica globalità le innovazioni, le scoperte di Platone per quanto riguarda la logica. Ebbene la prima scoperta importante fu che Platone capì ¾ Cratilo ¾ Teeteto come bisognava intendere la negazione. Ho scritto nella slide “contro Parmenide”, che è questo signore raffigurato in questa statua, nel senso ¾ Sofista che Parmenide credeva che la negazione fosse qualche cosa di ¾ Repubblica ¾ contraddittorio. Chi di voi ha studiato filosofia, anche al liceo per esempio o nelle scuole superiori, si ricorderà che Parmenide aveva un problema col “non essere” e pensava che il “non essere” fosse qualche cosa di contraddittorio perché il “non essere”, se ci fosse, sarebbe da una parte qualche cosa che è e dall'altra parte qualche cosa che non è, quindi ci sarebbe questa contraddizione. . Platone capì che la negazione nel modo in cui la usava Parmenide era una negazione sbagliata. Si trattava di una negazione assoluta che non aveva senso, bisogna considerare soltanto negazioni relative, cioè dire delle cose non che sono o non sono, ma che sono qualche cosa, che hanno certe proprietà o che non hanno quella proprietà; per esempio una rosa può essere rossa, ma una rosa che non è rossa, non significa che non c'è come rosa, ma semplicemente che ha un colore diverso dal rosa. Questo oggi ci appare talmente lapalissiano che si può sembrare strano che qualcuno lo abbia 42 anche pensato. Il problema è che ci appare lapalissiano perché questo è diventato il nostro modo di pensare e questo modo di pensare si scopre appunto nei dialoghi platonici dedicati alla logica, quindi in particolare abbiamo questo primo avanzamento, la scoperta della negazione. Successivamente direi soprattutto nel dialogo “i sofisti”, contro i sofisti Platone introdusse quello che oggi noi chiameremo “principio di non contraddizione”, cioè il fatto che non è possibile negare e affermare nello stesso tempo una stessa cosa. Ora, oggi di nuovo, moltissime persone lo fanno nei tribunali, nei parlamenti, è tipico degli avvocati, è tipico dei politici fare queste cose sistematicamente, dire una cosa e immediatamente dopo negarla, ma questo, tutti noi sappiamo, è qualche cosa che va contro la logica. All'epoca non lo sapevano tutti, anzi Platone è stato il primo che ha scoperto, per l’appunto, che ci volesse, ci fosse bisogno di questo principio di non contraddizione. I sofisti invece non lo sapevano o perlomeno facevano finta di non saperlo e quindi basavano il loro insegnamento su questo atteggiamento dialettico, un momento si diceva una cosa , un momento dopo si diceva l’esatto contrario di quella e ovviamente,allora qualunque ragionamento funzionava o nessun ragionamento funzionava, perché se non c'è il principio di non contraddizione l'intera impalcatura della logica crolla. Quindi questi sono i due risultati principali diciamo di Platone, ma c'è un altro risultato che in genere viene attribuito ad Aristotele e in realtà si trova già in parecchi dei dialoghi di Platone, cioè la “definizione della verità”. Detta oggi, la definizione di verità fa quasi venire mal di testa. Che cosa è vero, dice Platone? E’ vero “dire di ciò che è che è” e “dire di ciò che non è che non è”, cioè è Definizione di verità vero tutto ciò che viene detto e che in realtà si accorda con Vero ciò che succede effettivamente nel mondo. E che cos'è falso? = dire ciò che è che è L'esatto contrario é falso “dire di ciò che è che non è” e “dire = dire di ciò che non è che non è di ciò che non è che è”, cioè in altre parole non è possibile parlare in maniera veritiera, cioè si dice il falso quando si dice il contrario di ciò che effettivamente succede. Ora, di nuovo, questa è una cosa lapalissiana che però si pensa, si pensava quasi sempre, sia stata scoperta da Aristotele, mentre invece già nei dialoghi di Platone c’è. Quindi vedete come tra il principio di non contraddizione, tra il fatto che Platone scoprì l'uso corretto della negazione e il fatto che scoprì la definizione di verità, anche soltanto queste cose, soltanto tra virgolette, sarebbero sufficienti a fare di Platone un grandissimo logico e un grandissimo matematico. Non è soltanto questo che Platone fece, Platone incominciò a isolare la struttura linguistica e a cercare l'analisi logica, l'analisi logica che distingue, da una parte il soggetto e dall'altra parte il predicato, che distingue da una parte il senso, cioè come vengono dette le cose e dall'altra parte il significato, cioè che cosa viene detto e infine che distingue da una parte il nome il nome e dall’altra parte la cosa. Anche queste sono cose molto difficili da distinguere, perché all'epoca il linguaggio aveva una valenza magica, parlare e fare erano praticamente la stessa cosa, le formule magiche, le preghiere che ancora oggi molti di noi recitano per ottenere qualche cosa, l'idea che sia possibile cambiare il mondo semplicemente parlando, ebbene queste cose erano ancora confuse all'epoca. Platone capii benissimo la differenza tra le cose che stanno nel mondo e i nomi che invece stanno nel linguaggio, quindi effettivamente questo grande risultato. Capì inoltre anche “il principio di identità”, il fatto che le cose sono uguali a se stesse e sono diverse da tutte le altre e su questa identità, nel Timeo, tra l’altro, Platone pone in realtà i fondamenti dell'universo, cioè sostiene che il Identità mondo effettivamente fu plasmato dal demiurgo, fu modellato dal ¾ Origini del mondo demiurgo sulla base del principio di identità, che è quello che ho ¾ Ogni cosa è uguale a se stessa scritto qui sopra e qui sotto, ogni cosa è uguale a se stessa. Che altro fece Platone nei suoi dialoghi logici? Fece una cosa molto importante, che di nuovo oggi è quasi una scoperta per coloro che la conoscono, cioè che questa scoperta già si trova nei dialoghi platonici e fu quella che oggi viene chiamato “l'albero di Porfirio”. L'albero di Porfirio è in maniera figurata rappresentato nella slide sulla destra in alto, cioè 43 è semplicemente il cercare di dare la definizione di un qualche oggetto, incominciando a dividere per casi . Ancora oggi in genere si dice i casi sono due, cioè uno e tutti gli altri ovviamente. Ebbene questa è la cosiddetta divisione dicotomica, cioè una divisione binaria in cui le cose vengono distinte tra quelle che hanno una certa proprietà e quelle che non ce l'hanno e poi all'interno delle cose che hanno una certa proprietà, una seconda divisione distingue le cose che hanno quella seconda proprietà da quelle che non ce l'hanno e così via. Ebbene questo modo di indagare che appunto Platone identificava con l'arte della dialettica, che noi oggi chiamiamo “albero di Porfirio” è quella che i logici chiamano “la forma normale disgiuntiva delle proposizioni” ed è precisamente un tentativo di dare definizioni di qualche oggetto, cercando di andare ad analizzare tutti i possibili casi che possono capitare e cercando di mettersi nell'unico ramo di questo albero che appartiene alla cosa di cui si sta parlando. Naturalmente la cosa più importante che Platone fece e che da un punto di vista sia logico che matematico e filosofico, che oggi ancora c’è lo ricorda, è la famosa “teoria delle idee”, che qui viene scherzosamente rappresentata attraverso la lampadina che si accende. Ovviamente le idee platoniche non sono quel tipo di idee lì, non sono le idee quando noi diciamo: ah, me venuta un idea!, ma sono cose un pochettino diverse. Oggi noi diremo che le idee sono il tentativo platonico di capire la differenza tra unità e molteplicità, cioè il fatto che le cose in qualche modo quando le si guarda da un certo punto di vista, appaiono come un tutto unico e che poi invece quando si vada ad analizzarle appaiono come un qualche cosa che è molteplice. Per esempio un Parlamento: il Parlamento è ovviamente un'entità astratta, un'idea, per l’appunto, che è una unità quando si parla del Parlamento, non a caso si usa l'articolo determinativo, il Parlamento, uno Parlamento. quando però si va a vedere dentro il Parlamento, si vede che questo Parlamento è costituito di parlamentari e dunque c’è anche questa molteplicità, ad esempio in Italia abbiamo circa un migliaio di parlamentari tra deputati e senatori. Ecco questa divisione, questa dicotomia, quest'alternanza di modi di vista, che guardano uno stesso oggetto, uno stesso argomento da due punti che sono complementari, che sono distinti, ma anche legati, cioè da una parte l'unità, che fa sì che quell’oggetto sia un oggetto e dall'altra parte la molteplicità, che ci dice come quell'unico oggetto è costituito di parti, cioè il tutto e le parti sono precisamente le due distinzioni importanti che Platone fece nella sua teoria delle idee. La teoria delle idee era praticamente una teoria di natura matematica che quest’oggi invece viene contrabbandata, insegnata come una teoria filosofica, anche un pochettino strana, un pochettino metafisica, ma in realtà idea in greco voleva dire semplicemente forma. La parola greca è eidòs e eidòs vuole dire precisamente forma, cioè quello che Platone voleva fare era cercare di fare una teoria degli oggetti matematici. Platone si pone la domanda espressamente in tanti dialoghi, ma soprattutto nei dialoghi logici, in particolare nella Repubblica, che è un po' la summa del suo pensiero, in cui la teoria dell'idee ha la sua formulazione quasi definitiva, ebbene la domanda fondamentale che un filosofo dell’epoca, la cui filosofia come abbiamo detto agli inizi era praticamente coincidente con la matematica, è la seguente: che cosa sono gli oggetti della matematica? Ho detto agli inizi che gli oggetti della matematica dell'epoca di Platone erano gli oggetti geometrici, perché i numeri erano stati un po' accantonati dopo il problema pitagorico, dopo la scoperta degli irrazionali, perciò Platone si pone la domanda “che cosa sono gli oggetti geometrici”, perché quella era per lui la matematica. Tra gli oggetti geometrici prendiamo per esempio un triangolo, ebbene noi possiamo fare la figura di un triangolo, prima abbiamo visto alcuni triangoli che componevano dei solidi platonici, però i triangoli che noi facciamo, i triangoli che noi disegniamo sulla carta o loro greci disegnavano sulla sabbia, erano ovviamente e sono triangoli imperfetti. Se noi andiamo a vederli col microscopio, se cerchiamo di allargare le loro dimensioni, vediamo che le linee che dovrebbero essere rette in realtà non sono proprio perfettamente rette, gli angoli che dovrebbero essere uguali, magari non sono perfettamente uguali e così via. Allora queste figure non sono certamente ciò di cui parla la matematica e la geometria, perché la geometria si interessa di enti astratti, non delle loro rappresentazioni concrete sulla sabbia, sui fogli o sullo schermo e così via. Allora la domanda platonica era, per l’appunto, ma allora che cosa sono queste figure geometriche? E la risposta che Platone si dà è precisamente quella che oggi di nuovo è lapalissiana, perché noi l’abbiamo semplicemente interiorizzata e l'abbiamo imparata, cioè abbiamo imparato semplicemente a pensare in questi termini. La risposta è: il 44 triangolo non è il particolare triangolo che si trova disegnato o che noi cerchiamo di disegnare, ma è ciò che c'è di comune a tutti questi triangoli, cioè la loro forma ed in greco, per l’appunto ripeto, sottolineo, forma si diceva eidòs, cioè l'idea del triangolo è ciò di cui parlano i matematici e non le concretizzazione reali dei triangoli nel mondo quotidiano ed ecco che questa teoria delle idee divenne il fondamento di una metafisica. Per Platone il triangolo che c'è quaggiù sul mondo, che c'è quaggiù sulla sabbia, sul foglio è qualche cosa che in qualche modo è la proiezione del triangolo che sta lassù, tra virgolette, nei cieli, cioè la forma perfetta che quando viene proiettata nel nostro mondo diventa imperfetta, perché si adatta a quello che è la realtà. Ed ecco allora di qui il famoso mito della caverna, cioè che noi vediamo queste ombre, crediamo che queste ombre, cioè le proiezione delle cose siano le cose stesse e non capiamo che dietro a queste proiezioni in realtà c'è ciò che viene proiettata, cioè l'idea astratta. Ed ecco che allora l'idea metafisica in qualche modo si decostruisce e si capisce anche meglio, parlando da un punto di vista matematico, che cosa Platone aveva in mente. Questa teoria delle idee poi confluirà nella grande sintesi della matematica di fine ‘800 e inizio ‘900, cioè in quella che viene chiamata la teoria degli insiemi di Cantor, Frege di cui abbiamo accennato in una delle lezioni introduttive, sui quali torneremo quando parleremo di questi personaggi. Per concludere questa lezione su Platone volevo in qualche modo dire che Platone non ha fatto soltanto cose corrette, ma questo non è importante perché Platone non era un dio, era un filosofo, era qualcuno che aveva capito molte cose, ma certe cose non le aveva capite. In particolare ci sono degli errori nella filosofia platonica e c'è un errore che lui fa sistematicamente in quasi tutti i dialoghi e qui c'è un esempio, la frase che dice “se l'anima temperante è buona, l'anima non temperante è cattiva”. Se voi ci pensate un momento, questo è quello che Errori i logici chiamerebbero un “non sequitur”, perché se l'anima Se l’anima temperante è buona, temperante, cioè l'anima che agisce nei modi propri dell'etica, l’anima non temporanea è cattiva cioè secondo il giusto mezzo, è buona, allora se abbiamo di fronte qualche cosa che non è buona, possiamo dedurre da ciò che l'anima non è temperante, ma il fatto che l'anima non sia temperante, non significa che questa è cattiva, cioè non deriva dalla frase precedente. La stessa cosa che dire “se piove esco con l'ombrello”, questo non vuol dire che “se non piove, non esco con l'ombrello, ma ho voluto soltanto dire che, se non sono uscito con ombrello, allora non piove, perché ogni volta che piove esco con ombrello. Bene, quindi questo per dire che effettivamente ci sono degli errori anche in Platone, ma la nostra lezione è finita. 45 LEZIONE 6: Una metafisica liceale Benvenuti ad una delle lezioni più importanti della logica matematica. Nelle precedenti lezioni abbiamo anzi tutto introdotto l'argomento e poi nelle ultime due abbiamo parlato di due grandi personaggi, Pitagora da una parte e Platone dall'altra. Pitagora è stato un grandissimo matematico, forse il primo grande matematico della storia greca, matematico universale in questo senso e Platone è stato forse il primo grande filosofo universale del pensiero greco, però di tutti e due abbiamo in qualche modo parlato anche di altri contributi, in particolare della matematica di Pitagora e della filosofia di Platone, che era una filosofia prettamente matematica che ha dato anche dei contributi sostanziosi e sostanziali alla logica matematica, ma quando si parla di logica matematica o più in generale della logica e quando si parla della logica greca il nome che viene subito in mente è ovviamente quello di Aristotele, perchè è considerato ancora oggi, praticamente 2500 anni dopo, il più grande logico che sia mai esistito. Aristotele è stato un sistematore, è stato un innovatore, ha portato degli enormi contributi e questo oggi cercheremo di rivedere e di spiegare insieme. La nostra lezione si chiama “una metafisica liceale” in maniera un pochettino scherzosa, per sottolineare due degli aspetti della vita e dell'opera di Aristotele. Una delle sue opere più importanti è “la metafisica”, forse la novità più rilevante da un p. di v. logico, però in uno di capitoli o libri, come si chiamavano allora, cioè il libro quarto, il cosiddetto libro gamma della metafisica, ci sono dei contributi essenziali che tra breve cercheremo di ricordare e oltre questo grande libro anche nel il “Liceo” . Il liceale non è ovviamente un aggettivo denigratorio, non ho inteso dire che in realtà la metafisica di Aristotele era semplicemente cose da liceale, il Liceo era la Scuola che Platone fondò, ma prima di arrivare a questi sviluppi cerchiamo di inquadrare meglio la sua figura sia come studente, sia nei primi passi della sua carriera di insegnante. Aristotele si situa anche lui, nel quarto secolo a.C., nacque nel 384, morì nel 321 ed è questo signore nella slide che fu immortalato nella Scuola di Atene di Raffaello. Ebbene agli inizi della sua carriera da studente, come spesso succede a tanti che poi diventeranno professori, andò a scuola. Vedete nella slide che tra i 367 e 347, per venti anni, Aristotele stava a scuola, non come si farebbe oggi, come fanno i nostri allievi, stanno a scuola venti anni per prendere una laurea, ma semplicemente perché prese quello che sarebbe l'equivalente all'epoca del titolo di studio e poi incominciò a fare l'assistente, noi diremmo oggi, di Platone. Era allievo di Platone all'Accademia, a questa grande Scuola che all'epoca era l’unica Scuola che esisteva o la più grande Scuola che esisteva ad Atene. Era stata fondata da Platone stesso, si chiamava Accademia in onore dell'eroe Accademo, ebbene Aristotele fu praticamente l'allievo prediletto di Platone e lui stesso sperava, che alla morte di Platone, avrebbe potuto succedergli alla guida dell'Accademia e infatti per venti anni lavorò col maestro, imparò ciò che Platone aveva da insegnare e non era poco ovviamente. Ricordatevi anche, tra l'altro, che una buona parte dell'insegnamento platonico avveniva oralmente e quindi effettivamente Aristotele poté abbeverarsi direttamente alle fonti dell'insegnamento platonico. Quando però Platone morì il suo sogno di diventare direttore, rettore diremo noi oggi, della Scuola dell'Accademia, non si avverò e quindi Aristotele fu costretto ad andarsene da Atene, girovagò per un po' di tempo, ma poi trovò lavoro, trovò lavoro perché suo padre era amico del re di Macedonia; questo re di Macedonia aveva un figlio, questo figlio aveva bisogno di studiare da re, come si dice, si chiamava Alessandro il Macedone, nientepopodimeno. Ecco che per cinque anni, tra il 342 e il 347, Aristotele insegnò, fece il tutore di quello che poi sarebbe diventato Alessandro Magno, ma che all'epoca era semplicemente il principe ereditario Alessandro il Macedone. Aristotele non fu un'insegnante qualunque per Alessandro, anzi oggi noi possiamo dire che, se effettivamente Alessandro è diventato quello che è diventato, è stato 46 grazie ad Aristotele o per colpa, a seconda di come lo si voglia vedere, se uno è pacifista o guerrafondaio, perché Aristotele gli installò nella mente, gli insegnò l’idea che la cultura greca era la vera cultura, la cultura con la C maiuscola ed era una cultura che aveva un destino di potenza, diremmo noi oggi dopo il ‘900, cioè aveva una tale grandiosità ed era così profonda che aveva quasi il diritto di potersi espandere per il mondo intero e di diventare la cultura del mondo. Ebbene Alessandro imparò queste cose, imparò da Aristotele soprattutto la cultura greca, la filosofia greca, la filosofia platonica e Aristotelica e poi incominciò a mettere in pratica, a concretizzare il sogno del maestro, cioè si mosse, incominciò a conquistare il paese vicino, andò fino all'India, come sapete, andò fino in Egitto, il suo impero enorme fu veramente la prima realizzazione di questo ideale di conquista culturale, oltre che militare ovviamente del mondo, da parte dei greci. L'impero, come sapete tutti, durò poco, perché Alessandro morì giovane, all'età di trent'anni o poco più; però in realtà Aristotele lasciò l'impronta attraverso questo suo pupillo nella storia, ma ovviamente quello che a noi interessa non è la storia militare e la storia politica, ma è la storia delle idee, la storia della filosofia e qui Aristotele viene ricordato allo stesso modo in cui in politica si ricorda oggi o nella storia si ricorda Alessandro Magno, è stato un conquistatore anche lui, ma non conquistatore di terreni, bensì conquistatore di idee. Vediamo da vicino che cosa successe subito dopo. Ritornato ad Atene nel 335 a.C., finalmente Aristotele poté coronare il suo sogno di diventare rettore, ma non rettore dell'Accademia, perché l'Accademia continuò ad esistere e fu una Scuola alternativa, in qualche modo a quella che fondò Aristotele, che invece si chiamava “Il Liceo”. Anche qui, il nome deriva semplicemente dal fatto che era in un parco dedicato ad Apollo licio. Vedete qui, alcuni studenti che non sono ovviamente studenti del liceo di Aristotele, ma questa è l’idea, perché questi capelli che oggi identificano gli studenti delle università americane sono in realtà il simbolo di quello che Aristotele fece effettivamente; l'Accademia ovviamente era una scuola di quelle che oggi noi chiameremo liceali, ebbene invece il liceo di Aristotele fu veramente la prima università e addirittura la prima facoltà di scienze, perché Aristotele insegnava praticamente tutte le materie; insegnava la fisica, la biologia, la filosofia naturalmente e così via. Era effettivamente il maestro, il tutore, era il professore tra l'altro, faceva quasi tutti i corsi lui, però aveva naturalmente una gran numero di assistenti che sguinzagliò a fare ricerche e moltissimi dei suoi libri, i libri che oggi ci rimangono di questa sterminata opera, che è l'opera di Aristotele, sono costituiti dagli appunti delle lezioni che Aristotele teneva e dalle ricerche, oggi diremmo, dai lavori che venivano pubblicati degli studenti di questo grande Liceo. Ebbene le opere di Aristotele che ho appena citato sono una cosa enorme veramente; si dice che sono state calcolate addirittura il numero di righe di cui esse si compongono, sono quasi mezzo milione di righe di lavoro. Ora vedete qui nella slide due parole che si ripetono, di cui cioè ne abbiamo già parlato a proposito di Pitagora, le abbiamo ripetute a proposito di Platone e anche nel caso di Aristotele c'e questa divisione fra l'insegnamento esoterico e l'insegnamento essoterico. Ricordate l'insegnamento essoterico, oggi praticamente le conferenze divulgative, era quello dedicato a quelli che i greci chiamavano gli acusmatici, cioè gli uditori cioè il professore che va, spiega in parole povere, come diremmo noi o forse attraverso metafore letterarie, però in maniera discorsiva, ciò che in realtà si fa dietro le quinte. Dietro le quinte invece si facevano appunto delle cose esoteriche, cioè nascoste, per iniziati e gli esoterici erano coloro che non erano soltanto uditori, ma coloro che anche volevano apprendere, gli apprendisti che i greci li chiamavano matematici, cioè la parola matematica deriva precisamente da questo, cioè dal fatto che i matematici erano gli apprendisti del sapere che non veniva divulgato, non veniva detto a tutti, anche perché aveva una certa complicazione, ma veniva soltanto discusso nelle cerchie interne. Ebbene di queste opere che Aristotele scrisse, ce ne furono di esoteriche e ce ne furono di essoteriche. Aristotele esattamente come Platone scrisse una grandissima quantità di dialoghi. Alcuni di questi dialoghi erano ancora considerati al tempo dei romani come delle cose 47 veramente ispiratrici. Addirittura Cicerone ci racconta di aver letto un dialogo di Aristotele che oggi è perduto, che si chiama “il protrepticon” e di aver dedotto o ricavato dalla lettura di questo dialogo l’ispirazione anche per la sua carriera politica, per le idee etiche che poi professò nella sua vita. Ebbene tutte queste opere essoteriche di Aristotele sono andate perdute. Oggi noi non abbiamo più nulla di divulgativo di Aristotele stesso, ciò che lui scrisse per il pubblico, per la gente, ciò che scrisse di divulgativo è andato perduto. Cosa ci rimane delle opere di Aristotele? Purtroppo per un motivo che spiegherò tra breve, ci rimangono soltanto le opere esoteriche. E’ come se oggi di Einstein, per esempio, ci rimanessero soltanto i lavori scritti della relatività, della meccanica dei quanti, eccetera, ma non quelle grandi opere di divulgazione che sono poi quelle che hanno fatto conoscere Einstein al grande pubblico, perché il pubblico ovviamente non si mette a leggere gli articolo tecnici, gli articoli dove ci sono i calcoli matematici, si mette a leggere le spiegazioni più in generale. Ebbene di tutto quello che Aristotele scrisse in questo campo, appunto delle opere esoteriche, non rimane più nulla, rimangono soltanto più le cose che sono state prese, gli appunti che sono stati presi dagli studenti, i suoi appunti per le lezioni. In effetti quando si leggono queste opere di Aristotele purtroppo la cosa si vede; la differenza tra Platone e Aristotele sta proprio in questo, che di Platone ci sono rimaste soltanto le opere esoteriche, soltanto le opere di divulgazione, cioè soltanto le opere che ha senso leggere e che diverte leggere, mentre di Aristotele ci sono rimaste soltanto le altre, cioè soltanto le opere dure per così dire, soltanto le opere di ricerca, che ovviamente passano di moda molto velocemente. Anche oggi leggere, agli inizi del 2000, le ricerche fondamentali, ma originali dei grandi fisici, per l'esempio del ‘900, è una cosa che fanno ormai soltanto gli storici, perchè il linguaggio è passato, le cose si possono fare più facilmente in un altro modo, eccetera e quindi leggere gli originali è qualche cosa che non serve più, diciamo così, a trasportare questo sapere. Purtroppo di Aristotele, come dicevo, c'è rimasto solo quello e quello dobbiamo sorbire, c'è poco da fare, ma in queste opere esoteriche, cioè in questi appunti di lezioni, in questi lavori di ricerca, c'è veramente una miniera e soprattutto c'è anche una miniera di cose logiche. Ora incominciamo anzi tutto a parlare di ciò che successe nel primo grande libro che Aristotele scrisse, cioè la metafisica. La metafisica di nuovo è un nome che oggi viene usato spesse volte, si chiama metafisica tutto ciò che ha a Metafisica che vedere con qualche cosa che è al di là del mondo fisico, metafisica (Libro IV) significa per l’appunto questo, oltre la fisica, però all'epoca metafisica Assiomi dell’essere voleva dire una cosa molto pratica, cioè quando Aristotele morì e i suoi allievi, i suoi esecutori testamentari, diremmo oggi, misero in ordine le sue opere, arrivati ad un certo punto, pubblicarono le opere di fisica e poi ci fu una collezione di opere che veniva dopo quelle di fisica, non sapendo come chiamarle, perché in realtà si parlava di molti argomenti separatamente ed era un po' un'accozzaglia di cose diverse, di libri di diverse ispirazioni, allora i suoi esecutori chiamarono questa opera la metafisica, cioè l'opera che viene dopo la fisica. Ed ecco, vedete, come i nomi a volte prendono un loro sapore e una loro identità diversa. Oggi metafisica vuol dire una cosa completamente diversa, vuol dire appunto ciò di cui si parlava in quelle opere che venivano dopo la fisica. In particolare, lo già citato prima, nella metafisica c’è un libro che è veramente importante dal punto di vista logico ed è il cosiddetto libro quarto. Anche la metafisica stessa è un insieme di opere, 12-13, una dozzina di opere separate, scritte in periodi diversi della vita di Aristotele, non tutti scritti da lui, alcuni appunto scritti dai suoi studenti; quindi un'opera molto difficile che oggi nessuno leggerebbe dall'a alla zeta, perché non ha nemmeno una sua unità, ma per coloro che si interessavano di logica, il libro quarto, che poi si chiama libro, ma che in realtà è un piccolo capitolo, un fascicolo, in realtà nelle libro quarto si trovano quelli che oggi vengono chiamati gli “assiomi dell'essere”, cioè le due proprietà fondamentali dell’essere. Ricordatevi che ovviamente stiamo parlando degli albori del pensiero greco e agli inizi del pensiero greco c'era in effetti questa divisione tra due visioni della vita o del mondo completamente diverse, da una parte Eraclito e dall'altra parte Parmenide. Eraclito sosteneva, come tutti forse ricorderanno, che il mondo è un continuo divenire, il motto famoso di Eraclito era ”panta rei”, cioè tutto scorre e la metafora, l'immagine che Eraclito ci ha lasciato, cioè che non si entra mai due volte nello stesso fiume, perché nel momento in cui noi rientriamo nello stesso fiume, il fiume è cambiato, il fiume è scorso, l'acqua non è più la stessa e così via, ebbene questa è una visione del mondo, ma è la visione più naturale, forse non per noi, che ci siamo abituati ad un'altra visione a cui arrivo tra un momento, ma è la visione più intuitiva. Se noi guardiamo il mondo intorno a noi effettivamente questo 48 mondo è un mondo in continuo divenire, in continuo cambiamento, noi stessi ci guardiamo allo specchio tutti i giorni e notiamo che incominciano ad arrivare le rughe, incominciano a diventare i capelli bianchi, la barba bianca e così via, si cambia, ci nascono i figli, ci muoiono i genitori e così via, quindi effettivamente il mondo è in cambiamento. Ebbene però ad un certo punto si taglia, oggi potremmo dire, perché vicino a Napoli, ad Elea, arrivò una filosofia contrapposta a quella di Eraclito, cioè la filosofia di Parmenide che era la filosofia dell'essere. Parmenide disse, pensò e propagandò queste sue idee. Sostenne che dietro a questo divenire che è l'apparenza, quello che ci sembra che il mondo sia, in realtà il mondo è statico, c'è un essere che è lì fermo, che non è il divenire, ma appunto è semplicemente un essere, con la E maiuscola. L'idea di questo essere, l'idea che il mondo potesse essere costituito non da eventi fluenti, ma da cose, da oggetti statici, ebbene fu da qui che partì, diciamo così, il pensiero occidentale, perché la scienza oggi si basa proprio sulla visione di questo genere, cioè il fatto che il mondo sia fatto di oggetti, questi oggetti sono lì, si può cambiare, ci sono dei cambiamenti, ma sono dei cambiamenti apparenti, qualche cosa rimane, la sostanza dietro questo cambiamento. Ebbene, quali sono i principi fondamentali di questo essere? È chiaro che nel momenti in cui la filosofia viene in essere una filosofia in divenire, se così possiamo dire, ebbene nel momento in cui si crea, nasce una filosofia, i concetti sono ancora un pochettino sfumati, sono anche nebulosi, bisogna cercare di andare a capire effettivamente che cosa ci sta dietro. Il primo che riuscì forse effettivamente a dare concretezza e anche dare una certa coerenza logica alla filosofia di Parmenide fu proprio Aristotele, con quelli che oggi si chiamano gli “assiomi dell'essere”. Gli assiomi dell'essere sono principalmente due, che adesso vi ricordo: il primo è “il principio di non contraddizione”: non è possibile, per una stessa proposizione, che questa proposizione sia in uno stesso momento sia vera che falsa. Principio di Ora pensate che, nel caso della filosofia del divenire, il principio di non contraddizione non è affatto un principio né ovvio né vero, non contraddizione Non (A e non –A) perché abbiamo detto prima, non si entra mai due volte nello stesso fiume, perchè il fiume un giorno può essere per esempio calmo e il giorno dopo può essere invece minaccioso, perché c'è stato un temporale, quindi dire che il fiume è o calmo o non calmo e che non può esser tutte due queste due cose insieme, non ha senso, perché il fiume può essere benissimo sia calmo che non calmo in momenti differenti della sua storia. Quando invece si pensa non a cose in divenire, ma a cose statiche, ecco che allora non si può più dire, non si può più predicare di uno stesso oggetto, in uno stesso momento, una proprietà e la sua negazione. Questo fu il primo grande risultato della filosofia aristotelica, ovviamente queste cose erano già sottintese in lavori di altri, in particolare quelli sia di Parmenide che di Platone. Però Aristotele fu il primo che effettivamente fece un'analisi sistematica di questi principi e li isolò appunto stabilendo che erano alla base della filosofia dell'essere, della filosofia di Parmenide. Il secondo grande principio, l'altra faccia della medaglia di questi assiomi dell'essere, è quello che viene chiamato “il principio del terzo escluso”. I latini lo chiamavano “tertium non datur”, cioè “non esiste un terzo caso” Principio del e se non esiste un terzo caso, il terzo caso è escluso, perciò si chiama terzo escluso anche “terzo escluso” perché non c'è un terzo caso, ce ne sono soltanto A o non-A due. Quali sono questi due? Eccoli qui espressi in forma simbolica, cioè “ una proposizione è vera” o “la sua negazione è vera”, cioè la proposizione è falsa. Il terzo escluso significa semplicemente che quando si parla di logica alla maniera di Aristotele e alla maniera di Parmenide e non alla maniera di Eraclito per esempio, si pensa a vero e falso come le due uniche possibili alternative. Una proposizione o è vera o è falsa, non può essere tutti e due per “il principio di non contraddizione” e deve essere almeno una delle due per” il principio del terzo escluso”. Ed ecco che si incomincia a delineare nella metafisica di Aristotele l'idea fondamentale di quella che poi diventerà la logica classica che si chiama classica non a caso, perché da allora è diventata la logica quotidiana, quella su cui poi si basa la matematica, la scienza moderna e così via. Quindi questa doppia alternativa, c’è la verità e c’è la falsità, verità e falsità sono contrapposte fra di loro e di fronte ad una proposizione, che abbia senso e che sia una proporzione compiuta, si possono presentare soltanto due alternative, queste due alternative sono o che la proposizione sia vera o che la proposizione sia falsa e una delle due alternative deve succedere effettivamente e questo è il principio del terzo escluso, tutti e due insieme non possono succedere e questo è il principio di non contraddizione. Questo il fondamento, diciamo così, che Aristotele nel libro quarto della metafisica pose per la logica dell'essere, ma ovviamente, questo era soltanto un primo passo. La metafisica è un lavoro, 49 perlomeno in questo libro, è un lavoro giovanile di Aristotele e quello che successe dopo cambiò effettivamente la storia. Cambiò la storia nel senso che le opere logiche di Aristotele addirittura vengono ricordate con un nome collettivo che si chiama “Organon”, che significa strumento e le opere che adesso ricorderemmo sono diventate appunto lo strumento, per gli eredi, per i discepoli di Aristotele, lo strumento per studiare la logica. Di queste opere ce ne sono parecchie, in realtà ce ne sono sei e adesso vediamo quali sono gli argomenti.. Organon Oggi non si leggono più se non per voler fare la storia ¾ Categorie: soggetti, predicati atomici della filosofia come ho detto, cioè le si leggono ancora nei corsi di filosofia, quando si prende un corso come ¾ Interpretazione: proposiz. Composte questi di logica matematica, si ricordano queste cose, ¾ Analitici (I, II): argomenti però la cosa interessante è che gli argomenti di cui ha ¾ Topici: dialetica ¾ Confutaziono: sofista trattato Aristotele in questi sei opere sono precisamente gli argomenti in cui ancora oggi si dividono i corsi di logica matematica che noi facciamo all'università. Quindi vediamo il primo di questi libri che compongono l’Organon, lo strumento di Aristotele, questo libro si chiama “le Categorie”. Ora le categorie oggi sono completamente passate di moda, sono rimaste di moda praticamente sino al 1700, alla fine del ‘700 con la filosofia kantiana, però l'idea fondamentale delle categorie di Aristotele era un qualche cosa di essenziale che ancora oggi rimane ed era un'analisi di cosa significa essere il soggetto di una proposizione e che cosa significa essere un predicato atomico. I predicati atomici sarebbero i predicati che predicano di cose che si chiamano soggetti e atomici significa che non si possono scomporre ulteriormente; atomico ovviamente è ciò che deriva dall'atomismo greco di Democrito, oggi che c'è stata da la chimica nell'800, nel ‘900, sappiamo benissimo che cosa vuol dire atomico. Atomico vorrebbe essere il mattone costituente, oltre il quale non si può andare nell'analisi. Ecco che le categorie di Aristotele sono precisamente questo: un'analisi di ciò che è fondamentale a livello linguistico, cioè da una parte i predicati, cioè quelli che non si possono scomporre ulteriormente e dall'altra parte i soggetti di questi predicati. Notate che non ci sono i complementi. La cosa può sembrare strana, perché per noi, che abbiamo fatto analisi logica nelle elementari e nelle medie, l'analisi logica tipica sarebbe soggetto, predicato e complemento, quindi relazioni in cui intervengono più di un soggetto; c'è qualche cosa che fa un'azione, c'è qualche cosa sulla quale si fa l'azione, per esempio il professore che tiene una lezione: professore soggetto, tiene ovviamente predicato e lezione complemento. Ebbene queste cose stranamente non erano analizzate da Aristotele,questo era il limite più grosso della logica aristotelica, cioè il fatto di riferirsi soltanto a dei predicati che avessero un soggetto, ma che non avessero degli oggetti o che non avessero più soggetti. Quindi erano quelli che i logici oggi chiamerebbero i predicati atomici e i predicati unari, unari nel senso che hanno un solo soggetto. Questa era una limitazione, come dicevo, piuttosto grande che però non fu sorpassata fino praticamente a Frege, 1879. Quindi, pensate, ci sono voluti oltre 2000 anni per riuscire ad andare oltre quella che era stata la fondazione della logica di Aristotele. Il secondo libro di Aristotele è “l'interpretazione”, perché ovviamente nel momento in cui abbiamo fatto un'analisi delle proposizione atomiche, il passo successivo è quello di considerare come si possono mettere insieme queste proposizione atomiche per formarne di altre composte. Ebbene, l'interpretazione è proprio questa, cioè lo studio delle proposizione composte. Poi finalmente si viene a due libri che sono i due libri più importanti, quelli più citati, si chiamano “Analitici” e ce ne sono due, appunto gli Analitici I e II. In questi analitici vengono analizzati gli argomenti, cioè ciò che fa veramente il centro, il nucleo della logica all'epoca e anche della logica oggi, cioè il modo di ragionare, non soltanto come sono costituite le proposizioni, ma soprattutto come si passa da proposizioni a proposizioni mediante ragionamenti. Gli altri libri sono forse meno importanti, cioè nei “Topici” si parla della dialettica e nelle “Confutazioni” si parla della sofistica. Oggi queste parti sono un po' cadute in disuso, però è bene forse parlarne un momentino, dire perlomeno qual’era l'idea che Aristotele aveva dei tipi di argomenti e qual’era la sua classificazione. La classificazione delle varie parti, delle varie branche, diremmo noi, della logica secondo Aristotele si faceva in base alla verità dell'ipotesi e alla correttezza o meno degli argomenti. Allora la prima, quella che veramente veniva chiamata logica, era un ragionamento corretto, cioè un 50 argomento corretto che parte da delle l'ipotesi vere, cioè abbiamo delle assunzioni, queste assunzioni sono vere, sono effettivamente quello che succede nel mondo, facciamo dei ragionamenti corretti, questa è la logica.. Però ci sono altre possibilità, per esempio la dialettica, cioè il ragionamento è ancora corretto, ma le ipotesi non sono più soltanto vere, anzi non sono più vere, ma sono soltanto più verosimili; verosimili significa potrebbero essere vere, non sono contraddittorie, non sono false, ma non è detto che siano vere. Allora nel caso in cui il ragionamento sia corretto, ma le ipotesi siano solo verosimili, ma non vere, non si parla più di logica, si parla di dialettica, quindi è come se fosse ad un gradino inferiore ed infatti l’abbiamo messa sotto. Nel caso in cui il ragionamento continui ad essere corretto, ma le ipotesi lungi dall’essere vere o anche verosimili, sono false, allora ecco che c'è il terzo gradino che interessa poco, perché,quando si parte da ipotesi false, poi si può arrivare dove si vuole, anche se il ragionamento è corretto, questa terza parte della logica Aristotele la chiamava Eristica. Infine c'era quella che lui chiamava “la sofistica” e appunto nell'ultimo libro “le confutazione dell'Organon” si interessava di questi argomenti, degli argomenti sofisti. Per la sofistica non ha importanza come siano le sue ipotesi, perché fa dei ragionamenti scorretti e allora quando il ragionamento è scorretto, poi se si parte da ipotesi false o vere o verosimili non importa più, perché il problema sta proprio nel ragionamento. Questa era l’idea, l'impianto della logica aristotelica, la divisione in varie branche, che oggi come ho detto è diventata un pochettino secondaria. I principali contributi di Aristotele alla logica sono in tre campi diversi: il primo campo è lo studio dei “sillogismi”, di cui diremo tra poco qualche cosa, poi c'è il campo dei “quantificatori”, cioè l'isolamento che Aristotele fece delle particelle di linguaggio che oggi sono tra le più studiate nella logica moderna, cioè nessuno, qualcuno, tutti e anche di questi diremo alcune cose più precise tra poco e da ultimo le “modalità”, cioè lo studio del possibile, dell'impossibile e del necessario. Contributi principali Allora vediamo più da vicino quali sono stati effettivamente i risultati che Aristotele riuscì a raggiungere all'interno di questi ¾ Sillogismi (assiomi, regole) casi, anzi tutto i “sillogismi”. Sui sillogismi ho scritto soltanto ¾ Quantificatori (nessuno, qualcuno, tutti) due parole praticamente “assiomi” e “regole”, per indicare il ¾ Modalità fatto che Aristotele compì un'analisi completa, assolutamente (impossibile, possibile, necessario) completa e per i suoi tempi veramente strabiliante, di tutti i possibili tipi di sillogismi. Quindi notate che di sillogismi ce ne sono tanti, sillogismi tipici di quelli che Sillogismi considerava Aristotele erano per esempio “ogni uomo è mortale, Socrate è un ¾ Assiomi uomo, dunque Socrate è mortale”, cioè il passare da due premesse, una delle quali ¾ Regole veniva chiamata “premessa maggiore” e l’altra “premessa minore” , ad una conclusione. Quindi i sillogismi sono dei tipi di ragionamento, degli schemi di ragionamento, diremmo noi oggi, in cui ci sono due premesse e una conclusione. Ora a seconda del tipo di premesse, che si potevano basare sui vari tipi di quantificatori, come ho appena detto per esempio una premessa poteva essere “tutti gli uomini sono mortali”, però invece del quantificatore “tutti” si potevano considerare “qualcuno”, “nessuno” e così via, ebbene Aristotele fece una tassonomia dei possibili tipi di sillogismo e scoprì che ce n'erano 256. Di questi 256 andò alla ricerca di quali erano corretti; ovviamente qualcuno è sbagliato, qualcuno è corretto, però insomma quali sono corretti? Quali sono sbagliati? Aristotele fece una lista che risultò poi, ma questo 2000 anni dopo, non completa perché un paio di sillogismi corretti gli erano scappati e uno o due di quelli che lui considerava corretti, oggi noi li consideriamo scorretti per motivi però abbastanza tecnici. Quindi l'analisi di Aristotele che riuscì a isolare all'interno di un campo così vasto di 256 possibili tipi di sillogismi, quella dozzina e mezza che erano effettivamente corretti, prendi uno, togli uno, ebbene effettivamente fu un grandissimo risultato, ma Aristotele non si fermò a questo, perché introdusse delle regole che permettevano di passare da un sillogismo all'altro e fece vedere come tutti i sillogismi corretti in realtà possono essere derivate da uno solo, il famoso sillogismo cosiddetto in “barbara”. I nomi dei sillogismi sono nomi medievali che oggi insomma vengono usati soltanto più per motivi storici, ma comunque noi oggi il sillogismo in Barbara lo chiameremo la “transitività dell'implicazione”, cioè “se da a discendi b e da b discende c, allora da a discende c”, questa è l’idea, l’impianto essenziale. Aristotele riuscì a far vedere che tutti i 18 tipi di sillogismi che lui considerava corretti, effettivamente potevano essere ricondotti attraverso regole di trasformazione a quell'unico “sillogismo in barbara”, che diventava quindi praticamente “l'assioma della 51 teoria dei sillogismi”. Questo è un qualche cosa che fa veramente impressione, soprattutto vederlo oggi che abbiamo sviluppato nell'ultimo secolo, secolo e mezzo, un numero enorme di tecniche per dimostrare cose di questo genere, insomma pensare che Aristotele potesse farlo, senza tutto questo armamentario, è qualche cosa di veramente incredibile ed è molto simile da questo punto di vista a ciò che fece Archimede più o meno in un periodo analogo per quanto riguarda la matematica. Anche oggi i risultati di matematica di Archimede sono cose che si studiano nelle scuole e che tutti dovrebbero sapere, però il pensare che Archimede riuscì a farlo con i mezzi tecnici della matematica greca è veramente strabiliante. Quindi questi sono forse i due grandi nomi del pensiero greco, Aristotele nella filosofia e soprattutto nella logica e Archimede nella matematica. Per quanto riguarda invece gli altri aspetti dell'opera di Aristotele passiamo ai “quantificatori”. Ora i quantificatori sono quelle paroline di cui avevo parlato prima: qualcuno, nessuno e tutti, ebbene Aristotele fece una tabella e riuscì a vedere quali sono i legami fra queste particelle del linguaggio. Questo quadrato cosiddetto delle opposizioni, il quadrato è quello che qui si vede in blu, è quello che ancora oggrimane i e che è stato inglobato nella logica moderna attraverso leggi di trasformazione da un quantificatore ad un altro. Aristotele distinse due tipi di quantificatori, quelli affermativi e quelli negativi e praticamente distinse anche due categorie di quantificatori: “l'universale” ed “il particolare”. Vediamo anzi tutto l'universale. L'universale affermativo è tutti, mentre l'universale negativo è nessuno. Qui ho messo un simbolo, tanto dobbiamo anche familiarizzarci con il linguaggio tecnico formale della logica moderna; oggi invece di scrivere tutti, si scrive soltanto una lettera che è l'inverso di A, A è ovviamente l'iniziale della parola inglese All, che significa per l’appunto tutti, è un simbolo oggi diventato un simbolo indipendente, cioè i logici matematici scrivono questa A girata, per indicare tutti. Quindi ci sono due tipi di quantificatori universali, uno affermativo “tutti” e l’altro negativo “nessuno”. Poi ci sono due tipi analogamente di quantificatori particolari: uno affermativo che dice qualcuno e l’altro negativo che dice non tutti. Il qualcuno ha anche lui un simbolo associato, che è una E, che significa esiste, ovviamente un E rovesciata esattamente come la A rovesciata e nella slide c’è la tabella che Aristotele considerò dei tipi possibili di quantificatori, cioè nessuno, qualcuno e tutti e poi anche questo non tutti, che quando si fa la tabella si vede che serve, è quindi come riempire un buco e anche una scoperta, diciamo così, di analisi logica. Cerchiamo di vedere, più da vicino, quali sono le proprietà di questi tutti, qualcuno ecc. Ebbene queste proprietà sono una delle grandi conquiste di Aristotele, perché sono cose sottili; adesso ve le leggerò e voi dovete pensarci un momento per capire effettivamente, per convincervi che sono corrette e per darmi ragione. Cominciamo a vedere da prima questo quantificatori universale affermativo tutti. Tutti fanno Ebbene dire una frase del tipo “tutti fanno qualche cosa” è la = non è vero che qualcuno non fa stessa cosa che dire “non è vero che qualcuno non la fa” ed Qualcuno fa ecco che allora qui c'è un legame scoperto per l’appunto da = non è vero che tutti non fanno Aristotele fra “il tutti” e “il qualcuno”. Se noi abbiamo la negazione, usando due negazioni, cioè “non è vero che qualcuno non fa”, è possibile ricostruire il quantificatore universale, cioè la scoperta veramente grandiosa di Aristotele fu che è vero che sembra che ci siano in particolare due quantificatori, cioè il “qualcuno” e il “tutti”, però in realtà questi due quantificatori sono sovrabbondanti, basta averne uno per ricavare l'altro. E allora, se per esempio si ha la possibilità di parlare di qualcuno, si può dire “non è vero che qualcuno non fa qualche cosa” ed è la stessa cosa che dire “tutti fanno quella cosa lì”. Quindi il “tutti” si può eliminare quando si abbia ovviamente il “qualcuno” e si abbia ovviamente anche la possibilità di negazione. Ma non è che il “tutti” si può eliminare a favore del “qualcuno”, si può anche fare l'esatto contrario e allora ecco che, dire che “qualcuno fa una certa cosa”, è la stessa cosa che dire “non è vero che tutti non la fanno”; questo non è propriamente in italiano, in italiano si direbbe “non è vero che nessuno la fa”, però l’ho scritto in questo modo per fare risaltare il legame tra “qualcuno” e “tutti”. Quindi, uno qualunque dei due quantificatori, è sufficiente per ricostruire l'altro, insieme alla negazione. 52 Per quanto riguarda la “modalità”, Aristotele fece una grande scoperta e cioè che le modalità possibile, impossibile, necessario e contingente sono praticamente un “analogo dei quantificatori”. Infatti come vedete, qui c'è una tabella, che parla di nuovo di affermativo e negativo esattamente come nel caso dei quantificatori. Le “modalità” non si chiamano più “universali e particolari”, ma si chiamano apodittiche e problematiche, insomma la parola non è così importante. Per il caso di modalità apodittiche il “necessario” è l'analogo del “tutti”, “l'impossibile” è l'analogo del “nessuno”. Il simbolo logico che viene usato oggi per il “necessario” è un quadratino. Similmente nel caso delle “modalità problematica” c'è il “possibile” e il “contingente”, analoghi al “qualcuno” e a “non tutti”. Anche qui c'è un simbolo per il “possibile”che è un rombo, che è simile a quello per il “necessario”, cioè un quadrattino rovesciato. Ed ecco che, facendo questa tabella, questi quadrati di opposizione, Aristotele non solo riuscì a fare un'analisi delle modalità, cioè possibile, necessario, impossibile e contingente, simile a quello dei quantificatori, ma riuscì a far vedere che praticamente erano la stessa cosa, cioè si trattava di due serie di operatori, di due serie di particelle del linguaggio, che però godevano delle stesse proprietà. Per far vedere che effettivamente così è, vi faccio vedere come effettivamente si può passare da possibile a necessario oppure da necessario a possibile, esattamente come si poteva prima passare da “tutti a qualcuno” o da “qualcuno a tutti”. E’ necessario fare Vediamo se ci convinciamo di questo: “è necessario fare una certa = non è possibile non fare azione” significa che “non è possibile non farla”, quindi di nuovo la E’ possibile fare “modalità necessario” si può ridurre alla “modalità possibile” quando = non è necessario non fare si abbia la possibilità di usare la negazione. Quindi “necessario” significa “non possibile non farlo”, viceversa, esattamente come nel caso precedente “è possibile fare qualche cosa” significa che “non è necessario non farla”, perché se fosse necessario non farla allora lei sarebbe impossibile. Ed ecco che di nuovo “impossibile” si può definire, si può ridurre al necessario e alla doppia negazione. Ecco questi sono i grandi contributi che Aristotele effettivamente fece per quanto riguarda la logica. Che cosa rimane oggi di questa sua eredità? Rimane anzitutto il suo grande nome, perché il nome di Aristotele, come ho detto prima, è considerato il nome del più grande logico mai vissuto, forse soltanto un'altra persona, un altro logico può competere a questo livello con Aristotele ed è Goedel di cui abbiamo parlato in una lezione introduttoria, di cui ovviamente parleremo verso la fine di questo ciclo di lezioni. Aristotele e Goedel sono un po' l'Alfa e l'omega, il principio e la fine di questa grande avventura che è stata la logica, prima semplicemente e poi logica matematica. Ebbene dei contributi tecnici di Aristotele io credo che i quantificatori e le modalità sono lì per rimanere, come si direbbe in inglese, sono state delle scoperte che veramente hanno portato alla luce parti sommerse dell'analisi linguistica, però in realtà stanno a un livello che non è ancora il livello più basso, il livello più atomico di possibile analisi. Aristotele era arrivato fino a un certo punto, ma nemmeno la mente di un genio così universale, così grande, era arrivato alla fine della storia. Infatti sotto l'analisi di Aristotele c'era ancora qualche cosa da scavare, c'era ancora quella che oggi si chiamerebbe “la logica proporzionale”, la logica di quelli che si chiamano “i connettivi”, cioè le particelle che mettono insieme proposizioni semplici per costruire proposizioni più complicate, cioè la congiunzione, la disgiunzione, l'implicazione, la negazione, eccetera. Ovviamente Aristotele usava le negazioni come vedete qui, ma non fece un'analisi sistematica di quali particelle fossero necessarie per costruire le frasi composte. Quest'analisi sistematica fu fatta da una scuola alternativa a quella aristotelica, sempre ad Atene, che fu la Scuola degli stoici e di cui anche qui dovremo parlare nella prossima lezione. Il più grande stoico si chiama Crisippo ed insieme ad Aristotele c'è effettivamente questo altro grande nome di cui andremo parlare nella prossima lezione. 53 LEZIONE 7: Lezione sotto il portico Quest’oggi finiremo un periodo della logica matematica, in realtà il periodo arcaico, cioè il periodo greco. Come vedete dal titolo della nostra lesione, “Lezione sotto il Portico”, quest’oggi andiamo a fare una gita scolastica, come si dice e usciamo da questo studio di registrazione, andiamo per l’appunto sotto un portico; capirete, tra breve, come mai abbiamo intitolato la lezione in questo modo e cerchiamo anzitutto di andare a vedere dove ci troviamo. Ci troviamo ad Atene, questo è il famoso dipinto ovviamente di Raffaello che abbiamo già visto tante volte a pezzi o intero. Il dipinto si chiama “la Scuola di Atene”, ma ”in realtà c'è un errore, perché “la Scuola di Atene erano in realtà “le Scuole di Atene”, cioè ce n’erano tre e le tre famose scuole di Atene erano, per l’appunto, le due delle quali abbiamo già parlato in lezioni passate e una delle quali parleremo quest’oggi. La prima Scuola, l'Accademia, vi ricorderete, è la Scuola che è stata fondata da Platone, la Scuola che ha avuto degli ospiti illustri, degli studenti illustri, tra cui Aristotele. Aristotele come abbiamo detto la scorsa lezione è uno di studenti dell'Accademia, ma non è diventato preside, rettore dell'Accademia, fondò una sua Scuola alternativa che si chiamava il Liceo e poi finalmente c'è una terza scuola che si chiama appunto la Stoà di cui parleremo in questa lezione, che però divenne praticamente il terzo corno di questo triangolo importante di scuole di Atene. E le tre scuole di Atene furono veramente importanti, anche perché ciascuno di esse aveva ovviamente una discendenza differente, chi discendeva da Platone, chi discendeva da Aristotele e chi discendeva per l’appunto dagli stoici che prendevano il nome dalla loro Scuola e per farvi un esempio di quanto fosse importante, poi in realtà, questa trilogia di Scuole, faccio un esempio che è abbastanza successivo, cioè 156 a.C. Qualcuno di voi ricorderà che questo è più o meno il periodo in cui i romani conquistano la Macedonia e cominciano a diventare i vicini politici, preoccupanti anche un po' fastidiosi dei greci. I greci cominciano a sentire che la loro civiltà sta ormai decadendo e che dovranno passare la torcia, come si dice, come diceva Platone anzi, dovranno passare la torcia a qualcun altro. Mentre invece i romani sono in piena espansione, quindi sono già arrivati ormai alle porte della civiltà greca e i greci ritengono, soprattutto gli ateniesi, di dover mandare a Roma una loro missione. Che cosa farebbero quest’oggi i nostri politici se dovessero mandare una missione, non so, ad un paese che sta conquistando i nostri vicini. Beh, ovviamente sceglierebbero i rappresentanti più importanti, gli uomini più prestigiosi della città o del paese e li mancherebbero l’appunto in missione diplomatica. Ebbene, che cosa fecero gli ateniesi nel 156 a.C.? Non pensarono ad altro, cioè non trovarono di meglio, ma questo era nuovamente difficile, perché queste erano le scuole migliori che si potessero immaginare, non trovarono di meglio, dicevo, che mandare un'ambasciata composta da tre ambasciatori e i tre ambasciatori provenivano uno dell'Accademia di Platone, l'altro dal Liceo di Aristotele e il terzo dalla Stoà. I loro nomi non sono molto importanti, l'unico, di cui forse qualcuno di voi si ricorderà, è il Carneade, che era appunto il prescelto dall'Accademia platonica. Carneade si ricorda oggi perché nessuno se lo ricordava nei Promessi sposi, dove c’è quella famosa frase, quando ad un certo punto si dice: Carneade chi era costui? Ebbene, costui era precisamente un discepolo, diciamo così, un esponente dell'Accademia platonica che fu scelto tra i tre missionari, cioè tra o tre ambasciatori che andarono a Roma. Gli altri due erano Critolao, per l’appunto, l’esponente del Liceo di Aristotele e Diogene che era invece l'esponente della Stoà. Questo l'ho detto , appunto, soltanto per farvi capire come, in realtà, queste tre scuole, che arrivarono ad Atene in periodi successivi, Platone e Aristotele e poi questa nuova Scuola a cui dedichiamo questo oggi la nostra lezione, queste tre scuole in realtà entrarono a far parte del tessuto della città, diventarono veramente tre poli in qualche modo, che si combattevano ovviamente intellettualmente, ma 54 che fecero ovviamente progredire il pensiero intellettuale greco. Bene, vediamo invece più vicini a noi, cerchiamo di parlare di ciò che dobbiamo affrontare oggi e parliamo, per l’appunto, di come mai questa lezione l'abbiamo chiamata “lezione sotto il portico”. Si chiamava lezione sotto il portico, perché la Scuola prese il nome da questa frase greca “Stoà poichilè”; Stoà significava, per l’appunto, portico e poichilè significava dipinto.Quindi poiché l'ambiente era molto interessante, gli studenti evidentemente amavano fare Zenone di Cipro lezione all'aperto, sotto questo portico, tra l’altro circondato dai dipinti, (300 a. C.) la Scuola prese il nome in questo modo. Ricordatevi che anche il Liceo Stoà poikilè = portico dipinto e l'Accademia avevano acquistato i loro nomi per motivi puramente Contingenti; l'Accademia perché era nata nel parco dell'eroe Accademo, il Liceo perché era nato in un parco dedicato ad Apollo licio e la Stoà, anche lei, prese il nome da questo fatto contingente, cioè dal fatto che le lezioni venissero fatte sotto un portico. Il primo esponente, il fondatore di questa nuova scuola che c'interessa particolarmente, come vedrete, una scuola molto importante dal punto di vista, proprio nostro, della logica matematica, il fondatore fu Zenone; però attenzione, non Zenone di Elea, colui di cui abbiamo parlato, quando abbiamo parlato dei paradossi, in particolare il famoso paradosso di Achille e la tartaruga, quello era Zenone di un'altra scuola. Zenone era un nome comune all'epoca, questo qui invece era Zenone di Cipro, cioè era un cipriota che arrivò ad Atene e fondò questa Scuola verso il 300 a.C.. Vediamo meglio, però, che cosa successe in questa scuola. Zenone era il fondatore, ma a differenza di Aristotele e a differenza di Platone, che come fondatori sia dell'Accademia che del Liceo in realtà erano anche gli esponenti più importanti e furono il massimo risultato di questa Scuola, cioè la Scuola era la loro Scuola, invece la Stoà divenne famosa, per lo meno per quanto riguarda gli studi di logica e di logica matematica di cui noi ci interessiamo, divenne famosa, dicevo, non tanto per quello che fece il suo fondatore Zenone di Cipro, ma per questo personaggio che si chiamava Crisippo, Crisippo di Soli e che visse tra 280 e il 210 circa a.C. Ora qui ho riportato una frase, che si trova nei classici dell'epoca, una frase che dice anche quanto fosse l'importanza di questo personaggio Crisippo, che oggi arriveremo a conoscere molto meglio, anche se purtroppo, per Crisippo di Soli motivi che vi spiegherò tra breve, in realtà è stato molto dimenticato e (280-210 a.C.) nei libri di testo se ne parla poco, dicevo la frase è questa qui, cioè la “senza Crisippo non citazione “senza Crisippo non ci sarebbe stata la Stoà”, cioè la Stoà ci sarebbe stata la Stoà” che fu fondata da Zenone di Cipro, in realtà era una piccola scuola quando iniziò e divenne una scuola così importante, tanto importante da poter arrivare a essere considerata alla pari della Accademia e di Liceo, divenne importante proprio grazie alle opere, al pensiero, al lavoro, all'insegnamento di questo signore Crisippo. Crisippo lo abbiamo già visto in una delle lezioni introduttive, quando vi avevo appunto detto che nella terna dei logici, diciamo così, del periodo greco era effettivamente alla pari di Platone e di Aristotele. Quindi possiamo immaginarci che da questo solo fatto che qualcuno vi dica che, effettivamente al livello di Aristotele come logico c'era già anche questo Crisippo, già ci potrebbe far capire che effettivamente è stato un personaggio veramente fondamentale. E oggi cercheremo di capire che cosa lui ha fatto. Bene, andiamo più da vicino appunto, a cercar di capire che cosa effettivamente fece Crisippo, ma prima volevo concludere praticamente questa breve carrellata sullo stoicismo e anche spiegare come mai, per l’appunto, oggi non si parla più tanto dello storicismo, non si parla più tanto di Crisippo, come mai anche non c'è più quasi una testimonianza diretta, cioè nel senso che i loro testi sono scomparsi. Anzitutto, questa slide si riferisce allo stoicismo tardo, cioè c'è stato non soltanto uno storicismo greco, per l’appunto nato nella Stoà di Atene e poi mandato avanti da personaggi come Crisippo, ma c'è stato anche uno stoicismo romano e alcuni degli esponenti di questo storicismo romano sono stati veramente importanti. Il primo, forse il più importante di tutti, è stato Seneca, che visse circa dall'anno zero, cioè il momento della nascita di Cristo, al 65 d.C.; qui, questo signore che vedete raffigurato nella parte sinistra in basso dello schermo, non è né Seneca né quest'altro personaggio di cui parleremo tra un momento, Marco Aurelio, bensì Nerone. Ora Nerone è famosissimo, è passato alla storia certamente per motivi, forse non tutti piacevoli, vi ricorderete, a parte la Domus aurea, che è stata riscoperta, piena di affreschi eccetera, che era stata cancellata 55 perché sopra di questo furono poi costruite in segno dispregiativo le terme, addirittura i bagni pubblici, ma Nerone ricordato oggi per l'incendio, perché mise a fuoco la città di Roma, Nerone aveva avuto Seneca come precettore. Ecco che qui vedete tra l'altro un pattern, come direbbero gli inglesi, cioè una riproduzione di eventi, abbiamo parlato in una delle scorse lezioni per la punto di Aristotele, Aristotele che ad un certo punto divenne il precettore di Alessandro il Macedone, di Alessandro il Grande; ebbene Seneca, anche lui un filosofo importante che diventa precettore d'un imperatore come Nerone. Quindi all'epoca effettivamente i filosofi erano parte dell'insegnamento, soprattutto l'insegnamento della nobiltà, di coloro che poi sarebbero arrivati al governo. Questo era molto legato ovviamente all'idea platonica; Platone aveva sostenuto nella “Repubblica” che la vera repubblica, il vero stato che si fosse indirizzato, che si fosse costituito su basi razionali avrebbe dovuto essere governato direttamente dai filosofi. Platone lo diceva per motivi ovvi, perché lui era un filosofo, quindi a tutti piace governare, forse gli sarebbe piaciuto anche a lui diventare presidente o imperatore di imperi, non potendolo fare direttamente, quello che i filosofi poi riuscirono a fare effettivamente fu di essere perlomeno l'educatore del principe, l’educatore di colui che sarebbe diventato poi il regnante. Ebbene Seneca, dicevo per l’appunto, fu il precettore di Nerone. Un altro invece famoso esponente dello storicismo romano fu Marco Aurelio, che visse tra il 121 e 180 d.C. e Marco Aurelio divenne lui direttamente imperatore; quindi vedete, come lo stoicismo non soltanto fu importante da un punto di vista intellettuale ad Atene, perché era una delle tre scuole all'avanguardia, ma fu importante anche da un punto di vista pratico, perché o attraverso l'insegnamento di Seneca o direttamente attraverso il governo di Marco Aurelio arrivò addirittura ai massimi vertici del potere romano. Che cosa successe però? Oggi lo stoicismo in realtà non è molto noto, è rimasta la parola stoico, l'aggettivo che significa qualcuno che effettivamente sa controllare le proprie emozioni, sa andare contro quasi la propria natura per sacrificarsi; ebbene, questo era uno degli aspetti effettivamente dello storicismo. Gli storici erano personaggi che avevano un estremo autocontrollo, erano veramente filosofi nel senso che oggi daremo alla parola, non nel senso di qualcuno che fa, che pratica la professione di filosofia, una professione di filosofia, ma qualcuno che chi vive veramente la filosofia. Ebbene, però questo storicismo era quasi una religione laica e ovviamente se voi guardate queste date, soprattutto la prima, l'anno zero, beh, questo è arrivato in un momento che forse era il momento sbagliato. Ci fu un'altra religione che era tutt'altro che una religione laica, una religione fideistica, cioè il cristianesimo che in quello stesso periodo arrivò a contrastare, diciamo così, lo stoicismo; il cristianesimo ebbe la partita vinta e allora da quel momento, questa religione sarebbe stata una religione, un modo di comportamento, un etica razionale, lo stoicismo passò in secondo piano, non si ripubblicarono più i libri e all'epoca non ripubblicare libri significava non riscriverli più, perché le cose ovviamente venivano tramandate semplicemente per coppie, fatte a mano e bastava che si cominciasse a non scrivere più un libro che questi libri andavano naturalmente persi nella memoria e questo successe effettivamente agli stoici. L'intera scuola stoica, non soltanto quella romana, ma dal nostro punto di vista è molto più importante quella greca, cioè dal punto di vista della logica, tutte le opere degli stoici andarono perdute e oggi non ce ne sono più, in particolare le opere di Crisippo, che era, come abbiamo detto, l'esponente principale dello stoicismo greco, uno dei logici più importanti insieme ad Aristotele. Crisippo era quel che oggi chiameremo un grafomane, perchè letteralmente scriveva 500 righe al giorno. Nella lezione su Aristotele abbiamo detto che, più o meno, c'è stato un calcolo di ciò che Aristotele ha lasciato, erano circa 450.000 righe; 500 righe al giorno, significa che per arrivare a 500.000 righe basta passare 1000 giorni, che sono circa tre anni, cioè in tre anni Crisippo aveva scritto o scriveva ogni tre anni l’analogo o l’equivalente di ciò che Aristotele ci ha lasciato, quindi un enorme quantità di volumi. Si calcola, si dice che Crisippo avesse scritto 700 libri. Ora è vero che all’epoca i libri non erano quelli che sono oggi, cioè erano magari capitoli, però 700 libri erano comunque una somma enorme, che è un po’ simboleggiata qui dal fatto che abbiamo fotografato una di queste opere , 28 di questi libri erano addirittura soltanto sul paradosso del mentitore, quindi Crisippo analizzava il paradosso del mentitore, proponeva delle soluzioni, molte di queste 56 soluzioni, molte di queste analisi sono andate perdute, perché come vi ho detto, oggi di libri di Crisippo non c’è ne nessuno. Pensate un po' alla tragedia intellettuale di qualcuno che passa la sua vita a scrivere 500 righe al giorno, che arriva alla morte avendo lasciato 700 libri e poi dopo qualche anno, dopo qualche secolo tutto è passato, non è rimasto nulla. Beh, non proprio più nulla, perché alcune fonti e qui, scherzosamente, abbiamo posto come fonte l'immagine di una fonte in un altro modo naturalmente, alcune delle fonti e qui scherzosamente abbiamo posto l’immagine di una fonte, in un altro modo naturalmente, alcune delle fonti ci sono rimaste, in particolare sono rimaste le opere di Sesto Empirico che è vissuto circa nel 200 d.C.; però attenzione, perché stiamo parlando di un pensatore come Crisippo, che è vissuto, come vi ho detto tra il 280 e il 210 a.C. e qui invece stiamo parlando di fonti che ci sono state tramandate da uno scrittore vissuto nel 200 d.C., quindi 400-450 anni dopo che il pensiero di Crisippo era stato formulato ed era stato scritto. Questo lo dico soltanto, perché effettivamente quando si va a leggere Sesto Empirico, bisogna andare a scavare, sarebbe come se oggi praticamente parlassimo di qualcuno che è vissuto verso il 1450, prima della scoperta dell'America. Ora è chiaro che ciò noi diciamo oggi di quello che è avvenuto prima della scoperta dell'America, insomma non siamo proprio dei testimoni oculari, come potremo dire e Sesto Empirico era tutt'altro che un testimone oculare, raccontava cose che aveva sentito dire da altri, che lo avevano sentito dire da altri e così via per un certo numero di generazioni. Come se non bastasse una delle opere in cui troviamo i riferimenti a Crisippo, una delle opere di Sesto Empirico, si chiamava “Contro i matematici” ed anche il titolo ovviamente ci lascia presagire poco di buono, un opera critica quindi e non soltanto veniamo a sapere ciò che Crisippo e gli storici hanno fatto nel campo della logica da gente che non era loro contemporanei, bensì erano persone vissute 4-5 secoli dopo, ma oltretutto erano anche persone che non condividevano la filosofia stoica, che non condividevano l'analisi stoica del linguaggio e della logica e che invece combattevano questa Scuola ed addirittura scrivevano già subito nel titolo quale era la loro professione di fede, cioè contro i matematici. Questo per dire che bisogna stare molto attenti oggi effettivamente a leggere queste opere, però la cosa interessante è questa: che anche leggendo le opere di un signore vissuto molto tempo dopo e che combatteva quello di cui stava parlando, ebbene nonostante tutto ciò, da queste opere emerge la figura di un grandissimo logico, si può ancora riuscire a capire quanto importante fosse, anche soltanto attraverso le critiche. Per darvi l'idea, è chiaro che se qualcuno volesse scrivere per esempio la biografia di un capo di governo, per esempio D’Alema e fosse però un giornalista della parte avversa, per esempio Emilio fede, beh, forse noi non presenteremo molta fede ad una biografia di questo genere o viceversa ovviamente, quindi c’è da stare molto attenti. Però fortunatamente la logica è anche qualcosa di oggettivo, ci sono dei risultati, ci sono delle definizioni, si sono dei teoremi, ci sono delle dimostrazioni che si possono ricavare dalle opere di Sesto Empirico e c'è stato qualcuno, in particolare un professore americano che si chiamava Benson Maids, che ha fatto praticamente verso il 1950 uno studio approfondito di questi testi, quindi soltanto una cinquantina di anni fa ed è emersa finalmente quasi dall'oblio, quasi dal nulla, questa Scuola e questi riferimenti, che ci hanno fatto capire come gli storici in realtà fosse arrivati più avanti di tutti nella logica, molto più avanti di Aristotele, praticamente avevano scoperto cose che noi in Occidente e nell'era moderna avremo riscoperto soltanto verso la fine dell'800 e gli inizi del ‘900, quindi pensate erano avanti di 2000 anni! Vediamo allora di avvicinarci, più da vicino, a quello che sono stati i risultati di Crisippo, che come vi ho detto siamo andati a raschiare al fondo del barile di queste fonti. Ebbene ci sono concezioni della logica opposte anzitutto. Aristotele e Crisippo erano due Scuole contrapposte e non a caso il Liceo e la Stoà erano appunto considerate, già all'epoca, come delle Scuole rivali. Per quanto riguarda noi, appunto le concezioni della logica, quale era la concezione della logica che aveva Aristotele, che abbiamo già visto più volte, anche in fotografia diciamo così? Aristotele pensava che la logica fosse qualcosa di propedeutico alle scienze, cioè c'erano le varie scienze, le scienze della natura, in particolare la fisica, quella che noi chiameremo oggi la biologia e così via; ebbene la logica era qualche cosa di precedente, cioè non faceva parte delle scienze, era una specie di strumento, era il linguaggio che avrebbe 57 dovuto servire agli scienziati per portare avanti i loro discorsi, per scrivere le loro dimostrazioni e così via. Quindi è uno strumento e infatti se ricordate dalle lezioni di Aristotele, le opere di Aristotele che parlano di logica sono state raccolte, per l’appunto, sotto il titolo di Organon, lo Strumento. Però questo fatto di essere Concezioni della logica uno strumento ovviamente le poneva in una posizione secondaria, Aristotele: cioè quando si va, per esempio, a fare l'agricoltura, è chiaro l’aratro, Propedeutica alle scienze la vanga, eccetera, sono strumenti importanti, ma non sono così Crisippo: importanti come il grano, come i frutti, perché quelli sono le cose parte autonoma delle scienze che effettivamente a noi interessa avere, cioè ci interessa coltivare i campi per ottenere il grano, per ottenere i frutti, per ottenere la verdura e così via, mentre invece la vanga e l'aratro sono strumenti per arrivare a questo fine e questo era il modo in cui Aristotele concepiva la logica. Per Crisippo invece la cosa era completamente diversa, la logica era una parte autonoma delle scienze, cioè era una delle scienze, forse la prima nel senso che era precedente a tutte queste, ma non propedeutica soltanto, non soltanto un linguaggio, era essa stessa una scienza che aveva tutta la dignità, tutte le caratteristiche per poter essere considerata autonomamente. Quindi Crisippo, se vogliamo, è stato veramente il primo logico, colui che ha capito che la logica poteva essere considerata come qualche cosa di a sé stante, qualche cosa d'importante e fine a se stesso. Ora possiamo andiamo a vedere più da vicino quali sono i risultati e le definizioni anche di Crisippo. Come vedeva Crisippo la logica? Abbiamo parlato di Aristotele, abbiamo visto che Aristotele distingueva le parti della logica, a seconda che le premesse fossero vere o verosimili o false e i ragionamenti fossero corretti oppure che i ragionamenti fossero scorretti. Crisippo faceva una distinzione diversa però e mentre la distinzione di Aristotele ormai è passata in cavalleria, come diremo, ormai non si studia più se non come storia, la distinzione di Crisippo è quella su cui ancora oggi noi fondiamo i nostri corsi di logica; quando insegniamo un corso di logica, per esempio questo, ci basiamo su queste distinzioni, non su quelle di Aristotele, che quindi sono state più importanti e più feconde. Il primo campo della logica secondo Crisippo era la semiotica. La semiotica è “lo studio dei segni che si usano nella logica”. Quando noi vediamo qualche cosa scritto, ebbene la prima cosa che ci colpisce di una frase scritta è l'enunciato, cioè il modo in cui noi l'abbiamo scritta, il modo in cui noi abbiamo espresso le cose. Ebbene per la semeiotica, che poi tra l'altro è diventata una scienza a sé stante soltanto verso l'800 e il ‘900, il più famoso d'Italia è Umberto Eco, che tutti voi conoscete, perché fa anche altre cose, comunque il suo campo di ricerca è precisamente lo studio dei segni in generale, non soltanto i segni linguistici, ma anche per esempio i segni che si usano nella comunicazione, oggi noi diremmo nei media. Quindi diciamo che la semiotica è il primo livello, Il secondo livello è quello che oggi chiamiamo la sintassi. La sintassi parla non soltanto di segni, non soltanto del modo in cui le cose sono scritte, ma anche del modo in cui sono espresse e allora il modo, in cui sono espresse queste cose, si chiama senso e l'enunciato che sta alla base ha un giudizio, cioè esprime un giudizio. Il terzo livello, che è invece il livello forse più importante, è la semantica, cioè ciò che vogliamo dire. Ora i segni sono ciò che usiamo per dire le cose, il senso è il modo in cui noi diciamo le cose e il significato è ciò che vogliamo dire, quindi questi tre livelli che gli stoici con un'analisi molto sottile sono usciti a separare, mentre l'enunciato, che è il modo come noi diciamo le cose, esprime un giudizio e questo giudizio ha come significato, come contenuto una proposizione. Questi tre livelli, semeiotica, sintassi e semantica, sono quelli che adesso consideriamo un po' più da vicino e di cui poi parleremo praticamente per tutto il resto del corso, perché sono effettivamente quelli in cui noi oggi ancora dividiamo la logica. 1. Semiotica Vediamo ora il primo livello, cioè la semiotica; qui gli stoici ¾ Variabili proposizionali: p, q, … non andarono molto lontani, come vi ho detto, la semiotica è ¾ Connettivi: non, e, o, se…allora come scienza a se sestante, un qualche cosa di molto moderno, però riuscirono ad analizzare che cosa stava lì e in particolare analizzarono i segni che servono nella logica dividendoli in due parti, cioè le variabili (proposizionali) ed i connettivi. La logica di cui parlavano gli stoici 58 era “la logica proporzionale”, qualche cosa che Aristotele aveva intuito, ma che non aveva analizzato a fondo, ebbene i due tipi di segni che vengono usati nella semiotica del linguaggio della logica proporzionale sono anzitutto le variabili (proposizionali), che oggi si indicano generalmente con delle lettere p, q, eccetera. p e q non vogliono dire nulla, stanno per delle proposizioni, stanno per delle affermazioni o proposizioni che noi chiameremo atomiche e si noti che i primi ad usare veramente i n maniera sistematica le variabili, come variabili proporzionali sono stati proprio gli stoici, che quindi già nel 200 a.C., prima che ancora si usassero le variabili come espressione di numeri indefiniti, cioè nel modo in cui noi le siamo tutti i giorni, già avevano questo uso delle variabili a livello della logica e che quindi ha preceduto l'uso più quotidiano nella matematica. L’altro tipo di segno sono i connettivi dei quale abbiamo già parlato più volte, perlomeno in maniera indiretta, ma oggi finalmente arriviamo ad affrontarli direttamente. I connettivi sono la negazione non, la congiunzione e, la disgiunzione o, l’implicazione soprattutto, cioè il connettivo della deduzione il se..... allora. Quindi questo a livello di segni, con questi segni, cioè con questi connettivi e con queste variabili si possono costruire le frasi della logica proporzionale, che poi gli stoici sono andati ad analizzare. Vediamo ora il secondo livello, cioè la sintassi; qui gli stoici sono andati ad analizzare i segni, connettivi e 2. Sintassi variabili, da un punto di vista della sintassi ed hanno anzitutto definito quale è ¾ Formule la nozione di formula, cioè una combinazione ben formata dei segni, hanno poi ¾ Regole enunciato gli assiomi più importanti per ciascuno dei connettivi e le regole (di ¾ Assiomi deduzione). Notate anche, che quando abbiamo parlato di Aristotele, abbiamo parlato d’assiomi e regole, però in quel caso si trattava degli assiomi e delle regole relativi solo ai sillogismi, cioè una parte un po' diversa della logica sulla quale torneremo e che coinvolgeva i quantificatori “tutti”, “qualcuno”, “nessuno”. Qui invece gli stoici hanno fatto un'analisi analoga a livello proposizionale. Per esempio, per quanto riguarda le regole, la prima regola, la più importante è il cosiddetto “modus ponens” che si può facilmente enunciare dicendo questo: se noi abbiamo un'ipotesi, chiamiamola a e se da questa ipotesi a possiamo dedurre una conseguenza b, allora siamo arrivati, appunto, alla conseguenza b, cioè abbiamo due punti di partenza, due assiomi per così dire, a e il fatto che da a derivi b, allora messe insieme queste due cose, l'ipotesi a e il fatto che da a derivi b si può arrivare a concludere b, cioè alla conclusione. Quest’oggi ci appare naturalmente ovvio, ebbene all'epoca non lo era affatto, i primi che sono stati chiari, che hanno visto chiaramente che questa era una delle regole principali della logica sono stati precisamente gli stoici e l'hanno chiamata, non in latino ovviamente, perché non parlavano latino, ma gli scolastici hanno poi ritradotto queste cose in questa espressione che oggi viene usata normalmente e che si chiama il “modus ponens”. Altro esempio che riguarda le regole è la “contrapposizione”, cioè se qualcuno di voi ricorda la fine della lezione su Platone, quando abbiamo d etto che effettivamente ha fatto dei passi avanti, però faceva anche degli errori, ebbene gli errori su cui abbiamo messo il dito nel caso di Platone riguardavano praticamente tutti i dialoghi esenti di errori di contrapposizione. Ad esempio, vedete questo l'ombrello qui nella slide, voi direte che cosa c'entra “su questo non ci piove”, ebbene no, l'esempio dell'ombrello è precisamente il tipico esempio che si fa quando si vuol far capire com’è la contrapposizione corretta, cioè la fase tipica è: “se oggi piove esco con ombrello”. In genere si pensa se uno dice “se piove esco con ombrello”, allora “se non piove non esco con l’ombrello”, ma la cosa non è affatto vera, perché “se piove esco con ombrello” vuol dire che “ ogni volta che piove io prendo l'ombrello ed esco con ombrello”, non dico nulla assolutamente su che cosa io faccio nel caso in cui non piova e quindi in particolare non è affatto vero che dal fatto che “se piove esco con ombrello”, allora “ se non piove non esco con ombrello”, però poiché ogni volta che piove esco con ombrello, se su un giorno voi mi vedete per la strada senza l'ombrello, anche senza guardare il cielo, si può dedurre da questo fatto che non piove, perché “se ogni volta che piove io esco con ombrello”, allora “se non esco con ombrello” non piove, questa è la contrapposizione corretta. Quindi ricordatevi l'ombrello, ricordate la pioggia e ricordatevi quando uscite con l’ombrello e con la pioggia che i primi ad aver capito come effettivamente bisognava comportarsi, non con la pioggia e con ombrello, ma con questi tipi di ragionamento logico, cioè con la contrapposizione, erano 59 per l’appunto gli stoici. Un altro esempio che riguarda il ragionamento tipico è il così detto “riduzione all'assurdo”, cioè il procedimento di riduzione all'assurdo, cioè la dimostrazione per assurdo. E’ stato anche questo uno dei procedimenti che gli stoici hanno usato e che hanno formalizzato; naturalmente il procedimento veniva già usato in precedenza, abbiamo ricordato nelle lezioni passate che, per esempio, il teorema di Pitagora era dimostrato attraverso una dimostrazione per assurdo, ma gli stoici hanno isolato qual’era “il principio di dimostrazione per assurdo”, cioè se noi vogliamo dimostrare una certa proposizione e la vogliamo dimostrare per assurdo, allora supponiamo che questa proposizione non sia vera, deriviamo una contraddizione, cioè un assurdo e allora da questa contraddizione denunciamo che l'ipotesi non poteva funzionare, cioè avevamo supposto la negazione della nostra ipotesi, quindi possiamo derivare la nostra ipotesi. In altre parole, detto con le lettere, come avrebbero fatto gli stoici, supponiamo di voler dimostrare a, cioè una certa proposizione a, partiamo dall'ipotesi “non a”, deriviamo una contraddizione, allora vuol dire che “non a” non poteva funzionare, perché ha portato contraddizione e quindi è vero il contrario, cioè è vero a, contrario di “non a”, per l’appunto. Questo che anche oggi non è poi una cosa così immediata e così semplice, il fatto che gli storici l'avessero capito e l'avessero formalizzata vuol dire che erano arrivati ad un livello molto avanzato di logica. Bene, questo era quello in cui consisteva l'apporto degli stoici per quanto riguarda le regole. C'è ancora un esempio molto particolare di uso della logica da parte degli stoici, che è quello della cosiddetta “consequentia mirabilis”. Il primo esempio di “consequentia mirabilis” è stato fatto da Platone, che ha Consequentia mirabilis dimostrato che qualche cosa di assoluto ci deve essere, ¾ Platone: qualcosa è assoluto come mai? Beh, in uno dei suoi dialoghi dice: supponiamo ¾ Aristotele: qualcosa è vero che non ci sia niente di assoluto, allora quello che ho appena ¾ Crisippo: qualcosa è dimostrabile detto è effettivamente qualche cosa di assoluto. Dunque non è possibile allora supporre che non ci sia niente di assoluto perché porta alla conclusione che c’è qualche cosa di assoluto e questo è un ragionamento molto sottile che è stato ripetuto nel corso della storia da tante persone. Un altro che lo ripeté in un altro ambiente, in un'altra situazione, fu Aristotele che dimostrò in questo modo che ci deve essere qualche cosa di vero. Come mai? Supponiamo che tutto sia falso, allora se tutto è falso, la frase che dice che tutto è falso è vera; quindi anche nel caso che noi supponiamo il contrario di quello che vogliamo dimostrare, in realtà poi arriviamo lo stesso a dimostrare che qualche cosa di vero ci deve essere, perché o c'è qualche cosa di vero o non c'è niente di vero, ma allora il fatto che non ci sia niente di vero è una verità e dunque abbiamo dimostrato che qualche cosa di vero ci dev’essere. Ebbene gli stoici portarono avanti questo tipo di ragionamento e Crisippo dimostrò che qualche cosa deve essere dimostrabile, come mai? Perché se niente è dimostrabile questo sarebbe una dimostrazione di qualche cosa, cioè del fatto che niente è dimostrabile. Quindi vedete come la logica a questo punto incominciava a diventare un qualche cosa di veramente sofisticato. Il terzo livello della logica stoica, la semantica, è forse il più importante di tutti, è un qualche cosa che proprio a causa della rimozione dei testi stoici è stato dimenticato ed è stato riscoperto con molta difficoltà in parte soltanto nella Scolastica e poi finalmente nell'800, fine ‘800, inizi ‘900 in maniera completa. 3. Semantica Pensate che per 2000 anni praticamente, una di quelle parti della logica Definizioni vero-funzionali di cui noi andavamo più fieri, prima che si studiassero questi testi dei connettivi (vero-falso) nascosti, queste testimonianze nascoste della logica storica, era proprio questa parte della logica proporzionale di cui adesso vi dico brevemente i risultati. Quello che gli storici fecero fu di trovare delle definizioni cosiddette zero-funzionali dei connettivi, cioè riuscire a descrivere qual’è il comportamento delle particelle di cui abbiamo parlato poco fa, cioè non, e, o, se....allora, solo in base alla verità o falsità delle loro componenti, cioè in base al vero o falso e per questo si chiamano zerofunzionali, cioè una descrizione che dipende soltanto dalla verità e dalla falsità di questi connettivi. Vediamo più da vicino come si fa ad arrivare ad una descrizione zero-funzionale della negazione. Tra parentesi, tra i vari connettivi ho messo, per vostra conoscenza i simboli formali con i quali essi vengono usati oggi. Ce ne sono in genere di due tipi, il primo è quello che si usa nella logica, il secondo è quello che si usa nella teoria degli insiemi. E’ bene che ci si impratichisca anche con questi simboli. . Negazione (¬, –) ¾ Negazione vera se La negazione anzi tutto: quand'è che una negazione è vera? Quando ciò negato falso che viene negato è falso; per esempio, se dico “oggi piove”, allora se è 60 ¾ Negazione falsa se falso che oggi piove è vero che oggi non piove; dunque la negazione è negato vero vera quando ciò che si nega è falso e ovviamente la cosa è perfettamente simmetrica, una negazione è falsa quando ciò che si nega è vero. Quindi vedete che la negazione si può descrivere in modo completo semplicemente in base a qual’è il suo effetto sui cosiddetti “valori di verità”, cioè su verità e falsità delle proposizioni. La congiunzione, di nuovo tra parentesi ci sono due simboli che Congiunzione (^, ∩) ¾ congiunzione vera se si riferiscono alla congiunzione nella logica e nella teoria degli ¾ tutti i congiunti veri insiemi. Quand’è che una congiunzione è vera? E’ vera soltanto ¾ congiunzione falsa se se tutti i congiunti di cui essa parla sono veri. Per esempio, se almeno un congiunti falso dico “oggi piove e ho fame”, ebbene quand’ è che una frase di questo genere, dove c'è un e in mezzo, è vera? Quando sono vere tutte e due le parti, cioè quando è vero sia che oggi piove, sia che oggi ho fame; quindi la congiunzione è vera, se queste parti, che si chiamano appunto congiunti, sono tutte vere. E quand'è che invece una congiunzione è falsa? Beh, per rendere falsa una congiunzione basta che uno dei due casi non sia più vero e allora non è più vera la loro congiunzione e dunque la congiunzione è falsa se almeno uno dei congiunti è falso. Per esempio, se dico “oggi piove e ho fame” e dico “questa congiunzione è falsa”, vuol dire o che non è vero che oggi sta che piovendo oppure che non è vero che oggi ho fame, una delle due è sufficiente a rendere falsa la congiunzione. Disgiunzione (v, U) La disgiunzione, vedete i simboli, dove v sta per vel, che era ¾ disgiunzione falsa se la parola latina con la quale si indicava la o. Il comportamento tutti i disgiunti falsi della disgiunzione è semplicemente simmetrico a quello della ¾ disgiunzione vera se congiunzione. Quand'è che una disgiunzione è falsa? Siccome se almeno un disgiunto vero disgiunzione vuol dire che uno dei due disgiunti dev’essere vero, allora è falsa la disgiunzione se tutte e due i disgiunti sono falsi e viceversa ovviamente in modo simmetrico, una disgiunzione sarà vera se almeno uno dei due disgiunti è vero. Quindi vedete che potete già intuire che congiunzione e disgiunzione sono degli operatori molto simili, si comportano in maniera che oggi diremmo simmetrica, in matematica si usa la parola duale, cioè si possono scambiare tra di loro, soltanto che quando si scambia disgiunzione con congiunzione bisogna allora scambiare vero con falso; quindi la regola che ci dice quand’è che una disgiunzione è falsa (tutti i disgiunti sono falsi), è la stessa regola che si dice quand'è che una congiunzione è vera (tutti i congiunti sono veri) e viceversa per la regola della disgiunzione vera. Quindi si incomincia a capire dal punto di vista della logica proporzionale che proprio gli stoici, già 2000 anni fa, avevano enunciato perfettamente tutte queste regole. Implicazione (═>, ) L'implicazione, l'ultimo operatore importante “se..... allora”, ¾ implicazione falsa se si indica formalmente nella logica col simbolo di una freccia e ipotesi vera e conclusione falsa dal punto di vista insiemistico con questo ferro di cavallo girato. ¾ implicazione vera se Ebbene gli stoici capirono una cosa essenziale che, mentre le ipotesi falsa o conclusione vera cose che ho d etto poco fa, cioè le regole per la negazione, la congiunzione, la disgiunzione sono cose abbastanza ovvie, sulle quali non ci piove se vogliamo tornare sull'esempio del parapioggia, per quanto riguarda l'implicazione le regole molto più sottili. Ebbene nessuno discuterebbe il fatto che una implicazione, cioè un ragionamento deve essere falso se siamo partiti da un'ipotesi vera e siamo arrivati ad una conclusione falsa, vuol dire che per via ci siamo persi: siamo partiti da un assunto che era vero, abbiamo fatto un ragionamento e siamo arrivati ad una conclusione falsa, qualcosa nel ragionamento è andato storto, quindi l'implicazione che congiunge l’ipotesi e la conclusione è falsa. Ebbene gli stoici ebbero una visione, diciamo così, un lampo di genio, un uovo di colombo, il dire che se nel caso precedente un implicazione è falsa, tutti gli altri casi renderanno invece l'implicazione vera, cioè il caso banale di ipotesi vera e conclusione vera e i casi di ipotesi falsa e conclusione vera, ipotesi falsa e conclusione falsa. Ebbene quando si parte da un'ipotesi falsa, quindi non ci interessa più ormai il ragionamento appunto perchè siamo già partiti da un'ipotesi falsa, possiamo fare un ragionamento corretto o scorretto, cioè arrivare ad una conclusione vera o falsa, che non ci interessa perché arriveremo comunque a qualche cosa che non è più collegata con l'ipotesi, allora l’implicazione è vera; idem, quando la conclusione è vera, non ci importa se siamo partiti da un'ipotesi falsa, se abbiamo fatto un ragionamento corretto, perché sappiamo già che la conclusione è vera. Ed ecco che questo uovo di colombo, cioè di trasformare l'unica 61 condizione, cioè la condizione quando l'implicazione è falsa, in una condizione necessaria e sufficiente, come direbbero i matematici, per la verità dell’implicazione, cioè di dire che in tutti gli altri casi l'implicazione è vera, è quella che oggi si chiama in realtà “implicazione megarica”, perché anche una Scuola greca, appunto la Scuola di Megara, l'aveva intuito, gli stoici la ritrovarono e oggi è quella che viene usata in matematica. Quindi effettivamente è sempre un po' difficile, per questo lo lasciata per ultimo, convincere coloro che vedono per la prima volta l’implicazione, che essa sia vera quando “l'ipotesi è falsa o la conclusione è vera”, perché sembra un modo poco soddisfacente di definire l'implicazione, ma l'uovo di colombo è ’appunto questo, che questo tipo di definizione è sufficiente per tutti gli usi che si vogliono fare della logica in matematica e quindi è inutile andare a complicarci la vita, basta rimanere su questo livello. L'ultima cosa che gli storici videro e questo è ancora più sorprendente, fu quello che oggi noi chiamiamo il “teorema di completezza”. In realtà il teorema di completezza fu dimostrato negli anni ‘20 da Wittgenstein e da Post; il teorema di completezza dice addirittura che le regole sintattiche e gli assiomi enunciati da Teorema di completezza Crisippo sono sufficienti a derivare tutte e sole le verità Gli assiomi e le regole sintatiche semantiche, cioè che la sintesi che gli stoici avevano sono sufficienti a derivare tutte e isolato era, in realtà, un qualche cosa di sufficiente, sole le verità matematiche ma anche di completo, cioè descriveva completamente l'intera logica. Questo è veramente un risultato stupefacente; ovviamente gli storici non avevano una dimostrazione di questo fatto, ma avevano già un enunciato che stesse in piedi e che riporta effettivamente così. Bene, io spero di avervi convinto che effettivamente gli stoici sono stati dei precursori veramente lungimiranti di quella che è l'odierna logica matematica. Con questo noi abbiamo concluso la prima parte del nostro corso, cioè la parte che si riferisce alla logica greca. Nella prossima lezione parleremo dell'Interregno e poi finalmente, dopo la prossima lezione, incominceremo a vedere quali sono stati gli usi e i risultati della logica moderna, cioè arriveremo ai nostri giorni. Bene, vi invito dunque alla prossima lezione. 62 LEZIONE 8: Interregno Siamo arrivati, dunque, in queste nostre lezioni di logica matematica ad un periodo intermedio che abbiamo chiamato “Interregno”. Come mai questo periodo intermedio o questo Interregno nel nostro corso? Ebbene nelle lezioni precedenti abbiamo visto quali erano stati i risultati, quali sono stati i grandi passi che sono stati fatti dai greci soprattutto, di cui vi ricordo tra pochi minuti quali furono i personaggi principali, mentre poi invece dalla prossima lezione incominceremo veramente ad addentrarci in quelli che sono stati i risultati moderni, perciò l'ambito della logica contemporanea. Ora dai greci, quindi dal 200 a. C., cioè da Crisippo, di cui abbiamo trattato la scorsa lezione, fino al 1850, quando invece incominceremo dalla prossima lezione a parlare di Boole, sono passati praticamente 2000 anni e in questi 2000 anni naturalmente ci sono stati i secoli bui (l’interregno), in questo periodo però qualche cosa è stata fatta, per cui in questa lezione appunto vogliamo parlare di ciò che è stato fatto tra i greci e i moderni. Però prima di parlare di questo interregno rivediamo brevemente ciò di cui abbiamo trattato nel passato, cioè nelle scorse elezioni, riguardo alla logica greca. Abbiamo parlato di tre grandi personaggi, tre grandi filosofi che sono stati importanti nel campo della filosofia in generale, ma anche e soprattutto, per quello che riguarda noi, nel campo della logica. Questi tre personaggi sono qui raffigurati e nominati, sono Platone, Aristotele e Crisippo. Vi ricordate, Platone è stato colui che ha iniziato lo studio della logica andando contro i sofisti, ha cercato di enucleare quali erano i risultati, diciamo così, gli assiomi più importanti della logica, in particolare “il principio di non contraddizione”, che i sofisti non avevano ancora capito, cioè il fatto che non si potesse allo stesso tempo affermare e negare la stessa proposizione. Poi c’è stato invece Aristotele, che è considerato tutt’oggi il più grande o uno dei due più grandi logici che siano mai esistiti e nel caso si pensi ai due più grandi logici questo è Goedel, che sarà il punto di arrivo di questo nostro percorso. Aristotele ha trattato i sillogismi, cioè la teoria di questi tipi di ragionamenti che partono da premesse maggiori e minori, per arrivare ad una conclusione e queste premesse abbiamo visto che coinvolgono le particelle del linguaggio “tutti, qualcuno e nessuno”, che abbiamo chiamato i “quantificatori”. Poi invece, Crisippo che è stato anche lui un grande logico, il più grande esponente forse della logica stoica, vi ricordo anche che Platone, Aristotele e Crisippo facevano parte di tre Scuole che erano in competizione tra di loro ad Atene e che erano rispettivamente l'Accademia, il Liceo e la Stoà, ebbene Crisippo ha parlato, ha trattato della “logica proporzionale” che è un livello di analisi più basso, ma basso non da un punto di vista di valore, ma di analisi e quindi più raffinato di quello a cui si riferiva Aristotele ed è il livello della cosiddetta “logica proporzionale”, che è “la logica dei connettivi”, di cui connettivi, vi ricordo, perlomeno i loro nomi, che sono la negazione non, la congiunzione e, la distruzione o e l'implicazione il se.... allora. Bene, questo era più o meno quello che era stato fatto dai greci nel periodo che va dal 400 al 200 a. C. I greci arrivarono veramente ad uno sviluppo che era eccezionale, cioè la logica greca, soprattutto la logica storica, che è quella che è stato l'ultimo passo, l'ultimo grido, diciamo di questo sviluppo, è stata veramente un qualche cosa di molto profondo. Però come ho detto nella scorsa lezione in realtà la logica storica è stata dimenticata, gli storici sono stati rimossi dalla storia del pensiero e anche dalla storia più in generale, oggi di loro rimane molto poco e questo è simbolizzato anche dal fatto che, se voi pensate alle tre Scuole greche, oggi di accademie è pieno mondo, per esempio l'Accademia dei Lincei, l'Accademia reale e così via, non soltanto ovviamente in Europa, ma anche negli Stati Uniti e in tutto il mondo. Le accademie sono diventate i gruppi in cui si uniscono i sapienti della nazione di cui l'accademia fa parte. I Licei sono diventati per antonomasia le scuole, liceo scientifico, il liceo classico, dovunque anche in Francia e in varie altre nazioni. Oggi la parola liceo è rimasta come simbolo di scuola, che invece poi in realtà era più propriamente una università. Ebbene di Stoà invece non è rimasta nessuna, mentre di accademie e di licei appunto è pieno il mondo, di Stoà non ce ne nessuna, rimane soltanto l'aggettivo stoico a simboleggiare il fatto che c'è stata questa tradizione di autocontrollo da parte degli stoici, ma della logica e 63 di ciò che gli storici hanno pensato, poco è rimasto. Bene, questo era comunque semplicemente un riassunto, un riepilogo di ciò che abbiamo fatto finora. Andiamo, invece, a vedere più da vicino che cos'è successo nel secondo periodo in cui la logica è stata al centro dell'attenzione dei pensatori e dei filosofi e questo secondo periodo è il cosiddetto periodo della Scolastica, che è qui rappresentata dalla figura di Guglielmo di Ockham, che come vedete, era un religioso. Effettivamente la Scolastica è stata una filosofia molto legata alla Chiesa cattolica, perché in realtà è stato il tentativo di avvicinare la teologia alla filosofia e addirittura alle scienze e più in particolare alla matematica e alla logica. La Scolastica è stato il tentativo che va da circa il 1000 al 1300, più o meno, come periodo storico, d. C. ovviamente ed è stato appunto questo tentativo di dimostrare attraverso la ragione, con ragionamenti o puri o magari con ragionamenti che si basassero su dei fatti contingenti, la cosiddetta “teologia razionale” e la cosiddetta “teologia naturale”, cioè di basare la teologia, la fede, il discorso sulla divinità, su un ragionamento di natura logica, di natura scientifica, di natura matematica. Ora gli scolastici sono stati ovviamente importanti, però sono molto più ricordati, per esempio oggi, di quanto lo siano gli stoici, come mai? Perché ovviamente non c'è stata una rimozione del pensiero cristiano e la nostra civiltà, anzi la nostra civiltà è in realtà una civiltà che si basa su questo pensiero cristiano, anche per coloro che non credono in queste cose, che non sono religiosi. Pensate per esempio al saggio di Benedetto Croce, che si intitolava, per l'appunto, “Perché non possiamo dirci non cristiani”, cioè dobbiamo per forza noi che viviamo in Occidente pensare in termini, magari per contrapposizione, però pensare in termini che sono cristiani perché è questa la nostra origine, questi sono i fondamenti del nostro pensiero e quindi per questo motivo o anche per questi motivi, la scolastica è certamente ricordata quest'oggi, nei testi di filosofia per quanto riguarda la storia del pensiero. Che cosa ha fatto la scolastica? Beh, la scolastica vista col senno di poi, cioè vista dal nostro punto di prospettiva, in realtà non ha fatto moltissimo perché si è limitata, fra virgolette, a riscoprire quello che i greci già avevano scoperto e che poi era stato dimenticato. Quindi moltissime le innovazioni, soprattutto le innovazioni storiche, perché ovviamente nel periodo della Scolastica Aristotele è stato studiato, è diventato un pensatore molto importante, è stato inglobato in parte della teologia cristiana attraverso soprattutto la teologia di San Tommaso d'Aquino, ma anche il pensiero degli stoici è rinato, quello di Aristotele direttamente perché si leggevano i suoi testi, quello degli storici indirettamente è stato riscoperto. Quindi gli scolastici sono interessanti, sono importanti soprattutto da un punto di vista storico. Oggi a noi interessa forse andare a vedere chi per primo ha trovato certe idee, certe nozioni e allora noi andremo direttamente a Crisippo, agli stoici stessi, ma se invece vogliamo sapere chi ci le ha fatte conoscere queste nozioni, ecco che allora bisogna studiare la scolastica. Io qui ho messo tre nomi simbolici, significativi del pensiero scolastico per quanto riguarda la logica e questi nomi sono Abelardo, Pietro Ispano e Ockham, di cui dirò poche parole perché in realtà, come ho detto, ciò che loro hanno scoperto era già noto e noi l'abbiamo già considerato quando parlavamo appunto degli stoici. Abelardo è stato l'iniziatore praticamente della scolastica, è vissuto proprio agli inizi del millennio, cioè dal 1079 fino al1142, ha avuto una vita molto avventurosa, qui lo vedete seppellito, questa è la sua tomba, lui è là e qui c'è una signorina che si chiama Eloisa. Se voi guardate la slide, nell’anno 1119 Abelardo è stato evirato, come mai? Perché questa Eloisa, che era la padrona, di cui lui si era innamorato, in realtà era una ragazza molto giovane, era la figlia del suo protettore, di colui con cui stava in casa, gliela aveva data perché lui la educasse e lui l'ha educata a tante cose, comprese certe cose che forse non avrebbe dovuto fare; l’ha messa incinta come diremmo oggi, la povera Eloisa ha dovuto partorire, avere questo bambino e poi è stata messa in un convento e come segno di dispregio ovviamente, i parenti hanno preso Abelardo e l’hanno evirato. Quindi dal 1119 Abelardo, aveva quarant'anni, come vedete, è rimasto senza una parte essenziale della sua persona e si è dedicato ad altre cose. È diventato anche lui un religioso, 64 però nel 1121 la sua filosofia, anzi la sua teologia è stata condannata dal concilio ecumenico, il concilio di Reims. Ebbene, vedete la vita di Abelardo molto avventurosa, ha avuto traversie sia fisiche, sociali che teologiche e nel 1140 è addirittura stato scomunicato, perché è entrato in rotta di collisione con il potere ecclesiastico e quindi ha avuto dei problemi. Ora il suo grande antagonista era Bernaldo di Chiara Valle, però qual’era l'idea dal punto di vista logico della teologia di Abelardo, cioè come basava Abelardo la teologia scolastica? Ebbene la basava sul motto “capisco per credere” e allora anche noi capiamo, come Abelardo: mai abbia avuto dei problemi. Perché per Abelardo il capire era precedente capisco per credere al credere, cioè la ragione stava prima della fede. Abelardo era disposto a Anselmo: credere ai dogmi della teologia, ai dogmi della chiesa cattolica, ma soltanto credo per capire dopo che li aveva capiti, cioè la fede veniva per lui soltanto dopo che era passata al vaglio della ragione. Questo ovviamente è un atteggiamento molto pericoloso, perché pone in secondo piano ciò che per la Chiesa cattolica dovrebbe essere in primo piano ed era ovviamente contrapposto ad un atteggiamento veramente diverso, che era quello invece di Anselmo d'Aosta. Anselmo era un abate che poi divenne un vescovo e questo vi fa capire come il suo atteggiamento fosse più consono ai bisogni della Chiesa cattolica. Qual'era questo suo atteggiamento? Era per l'appunto di invertire i termini in cui Abelardo pensava e di porre la fede prima della ragione, cioè “credo per capire”, invece che “capisco per credere”. Prima credo e il fatto di credere mi permette di capire per l'appunto i dogmi. Ebbene questi erano i due atteggiamenti che hanno poi guidato la scolastica praticamente per due secoli. Da un punto di vista logico però, che è quello che ci interessa più da vicino, l'opera più importante che Abelardo scrisse, si chiama “Sic et non”, cioè “così e non così”, diremmo oggi. In quest'opera, che non è tanto importante per i risultati che ottenne da un p. di v. logico, Abelardo introdusse quello che poi divenne il metodo essenziale Sic et non della Scolastica, che è quello che si chiama “il metodo delle metodo delle questioni questioni”. Se voi leggete per esempio ”la summa teologiae” di San Tommaso d'Aquino, ebbene lì questo metodo delle questioni trova proprio il suo fulgore massimo, cioè Tommaso tratta di tutti gli argomenti della teologia proprio seguendo il metodo di Abelardo, che è questo metodo di porre prima, di fronte a sé, da una parte un'affermazione, dall'altra parte un'affermazione contraria, incominciare a dare delle giustificazioni a favore delle affermazioni o cercare delle giustificazioni a favore della negazione, ad un certo punto eliminare una delle due alternative e rimanere soltanto con quella che poi alla fine risulta essere quella vera. Quindi praticamente oggi diremmo che il contributo di Abelardo alla scolastica è stato un contributo metodologico, cioè ha insegnato, ha portato avanti per la prima volta e ha introdotto per la prima volta questo metodo che sarebbe poi stato così fondamentale appunto per la teologia scolastica, il metodo delle questioni. Bene, vediamo il secondo logico di cui abbiamo parlato, il secondo logico della Scolastica Pietro ispano che come vedete qui tra parentesi, nientepopodimeno era addirittura o divenne addirittura papa col nome di Giovanni XXI. Giovanni Ispano si chiamava così perché veniva dalla Spagna, in realtà dal Portogallo, quello che oggi chiameremo Portogallo. Quindi Pietro Ispanico è nato nel 1210, morto nel 1277 e scrisse un libro che fu veramente importante, a differenza di Abelardo , che è stato l'iniziatore di un movimento, Pietro Ispano era ormai ben inserito in un movimento già maturo e questo testo “Summulae logicales” furono per un lungo periodo, durante la scolastica, il testo di riferimento, cioè il testo con cui gli studenti studiavano le cose di logica. Attenzione, Pietro Ispano fu logico molto sottile, riscoprì proprio lui personalmente alcune, anzi molte direi, delle scoperte che erano già state fatte dagli stoici e poi alla fine divenne papa. Durò pochissimo come papa, credo soltanto qualche mese, dopo di che gli crollò il palazzo del Vaticano, quello che sarebbe stato poi il palazzo del Vaticano in tempi successivi, gli crollò sulla testa e lui morì sotto le macerie. Questa è la sua figura che viene ancora oggi ricordata. Se andate a San Paolo fuori le mura, la basilica romana, potete vedere la sua immagine tra quelle dei papi; quindi addirittura i logici hanno avuto un Papa fra i loro predecessori o nella loro storia. Guglielmo da Ockham Guglielmo da Ockham che come vedete era anche lui un religioso, (1290-1349) vissuto tra il 1290 e il 1349, quindi ormai già la tarda scolastica, 65 Summa totius logicae però Ockham è forse il punto massimo di questo sviluppo; anche lui ha scritto un manuale, anche lui ha scritto un compendio, questa è la sua opera più importante “la summa totius logicae”, cioè la somma di tutto della logica, praticamente c'era questo gusto enciclopedico, questo voler mettere insieme in un unico manuale tutto ciò che effettivamente si poteva dire della logica. Ockham è un filosofo anche, è un nome abbastanza noto nella filosofia moderna per le due cose di cui adesso parliamo: la prima, forse, tutti l'avrete sentita nominare, è quello che si chiama il rasoio di Ockham. Cosa vuol dire rasoio di Ockham? Ovviamente non ha niente a che fare col rasoio, il rasoio serve soltanto perché si tagliano le cose. Che cos’è che Ockham voleva tagliare via con questo ¾ Rasoio di Ockham suo rasoio? Ebbene il suo motto, che pare lui non abbia mai ¾ Proprietatis terminorum pronunciato, che perlomeno non si trovi nei suoi scritti, ma che comunque rispecchia il suo pensiero, è “gli enti non si devono moltiplicare senza necessità”, cioè il rasoio di Ockham è in qualche modo il tentativo di fare una filosofia, di fare dei ragionamenti senza moltiplicare gli enti che non è necessario introdurre, cioè fare un discorso smembrato, un discorso essenziale in cui si vada diritti al filo e diritti alla conclusione, senza dover fare delle grandi divagazioni. Questo è vero sia da un punto di vista puramente linguistico, semplicemente di esposizione, che soprattutto che è quello che interessa a noi, da un punto di vista semantico, diciamo così, cioè i ragionamenti devono essere essenziali, bisogna andare dritti alla conclusione. Ora questo è importante e questo motto, appunto di questo uso del rasoio di Ockham, è qualche cosa che oggi soprattutto nel ‘900 è stato molto apprezzato, cioè la filosofia positivista, per esempio, è stato un tentativo di mettere in pratica, di usare sistematicamente questo mezzo, il rasoio di Ockham nel campo della filosofia e nel campo della logica, cioè cercare di togliere tutto ciò che non è essenziale, cercare di limitarsi veramente al succo della questione. Una seconda cosa che Ockham fece è lo studio di quello che lui chiamava “proprietatis terminorum”, cioè le proprietà dei termini e qui, per la prima volta effettivamente, si scopre, si vede che c'è il tentativo di andare oltre la filosofia, oltre la logica dei greci. Tentativo non si sa quanto conscio, perché appunto come ho detto, gli scolastici non conoscevano moltissimo della storia e del passato della filosofia greca e della logica greca, in particolare non conosceva niente di ciò che gli stoici avevano lasciato scritto, di Aristotele conoscevano purtroppo soltanto le opere che erano rimaste ovviamente, che erano le opere di cui abbiamo parlato qualche lezione fa, cioè le opere dell'Organon. Ebbene dicevo, però, che fosse un tentativo conscio o che fosse un tentativo inconscio, c'è in questo studio delle cosiddette “proprietatis terminorum”, che ha caratterizzato non soltanto il lavoro di Ockham, ma più in generale il lavoro della Scolastica, il tentativo di andare oltre la logica greca. In che senso andare oltre la logica greca? Beh, c'è il tentativo di parlare di quella che oggi noi chiameremo non più logica proporzionale, cioè soltanto a livello delle proposizioni, ma logica predicativa, cioè il tentativo di cominciare a descrivere i soggetti, andare a vedere all'interno delle proposizioni come queste proposizioni sono formate, le cosiddette proposizioni atomiche della logica proporzionale, cioè quelle che dal p.di v. della logica proporzionale non si possono più analizzare perché non sono composte di connettivi e, o, non, se... allora ; ebbene lo studio delle “proprietatis terminorum” è propriamente questo, cioè cercare di andare a vedere dentro queste proposizioni cosiddette atomiche, se è possibile smembrarle in strutture più elementari. Ora la struttura più ovvia che si possa immaginare è quella che oggi noi chiameremo nell'analisi logica appunto la struttura “soggetto, predicato, complemento.” Ebbene, soggetto, complemento eccetera, che sono i soggetti e gli oggetti dei discorsi vengono in genere raccontati, vengono in genere espressi nella logica del linguaggio attraverso i cosiddetti “termini”, cioè i termini sono nomi che possono essere nomi atomici, nomi semplici oppure nomi composti, tanto per farti un esempio, si può dire un nome proprio Giorgio, tanto per dire oppure si può dare la descrizione di un soggetto, attraverso una descrizione complessa, per esempio il figlio di Sandro. E allora, questo Giorgio, che ha come nome atomico, come nome proprio, questo nome, può essere descritto da un termine più complicato “il figlio di suo padre”. Ecco che allora, lo studio di questi temi è uno studio molto complesso che in genere nella nostra logica, oggi, quando si insegna logica, viene fatto dopo la logica proporzionale e precisamente, anche storicamente così è successo, mentre la logica proporzionale, per l’appunto, è stato il risultato sommo della logica stoica, la logica dei termini, la struttura dei termine è anche cercare di capire come si debbano interpretare da un punto di vista sia sintattico che semantico questi termini, cioè qual’è il senso e qual'è il significato che bisogna attribuire a questi termini, questo è stato uno dei grandi risultati della logica di Ockham in particolare, ma della scolastica più in generale. Quindi questo è 66 quello che più o meno fecero gli scolastici. Dopo gli scolastici si cominciò a parlare di altre cose e in particolare intervenne questa idea della logica, come scienza universale. Ricorderete, forse, quando abbiamo parlato di Crisippo, avevamo citato il fatto che per Aristotele la logica era semplicemente propedeutica alla scienza, era uno strumento l’Organon, che permetteva di trattare le scienze. Questo era porre la logica Logica, scienza universale in una posizione molto subordinata ovviamente. Per Crisippo, ¾ Lullo: invece, la logica diventa parte delle scienze, ma vedete qui, ars magna(1274) che c'è un passo successivo, da puro strumento a parte delle ¾ G. Bruno: scienze, una delle tante scienze, a finalmente scienza universale, ars memoriae(1582) cioè la cosa più importante di tutte, cioè è stato praticamente un ¾ Leibniz: completo capovolgimento, che c'è stato dal periodo di Aristotele ars combinatoria(1666) passando attraverso Crisippo e arrivando a questo periodo qua. Questo periodo di cui stiamo parlando incomincia formalmente, per lo meno, nel 1274, quando questo interessante personaggio che si chiamava Raimondo Lullo, scrisse questo trattato che si chiamava invece “la ars magna”. Qui tutti parlavano di arte e per Lullo, per l'appunto, la logica era un'arte ed era la magna ars, la più grande arte che si potesse immaginare. Lullo, anche lui, ebbe una vita molto interessante, esattamente come Abelardo, anche se le sue traversie furono di tipo diverso.Ad un certo punto, Lullo decise che doveva convertire gli infedeli, se n'andò a convertire gli infedeli e stranamente il metodo che lui pensava sarebbe stato vincente in questo tentativo di conversione era, guarda caso, la logica; invece di andare a combattere crociate, di arrivare con alabarde o con le scimitarre, ecco che Lullo cercò di andare a convertire gli infedeli con la logica. Vi lascio immaginare come la cosa finì, quando si trovò di fronte ai nemici, lo decapitarono e la cosa in quel momento finì lì. Comunque ci fu perlomeno questo tentativo, il cosiddetto tentativo di porre la logica come scienza universale, come arte, la massima arte. Un secondo personaggio che andò in questa stessa scia, molto più noto, ovviamente di Lullo, ma soprattutto da noi, anche per altre traversie che subì, è Giordano Bruno. Nel 1582 giordano Bruno scrisse un trattato che si chiama invece “ars memoriae”, anche stavolta siamo sempre a livello dell'arte, l'arte non è più la magna arte, la massima arte, ma diventa l'arte della memoria. E Bruno che, anche lui finì male, come tutti sapete, il 17 febbraio del 1600 finì al rogo perché come tanti altri prima di lui che avevano subito sulla propria pelle, avevano sentito il dilemma tra fede e la ragione. Giordano Bruno ovviamente era anche lui partito come religioso, era un domenicano, poi insomma fu scomunicato, uscì dall'ordine e così via, finché alla fine subì il processo dell'Inquisizione e finì al rogo. Però nei suoi lavori principali giovanili e in particolare questo qui “l'arte della memoria”, ecco che era anche uno studioso di logica o perlomeno di queste tecniche. In quel momento la logica era qualche cosa di strano, ormai la Scolastica era stata dimenticata, era passato il Rinascimento e quindi la logica veniva considerata come qualcosa di diverso,una tecnica e in particolare in Giordano Bruno era la tecnica della memoria. Come si faceva ricordare le cose secondo Giordano Bruno e anche secondo questo metodo che risale, per l’appunto, a Lullo? Beh, per esempio si dovevano incominciare a disporre degli oggetti in una stanza e poi a ciascuno di quei soggetti, la cui posizione veniva memorizzata, si potevano associare delle parti di un discorso che si voleva mandare a memoria. E allora, ricordandosi la disposizione delle parti degli oggetti, ecco che ritornava alla memoria il discorso, ma c'è questa nozione, qui sotto nascosta, di struttura e questo modo anche di combinare fra di loro delle parti separate in modo da dar loro una unità. Ebbene, questo che può sembrare così lontano dalla logica moderna, in realtà nel terzo personaggio che vede la logica come scienza universale, che era Leibniz, ecco che questa rimane un'arte, ma finalmente dall'arte della memoria diventa “arte combinatoria”, cioè si perde questo aspetto anche pratico di dover applicare la logica a fini mnemonici, di ricordo, di apprendimento e l'arte diventa puramente combinatoria. Sono passati un centinaio di anni, 1666, Leibniz giovanissimo, ha vent'anni soltanto, scrive questa opera. Ed ecco qui Leibniz, la sua fotografia e Leibniz sarà in questo intermedio, che va tra i greci e la Scolastica, diciamo, fino alla logica moderna, sarà proprio la figura più di rilievo, più importante, colui che è oggi considerato come il vero precursore della logica moderna. Come mai il vero precursore della logica moderna? Anzitutto Leibniz, parliamo un po' il tiro di lui, è un personaggio veramente eclettico, veramente interessante, nato nel 1646, morto nel 1716 a settant'anni. Leibniz Leibniz fu tutto, tutto nel senso che è ancora uno di quei personaggi in cui si possono 67 (1646-1716) compendiare professioni completamente diverse. Era un giurista, era un avvocato, era un diplomatico, era un matematico, era un logico, uno scienziato e così via, insomma uno di quei personaggi veramente universali. E allora, detto da lui, che la logica doveva essere la scienza universale, la cosa acquista subito un sapore differente, perché detto da chiunque conosca soltanto quello universale, vuol dire poco, ma detto da uno come Leibniz che effettivamente aveva una conoscenza già universale di per sé, allora se la logica per lui appariva come la scienza universale, questo poteva avere effettivamente un certo valore. Nel periodo della sua giovinezza, Leibniz studiò, come ho detto, giurisprudenza, fece una tesi molto giovane, in filosofia del diritto, quindi già si interessava alla filosofia, in particolare e al diritto dall'altra parte. Il diritto è Giurisprudenza importante da un p.di v. logico, perché è molto simile a ciò ¾ Tesi in filosofia del diritto che succede nella logica. Ci sono degli assiomi che sono ¾ Dottorato in antinomie giuridiche praticamente le leggi, cioè quello che viene promulgato ¾ Memoria assiomatica e ci sono delle deduzioni che sono i tentativi di derivare sull’elezione del re di Polonia dalle leggi ciò che è implicito in esse, in modo da poterlo applicare ai casi espliciti della vita che non sono direttamente considerati dalle leggi. Quindi c'è un'analogia molto precisa tra diritto e logica ed è per questo che poi Leibniz fu portato a pensare alla logica. Il dottorato invece lo prese in antinomie giuridiche, pensate voi, cioè in quelle situazioni in cui secondo la legge ci si può comportare per un giudice in due maniere contrapposte, cioè alcuni precedenti o alcune leggi permettono di assolvere l'imputato e altre leggi invece, altri precedenti, permettono di condannarlo. Sono l'analogo delle antinomie di cui abbiamo parlato tempo fa, invece delle antinomie di Zenone, per esempio l’antinomia di Achille e la tartaruga oppure l'antinomia di Epimenide del mentitore, solo che queste non sono antinomie puramente logiche, sono antinomie giuridiche, qui si tratta di applicarle alla vita reale, cioè si tratta di avere di fronte a noi un imputato e di poterlo condannare o poterlo lasciar libero, in base alla legge, entrambe le volte; quindi il giudice ha la capacità, ha la possibilità di scegliere una delle due alternative, ma di fare tutto in maniera puramente legale. Subito dopo Leibniz si laureò a vent'anni, lo stesso periodo in cui aveva scritto l’arte combinatoria. Fu preso al servizio di alcuni potenti dell'epoca e il suo primo lavoro fu una memoria assiomatica, pensate voi, sull'elezione del re di Polonia. Lui voleva convincere, anzi il suo protettore, voleva convincere che, come re di Polonia, doveva essere eletto un certo personaggio, ebbene che cosa fece Leibniz? Più o meno come Lullo, invece di fare delle battaglie politiche, fece delle battaglie logiche, cioè dimostrò anzitutto che di tutti i candidati che erano stati proposti per il trono di Polonia, dimostrò matematicamente soltanto uno rimaneva, solo uno poteva essere eletto, ma questo non era ancora una prova a favore, era soltanto una prova di esclusione di tutti gli altri. Ebbene, poi diede una ventina di dimostrazioni diverse del fatto che proprio quello lì doveva essere eletto. Quindi vedete come la logica veniva applicata alla politica, in una maniera che era antesignana di comportamenti che poi sono stati usati in questo secolo. Queste però, sono cose un po' strane, oggi se ne parla poco forse di questo aspetto giuridico dell'opera di Leibniz, mentre invece, l'aspetto matematico fu molto importante. Pochi anni prima Blaise Pascal, questo signore che vedete qui sulla sinistra nella slide, aveva inventato la prima macchina calcolatrice, una macchina a rotelline che poteva fare somme. Ora sembrerebbe poco, naturalmente facendo girare le rotelline al contrario la macchina poteva fare le differenza anche, quindi somma e differenza, un'operazione e il suo contrario e Leibniz fece un passo avanti, cioè riuscì a costruire una macchina che poteva fare somme e prodotti e dunque facendola girare al contrario, sottrazioni e divisioni. Ora somma e prodotto, sottrazione e divisione sono le quattro operazioni fondamentali dell'aritmetica e quindi certamente su questo si può basare l'intera matematica e qui è nato il sogno poi del calcolatore, attenzione, perché questa fu la prima macchina, il primo aggeggio meccanico che riuscì effettivamente a meccanizzare qualche cosa che si pensava sino ad allora fosse caratteristico dell'uomo, cioè fare delle operazioni matematiche. L'altra grande invenzione matematica di Leibniz che lui dovette dividere con questo suo antagonista, che è il grande Isacco Newton, fu il calcolo infinitesimale. Leibniz, come se non bastasse, come se non avesse già fatto abbastanza tra tutte le cose che ho citato finora, è anche uno dei due inventori di questo mezzo potentissimo 68 che è quello che si chiama,appunto “calcolo infinitesimale” o “analisi infinitesimale” o semplicemente “analisi”, oggi. E l'analisi è quello che si studia in tutti licei scientifici, in tutti istituti tecnici ed è veramente la propedeutica a tutte le scienze. Oggi non si può fare fisica, non si può fare chimica eccetera, se non si conosce il calcolo infinitesimale, l'analisi. Ebbene, il cosiddetto teorema fondamentale del calcolo infinitesimale, quello che dice che l'operazione di derivazione e l'operazione di integrazione sono due operazioni inverse una dell'altra, così come la somma e la sottrazione oppure come il prodotto e la divisione, ebbene, questo teorema fondamentale è precisamente il teorema di Leibniz e Newton. Quindi vedete, anche se non si dovesse parlare più di altre cose che Leibniz fece, già soltanto questa parte di risultati matematici, lo porterebbe ad essere uno dei più grandi pensatori della storia. E però la cosa non finiva lì, perché Leibniz è considerato anche e ricordato moltissimo come filosofo. Una filosofia reale, qui ho messo scherzosamente lo stemma di Savoia, ma non ci sta a caso lo stemma dei Savoia, perché le opere più importanti che Leibniz scrisse e che ancora oggi vengono studiate nei dipartimenti di filosofia, ebbene sono due opere: la Teodicea e la Monadologia che furono scritte per Reali. La prima, la Teodicea fu scritta per Sofia Carlotta di Russia e la famosa Monadologia, cioè l'idea che il mondo sia costituito di Monadi senza finestre, come diceva Leibniz, che sono in contatto non tra di loro direttamente, perché appunto non hanno finestre, ma con una monade centrale, che poi dovrebbe essere Dio, ebbene questa Monadologia fu scritta per il principe Eugenio di Savoia. Ora questo è di nuovo un’altro degli eventi che abbiamo già visto avvenire da Pitagora a Platone, ad Aristotele eccetera, il fatto che questi pensatori da una parte parlassero coi loro studenti, coi loro colleghi di cose molto elevate e poi però, facessero un'intensissima opera di divulgazione e appunto anche le opere più importanti di Leibniz erano opere di divulgazione, le cosiddette opere esoteriche. Ma veniamo invece al dunque, perché quello che c'interessa di Leibniz è stato il suo apporto alla logica matematica e qui due furono le sue grandi idee. Leibniz non ottenne dei risultati così importanti, come il teorema fondamentale del calcolo differenziale, perché nel campo della logica è un pensatore troppo l'avanguardia, cioè le cose che lui ha pensato, che ha sognato, sarebbero poi state realizzate in realtà un paio di secoli dopo, a partire dal 1850, da Boole, di cui parleremo in una delle prossime elezioni. Però le sue due idee fondamentali sono veramente lì e sono rimaste lì, diciamo così, in agguato, in attesa, fino a quando non si è riusciti a realizzarle con la logica moderna. La prima idea, a cui lui diede due nomi diversi, ma che più o meno significavano la stessa cosa, Logica era l'idea di una lingua filosofica, di una caratteristica universale, ¾ Lingua philosophica o cioè di arrivare a trovare una lingua che fosse quella che noi oggi caracteristica universalis chiamiamo un linguaggio formale, diverso dai linguaggi tipici ¾ Calculus ratiocinator naturali, tipo l'inglese, l’italiano eccetera, una lingua che non avesse tutte le difficoltà, le ambiguità delle lingue naturali e che permettesse di descrivere esattamente tutto ciò che vogliono descrivere gli scienziati. Ora questa idea, che all'epoca poteva sembrare abbastanza assurda o difficilissima da realizzare, è quella che oggi noi chiameremo la lingua dei computer, la cosiddetta logica matematica. Caracteristica universalis vuol dire per l’appunto questo, è una lingua filosofica nel senso che è perfettamente astratta, è universale, si può applicare ad ogni scienza. La seconda parte, altrettanto importante, è quella del cosiddetto Calculus ratiocinator, cioè un calcolo, cioè Leibniz ebbe l'idea che queste cose dovevano essere fatte attraverso il calcolo, cioè si doveva riuscire a ridurre il ragionamento a qualche cosa che fosse di natura matematica, esattamente come fare delle operazioni di natura algebrica e questo calcolo poi in effetti riuscì a farlo Boole. La sua idea, la sua vera filosofia era quello che noi potremmo chiamare oggi un panlogismo, cioè tutto è logica. Qui allora ho fatto una tabella per farvi capire la differenza che Leibniz poneva tra i tipi di verità e c'era anzitutto quella che lui chiamava “la verità di ragione”. Le “verità di ragione” sono quelle verità che hanno come caratteristica “la necessità”, cioè sono verità necessarie e da un p. d. v. di dimostrazioni, si possono dimostrare con le dimostrazioni della logica, quindi dimostrazioni finite. Ma Leibniz vedeva anche un secondo tipo 69 di verità, che erano le cosiddette “verità contingenti, cioè verità di fatto, non di ragione, con cui non si può arrivare attraverso la ragione, ma sono quelle che succedono nel mondo. Queste verità non sono necessarie, bensì l'esatto contrario, sono contingenti e si possono, secondo lui, dimostrare, ma non più con dimostrazioni finite, sono molto più complicate, sono di natura infinita, praticamente solo Dio le può vedere. Ed ecco che allora la nostra ragione arriva fino al finito, cioè arriva fino ad un certo punto e soltanto Dio può dimostrare che le verità di fatto sono effettivamente dello stesso genere delle verità di ragione. Le verità di ragione sono in realtà di tipo diverso dalle verità di fatto per questo motivo: Verità di ragione: sono vere in tutti i mondi possibili, non fanno riferimento a questo Vere in tutti i mondi possibili mondo, ma sono vere ovunque, sarebbero vere anche in altri mondi, Verità di fatto: perché sono verità che riguardano soltanto la ragione, soltanto la vere nel mondi contigente necessità e non la contingenza, mentre invece le verità di fatto sono vere nel mondo contingente, in questo mondo, non in tutti i mondi possibili, ma soltanto in questo. Ed ecco che questa distinzione, questa divisione tra le verità di ragione e le verità di fatto è qualche cosa che al giorno d'oggi è diventata veramente importante. Come mai? Ma perché le verità di ragione sono oggi considerate le cosiddette verità della logica, cioè le verità del ragionamento, sono quelle che quando facciamo la logica matematica effettivamente riusciamo a dimostrare con dimostrazioni finite. Ora la cosa non è affatto ovvia, perché chi lo dice che dal solo fatto che una verità si possa vedere con l'occhio della ragione, allora da questa ipotesi si possa poi dimostrare che la verità si può ridurre ad una dimostrazione di tipo matematico? Non è affatto ovvio e il contenuto, cioè questa affermazione che ho appena fatto in una maniera un pochettino più formale, è quello che si chiama “il teorema di completezza”, cioè ogni verità di ragione è effettivamente dimostrabile, cioè tutte le verità logiche sono dimostrabili. Ebbene questo teorema di completezza per logica proporzionale, cioè la logica degli stoici fu dimostrato da Post nel 1920-21 e per “la logica predicativa” di cui parleremo in seguito, fu dimostrato da Goedel nel 1930. Quindi Leibniz aveva intravisto o previsto la possibilità addirittura di questo cosiddetto teorema di completezza, la possibilità di riuscire a dimostrare tutte le verità di ragione in una maniera matematica. Per quanto riguarda invece “le verità di fatto”, invece queste sono vere nel mondo contingente, le dimo- strazioni di cui parlava Leibniz sono dimostrazioni di natura infinita. La cosa strana è che, mentre oggi le verità di ragione sono identificate con le verità della logica, le verità di fatto sono identificate da una parte con le verità della matematica e dall'altra parte con le verità della scienza. Quindi qual’è la differenza tra logica, matematica e scienza? Ebbene, la logica effettivamente permette un cosiddetto teorema di completezza, cioè tutto ciò che è vero nella logica si può dimostrare in maniera finita, mentre invece la matematica non permette niente del genere, c'è un cosiddetto “teorema di incompletezza”, cioè le verità di fatto, cioè le verità che sono vere nel mondo della matematica non si possono in generale dimostrare attraverso dimostrazioni finite e questo è il contenuto appunto del “teorema di incompletezza di Goedel”. Naturalmente questi tentativi di Leibniz di precorrere i tempi non furono capiti durante la sua era. Voltaire Ora parliamo di Voltaire, il famoso romanzo di cui forse qualcuno Candide(1759) di voi avrà sentito parlare o che avrà letto Candide (1759), Voltaire “Il migliore dei mondi possibili” sbeffeggia praticamente proprio questa idea, che il nostro mondo sia il migliore dei mondi possibili, che era appunto quello che Leibniz sosteneva, cioè le verità di fatto sono verità che, benché siano vere in un solo mondo, questo mondo è il migliore dei mondi possibili. Bene, siamo arrivati alla fine di questa carrellata sull’Interregno della logica, tra gli stoici e i tempi moderni; vi invito alla prossima lezione sulla logica moderna, di lì incominceremo. 70 LEZIONE 9: Un inglese calcolatore Finalmente siamo arrivati al dunque, come si dovrebbe dire. Abbiamo fatto varie lezioni introduttive, poi ci siamo interessati dei primordi della logica matematica, quando ancora non era matematica, era soltanto logica, che sono per l’appunto il periodo greco. Abbiamo parlato di Aristotele, di Crisippo, prima ancora di Platone, poi abbiamo fatto una lezione sul cosiddetto Interregno, cioè la parte intermedia, questi 2000 anni fatti in un batter d'occhio, che sono passati da Crisippo, dalla fine della logica stoica, cioè verso il 200 a. C., fino a Leibniz, ai sogni precursori di Leibniz, passando attraverso la scolastica. Ebbene finalmente siamo arrivati, come dicevo al dunque. Questa volta incominciamo veramente con quella che si chiama logica matematica e ormai siamo siano vicini a noi, perché in questo volo che abbiamo fatto, in questo volo d'uccello, abbiamo passato questi 2000 anni e ormai siamo arrivati al 1850, a circa la metà dell'800. Ancora abbiamo circa metà delle nostre lezioni e ci interesseremo uno a uno di tutti i logici matematici, meglio dei più grandi logici matematici che hanno segnato con il loro nome la storia di questa materia. Quest’oggi parliamo, come si vede dal titolo, di un inglese calcolatore, calcolatore non nel senso etico di una persona cattiva che fa i suoi conti per fregare gli amici, ma semplicemente nel senso letterale. E’ un personaggio che è nato in Inghilterra e che ha portato nella logica matematica o nella logica, diciamo così, questo aspetto di calcolo e parlo di George Boole, ma adesso ne parleremo più diffusamente. Devo subito dire una cosa, cioè avvertirvi che mentre nelle precedenti lezioni siamo riusciti a uscire anche dai nostri confini, dai nostri limiti, perché la logica matematica è tutto sommato una piccola parte della matematica moderna, per cui siamo riusciti a parlare di tante cose, di filosofia, di teologie e così via, ebbene man mano che invece ora ci avviciniamo verso la contemporaneità, verso i nostri anni, tutte queste belle cose dovremo lasciarle un pochettino da parte, dovremo incominciare a parlare più da vicino di aspetti tecnici della logica matematica. Anche i personaggi stessi, cioè coloro di cui parleremo, coloro che hanno lasciato la loro firma sotto questo grande libro della logica matematica sono ovviamente meno interessanti, come si può dire, meno pieni di vita e di attività di quelli che li hanno preceduti, però insomma questo è tipico dell'evoluzione della scienza. Agli inizi i personaggi sono estremamente poliedrici, fanno di tutto come per ricordarci, per esempio Leibniz l’ultimo di cui abbiamo parlato, che era un po' di tutto, giurista, filosofo, matematico e anche logico, ebbene invece questi personaggi moderni incominciano a diventare specialisti, proprio perché, quando la scienza acquista maturità, diventa un qualche cosa di settoriale, comunque cercheremo di rendere ciononostante le lezioni un pochettino allegre e cominciamo a vedere che cosa è successo. Abbiamo parlato prima di quali sono i precursori della logica moderna, ora cerchiamo brevemente di ricordare ciò che hanno fatto. Il primo, il più grande dell’antichità, è stato ovviamente Aristotele, che ha creato la teoria dei sillogismi. In realtà i precursori della logica moderna, in questo senso li vogliamo intendere come precurPrecursori della logica moderna sori di George Boole, cioè di colui di cui parleremo oggi ¾ Aristotele: sillogismi ed è per questo che ci soffermeremo su alcuni aspetti di ¾ Crisippo: logica proposizionale ciò che hanno fatto questi grandi precursori, in particolare ¾ Leibniz: characteristica, calculus Aristotele di cui voglio ricordare la teoria dei sillogismi, cioè la teoria che deduce delle conseguenze da una premessa maggiore e da una premessa minore e che coinvolgono i cosiddetti quantificatori: tutti, nessuno, qualcuno. L’altro grande precursore è Crisippo ovviamente, con la logica proposizionale di; ricordatevi che la logica proposizionale è la teoria del mettere insieme al livello proposizionale, appunto,delle frasi attraverso i cosiddetti connettivi, che sono quelle particelle del linguaggio di cui abbiamo parlato spesse volte ormai, che sono la negazione non, la congiunzione e, la disgiunzione o, l’implicazione il se….allora. Anche nel caso di Crisippo, nel caso della logica proposizionale ne citiamo i contributi, perchè Boole di cui parleremo, in realtà ha dato un nuovo modo di vedere i risultato di Aristotele o Crisippo. Poi da ultimo Leibniz, che abbiamo trattato nell’ultima lezione e per Leibniz le due nozioni fondamentali, le due idee fondamentali erano da un lato quello della characteristica universalis, cioè della lingua filosofica, cioè il trovare un linguaggio tecnico, un linguaggio astratto che permetta di esprimere tutto ciò che le scienze vogliono dire e i particolare, tra le scienze, anche la matematica. Invece il secondo aspetto di Leibniz è l’aspetto del “calculus ratiocinator”, cioè il fatto non soltanto di riuscire a scrivere ciò che si vuole scrivere, cioè il linguaggio della scienza, ma anche di tradurre il tutto in un calcolo proprio del tipo di quelli che si fanno nella matematica, per esempio e lo dico non a 71 caso, perché è qui che voglio arrivare, per esempio il calcolo algebrico, cioè le operazioni dell’algebra, la somma, il prodotto, la sottrazione, la divisione che sono quelle tipiche che si usano in matematica, anche ai livelli più elementari, che sono le operazioni che servono per andare a far la spesa, a comprare, addizionare, moltiplicare, dividere, sottrarre eccetera, per poter fare di conto come si diceva una volta. Bene allora, arriviamo dunque al nostro personaggio, che è questo signore di cui abbiamo questa fotografia e niente altro. Praticamente non ci è rimasto molto, vi ho già anticipato appunto che questi personaggi, dal punto di vista folkloristico, sono meno interessanti di colore che li hanno preceduti. Boole ha avuto una vita piuttosto breve come vedete, è nato il 1815 ed è morto il 1864. Una vita per niente avventurosa, è stato un professore universitario, ha insegnato, ha scritto qualche libro, pochi, ha fatto un po’ di ricerca e la cosa è finita lì. Quindi non vi posso raccontare grandi aneddoti, però cerchiamo di vedere invece più da vicino che cosa ha fatto da un p. di v. scientifico. Ebbene Boole ha scritto praticamente due sole opere, una nel 1847 e una nel 1854. La prima opera si chiamava “l’analisi matematica della logica” ed ecco qui che interviene finalmente questo aggettivo, cioè matematica unito a questo sostantivo che è quello della logica. Nel 1847 finalmente la logica che era appunto Opere una impresa filosofica di analisi del linguaggio, delle antinomie del 1847: l’analisi matematica della logica ragionamento, che si fa nei fori, nei parlamenti e così via 1854: le leggi del pensiero e anche ovviamente nelle scienze, perciò una analisi di tipo soprattutto filosofico, finalmente con Boole diventa un'analisi matematica, cioè Boole è riuscito a far vedere e questo oggi lo vedremo in dettaglio, ebbene spero di farvi vedere come è riuscito a legare da una parte la logica e dall'altra parte la matematica, cioè questa analisi matematica della logica. Boole scrisse questo libretto, perché veramente è un piccolo libretto, che tra l'altro se volete potete anche leggerlo, perché è stato tradotto in italiano da Massimo Mugnai ed è stato pubblicato dalla Boringhieri, quindi un piccolo libretto, che vale la pena leggere perché effettivamente ancora oggi moderno e li si può effettivamente vedere il nascere di questa nuova disciplina. Però Boole non era soddisfatto di questo libretto, anche perché la risonanza che ebbe non fu grandissima, è una risonanza che ovviamente era ristretta all'ambito accademico, lo lessero alcuni dei suoi colleghi, qualcuno degli studenti e poi insomma si sparse la voce, diciamo così, in Europa. Notate che Boole era un inglese, si chiamava Gorge ed era la prima volta che parliamo di uno che faccia parte del cosiddetto continente, cioè in precedenza abbiamo parlato di greci ovviamente, abbiamo parlato di tedeschi come Leibniz e così via, però in realtà tutto avveniva nel continente e anche il fatto che questa nuova analisi, questo nuovo nascere della logica matematica, sia avvenuto in un ambiente, in una nazione che non era una di quelle solite, già dice che c'era effettivamente qualcosa di nuovo, ci voleva anche un luogo di nascita differente per far nascere una materia differente. Ebbene, dicevo, poiché il riconoscimento che Boole ebbe nel suo primo lavoro del 1847 non fu quello che lui sperava, lui scrisse un altro libro nel 1854 che si chiamava nientepopodimeno che “le leggi del pensiero” e qui si vede anche un pochettino l'aspetto pubblicitario della questione, cioè Boole capisce che un titolo come “l'analisi matematica della logica” può attirare soltanto degli specialisti, mentre invece scrivere un libro sulle leggi del pensiero è un qualche cosa che può estendere l'ambito e il riconoscimento che si possono avere. Notate, tanto per cambiare, ancora una volta ritroviamo anche nell'opera di Boole, nell'opera del primo logico matematico in senso letterale, quella divisione che abbiamo già visto essersi riproposta da Pitagora, a Platone, Aristotele, Leibniz e così via, cioè la divisione fra la ricerca e la divulgazione, fra l'esoterico e l’essoterico, fra ciò che si indirizza agli specialisti del campo, come nel caso di Boole il suo primo libro e ciò che invece vuole indirizzarsi anche ai curiosi, diciamo così, a coloro che vogliono ricevere della divulgazione, che vogliono essere informati di quali sono le novità del campo. Ebbene, vediamo più da vicino, quale è stata l'idea fondamentale di George Boole. George Boole ha inventato quella che oggi si chiama guarda caso “algebra booleana”, cioè il suo nome è diventato così naturale, così importante nel campo della matematica da diventare addirittura un aggettivo. Questa algebra booleana, di cui parlerò a Algebra booleana = lungo quest’oggi, è una cosa veramente importante, è anche un Interpretazione algebrica pochettino l’uovo di colombo, cioè quando vedremo i risultati 72 della logica di questa realizzazione, ci accorgeremo che tutto sommato, forse se ci avessimo pensato, anche noi avremo potuto essere lì al momento giusto e avere anche le idee giuste, come spesso succede con le uova di colombo. Ebbene questa algebra booleana, in due parole, si può semplicemente dire che è una interpretazione algebrica della logica, cioè è algebrica ovviamente, questo lo dice già il nome, perché appunto il nome deriva dall'algebra e però è anche un'interpretazione della logica, cioè l'idea di Boole fondamentale è stata quella di dire, ma insomma quello che io cerco, quello che voglio cercare di fare, è di dare una veste matematica agli studi di logica che sono venuti prima di me. Ovviamente Boole, ormai eravamo nel 1850 circa, a metà dell'800, conosceva benissimo i precursori, aveva letto Aristotele, aveva letto Platone, ovviamente conosceva Leibniz e così via. Quindi non è che Boole sia nato in un vuoto, in un vacuum, come si potrebbe dire in inglese, la lingua che parlava lui, Boole è nato in una certa cultura e sapeva benissimo dove voleva arrivare a parare, cioè voleva fare un'interpretazione matematica della logica. Ora quando si cerca di fare un'interpretazione matematica, si ha di fronte a sé un certo numero di possibilità, una gamma di possibilità, perché matematica è appunto per esempio l'algebra, ma è anche l'analisi di cui abbiamo parlato, che Leibniz e Newton avevano inventata, il cosiddetto calcolo differenziale, poi ci sono tante branche della matematica, per esempio la geometria, perciò bisogna fare anzitutto una scelta e la scelta di Boole fu la scelta forse più naturale, la scelta di usare l'algebra per fare questo tipo di ricerche e di incominciare a scrivere i risultati della logica che all'epoca non era ancora matematica, ma lo stava diventando, dicevo, di incominciare a scrivere il linguaggio, le regole della logica e anche gli assiomi in maniera algebrica. Ora come si può fare questo? Beh, la logica parla di vero e falso tutto sommato, cioè la vera essenza della logica è proprio questo, lo studio di ciò che è vero e di conseguenza anche lo studio di ciò che è falso e allora bisogna cominciare, tanto per fare il primo passo, ad associare al vero e al falso degli oggetti matematici. Questo non è tanto semplice, non è tanto immediato, però bisogna fare una scelta; ebbene la scelta che fece Boole fu questa qui (v. slide) e bisogna veramente dargli atto che fu la scelta giusta, la scelta corretta, perché il vero e il falso da un punto di vista logico, da un punto di vista filosofico sono concetti molto complicati. Pensate, per esempio, alla famosa domanda che pose Pilato a Gesù, durante Valori di verità il processo famoso che poi si concluse alla fine con la condanna di Gesù Vero = 1 Falso = 0 e con la passione e cose poi che tra l’altro ha costituito l'essenza del cristianesimo. Ebbene, durante il processo di Gesù, quando Gesù arrivò di fronte a Pilato, che gli era stato mandato, vi ricorderete da Erode, allora arrivato di fronte a Pilato ci fu questo scambio di convenevoli, potremo dire oggi e ad un certo punto Gesù ripeté una delle frasi che era solito dire “io sono la verità e la vita” e così via e Pilato per un momento fu colpito, se qualcuno dicesse “io sono la verità” e chiese a Gesù che cos'è la verità? Ora questa domanda di Pilato è la domanda essenziale della logica “che cos'è la verità?” Quale sarebbe la risposta che dareste voi? Beh, insomma la cosa interessante è che Pilato non stette ad aspettare la risposta, pose la domanda, che cos'è la verità e se ne andò senza aspettare la risposta, così dicono i Vangeli. Come mai? Beh, ovviamente non si tratta di dare troppo affidamento, anzi tutto, a ciò che viene raccontato, viene tramandato, ma soprattutto alla capacità analitica, alla capacità logica di Pilato. Pilato se ne andò, non perché sapeva che Gesù all’epoca non avrebbe potuto dargli una risposta logica, se n'andò per motivi suoi. Ma oggi noi possiamo reinterpretare questo cose per l’appunto così, cioè 2000 anni fa, 1850 anni prima di Boole, la risposta alla domanda di Pilato “che cos'è la verità” non si poteva dare, perché questa risposta fu una risposta molto tardiva, cioè richiedeva ancora 2000 anni di sviluppo. Ora nel caso di Boole, cioè nel caso in cui viene associato al vero un numero e al falso un altro numero, tutti questi problemi filosofici e etici che stanno dietro le nozioni del concetto di verità, praticamente scompaiono, si dissolvono. Il vero non ci interessa più definirlo in qualche maniera filosofica, ci interessa semplicemente associarlo a qualche numero e il falso, idem, lo associamo a qualche numero, però la cosa importante è che la scelta di questi due numeri, che sono 1 e 0, deve essere poi tale da far funzionare tutto il resto della logica. Ora si potrebbe fare anche l'inverso per esempio, non ci sarebbe niente di sbagliato a dire che il vero è lo zero e il falso è l'uno, però in genere si fa questa associazione, perché in qualche modo il vero è positivo e il falso è negativo, per cui è meglio forse associare lo zero al falso e al vero associare qualche numero che sia maggiore di zero e quindi questa fu la scelta originale di Boole. Bisogna metteterselo in testa perché sarà utile per lo meno nelle prossime slide, perché su questa base, che è una base appunto quasi lapalissiana, come ho detto l'uovo di colombo, si può costruire tutta la logica. Ora vediamo allora come si può andare 73 avanti. Anzitutto bisogna ricordarsi di una cosa, che il fatto che lo 0 e l'1 siano associate al vero e il falso e che pretendano di essere praticamente i fondamenti dell'intera logica, non è poi un fatto così banale, ma non è nemmeno così campato in aria, perché in precedenza, guardate qui addirittura nel 600 a.C., quindi 600 anni prima di quell'episodio che ho appena ricordato di Pilato, già nel 600 a.C. dicevo i Ching, un famoso classico della filosofia confuciana, qui vedete l'immagine, per l’appunto, di Confucio, ebbene questi Ching erano basati su quella che oggi viene chiamata l’aritmetica binaria, di cui dirò adesso due parole. L'aritmetica binaria significa fare l'aritmetica non con tutti i numeri interi 0, 1, 2, 3 e così via, fino all'infinito, non addirittura con i numeri reali, quindi non soltanto quelli, ma i razionali, gli irrazionali, per esempio, come π greco, radice di 2, ma soltanto con quei due numeretti lì 0 e 1. Aritmetica binaria significa fare la solita aritmetica, le solite operazioni somma, prodotto e le loro inverse, sottrazioni e divisioni, ristrette ai numeri 0 e 1. Voi direte, ma per quale motivo dovremmo limitarci a queste cose, come legarci le mani e cercare di fare tutto quel che si può fare, soltanto però con le mani legate. Ebbene, i Ching avevano ovviamente un motivo completamente sui generis, che era un motivo astrologico. I Ching hanno costruito delle figure come quelle che vedete quaggiù, queste qui si chiamano trirami, per l'ovvio motivo che sono fatte in tre linee, queste linee, intere o spezzate; l'intero o spezzato è ovviamente un simbolo, una metafora, di che cosa? Del bene e del male, del giusto e dello sbagliato, del vero e del falso, del maschile e del femminile, insomma per dirlo in una parola, che tutti conoscete, dello Yin e dello Yan, cioè la contrapposizione cinese. Questo simbolo qua, che Confucio tiene in mano, è precisamente il simbolo dello Yin e dello Yan, la compenetrazione di due qualità contrapposte, una nera e l'altra bianca, per l’appunto lo Yin e lo Yan. Ebbene, quindi linea intera, linea spezzata sono misture, diciamo così, sono simboli Yin e Yan e quindi in particolare, dal nostro punto di vista logico, sono simboli del vero e del falso. Se noi combiniamo insieme queste linee e ciascuna di queste linee può essere intera o spezzata, abbiamo due possibilità per la prima, altri due per la seconda, cioè quattro in tutto e altre due per la terza, cioè otto in tutto. I Ching fanno una cosa un po’ più complicata, cioè invece di avere soltanto dei trigrammi usano degli esagrammi, cioè sei linee intere o spezzate e su queste praticamente impiantano l'intero sistema astrologico, perché quello che loro volevano fare, era cercare di indovinare il futuro. A noi questo non interessa assolutamente niente, però la cosa importante qui, è che già i cinesi avevano capito che lo zero e l'uno erano in qualche modo i numeri essenziali, su questi numeri si potevano costruire praticamente tante altre cose, in particolare si potevano costruire otto trigrammi, si potevano costruire 64 esagrammi e quindi praticamente era possibile solo con lo 0 e con l’1 o se volete solo con linee intere e spezzate, arrivare fino ai numeri da 0 a 64. Leibniz, il solito, nel 1784, che è dopo la sua morte, voglio dire che questa è un'opera postuma, nel 1784 fu pubblicato un libro di Leibniz, in cui il Leibniz che era a conoscenza di questo classico confuciano, perché Leibniz conosceva i gesuiti che erano andati in Cina ed era in corrispondenza con loro, questi gesuiti lo misero in contatto con la filosofia cinese e così via, ebbene Leibniz fu folgorato, dice: mah, non ce nessun bisogno di fermarsi a 64, usando soltanto lo zero e l'uno è possibile costruire tutti i numeri ed ebbe l'idea di quella che oggi viene chiamata “aritmetica binaria” e che è poi tra l'altro l'aritmetica sulla quale si basano i computer, guarda caso. Come si fa a scrivere numeri con l'aritmetica binaria? Lo zero è lo zero, l'uno è l'uno, fin qui non c'è problema, perché sono questi i due numeri. Il due, che noi scriviamo 2 nel nostro sistema decimale, avendo il simbolo per il due speciale, ebbene, nel sistema binario bisogna scrivere 2 usando soltanto lo 0 ed l'1 e allora lo si scrive come dieci 10. 10 significa 2 elevato 1, più 2 elevato 0, ecco che il 3 si può scrivere come 11, 4 si può scrivere come 100, 5 si può scrivere come 101 e così via; usando soltanto combinazioni di 0 e 1 si possono scrivere tutti i numeri. Quindi già l'idea di Boole, di limitarsi a 0 ed 1 per interpretare il vero e falso, è un'idea che sembra meno balzana, se la si situa in questo contesto, nel fatto che appunto si possono già scrivere tutti i numeri con lo 0 e 1 Che cosa fece però Boole più precisamente? Beh, fece la seguente cosa: capì che una volta interpretato l'1 come vero e lo 0 come falso, la negazione si poteva interpretare semplicemente come sottrazione da 1. Vediamo qui la tabellina e cerchiamo di capire questa cosa. Negazione = sottrazione Supponiamo di avere 1 qua; questo 1 significa che la proposizione 74 1–1=0 1–0=1 che stiamo considerando è vera, ma allora 1 meno 1 diventa 0, Congiunzione = prodotto cioè la negazione di una proposizione vera diventa falsa, che è 1x0=0x1=0x0=0 precisamente una delle regole di cui parlato nella scorsa lezione o due lezioni fa quando parlavamo di Crisippo; idem quando partiamo invece di una proposizione falsa, il cui numero associato sia 0; 1 meno 0 è 1, quindi la negazione di una proposizione falsa è una proposizione vera. Ecco che allora, associare 0 e 1, a falso e vero, permette di associare alla negazione la solita operazione di sottrazione. Idem per la congiunzione ed ecco vediamo allora in questo modo come sia possibile passare da questi numeretti a tradurre le regole della logica. La congiunzione è invece secondo Boole e adesso lo verifichiamo tra un momento, è un prodotto semplicemente, il prodotto dei numeri 0 e 1, vediamo: quand'è che la congiunzione di due proposizioni è vera? Soltanto in un caso, se ricordate la tabellina che abbiamo fatto, per l’appunto degli stoici, che definiva quand’è che la congiunzione era vera. La congiunzione di due congiunti è vera soltanto quando tutti e due i congiunti sono veri; prendiamo due congiunti veri, cioè prendiamo il numero 1, due volte, moltiplichiamo uno per se stesso, 1 x 1 continua a rimanere uno. Quindi il prodotto di due uni è uguale a uno, cioè la congiunzione di due proposizioni vere è vera, questo è l’idea. Vediamo che cosa succede negli altri casi. Beh, negli altri casi almeno uno dei due congiunti deve essere falso, o il primo o il secondo o tutti e due addirittura devono essere falsi. In questo caso la congiunzione di almeno un congiunto falso, deve essere falsa; vediamo se tutto ciò corrisponde effettivamente ai numeri. Qui abbiamo il prodotto di uno per zero, che corrisponde alla congiunzione di una proposizione vera e di una falsa, quanto fa 1 per 0? Fa 0, effettivamente, la congiunzione è falsa. Il caso simmetrico ovviamente, per l’appunto simmetrico, è la stessa cosa, se la prima proposizione è falsa e la seconda proposizione è vera, questo corrisponde a fare il prodotto di 0 per 1 e dunque continuiamo ad ottenere 0. L'ultimo caso, che è il caso in cui tutti e due i congiunti, cioè tutte e due le proposizioni che mettiamo insieme sono false, anche qui come si direbbe, non ci piove, 0 x 0 continua rimanere zero. Dunque il prodotto di numeri che possono essere o zero o uno, è 1 soltanto quando tutti e due i numeri sono 1 ed è 0 se almeno uno dei due numeri è 0, magari anche tutti e due. Questo è esattamente la proprietà fondamentale che abbiamo già visto nella precedente lezione, che definiva la caratteristica principale della congiunzione. Ed ecco che allora, questo trucchetto di Boole, di associare il vero all’ l, il falso allo 0, la negazione alla sottrazione e la congiunzione al prodotto, permette di ritradurre tutto ciò che sembrava molto arzigogolato, molto complicato e molto sottile anche nel campo della logica proporzionale degli stoici, la fa diventare semplicemente un giochetto da ragazzi, perché sottrarre un numero che può essere 0 o 1 da 1, oppure moltiplica due numeri tra di loro, ciascuno dei quali può essere 0 o 1, risponde semplicemente a delle regole che sono banali, che qualunque ragazzo delle elementari potrebbe fare. Ed ecco che allora questa algebra di Boole è veramente un idea geniale, un idea fondamentale, perché dietro questo aspetto, si cela la possibilità di interpretare aritmicamente o algebricamente la logica. L'algebra booleana non è nient’altro che fare algebra, cioè fare le quattro operazioni solite ristringendosi ai numeri 0 e 1. Quale fu però la scoperta fondamentale di Boole, a parte questo aspetto che sembra così banale? La scoperta fondamentale fu, che quest'algebra booleana, benché così semplice, quasi banale, anzi quasi imbarazzante da un punto di vista matematico, ebbene questa algebra booleana è uno strumento universale. Ora questo forse può sembrare persino eccessivo, che cosa significa universale? Beh, adesso non esageriamo, non è che si possa applicare dovunque, però certamente si può applicare in tantissimi campi diversi di cui adesso vi farò perlomeno una serie di esempi, tanto per convincervi che effettivamente sia Boole che noi, oggi quando impariamo l'algebra booleana, siamo arrivati a toccare, uno dei punti cruciali, a mettere il dito nella piaga, diciamo così, della logica moderna. Quindi vediamo alcuni esempi; il primo esempio, ne abbiamo appena parlato adesso, è precisamente l'applicazione logica, cioè Boole riuscì a far vedere che quelle tabelline che abbiamo appena considerato, erano effettivamente in grado di descrivere le regole della logica proporzionale, cioè quella logica che aveva inventato o scoperto o descritto o analizzato Crisippo. Ma immediatamente Boole fece anche una seconda scoperta, cioè che anche la logica sillogistica, cioè quell'altro aspetto della logica che era stata analizzato da Aristotele e sembrava in contrapposizione alla logica proposizionale di Crisippo, non lo era affatto. Ricordate che le due Scuole, da una parte la Scuola del Liceo aristotelico e dall'altra parte la Logica Scuola della Stoà di Crisippo erano in contraddizione tra ¾ Proposizionale(Crisippo) di loro, si sentivano contrapposte, perché i peripatetici seguaci 75 ¾ Sillogistica(Aristotele) di Aristotele dicevano che la loro analisi era più fondamentale perchè parlava di tutti, qualcuno, nessuno e questo era il vero livello del loro discorso, mentre gli stoici con Crisippo dicevano che erano loro ad aver fatto un'analisi logica più fondamentale perché erano andati più giù, più a fondo nell'analisi del linguaggio con la scoperta dei connettivi, ebbene dal p.di v. di Boole, dal p. di v. della matematica, sia la logica proposizionale dei connettivi di Crisippo, che la logica sillogistica dei quantificatori di Aristotele si possono descrivere con la stessa algebra booleana. Ed ecco che un solo strumento matematico, tra l'altro come dicevo, imbarazzantemente semplice, permette di scrivere due cose che a prima vista sembravano diverse, cioè si scopre dopo 2000 anni, che i peripatetici, cioè i liceali di Aristotele e gli stoici di Crisippo non erano in contrapposizione, avevano fatto due analisi, che però da un p.di v. matematico erano la stessa analisi. Questo è un risultato veramente grandioso, cioè prendere i due più grossi risultati, le due più grosse analisi della filosofia logica greca e far vedere che, tutto sommato, sotto di esse c’è lo stesso tipo di analisi e che sono soltanto due modi di vedere, anzi lo stesso modo di vedere due cose diverse, ecco questo è già qualche cosa di veramente fondamentale, praticamente senza aver fatto nulla, notate, perchè si è semplicemente tradotto vero e falso, negazione e congiunzione mediante delle semplici operazioni. Ma non basta ovviamente, perché Boole soprattutto del suo secondo libro “le leggi del pensiero”, il cui titolo, come dicevo prima, è significativo, perché Boole capì di avere in mano uno strumento veramente potente, uno strumento veramente universale ed è per questo che ha scritto il secondo libro, per far vedere tutti questi esempi. Un'intera parte del suo secondo libro, nel primo non c'è, ma nel suo secondo libro si, un'intera parte dicevo, è dedicata all'analisi della probabilità. La probabilità è naturalmente il tentativo di cercare di catturare matematicamente e qui vedete il caso più casuale di tutti, cioè la pallina della roulette, quando si va al casinò a giocare non bisognerebbe giocare, lo si sa, perché le leggi del caso, insomma, sono cose su cui non si possono mettere le mani. Ebbene però, ci fu verso il ‘700 e anche verso il ‘600, ci fu un tentativo che poi diventò un tentativo riuscito, tanto da diventare quella che oggi si chiama la teoria delle probabilità, un tentativo per cercare di descrivere matematica mente quali erano le leggi della probabilità. Boole nel 1850, per l’appunto, cerca di descrivere algebricamente le leggi della probabilità e che cosa scopre? Scope precisamente che le leggi della probabilità sono di nuovo, tanto per cambiare, esattamente le leggi dell'algebra booleana, che già era riuscita a descrivere i sillogismi di Aristotele, che già era riuscita a descrivere la logica proporzionale di Crisippo e che adesso, lo stesso strumento, riesce a descrivere anche la teoria delle probabilità. Come mai? Mah, l'idea fondamentale è che, in realtà, quando si prendono due eventi indipendenti fra di loro, ebbene se si sa la probabilità di uno e si sa anche la probabilità dell'altro, la probabilità dell'evento composto, quando succedono tutti e due, è semplicemente il prodotto delle due probabilità. Ed ecco che allora, si incomincia capire che, se le probabilità si moltiplicano per eventi indipendenti, ci sarà qualche cosa che li lega, come l'algebra. La probabilità di due eventi che siano in alternativa uno con l'altro, uno succede se e soltanto se non succede quell'altro, sono legate dal fatto che la probabilità di uno è il contrario della probabilità dell'altro. Ora però, contrario che cosa significa? Qual’è la certezza matematica, qual’è la probabilità più certa di tutte? La probabilità 1, quando non si può scappare. Qual'è la probabilità meno certa di tutte, quella sicurezza di non avere nessuna possibilità, è quella che si chiama probabilità 0, per l’appunto. Ed ecco che, allora lo 0 e l’1 che prima venivano identificate con il vero e con il falso, adesso vengono identificate con certo o necessario e con l'impossibile e le loro leggi sono precisamente le leggi della negazione e della congiunzione, cioè le leggi della sottrazione e del prodotto e quindi di nuovo l'algebra booleana riesce a descrivere queste leggi della probabilità. Quindi abbiamo già fatto tre esempi, matematicamente molto importanti, non è più soltanto la logica che viene coinvolta in questa analisi, ma è anche la teoria della probabilità. Ma non basta, perché ho detto prima, non parleremo più di teologia, però poi scappa sempre la voglia di farlo, ecco qui in teologia, questo signore è il filosofo arabo Avicenna, che introdusse quella che viene chiamata la prova cosmologica dell'esistenza di Dio, di cui 76 adesso non ci interessiamo, perché non è questo il succo del discorso, però la cosa interessante è che nel suo libro Boole, ad un certo punto dice: guardate che l'algebra booleana non è soltanto uno strumento per analizzare teorie matematiche, può anche essere applicata in campi differenti, per esempio la teologia e dedica un intero capitolo del suo libro ad un'analisi della prova cosmologica nella versione più moderna che lui conoscesse, la versione in inglese tra l'altro, che si chiamava Clarke. Quest'inglese aveva messo in maniera puramente formale la dimostrazione cosmologica dell'esistenza di Dio, Boole analizza la sua dimostrazione e scopre degli errori. Scopre che facendo i conti con la sua piccola algebra booleana, è molto facile andare a vedere quand'è che un ragionamento è corretto e quando no e scopre che Clarke aveva fatto effettivamente degli errori. Quindi un uso anche filosofico, addirittura teologico dell'algebra booleana. Ma non basta, andiamo avanti, vediamo qui un'applicazione e questa è una applicazione che potrebbe sembrare veramente da attribuire addirittura all'ingegneria. Ho scritto qui nella slide una parola tra parentesi, per significare che si parla di circuiti elettrici, se non si usano le parentesi oppure elettronici in caso contrario, cioè sia i circuiti elettrici, quelli con fili e lampadine e così via, sia i circuiti elettronici, cioè valvole, chip e così via, hanno una logica interna che si può descrivere attraverso l'algebra booleana. Ma come direte voi, pure questo? Ebbene, purtroppo o per fortuna proprio anche questo. A che cosa risponde lo 0, a che cosa corrisponde l'1? Molto semplicemente, lo zero corrisponde al rubinetto chiuso, cioè all'interruttore chiuso, l'uno corrisponde all'interruttore o al rubinetto aperto, cioè 1 significa la corrente può passare, 0 significa la corrente viene ininterrotta. Ed ecco che, mettere insieme questi chip o mettere insieme questi fili si può fare seguendo le leggi dell'algebra booleana, perché, per esempio, fare la negazione significa fare semplicemente quello che oggi viene chiamato un commutatore, un qualche cosa che lascia passare la corrente quando il filo precedente non la lasciava passare e che non la lascia passare quando invece la corrente precedente passava nel filo, cioè che cambia, commutata per l’appunto, quello che succedeva nel caso precedente. La congiunzione è la stessa storia, quando due fili arrivano e noi vogliamo far passare la corrente soltanto nel caso che tutti e due ce l’avessero e invece fermarla, se arrivava soltanto da una delle due parti o se non arrivava da nessuna, allora in quel caso non c'era niente da fermare, ecco che questo si può di nuovo spiegare e descrivere attraverso l'algebra booleana ed è per questo che l'algebra booleana oggi è usata e studiata, insegnata in qualunque corso di ingegneria, dal p.di v. della logica dei circuiti. Ma non basta, perchè qui le cose vanno avanti, qui vediamo addirittura un computer; vi ho già detto prima che la cosa rimane forse meno sorprendente quando si sa che l'aritmetica binaria, l’aritmetica basata sui soli numeri 0 e 1, è in realtà l'aritmetica su cui si fondano i computer e i computer non fanno altro che avere questi bit, come vengono chiamati e se qualcuno di voi ha visto, a volte sugli schermi, queste schermate di programmi scritte in linguaggio macchina, cioè il linguaggio che capisce il computer, sono soltanto successioni di zero e uno. Ebbene però, nel 1943 Mc Culloch-Pitts cercarono di fare un'analisi di ciò che era possibile sul funzionamento dei meccanismi e scoprirono questa nozione che si chiama la nozione di “automa finito”. Che cos'è un automa finito? Beh, oggi tutti lo sappiamo, all'epoca ovviamente nel ’43 non lo sapeva nessuno, perché questa è stata una scoperta, gli automi finiti non sono nient’altro che i computer senza la memoria, cioè l’intreccio di fili o se volete i circuiti elettrici che costituiscono i chip che costituiscono il computer e la logica, la matematica che sta dietro a queste cose, attenzione, alla costruzione dei computer, è precisamente l'algebra booleana. Quindi abbiamo vistoo che effettivamente parecchi esempi, ma non è ancora tutto, perchè qui nella slide vediamo la fotografia di un cervello e addirittura nella cibernetica che è lo studio delle strutture cerebrali, lo stesso lavoro che ho appena citato prima, di Mc Culloch-Pitts che identificava questa classe di automi cosiddetti finiti, in realtà permette anche di identificare quelle che si chiamano oggi 77 le reti neurali. Come mai? Ma perché un circuito elettrico praticamente è la stessa cosa o perlomeno è molto simile, a un funzionamento dello stesso genere di quello che succede dentro il nostro sistema nervoso centrale. Il nostro cervello, come tutti probabilmente sapete, è costituito di neuroni che sono in collegamento fra di loro, attraverso i cosiddetti assoni che fanno arrivare delle scariche elettriche e i dendriti che invece le fanno uscire, è una specie di rete, una gigantesca rete più o meno come una rete di circuito elettrico, ebbene, che cosa succede dentro questi neuroni? Beh, i neuroni sono semplicemente delle porte, diciamo così, che aspettano di essere aperte e queste porte si aprono o si chiudono semplicemente attraverso scariche elettriche, queste scariche elettriche seguono delle regole, cioè aspettano, diciamo così, che si arrivi ad una certa soglia, quando questa soglia viene superata, la porta si apre, la scarica parte, si richiude la porta e si aspetta di nuovo. Ebbene, tutta questa logica che sta dietro al funzionamento del sistema nervoso centrale, è di nuovo la stessa logica dei circuiti elettrici, la logica degli automi finiti e così via ed è la logica che oggi noi descriviamo attraverso l’algebra booleana. Io mi fermo qui con la serie degli esempi, perché ovviamente credo di averne fatti parecchi. Siamo partiti da un piccolo sistema di matematica, cioè l’aritmetica binaria dello 0 e dell’1, con due operazioni, la sottrazione e il prodotto e poi abbiamo visto che tutto questo piccolo armamentario, questo piccolo toolkit, come direbbero gli inglesi, si poteva usare per aprire un sacco di porte. Abbiamo visto l’applicazione alla logica e anzi tutto il primo risultato, il primo grosso risultato di Boole, cioè che sia la logica aristotelica che la logica stoica si potevano in realtà interpretare come due facce di una stessa medaglia, come due incarnazioni di una stessa algebra che era, per l’appunto, l’algebra booleana. Poi abbiamo visto che anche la teoria della probabilità si poteva interpretare nello stesso modo; ci sono state applicazioni dello stesso Boole alla teologia e poi in tempi più recenti la teoria dei circuiti elettrici, la teoria degli automi finiti, la teoria delle reti neurali che permette di costruire degli analoghi meccanici del sistema nervoso centrale del cervello, tutte queste cose sono in realtà, come dicevo, delle reincarnazioni dell’algebra booleana. Ed ecco che allora, l’algebra booleana che sembrava semplicemente un granellino, in realtà è un granellino di sabbia che è stato messo dentro un ostrica e poi alla fine, col passare degli anni, col passare del tempo, si è aperta l’ostrica e dentro l’ostrica c’era effettivamente una perla. L'algebra booleana oggi è uno degli strumenti più generali che si possano applicare in matematica; però, c'è un però, c'è una piccola limitazione ed è con questa che finiamo per l’appunto la nostra lezione. L'algebra booleana non va oltre la logica greca, cioè descrive precisamente, come avevo detto, la logica di Aristotele e la logica di Crisippo, ma niente di più. Limitazioni E allora se noi vogliamo arrivare alla logica moderna,se L’algebra booleana non va vogliamo arrivare a quella che si chiama “la logica predicativa”, oltre la logica greca dovremo fare dei passi successivi che sono precisamente quelli ai quali dedicheremo le prossime elezioni. Quindi anche questo grande strumento dell'algebra booleana ha le sue limitazioni, cioè può fare tantissime cose purché siano di un certo livello di complessità. La logica moderna va oltre quel livello di complessità, ma questo lo vedremo nelle prossime elezioni. 78 LEZIONE 10: Un tedesco sensato e (in)significante La scorsa lezione abbiamo veramente incominciato a parlare della logica contemporanea e abbiamo parlato del primo grande logico matematico della contemporaneità, dell'era moderna della logica, che era incominciata con i greci e poi è passata attraverso gli scolastici, attraverso Leibniz e così via e questo primo personaggio è stato George Boole, l'inglese che ha introdotto l'algebra booleana. Abbiamo visto quanto importante sia stata l'algebra booleana e quante applicazioni essa possa avere nelle aree più disparate del sapere e delle scienze. Oggi invece affrontiamo un altro grande personaggio, forse ancora più grande di Boole, se è possibile dirlo per i motivi che vedremo e questo personaggio è un tedesco, che ho chiamato e pensato insignificante, anche qui per scherzare, perché in realtà è stato colui che ha fatto conoscere al mondo contemporaneo, al mondo moderno, la distinzione fra “senso” e “significato”. Di questa distinzione, tra l'altro, ne abbiamo parlato in precedenza perché già gli stoici, già Crisippo, l’aveva sottolineata e l’aveva capita. Però, come ricorderete, gli stoici sono stati dimenticati, il pensiero stoico, le conquiste stoiche sono state rimosse e quindi anche questa distinzione fra “senso e significato” che poi è stata riscoperta e poi ridimenticata durante la scolastica, è stata finalmente portata alla luce in maniera definitiva, si spera quest'oggi, da Frege. Allora abbiamo chiamato questo signore insignificante, perché ho già detto la scorsa volta che i nuovi personaggi della logica non sono più quei personaggi eclettici e interessanti, che avevano corrispondenze e che trattavano con reali o con filosofi e così via, ma sono semplicemente degli studiosi, sono diventati i ricercatori moderni. L'insignificanza non è certamente un’insignificanza intellettuale, è più che altro un'insignificanza di cose che hanno fatto durante la vita e di aspetti, diciamo così, teatrali della loro vita. Bene, cominciamo a vedere anzitutto, a familiarizzarci con l'immagine di Frege e con le date di nascita e morte che sono in genere gli inizi con cui partiamo. Frege è nato nel 1848, un anno importantissimo, molti di voi ricorderanno le rivoluzioni che ci sono state in Europa, il manifesto, il partito comunista e così via. Ebbene questo è stato anche l'anno di nascita di questo grandissimo logico che poi è morto nel 1925 Però in realtà la vita intellettuale di Frege è stata più breve, perché come vedremo tra poco, nel 1902 è stata portata a termine praticamente la sua impresa intellettuale dalla scoperta del famoso paradosso di Russell, al quale abbiamo già accennato una volta e che quest’oggi riprenderemo e di cui poi ancora tratteremo più profondamente la prossima volta, quando parleremo appunto di Russell e dedicheremo a Russell un'intera lezione. Cerchiamo di vedere allora più da vicino i contributi di Frege. I contributi di Frege sono praticamente contenuti dentro tre opere fondamentali. Le tre opere fondamentali che Frege ha scritto sono anzitutto “la ideografia”, poi “i fondamenti dell'aritmetica” e “i principi Opere dell'aritmetica”. Quindi la nostra lezione sarà praticamente 1. Ideografia (1879) incentrata su questi tre libri e noi la struttureremo proprio 2. Fondamenti dell’aritmetica (1884) in tre parti differenti, cercando di far vedere da vicino, in 3. Principi dell’aritmetica (1893,1903) maniera non tecnica, però in maniera un po’ precisa, quali sono stati i risultati di ciascuno di questi tre libri. Anzitutto come vedete, sono periodi diversi, “l’ideografia” è il primo libro importante che Frege scrisse nel 1879, “i fondamenti dell'aritmetica” invece è di pochi anni dopo, il 1884 e poi la grande opera di Frege, quella che avrebbe potuto essere, perlomeno nelle sue intenzioni la grande opera, cioè “i principi dell'aritmetica”, un titolo che non rende giustizia a ciò che lui voleva fare, in realtà “i principi dell'aritmetica” erano i principi dell'intera matematica. Poi diremo meglio come mai bastava fare i principi dell'aritmetica, per poi fondare l'intera matematica, comunque questa è un'opera che Frege progettò in due grossi tomi, il primo uscì nel 1893, sembrava l’inizio appunto di un avventura, sembrava l’inizio della storia per Frege, cioè il fatto che effettivamente lui fosse arrivato alla conclusione dei suoi studi. Si trattava soltanto di portare a termine quello che ormai era in qualche modo in nuce, in embrione nelle opere precedenti, però il secondo volume del 1903 nacque praticamente morto, un aborto, uno di questi poveri bambini che nascono appunto senza vita, perché nel 1902 c’era stato appunto il paradosso di Russell che aveva posto fine, che aveva fatto crollare il suo enorme edificio. Andiamo a vedere 79 allora da vicino che cosa Frege ha fatto in questi libri. Incominciamo col primo tomo, la prima opera, la prima grande opera della logica moderna contemporanea, cioè la “Ideografia”. 1. Ideografia Anzi tutto cerchiamo di vedere da vicino, che cosa significa il titolo stesso, Linguaggio in formule perchè ideografia è una parola un po’ strana, che significa grafia di idee; del pensiero puro ebbene il sotto titolo dell’opera di Frege spiega in maniera più precisa più dettagliata che cosa lui volesse fare; l’ideografia doveva essere un linguaggio in formule del pensiero puro. Quindi ci sono tre aspetti praticamente, c’è il linguaggio, c’è il pensiero e soprattutto ci sono le formule e allora facciamo un passo indietro, ricordiamoci di quali erano stati i sogni che Leibniz aveva posto sul tappeto della logica matematica, su quella che sarebbe diventata la logica matematica, uno di questi sogni era quello che Leibniz chiamava la lingua filosofica o la characteristica universalis, che doveva essere un qualche cosa, un linguaggio precisamente, che permettesse di esprimere in maniera tecnica, in maniera formale ed è qui che interviene la parola formule, che permettesse di esprimere i fondamenti di ogni scienza ed in particolare, poiché le scienze si fondano quasi tutte, soprattutto le scienze naturali, sulla matematica, questo sogno di Leibniz della lingua caratteristica, doveva essere un linguaggio formale per la matematica. Naturalmente Frege che era anche un filosofo, soprattutto un filosofo all'epoca, era interessato a mettere in formule, a scrivere un linguaggio che parlasse del pensiero puro. Ora il pensiero puro per noi è semplicemente quello che oggi chiamiamo la logica per l'appunto e allora scrivere o inventare un linguaggio per la logica che fosse scritto in formule, era di nuovo un passo avanti nella stessa scia di Boole che abbiamo trattato la scorsa settimana. Però Boole aveva proposto un linguaggio algebrico, quindi puramente matematico che usava concetti e simboli che già si conoscevano, vi ricorderete che l'idea fondamentale dell’algebra booleana, era quella di associare alla verità il numero 1, alla falsità il numeri 0 e poi alle operazioni dei connettivi del calcolo proposizionale, le solite operazioni algebriche sui numeri, cioè in particolare alla negazione veniva associata la sottrazione e alla congiunzione veniva associato il prodotto di numeri; ebbene questo era un tentativo, certamente anche un tentativo riuscito tra l’altro, come abbiamo ricordato pochi minuti fa, di concretizzare, di rendere concreto, di riuscire a realizzare il sogno di Leibniz, però era in qualche modo insoddisfacente, perché si faceva ancora riferimento, troppo riferimento alle operazioni della matematica e quindi era praticamente una riduzione della logica proposizionale di Crisippo e poi abbiamo visto anche della logica del sillogismo di Aristotele, al linguaggio della matematica stessa; ebbene non era proprio questo l’obbiettivo di Frege, perché Frege voleva trovare un linguaggio in cui la stessa matematica si sarebbe potuta esprimere in una maniera più generale, in una maniera più pura, molto più astratta, cioè l’algebra è una parte della matematica e allora ridurre la logica ad una parte della matematica, non poteva essere soddisfacente, il vero obbiettivo doveva essere quello di trovare un linguaggio autosufficiente, un linguaggio autonomo, che venisse prima dei linguaggi della matematica e in cui l’intera matematica si potesse esprimere, non solo una sua parte come l’algebra, ma anche tutto il resto,come l’analisi, eccetera, di cui parleremo tra poco. Quindi l’idea della Ideografia era appunto, detta in parole povere, concretizzare il sogno di Leibniz di una lingua per il pensiero puro scritta con formule. Benissimo, che cosa fece allora, in questo suo tentativo di realizzare questo sogno? Anzitutto fece quello che praticamente lo consegnò alla storia, lo fece diventare uno dei più grandi logici di questo periodo, cioè fece dei passi avanti, finalmente rispetto ai Greci e a Boole. Ricorderete che abbiamo concluso la scorsa lezione su Boole dicendo che nonostante tutti risultati che era riuscito ad ottenere con l’algebra booleana e nonostante tutte le applicazioni che l'algebra booleana aveva poi realizzato, sia con Boole stesso che soprattutto nel mondo contemporaneo del ‘900 attraverso i legami con i circuiti elettrici, con il computer se ricordate, addirittura con le reti neurali del cervello e così via, non era riuscito comunque a fare passi avanti rispetto ai greci. Il grandissimo risultato di Boole fu quello di esprimere in maniera matematica, in maniera algebrica ciò che i greci erano riusciti a fare nella logica, di finire praticamente, di mettere la ciliegina sulla torta, ma non di andare oltre, di concludere un'impresa che era iniziata 2000 anni prima. Ebbene Frege ovviamente si trova in questa situazione, viene venti-trent'anni dopo Boole, non può più fare le stesse cose, 80 doveva andare avanti. Ora il problema era: è possibile andare avanti? Non è affatto detto, sembrava che un'analisi così profonda, fatta tra l'altro, da menti così eccelse, da due Scuole come la Scuola peripatetica di Aristotele e la Scuola stoica di Crisippo, fosse l'analisi conclusiva, che si fosse già arrivati praticamente al punto finale e che non si poteva andare oltre. Notate che questa era effettivamente l'impressione che non soltanto i contemporanei di Aristotele e di Crisippo avevano, ma questo è abbastanza evidente, perchè erano di quell'epoca lì, ma anche gli Scolastici e soprattutto addirittura anche lo stesso Kant aveva. Kant aveva sostenuto che ormai la logica era stata completata, l'analisi logica non si poteva portare oltre quello dove l'avevano portata Aristotele e Crisippo e quindi praticamente in quella direzione non c'era più niente da fare. Quindi ci voleva anche un certo coraggio intellettuale per cercare, come fece Frege, di andare oltre. Dove si andò oltre, quali sono i punti di riferimento in cui Frege si pose per andare oltre i greci e oltre Boole?. Ebbene sono due, di cui ho scritto qui i nomi, cioè le relazioni e i quantificatori. Cerchiamo di vedere più da vicino, come mai ci riuscì ad arrivare, a fare passi avanti. ¾ Aristotele Parliamo anzitutto delle relazioni”; ricorderete, lo abbiamo citato Relazione: Soggetto/predicato un certo numero di volte, che la logica di Aristotele si basava su ¾ Frege un'analisi delle strutture linguistiche, su un'analisi del linguaggio Relazioni: soggetti/ predicato e del pensiero ad esso collegato, che però era praticamente una /complementi analisi con un soggetto e un predicato Aristotele considerava quelli che oggi i logici chiamano “predicati unari”, cioè che hanno soltanto un verbo praticamente e un soggetto che si riferisce a quel verbo, quindi soltanto soggetto e predicato. Però oggi, chiunque sia andato a scuola, chiunque abbia fatto soltanto anche ciò che si insegna nelle medie, sa che in realtà l'analisi logica, sa che il linguaggio è più complesso di questo, le azioni coinvolgono anzitutto non soltanto sempre un solo soggetto, ma ci possono essere più soggetti e poi soprattutto ci può essere anche qualche cosa che questi soggetti fanno, ci può essere un complemento. Oggi questo, come dicevo, è diventato lapalissiano perché è diventato talmente classico che lo si insegna anche ai bambini. Ebbene, questo fu uno dei risultati che Frege riuscì ad introdurre, cioè l’estendere le relazioni di cui parlava Aristotele dal solo caso molto semplice di soggetto e predicato al caso in cui ci sono più soggetti, ci possono essere oltre che soggetti anche i complimenti e quindi non soltanto soggetto e predicato, ma soggetti, predicato e complementi; quindi la possibilità di considerare non relazioni unarie come nel caso di Aristotele, ma come diremo oggi in matematica, relazioni ennarie, dove n sta per un numero qualunque o relazioni se volete multiple, cioè in particolare relazioni binarie, ternarie, quaternarie e così via, cioè a due o più soggetti o complementi. Come mai c'è bisogno di questa estensione per poter fare un linguaggio puro, un linguaggio in formule del pensiero puro e in particolare dell'aritmetica? C'è ne bisogno, basta pensarci momentino, quando si parla di numeri una delle cose essenziali è di paragonarli fra di loro, paragonarli perché ci si chiede se sono uguali per esempio; ebbene l'uguaglianza è già di per sé un predicato che ha due soggetti, perché si cerca di mettere insieme, di comparare, di paragonare due numeri e di vedere se questi due numeri sono uguali oppure no. Ecco quindi subito, immediatamente, già nell'aritmetica, anche già nell’aritmetica dei numeri 0,1 il fatto di vedere se due numeri sono lo stesso numero oppure no, che si ha una relazione binaria. Ci possono essere altre relazioni binarie molto ovvie nel caso in cui due numeri siano diversi, cioè ci si può chiedere, per esempio, quale dei due è maggiore dell'altro oppure quali dei due è minore dell'altro e allora il maggiore o il minore sono di nuovo due relazioni binarie e quindi abbiamo già tre esempi, appunto l’uguaglianza, il maggiore e il minore, di relazioni binarie che vengono usate correttamente in matematica e delle quali la logica aristotelica non poteva trattare perché non erano relazioni unarie, non erano del tipo soggetto e predicato. Come esempio di relazioni ternarie, la cosa più ovvia, si ha quando prendiamo due numeri e ci chiediamo se la somma di questi due numeri è uguale ad un terzo numero, quindi due numeri e poi se la loro somma è uguale ad un terzo, l'essere uguale alla somma di due numeri è una relazione ternaria, che coinvolge tre numeri, idem per il prodotto e così via. Quindi in matematica le relazioni a più soggetti, a più complimenti sono ubique, si usano correntemente e quindi c'è bisogno, se si vuole fare effettivamente un linguaggio formale per la matematica, di estendere il campo delle relazioni a questi tipi di analisi. Ebbene questo fu proprio quello che fece Frege. Quindi una prima estensione della logica greca e poi una seconda che praticamente consegue automaticamente dalla prima, perché già Aristotele, lo abbiamo detto più volte, aveva considerato i quantificatori, cioè tutti, qualcuno e nessuno, però lui li considerava soltanto ristretti 81 all'unico soggetto di cui si poteva considerare il predicato, perché come abbiamo detto poco fa l'analisi di Aristotele si riferiva soltanto a relazioni del tipo soggetto e predicato. Quantificatori Nel momento in cui Frege introdusse relazioni, in cui ci possono essere tutti, qualcuno, nessuno soggetti e complementi multipli, ecco che allora questi quantificatori automaticamente possono essere riferiti ad uno qualunque di quei soggetti. Allora i quantificatori che nel caso di Aristotele, se ne stavano lì isolati da soli, si poteva dire per esempio “per ogni x, oppure per ogni uomo, l’uomo è mortale”, cioè “tutti gli uomini sono mortali”; adesso invece si può cominciare a parlare di due o più soggetti. Ad esempio “per ogni numero ne esiste qualcun altro maggiore di esso”, ecco che usando il predicato maggiore, che è appunto un predicato binario, possiamo usare due quantificatori(ogni e qualcun altro)) che in logica vengono chiamati “alternati”. Ed ecco che qui, la complicazione della logica di Frege salta immediatamente agli occhi; la logica di Aristotele non era praticamente molto diversa dalla logica proposizionale di Crisippo proprio per questo motivo, perché benché trattasse dei quantificatori, in realtà erano quantificatori riferiti soltanto ad un soggetto e allora questo praticamente riduceva la logica sillogistica di Aristotele alla logica proposizionale. Questo è qualche cosa di cui si accorse immediatamente Boole quando fece la sua analisi attraverso le algebre booleana; infatti abbiamo ricordato la scorsa volta che effettivamente le stesse algebre booleane servono per descrivere sia il calcolo proposizionale che il calcolo sillogistico. Come mai? Ma perchè evidentemente queste due cose sono soltanto una la riformulazione dell’altra; nel momento invece in cui i quantificatori possono avere questa complicazione, possono incominciare ad alternarsi uno con l’altro, allora la logica esplode, diventa molto più complicata ed è proprio questo ciò che Frege capì e incominciò a studiare. Quindi vedete, in effetti un passo avanti molto importante. Questo è quello che lui fece nel suo primo libro “la ideografia” del 1879, che viene considerata in genere l’anno di nascita della nuova logica, della logica moderna. Nel secondo libro “I fondamenti dell’aritmetica, del 1884, Frege si pone un problema differente e il problema è quello che ho scritto qui, cioè la “la riduzione dell’aritmetica alla logica”, cioè una volta 2. Fondamenti dell’aritmetica (1884) fondata la nuova logica nel suo primo libro l’Ideografia, Riduzione dell’aritmetica alla logica Frege voleva riuscire a ridurre tutta l'aritmetica alla sola logica. Ora questo poteva essere un pensiero abbastanza malsano, perché se noi andiamo a vedere all’indietro quelli che erano i fondamenti della filosofia, soprattutto della filosofia kantiana, Kant aveva Kant sostenuto che aritmetica è ciò che si chiama, secondo il suo linguaggio, un L’aritmetica è qualche cosa di sintetico a priori, cioè “sintetico” richiede un'esperienza del sintetica a priori mondo ed “a priori” richiede la ragione per poter essere considerata. Ora Frege l’idea di Kant, che l'aritmetica fosse sintetica a priori, era un'idea molto L’aritmetica è importante, che fece epoca in qualche modo e soltanto Frege fu il primo che analitica a priori riuscì o che decise di metterla in dubbio. Qual’è l’alternativa? A Frege non piaceva questo fatto, cioè che per capire i numeri bisognasse avere un'esperienza sintetica a priori, che in qualche modo bisognasse fare riferimento al mondo. Allora l'idea di Frege fu la seguente, cioè che l'aritmetica era analitica. Ho scritto analitica a priori soltanto per simmetria, perché in realtà analitica a priori è un surplus, basta dire analitica, perchè non c'è nessuna analitica a posteriori, mentre invece il sintetico può essere a priori o a posteriori e dunque qui c'è effettivamente una scelta. Ebbene, dire che l'aritmetica è analitica significa precisamente questo: è possibile trattare l'aritmetica o meglio definire tutti i concetti di cui si parla nell’aritmetica semplicemente attraverso la ragione, cioè attraverso l'analisi razionale. Ora questo è un qualche cosa che si può fare, che si può porre come programma, però è difficile da realizzare. Qual’era l'idea, come mai a Frege interessava questo aspetto? L’interessava perché, in precedenza, questi due signori, di cui abbiamo parlato in una delle lezioni introduttive che si chiamano appunto Cantor e Dedekind, due grandi matematici dell'800, della seconda metà dell'800, erano già riusciti a ridurre l'analisi all'aritmetica. Per chi non si ricordasse o che non sapesse che cos’è l’analisi, “l’analisi è la teoria dei numeri reali”, mentre Cantor-Dedekind “l’aritmetica è la teoria dei numeri interi”. I numeri interi sono 0,1,2,3,…e così Riduzione dell’analisi via, mentre i numeri reali sono invece un po’ più complicati, sono anzitutto i all’aritmetica numeri razionali, cioè le frazioni, cioè i rapporti fra i numeri e poi soprattutto anche i numeri irrazionali, i soliti numeri di cui almeno alcuni esempi sono noti a tutti, come la radice di 2, di cui abbiamo parlato a lungo quando parlavamo della incommensurabilità della diagonale rispetto al lato 82 del quadrato oppure п greco che è il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio e così via. Questi numeri non si possono scrivere attraverso rapporti di numeri interi e l’insieme di tutti questi numeri, razionali e irrazionali costituisce la teoria dei numeri reali che si chiama in matematica analisi, per l’appunto. Ora la cosa interessante è che Cantor e Dedekind erano riusciti a ridurre l’analisi alla sola aritmetica, come? Numero reale = Beh, erano riusciti semplicemente dando una definizione di numero Successione infinita di interi reale come una successione infinita di interi. Guardiamo qui l’esempio √2 = 1,4142… π = 3,1415… che ho appena fatto, la √2 e π, √2 è qualche cosa del tipo 1, 4142… e ci sono qui dei puntini, questi puntini stanno ad indicare il fatto che dopo la virgola nello sviluppo decimale, come diremo oggi, di √2, c’è una successione infinita e questo infinito è il punto cruciale, per l’appunto degli interi. Se ci fossero soltanto un numero finito di interi dopo la virgola, quello sarebbe un numero razionale; in effetto ci sono anche dei numeri razionali che si possono scrivere come una successione infinita, ma che si chiamano periodici, quindi l’infinito lì è mascherato, in realtà si ripetono sempre gli stessi blocchi di cifre, ma nel caso di √2 , così come nel caso di π che è 3,1415 eccetera, questi numeri non si ripetono con una regolarità fissa e allora questi numeri vengono detti appunto irrazionali e anche i numeri irrazionali sono riconducibili a successioni di interi, a successioni che però devono essere infinite. Allora questa idea di considerare i numeri reali come successioni infinite di interi era il modo che trovarono appunto Cantor e Dedekind di ridurre l’intera teoria dei numeri reali, l’analisi, all’aritmetica. Ed ecco che allora riuscire, come cercava di fare Frege, a ridurre l'aritmetica alla logica, avrebbe significato ridurre praticamente l’intera matematica alla logica, perché i numeri reali già erano stati ridotti alla aritmetica, se adesso si riusciva a ridurre l’aritmetica alla logica, allora anche i reali sarebbero stati ridotti alla logica e praticamente l'intera matematica sarebbe diventata un qualche cosa che si fondava sulla logica. Ecco perché, la Scuola che nacque dal pensiero di Frege, si chiamava e si chiama ancora oggi Logicismo, cioè il tentativo di porre la logica a fondamento di tutto; quindi la logica diventa veramente la cosa più importante della matematica e delle scienze, soltanto che c'è un cambiamento, quasi un capovolgimento rispetto a ciò che invece si pensava al tempo dei greci. Pensate ad Aristotele che sosteneva semplicemente che la logica era una propedeutica per le scienze, era un linguaggio introduttorio, era l'organon, cioè lo strumento che serviva per trattare delle tesi. C'era stato un passo avanti naturalmente con Crisippo, che aveva ritenuto che la logica non era solo propedeutica, ma era parte delle scienze, era una delle scienze, ma adesso con Frege effettivamente se fosse riuscito a ridurre l'intera aritmetica alla logica, allora la logica sarebbe diventata la Scienza, tutto il resto sarebbe stato una riformulazione della logica. Quindi vedete che questo argomento, siamo partiti agli inizi parlando di paradossi e di piccole cose, adesso addirittura nell’800, alla fine dell'800, diventava il nucleo centrale di tutta la scienza. Vediamo che cosa Frege cercò di fare e fin dove riuscì ad arrivare. Anzitutto Frege capì che era possibile dare delle definizioni logiche di numero: per esempio, che cos'è lo zero? Definizioni logiche di numeri Lo zero è praticamente qualche cosa che non ha niente, cioè è il ¾ 0 = insieme vuoto numero di un insieme che non ha nessun oggetto dentro, cioè un ¾ 1 = insieme che contiene cestino vuoto per esempio; quante uova ci sono in un cestino L’insieme vuoto vuoto, non ce ne nessuna. Ed ecco che allora l'idea fondamentale ¾ ……. di Frege fu quella di identificare fra di loro un cestino vuoto o meglio in termini matematici, un insieme vuoto e il numero zero. Il numero 1 che cosa sarebbe? Beh, deve essere un cestino dentro il quale c'è qualcosa. Ora però, se si siamo partiti da un cestino vuoto e l'abbiamo identificato con lo zero, allora basta mettere dentro un cestino un cestino vuoto, ed ecco che abbiamo qualche cosa che possiamo identificare con l'uno; quindi c'è una differenza tra l’insieme vuoto e l’insieme che contiene come suo unico elemento un insieme vuoto, uno corrisponda allo zero, l'altro corrisponde all'uno. Per fare un esempio che tutti forse possono capire, anche se non sono matematici di natura o di elezione, pensiamo ai conti bancari per esempio. Insieme vuoto significa non avere un conto bancario, un insieme che contiene in insieme vuoto significa avere un conto bancario che non ha dei soldi dentro ed è una cosa molto diversa, un conto è non aver nessun conto e un conto è avere un conto bancario che ha dentro nessun conto, quindi questa è la differenza fra lo zero e l'uno. E continuando a mettere cestini vuoti uno dentro l'altro, praticamente Frege riuscì a dare definizione di tutti i numeri interi. Sembrava fatto, la frittata sembrava fatta, per l’appunto si riusciva a formulare l'intera aritmetica basandosi soltanto sul concetto di insieme, che ovviamente è un concetto logico e per questo Frege poteva sostenere di aver ridotto l'aritmetica 83 alla logica, alla teoria degli insiemi. Che cosa successe in seguito? Beh, a questo punto Frege poteva pensare di aver finito il suo lavoro introduttivo della riduzione dell'intera matematica alla logica, poteva pensare di rivolgersi a scrivere il suo grande lavoro, la sua grande opera. Questa sua grande opera decise di chiamarla 3. Principi dell’aritmetica (1893-1903) “Principi dell'aritmetica”. Come ho detto, tutti sapevano Teoria ingenua degli insiemi all'epoca che l'aritmetica ormai era il fondamento della matematica, perché l'analisi era stata ridotta ad essa, la geometria, tra l’altro non l’ho detto prima, anch’essa era già stata ridotta all'analisi da Cartesio, perché la geometria cartesiana era proprio questo, sostituire i punti con le coordinate, cioè con due numeri reali, sostituire le linee con delle equazioni lineari e così via. Quindi Cartesio aveva ridotto la geometria all'analisi, Cantor e Dedekind avevano ridotto l'analisi all'aritmetica ed ecco che allora, l'ultimo passo in questo tentativo di riduzione, era appunto quello che cercava di fare Frege, cioè ridurre l'aritmetica alla logica. Frege pensò di averlo fatto con quelle definizioni che vi ho citato poco prima dei numeri e allora nei “ principi dell'aritmetica”, un titolo modesto, che in realtà stava a significare i principi di tutta la matematica e dunque di tutta la scienza, cercò di costruire i fondamenti della teoria degli insiemi. Ricordate il numero 0 era insieme vuoto, il numero 1 era insieme che conteneva l’insieme vuoto e così via, quindi bisognava fondare questa volta non più l'aritmetica, bensì la teoria degli insiemi. Benissimo, qual è il fondamento che Frege pose alla teoria degli insiemi? Due soli assiomi, molto semplice, li abbiamo una volta citati un po' di corsa, adesso cerchiamo di vederli più da vicino. ¾ Estensionalità Il primo assioma si chiamava assioma di estensionalità, cioè due Due insiemi sono uguali insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi, cioè due cestini se hanno gli stessi elementi sono praticamente intercambiabili, se voi andate a comprarli, se ¾ Comprensione dentro hanno gli stessi oggetti, questa è l'idea fondamentale. Ogni proprietà di insiemi Detto in termini filosofici, questa è una formulazione del famoso determina un insieme principio di identità degli indiscernibili, che aveva già formulato Leibniz, tanto per cambiare, anche lui uno dei grandi precursori di questa linea di pensiero. L'identità degli indiscernibili significa che due cose che non si riescono a distinguere sono praticamente la stessa cosa. Ora due cestini, è chiaro che nel mondo fisico si riescono a distinguere, perché anche due cestini che abbiano lo stesso numero di uova dentro, insomma avranno delle differenze in altre cose, ma nel caso della matematica, quando si parla di insiemi, ormai siamo arrivati al livello delle idee, se abbiamo due insiemi che hanno esattamente gli stessi elementi, da un di vista logico sono la stessa cosa e il principio di estensionalità cattura precisamente questa idea. Il secondo principio, invece molto più importante, è il cosiddetto principio di comprensione. Che cosa corrispondono gli insieme? Beh, ricordatevi, Frege stava cercando di fare una fondazione logica dell'intera matematica e allora le proprietà di insiemi determinano gli insiemi, e allora che cosa sono gli insiemi.? Sono semplicemente collezioni di oggetti, ma che sono definiti da proprietà ed ecco che con questo principio di comprensione Frege metteva insieme da una parte gli insiemi e dall'altra parte le proprietà, cioè da una parte la teoria degli insiemi matematica e d'altra parte la teoria logica delle proprietà, cioè il linguaggio e così via. E in questo modo basandosi su questi due assiomi Frege riuscì effettivamente nel primo volume e poi anche nel secondo che aveva già molto avanzato verso la fine dell'800 e inzi dell’900, riuscì a costruire o a ricostruire l'intera aritmetica, cioè quelle idee intuitive a cui avevo accennato prima, cioè le definizioni di 0 e 1 e così via, ma poi anche tutte le proprietà caratteristiche dei numeri interi, Frege riuscì a derivarle da questi due soli assiomi. Ed ecco che allora, aveva coronato non soltanto il suo sogno, ma addirittura il sogno di Leibniz, l'idea di riuscire a costruire un linguaggio perfetto per la matematica, sufficientemente generale e di riuscire a basare su questo linguaggio, su questo fondamento, l'intera matematica. Però succede un patatrac, cioè nel 1902, ecco che arriva questo signore, questo Lord inglese, stessa nazionalità di Winston Churchill che rivendica questa volta il possesso della logica all'Inghilterra e Russell nel 1902, dunque l'anno prima che esca il secondo e ultimo volume dell'opera di Frege, scopre quello che viene chiamato “il paradosso di Russell”. Guardate la sua aria soddisfatta, anche un po' sorniona, lui mandò nel 1902, era un giovane ragazzo all'epoca, aveva una trentina d'anni, forse 25-30 anni, mandò una lettera a Frege dicendogli: caro signor Frege, ho 84 letto con molto interesse il suo primo volume, l'opera della sua vita, però mi sono accorto che sulla base dei suoi principi è possibile dedurre questa contraddizione e la contraddizione è molto semplice, cioè “l’insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi è contraddittorio”. Come mai? Beh, ci sono soltanto due possibilità: considerate l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, anzitutto che cosa vuol dire per un insieme appartenere a se stessi? Russell faceva l’esempio delle tazzine da tè; lui era un inglese, ovviamente ogni giorno alle cinque della sera si prendeva una tazzina da tè, l’insieme delle tazzine da tè ovviamente non è un insieme che appartiene a se stesso, perché non è una tazzina da tè, tante tazzine messe insieme non formano una tazzina, però l’insieme delle idee astratte, per esempio, è a sua volta un'idea astratta, quindi è un insieme che appartiene a se stesso. Sembrerebbe che ogni insieme deve o appartenere o non appartenere a se stesso. L’insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene o no a se stesso? Supponiamo di sì, supponiamo che appartenga a se stesso: beh, allora deve essere uno degli insiemi che non appartengono a se stessi e questo non è possibile. Supponiamo che non appartenga a se stesso, allora non può essere uno degli insiemi che non appartengono a se stessi, dunque deve appartenere a se stesso. Uno di quei rompicapi molto simili ai paradossi, che già avevano trovato i greci, molto simile al paradosso del mentitore, di cui tra l'altro è una delle riformulazioni, che però mette in crisi completa l'intero armamentario che Frege aveva sviluppato. Frege naturalmente entra in crisi, scrive nell'appendice al secondo volume che ormai era già finito “ho ricevuto l'altro giorno una lettera del signor Russell che mi ha messo in crisi” e Frege non riuscì più a uscire da questo patatrac, diciamo della sua carriera. Oggi che cosa succede? Frege non trovò la soluzione di questo paradosso, Russell propose delle risoluzioni di cui parleremo la prossima volta, perché è bene che a Russell dedichiamo un intera lezione e vedremo anche come lui cercò di risolvere il suo paradosso. Oggi però le soluzione proposte da Russell, non sono quelle sono accettate dai matematici o che sono diventate di moda fra i matematici. Soluzione La soluzione dei problemi di Frege è quella che ho scritto qui nella Classi/insiemi slide, cioè la soluzione è quella di dividere gli insiemi in due grandi Russell ha definito una classe famiglie, una si chiama ancora “insiemi”, ma l'altra si chiama “classi” propria, non un insieme L'idea è quella che il “principio di comprensione” in realtà non definisce degli insiemi, ma definisce delle classi, quindi quando si parla di proprietà, non si sta parlando di insiemi, ma si sta parlando di una cosa più generale che si chiamano “classi” e allora ciò che Russell ha definito “l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi”, in realtà quello non è un insieme, è la classe di insiemi che non appartengono a se stessi e in questo il paradosso scompare; sembrerebbe essere una soluzione molto elegante, c'è un unico problema ed è che questa soluzione non risolve molto, perché nel momento in cui noi riformuliamo il principio di comprensione, dicendo che “ogni proprietà di insiemi determina una classe”, ecco che qui allora arrivano i problemi, perchè se le proprietà determinano delle Comprensione classi e come facciamo a sapere quando abbiamo di fronte un insieme? ogni proprietà di insiemi Beh, dobbiamo dirlo espressamente, possiamo farlo soltanto a partire da proprietà di insiemi, ma dobbiamo avere qualche insieme per poter determina una classe Problema parlare di proprietà di insiemi e non possiamo certamente ottenerli dal come costruire insiemi? “principio di comprensione” perché “il principio di comprensione” determina soltanto delle classi. Questo è un vero problema e in particolare il problema è quello che ha scritto qua: come facciamo a costruire degli insiemi? Beh, vediamo qual’è il tipo di soluzioni che oggi è stato accettato. E’ una soluzione che Russell definì semplicemente, che ha lo stesso vantaggio del furto nei confronti del lavoro onesto. Ogni volta che a noi piacerebbe di dire che qualche cosa è un insieme, lo diciamo per definizione, per assioma. Ora questo non era certamente ciò che pensava Frege di fare, non è certamente ciò che pensava Russell di fare, loro speravano di fare una fondazione della teoria degli insiemi da un p.di v. logico, se poi invece ogni volta che abbiamo di fronte un insieme lo dobbiamo dire che questo è un insieme, semplicemente perché abbiamo descritto un assioma che lo dice oppure lo è perché si riferisce ad altri insiemi che abbiamo già costruito, questa è una soluzione molto poco soddisfacente. Comunque vediamo questa soluzione, che è quella che è stata proposta da questi due signori Zermelo nel 1904 e Fraenkel 85 nel 1921 e oggi infatti la teoria degli insiemi si chiama non più teoria di Frege ingenua, che quindi è ancora nominata, ma si chiama teoria di Zermelo e Fraenkel. Gli assiomi che Fraenkel e Zermelo hanno proposto sono i seguenti praticamente: anzitutto non si può nemmeno usare il principio di comprensione, pensate per dire che c'è un insieme vuoto, cioè un insieme i cui elementi soddisfano una proprietà contraddittoria, perché c’è una classe vuota, basta prendere una qualunque proprietà contraddittoria, tipo “essere diversi da se stessi” ed è chiaro che nessuna cosa è diversa da se stessi e quindi non c’è nessun oggetto che soddisfa quella proprietà, ma il principio di comprensione dice che “l’insieme degli oggetti che soddisfano una proprietà contraddittoria formano non un insieme”, ma una classe per poter ¾ Insieme vuoto dire che l’insieme vuoto è un insieme c'è bisogno di un assioma ¾ Operazioni su insiemi particolare. Poi bisogna fare delle operazioni sugli insiemi, le ¾ Insieme infinito operazioni sono simili, si ha che l’insieme vuoto corrisponde al ¾ ……………….. numero 0, allora sugli insiemi si possono fare delle operazioni ¾ Insieme inaccessibile che corrispondono alle operazioni che si fanno su numeri, cioè ¾ Grandi cardinali la somma, il prodotto, l'elevamento a potenza e così via. Questi ¾ …………………. si pongono per assiomi. C'è anche il bisogno in matematica, lo abbiamo visto prima nella definizione di numero reale, di parlare di insiemi infiniti, perché un numero reale che non sia razionale ha uno sviluppo infinito di decimali, allora c'è bisogno di un assioma specifico che ci dica che esiste un insieme infinito e così via, poi c’è bisogno in matematica, oggi soprattutto, di insiemi via via più grandi, ma gli assiomi precedenti non permettono di dimostrare l’esistenza di questi insiemi via via più grandi e dunque c’è bisogno di una cornucopia, di una lista enorme di proprietà di insiemi, di assiomi che bisogna mettere giù piano piano . Questo chiaramente è un po’ la fine del sogno, cioè il sogno era bello quando lo si sognava alla maniera di Frege, cioè fondare l’aritmetica sulla logica, sulla teoria degli insiemi e fondare la teoria degli insiemi su due sole proprietà, su due soli assiomi che erano da un punto di vista logico perfettamente naturali, cioè da una parte “l’assioma di estensionalità”, cioè due insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi e dall’altro “l’assioma di comprensione”, cioè gli insiemi sono determinati da proprietà che dicono quali sono le proprietà dei loro agenti. Nel momento in cui crolla questa fondazione, c’è bisogno di fare queste liste, che tra l’altro, vedete, sono liste molto lunghe, ci sono i puntini che stanno ad indicare che la lista degli assiomi di Zermelo e Fraenkel non è finita tra l’altro, non è finita nel senso che noi non l’abbiamo finita, ma nel senso che è infinita, ci sono infiniti assiomi. Come se non bastasse c’è ancora un ulteriore problema che è stato scoperto da questo signore, di cui abbiamo già parlato più volte e con cui arriveremo a concludere questo percorso nella logica moderna, cioè Kurt Goedel. Goedel (1931) Nel 1931Goedel dimostra o meglio una delle conseguenze del suo più famoso nessuna lista teorema, che si chiama “teorema di completezza”, è proprio che nessuna lista è esaustiva di proprietà o di assiomi per gli insiemi può essere esaustiva. Quindi, come se non bastasse, non soltanto la teoria degli insiemi non si può fondare su quei due belli assiomi che aveva trovato Frege, cioè l’estensionalità e la comprensione, ma non si può nemmeno fondare sulla lista che hanno stabilito Zermelo-Fraenhel, che è già una lista infinita, ma non c'è nessuna lista di assiomi che permetta di dire quale sono tutte le proprietà degli insiemi. Questo è veramente un pochettino la fine del sogno di Frege, ma anche la fine del sogno di Leibniz, cioè il tentativo di fare, non soltanto una lingua, perché questo Frege riuscì a farlo benissimo nella ideografia, cioè la lingua formale in cui esprimere i pensieri puri della matematica. Il linguaggio di Frege, non direttamente quello che lui ha inventato come simboli, perchè quelli sono stati poi usati e adottati in maniera diversa e i simboli che oggi si adottano sono quelli di Peano, di cui parleremo poi in seguito, dicevo il linguaggio c'è, ma la fondazione logica della matematica, questa è stata sognata, ma non è stata realizzata da Frege, poi soprattutto Goedel ha dimostrato che non potrà essere realizzata da nessun altro. Quindi questa è la conclusione in qualche modo di un sogno ed è anche la conclusione della lezione di oggi. 86 LEZIONE 11: Un Nobeluomo paradossale Benvenuti a una delle lezioni sul personaggio forse più interessante della logica matematica, non dico il più importante, anche se certamente lo è stato per un certo periodo, perlomeno alla fine dell'800 e agli inizi del ‘900, ma la sua vita è stata una vita veramente avventurosa, una vita lunghissima tra l'altro, che è durata 98 anni, quindi oggi ci divertiremo a vedere quante cose è riuscito a fare questo signore nell'arco di quasi un secolo. Questo signore di cui sto parlando è Bertrand Russell, qualcuno di voi avrà già sentito il suo nome, anzi in realtà, io credo che fra tutti i logici di cui abbiamo parlato, forse è quello che più noto al grande pubblico, anche per le tante cose che ha fatto al di là e al lato della logica. Quindi, oggi parleremo un pochino di questa sua vita. Allora la lezione l'ho intitolata un nobile paradossale per due motivi, perché Russell è famoso nel campo della logica matematica per il suo paradosso, il cosiddetto paradosso di Russell, di cui abbiamo già accennato una volta, ma che oggi rivedremo brevemente e poi è famoso al grande pubblico, perché ha ricevuto il premio Nobel. Voi vi chiederete come può un matematico prendere un premio Nobel, lo vedremo tra un pochettino, quando arriviamo al momento del premio Nobel. Per ora invece, incominciamo per lo meno di definire quali sono gli estremi di questa lunga vita. Come ho detto Bertrand Russell è nato nel 1872 ed è morto, pensate voi, nel 1970; si pensava quasi fosse addirittura Russell immortale, non moriva più, continuava a scrivere libri, eccetera. (1872-1970) Veramente di libri ne ha scritti tantissimi, è stato un autore prolifico ¾ 100 libri da morire, qui ci sono, diciamo così, le cifre della sua vita, pensate ¾ 4 mogli 100 libri ha scritto; naturalmente la anche sua vita ha avuto non ¾ 1 premio Nobel dico 100 mogli, questo sarebbe stato esagerato, comunque un bel numero di mogli, 4 mogli e per l'appunto, come ho detto, un premio Nobel. Si dice che sia la persona che ha letto più libri nella storia dell'umanità, qualcuno arriva a sostenere addirittura che abbia letto 100.000 libri, il che mi sembra francamente una cifra spaventosa, comunque certamente nell'ordine di migliaia. Pensate, già soltanto, al lavoro che ci vuole per prescriverne 100 di libri. Ora questi 100 libri non erano i libri tascabili, che vengono oggi prodotti uno dietro l'altro con gran facilità, qualcuno di questi libri era un tomone enorme e uno di questi, il famoso “Principia matematica” in tre volumi, che conta soltanto come un libro, pensate voi, tre volumi di formule molto complicate delle quale parleremo tra un momento. Quindi è un po' tra questi 100 libri che dovremmo andare a cercare quali sono le cose interessanti che Russell ha lasciato in eredità, diciamo così, alla logica matematica; ce ne sono tante, forse meno di quelle che lo credeva, perché certamente lui era un Lord inglese, ma era anche una persona, credo, molto piena di sé, certamente ha parlato di se stesso, a lungo ha raccontato gli episodi della sua vita e molte delle cose che sappiamo le sappiamo proprio perché lui ce le ha dette, ripetute e così via. In particolare due dei libri che lui ha scritto, sono due libri importanti, che consiglio perché sono veramente una specie di introduzione al suo pensiero, oltre che agli avvenimenti di questa vita. Il primo libro è la famosa autobiografia di Bertrand Russell, che è stata scritta nell'arco di un certo numero di anni, dal 1956 al 1969; un'autobiografia in tre volumi, dei quali ¾ Autobiografia (1956-1969) parleremo brevemente tra un momento e poi un secondo ¾ La mia vita in filosofia (1959) libro, una aggiunta diciamo così, che si chiama “la mia vita in filosofia”. Questo è uscito nel ‘59 dopo che era già uscito il primo volume della autobiografia, cioè il primo volume che raccontava gli episodi della vita, Russell ha pensato di dover raccontare, ormai era già il 1960, aveva quasi 90 anni, quali erano gli episodi più significativi della sua vita intellettuale, perché è questo che veramente l’ha caratterizzato ed è questo il modo in cui a lui piaceva caratterizzarlo, come una grande mente effettivamente, come qualcuno che aveva cambiato la storia della filosofia. Ed ecco che questo libro, la mia vita in filosofia, forse è il più rappresentativo, quello in cui lui racconta effettivamente le sue scoperte dal paradosso, quand'era giovane, fino pian piano, a tutte varie fasi della sua filosofia. Ce ne sono state tantissime di fase della sua filosofia, si diceva all'epoca, che più o meno Bertrand Russell, cambiasse idea praticamente fiilosofia una volta ogni cinque anni e poiché è vissuto così a lungo effettivamente ha avuto tempo di cambiare idea una dozzina di volte per lo meno e ogni volta si interessava di cose nuove, come vedremo quando citeremo perlomeno i titoli delle sue opere più significative, cambiava argomento, si è interessato non soltanto di logica, non soltanto di matematica, ma di letteratura, di politica e così via, quindi veramente un vulcano perlomeno di attività, quindi questo è un libro che potete certamente leggere con 87 profitto. Per quanto riguarda l'autobiografia, beh, il profitto ci sarebbe, se voi avete la pazienza ovviamente di andar leggervi questi tre volumi, che sono tre volumi molto autocelebrativi e che però raccontano effettivamente un sacco di aneddoti, un sacco di cose. Cominciano a vedere il primo volume, molto modestamente i volumi sono sottotitolati da lui, non da me, parlando di personaggi che hanno avuto la fortuna, secondo Lord Russell, di vivere durante la sua vita, cioè il primo volume è un volume che va dalla regina Vittoria a Lenin, cioè dal 1872, l'anno della sua nascita, al 1914, cioè l'inizio della prima guerra mondiale. Come mai la Regina Vittoria e Lenin? Ebbene Russell sceglieva questi personaggi, non a caso, come sottotitolo della sua autobiografia, lui ne ha conosciuti moltissimi.Era come vi ho detto un Lord e come voi sapete il titolo di Lord è un titolo ereditario, quindi ovviamente anche la sua famiglia era una famiglia nobile, che conosceva primi ministri, eccetera, lui si ricorda di aver giocato o perlomeno di essere stato bambino tenuto sulle gambe, fatto giocare dal primo ministro Disraeli e così via e la regina Vittoria era per l’appunto una di queste persone che l'hanno conosciuto da bambino. Quanto a Lenin, che si potrebbe pensare fosse un personaggio completamente l'antitesi di Lord Russell, cioè il bolscevico che ha fatto la rivoluzione russa e così via, anche Lenin, Russell ha conosciuto, lo ha conosciuto andandolo a trovare in Unione sovietica dopo la rivoluzione, cioè nel 1920 e Lenin non gli fece una grande impressione, era ovvio anche che non glielo potesse fare, Russell arrivò in Unione Sovietica, era il 1920, nel pieno della guerra civile, Lenin non aveva molto tempo ovviamente, perché doveva dirigere le operazioni di questa guerra enorme, che metteva in forse l'esistenza dello Stato sovietico con tutto quello che aveva fatto per anni, che aveva preparato per anni e Russell arrivò nel 1920, nell'inverno russo a raccontare al Lenin il suo paradosso sulla teoria di insiemi, è chiaro che Lenin non aveva molta voglia di starlo a sentire e questo fece una pessima impressione a Russell che scrisse un libro sui bolscevichi “teoria e pratica del bolscevismo”; questo è un libro che all'epoca fece abbastanza sensazione, perché Russell si professava socialista e vedremo che molte delle cose che fece, effettivamente andarono in questa direzione, si professava socialista, ma quando andò a vedere le realizzazioni, diciamo così del socialismo reale, di quello che poi sarebbe stato chiamato il socialismo reale, non fu soddisfatto, tornò indietro e scrisse appunto questo libro che è diventato un po' un classico, perché Russell era uno dei primi personaggi di spicco, personaggi pubblici, che potevano accedere, potevano andare oltre le linee, andare a curiosare nella rivoluzione russa e vedere che cosa stava effettivamente succedeva. Questa è la prima parte della sua vita e nel 1914 Russell aveva appena terminato la sua grande opera matematica, i “Principia della matematica”, a cui avevo già accennato prima e di cui parleremo più a lungo in seguito. Il secondo volume della sua biografia è un volume che si racchiude tra il 1914 il 1944, quindi praticamente tra l'inizio della prima guerra mondiale e la fine della seconda guerra mondiale, quindi il periodo tra le due guerre. I due personaggi che Russell ha scelto come sottotitolo del suo secondo volume di autobiografia sono Freud e Einstein. Einstein l'ha conosciuto ovviamente abbastanza bene in America, perchè Russell ha vissuto parecchio negli Stati Uniti, appunto in questi anni, negli anni della guerra, perché se ne andò negli Stati Uniti verso il ‘39, quando ormai la guerra poi scoppio e non poté più tornare indietro; come sapete tutti a quell'epoca non c'erano aerei, si viaggiava per nave e l'oceano era diventato ormai impossibile da attraversare, quindi Russell si fermò in America, ebbe alcune traversie molto interessanti di cui vi parlerò tra breve. Comunque uno degli episodi della sua vita americana fu appunto il fatto che lui andava regolarmente a Princeton, dove si trovava Einstein e dove si trovava anche Goedel di cui noi abbiamo già parlato più volte, che era il più grande logico del secolo e questo a Russell non poteva far piacere. Russell non capì mai durante la sua vita, quali furono i risultati dimostrati da Goedel, anzi più volte scrisse sui teoremi di Goedel in una maniera che tradiva questa incomprensione, era chiaro che non aveva capito molto di quello che stava succedendo nella logica dopo la sua grande opera, dopo i Principia matematica. Per quanto riguarda Freud, invece, Russell si interessò anche di psicoanalisi, di psicologia e così 88 via e vedremo in particolare almeno un titolo in seguito, perché scrisse anche lui libri su questo argomento. Il terzo volume invece della sua autobiografia è il volume che va praticamente dal ‘44 a quasi la morte, perché nel morì nel 1970. E’ chiaro che le autobiografia sono sempre incomplete, perchè ormai scrive l'ultima parte della sua vita, cioè la morte e quello che succede subito dopo o quasi finì di scriverlo quando ormai aveva più che novant’anni, novantacinquenne e lasciò in eredità per l’appunto quasi tutto il racconto della sua vita. I personaggi con cui si confrontò in questo terzo segmento della sua vita, che scelse come sottotitolo, sono Churchill e Mao. Churchill ovviamente era il primo ministro inglese durante la guerra, ma non a caso, perché il premio Nobel a cui ho accennato prima, che Russell prese, ebbene lo prese soffiandolo proprio a Churchill, erano loro i due ultimi candidati del 1950 e quando si dovete arrivare alla conclusione finale, quando si dovete scegliere chi era il vincitore tra l'ex primo ministro Winston Churchill e il filosofo logico, matematico, letterato politico e così via, Bertrand Russell, il comitato di Stoccolma scelse Bertrand Russell, quindi in qualche modo, ci fu anche una battaglia diretta tra Churchill e Russell. Per quanto riguarda invece Mao, la situazione è un po' più complicata, perché effettivamente nell'ultima parte della sua vita, cioè negli anni 50-60 Russell è ormai vecchio, evidentemente non si poteva più pretendere che facesse ricerche filosofiche o matematiche, si era dedicato all'attività politica e in particolare all'attività pacifista, cioè cercava di fare tutto quello che era possibile per la pace nel mondo, anzi io penso che. tutto sommato, poiché c'era anche una certa parte di carattere in tutto questo, sperava probabilmente di prendere un secondo premio Nobel, oltre quello che prese nel 1950, questa volta per la pace. Non ci riuscì, però effettivamente lasciò anche un segno in questa parte della sua attività e vedremo poi meglio in seguito, in che modo ancora oggi si trasmette questa sua eredità. Quindi a brevi linee, a grandi linee è stata questa sua vita di quasi un secolo, testimone di un secolo di storia, vista attraverso suoi gli occhi e quindi certamente per questo vi consiglio di leggere soprattutto il primo libroni cui ho detto, “la mia vita in filosofia”, ma anche di sfogliare, per lo meno, questi tre volumi della sua autobiografia, che tra l'altro sono scritti in maniera interessante, perché metà del libro è il racconto diretto che Russell fa di ciò che gli successe e di ciò che lui poté testimoniare, ma la seconda parte, cioè la seconda parte di ogni capitolo è in realtà una collezione di lettere, che lui mandò e che lui ricevette da personaggi famosi, i più svariati, quindi è anche una testimonianza diretta di ciò che fu la vita sociale intorno a lui. Personaggi che non erano soltanto logici, anzi quasi nessuno di quelli che vengono considerati e trattati in questi tre volumi sono personaggi matematici, ci sono filosofi, ci sono politici, ci sono personaggi di quello che oggi chiameremo il jet set, che allora non esisteva ovviamente, perché non c'era il jet set, ma era una cosa analoga. Bene, andiamo a vedere più da vicino qual’è stata la vita intellettuale di Russell e quali sono stati i suoi contributi alla logica matematica e più in generale alla storia del pensiero. Ebbene la vita di Russell, in particolare dal punto di vista intellettuale, nasce nel 1900. Nel 1900 ci fu un famoso Congresso di Parigi, che qui è rappresentato con un dipinto di Delaunay “la torre Eiffel”. Ebbene nel 1900 questo congresso lasciò il segno, perché prima ci fu un congresso di filosofia e poi subito dopo un congresso di matematica e di questo parleremo quando arriveremo alla lezione dedicata a Hilbert, che propose proprio in questo Congresso 23 problemi che sarebbero diventati in qualche modo il filone di ricerca della prima parte del ‘900 nella matematica. Invece la settimana prima ci fu questo Congresso di filosofia a cui Russell, che era un giovane studente all'epoca o per lo meno un giovane ricercatore, oggi diremmo, ventottenne, andò, partecipò e fece questo famoso incontro con Peano., famoso perché lui ce lo raccontò più volte. Peano è questo signore, Giuseppe Peano, un matematico, un matematico torinese anche lui un bel tipo, una persona abbastanza strana e in particolare Peano era un po’ una specie di secondo Leibniz. Fu un tentativo quello di Peano di ideare una lingua perfetta per la matematica, che era proprio quello che cercavano di fare in quell'epoca, vi ricorderete 89 dalle scorse lezioni, prima Boole, poi Frege e anche Russell per conto suo, indipendentemente era arrivato a progettare una lingua di questo genere. Quando incontrò Peano si accorse, disse lui, che in tutte le discussione Peano si alzava, era sempre più preciso di tutti gli altri, parlava in una maniera assolutamente forbita, senza fare nessun errore, in maniera che rispecchiava, disse Russell, quasi una chiarezza di pensiero attraverso le sue parole. Allora Russell andò da Peano, gli chiese tutti i suoi lavori, Peano per combinazione aveva una valigia piena di reprint, diremo oggi, di suoi lavori, li diede a Russell, Russell non aspettò nemmeno che cominciasse il congresso di matematica, se ne andò a casa disse e per due mesi si mise a studiare questa logica di Peano, questi risultati di Peano e fu colui che poi li propagandò nel mondo intero, perché Russell effettivamente era un grande propagandista di se stesso, ma anche delle idee degli altri, in particolare di Peano e di Frege. Quindi questo fu il punto di inizio, 1900 scocca l'inizio del secolo e scocca anche l'inizio della vita intellettuale di Bertrand Russell. Vediamo che cosa succede in seguito. Poco tempo dopo nel 1902, Russell scopre studiando non soltanto le opere di Peano, ma ormai già anche quelle di Frege, il suo famoso paradosso del quale abbiamo già parlato una volta, ma possiamo certamente riprenderlo, rivederlo brevemente da vicino, cioè scopre che “l’insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi e contraddittorio”. Ricordate quando abbiamo parlato di Frege, abbiamo già introdotto questo Paradosso di Russell(1902) fatto, il fatto cioè che verso la fine dell'800, si cercava di l’insieme degli insiemi che mettere in piedi una fondazione logica della matematica, non appartengono a se stessi per cercare di ridurre la matematica alla logica e il modo è contraddittorio in cui Frege aveva cercato di fare questa riduzione era, appunto, quello di ridurla a quella che oggi viene chiamata “la teoria degli insiemi”, gli insiemi che sono praticamente le estensioni dei predicati. E allora Russell scopre che “l’insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi” era problematico, come mai? Ma perché i casi sembrerebbero essere soltanto due, cioè questo insieme o appartiene a se stesso oppure non appartiene a se stesso. È possibile che appartenga a se stesso? Beh no, perché se appartiene a se stesso, allora non può essere un elemento di se stesso, perché gli elementi che stanno dentro questo insieme sono proprio quelli che non appartengono a se stessi. Idem per il contrario, cioè questa è una versione, voi ormai l'avrete capito, è semplicemente una riformulazione, un travestimento del paradosso del mentitore o di tutte le sue varianti, però la cosa importante è che, mentre il paradosso del mentitore si riferiva al linguaggio naturale e quindi non dava molto fastidio ai matematici o anche filosofi, questo invece, il paradosso di Russell, si riferisce alla teoria degli insiemi che, appunto abbiamo detto doveva essere il fondamento della matematica moderna. Allora questo diventa più problematico, quindi una riformulazione però importante, sostanziale. Con questo paradosso che probabilmente è l'unico vero contributo che Russell diede alla logica matematica, però un contributo importante, scosse le fondamenti di questa teoria degli insiemi, mise in crisi il progetto di Frege e vi ricorderete che Frege praticamente finì il suo secondo volume della sua grande opera “I fondamenti della matematica”, dicendo che non c'è niente di così più insoddisfacente purtroppo, di più triste per un autore quando arriva alla fine della sua opera, di ricevere una lettera come quella che gli aveva mandato all’epoca il giovane Bertrand Russell che scopre, che gli fa vedere che quest'opera è praticamente fondata sulla sabbia, cioè che le fondamenta non stanno in piedi. Ebbene questo è il contributo di Russell, per l’appunto, ai fondamenti della matematica. Cosa successe subito dopo? L'anno dopo, il 1903, Russell pubblica la sua prima opera sostanziosa, è un'opera che ancora oggi è tradotta in italiano, che si continua a vendere, perché effettivamente scritta nel linguaggio magistrale che Russell usava. Russell era un gran parlatore, era un grande scrittore, aveva il dono della scrittura, un po' come Mozart aveva il dono della musica, scriveva, ci sono i suoi manoscritti, perché all'epoca ovviamente non si scriveva con il computer, ci sono questi manoscritti quasi senza cancellature, probabilmente era quasi come un flusso di coscienza, le cose venivano fuori dalla sua mente e passavano direttamente attraverso il braccio e poi sulla carta. Quindi questo pensiero molto chiaro e questo libro “il principio della matematica” è effettivamente una scrittura molto agevole, I principi della matematica molto chiara, di quelli che dovevano essere i fondamenti (1902) logici della matematica, perché Russell, come ho detto Matematica = logica prima, era arrivato indipendentemente sia da Frege che da Peano a concepire questa idea, cioè l'idea di ridurre tutta la matematica alla sola logica, cioè di fare della logica il vero fondamento della matematica, che poi è anche quello di cui abbiamo parlato praticamente 90 nelle scorse lezioni, cioè l'idea che la logica sia non soltanto una parte delle scienze, una parte della matematica, ma che sia praticamente la parte più importante perché su di essa in realtà si può porre tutto l’insieme del resto della matematica. Ebbene, quindi questa equazione che ho scritto “matematica = logica” è un po' la caratteristica di questo libro, la caratteristica del pensiero, del progetto di Russell, ma anche quella di Peano e di Frege che Russell poi confessò di non avere conosciuto praticamente fino alla fine, cioè Russell aveva cominciato questo libro ovviamente molti anni prima, quando scoprì i lavori di Peano, il linguaggio di Peano, però i lavori di Frege li conobbe proprio molto alla fine e in un un'appendice a questo suo libro parla per l’appunto di ciò che è la filosofia e quali sono i risultati della logica di Frege, dicendo mi dispiace di esserne venuto a conoscenza troppo tardi per poterli inglobare all'interno del testo; di nuovo non c'erano i computer, che oggi permettono di fare queste cose, di scrivere testi in maniera molto facile, attualmente all'epoca si poteva soltanto aggiungere un'appendice. Quindi questo è il primo grande lavoro, che però non fu la pietra definitiva, perché Russell in realtà in questo lavoro poté soltanto parlare del suo paradosso, il suo paradosso che aveva sì messo in crisi ovviamente il progetto di Frege, ma aveva ovviamente messo in crisi il progetto di Russell stesso, quindi non era soltanto Frege a doversi preoccupare, Frege ormai era alla fine della sua carriera e concluse il suo secondo volume dicendo, bah, insomma qualcun altro troverà la soluzione. Ebbene questo qualcun altro Russell decise doveva essere lui stesso, lui aveva sollevato il problema, lui doveva risolverlo. Allora incominciò a produrre una serie di articoli in preparazione di quello che doveva essere poi la soluzione finale, diciamo dei problemi della logica, che sarà poi questo grande libro “i principia matematica” che uscì in seguito. Ebbene, in questo percorso di soluzioni dei problemi, uno dei problemi era quello cosiddetto della “denotazione”, cioè Russell non capiva bene, ma non soltanto lui, tutti gli altri non lo capivano, come potesse essere possibile parlare di cose che in realtà non esistono, come si poteva dire di una frase in cui si parla di cose che non esistono, sia vera o falsa. Il famoso articolo sulla denotazione è del 1905. Qui vedete nella slide una fotografia, voi penserete si sono sbagliati a mettere la fotografia d i un ciclista, tutti l’avrete riconosciuto, Pantani che vinse il giro di Francia, come mai? Ma no, questa naturalmente è soltanto una metafora, per la frase di cui Russell tratta in questo suo famoso articolo sulla denotazione. La frase di cui Russell vorrebbe sapere il valore di verità, vorrebbe sapere se questa frase è vera o falsa, è la frase che dice “il Re di Francia è calvo”. Ora il problema è che all'epoca non c’era nessun Re di Francia e quindi chiedersi se il re di Francia è calvo oppure no, non poteva essere dal p.di v. di Russell e anche dal p.di v. del linguaggio naturale, qualche cosa che non poteva essere né vero e né falso, perché in realtà non c'era nessuno Re di Francia. Il motivo per cui ho messo appunto qui Pantani è perché è la cosa più vicina, che ci può avvicinare al re di Francia, in un momento in cui appunto il re di Francia non c'è, è probabilmente il vincitore del tour de France; oggi lo sport è la vera essenza del nostro mondo, chi vince il campionato di calcio, chi vince il giro di Francia, il giro d'Italia, è il vero eroe della situazione, il vero Re. Ebbene eccolo qua, questo sarebbe un re di Francia, per lo meno nel 1998, che in questo caso particolare era calvo, perché come sapete, Pantani si mette questa bandana per nascondere, diciamo così, una testa un po' pelata. Però con questo non risolvo ovviamente il problema di Russell; come si fa a risolvere il problema della denotazione in una frase in cui c’è appunto qualche cosa, si parla di qualche cosa che non esiste? La soluzione di Russell fu una soluzione tecnica che soddisfa poco ancora oggi. Russell riformula una frase da un p.di v. logico del tipo “il re di Francia è calvo”, dicendo c'è qualche cosa, che è qualcuno che è sia Re di Francia e allo stesso tempo è anche calvo. Ed ecco che allora, una frase di questo genere diventa falsa, perché una congiunzione per essere vera deve esser tale che tutti e due i suoi congiunti sono veri. Ora il primo congiunto sarebbe “c'è qualche cosa che è Re di Francia” e “non c'è nessun re di Francia”, quindi quella parte è falsa, quindi tutta la congiunzione è falsa. Dunque questa frase non solo ha un senso, ma ha anche un valore di verità ed è semplicemente falsa. Questa è la soluzione che in realtà lascia abbastanza il tempo che trova, ma comunque Russell all'epoca ne fece insomma, ne fece un gran strombazzamento, in qualche modo fu molto soddisfatto. Ancora più soddisfatto fu della seconda soluzione al suo paradosso, il paradosso di Russell. Il paradosso di Russell parla di insiemi che appartengono a se stessi, Russell decise che proprio questo era il problema, cioè 91 il potersi riferire a se stessi. L'idea di Russell fu di costruire quella che oggi viene chiamata “una teoria dei tipi logici”. L'articolo in cui fece questo è del 1908, la teoria dei tipi logici è praticamente quello che appunto si vede qui, una scala, in cui ciascun scalino contiene delle cose che vengono definite riferendosi allo scalino precedente, ma ogni volta che noi stiamo parlando di cose che stanno su uno di questi scalini, in realtà stiamo salendo di uno scalino; in particolare, quando noi parliamo di insiemi che appartengono o no a se stessi, stiamo parlando di cose che dovrebbero, da un lato stare su uno scalino e dall'altro lato stare anche sul successivo, perché si stanno riferendo a se stessi. Ebbene, secondo la teoria dei tipi logici questo non è possibile, perché il linguaggio deve essere stratificato e quindi per esempio una frase che parli della verità di un'altra frase sta a un livello superiore, ad uno scalino superiore di quella frase di cui si sta parlando e allora non ci potrà mai essere nemmeno una frase che dice di se stessa di essere falsa, quindi questa teoria dei tipi logici esattamente risolve non soltanto il paradosso di Russell, ma risolve anche per esempio il paradosso del mentitore che abbiamo già detto che era in realtà una variante il paradosso di Russell, un’altra versione. Quindi questa è una teoria che fu soddisfacente all'epoca, oggi non la si adotta più, perché complicherebbe molto le cose, però ha delle applicazioni, per esempio in informatica, nella teoria dei linguaggi di programmazione, cosiddetti tipati, dove il tipato deriva, per l’appunto, da questa idea di tipo logico; quindi ci sono state del applicazioni, anche se non quelle che Russell credeva poi fossero così importanti. Bene, il passo successivo di Russell, che credeva di aver risolto i problemi che si era posto, a questo punto fu di scrivere la summa, la grande opera della sua vita. Questa grande opera si chiama i “Principia matematica”, fu scritta insieme ad un altro autore, che era questo filosofo, si chiama Alfred Whitehead, filosofo molto importante, che poi fece delle cose molto diverse, questo fu un periodo della sua vita e anche un matematico ovviamente. Questi sono i due grandi autori, quelli che all'epoca, 1910-13, si pensava fossero un po’ il punto di arrivo finale dell'evoluzione della logica. Russell stesso, immaginava lui stesso di essere l'erede di Aristotele, pensava di essere ormai il più grande logico della storia. Ebbene, 1910- 913 sta ad indicare che in realtà, ci furono più volumi dei Principia mathematica, ce ne furono tre, l'opera era stata progettata come quattro volumi, il quarto non fu mai scritto, perché dopo un po', magari queste cose seccano e si passa ad altri argomenti; però in realtà, già questi tre volumi, erano considerati un monumento alla logica. Ma sappiamo tutti, ne abbiamo già parlato altre volte, che il risultato poi di Goedel, nel 1931, fece vedere che i Principia matematica non potevano essere la soluzione finale, per un motivo molto semplice, non perché Russel e Whitehead non fossero stati sufficientemente intelligenti, sufficientemente bravi da trovare questa soluzione finale, ma perché la soluzione finale dei problemi dei fondamenti della matematica non esiste, cioè i fondamenti della matematica possono essere un sistema assiomatico, ma qualunque sistema assiomatico è incompleto, non potrà mai provare tutte le verità che si possono esprimere nel suo linguaggio; quindi questo è un difetto, non di Russell e Whitehead, non dei Principia matematica, è un difetto di qualunque sistema che venga proposto, è una limitazione intrinseca del sapere, una limitazione di ciò che noi possiamo conoscere nella matematica. Ebbene questo fu praticamente quindi la fine della storia, la fine del sogno di provare, di trovare un sistema universale, un linguaggio universale, che tra l'altro appunto è quello della logica, un sistema universale in cui ci fossero tutte le verità di cui si poteva parlare. Nel 1918 Russell scrive l'ultimo suo volume importante sulla logica matematica, che si chiama “Introduzione alla filosofia della matematica”. Introduzione alla filosofia Lo scrisse nel 1918, che come tutti sapete è l'ultimo anno della della matematica(1918) guerra. L'ultimo anno della guerra Russell fece anche propaganda Sei mesi in prigione pacifista contro la guerra e cominciò a fare propaganda politica, per pacifismo ormai aveva finito la sua grande opera, cominciò a dedicarsi alla politica e in particolare questo gli costò sei mesi di prigione. Ebbene Russell mise a frutto questa sentenza che gli fu comminata, cioè sei mesi di prigione li spese a scrivere questo libro che è diventato un classico 92 della divulgazione praticamente. In questo libro lui spiegò al popolo in maniera divulgativa, in maniera essoterica, come già tutti i suoi predecessori da Pitagora a Platone, ad Aristotele eccetera avevano fatto, spiegò quelli che erano i suoi risultati. Questo è stato un bestseller e continua ad essere venduto ancora ai giorni d'oggi e se io vi dovessi consigliare un altro libro, oltre “la mia vita in filosofia”, vi consiglierei di leggere proprio questo, questo è un po’ la summa di ciò che Russell fece in logica. Fatto questo, praticamente la sua vita nella logica, nella matematica finì. Russell non si dedicò più alla matematica, ormai era cinquantenne, quindi a quell’età lì aveva anche tutti diritti di farlo e quindi decise di pensare ad altro. In particolare negli anni ‘20- ‘21 scrisse un libro che si chiama “l’analisi della mente”, che era un tentativo di fare una filosofia di quella che oggi forse chiameremo forse neuroscienza , cioè la filosofia della mente. Analisi della mente (1021) Oggi questi argomenti sono di gran moda, all'epoca lo Analisi della materia(1927) forse erano un po' meno, era un po’ strano che un filosofo, un matematico soprattutto, si interessasse di cose di questo genere, Russell fu un precursore anche in questo e subito dopo nel 1927 fece un'analisi dell'altra faccia della medaglia, cioè la mente e la materia, cioè i due cardini, diciamo così, della filosofia cartesiana, del dualismo; ebbene li analizzò tutti e due e questi anche sono due classici della filosofia, ovviamente molta acqua è passata sotto i ponti, questi libri sono forse più interessanti per gli storici che per tutti noi che c'interessiamo magari di questi argomenti, però Russell pose le basi per diventare non soltanto matematico, per lasciare il suo segno anche nella storia della filosofia. Cosa successe in seguito? Ebbene, qui successe una cosa, cioè Russell fece forse quello che oggi potremmo chiamare un passo falso, cioè scrisse un libro che era molto provocatorio, anzi ne scrisse un paio negli anni 29-30, in parte lo completò lui stesso, lo fece anche perché aveva bisogna di quattrini, aveva ormai una famiglia, vi ricordo che aveva, per l’appunto, quattro mogli, vari figli eccetera, quindi aveva bisogno di un po' di denaro. Nel 1929 scrisse un libro che si chiamava “matrimonio e morale”. Matrimonio e morale(1929) Ebbene, Russell propose, pensate sono gli anni ‘29-‘30, gli La conquista della felicità(1930) anni della depressione, eccetera, quindi del puritanesimo inglese, in questa situazione Russell propone agli studenti di andare a vivere insieme prima di sposarsi, di fare l'università, uomini e donne affittandosi degli alloggetti, di vivere come se fossero marito e moglie, per l’appunto, more uxorio, di avere ovviamente rapporti sessuali, purché con contraccettivi e anticoncezionali e poi, quando avessero finito l'università, gli studenti potevano poi pensare se continuare questa relazione, sposandosi dunque oppure lasciarsi e andare poi a vivere ciascuno per conto suo. Immaginate il putiferio che questa cosa fece. L’anno dopo scrisse “la conquista della felicità”, è un ribadire questi argomenti, quindi divenne anche un vero e proprio provocatore. Ormai se lo poteva permettere, era un matematico famoso, un filosofo di fama, aveva libertà di insegnare, lui aveva questo idee, molto all'avanguardia, effettivamente molto interessanti. Cosa successe in seguito? Successe che, come vi ho detto prima, Russell andò in America, a fare un ciclo di conferenze ad Harvard e a Princeton, verso il 1938-39, scoppiò la guerra, non poté più tornare indietro in Inghilterra e quindi rimase in America ad insegnare. Per un professore come lui ovviamente non c’era problema, notate che era il 1940, Russell aveva ormai 68 anni, quindi era quasi settantenne, non c'era problema per lui a trovare cattedre dovunque, gli furono proposte moltissime cattedre, lui accettò la cattedra al City college di New York, che è una delle università di New York e qui, questo fu veramente la sua tragedia, perché il papà e la mamma di una delle studentesse che andavano al City college, lesse per caso o qualcuno suggerì ai genitori di leggerlo“Matrimonio e morale”. Caccia alle streghe(1940) Questi due signori lessero il libro, furono scandalizzati da ciò City College di New York che videro, erano appunto gli anni 40, quindi l'ambiente vittoriano, puritano e fecero causa, non a Russell stesso, perché questo forse sarebbe stato più facile per lui come difesa, fecero causa al college. Dissero, ma come, noi mandiamo la nostra figlia, il povero angelo illibato in questa università e voi pagate un professore come questo, perché le faccia lezione. Noi vogliamo che tutte queste cose non succedano. Ebbene ci fu quella veramente che si può chiamare una vera e propria caccia alle streghe, nel 1940, nel regno della libertà, per così dire, negli Stati uniti d'America, nel land of freedom, come si chiamano loro, succedevano queste cose. Ebbene Russell fu estromesso dall'insegnamento, più nessuno, nessuna università ovviamente si azzardò a dargli l'incarico, nemmeno Harvard, nemmeno Princeton, dove prima lo aveva invitato a fare conferenze e lo avevano osannato, Russell si trovò sul lastrico praticamente, ormai settantenne, come dicevo,non aveva più lavoro, non aveva più nulla. E allora quello che successe fu 93 che si mise a scrivere, perché questo era il suo lavoro e scrisse un capolavoro, scrisse una storia della filosofia occidentale in tre volumi, che oggi vengono pubblicati in un unico grande volume e questo è forse il libro che rimane interessante, più divertente da leggere, più divulgativo fra tutti i libri che lui scrisse. Una storia della filosofia occidentale, in cui non provò nemmeno a mascherarsi dietro le apparenze, a far finta di essere un professore equidistante da tutte le posizioni, cercando di fare l'oggettivo, una trattazione oggettiva di quella che era la filosofia, quando un filosofo non gli piaceva lo prendeva a pesci in faccia, quando un filosofo gli piaceva invece lo osannava e lo raccontava in una maniera che era effettivamente molto simpatetica; quindi una storia della filosofia veramente affascinante, che fece un sacco di soldi effettivamente e gli diede per lo meno la possibilità di vivere e di mantenere la sua famiglia, che come vi ho detto era piuttosto numerosa. Quindi questo fu il risultato della sua opera negli anni 40. Dopo la guerra, Russell tornò in patria, ormai ottantenne, non era più il caso che andasse ad insegnare nelle università e naturalmente in Inghilterra le cose erano cambiate e comunque lui si fece un gran vanto di quello che era questa condanna, di questo processo della caccia alle streghe di cui era stato, in qualche modo, l'oggetto e la vittima e poi, sorpresa nel 1950, i genitori di questa signorina che avevano fatto causa al Russell, lessero una mattina il giornale e si accorsero che questo professore, questo sporcaccione, come l'avevano accusato di essere, aveva vinto nientepopodimeno che il premio Nobel per la letteratura. Nel 1950 in parte per “Matrimonio e morale” e in parte per la “Storia del filosofia occidentale” Russell vinse il premio Nobel per la letteratura. Quindi coronò in qualche modo questa sua ricerca del successo, arrivando al massimo Premio Nobel (1950) grado e arrivando lui matematico, lui filosofo, addirittura a competere per la letteratura con i letterati, con i grandi nomi della letteratura ed a vincere questo premio veramente ambizioso, a ottant'anni. Andò a prendere il premio e la storia è anche molto interessante, lui era molto preoccupato, perché il 1950 era 300 anni dopo l’anno in cui Cartesio era andato nello stesso posto, cioè a Stoccolma, a trovare la regina ed era morto per il freddo, perchè Cartesio era uno che amava molto il caldo, se ne stava a letto la mattina per ore e ore, invece la regina di Svezia lo faceva alzare la mattina presto e morì. Russell era un po' preoccupato, io sono un filosofo, come Cartesio devo andare a prendere il premio, non si sa mai che cosa mi succede. L'aereo sul quale viaggiava cade, cadde in acqua, molte persone morirono, Russell si salvò a nuoto, aveva 78 anni, si salvò a nuoto nuotando per 2 km, andò a riva e andò a prendersi il premio Nobel. Quindi effettivamente un personaggio fuori del comune, ma la sua storia non è finita; in questi brevi minuti che ci rimangono, possiamo ancora guardare all'ultima fase della sua vita, che fu la fase della politica. Nel 1961 c'era stato il problema negli anni 60, della crisi dei missili a Cuba, Russell era ormai impegnatissimo su questi fronti, sul fronte del pacifismo, sul fronte della resistenza non violenta ai governi e alla guerra, andò a fare un sit in, una serie di sit in a Trafalgar square nel 1961 e venne arrestato. Ormai novantenne ritornò in prigione esattamente dove era già stato nel 1918 per propaganda pacifista e ritornò in prigione per una sola settimana, ovviamente non ebbe tempo di scrivere nessun libro, però effettivamente fu molto felice, perchè questo diede di nuovo una notorietà ai suoi obiettivi politici, ai suoi risultati, effettivamente diventa il leader, diciamo così, della protesta giovanile, della protesta contro la guerra, in Inghilterra. Ebbene questo non è l'ultimo atto perché pochi anni dopo, nel 1966, Russell costituì quello che viene chiamato oggi il tribunale Russell. All'epoca non era effettivamente chiamato così, Tribunale Russell(1966) veniva chiamato “il tribunale contro i crimini di guerra”, in generale. Contro i crimini Pensate, questo filosofo ormai 95nne, con un premio Nobel alle spalle, di guerra in Vietnam con questi grandi volumi, questa filosofia, matematica, letteratura e così via, questo filosofo che prende posizione e incomincia nel ’66, attenzione, quindi molto prima delle contestazioni nostre, nel 68 e nel 69, incomincia a fare questa battaglia, ad accusare gli americani di essere esattamente, lui diceva, come i nazisti e come i giapponesi, cioè di essersi posto sullo stesso livello politico di questi criminali, diciamo così, del ‘900 e di aver fatto veramente dei crimini di guerra in Vietnam. Il tribunale Russell fu effettivamente qualche cosa di stupefacente, cioè incominciarono a sfilare testimoni che il tribunale chiamava dal Vietnam stesso, cioè venivano testimoni che portavano testimonianze sul bombardamento al napalm, sulle torture che gli americani facevano in Vietnam e questo fu veramente una delle pugnalate che vennero inflitte alla politica americana. Ovviamente la guerra in Vietnam finì molto dopo, ovviamente queste sono delle azioni dimostrative, ma servirono molto a creare una coscienza e anche in parte a creare quella che poi fu la contestazione giovanile in Europa. Ebbene questa è a grandi linee la vita 94 di Bertrand Russell. Come vi ho detto, ci siamo anche soffermati forse su molti aspetti della sua vita, perché come ho detto dal p. di v. logico certamente Russell è stato importante, il suo paradosso è qualcosa che è lì per rimanere, la sua teoria dei tipi logici è una buona soluzione, a parte dei problemi che questo paradosso poneva, la sua teoria sulla denotazione è anche lì qualche cosa che può servire ai filosofi, ma forse non è in questo che risiede il vero valore della vita di Russell, il vero valore è stata questa universalità, questo essere partito come matematico e poi essere diventato via via filosofo, letterato, aver preso il premio Nobel, poi politico e così via. Quindi veramente una mente, diciamo così, al servizio del suo secolo. Con questo abbiamo finito questa carrellata sugli episodi della sua vita. Ci rivedremo la prossima volta per parlare di altri logici che hanno lasciato un segno in questa materia, in particolare parleremo la prossima volta di Wittgenstein che fu l'erede, il testimone spirituale diciamo così, di quello che Russell aveva voluto fare. 95 LEZIONE 12: Alle ricerche del trattato perduto La scorsa lezione abbiamo parlato di quello che forse è il personaggio più famoso, se non il più importante della logica matematica, cioè Bertrando Russell. Abbiamo visto una vita avventurosa, piena di eventi e di avvenimenti. Oggi vedremo invece un personaggio che certamente non è da meno da questo punto di vista, anche lui forse non è un grandissimo logico, certamente è stato importante agli inizi del 1900 ed è Ludvig Wittgenstein, un filosofo, molto noto come filosofo, forse meno importante come logico, che fu per l’appunto un allievo di Russell. Quindi quest'oggi parleremo anche di lui, della sua vita altrettanto avventurosa e piena di avvenimenti pure questa, quindi spero che anche questa volta lezione possa essere perlomeno interessante. Vediamo un pochettino, come al solito, i paletti della vita di Wittgenstein. Wittgenstein, nacque nel 1889, morì nel 1951, certamente non arrivò al secolo o quasi, a 98 anni del suo maestro B. Russell. La famiglia di Wittgenstein, era una famiglia veramente ricca, veramente importante nella Vienna, nell'Austria di fine secolo ‘800, inizi ‘900. La famiglia era molto numerosa, erano sei, sette figli, tanto per fare un'idea di che tipo di famiglia, quali tipi di fratelli e sorelle Wittgenstein avesse, ecco qui nella slide questo bel ritratto di una delle sorelle, Margaret che quando si sposò nel 1905 si fece fare un ritratto di matrimonio, così si usava, pensate voi, nientepopodimeno che da Klimt, appunto semplicemente un ritratto su commissione. Klimt era amico di famiglia, ma in questa famiglia circolavano artisti di ogni genere. Il secondo artista di cui vogliamo parlare in questo momento è invece legato al fratello, a uno dei fratelli di Wittgenstein, che si chiamava Paul. Questo nella slide naturalmente non è Paul Wittgenstein, è un musicista, forse qualcuno di voi lo avrà riconosciuto, è ben noto per aver scritto un pezzo di musica che adesso è anche popolarissimo, grazie anche ad un film di cui non possiamo certo far vedere le immagini qui e questo pezzo è il famoso bolero di Ravel. Ebbene, che cosa c'entra Ravel con la famiglia Wittgenstein? C'entra, perché il fratello di Wittgenstein, era un grande pianista, un grande musicista, un genio musicale più o meno del tipo di Mozart, uno di questi bambini prodigi che suonano, compongono. Paul andò in guerra e purtroppo ebbe un incidente e perse la mano destra; ora la mano destra per un pianista è la mano più importante, perché in genere i pezzi del pianoforte si basano, si fondano sulla musica che si può suonare con la mano destra ed è anche la mano più forte, perciò un pianista senza la mano destra certamente può fare poco. Può fare poco a meno che non conosca dei compositori, amici suoi che gli permettano di fare qualche cosa, che gli scrivano addirittura dei pezzi e infatti il famoso concerto per la mano sinistra di Ravel, del 1931, fu scritto appunto per il pianista Paul Wittgenstein, cioè per il fratello di Ludvig Wittgenstein. Ebbene vedete già che questa era una famiglia che attraeva intorno a sé musicisti del tipo, del calibro di Ravel, artisti, pittori del calibro di Klimt e non erano gli unici, perché soprattutto verso la fine dell’800, in casa Wittgenstein circolavano personaggi come Brahms, Maler e così via. Wittgenstein addirittura disse una volta in una delle sue memorie, che il suo primo ricordo, la sua prima immagine della vita, era quella della barba bianca di Brahms, che lo solleticava nella culla, quindi immaginative voi. Ovviamente era una famiglia ricchissima, il padre era praticamente l'analogo di Krupp in Germania, erano costruttori, avevano ovviamente degli interessi nei metalli pesanti, nel ferro e così via, le traversine e ovviamente i binari delle ferrovie, quindi una grande famiglia piena di artisti, piena di geni e piena di personaggi interessanti. Uno di questi fratelli è quello di cui oggi ci interessiamo, cioè Ludvig Wittgenstein che fu per l’appunto un logico. Che fece Wittgenstein nella sua vita? Beh, anzitutto, come sempre succede, si va scuola e dove andò a scuola il piccolo Ludvig? Andò a scuola a Linz, una cittadina dell'Austria e frequentò per tre anni questa scuola, dal 96 1903 al 1906. Uno dei compagni di scuola di Wittgenstein era nientepopodimeno che Hitler. Hitler e Wittgenstein frequentarono la stessa scuola per un anno, erano più o meno coetanei, erano nati lo stesso anno o a un anno di differenza, ma la cosa interessante, a parte l'aneddoto, è ovvio che con qualcuno Hitler sarà andato scuola, è che sia Hitler che Wittgenstein, uscirono da questa scuola tutti e due con un'idea fissa Linz (1903-1906) e l'idea fissa era quella della soluzione finale. Ora il caso tragico, Compagno di scuola di Hitler quello di Hitler, era la soluzione finale contro gli ebrei, cioè lo Soluzioni finali sterminio, il genocidio che poi ha portato alla seconda guerra mondiale. Anche nel caso di Wittgenstein c'era quest'idea, della soluzione finale, cioè l'idea di arrivare a risolvere una volta per tutte i problemi della logica e poi ritirarsi in buon ordine, finire perchè la cosa era per l’appunto completata. Ora io non so bene che tipi di professori ci fossero in questa scuola, ma se due personaggi come questi, da una parte il Hitler e d'altra parte Wittgenstein, uscirono fuori con l'idea della soluzione finale forse qualcuno gliela avrà insegnata, ma forse questa non era la migliore scuola dove si poteva andare. E infatti Wittgenstein cambiò ad un certo punto la scuola e si spostò da un'altra parte; come vi ho detto la famiglia era molto ricca, quindi non cerano problemi ad andare a studiare nel miglior posto che si potesse pensare all'epoca e per chi voleva studiare matematica e per chi volesse studiare filosofia, il miglior posto o perlomeno dei uno dei migliori posti all'epoca era l'università di Cambridge e infatti Wittgenstein si spostò laggiù negli anni tra il 1911 e 1913, studiò logica matematica, insieme nientepopodimeno che Bertrand Russell. Bertrand Russell che fu suo maestro e che lo considerò per un certo periodo il suo erede designato. Cambridge (1911-1913) Russell ormai in quegli anni, ricorderete la scorsa lezione, Allievo di Russell era all'apogeo della sua carriera, al punto più folgorante, aveva già scritto, nel 1910, i Principia matematica che era già usciti sul mercato, un mercato ristretto perchè ovviamente quel genere di libri non è certamente importante per il numero di coppie che vende, ma per le cose che dice e per l'influenza che poi ha nella storia del pensiero. Nel 1911, cioè nell'anno in cui Wittgenstein arrivò a Cambridge era uscito il secondo volume e nel ‘13 poi sarebbe uscito il terzo volume. Russell veniva considerato il guru della logica mondiale ormai, grazie appunto anche alla sua attività di propaganda, agli articoli che scriveva, eccetera, era universalmente riconosciuto come il più importante logico della modernità, perlomeno fino a quel periodo. Ebbene Russell vide in Wittgenstein, in questo brillante allievo, che gli faceva indagini penetranti, che lo metteva ovviamente in imbarazzo con le sue domande, con le sue pulsioni, il suo erede. Pensava ormai che dopo i Principia matematica si sarebbe ritirato, avrebbe fatto altre cose e sappiamo bene quante ne fece dalla scorsa lezione, ebbene lui pensava che la logica sarebbe andata avanti sulla scia che lui ovviamente aveva iniziato, grazie all'attività di Wittgenstein. E cosa successe nel 1913? Lo sapete tutti, perché, ad un certo punto, questo è il periodo in cui si stavano sentendo i venti di guerra, nel 1914 sarebbe scoppiata la guerra. In realtà Wittgenstein se ne andò da Cambridge nel ‘13, perché ormai aveva formulato, benché fosse molto giovane, una certa serie di ipotesi sulla logica, che erano in realtà molto contrarie all’idea che ne aveva Russell e vedremo meglio fra qualche minuto in che senso, ebbene si era ritirato in Norvegia, voleva lavorare per qualche anno da solo, senza avere nessun contatto con nessun altro, scrivere, eventualmente avere uno scrivano, che nel caso di Wittgenstein era un famoso filosofo che si chiamava G. E. Moore, quindi poteva permettersi Wittgenstein anche questo, di poter dettare i suoi pensieri, i suoi quaderni a qualcuno che in realtà era assolutamente in grado di scrivere opere per conto suo. Ebbene dicevo, se ne andò per qualche mese in Norvegia e isolato lavorò lì a quelli che poi furono chiamati i quaderni di quegli anni; poi però scoppiò la guerra e ovviamente i giovani di quell'epoca andarono al fronte. Anche Wittgenstein effettivamente se ne andò in guerra. La sua traversia in guerra fu molto lunga, incominciò a patire nelle retrovie, lavorò per un paio di anni nelle retrovie e poi però fu spostato sul fronte; per due anni combatté e ovviamente chi combatte al fronte una guerra come la prima guerra mondiale, un vero carnaio insomma, certamente cambia sue opinioni, cambia le sue idee, medita sul significato della vita e così via. Questo libro di logica che Wittgenstein stava concependo e che aveva incominciato a scrivere o 97 perlomeno ad abbozzare nei quaderni che scriveva in Norvegia, piano piano si modificò e infatti il grande libro che poi Wittgenstein pubblicò, dopo pochi anni, di cui parleremo fra un momento, alla fine nella seconda parte, nella sua parte finale è tutto dedicato al misticismo, ai problemi dell'etica, al significato del senso della vita e così via; quindi effettivamente la guerra fece una grande impressione su Wittgenstein, come su tanti altri. Wittgenstein perse un fratello, tra l'altro in guerra, quello che era ufficiale dell'esercito e che si suicidò ad un certo punto, quando l'esercito austriaco si sfaldò, perché doveva comandare un battaglione, una compagnia e non riuscì più a farsi ubbidire dai soldati, allora uscì, si sparò un colpo in testa e quindi morì così. Non è l'unico fratello di Wittgenstein che è morto in circostanze tragiche, ma anche un altro fratello che era un altro genio musicale della famiglia, era colui che componeva già all'età di 3-4 anni, non lo stesso Paul, che poi invece in realtà sopravvisse alla guerra e divenne il famoso pianista con la sola mano sinistra, ma un’altro genio, perché la famiglia Wittgenstein era una famiglia veramente di persone molto dotate per la musica; Wittgenstein stesso suonava il clarinetto e il pianoforte come le sorelle e i fratelli, ma sapeva fischiettare benissimo, sembra che sapesse fischiettare intere sinfonie, in maniera perfettamente corretta con tutte le note. Ebbene questa comunque è ovviamente soltanto una parentesi, dicevo Wittgenstein stette al fronte, fra il ‘16 e il ’18 e nessuno più sapeva dove fosse finito, in particolare Russell non sapeva dove fosse finito e in qualcuno dei suoi scritti, lui dice questo problema è stato posto da un mio allievo Ludwig Wittgenstein, ma non so nemmeno se l’abbia risolto, ma addirittura non so nemmeno se sia vivo o se sia morto. Wittgenstein era vivo, però era stato preso prigioniero e tra il 1918 e il 1919 effettivamente rimase in prigionia, dove? L'abbazia di Monte Cassino, Wittgenstein fu preso prigioniero a Cassino, quindi in Italia. Naturalmente continuò a scrivere, continuò a limare il suo trattato logico filosofico, la sua opera più importante è effettivamente la parola limare, è forse la parola giusta perché quella è un'opera quasi di poesia più che di scienza, su cui parleremo tra un momento. È giunto dunque il momento per l’appunto di elencare le opere di Wittgenstein. Ricorderete che il maestro di Wittgenstein, Russell, aveva scritto praticamente 100 libri nella sua vita e questa volta abbiamo potuto parlare soltanto di qualcuno, accennare ai titoli, perché ovviamente in un’ora non si può nemmeno fare l'elenco di tutti questi libri che Russell scrisse. Ebbene l’elenco completo delle opere che Wittgenstein pubblicò, non solo addirittura nella sua vita, ma che lasciò pronte per la pubblicazione dopo la sua morte, è questo qua, completo: due opere. Nel 1921 il “Tractatus”, il cosiddetto trattato logico filosofico e nel 1953, ricorderete che Wittgenstein era già morto, però postumo apparve queste “Ricerche filosofiche” ed ecco che per questo motivo abbiamo intitolato la nostra lezione “alle ricerche del trattato perduto”, in qualche modo giocando sulle parole. Opere Parliamo allora brevemente di questi due libri, cercando di soffermarci su ¾ Tractatus quello che ci hanno lasciato da un p.di v. logica; non sono gli unici libri che ¾ Ricerche voi troverete o trovereste in libreria o in biblioteca, perché in realtà dopo la morte di Wittgenstein questo era pronto, cioè Wittgenstein l’aveva preparato per la pubblicazione, in realtà aveva pensato di pubblicarlo più volte e poi non era perfettamente convinto che fosse ormai arrivato nella sua formulazione definitiva e quindi non si decise mai a pubblicarlo; però il libro era pronto, quindi effettivamente questo è il libro che scrisse lui. Wittgenstein era non dico un grafomane, ma anche lui un grande scrittore, cioè grande nel senso che aveva una produzione molto prolifica e lasciò casse e casse di appunti, ordinati più o meno, qualcuna di queste casse erano gli appunti più o meno ordinati messi dentro cartellini e quindi abbastanza organicamente disposti, altri erano buttati alla rinfusa, pensieri un pochettino così in maniera congestionata. Ebbene, quello che successe fu che gli eredi testamentari, molti di loro, cioè un gruppo di filosofi di Cambridge che avevano avuto in eredità questo lascito testamentario di Wittgenstein, incominciarono a pubblicare molte e molte opere; non so quanto e fino a che punto, per lo meno, questo sia stato un qualche cosa di utile, certamente da un punto di vista mercantile o di successo fu un grande successo perché moltissime opere vendettero, ce ne sono di tutti generi, su l’etica, su pensieri sparsi, sulle ricerche filosofiche, abbozzi di questi due libri, versioni preliminari e così via. Molti altri, si vede chiaramente che sono un pochettino raffazzonati, Wittgenstein non si sarebbe mai sognato di pubblicarli, non si sognò mai di pubblicare nemmeno le ricerche che erano in ben altro stato di progresso e di organizzazione. Quello che addirittura a volte può anche essere un pochettino seccante, fu che questi eredi, questi esecutori testamentari, pubblicarono addirittura gli appunti delle lezioni che Wittgenstein teneva. Ora Wittgenstein pensava in classe, cioè le sue lezioni erano lezioni dal vivo, non preparate con 98 lucidi perché all'epoca non si usavano, ma neanche con degli appunti, cioè si poneva problemi, pensava ad alta voce di fronte ai suoi allievi, faceva lezione tra l'altro in camera sua, nel collegio dove viveva, viveva in maniera molto parca, benché appunto fosse molto ricco, ma aveva lasciato, si era spogliato di tutta la sua eredità, di tutto il suo patrimonio ed aveva lasciato tutto alla famiglia e viveva praticamente di molto poco, quindi una vita che perlomeno era coerente da un punto di vista filosofico, gli interessavano le idee, non gli interessavano i quattrini, se ne liberò e incominciò a vivere come facevano i professori appunto, come facevano i ricercatori. Ebbene, dicevo, alcuni di questi libri sono veramente soltanto degli appunti presi a lezione da persone che capivano, poi fino ad un certo punto quello che il maestro diceva, anche perché quando si pensa ad alta voce ovviamente i pensieri non vengono fuori in maniera coerente, soprattutto da un personaggio come Wittgenstein che era estremamente tormentato e che quindi pensava, si correggeva, rifletteva, cambiava idea e così via. Quindi, questo per dirvi, se volete avvicinarvi alle opere di Wittgenstein io vi consiglio di concentrarvi su queste due e ne avrete già a sufficienza perché, come ho accennato prima, queste due opere sono anche o soprattutto opere letterarie, più che opere filosofiche, cioè la forma in cui le cose vengono dette è importante e bisogna stare attenti a capire quello che viene detto e non è un impresa facile. Non so se questo vi aiuterà, ma comunque cercheremo almeno di enunciare alcune delle idee. La prima opere, ho già detto il titolo, è “il trattato logico filosofico”, pubblicato nel 1921 con una prefazione Tractatus di Russell che Wittgenstein immediatamente sconfessò e disse logicus-philosophicus(1921) insomma Russell non aveva capito nulla di quello che io cercavo “ciò che si può dire di dire, ormai è fuori del gioco e quindi cercò in tutti i modi di si può dire in tre parole” non farla pubblicare, ciò per dirvi quale potesse essere il rapporto fra il maestro e l'allievo. Questo è il motto che Wittgenstein pose al trattato logico filosofico, “ciò che si può dire si può dire in tre parole”, ciò significa che il libro sarà fatto tutto di massime, di aforismi e di cose molto concentrate, un sapere in pillole si potrebbe dire. Qual'è l'idea fondamentale del trattato? Wittgenstein proprio perché pensava in una maniera molto sui generis, molto originale, in realtà ebbe l’idea del trattato una volta che lesse sul giornale che c'era stato un processo, un processo per un incidente automobilistico e che i feriti erano andati in tribunale e per far capire che cos'era successo in questo incidente automobilistico, avevano usato delle macchinine, dei modelli di macchine ed ecco, qui appunto, che abbiamo importato questi modelli di macchine, ma l'idea che venne a Wittgenstein era che le macchinine, in qualche modo, erano un'immagine dell'evento che era successo, cioè dell'incidente ed erano una rappresentazione fatta attraverso un particolare tipo di linguaggio. L'idea fondamentale del questa intuizione e l'intuizione trattato viene appunto da fondamentale Wittgenstein l’ha espressa, perlomeno la esprimeremo noi oggi con le nostre parole dicendo che c'è un duplice isomorfismo, l’isomorfismo è una parola matematica che molti di voi conosceranno, significa identità di struttura, non uguaglianza, cioè il mondo, il pensiero e il linguaggio, che sono i tre enti che sono coinvolti in questo duplice isomorfismo non sono la stessa cosa. Nessuno pensa che il mondo sia la stessa cosa del pensiero, Wittgenstein non era affatto un idealista, non pensava che l'unica cosa che esistesse fossero i pensieri, fossero le idee e certamente non pensava che gli unici pensieri fossero quelli che si possono dire a parole, però pensava che ci fosse una identità di struttura tra il mondo da una parte e il pensiero e dall'altra parte, fra il pensiero e il linguaggio. In altre parole, ciò che noi diciamo riflette non soltanto nei concetti, ma addirittura nella struttura ciò che noi pensiamo e ciò che noi pensiamo riflette nella sua struttura ciò che il mondo è. Questa è l'idea fondamentale per l’appunto del Tractatus logicus-philosophicus. Qual'è quindi lo studio importante, se noi vogliamo studiare il mondo? Beh, poiché il monito è isomorfo al pensiero, allora dovremo studiare il pensiero e poiché il pensiero è isomorfo a linguaggio dovremo studiare il linguaggio, questa è l'idea. Allora l'idea fondamentale del trattato è che interessa studiare il linguaggio e con il linguaggio riusciremo a capire come è fatto il pensiero e di conseguenza come è fatto il mondo. La seconda idea fondamentale del trattato logicofilosofico che già mette nel suo titolo la parola principale logico, ebbene l'idea è proprio questa, che il linguaggio sia nient'altro che quella che oggi noi chiamiamo logica proporzionale. Questo può parere un 99 pochettino strano, in fin dei conti, dopo tutte le lezioni che abbiamo fatto, dopo tutti gli avanzamenti che ci sono stati, tanto per dire Frege ad esempio, rispetto alla logica greca, ma già Aristotele era andato oltre in linguaggio qualche modo alla logica sillogistica, ecco che qui sembra quasi che ci = sia un regresso, cioè il linguaggio che appunto dai greci fino alla fine logica proposizionale l'800, con Russell compreso, si era analizzato, si era capito che aveva una certa complessità, ora Wittgenstein cerca di riportare questa complessità ad una semplificazione, cioè alla semplicità del linguaggio della logica proporzionale. Ebbene l'idea fondamentale, la filosofia fondamentale che sta dietro questo trattato è quella che oggi viene chiamata il cosiddetto “atomismo logico”. Non a caso qui ho messo la fotografia di una statua di Crisippo perché voi ricorderete che Crisippo era stato colui che, ai tempi dei greci, aveva studiato il linguaggio proposizionale, la logica proposizionale. Ed ecco che Wittgenstein in qualche modo è un ritorno al passato, una riscoperta della logica stoica. Notate una riscoperta che in parte Wittgenstein fece, perché lui si vantava, ma forse non c'era da vantarsi di questo, ma comunque certamente bisogna dirlo perché era quello che faceva, si vantava di non leggere i classici del passato, lui diceva a me piace pensare e non mi interessa ciò che gli altri abbiano pensato, voglio pensare con le mie gambe, diciamo così, naturalmente intellettuali, voglio pensare con la mia testa. Ed ecco che pensando con la sua testa, ovviamente arrivò più o meno ai primordi di quello che si era fatto, quello che in genere poi succede, chi vuole fare da sé, più o meno può fare quello che è stato fatto, ma insomma i primi passi in questa direzione. Wittgenstein ritornò dunque nella sua filosofia, diciamo così, che poi da Russell verrà battezzata atomismo logico, all'idea del linguaggio della logica che già aveva Crisippo, cioè ci sono dei fatti atomici nel mondo che vengono rispecchiati da dei pensieri atomici, i quali vengono espressi mediante proposizioni o formule atomiche. Queste formule atomiche vengono messe insieme, in formule più complicate attraverso quelli che si chiamano i connettivi, i soliti negazione, congiunzione, disgiunzione, implicazione, cioè non, e, o, se.... allora e così via. Secondo noi i logici di oggi non considerano Wittgenstein un grande logico proprio per questo, perchè tutto sommato, la sua idea era un po’ un regresso, era un ritornare all’indietro con idee che erano già state in qualche modo orecchiate. Wittgenstein ci mise qualcosa di suo e il passo successivo, di quello che ci mise di suo, fu quello che venne in seguito chiamato “approccio semantico”, cioè l’approccio di Wittgenstein alla logica, che sembrava una grande novità soprattutto a Russell che non lo concepiva, non lo riusciva a capire, Wittgenstein stesso pensava che fosse qualcosa di completamente diverso da ciò che faceva Russell era l'approccio semantico che si basava su valori di verità, su un calcolo dei valori di verità e non invece come l'approccio di Frege e di conseguenza anche quello di Russell su assiomi e su regole. Russell e Frege avevano scritto le loro grandi opere, in particolare “i principi della matematica” che erano stati completati da poco, si basavano su un sistema assiomatico, come quello di Euclide alla maniera dei fondamenti della geometria di Hilbert, di lui parleremo presto in una prossima lezione, cioè basati su ipotesi, appunto gli assiomi e definizioni elementari e poi su regole di deduzione che permettevano di dedurre da questi assiomi delle formule, delle conseguenze più complicate. L’approccio di Wittgenstein non prende assolutamente questa strada, ne prende una che a prima vista e dico a prima vista, perché in seguito vedremo che in realtà non era poi così differente, ma a prima vista sembra completamente diversa, sembra ortogonale alla precedente, cioè Wittgenstein usa quelle che oggi noi chiamiamo le tavole di verità e si concentra su quello che noi chiamiamo oggi tautologia, cioè una formula che è sempre vera. Approccio semantico L’idea di verità logica per Wittgenstein è la stessa idea che già aveva ¾ Tavole di verità Leibniz s e ricordate, le verità logiche sono le verità di ragione, sono ¾ Tautologie quelle che sono vere in tutti i mondi possibili e nel caso della logica proposizionale i mondi vengono descritti da tutte le possibili combinazioni di valori di verità delle proposizioni atomiche e dunque tautologia è precisamente quello che Leibniz considerava una verità di ragione, cioè qualche cosa che è vera in tutti i mondi possibili, cioè è vera per qualunque assegnazione di valori di verità alle proposizioni elementari. Come si fa a vedere se una formula è o no una tautologia? Si costruisce una tavola in cui si pongono tutte le possibili combinazioni, si fanno i calcoletti per ciascuna di 100 queste combinazioni dei valori di verità, se tutti questi risultati di valori di verità sono sempre il vero, ecco che allora siamo di fronte ad una tautologia. Voi direte, beh, questo è esattamente qualcosa di importante, è un bell’avanzamento, però questa idea era già perfettamente compresa e perfettamente usata da Crisippo. Quindi dal nostro punto di vista, non bisogna dimenticare ovviamente che gli stoici non erano così noti, la rinascita degli studi sugli Stoici fu praticamente negli anni ’50 del 1900, quindi posteriore di una trentina d’anni a Wittgenstein, però certamente oggi noi, col senno di poi, diremo Wittgenstein non è andato molto al di là di quello che fece Crisippo. In realtà, come ho detto, questi due approcci all'epoca apparvero veramente differimenti, apparvero contrapposti, da una parte la Scuola di Frege, di Peano e di Russell basata su assiomi e su regole di deduzione, la Scuola cosiddetta “sintattica” e dall'altra parte la Scuola “semantica”, Scuola per modo di dire, perché c'era solo Wittgenstein all'epoca, costituita per l’appunto da questo approccio attraverso valori di verità, attraverso tavole di verità, ma non assiomi e regole. E allora Wittgenstein nel suo trattato dice chiaramente, il modo giusto di vedere la logica è il mio, quello di Russell è sbagliato, quindi una specie di diatriba tra due grandi menti filosofiche. Chi aveva ragione? Beh, la cosa ironica è che in realtà non aveva ragione nessuno, perché il problema non si poneva, se Wittgenstein fosse stato un matematico migliore di quello che era o fosse stato matematico invece che un filosofo, si sarebbe accorto di quello che, negli stessi anni, anzi addirittura nello stesso anno 1921-1922, si accorse invece un matematico che si chiamava Emil Post. Post nel 1921 dimostrò quel che si chiama “il teorema di completezza della logica proporzionale”. Il teorema di completezza della logica proporzionale dice che Teorema di completezza l'approccio di Frege e di Russell è esattamente equivalente Post(1921) all'approccio di Wittgenstein, cioè “l'approccio sintattico” Frege = Wittgenstein è equivalente a “l’approccio semantico”. Il teorema di completezza dice che attraverso il sistema assiomatico di Frege e Russell, cioè il sistema di assiomi e di regole, si possono dimostrare dei teoremi e attraverso il sistema semantico di Wittgenstein si può vedere se una formula è una tautologia. Qual'è la relazione fra i teoremi del sistema di Frege e Russell e le tautologie di Wittgenstein? Sono esattamente la stessa cosa, cioè una formula è dimostrabile nel sistema di Frege e Russell, cioè è un teorema, se e solo se è una tautologia. In altre parole, questi due approcci così diversi, su cui in realtà si combattevano queste battaglie, si mostra alla fine, si dimostra in maniera matematica che sono la stessa cosa. E questo fu un grande risultato, un risultato che mise insieme addirittura due approcci differenti, fece vedere che erano due aspetti complementari, invece che due aspetti contrapposti, erano due facce di una stessa medaglia. Ebbene che cosa successe dopo questa cosa? Anzitutto il trattato di Wittgenstein ha tutta una parte che si interessa di misticismo, di etica e di cose di questo genere. Una parte di queste formulazioni mistiche, qui nella slide c'è ne una molto tipica, in realtà percorreva un pochettino i tempi; quindi se c'è qualche cosa di novità nel trattato logico filosofico di Wittgenstein, è in realtà proprio in questa parte ed ecco qui una di queste formulazioni che vi lego: “non tutto ciò che si può mostrare attraverso il linguaggio, si può anche dire”. Ora è chiaro che queste formulazioni si possono reinterpretare benevolmente col senno di poi, all'epoca erano semplicemente oscure, non si capiva bene che cosa volessero dire, però puntavano nella direzione del fatto che il linguaggio avesse delle limitazioni, cioè che ci fossero delle cose che non si potevano dire nel linguaggio, il linguaggio le poteva mostrare, ma non ne poteva dire. Che cosa erano le cose che Wittgenstein aveva in mente, che il linguaggio poteva mostrare, ma non dire? Ebbene era tutta la parte della sua struttura; la struttura di un linguaggio è un qualche cosa che il linguaggio può mostrare, perché quando noi parliamo in realtà la usiamo e quindi dal di fuori siamo consci di questa struttura, però Wittgenstein credeva che non si potesse parlare della struttura del linguaggio all'interno del linguaggio. Ora qui nella slide ho messo la fotografia di Tarski vicino a Wittgenstein, questa volta sulla destra invece che sulla sinistra, per indicare che dopo di Wittgenstein arrivò effettivamente qualcuno che fece non soltanto dei proclami, non soltanto degli aforismi così come faceva Wittgenstein, bensì dimostrò un teorema che effettivamente diede ragione a Wittgenstein, perlomeno se lo si interpreta nel modo che ho appena detto, cioè per esempio il linguaggio può mostrare la verità di una proposizione perché basta che la affermi in quel 101 modo, cioè quando noi affermiamo qualche cosa stiamo dicendo ad altri che stiamo considerando quella affermazione vera, però non si può all'interno del linguaggio dare una definizione della verità. Parleremo meglio di questo contributo di Tarski quando dedicheremo a lui la lezione e quindi parleremo appunto del problema della definizione di verità, però questa effettivamente è un dare ragione a Wittgenstein. La verità è un qualche cosa che il linguaggio può mostrare, ma di cui non può parlare, perché all'interno del linguaggio non può esserci una definizione di verità, che non è contraddittoria,. Ecco che quindi c'è qualche cosa che effettivamente il trattato ci ha insegnato, però bisogna dire che, fino a quando Tarski non dimostrò il suo teorema, questa parte del trattato non fu molto compresa e forse, come ho detto, oggi noi benevolmente la reinterpretiamo come un’anticipazione di queste cose, ma in realtà era probabilmente un aforisma di cui Wittgenstein non aveva proprio compreso bene la portata. Fatto questo che cosa succede? Beh, alla fine del trattato di Wittgenstein, l'ultimo capitolo del trattato è semplicemente questa frase, che divenne molto famosa, è stata ripetuta 100 volte, che dice semplicemente “su ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere”, in cui si arriva a conoscere, a sapere che effettivamente il linguaggio ha delle limitazioni. Ed ecco che allora ci troviamo di fronte al problema fondamentale, il problema etico, che cosa facciamo quando ci si trova di fronte a delle limitazioni? Ebbene il linguaggio ha delle limitazioni, se non può dire certe cose, l'unica cosa che possiamo fare in questo caso, cioè delle cose di cui il linguaggio non può parlare, è stare zitti, cioè non possiamo fare nient'altro. Ovviamente Wittgenstein non pensava che sarebbero poi arrivati Goedel, Tarski e così via e che effettivamente il linguaggio sarebbe stato piegato proprio a questi bisogni, cioè lo si sarebbe forzato a parlare di se stesso, per esempio a parlare di formule che dicono di non essere dimostrabili e così via e quindi in qualche modo, questo aforisma è rimasto così, però insomma è certamente una bella frase, non si può negare questa cosa. L’ho messa qui in questa slide, facendola dire a Wittgenstein, perché questo è quello che immediatamente i suoi critici gli imputarono, quello di dire va bene, metà o quasi di tutto questo libro sta dicendoci che ci sono delle limitazioni di linguaggio, di cui non bisogna parlare e il libro parla effettivamente proprio di questo, in particolare questa stessa frase sta dicendo che bisogna sapere proprio sulle limitazioni di cui non bisognerebbe parlare. Quindi c'è una certa circolarità, ma ovviamente in questo sta anche il fascino del libro. Che cosa successe dopo? Wittgenstein, che era anche una persona, insomma, con un certo carattere, pensò di aver risolto tutti problemi come detto prima, ci fu quella che lui pensò la soluzione finale ai problemi della logica. Aveva risolto tutto quello che si poteva fare, era inutile che continuasse a fare il logico e allora abbandonò l'università, abbandonò il suo posto e se n'andò in montagna, non a fare il montanaro, non a fare passeggiate, ma divenne pensate voi maestro elementare e tra il 1920 e il 1926 insegnò in una di queste Maestro elementare scuole di montagna. Forse non era la cosa migliore che poteva fare, perché (1920-1926) apparentemente come insegnante non era molto bravo, come vi ho detto prima, anche le sue lezioni già anche all'università erano un pochettino sui generis, quando arrivò nelle scuole, forse perdeva la pazienza, si sa che picchiava anche i bambini, alcuni di questi li fece sanguinare, insomma non era una bella cosa. Nel ‘26 fu costretto a battersela in ritirata in qualche modo; ci fu una denuncia addirittura dal papà di una bambina alla quale lui aveva tirato le trecce e che appunto aveva avuto anche dei versamenti e quindi ci fu questa specie di causa. Wittgenstein se ne andò, ma nel frattempo erano passati alcuni anni e Wittgenstein aveva problemi che lui credeva di aver risolto in maniera definitiva, assoluta, forse non era stati risolti in maniera così perfetta e in particolare ebbe quelle che si chiamano epifanie; io qui, scherzosamente, naturalmente ho giocato con la parola epifanie e ho messo, come immagine quella della Befana. Voi sapete bene che invece epifania è una specie di esperienza mistica, ciò che si vede in qualche modo e che lascia veramente perplessi. Le due epifanie che lui ebbe furono una legata agli “ordini” e una legata ai “gesti”. Circa gli ordini si accorse che in tutto il suo linguaggio, in tutto il trattato logico filosofico aveva dimenticato una cosa importante del linguaggio, cioè si era dimenticato che linguaggio serve non soltanto a dire delle cose che sono vere o false, ma serve anche a dare ordini. Quando se 102 ne accorse? Se ne accorse quando sua sorella aveva bisogno di una casa e lui decise di progettargliela e di costruirgliela, di fare l'architetto. Allora costruì questa casa e si accorse che per far muovere i muratori, per farli mettere i mattoni al posto giusto, doveva dare degli ordini, questi ordini non erano compresi nel suo linguaggio proposizionale. Il linguaggio proposizionale non parla di ordini: questo è il primo problema. Secondo problema: si accorse che i gesti provocavano dei problemi nella sua teoria del linguaggio. Passeggiando un giorno con un famoso economista italiano si chiamava P. Sraffa, Sraffa gli disse: ma tu sei proprio sicuro che ci sia questo isomorfismo tra il linguaggio e il mondo? E Wittgenstein disse, beh, certamente sì e allora Raffa che era napoletano gli disse, ma scusami allora a cosa e corrisponde nel mondo questo gesto? E gli fece questo famoso gesto napoletano (v. slide) e Wittgenstein rimase veramente perplesso; disse, già è giusto, effettivamente quando faccio delle frasi, quando dico delle frasi, c'è qualche cosa del mondo che corrisponde al contenuto di queste frasi, ma quando qualcuno mi fa questo gesto, effettivamente non so che cosa corrisponda nel mondo. Ecco che allora gli ordini e i gesti furono due cose che Wittgenstein scoprì appunto non far parte della sua trattazione, decise all'ora di ritornare all'università e ritornò a Cambridge e incominciò a lavorare al suo secondo libro. Il suo secondo libro, che come vi ho già detto prima, si chiama “le ricerche filosofiche” e fu pubblicato poi postumo nel 1953. Wittgenstein ci lavorò praticamente dal 1930 fino al ’51, quando morì, cioè per vent'anni. Ci sono Ricerche filosofiche(1953) molte versione preliminari come vi ho detto, i quaderni blu, il “Il progresso appare sempre quaderno marrone e così via. Il motto delle ricerche filosofiche più grande di quello che è” è un motto autobiografico e Wittgenstein scelse questo motto, cioè “il progresso appare sempre più grande di quello che è”. Ovviamente in questo caso il progresso era il progresso che lui aveva realizzato col suo primo libro e si accorge nel suo secondo libro, che questo progresso, che nel 1921 gli era sembrato chissà che cosa, poi in realtà lui lo aveva sopravvalutato, gli era apparso più grande di quello che è. Il libro e le ricerche filosofiche incomincia, non facendo un mea culpa, però dicendo: io mi sono sbagliato a dare al linguaggio una certa valenza, non mi sono dimenticato degli ordini, ma lui accusa Sant'Agostino di essersene dimenticato, dice Agostino nelle Confessioni questo, cioè che si è dimenticato di certe cose, quindi in qualche modo il mea culpa era obliquo, diceva che lui aveva sbagliato, poi però non si prese tutte le colpe e in qualche modo cercò di aggirare la cosa. Quale fu la nuova grande invenzione delle ricerche filosofiche? Fu un'altra delle sue solite scoperte; vi ricordate che all'inizio nel Trattato c'era stato un problema di macchinine, lui aveva avuto questa visione delle macchinine e aveva capito queste cose. Ebbene nel caso delle ricerche filosofiche, un giorno passeggiando con quello che è oggi un famoso fisico, che si chiama Freeman Dyson, passò vicino ad un campo da calcio, un campo da calcio dove si giocava una partita e lui scoprì che effettivamente ci sono al mondo, oltre che persone che parlano, ci sono persone che giocano. Fu talmente colpita da questo fatto, evidentemente non si era mai accorto prima che c’era un pallone da calcio e incominciò a pensare a quelli che oggi vengono chiamati i giochi, lui stesso li chiamò i giochi linguistici, cioè per lui, il linguaggio questa volta non si trattava più di raccontarlo, di esprimerlo attraverso il sistema di Frege e Russell, cioè assiomi e regole, che come sappiamo era l'equivalente alla sua versione semantica, ma si trattava di giocare un gioco di cui bisognava imparare delle regole. Il linguaggio era più o meno la stessa Giochi linguistici cosa che imparare appunto a giocare a scacchi e imparare Non esistono linguaggi universali a parlare era come imparare a giocare a scacchi o né parti privilegiate come imparare a giocare qualunque altro gioco. Ebbene in particolare se ci sono dei giochi linguistici, allora non ha più senso parlare di linguaggio universale, come quello che i logici pensavano di aver scoperto nella logica, perché non c’è un gioco universale, si può giocare a scacchi, si può giocare a dama, si può giocare a carta e così via e anche nel linguaggio c’è la stessa cosa; ci sono dei giochi che si possono giocare, ma l’idea di gioco universale non ha senso e quindi non ha nemmeno senso l’idea di linguaggio universale. Idem non si può nemmeno dire: ma gli scacchi sono meglio della dama o sono meglio delle carte, perchè sono giochi differenti, cioè naturalmente in certe condizioni uno è meglio, in certe altre condizioni un altro è meglio, qualcuno preferisce l’uno, qualcuno preferisce l’altro. Dunque non ci sono nemmeno parti privilegiate, non ci sono nemmeno giochi linguistici privilegiati, in particolare la logica, che fino a Frege, fino a Russell pretendeva di essere il fondamento della matematica, 103 il fondamento delle scienze, è soltanto un gioco fra gli altri, quindi certamente non è il gioco privilegiato, perché di giochi privilegiati non ce ne nessuno. Forse la cosa più importante che deriva da queste ricerche filosofiche fu quella che poi venne presa come spunto e poi posta come fondamento dalla corrente filosofica che si chiama Positivismo logico; qui l’ho simbolicamente rappresentata con un cerchio, perché è la corrente del famoso circolo di Vienna. Ebbene l’idea fondamentale, molto nuova in questo caso, delle ricerche filosofiche, è che il significato di una parola non è qualche cosa che noi possiamo venire a scoprire andando a fare un analisi linguistica Il significato di una parola, naturalmente, lo impariamo come impariamo un gioco e quindi è semplicemente con la pratica, ma il suo vero significato è definito dall’uso che questa parola ha nel linguaggio. Quando noi impariamo ad usare la parola, allora in questo modo in maniera indiretta, stiamo imparando a capire qual è il suo significato. Quindi questa equivalenza tra significato e uso è proprio quella che sta sotto, diciamo così a fondamento di questa filosofia del positivismo logico. Ebbene che cosa si può dire oggi della filosofia di Wittgenstein e soprattutto dei contributi della logica di Wittgenstein? Mah, forse si può dire poco, ve ne siete già accorti mentre parlavo, che non è stato un grande avanzamento, non ci sono stati dei grossi progressi tecnici, le tavole di verità erano già note, tutto sommato da Crisippo, dagli stoici, forse il modo migliore di esprimere ciò che è ritornare di Klimt e ricordare una frase che disse Frege, quando lesse il trattato logico filosofico , cioè “l’opera di Wittgenstein è arte, ma non è scienza”. Forse questo effettivamente in una sola frase rispecchia, quello che oggi potrebbe essere il significato o meglio il giudizio sull’opera di Wittgenstein. Con questo abbiamo concluso, nelle prossime lezioni continueremo questa carrellata sui personaggi della logica contemporanea. 104 LEZIONE 13: Questioni di forma Nelle precedenti lezioni abbiamo praticamente esaurito l'influsso sulla logica matematica dei filosofi, alla fine abbiamo parlato di Russell, di Wittgenstein e così via e finalmente siamo arrivati proprio al centro, al nucleo del nostro corso, del nostro argomento, cioè siamo arrivati a parlare finalmente di logica matematica nel senso proprio vero, perchè la lezione di oggi e la prossima lezione saranno incentrate questa volta non più su filosofi finalmente, ma su due veri matematici, due grandi matematici che hanno lasciato il loro segno ovviamente nella matematica di questo secolo, del '900 e che però hanno anche lasciato il loro segno molto importante nella logica matematica. Oggi parleremo di Hilbert, la prossima volta parleremo invece di Brower. Brower forse è un po’ meno noto tra coloro che non sono addetti ai lavori, invece Hilbert è un grandissimo matematico a cui dedicheremo questa nostra lezione, che si chiama come vedete dal titolo “Questioni di forma”, perché in realtà di Hilbert è associato, per quanto riguarda la sua filosofia della matematica, il suo apporto alla logica matematica, a quella corrente che viene chiamata “formalismo”. Vediamo meglio subito, tanto per cominciare, quali sono i punti di partenza e di arrivo della sua vita, cioè il 1862 e 1943. Come vedete già dalle date immediatamente, Hilbert è stato a cavallo tra i due secoli, a Hilbert cavallo tra l'800 e il ‘900. Nella prima metà della sua vita, cioè la fine dell'800, (1862-1843) ha costruito una grande teoria matematica, ha dimostrato grandissimi teoremi a cui quest'oggi accenneremo soltanto, perché il nostro interesse è la logica e non la matematica e come abbiamo già fatto anche nelle lezione precedenti e come faremmo nelle lezioni successive, cerchiamo di inquadrare il personaggio in una maniera un pochettino più generale, cercando di dire che cosa fatto anche in altri campi. Nella seconda metà invece della sua vita, cioè in particolare dopo il 1900, proprio come anno, cioè allo scadere del secolo e all'inizio del nuovo secolo, Hilbert si è dedicato principalmente a questioni di fondamenti di matematica, di fisica e di tante altre cose, quindi sono proprio questi gli argomenti, sono queste le cose di cui parleremo in questo momento. Volevo dire però prima di parlare, di cominciare ad affrontare dall'interno il lavoro di Hilbert, che il Hilbert è stato praticamente il più grande matematico che è esistito in quel periodo, cioè nel passaggio fra l'800 e il ‘900. Dico praticamente, perché in realtà erano due coloro che si contendevano questo titolo di miglior matematico, di più grande matematico di quel periodo, uno era Hilbert e l'altro era Poincarè. Di Poincarè, di cui in realtà noi non parleremo, perché è stato un grande matematico, ma in realtà dei fondamenti e soprattutto della logica matematica non si è interessato, anzi era estremamente sdegnoso contro la logica matematica, non gli interessava come argomento, prendeva in giro coloro che se ne interessavano, quindi noi oggi parleremo di Hilbert. Ci concentreremo, come ho detto, sulla parte della sua vita, sulla parte della sua produzione dedicata ai fondamenti; come vedete qui ho messo quattro argomenti, perchè Hilbert si è interessato non soltanto di fondamenti della matematica, ma anche di altre cose, quindi parleremo brevemente dei fondamenti della geometria, perché di lì è nata tutta l’intera questione della logica moderna praticamente, dei fondamenti della logica matematica, perché questo è il nostro argomento, dei fondamenti della mateFondamenti matica e addirittura i fondamenti della fisica; poiché però i fondamenti ¾ della geometria della fisica sono anche un qualche cosa di marginale rispetto ai nostri ¾ della logica interessi li affrontiamo subito, benché nella vita di Hilbert vengano ¾ della matematica abbastanza tardi, cioè siano riferiti agli anni 1915-1920; sono qualcosa ¾ della fisica di marginale, ma talmente importante che è difficile non parlarne, perlomeno non citarle, perchè soprattutto fanno parte di quest'analisi dei fondamenti che era proprio lo spirito logico, quindi anche se Hilbert in questi suoi lavori particolari dedicati alla fisica non ha parlato direttamente di logica matematica, lo spirito che li informava era lo stesso che poi informava quello dei fondamenti più propriamente della matematica, quindi praticamente erano una applicazione della logica o meglio dei metodi, delle idee, della ideologia della logica, perciò siamo in tema praticamente. Bene allora, vediamo da vicino quali sono stati i due contributi essenziali che Hilbert ha portato ai fondamenti della fisica. Come tutti sapete la fisica moderna si divide praticamente in due grandi tronconi, la prima parte è la relatività speciale prima e poi ristretta, il grande lavoro di Einstein del 1905 e poi del 1915, mentre la 105 seconda parte della fisica moderna è la cosiddetta meccanica quantistica; quindi da una parte lo studio della relatività, perciò dell’infinitamente grande, del macrocosmo, della cosmologia, dell'universo nella sua interezza e dall'altra parte invece la meccanica quantistica, l'esatto contrario, cioè lo studio del microcosmo, Fisica dell’infinitamente piccolo, dei quanti, delle particelle che compongono ¾ relarività l'universo e naturalmente queste due visioni sono visioni complementari, ¾ meccanica quantistica perché nell'universo c'è sia il piccolo che il grande ovviamente, ci sono gli atomi e ci sono anche le galassie e così via. Però fino ad oggi non si è ancora riusciti a fare una unificazione di questi due argomenti ed è per questo che in genere vengono presentati separatamente Ebbene i contributi che Hilbert ha lasciato a questi argomenti sono molto importanti, li vediamo brevemente. Anzitutto la relatività ed abbiamo qui nella slide questa immagine potente tra l'altro, che dimostra anche qual'era la profondità d i pensiero, la si legge subito negli occhi di Einstein, che tutti conoscono perché è stato lo scienziato più famoso del '900 ovviamente, addirittura il personaggio del secolo secondo la rivista Times, non soltanto, ma in generale è stato colui che ha caratterizzato il '900 con il suo pensiero. Ebbene Einstein, come molti sapranno, ha creato nel 1905 la relatività speciale e poi nel 1915 invece la relatività generale che è, come che dicevo prima, lo studio della gravitazione da un p. di v. matematico, è un tentativo di riformare le leggi di Newton sulla gravitazione e di scriverle in maniera che fossero invarianti rispetto ad ogni sistema di riferimento. Per poter far questo c'era bisogno di un grande apparato matematico, quindi Einstein che era in realtà un fisco di professione, conosceva ovviamente benissimo moltissime parti della matematica, però ha dovuto appoggiarsi, proprio lui, sul lavoro e anche su l'aiuto a volte di matematici contemporanei a lui e anche precedenti a lui. Ebbene nel 1915 per l'appunto, lo anno stesso in cui Einstein riuscì alla fine, a portare a termine la relatività generale, dopo un periodo di quasi 10 anni di lavoro e soprattutto un periodo di due anni molto intenso di attività, in cui si dice addirittura che fosse diventato quasi autistico, cioè chiuso nel suo mondo, nei suoi pensieri, non parlava più nemmeno con gli amici, nemmeno con la famiglia, era praticamente sempre lì a pensare a queste equazioni che avrebbero dovuto caratterizzare nientemeno che l'universo. Ebbene la cosa ironica della storia è che a queste equazioni Albert Einstein arrivò secondo, arrivò secondo nel giro praticamente di un paio di settimane, perché per prima ci arrivò nientemeno che Hilbert appunto; Hilbert disse sempre che, in realtà, lui non voleva prendersi nessuno merito per quanto riguardava la relatività, che gliela aveva insegnata Einstein stesso, i principi fondamentali della relatività erano stati posti da Einstein e su questo non c'erano nessun dubbi, quindi l’intera costruzione fisica, l'intero fondamento della relatività era certamente dovuto Einstein; però Hilbert aveva di fronte ad Einstein, nei confronti di Einstein per l'appunto questo vantaggio, cioè di essere un grande matematico, di avere una piena consapevolezza, un pieno controllo, diciamo così, dei mezzi tecnici della matematica moderna e quando Einstein gli spiegò alla fine che cosa voleva fare, Hilbert ci pensò e raggiunse per l'appunto queste equazioni qualche settimana prima di Einstein. L'importanza appunto non è tanto nel fatto che lo abbia fatto prima o dopo, ma che l'abbia fatto in maniera puramente matematica, mentre l'approccio di Einstein è stato un approccio appunto di natura fisica, cioè l'intuizione di Einstein era un'intuizione fisica, l'intuizione di Hilbert invece era un'intuizione di tipo matematico. Questo è stato il primo grande risultato che ha portato per l'appunto dei grossi risultati nel campo della fisica matematica e nel campo dei fondamenti della fisica. Il secondo campo invece, in cui dicevo che Hilbert si è interessato, è invece quell'altro, la meccanica quantistica. La meccanica quantistica è nata verso il 1925-1926 grazie a questi due signori che vedete nella side, due premi Nobel giovanissimi, uno nel 1932 e l'altro nel 1933; questo signore qui a sinistra si chiama Shroedinger e questo altro sulla destra si chiama Heidelberg, due dei grandi nomi della fisica moderna. Insieme a Bohr, che aveva preso il premio Nobel qualche anno prima, ebbene questi tre nomi sono coloro che hanno creato questo studio della meccanica quantistica. Che cosa c'entra Hilbert con tutto questo? Beh, c'entra perché in quegli anni Shroedinger ed Eisenberg arrivarono a due formulazioni diverse della meccanica quantistica, erano anni appunto di ricerca, questi signori lavorarono in campi diversi, Shroedinger era originario dell'Austria, Eisenberg era originario della Germania, questi due signori, questi 106 due studiosi, i due fisici, trovarono due teorie che in realtà sembravano quasi in contrapposizione fra di loro. Ebbene, dal punto di vista matematico nessuno dei due era appunto un grande matematico, erano entrambi fisici e quello che si scoprì poi nel 1927, era che entrambe le teorie che avevano portato avanti, che avevano scoperto Shroedinger e Eisenberg, erano in realtà formulabili in uno stesso ambiente, con uno stesso linguaggio matematico e questo linguaggio matematico è quello che ancora oggi viene usato in questo campo e si chiama appunto "spazi di Hilbert". Gli spazi di Hilbert sono spazi geometrici ad infinite dimensioni, cioè analoghi a quelli in cui noi ci muoviamo, cioè lo spazio Euclideo, del quale tra l'altro parleremo tra breve per i fondamenti della geometria, soltanto che invece di avere tre o quattro dimensioni, come quelli soliti a cui siamo abituati, cioè le tre dimensioni spaziali ed eventualmente una quarta dimensione temporale, questi spazi di Hilbert hanno infinite dimensioni. Hilbert sviluppò questa geometria di spazi ad infinite dimensioni, lo fece per motivi di natura matematica e poi si scoprì nel 1927 che quello era veramente il linguaggio adatto a parlare della meccanica quantistica. Quindi questo fu un grande contributo matematico di Hilbert, che poi risultò essere utile per i fondamenti della fisica. Affrontiamo ora meglio da vicino quelli che furono gli interessi più matematici di Hilbert e vediamo brevemente qual'è stato il percorso che poi ha portato a grandi risultati anche di logica matematica. Nel 1899, l'anno prima dello scadere del secolo, Hilbert scrive un libro che si chiama i “Fondamenti della geometria”, lo scrive come lezioni di un corso che aveva tenuto per un paio danni, in quegli anni e introduce un atteggiamento nuovo verso lo studio della geometria; non più tanto, lo studio, lo sviluppo, diciamo così, Fondamenti della geometria (1899) della geometria, perché quello era ormai, soprattutto della Metageometria: geometria euclidea, un qualche cosa che si conosceva ¾ completezza ormai benissimo da 2000 - 2500 anni, ma quello che interessava a Hilbert erano soprattutto i fondamenti della ¾ indipendenza geometria, cioè cercare di studiare il sistema assiomatico ¾ consistenza di Euclide e studiarlo da un p. di v. che noi oggi chiameremo di meta-geometria, cioè porsi al di sopra della geometria, fare della geometria l'oggetto di studio della matematica stessa. In particolare parleremo brevemente in questa lezione di questi tre tipi di problemi, cioè "la completezza, l'indipendenza e la consistenza degli assiomi". Sono tutte nozioni alle quale abbiamo già accennato in precedenti lezioni, però sono proprio nate praticamente, hanno visto la luce in questo libro di Hilbert. Qual'è stata l'origine storica di queste nozioni; ebbene eccolo qua il nostro Euclide, ne abbiamo già parlato più volte, nel terzo secolo a.C. Euclide fonda la matematica greca, la matematica moderna ai suoi tempi ovviamente, fonda la matematica su un sistema assiomatico, cioè stabilisce cinque assiomi che sono i cinque mattoni principali su cui si fonda tutto l'edificio della geometria. Questi cinque assiomi sono in particolare assiomi che dicono, per esempio, che “tra due punti passa una e una sola retta”, che “dato un segmento e dato un punto è possibile costruire un cerchio che abbia quel segmento come raggio e quel punto come centro” e così via, ma poi ci fu in particolare un quinto assioma, il famoso quinto assioma di Euclide che parlava di rette parallele; il quinto assioma diceva che “data una retta è un punto al di fuori di essa è possibile tirare una e una sola parallela alla retta data”. Vedremo poi meglio, in particolare tra qualche minuto, che cosa significa questo assioma. L'importanza di questi cinque assiomi è che Euclide credette, sottolineo questo verbo, di poter derivare da essi tutti i suoi teoremi che sono centinaia nell'intero “libro degli elementi”, in 13 volumi; ebbene dicevo che credette di poter derivare tutti i suoi teoremi dai cinque assiomi, quella era la base logica su cui si fondava la geometria. Però c'erano i problemi ed i problemi del sistema assiomatico di Euclide erano in particolare due: il primo problema è quello della completezza e il secondo quello dell'indipendenza. Problemi Cosa vogliono dire brevemente queste due cose? Completezza vuol dire ¾ completezza che effettivamente tutti teoremi che Euclide enunciò nei suoi elementi, ¾ indipendenza nei suoi libri si potevano effettivamente derivare degli assiomi, questa è la prima cosa e indipendenza significa invece che quei cinque assiomi erano indipendenti tra di loro, cioè 107 nessuno dei cinque poteva essere derivato dai rimanenti quattro, cioè erano proprio necessari tutti e cinque, non si potevano in qualche modo fare a meno di qualcuno. Questi sono i due grandi problemi che storicamente furono generati dall'edificio di Euclide. Quale fu la scoperta? Beh, la scoperta, notate, è molto successiva, cioè questi personaggi, alcuni di quali li abbiamo già visti, in particolare Leibniz, a cui abbiamo dedicato un'intera lezione, Gauss e Riemann grandissimi nomi della matematica, Leibniz l'inventore del calcolo infinitesimale insieme a Newton. Gauss lo si chiamava, il principe dei matematici, forse uno dei più grandi matematici mai esistiti, Riemann l'inventore di quella che oggi viene chiamata la geometria riemanniana, che è proprio la geometria che serviva ad Eistein tra l'altro, per il descrivere il mondo, la cosmologia della relatività generale, quindi vedete grandissimi matematici che svilupparono questi strumenti importantissimi; ebbene questi matematici, uno dopo l'altro, leggendo i libri, l'edificio degli elementi di Euclide, scoprirono che molti dei teoremi che Euclide credeva che si potessero dimostrare a partire dai suoi assiomi, in realtà non erano così, non si potevano dimostrare, non derivavano da questi assiomi. Ad esempio si scoprì addirittura che il primo teorema che Euclide dimostrava nel primo libro degli elementi, quindi proprio il primo passo che faceva, già quello non era una conseguenza degli assiomi, perché questo teorema diceva che si poteva costruire un triangolo equilatero a partire da un segmento, la costruzione è ovvia, si prende un segmento, si punta il compasso da una parte, si fa un pezzo di cerchio, si punta il compasso dall'altra, si fa un altro pezzo di cerchio, dove i due cerchi si incontrano si tirano i due lati e quello è un triangolo equilatero. Il problema è nel dove i due cerchi si incontrano, perché Euclide non aveva posto nessun assioma che assicurasse che, se noi prendiamo due linee che non sono parallele, due curve che a un certo punto sembrano intersecarsi, queste due curve effettivamente s'intersecano; questo era un problema cosiddetto di completezza della linea. Questo però è uno solo dei problemi, ci sono tantissimi altri risultati di Euclide che si scoprì che non derivavano direttamente le sue assiomi, c'era bisogno di altri assiomi. E ciò che Hilbert fece, per l'appunto in questo libro nel 1899, a cui abbiamo accennato, cioè “I fondamenti della geometria”, fu precisamente quello di riuscire a rimettere in sesto gli assiomi di Euclide, di trovare gli assiomi che fossero sufficienti per dimostrare tutti i teoremi della geometria classica. Come vedete dalla slide, qua giù, gli assiomi che Hilbert enunciò erano in realtà 20. Di questi 20 assiomi, notate la differenza, Euclide credeva che cinque fossero sufficienti, in realtà, da un punto di vista moderno Hilbert riuscì a fare meno di tante assunzioni, però a non fare a meno di meno di 20 assiomi. Quindi c'era effettivamente un ingrossamento, diciamo così, dell'apparato tecnico assiomatico che era necessario per la geometria, però riuscì anche a dimostrare la completezza, per la prima volta riuscì a far vedere che effettivamente tutti i teoremi che si potevano dimostrare della geometria euclidea, si potevano far derivare da questi assiomi che lui aveva enunciato ed quindi da qui nasce il problema della completezza degli assiomi. Questo è soltanto uno dei punti di vista che Hilbert introdusse, uno dei suoi famosi motti e adesso qui l'abbiamo illustrato, in questa maniera un pochettino figurativa, era che in realtà la cosa importante era quella di fare le cose in maniera assiomatica, cioè di non descrivere la matematica parlando di enti che non sono definiti. Gli enti della matematica sono ovviamente i soliti della geometria, punti, linee e piani, Hilbert però diceva, l'importante non è basarsi su un'intuizione, non credere di sapere a priori che cosa siano i punti, che cosa siano le linee e che cosa siano i piani, ma punti, linee e piani sono semplicemente oggetti che soddisfano le proprietà che gli assiomi stabiliscono. Infatti diceva che dovrebbe essere possibile sostituire, ad esempio, ai punti le tavole, alle linee le sedie e ai piani i boccali di birra e ciononostante, se quei soggetti soddisfano gli assiomi, dobbiamo poter derivare per tavole, sedie e boccali di birra, anche per essi, gli stessi teoremi della geometria euclidea che valgono per punti linee e piani; qui ovviamente per tavole intendevo 108 ovviamente i tavoli, abbiamo così un po' scherzato e fatto vedere queste immagini che si riferivano a questo suo famoso motto. Quindi questa è l'idea del sistema assiomatico, del formalismo di Hilbert; ricordatevi che la nostra lezione si chiama questione di forma, l'idea del formalismo era appunto questa, cioè quando si fa un sistema assiomatico non si deve supporre di conoscere il significato dei termini che vengono usati negli assiomi. Gli assiomi definiscono in maniera implicita che cosa significano questi termini ed in particolare se altri termini, appunto questi, cioè tavoli, sedie e boccali di birra, soddisfano questi assiomi, allora anche tutti i teoremi dovranno essere veri, per questo tipo di concetto. Quindi questo è un approccio molto formale, molto moderno, molto diverso ovviamente da quello che aveva Euclide, il quale invece s'era fatto per l'appunto in qualche maniera fuorviare dall'intuizione, perché lui aveva messo su 5 assiomi che credeva gli potessero servire, credeva che potessero essere sufficienti per la geometria, ma in realtà poi procedeva intuitivamente e quindi spesse volte usava delle proprietà che erano in qualche modo nascoste dentro di oggetti di cui lui aveva una perfetta conoscenza. Hilbert questo non lo fa ed è proprio il formalismo che permette di costruire dei sistemi assiomatici che siano completi perché non si fa riferimento all' intuizione. Il secondo problema invece, che era il problema dell'indipendenza, nasce appunto dal quinto assioma di Euclide, che ovviamente diventa non più quinto, ma un altro della serie dei 20 assiomi di Hilbert, ma rimane lì, cioè l'assioma delle parallele. Come abbiamo già detto prima, l'assioma delle parallele dice soltanto che, se noi abbiamo una retta ed un punto fuori di essa, allora c'è una sola parallela che passa per quel punto alla rete data. Il problema è: l'assioma delle parallele è necessario, oppure si può far derivare dai rimanenti assiomi? Questo è un problema che già s'erano posti molti altri prima di Hilbert ovviamente, di cui adesso vedremo, per l'appunto brevemente, la storia ed in particolare se lo erano posti di nuovo grandi matematici, come Gauss che ritorna ovviamente, perché nell'800 c'era lui, il suo spirito galleggiava nella matematica e altri due personaggi, che sono questo signore Bolyai e Lobachevski, due personaggi che vengono da quella che oggi chiameremo l'Europa dell'est. Ebbene agli inizi dell'800 questi due personaggi, dopo decenni, anzi secoli in realtà, di tentativi di dimostrare che l'assioma delle parallele era indipendente dagli altri quattro, ebbene loro effettivamente ne dimostrarono l’indipendenza o perlomeno svilupparono una geometria che viene chiamata appunto geometria iperbolica, in cui gli altri quattro assiomi di Euclide continuano a valere e quindi c'è una parte comune con la geometria euclidea, ma l'assioma delle parallele invece non vale, cioè si sono infinite parallele, che passano per un punto, parallele ad una retta data, invece di essercene una sola ce ne sono infinite. Ora questa è una geometria che, a prima vista, potrebbe sembrare qualche cosa di strano, qualche cosa di inconsistente addirittura e in effetti questo era il tentativo, cioè di supporre che non valesse l'assioma delle parallele, vedere se da questa negazione si poteva dedurre una contraddizione e quindi dimostrare per assurdo appunto con il procedimento che noi ben conosciamo, che l'assioma delle parallele discendeva dagli altri quattro assiomi. Però invece quello che riuscirono a fare Gauss, Lobyai e Lobachevki fu di costruire una geometria alternativa senza però mai arrivare a delle inconsistenze, senza mai arrivare a delle contraddizioni. Questo non è ancora ovviamente una dimostrazione di indipendenza, ne parleremo tra un momento, però nel 1868 Beltrami,un geometra italiano scoprì una cosa importante, cioè quello che oggi viene chiamato un modello euclideo della geometria non euclidea, cioè il modello euclideo della geometria iperbolica, in altre parole scoprì che è possibile all'interno del piano euclidea fare un modello della geometria iperbolica, il modello è quello che vediamo nella slide e le rette questa volta sono questi archi di cerchio che sono perpendicolari ad un cerchio dato e queste figure che noi vediamo sulla slide, che sono figure storte, in 109 realtà sono dei triangoli della geometria iperbolica; ebbene questo modello euclideo fu veramente importante perché dimostrò una cosa fondamentale, cioè dimostrò che la geometria iperbolica poteva anche essere inconsistente, cioè ci potevano essere anche delle contraddizioni, ma se c'erano delle contraddizioni lì, poiché c'era un modello euclideo di questa geometria, le contradizioni dovevano già stare anche nella geometria euclidea e quindi non era possibile dimostrare in quel modo l'indipendenza dell'assioma delle parallele, perché se c'erano da una parte le contraddizioni, dovevano esserci anche dall'altra. Vediamo più da vicino altri modelli della geometria iperbolica che sono un pochettino più artistici, ma sono dello stesso genere e sono due modelli d'un pittore che già conosciamo, che abbiamo usato in precedenza due, tre volte, nelle nostre lezioni, che si chiama Escher appunto. Questi modelli si chiamano "tutti i limiti del cerchio"; sono quattro rappresentazioni, qui nelle slide ne faccio vedere soltanto due, sono quattro rappresentazioni del 1958, l’anno in cui Escher scoprì la geometria iperbolica, in cui si diverte a rappresentare graficamente, in maniera artistica però, i modelli appunto di Beltrami e anche i modelli di altri, di Klein, di Poincarè, che erano stati trovati nei decenni successivi. In particolare vediamo il primo; il primo tentativo di Escher fu questo qua (v. slide al centro); vedete il modello è lo stesso di quello che avevo fatto vedere prima, ci sono queste linee curve che sono perpendicolari al bordo di questo cerchio, queste linee sono le rete della geometria iperbolica, vedete qui tra l'altro ce ne sono altre e capite subito che effettivamente in questa geometria è possibile data una retta trovare tante parallele a quella retta data che passano per un punto. Ovviamente qui stiamo considerando soltanto una parte del piano euclideo e i triangolini del precedente modello di Beltrami sono diventate delle figure. Escher però non era tanto soddisfatto di questo modello, era ancora poco artistico, infatti ci lavorò nello stesso anno, ne produsse altri due e questo è l'ultimo (v. slide a sx), forse il più bello dal punto di vista artistico, la geometria iperbolica diventa oggetto di arte, ci sono dei pesci che stanno andando verso il bordo e vedette queste linee bianche, che si vedono sullo schermo, sono precisamente le tracce delle rette della geometria iperbolica; quindi la geometria iperbolica addirittura fece da tramite, diciamo così, tra la matematica e l'arte, arrivò ad ispirare qualche artista in modo da fargli fare delle opere che sono piuttosto interessanti. Notate che, dal punto di vista della geometria iperbolica, questi animali hanno tutti la stessa dimensione, dal punto di vista della geometria euclidea no ovviamente, perché vediamo che si rimpiccioliscono man mano che vanno verso il bordo, ma questo non significa nulla perché questa è un'immagine dell'intero piano iperbolico e quindi, praticamente, se noi fossimo su questo piano, se noi fossimo questi animaletti, saremmo semplicemente noi che ci stiamo spostando, ma senza diventare più piccoli, sembra a noi che queste cose siano una più piccola dell'altra, ma non lo sono e questo già vi dice come la geometria iperbolica sia strana per l'appunto. Ebbene la stranezza sta proprio in quello che dicevo, cioè si riesce a dimostrare in qualche modo matematico, corretto, che la geometria iperbolica non ha delle contraddizioni, Vediamo meglio che cosa succede in questo campo. Il punto di partenza, in realtà di tutta la storia, fu Cartesio, lo abbiamo già citato altre volte, che nel 1637 inventò o scoprì quella che oggi si chiama la geometria cartesiana, cioè l'idea di associare a dei punti le loro coordinate, cioè ciascuna coordinata è ovviamente la misura di una distanza, che è un numero reale e a 110 ciascun punto si associano due numeri reali, che sono le sue coordinate, cioè le distanze dagli assi x e y.. Ebbene, nel 1899 Hilbert scoprì nel suo libro famoso “ I fondamenti della geometria”, che questo modo di fare di Cartesio si poteva portare avanti, si poteva portare talmente avanti da dimostrare che i numeri reali, cioè l'analisi, costituivano un modello della geometria euclidea; in altre parole abbiamo visto prima poco fa, che Beltrami fece vedere che c'era “un modello della geometria iperbolica nella geometria euclidea” e adesso Hilbert sta facendo un passo avanti, sta facendo vedere che è possibile fare “un modello della geometria euclidea nell'analisi”, cioè sta cercando di spostare il problema della consistenza dalla geometria all’analisi. Il non riuscire a dimostrare che non si possono produrre delle contraddizioni si è spostato prima dalla geometria iperbolica alla geometria euclidea con Feltrami. Abbiamo detto che l’essenza del teorema di Beltrami era appunto questo, che se c'erano delle contraddizioni nella geometria iperbolica, in realtà queste contraddizioni dovevano già esserci nella geometria euclidea, ebbene il passo successivo, quello che Hilbert fece, fudi far vedere che se c'erano delle contraddizioni nella geometria euclidea, queste contraddizioni dovevano già esserci nell'analisi, cioè “nella teoria dei numeri reali” e allora che cosa succede? Succede quello che scherzosamente qui abbiamo indicato con uno scarica barile. Stavamo cercando di convincerci, che la geometria iperbolica non possedeva delle contraddizioni, era qualche cosa che abbiamo chiamato consistente, non l'abbiamo direttamente dimostrato, ma abbiamo fatto vedere che, se la geometria iperbolica è inconsistente, lo deve già essere anche la geometria euclidea e quindi da questo punto di vista, le due geometrie sono uguali, dal punto di vista della consistenza; poi abbiamo citato il risultato di Hilbert che, se la geometria euclidea è inconsistente, lo deve già essere l'analisi, però nessuna di queste dimostrazioni è una vera e propria dimostrazione di consistenza, è soltanto appunto uno scaricabarile, cioè dire bah, se questa è inconsistente lo è anche qualche cos'altro, se questo qualche cosa è inconsistente, a sua volta lo è qualche cos'altro, ma stiamo semplicemente spostando il problema da una parte all'altra. Bisogna, così disse Hilbert ad un certo punto, arrivare ad un punto in cui si ferma questo scaricabarile. E dove si deve fermare questo scarica barile? Bisogna arrivare ad un punto in cui direttamente si dimostra la consistenza di uno di questi sistemi, cioè o si dimostra direttamente che la geometria iperbolica è consistente, cioè non ha delle contraddizioni o si dimostra direttamente che la geometria euclidea non ha delle contraddizioni o si dimostra che l'analisi non ha delle contraddizioni o qualche cos'altro. Vedete qui ci sono dei puntini, invero abbiamo già citato altre volte il fatto che a sua volta l'analisi stessa era stata ridotta all'aritmetica, vi ricorderete appunto la lezione su Frege per esempio, dove abbiamo parlato del modo in cui si può pensare un numero reale, cioè come un insieme infinito di cifre decimali e quindi lo scaricabarile in teoria potrebbe ancora andare avanti ed arrivare all'aritmetica, ma ad un certo punto sarebbe bene fermarsi, bisogna arrivare una volta per tutte a dimostrare la consistenza dell'ultimo barile, per così dire, in modo che tutte le altre teorie che si basano su quelle, cioè l'analisi che si basa sulla aritmetica, la geometria euclidea che si basa sull'analisi, la geometria iperbolica che si basa su quelle euclidea, tutte queste teorie alla fine vengono dimostrate automaticamente essere consistenti e allora non c'è contraddizione nella matematica, dormiamo in altre parole i nostri sogni tranquilli. Bene, chi riuscì effettivamente fare questo? Beh, anzitutto perlomeno ci provò e quando lo si provò? La storia di questa avventura incominciò nel congresso di Parigi del 1900; qui Parigi ovviamente è simboleggiata con la torre Eiffel. Ricorderete che, quando abbiamo parlato in un'altra lezione di Russell, abbiamo detto che andò nel 1900 a Parigi, era l'anno ovviamente di passaggio da un secolo all'altro, c'era questa grande fiera internazionale, si fece prima “un congresso di filosofia” e poi “un congresso di matematica”. 111 Nel congresso di filosofia Russel scoprì Peano, incontrò Peano per l’appunto, come ricorderete e di lì nacque praticamente in quella settimana, quella che poi divenne la logica matematica, la logica di questo secolo perchè Russell fu il suo più grande propagandista. Quindi vedete che, in quel particolare momento, a Parigi stavano succedendo tante cose. Ebbene la settimana dopo il congresso di filosofia si tenne a Parigi il congresso di matematica che era il secondo congresso mondiale di tutti i matematici del mondo, il secondo perchè il primo è stato nel 1897 a Zurigo. Che cos'era successo Zurigo? Si è invitato ad aprire il congresso, uno dei due più grandi matematici, che come ho detto erano soltanto due all'epoca, Hilbert e Poincarè e fu Poincarè colui che era stato invitato. Invece nel congresso di Parigi del 1900 fu Hilbert colui al quale fu dato l'onore e anche l'onere di aprire i lavori e di fare questa grande prolusione. Hilbert si trovò anche un pochettino nell'imbarazzo, perché ovviamente era il 1900, non poteva soltanto parlare dei suoi lavori, decise di fare qualcosa di visionario, cioè disse stiamo nel 1900, siamo nel primo anno appunto del 900, il nuovo secolo, quello che io farò è di dare, disse lui, una lista ai matematici di tutto il mondo che erano convenuti a Parigi, di darvi una lista dei più importanti problemi aperti, di quelli ch'io considero i più importanti problemi aperti, perché poi andiate a casa e invece di dire, come diceva papa Giovanni, “ dite ai vostri bambini di risolverli”, cercate voi di risolverli. In realtà questa lista di 23 problemi divenne così importante che oggi i problemi di questa lista si chiamano appunto problemi di Hilbert, perché sono associati al suo nome. Sono 23 problemi che hanno in qualche modo segnato la storia della prima metà del 1900 e che i matematici tentarono di tutti molti di riuscire a risolverne qualcuno. Chiunque avesse avuto la fortuna e anche ovviamente l'abilità, la capacità di risolvere uno di questi problemi di Hilbert, sarebbe diventato e in effetti così fu per molte persone, un simbolo della matematica moderna, un genio riconosciuto. Ebbene, uno dei problemi di Hilbert, anzi il secondo problema della lista di Hilbert, fu precisamente quello della “consistenza dell'analisi”. Ovviamente qui l'abbiamo scritto con un punto interrogativo perché nel 1900 questo era un problema aperto, cioè Hilbert stava dicendo: io non conosco la soluzione di questi problemi, vedete voi di lavorare tutti insieme per risolverli. Il secondo problema, che Hilbert mettendolo al secondo punto della sua lista, faceva vedere, dimostrava che era uno dei problemi più importanti che si potessero pensare, era precisamente quello della consistenza dell'analisi, cioè l'idea di dire basta con lo scaricabarile, abbiamo dimostrato la consistenza della geometria iperbolica rispetto a quella della geometria euclidea, abbiamo dimostrato la consistenza della geometria euclidea rispetto a quella dell'analisi, adesso dobbiamo dimostrare la consistenza dell'analisi non rispetto qualche cosa altra, ma rispetto a se stessa, con dei metodi che siano direttamente scientifici in qualche modo, costruttivi, che non si possono mettere in dubbio. Questo fu un grande apporto di Hilbert alla matematica, ai fondamenti della matematica. Un altro grande apporto fu di nuovo in un Congresso nel 1928 , quindi molti anni dopo il Congresso del 1900, in una città diversa che come vedete nella slide è Bologna, queste sono due famosi torri di Bologna.. Hilbert era ormai vecchio a quell'epoca, però ancora pensava ai fondamenti, ancora pensava ai problemi aperti e in particolare nel congresso di Bologna propose due importanti problemi: il primo problema era il “problema di completezza della logica ". Vi ho detto prima, che nel 1899 Hilbert dimostrò che in realtà la geometria era completa, era stato trovato un sistema di assiomi completo per la geometria, dai quali si potevano derivare tutti i teoremi di Euclide, ebbene Hilbert si chiede a questo punto nel 1928: forse esiste un sistema di assiomi che è completo per la logica? Proprio di questo ne abbiamo parlato più volte e in particolare c'era un sistema che era un po’ l'analogo, per quanto riguarda la logica, del sistema assiomatico di Euclide e poi in seguito di Hilbert, cioè era il sistema di Frege o se volete il sistema di Russel, come l'avevano poi ritrascritto Russell e Whitehead nei "principia matematica". Ora Hilbert pone il problema della completezza di questo sistema, cioè se ci sono verità logiche che non si possono dedurre dagli assiomi di Frege oppure questo sistema è completo, nel senso che tutto ciò che è vero, tutto ciò che è deducibile, si può dedurre da quegli assiomi e questo è il primo grande problema del 1928. 112 Il secondo grande problema è il problema della “decidibilità della logica”, cioè è possibile decidere, data una formula della logica, se questa formula è vera o falsa, se questa formula è deducibile oppure no, dai teoremi? Ricordatevi che per la logica proposizionale la risposta a tutti e due questi problemi è una risposta positiva, la completezza della logica proposizionale era stata dimostrata nel 1921 da Post, ne abbiamo parlato quando abbiamo parlato di Wittgenstein e in particolare le tavole di verità di Wittgenstein erano precisamente un metodo di decisione della logica proposizionale, cioè se voi avete una formula della logica proposizionale, cioè fatta attraverso i connettivi, che è praticamente la logica di Crisippo, ebbene gli assiomi della logica proposizionale sono sufficienti per dimostrare tutte le verità logiche, le cosiddetti tautologie e sapere se una formula è una tautologia oppure no, si può fare facilmente usando appunto queste tavole di verità. Ebbene che cosa succede? Succede che nel 1930-1931, quindi due anni dopo soltanto il congresso di Bologna, ecco che questo signore che è Goedel, di cui abbiamo già parlato e del quale tra poco finalmente arriveremo a parlarne addirittura per due lezioni, circa i risultati più importanti della logica moderna, dimostrò anzitutto nel 1930, “la completezza della logica”, quindi risolse in modo positivo il primo problema di Hilbert del congresso di Bologna, cioè che effettivamente gli assiomi di Frege sono sufficienti per dimostrare tutte le verità logiche e questo è un primo passo, molto importante, costituisce l'analogo del risultato di Post per la logica proposizionale. Poi nel 1931 Goedel dimostra invece "l'indimostrabilità della consistenza", cioè risolve nientepodi- meno il secondo problema di Hilbert, quello vero, quello del congresso del 1900. Sono passati 31 anni e finalmente si è trovata la risposta. Qual'è la risposta:? La risposta è che “l'analisi non si può dimostrare consistente con dei metodi elementari”, nessuna teoria matematica in realtà si può dimostrare essere consistente con dei metodi elementari, in altre parole la consistenza di una teoria deve essere sempre fatta dal di fuori, bisogna usare dei metodi più forti per dimostrare la consistenza di una teoria più debole. Ed ecco che allora questo scarica barile in realtà è qualche cosa di necessario, cioè non si può arrivare alla fine e dire che lo scaricabarile si ferma qui e dimostrare direttamente la consistenza di un sistema, ma dimostrare la consistenza di un sistema significa sempre doversi appoggiare a qualche cosa di più forte. Questa è la soluzione del problema di Hilbert, cioè questo scarica barile non si può finire. Per quanto riguarda invece l'ultimo problema, al quale abbiamo appena accennato per l'appunto, che Hilbert pose nel congresso di Bologna, cioè la decidibilità della logica, questo problema fu risolto pochi anni dopo nel 1936, da questi due signori, Turing e Church. Anche a Turing, che è molto noto fra l'altro, dedicheremo una delle nostre ultime lezione, Church è uno dei logici più famosi di quegli anni, degli anni 30, tutti e due indipendentemente con due metodi diversi dimostrarono che la logica è indecidibile, stiamo parlando ovviamente della logica dei predicati. La logica di Crisippo, la logica dei proposizionale ovviamente, cioè il calcolo proposizionale, era decidibile attraverso le tavole di verità, ebbene quando si sale al livello dei predicati, non c'è nessun metodo di decisione, non c'è un procedimento meccanico che ci permette di decidere, data una formula, se questa formula è vera oppure no, se questo è un teorema oppure no. Questo è praticamente il risultato finale, dal percorso che Hilbert fece a partire dal 1899, attraverso i fondamenti della geometria fino al 1931 e '36, con grandi risultati di Goedel e Turing e così via, cioè i problemi che Hilbert pose, i problemi fondazionali che vennero posti e come gli si risolse, in maniera a volte positiva, a volte negativa, da Goedel, da Church e da Turing. L'ultima cosa appunto che posso dire sul percorso di Hilbert fu, che verso la fine della sua vita, (vedete nella slide Hilbert ormai vecchio e anche questo signore che era un suo studente che si chiamava Bernays), Hilbert e Bernays scrissero a loro volta una grande opera in due volumi, 1934 e 1939, che si chiama ”I fondamenti della Matematica”. E' l’opera che in qualche modo eredita tutta la problematica che era stata aperta da Frege, da Russell e così via e che in qualche modo chiude la storia di questo periodo, perché in questa opera confluiscono tutti questi risultati che vi ho detto, i 113 risultati di Goedel sulla completezza della logica dei predicati, sui teoremi di incompletezza, sui teoremi di indimostrabilità della consistenza, sull’indecidibilità della logica e così via. E con questo abbiamo concluso questa nostra lezione sul lavoro dei fondamenti della matematica di Hilbert e vi do appuntamento alla prossima lezione ovviamente. LEZIONE 14: L’intuizione al potere La scorsa volta abbiamo parlato di un grande matematico, Hilbert e del suo ruolo sui fondamenti della matematica. Vi avevo già parlato anticipato la scorsa volta che nella prossima lezione, che adesso è diventata questa, avremmo parlato d'un altro grande matematico, che si chiama Brouwer. Brouwer era un olandese, anche lui un grande matematico, prestato in qualche modo agli studi sui fondamenti e questo Brouwer divenne in realtà il leader di un vero e proprio movimento alternativo, un qualche cosa che oggi si potrebbe chiamare un movimento di contestazione dall'interno della matematica e questo movimento di contestazione si chiamò “Intuizionismo” . La parola era derivata ovviamente dalla parola intuizione, ma il fondamento dell'intuizionismo era un fondamento filosofico, basato sulla filosofia kantiana, ecco perché abbiamo chiamato questa nostra lezione “l'intuizione al potere”; vi mando un pochettino i motti che andavano di moda, andavano d'uso negli anni 60, nel 68 quando c'era la contestazione giovanile. Si diceva la fantasia al potere, qui invece l’idea di Brouwer agli inizi del secolo era appunto l'intuizione al potere, cioè un modo nuovo per l’appunto di concepire non soltanto la matematica, ma anche la logica, prima di tutto forse la logica, da un punto di vista filosofico e fondazionale e poi di conseguenza anche un modo nuovo di concepire la matematica. Vediamo allora oggi in questa lezione che cosa significa, che cosa significò l'intuizionismo. Partiremo un pochettino da lontano, perché in realtà le problematiche che vennero sollevate da Brouwer all'inizio del 900 sono in realtà problematiche molto antiche, che affondano le loro radici, in realtà nella storia addirittura nella storia molto antica, addirittura della matematica greca e così via; questo forse lo avrete un pochettino capito nelle nostre lezioni, che quello che succede oggi in realtà è soltanto un'immagine, un riflesso di ciò che è successo ieri e ovviamente contiene il germe, il seme come un granello di sabbia nell'ostrica, in realtà contiene la perla del futuro, cioè non c'è un distacco tra il passato, il presente e il futuro, c'è una continuità; ovviamente i problemi nascono, crescono, poi diventano maturi, si risolvono e così via, viene acquistata una nuova maturità, si conoscono nuove tecniche, insomma la storia prosegue e tutto questo era per dire che appunto andremo a curiosare di nuovo nel passato, come abbiamo già fatto molte volte, per vedere, per trovare nel passato i germi di quali sono i problemi del presente. In particolare parleremo di ciò che si chiama in matematica il “costruttivismo”, cioè questa teoria di cercare di costruire i propri oggetti. Il motto del costruttivismo è “essere” significa “essere fatti”. Non è una lezione metafisica Costruttivismo questa, dell'esistenza del costruttivismo, ma una nozione molto pratica, Essere = essere fatti cioè esiste ciò che si costruisce, esiste ciò che si fa, il resto è appunto 1. in geometria fuori del mondo in qualche modo, perlomeno fuori del mondo del 2. in algebra costruttivista. Noi affronteremo il costruttivismo in tre parti diverse, naturalmente, come al solito, andremo un pochettino a volo d'uccello, 3. in logica accenneremo ai problemi e poi lascio a voi ovviamente la cura di andare ad approfondire queste cose; comunque dicevo, accenneremo ai problemi del costruttivismo in tre aree molto diverse, anzitutto la geometria, poi l'algebra e poi la logica. Questi sono i tre punti in cui noi abbiamo diviso la nostra lezione; però vi ricordo non c'è una grande differenza tra queste cose, perché la logica matematica è precisamente, come vi dicevo agli inizi delle lezioni, lo studio matematico del ragionamento matematico e quindi è ovvio che tutte le volte noi continuiamo a fare riferimento a ciò che è successo nel corso dei secoli nella matematica, in particolare in questo caso oggi nella geometria e nell’algebra, perché è proprio di questo, perché è proprio di ciò di cui s'interessa la logica matematica, analizzare i tipi di ragionamenti che si sono usati in matematica e questo in particolare del costruttivismo, questo particolare p.di v. del costruttivismo è precisamente uno dei nodi essenziali della logica moderna. Quindi vediamo questo nuovo argomento, affrontiamolo anzitutto come vi ho detto dalla geometria. Vediamo che cosa significa costruire in geometria. Ebbene, qui abbiamo una figura, la vedete qui, in realtà due figure, due strumenti che sono gli strumenti 114 principali del geometra, la riga e il compasso. La geometria greca negli elementi di Euclide del quale abbiamo parlato ormai decine di volte, ebbene negli elementi di Euclide si sottolinea e per sottolineare c’è bisogno appunto di una riga, si sottolinea sempre questo fatto, che le costruzioni devono essere sempre costruzioni fatte con la riga e con il compasso. Dove arriva questa fissazione dei greci per questi due strumenti, ci sono tanti altri modi di costruire, per esempio si può fare disegno a mano libera e cosi via. Come mai i greci si fissavano sulla riga e sul compasso? Beh, l'idea di questa fissazione arriva in realtà da Platone, è un idea filosofica, l’idea che la riga e il compasso sono gli strumenti che permettono di costruire le due figure geometriche più perfette, da una parte la riga permette di costruire le rette ovviamente, però quello che interessa al geometra è l'intera cosa ed è che permettono di costruire la retta, la retta è una figura perfettamente equanime in qualche modo, è uguale in tutte le sue parti e il cerchio, anche lei, è una figura che è uguale in tutte le sue parti, però perfetta questa volta nella sua conclusione, nell'essere rinchiusa su se stessa. E allora l'idea della geometria euclidea era questa precisamente: poiché la retta e il cerchio sono le due figure più perfette che si possano immaginare, allora proprio su queste si dovranno basare le costruzioni, l'intero edificio della geometria. E allora moltissime cose che si sarebbero potute fare e che i greci sapevano come fare, usando però mezzi diversi dalla riga e dal compasso, queste rimasero fuori da questa grande summa che furono appunto gli elementi di Euclide. Euclide non raccontò, non descrisse tutta la geometria che era nota ai suoi tempi, tutta la geometria greca, lasciò fuori tutto ciò che non rientrava in questa visione platonica, in questa visione estetizzante, quasi filosofica della matematica, come basata su questi enti perfetti, riga e compasso. Vediamo più da vicino i problemi che in realtà affrontarono i greci. Anzitutto ci sono dei problemi solubili e poi parleremo di problemi insolubili. I problemi solubili ve li ho enunciati qui nella slide, ve li dico brevemente uno per uno, sono problemi che risalgono più o meno al quinto secolo a. C., circa 500-600anni a.C.; Talete fu il primo grande geometra e poi vari altri, Ippocrate, non ovviamente il medico, ma il geometra e così via. Quattro grandi problemi dei quali adesso parlerò brevemente, che poi si riflettono in quattro simili problemi che però sono insolubili; naturalmente, quando si parla di solubile o insolubile, qui io faccio riferimento semplicemente al fatto che i problemi si possono risolvere oppure no mediante gli strumenti che detto prima, cioè mediante la riga e il compasso. Il primo problema è il problema della duplicazione del quadrato, eccolo qua il quadrato, abbiamo un quadrato di un certo lato, vogliamo sapere, vogliamo costruire, in qualche modo, un quadrato che abbia un'aria doppia; ne abbiamo parlato più volte anche qui, perché questo è un problema che sta alla base della scoperta degli irrazionali, della radice di 2, ebbene come si fa a costruire un quadrato che abbia radice doppia? Basta costruire la diagonale, quindi praticamente già l’abbiamo lì. Il secondo problema è quello della costruzione del pentagono, che non abbiamo qui in figura; il pentagono regolare è una figura non semplice da costruire, se ci pensate un momentino forse così ad occhio non sapreste dire come fare con riga e compasso un pentagono regolare oppure quello che si iscrive dentro, cioè le due diagonale che formano la stella pitagorica, ebbene questa fu una delle grandi costruzione per la punto della scuola pitagorica, la costruzione di un poligono regolare, che è il poligono che viene subito dopo il quadrato, cioè quel poligono regolare con quattro lati, mentre il pentagono è un poligono regolare a cinque lati. Il problema della bisezione dell'angolo: avendo un angolo dato, come si fa a dividere l'angolo in due? Beh, questo è abbastanza semplice: si costruisce un triangolo che abbia quell'angolo come angolo al vertice e poi si tratta semplicemente di fare una costruzione abbastanza semplice, che è quella 115 invece immagino potete immaginarvi da soli, per dividere in due questo angolo. L'ultimo problema è invece un problema un po' meno intuitivo, il problema di riuscire a costruire un quadrato che abbia la stessa area di una figura che non è nemmeno coi lati regolari, cioè non è nemmeno un poligono, diciamo, ed è una figura curvilinea come questa che si chiama lunetta. Una lunetta semplicemente è la parte di piano che è compresa fra due archi di cerchio, naturalmente cerchi con raggi diffidenti. Ebbene, la grande scoperta di questo signore, Ippocrate, che ho citato poco fa, fu appunto proprio questa, cioè che era possibile quadrare, era possibile costruire con righe e compasso dei quadrati che avessero la stessa area di particolari lunette e allora che cosa successe? Successe immediatamente che i greci proposero alcuni altri problemi che però rimasero aperti per secoli, per millenni addirittura, perché, come vedete qui, questi sono problemi insolubili, che furono dimostrati essere insolubili, nel secolo diciannovesimo. Esattamente come prima ripassiamo brevemente questi quattro problemi, che corrispondono riga per riga ai precedenti. Il primo ricordate era la duplicazione del quadrato; ebbene, qui c'è il problema analogo di duplicazione del cubo, ne abbiamo già parlato una volta, questo è il problema famoso dell'oracolo di Delo. Come si fa a costruire mediante riga e compasso un cubo che abbia o meglio un segmento che sia il lato d'un cubo che abbia il volume doppio d'un cubo dato? Ebbene, questo non è possibile farlo, però si dimostrò che non era possibile farlo soltanto nel secolo diciannovesimo. Notate che i problemi sono molto simili, in un caso è coinvolta la radice quadrata di 2, nell’altro caso la radice cubica di 2, la radice quadrata di 2 si può costruire con righe e compasso, la radice cubica no. La costruzione dell'ettagono: l’ettagono è di nuovo un poligono regolare con sette lati questa volta, ebbene l’esagono è molto facile farlo, basta dividere insomma in qualche modo un triangolo regolare, un triangolo equilatero in due parti, si costruisce l'esagono regolare in maniera molto semplice. L'ettagono invece non riuscirono a farlo e per un motivo molto semplice per cui non uscirono a farlo, non si poteva fare con riga e compasso, ma il fatto che non si potesse fare, di nuovo, si dovette attendere il 1800. Trisezione dell'angolo: un problema similissimo a quello di prima; come si fa a dividere un angolo in due? Beh, si fa una piccola costruzione e lo si divide in due parte uguali. Ebbene, come si fa a dividere in tre? Non c'è modo di farlo con riga e compasso. E da ultimo il problema più famoso di tutti i problemi insolubili e insoluti dei greci, che era per l’appunto, il problema della quadratura del cerchio. Nel momento in cui si trova che è possibile trovare un quadrato equivalente a certe figure curvilinee, cioè certi archi di cerchio, viene subito l'idea che, se insomma, invece di lunette, si considera il cerchio intero, che cosa succede? Ebbene anche questo, il problema della quadratura del cerchio fu dimostrato nel 1800 essere un problema irresolubile; quando si parla di irresolubile e insolubile, mi raccomando e sottolineo questo fatto, significa che non lo si può risolvere con certi mezzi, cioè in questo caso particolare con la riga e con il compasso. Questa era la prima parte, diciamo così, di questa carrellata sul problema della costruibilità, che in geometria, l'idea della costruibilità era di costruire con riga e compasso. Molte cose si possono fare, abbiamo visto, altre non si possono fare e questo è dividere in due i risultati di possibili teoremi della geometria fra fattibili e non fattibili, tra costruibili e non costruibili. Il secondo tipo di argomento che oggi tratteremo è invece il problema dell'algebra. In algebra ci sono equazioni, il problema lì è di trovare delle formule che usino le radici, il famoso problema di soluzione di equazioni attraverso formule che usino soltanto radicali cosiddetti, per questo in maniera un po' scherzosa abbiamo qui fatto una figura di radici che ovviamente non sono proprio quelle matematiche. Anche qui la storia è parallela a quella precedente; ci sono equazioni risolubili attraverso i radicali, ci sono equazioni che non sono risolubili. Vediamo brevemente le equazioni risolubili. Io ho detto 16° secolo, cioè 1500, ma ovviamente il primo caso delle equazioni di secondo grado non l’ho nemmeno preso in considerazione, ovviamente sono equazioni che si sapeva già dall'antichità come risolverle. La famosa formula per la risoluzione delle equazioni di secondo grado, è una formula che tutti voi ricorderete 116 mi immagino e questa formula era infatti già nota nell'antichità, 2000 anni a.C. dai babilonesi addirittura. Il problema successivo, le equazioni di terzo grado, è un problema molto complicato e infatti ancora oggi si dice “mi fa un terzo grado” oppure quando si va dalla polizia, si viene arrestati, i poliziotti fanno un terzo grado. Come mai quest'espressione terzo grado? Il terzo grado deriva proprio da qui, dal fatto che l’equazioni terzo grado fosse molto difficile da risolvere e fu risolta da questo signore sulla sinistra che si chiama per l’appunto Tartaglia e anche da un altro, Cardano, forse questo qui è Cardano adesso non lo so, perché ovviamente tutti questi personaggi si perdono nella notte dei tempi, 1500. E subito dopo, immediatamente dopo questo signor Ferrari, che era allievo di Cardano, che invece è questo signore sulla destra, o per lo meno raffigurato in maniera analoga sulla destra, ebbene, trovò una formula per la soluzione delle equazioni di quarto grado. Quindi verso la fine del 1500, del sedicesimo secolo, si era in possesso di formule per la soluzione do equazioni di tutti i gradi fino al quarto compreso, 1°, 2°, 3° e 4°. Si poteva ovviamente immaginare che formule più complicate avrebbero permesso di risolvere equazioni più complicate, di grado più complicato. Vediamo che cosa succede. E analogamente a quello che è successe per i problemi di geometria, in cui molti problemi erano risolubili con riga e compasso e poi però problemi molto simili a prima vista erano invece impossibili da fare, i greci non riuscirono e poi i matematici dell'800 dimostrarono che non si potevano risolvere con riga e compasso, analogamente anche qui nel algebra ci fu una situazione simile, cioè sempre nel 1800, nel secolo diciannovesimo, si dimostrò che c'erano dei tipi di equazioni irresolubili, in particolare questi signori che sono qua, Ruffini e Abel, Ruffini è un italiano di fine 700 e Abel invece è un norvegese di inizio 900, che morì molto giovane, sotto i trent'anni, verso i 25- 30 anni, ebbene dimostrarono che non era possibile trovare delle formule per la risoluzione dell'equazione generale di quinto grado, formule che invocassero soltanto i radicali, delle radici per l’appunto, così come l’equazione di secondo grado si può risolvere con radici quadrate. Non era possibile nel senso che non finora non lo si era fatto, perché questo lo sapevano tutti che non c'erano formule che facessero risolvere le equazioni in generale di quinto grado, ma dimostrarono che non solo non c'erano, ma che non si sarebbero potute trovare, queste formule non esistevano semplicemente. E questo diede inizio a una parte fondamentale dell'algebra moderna che si chiama per la punto “la teoria dei gruppi”. Le basi di questa teoria furono gettate da questo signore che si chiama Evarist Galois, anche lui morì giovanissimo, a 22 anni, in un duello. Questo signore portò avanti i risultati di Ruffini e Abel, dimostrò che non soltanto l'equazione generale di quinto grado non era risolubile, ma costruì, trovò quello che si chiama un criterio di risolubilità, cioè data una qualunque equazione di qualunque grado, a volte ovviamente qualche anche equazione di quinto grado è risolubile, ad esempio x5 – 1=0 si può ovviamente risolvere, perché una delle sue soluzioni è semplicemente uno, però l'equazione della quinta in generale non ammette una formula risolutiva con radicali, Galois descrisse esattamente quali erano le equazioni che avevano una formula risolutiva e quali invece non l’avevano. In qualche modo si concluse, in questo modo, il problema della costruibilità nell'algebra moderna. Fin qui abbiamo già parlato praticamente di due argomenti, la costruzione, il costruire qualcosa in geometria con le mani praticamente, con riga e compasso e l'analoga costruzione di fare la stessa cosa questa volta in algebra, dove costruire significa trovare delle formule che si possano maneggiare con le mani, cioè formule che facciano intervenire le radici, i cosiddetti radicali. Ora passiamo al terzo argomento, che è quello ovviamente che ci interessa più da vicino, cioè la 3. Logica costruibilità in logica. In logica che cosa si fa? Si fanno dimostrazioni non costruttive dimostrazioni soltanto, non ci sono equazioni, non ci sono esistere = impossibile non esistere figure geometriche, ci sono dimostrazioni. E allora cosa vuol dire “dimostrazione non costruttiva” in logica e poi ovviamente poiché la logica è lo strumento della matematica, in matematica in generale?Ebbene quando si dice che un teorema ha dato una dimostrazione, 117 per esempio di esistenza non costruttiva, significa che non si è dimostrato che l'ente di cui si sta parlando, per esempio non lo so, un poligono, un certo oggetto matematico esiste, non si è dimostrato che esiste facendolo vedere dicendo eccolo qua, tu volevi sapere se c'era un oggetto fatto in questo modo e io te lo costruisco e alla fine della costruzione ce l’hai di fronte. Si dimostra che l'oggetto esiste facendo una dimostrazione indiretta, dimostrando che è impossibile che non esista. Ora questa non è appunto una dimostrazione diretta che fa vedere la costruzione dell'oggetto, ma dimostra soltanto che da un punto di vista logico ci sarebbe una contraddizione se uno suppone, supponesse che quest'oggetto non esistesse. Ora capite che questo è un modo un po' convoluto, un po' indiretto di mostrare le cose e non tutti furono convinti; a volte quando si trovano delle dimostrazioni di esistenza non costruttive queste lasciano un pochettino il sapore amaro in bocca, cioè sembra che ci sia stato un trucco, cioè non si è fatto vedere che cos’è quell'oggetto che si voleva invece vedere, si è dimostrato che non può non esistere, dimostrazione appunto in diretta. Vi faccio tre esempi brevemente per farvi capire che tipo di dimostrazioni si fece, notate le date. Il primo esempio che faccio è del 1873. Cantor di cui abbiamo parlato più volte, inventore della teoria degli insiemi, dimostra nel 1873 l'esistenza di “numeri trascendenti”; che cosa vuol dire trascendenti, non è Cantor molto importante nel nostro discorso in questo momento, comunque (1873) per chi lo vuole sapere, si può semplicemente dire che sono dei “numeri Numeri trascendenti reali che non sono soluzioni di equazioni algebriche”. Equazione algebrica significa che un polinomio con dei coefficienti interi, si pone il polinomio uguale a zero, questo polinomio avrà certe radici, ebbene queste radici si chiamano “numeri reali algebrici”, cioè che derivano dall'algebra, da delle equazioni algebriche. Ci sono tantissimi numeri che non sono soluzioni di equazioni algebriche appunto, questi numeri si chiamano “numeri trascendenti”. Cantor non fu il primo matematico che dimostrò che questi numeri trascendenti esistevano, il primo matematico fu Liouville. Liouville fece effettivamente quello che dicevo prima, cioè costruì a mano un numero, che fece vedere, disse questo è il numero con queste cifre e adesso vi dimostro che questo numero è trascendente. Ebbene, nel 1873 Cantor dà una dimostrazione indiretta dell'esistenza di numeri trascendenti. Come fece a farlo? Fece in questo modo, dimostrò anzitutto che i numeri reali sono infiniti, dimostrò che i numeri algebrici sono anche loro infiniti, ma dimostrò che i due infiniti dei numeri algebrici e dei numeri reali in generale sono diversi, cioè di numeri algebrici ce n'è pochi, cioè ce n'è un'infinità più piccola possibile, c’è ne tanti quanti i numeri interi e i numeri reali invece ce ne sono tanti, sono sempre infiniti, ma di un'infinito maggiore e allora è chiaro che se i numeri algebrici sono infiniti, ma di un'infinito piccolo e numeri reali sono infiniti, ma di un'infinito grande, quasi tutti i numeri reali non saranno algebrici, saranno trascendenti. Questa è una dimostrazione per l’appunto indiretta, fa vedere che ci sono tanti numeri trascendenti, ma non ne fa vedere nessuno, dimostra semplicemente che insomma devono esistere, devono esserci numeri di questo genere. Questo fu una dimostrazione molto importante perché completamente diversa da quella di Liouville originale dell'esistenza di numeri trascendenti. Un altro teorema molto famoso che fu dimostrato nel 1888, quindi vedete sempre in questi anni, da Hilbert, che abbiamo già conosciuto per bene, abbiamo dedicato a lui l'intera scorsa lezione si chiama “teorema della base”. Ovviamente qui scherziamo, abbiamo vestito Hilbert da giocatore di baseball, però la base di cui parlava Hilbert non era ovviamente una basa su cui lui doveva planare con i suoi piedi per conquistarla, era un teorema che dimostrava, per l’appunto, che data una insieme di polinomi, questo insieme di polinomi aveva una base finita nel senso, esattamente come nella geometria, come se ci fossero un numero di dimensioni finite, però dimostrava l'esistenza della base, senza far vedere come era costruita questa base. Questa dimostrazione fu attaccata, perché mentre nel caso precedente di Cantor l’esistenza dei numeri trascendenti era già stata dimostrata, quindi c'erano degli esempi concreti, nel caso di Hilbert l’esistenza di questa base non solo non era stata dimostrata prima, ma era uno dei grandi problemi aperti della matematica e il fatto che Hilbert dimostrasse in questo modo indiretto l'esistenza di questa base e notate con una dimostrazione di una sola paginetta, beh, questo diede molto fastidio a tutti i matematici, per esempio Croeneker, il famoso costruttivista dell'epoca, che 118 avevano cercato di risolvere questo problema; trovarono che la dimostrazione di Hilbert era in realtà un trucco; qualcuno disse addirittura questa non è matematica, questa è teologia, questo lo dissero proprio a quell'epoca, verso la fine dell'800, i matematici rivali di Hilbert. E quindi Hilbert introdusse questo nuovo metodo di dimostrazioni in algebra. Un altro risultato molto importante, che fu dimostrato qualche anno dopo, come vedette 1910, fu dimostrato da Brouwer, il teorema cosiddetto del punto fisso. Qui ho messo una pallina da tennis, non perché continuammo a scherzare, ma perché uno dei risultati, uno dei modi di enunciare, per esempio il teorema del punto fisso di Brouwer, è per l’appunto quello di dire che se prendiamo una palla da tennis,o palla pelosa, ma anche la nostra testa ma noi in genere non abbiamo i capelli dovunque, sulla faccia non abbiamo i capelli, perlomeno sulla fronte eccetera, ebbene se noi prendiamo una palla che abbia peli dovunque e cerchiamo di pettinare questa palla, se la pettiniamo in maniera uniforme ci deve essere almeno un punto che non si viene mosso; per esempio, se nel caso invece di avere una palla da tennis, avessimo la terra, per esempio con i venti che fossero sulla terra, ebbene se questi venti fossero in maniera regolare dovunque sulla terra, ci deve essere almeno un punto in cui i venti soffiano in maniera perpendicolare alla superficie, cioè ci deve essere almeno un tornado. Queste sono tipiche applicazioni del teorema del punto fisso di Brouwer; non ci importa qui dare una definizione precisa,un enunciato preciso del teorema del punto fisso, quello che c'importa è che Brouwer dimostrò l'esistenza di questo punto fisso, che nel caso della palla da tennis è il punto in cui bisogna fare il cerchio e infatti anche noi quando in genere ci pettiniamo abbiamo un punto sulla testa attorno al quale andiamo, oppure il ciclone per l’appunto. Ebbene, l'esistenza di questo punto fisso veniva dimostrato da Brouwer in maniera non costruttiva, in maniera indiretta. E questo provocò uno scandalo, in particolare insomma si incominciò a credere che la matematica stava andando in una direzione che non era quella giusta, stava prendendo una brutta strada come si dice di alcuni ragazzi che non fanno ciò che dovrebbero fare; in particolare si creò questa scuola alla quale ho alluso agli inizi, questa scuola che in realtà è il prodotto, l’opera nientepopodimeno che il signor Brouwer, cioè lo stesso matematico che nel 1910 dimostra questo suo grande teorema per il quale ancora oggi viene ricordato, ad un certo punto si pente, dice, ma io in fin dei conti ho peccato, ho fatto questo teorema in maniera non costruttiva, non è il modo giusto di farlo, devo creare una filosofia della matematica che la pensi diversamente. Qual'è l'idea fondamentale dell'intuizionismo per l’appunto sul quale si basa la filosofia di Brouwer? Ebbene, l'idea dell’intuizionismo di Brouwer, un matematico che fa pienamente parte a tutti titoli del ‘900 , le cui date di nascita e di morte sono appunto 1881 e 1966, è quella che abbiamo, in qualche modo, abbiamo raffigurato qui con questo grande occhio, perché l'idea dell'intuizionismo è che si deve credere soltanto a ciò che si vede, naturalmente ciò che si vede, siamo in matematica, non è che lo si possa vedere con l'occhio fisico, lo si vede con l'occhio della mente, cioè Brouwer non era proprio un costruttivista di quelli che dicevano, ah, soltanto quello che si può costruire in qualche modo diretto, lo si può fare, cioè si poteva in qualche modo usare i sensi o i sensi estesi dell'intelletto, però non si potevano fare dimostrazioni come quelle che ho detto prima, dimostrazione di tipo indiretto. Anzi vi faccio vedere subito quali sono le conseguenze di questa filosofia, cioè di accettare soltanto ciò che si può toccare con mano in qualche modo, con la mano appunto dell'intelletto, cioè col risultato di questa filosofia si rifiutano molte cose di ciò che invece i matematici fino all'epoca avevano accettato in maniera quasi indolore. 119 Ed ecco qui i rifiuti, questo nella slide è Brouwer, che sta portando via un cestino pieno di rifiuti di cose della matematica che lui non accetta e i tipici rifiuti che vengono associati con questa filosofia dell'intuizionismo, del costruttivismo, sono i seguenti, li guardiamo brevemente uno per uno: terzo escluso, doppia negazione e le dimostrazione non costruttiva. Cominciamo col terzo escluso; questa è una nostra vecchia conoscenza, ricorderete da quando abbiamo fatto la lezione su Aristotele, che il “principio del terzo escluso” insieme al “principio di non contraddizione” era praticamente la base della logica classica. Il principio del terzo escluso dice che se noi abbiamo una proprietà, questa proprietà, cioè una affermazione, una formula A , questa proprietà o è vera o è falsa, cioè o A accade, deve valere oppure accade la sua negazione. Ebbene, Brouwer dice io non vedo per quale motivo debba valere o l’una o l’altra; o tu mi dimostri che vale una, o tu mi dimostri che quella non vale, cioè vale la sua negazione, ma mi devi dimostrare una delle due cose, io non posso accettare a priori che valga l’una o valga la sua negazione e quindi la logica di Brouwer, la logica intuizionista rifiuta questo principio del terzo escluso. La “legge della doppia negazione”, stessa storia; nella logica classica deriva dal terzo escluso il fatto che valga la legge della doppia negazione, cioè una doppia negazione afferma; ebbene Brouwer dice io questo non lo credo, perché una doppia negazione dice semplicemente che, se io suppongo che non sia vero qualche cosa e alla fine faccio una dimostrazione, ottengo una contraddizione, non derivo dal fatto che dalla negazione di una proposizione ho derivato una contraddizione, il fatto che la proposizione sia vera, derivo soltanto che ho dimostrato una contraddizione della sua negazione, cioè una doppia negazione e la doppia negazione nella logica intuizionista non coincide con l’affermazione. Ecco due principi basilari, cioè “il terzo escluso” e “la doppia negazione” che valevano nella logica classica e non valgono più nella logica intuizionista, cioè la logica intuizionista si chiude in qualche modo a riccio, non accetta queste cose. E naturalmente ovviamente, perché questo è il punto di partenza, non accetta nemmeno le dimostrazioni di esistenza non costruttive, in particolare rifiuta la dimostrazione del teorema del punto fisso di Brouwer, che Brouwer stesso aveva dato. Sembra quasi darsi un po’ la zappa sui piedi; però notate negli anni 30 il teorema di Brouwer fu poi dimostrato in maniera costruttiva; effettivamente quando si da una dimostrazione costruttiva di un teorema, ovviamente ci sono più informazioni, si dice di più di quando di quando si da soltanto una dimostrazione non costruttiva, quindi l’intuizionismo è qualche cosa di più restringente, di più esigente, vuole di più di quello che non voglia semplicemente la logica classica. Bene, vediamo un pochettino, visto che abbiamo già parlato di alcuni dei grandi personaggi della logica moderna, vediamo più da vicino come vedevano questi personaggi, in particolare Frege, Hilbert e Brouwer il problema dell’esistenza degli enti matematici. Esistenzialismi a confronto Qui ho parlato di esistenzialismi a confronto, non nel senso ¾ realismo(Frege) dell’esistenzialismo della filosofia esistenziale, per esempio di Sartre o di altri, ma nel senso di esistenza in matematica. ¾ formalismo(Hilbert) ¾ intuizionismo(Brouwer) Che cosa significa esistere per Frege, per Hilbert e per Brouwer. I nomi di filosofie esistenzialiste, che vanno a braccetto con questi nomi, sono rispettivamente il Realismo per Frege, il Formalismo di cui abbiamo parlato la scorsa volta in una lezione dedicata ad Hibert e l’Intuizionismo di cui stiamo parlando oggi di Brouwer. Vediamo più da vicino, allora, che cosa significa innanzi tutto per Frege il Realismo? Dire che qualche cosa esiste; beh, il che significa la cosa più ovvia del mondo in qualche modo, cioè significa dire che esiste ciò che c'è; voi direte che bella scoperta, certo che Frege altro potrebbe esistere, se non ciò che c'è, ma il problema di dire che esiste ciò esiste ciò che c’è che c'è, significa in questo c'è, dire in realtà che c'è un mondo eterno, c’è un mondo in questo caso di oggetti matematici, ma nel caso della fisica di oggetti fisici, c’è una realtà esterna e l'esistenza è qualche cosa che ha a che vedere con la realtà, cioè quando si fanno delle affermazioni di natura esistenziale, quando si dice qualche cosa esiste, si sta dicendo una frase del linguaggio ovviamente, la cui verità però ovviamente dipende da come è fatto il mondo, quindi si fa in qualche modo riferimento al mondo esterno, si appoggia il linguaggio, la sintassi alla semantica e si fa un qualche cosa che non permette alla logica di essere autonoma, cioè si fa riferimento appunto a qualcosa di fuori. Ricordiamoci che Realismo per Frege significa dire che esiste ciò che c'è in un mondo platonico praticamente, in un mondo in 120 cui esistono effettivamente gli oggetti matematici. È chiaro che Frege non pensava, non credeva, che gli oggetti matematici avessero lo stesso tipo di esistenza degli oggetti fisici, cioè che li si potesse toccare con le mani, però credeva effettivamente che avessero delle proprietà analoghe, che la matematica, il senso della matematica, l'intuizione, la ragione fossero dei modi per arrivare a conoscere, a capire, a vedere, diciamo così, gli oggetti di un mondo che era un mondo platonico, il mondo delle idee che stava lì, ma che aveva una sua esistenza indipendente da noi. Vediamo invece il formalismo di Hilbert. Hilbert, nel caso dell'esistenza, sosteneva che esiste ciò che può Hilbert esserci. Notate che è un approccio, un modo di vedere le cose proprio diverso dal di dire che esiste ciò che c'è. Esiste ciò che esiste ciò che può esserci può esserci significa, bah, noi ciò che c’è non sappiamo, anzi non crediamo almeno che ci siano queste cose, che per Hilbert che non era, appunto un platonista, non è che ci fosse un mondo di oggetti matematici lì, che noi dovevamo semplicemente andare a giudicare, esiste ciò che può esserci significa che la matematica dev’essere consistente, non ci devono essere contraddizioni. Tutto ciò che non è contraddittorio, in altre parole che potrebbe esserci, se ci fosse la possibilità di costruire tutti i mondi possibili, dei quali vi ricorderete aveva già parlato Leibniz, ebbene ciò che c'è in un mondo possibile per un matematico questo esiste. In altre parole per Hilbert non c'è un solo mondo, il mondo platonico come c'era per Platone per l’appunto e come c'era anche per Frege, ma ci sono tanti mondi, sono i mondi possibili, sono i mondi che il matematico costruisce, l'unica richiesta che si può fare, si deve fare a un matematico, è di costruire dei mondi che siano consistenti, cioè di costruire una storia ben fatta in altre parole, la stessa cosa della letteratura realista, della lettura verista nel campo dell'arte, cioè possono esserci ovviamente racconti fantastici, però a volte nei racconti fantastici si introducono delle leggi che non sono quelli della nostra fisica, del nostro mondo; se però voi fatte un racconto verista invece e semplicemente costruito mondo che magari non è quello che veramente è esistito, non tutti i racconti realistici, sono racconti storici, che raccontano ciò che è effettivamente esistito nel mondo, però se sono delle storie possibili perché in realtà raccontano mondi che non sono magari mai stati, ma che avrebbero potuto essere, per il matematico questo è sufficiente. E quindi voi capite che in questo caso si passa dal problema dell'adeguatezza tra linguaggio e mondo esterno, si passa semplicemente a qualche cosa che è puramente interno al linguaggio, per Hilbert l'importante era che non ci fossero delle contraddizioni. E ricorderete dalla scorsa lezione, che abbiamo appunto dedicato a Hilbert, che il problema della consistenza era precisamente uno dei grandi problemi che Hilbert pose sul tappeto fra i suoi 23 problemi, nel congresso famoso di Parigi del 1900. Il secondo problema richiedeva la consistenza dell'analisi, ricorderete, brevemente per dirvi due parole su quello che abbiamo fatto la scorsa lezione, che si era pensato alla geometria iperbolica, la geometria iperbolica era consistente rispetto a quella euclidea, c'era un modello della geometria iperbolica in quella euclidea, la geometria euclidea era consistente rispetto all'analisi, sono tutti i mondi possibili, mondi in cui se c'è una contraddizione in uno allora automaticamente c'è negli altri; però Hilbert voleva sapere se nell'analisi non c'erano contraddizioni, di modo che tutti questi mondi sarebbero diventati automaticamente e simultaneamente tutti possibili allo stesso tempo e per il matematico sarebbe stato sufficiente. Infatti questo è poi l'atteggiamento che, molti di noi, ancora oggi hanno della matematica, nessuno più pensa come pensava Euclide e come pensavano ancora forse fino agli inizi dell'800 i geometri, che l'unica vera geometria sia quella euclidea, ma oggi si pensa, nel caso che non sia quella euclidea, che bisogna misurare il mondo per vedere qual è quella giusta perché bisogna scegliere tra le varie geometrie. La geometria euclidea serve in certi casi, la geometria iperbolica serve in altri casi, ce ne sono tante altre di geometrie, quella riemaniana alla quale abbiamo accennato in una delle scorse lezioni, che poi servì ad Einstein per costruire la sua relatività generale, ebbene tutte queste geometrie sono geometrie alternative, sono mondi possibili, l'unica cosa che interessa al matematico è che non ci siano contraddizioni, cioè esistenza in questo caso significa che esiste ciò che può esserci. E l'ultima filosofia dell'esistenza, alla quale accenniamo quest'oggi, è la filosofia appunto dell'intuizionismo, la filosofia di Brouwer, che si può indicare dicendo che esiste ciò che costruiamo; quindi non si fa più tanto riferimento al mondo esterno, certamente non si fa riferimento Brouwer soltanto alla consistenza, perché ciò che può esistere in realtà, la esiste ciò che costruiamo dimostrazione di esistenza non è una dimostrazione in generale costruttiva, Brouwer voleva mettere sue mani, diciamo così, sui fatti concreti, cioè per lui esistevano le cose 121 che si potevano costruire. Si potrebbe dire, forse, parlando di ciò di cui abbiamo parlato agli inizi di questa lezione, che nel campo della geometria per Brouwer, se per lui gli unici strumenti fossero stati quelli per l’appunto della riga e del compasso, allora sarebbero esistiti, per esempio i quadrati, sarebbero esistiti i pentagoni, sarebbero esistiti gli esagoni, ma non gli ettagoni, perché i poligoni regolari a sette lati non si potevano costruire oppure per esempio, si poteva fare la bisezione dell'angolo, è possibile fare la posizione dell'angolo, ma non si può fare la trisezione dell'angolo, il terzo di un angolo non esiste, perché non lo si può costruire con riga e compasso. Capite che è come legarsi le mani, cioè decidere di fare soltanto le cose che si possono fare a mano, per l’appunto con mezzi costruttivi. Questo è in punto di vista, è un punto di vista che all'epoca quando per l’appunto Brouwer lo incominciò ad esporre e a predicare, perché queste cose poi acquistano questo sapore a volte anche un pochettino mistico e religioso, dicevo, agli inizi del ‘900 fu attaccato molto spesso dai matematici, poi lo si è molto meno attaccato, perché oggi noi parliamo attraverso questa macchina qua, cioè attraverso i computer, molta della matematica si fa attraverso i computer, ovviamente costruttivo oggi significa che si può fare al computer, ciò che il computer non può fare è per noi in realtà un pochettino fuori della nostra portata e quindi l’intuizionismo è diventato una filosofia importante per la matematica odierna e soprattutto per l’informatica e infatti, stranamente, se voi andate nei dipartimenti di matematica, quando si insegna la logica, in genere si insegna la logica classica, se voi andate nei dipartimenti di filosofia si insegna la logica aristotelica, eccetera, forse si arriva fino a Frege, a Goedel, insomma, ma non molto oltre, se andate invece nei dipartimenti di informatica si insegna per l’appunto la logica intuizionista, la logica di Brouwer, quindi vedete anche nella logica, in realtà, ci sono tanti modi, tanti aspetti, tante famiglie diciamo così e ciascuno si segue la sua, perché ci sono applicazioni diverse. Però c'è ancora una cosa dire per quanto riguarda questo problema del costruttivismo e questa cosa tanto per cambiare, ormai l'avrete capito, l’ha detto tutto lui, l’ha fatta Goedel.Goedel finalmente, vedete qui, la faccia ormai la conoscete da lungo tempo, perché ne abbiamo parlato 100 volte e presto appunto, come vi ho già annunciato precedentemente, faremo due lezioni su Goedel. Ebbene, dicevo, Goedel questa volta non è il risultato del 1930, non è il risultato del 1931, è un risultato diverso del 1933, Goedel dimostra che c’è un modello intuizionista della logica classica; esattamente come nel caso della geometria era possibile fare un modello euclideo della geometria iperbolica e quindi scaricare tutti problemi della geometria iperbolica su quella euclidea, in questo caso è possibile fare un modello intuizionista della logica classica, attenzione non il contrario e cioè, in altre parole, se la logica classica è contraddittoria, cioè se Brouwer aveva paura che la logica classica fosse contraddittoria e quindi restringeva i suoi mezzi soltanto alle dimostrazioni costruttive, ebbene Goedel gli dice stai attento, perché se la logica classica è contraddittoria anche la tua logica lo deve già essere, quindi in qualche modo il problema della contraddizione viene spostato dalla logica classica alla logica intuizionista. E questo, in qualche modo, è per l’appunto, non dico una debacle, ma un certo risultato negativo per Brouwer, perché Brouwer si restringeva, aveva cercato di fare questa sua filosofia, che come vi ho detto predicava anche in maniera molto vigorosa, perché credeva che ci fossero dei veri problemi nella logica classica, diceva l'unico modo per salvarsi dai problemi, per salvarsi le spalle, per così dire, dai problemi della logica classica è quello di fare la sua logica, cioè mettersi nell'ambito della logica intuizionista. Goedel gli fa vedere che in realtà non è così, perché se c'erano dei problemi, se c'erano delle inconsistenze nella logica classica, nella matematica, in realtà, più in generale nella matematica classica, in realtà queste inconsistenze, queste contraddizioni si devono già riflettere nella logica intuizionista e quindi questo modo di pararsi le spalle non è poi così importante. Vediamo meglio, un po' più da vicino che cosa dice il teorema di Goedel, questo nuovo teorema di Goedel del ’33; dice che appunto che “se la matematica classica è inconsistente, lo deve già essere anche quella Se la matematica classica è inconsistente intuizionista”. E’ per quello che ho detto poco fa lo è anche quella intuizionistica l'intuizionismo non è una difesa così grande rispetto ai problemi della logica moderna e d'altra parte se volete invece rienunciare questo teorema di Goedel in una maniera pochettino diversa, moderna, si può dire che “ciò che è vero classicamente non è falso in 122 intuizionisticamente”. Ovviamente non si può dire ciò che è vero classicamente è già vero intuizionisticamente, altrimenti le due logiche sarebbero la stessa logica, però la verità classica Ciò che è vero classicamente non si riflette nella non falsità intuizionista; qui vedete che ci è falso intuizionisticamente sono due negazioni, una sta nel non, l'altra sta nel falso, per l’appunto significa non vero, per questo motivo l'interpretazione di Goedel della logica classica in quella intuizionista si chiama per l’appunto “interpretazione della doppia negazione”. Tutte le verità classiche diventano verità intuizioniste se le si nega due volte. Bene, abbiamo fatto brevemente appunto questa introduzione al costruttivismo, io finisco qui per oggi, vi do appuntamento finalmente per le prossime due lezioni in cui parleranno questa volta dei risultati di Goedel e in particolare uno di questi è il grande risultato della incompletezza. 123 LEZIONE 15: Un austriaco (mica tanto) completo Benvenuti ad una delle lezioni centrali del nostro corso di logica. Come avete sentito nelle precedenti lezioni, abbiamo parlato di un personaggio forse più di tutti, cioè di Kurt Goedel e vi ho detto più di una volta che effettivamente Goedel viene considerato il massimo logico certamente della contemporaneità, forse dell'intera storia e se dobbiamo sceglierne due questi sono Aristotele e Goedel. Ebbene, per significare appunto la sua preminenza all'interno del campo di azione nel quale ci siamo mossi, cioè della logica matematica, abbiamo deciso di dedicare due lezioni a Goedel. Questa di oggi sarà una lezione fatta come al solito, cioè cercheremo brevemente di accennare ai risultati che Goedel ha dimostrato durante la sua vita, anche ad alcuni fatti della sua vita privata e personali e invece la prossima volta ci dedicheremo finalmente proprio al nucleo centrale di tutte queste lezioni, cioè andremo un pochettino più a fondo di quanto non abbiamo fatto con gli altri personaggi nella dimostrazione e nelle idee fondamentali del famoso “teorema di incompletezza di Goedel”. Come ho detto prima oggi cerchiamo di parlare dei risultati di Goedel in generale, cercando anche di spaziare in altri campi che non sono soltanto quelli della logica matematica, ma stranamente anche di altre materie. Allora veniamo appunto al dunque, ebbene Goedel è colui al quale oggi dedichiamo una lezione che si intitola "un austriaco (mica tanto) completo"; come mai mica tanto? Beh, certamente ci sono come al solito due sensi, anzi tutto l’austriaco è ovviamente lui, che è nato in Austria, a Brno, all'epoca la cittadina di Brno non era in Austria come oggi, ma era in Cecoslovacchia, comunque oggi lo chiameremo un austriaco, perchè all'epoca faceva parte dell'impero austroungarico, Goedel parlava tedesco per l’appunto, quindi a pieno titolo si può dire un esponente della cultura austriaca. Poi come mai mica tanto completo? Ma perchè ovviamente c'è un riferimento ai tipi di risultati che Goedel ha dimostrato. Il suo nome è stato legato nel 1930 al famoso “teorema di completezza”, e questa è la parte appunto di "completo" che è nel titolo e nel 1931 agli altrettanti famosi, anzi più famosi ancora “teoremi di incompletezza”. Quindi il mica tanto si riferisce in un primo significato, in una prima accezione a questo fatto, che Goedel dimostrò i teoremi di incompletezza, oltre che i teoremi di completezza ; poi si riferisce ovviamente al fatto che Goedel fosse un personaggio piuttosto singolare e certamente oggi lo definiremmo anche un pochettino matto. In realtà morì di consunzione addirittura, spaventato temeva che qualcuno lo volesse avvelenare e quindi a un certo punto smise di mangiare e in quel modo ovviamente morì e quindi il risultato fu effettivamente come se qualcuno l'avesse avvelenato, ma questi sono in realtà gli aspetti meno interessanti della vita di un personaggio di questo genere. La vita di Godel è stata soprattutto non fatti nel mondo fisico, ma idee nel mondo platonico ed è di questo che cercheremo di dare appunto una specie di excursus in questa lezione. Dunque anzitutto le solite date di nascita e di morte: Godel è nato nel 1906 ed è morto nel 1978, quindi dopo 72 anni di pensiero. Godel Dove ha vissuto Goedel praticamente? La sua vita è stata divisa in due parti meno (1906-1978) più o uguali la prima parte a Vienna, la seconda parte a Princeton. Quindi abbiamo anche noi organizzato la nostra lezione in due parti che si riferiscono ai risultati che Goedel ottenne quando era giovane studente a Vienna e poi invece quelli che ottenne quando era ormai maturo professore a Princeton. Il periodo che Goedel passò a Vienna, naturalmente andando avanti e indietro, perché poi quando divenne famoso incominciò ad andare in America, ma di questo ne parleremo in seguito, il periodo è Vienna (1906-1938) comunque dalla nascita fino al 1938 ed in questo periodo, notate che Goedel aveva soltanto 32 anni quando se ne andò poi definitivamente dall'Austria, 1. completezza 2. incompletezza per motivi abbastanza ovvi, la data è quella di inizio della seconda guerra 3. consistenza mondiale. Ebbene i risultati più importanti del suo lavoro li abbiamo elencati di 4. intuizionismo lato, sono anche forse i più importanti della logica moderna, quelli che hanno cambiato l'immagine di ciò che questa materia era all'epoca ed l’hanno fatta diventare una parte essenziale della matematica moderna. I risultati li abbiamo divisi in quattro parti, per la prima parte della sua vita: sono il teorema di completezza, il teorema di incompletezza, i problemi relativi alla consistenza ed i problemi relativi all’intuizionismo. Quindi affrontiamoli uno per uno, ma prima di parlare di questi problemi, diciamo solo qualche parola sul momento in cui Goedel fu studente, cioè guardate qui nella slide, nel 1925 entra nell'università di Vienna, giovanissimo ovviamente e che cosa succede? Succede che viene subito attratto nell'orbita di quello che si chiamava e si continua a chiamare ancora oggi il Circolo di 124 Vienna. Questo gruppo di filosofi, i cosiddetti neopositivisti, coloro che agli inizi erano nella scia di Wittgenstein, al quale abbiamo dedicato un'altra lezione, quindi ricorderete alcune delle idee principali di Wittgenstein, in particolare quest'idea del costruttivismo, l'uso e il significato di una parola sta nell'uso che viene fatto e così via. Ebbene uno dei personaggi importanti di questo positivismo logico, di questo neopositivismo del circolo di Vienna è quello che viene raffigurato nella fotografia, cioè Rudolf Carnap. Carnap era professore all'epoca a Vienna, era colui che agli inizi soprattutto di quel periodo, era considerato un po' il simbolo del circolo di Vienna, scrisse molti importanti libri, immagini del mondo e così via e il motivo per cui abbiamo scritto qua 1925 è perché fu quello l'anno in cui Goedel entrò nell'università a Vienna, se ne andò da Brno dov'era nato a Vienna e fu attratto in particolare da questo personaggio ed è attraverso Carnap che Goedel sentì parlare per le prima volta dello studio della logica, di Russell, di Wittgenstein, dei problemi che venivano posti anche soprattutto nella logica matematica e questo fu praticamente il suo allenamento e il suo studio, perché immediatamente già da studente, molto giovane come vedremo tra pochissimo, Goedel risolse alcuni dei problemi più importanti che erano stati proposti per la logica matematica e che sono appunto quelli ai quali ho accennato prima in quell'elenco Incominciamo a parlare appunto del primo problema, il cosiddetto “problema della completezza”. Naturalmente siamo ormai ben allenati a questo problema e quindi la prima parte in qualche modo insomma la faremo un pochettino velocemente, perché sappiamo già anzitutto in parte quali sono stati i fondamenti di questi problemi che Goedel ha cercato di risolvere ed in parte abbiamo già anche anticipato, parlando di questi problemi, qual'è stato il tipo di soluzione, ma adesso è venuto il momento di mettere tutto insieme e di tirar le fila di questo discorso. Allora vediamo qui nella slide un signore alla cui faccia ormai ci siamo abituati, anche per il fatto che c'è soltanto questa fotografia qui, che abbiamo continuato a riproporla per tutte le nostre lezioni, ebbene questo signore è Frege e come ricorderete nel 1879 inaugura il nuovo corso della logica matematica moderna scrivendo questo libro che diventa un classico, che si chiama l’appunto l"Ideografia". Che cosa fa Frege in questo libro? Beh, inventa praticamente un nuovo linguaggio, un linguaggio formale, realizza il sogno che era stato di Leibniz di trovare una lingua universale per la matematica nella quale si potessero esprimere tutti i concetti che erano necessari appunto al linguaggio di questa materia. Ebbene l’ideografia è per la punto un linguaggio formale, ma tratta di logica matematica e pone le basi della logica matematica moderna in che modo? Beh, enunciando per la prima volta forse in maniera così chiara e completa gli assiomi da una parte della logica e dall'altra parte le regole necessarie a dimostrare i teoremi. Ricorderete che l'impianto assiomatico formale della logica moderna è precisamente basato su questi due concetti, cioè si parte da degli assiomi che sono delle proposizioni che non vengono dimostrate perché si accettano appunto come assiomi e poi si dimostrano teoremi partendo dagli assiomi e usando delle regole. Ora alcune di queste regole della logica erano note dai tempi dei greci, cioè da Aristotele e da Crisippo, dagli storici soprattutto, che avevano analizzato quali erano le regole del calcolo proposizionale, che ricorderete abbiamo trattato abbastanza diffusamente nelle prime lezioni del nostro corso. Ebbene, in particolare Aristotele aveva anche introdotto oltre al calcolo proposizionale quello che noi oggi chiameremo i quantificatori " tutti, nessuno, qualcuno" e aveva enunciato una teoria del sillogismo. Qualcosa però mancava ancora a questo impianto della logica greca per farlo diventare ciò che in realtà era il sogno da realizzare di Leibniz, mancava l'estensione a quello che oggi viene chiamato “il calcolo dei predicati”. I quantificatori servono, ma Aristotele li usava soltanto per predicati unari, con un solo soggetto. L'analisi del linguaggio di Aristotele, ricorderete, era soggetto e predicato, mancavano i complementi ed il soggetto era unico, non c'erano più soggetti. Ebbene uno dei grandi risultati di Frege è per l’appunto di introdurre una analisi più generale, di parlare non soltanto di soggetto e predicato, ma di “soggetti, predicato e complementi” e quindi di permettere “l’uso e la considerazione di relazioni a più di un solo argomento, a più di una sola variabile”. Ebbene Frege allora 125 deve enunciare in particolare le regole che stanno, che giacciono al calcolo dei predicati e anche agli assiomi della logica dei predicati e questo è ciò che lui fa nel 1879 in questo libro, che è diventato oggi un classico ed è un libro insieme a questa data 1879 nel quale viene identificata la nascita della logica moderna. Gli assiomi e le regole di Frege sono stati enunciati e servono a dimostrare molti teoremi. Ma potevano essere sufficienti per dimostrarli tutti? Questo problema fu enunciato da Hilbert nel 1928, anche di questo abbiamo già parlato. Ricorderete che Hilbert introdusse anche altri problemi che sono quelli che per antonomasia vengono chiamati i problemi di Hilbert, ma di questi parleremo fra un momento, perlomeno di alcuni di questi; invece qui ci vogliamo soffermare non sul Congresso di Parigi del 1900, ma sul Congresso di Bologna del 1928. Hilbert A quell'epoca Hilbert ormai vecchio, cerca comunque di continuare (1928) a proporre problemi che dovrebbero essere centrali per lo studio che Congresso di Bologna gli sta a cuore e in questo caso, per l’appunto, dopo trent’anni del Problema della completezza ‘900 praticamente ciò che gli sta a cuore è lo studio della logica matematica e il problema che Hilbert pone al congresso di Bologna è precisamente quello che viene chiamato il “problema della completezza”. Ricorderete che nel 1920-21 era stato dimostrato da Emil Post negli Stati Uniti, “il teorema della completezza per la logica proposizionale”, cioè praticamente dell'analisi stoica del linguaggio. Completezza significa che gli assiomi e le regole che vengono date sono sufficienti per dimostrare tutte e ovviamente anche sole le verità logiche, quelle che nel calcolo proposizionale vengono chiamate secondo la terminologia di Wittgenstein, che abbiamo già visto, le tautologie. Ebbene il problema della completezza che Hilbert enuncia nel 1928 è il problema analogo a questo qui, cioè sapere se gli assiomi e le regole sono sufficienti e necessarie a dimostrare tutte e sole le verità logiche, non più per il livello basso, diciamo così, della logica del “calcolo proposizionale”, bensì per questo livello alto che Frege appunto aveva introdotto per il “calcolo dei predicati”. Ebbene che cosa succede? Succede per l’appunto che nel 1930, eccoli qua i due grandi logici moderni, sulla sinistra Goedel e sulla destra Frege, Goedel dimostra che il sistema di Frege è completo, cioè “il teorema della completezza per la logica predicativa”. Nel 1930, notate che Goedel, nato nel 1926, ha 24 anni, quindi è praticamente quello che oggi noi chiameremo un laureando e infatti questo è il risultato che lui ha dimostrato l'anno prima, che pubblica nel 1930 nel corso della sua tesi di laurea. La tesi che addirittura risolve uno dei più grandi problemi aperti della logica, uno dei problemi del grande matematico Hilbert. Che cosa significa il risultato di Goedel? Significa appunto quello che c'è scritto qui, cioè che Frege aveva fatto un'analisi del calcolo o della logica dei predicati, era un'analisi completa, cioè non aveva dimenticato niente di essenziale, ovviamente non è che avesse dimostrato tutti i teoremi, aveva però enucleato, era riuscito ad enucleare gli assiomi e le regole che erano sufficienti per dimostrare tutti i teoremi che si potevano dimostrare, cioè tutte le verità logiche. Questo è ovviamente, un grande successo e però qualche cosa che tutto sommato era aspettato. Infatti come ho detto poco fa, era stato dimostrato una decina di anni prima, nel 1920-’21, da parte di Post che il teorema analogo della completezza valeva per il calcolo proposizionale, adesso Goedel estende questo teorema, una dimostrazione più complicata, anche perché siamo in una logica molto più potente e anche molto più sottile; ebbene goedel estende qualche cosa che però già si sapeva, si pensa appunto che si stia facendo un passo avanti e che in quella direzione bisognerà andare perché ci saranno altri teoremi da dimostrare di completezza per altre teoria ancora più forti. Che cosa ci può essere di più forte della logica dei predicati? Beh, nel campo della logica forse poco, si può estendere la logica in altre direzioni, per esempio già Aristotele aveva indicato una delle possibili direzioni, in particolare aggiungere al linguaggio della logica fatto dai “connettivi e dai quantificatori”, aggiungere altri operatori che sono i cosiddetti “operatori modali” e dunque si potrebbe pensare di dimostrare “un teorema di completezza per la logica modale” e questo invero sarà fatto però molto più recentemente, cioè negli anni 60 di questo secolo, da un filosofo che poi è diventato famoso, che si chiama Kripke; però non era in questa direzione che Goedel andava, perché non era quella la moda dell'epoca, in realtà quello che interessava fare come passo 126 successivo dopo il risultato per la logica proposizionale di Post e dopo il suo risultato per la logica dei predicati, era interessarsi dell'aritmetica, che in realtà era non più soltanto la logica, ma aveva a che fare con i fondamenti della matematica, cioè il nucleo della matematica stessa e quindi Goedel inizia come progetto da post dottorato o meglio quello che oggi chiameremo da dottorato, lo studio per la dimostrazione del “teorema di completezza dell'aritmetica”. In realtà Goedel non si interessa direttamente dell'aritmetica, ma si interessa del sistema dei cosiddetti "principia mathematica" di Whitehead e Russell che furono scritti, come ricorderete, dalla lezione su Russell tra il 1910 e il 1913, in tre volumi di questa grande opera. Agli inizi del secolo i ”principia matematica” di Russell e Whitehead vengono considerati il monumento della matematica moderna, vengono considerati l'analogo, soprattutto da Russell 2. incompletezza stesso e Whitehead, l'analogo degli elementi di Euclide per quanto riguarda Whitehed e Russel la matematica e dei “principia” di Newton per quanto riguarda le scienze; (1910-1913) infatti il titolo non a caso viene scelto da Russell e Whitehead apposta, in Principia matematica modo da richiamare l'inizio, il titolo della grande opera di Newton, cioè i "principia naturalis philosofiae". Ebbene questo sistema studia appunto non soltanto i numeri interi, ma è quello che oggi noi diremo praticamente una formalizzazione di una versione della cosiddetta teoria degli insiemi e allora il passo successivo per Goedel sarebbe stato dimostrare che gli assiomi e le regole che erano stati enunciati da Russell e Whitead per la teoria degli insiemi, per quella che loro invece chiamavano la teoria dei tipi, erano complete, cioè permettono di dimostrare tutto ciò che dimostrabile e tutto ciò che si può dimostrare. Ebbene in realtà qui invece arriva veramente la scoperta, ciò che rende Goedel veramente famoso, cioè nel 1931 Goedel dimostra che ci sono verità indimostrabili. Qui abbiamo scherzosamente riportato una scena del padrino, il famoso film che parla di mafiosi; come mai abbiamo parlato di questo ? Beh, perché evidentemente la matematica non è l'unico campo in cui ci sono delle verità indimostrabili. Sapete benissimo, per esempio, che al Capone il grande mafioso degli anni ‘30, fu in realtà catturato dagli agenti delle FBI e messo in galera poi alla fine per evasione fiscale, non certamente per crimini di mafia. Come mai? Ma perché si sa benissimo e questa è appunto la parte delle verità, che la mafia fa molti delitti, ne compie di cotte e di crude come si dice, ma quasi tutti questi delitti sono fatti in maniera da essere indimostrabili, cioè le verità che noi tutti conosciamo riguardo alla mafia, poi quando alla fine si fanno i processi non si possono dimostrare, quindi i mafiosi non si possono condannare. Ebbene questa è una metafora che potete tenere in mente, per l’appunto, per ricordarvi qual'è il contenuto del famoso “teorema di incompletezza di Goedel”. Nel 1931 Goedel, a 25 anni, dimostra che anche in matematica ci sono delle verità indimostrabili, in particolare nel caso dei “principia matematica”, ci sono delle verità che si posso esprimere nel linguaggio di questa famosa opera e che sono appunto vere, ma che non sono dimostrabili all'interno del sistema, il che significa che per la matematica, un campo diverso da quello della logica dove le verità logiche erano tutte dimostrabili all'interno del sistema che Frege aveva isolato e questo è il contenuto del “teorema di completezza di Goedel”, per le verità dell’aritmetica e poi via via se si sale, per le verità insiemistiche e così via, ce ne sono molte che sono indimostrabili nel sistema che si sta considerando. Si può cambiare sistema ovviamente, alcune di queste verità, che non lo erano prima diventeranno dimostrabili, però nel nuovo sistema ci saranno altre verità indimostrabili, insomma Goedel mette il dito sulla piaga della matematica moderna. In altre parole la matematica a differenza della logica, ha una incompletezza essenziale, una specie di malattia e questa malattia è il fatto di non riuscire ad essere catturata da un sistema formale, la verità va oltre le possibilità umane, che devono sempre risolversi in dimostrazioni. E che cosa succede dunque? Goedel diventa famoso con questo teorema, ma una delle conseguenze del suo teorema è la soluzione di un altro problema, che era il famoso “problema della consistenza” e di questo abbiamo parlato a lungo quando abbiamo fatto la lezione sul Hilbert. Nel 1900, ricorderete, al Congresso di Parigi, il secondo problema di Hilbert era quello di riuscire a dimostrare la consistenza dell'analisi, cioè la consistenza della teoria dei 3. consistenza numeri reali oppure visto che già i numeri reali erano già stati ridotti a congresso di Parigi numeri interi e quindi l'analisi ridotta all'aritmetica, di riuscire a dimostrare 127 Hilbert (1900) la consistenza dell'aritmetica. Hilbert sperava che fosse possibile dare una secondo problema dimostrazione di consistenza molto elementare e che quindi mettesse al riparo la matematica dai problemi tipo le contraddizioni, che agli inizi del secolo, eravamo appunto nel 1900, erano nate qui e là. Ebbene il teorema di Goedel arriva come un fulmine a ciel sereno e una delle conseguenze del teorema di Goedel sulla quale poi ci soffermeremo a lungo nella prossima lezione perché cercheremo di andare, come ho detto, nel dettaglio di questa dimostrazione, è per l’appunto che la consistenza è indimostrabile. In che senso la consistenza è indimostrabile? Beh, se voi prendete un sistema formale che è consistente, per esempio come si suppone essere quello dei “principia matematica” , ebbene la consistenza del sistema dei " principia matematica" si può dimostrare, ma soltanto al di fuori del sistema, non dal di dentro e quindi in particolare non attraverso mezzi elementari che sono già in qualche modo tutti esprimibili dentro il sistema. Come mai qui abbiamo messo, invece che i mafiosi, un pazzo in camicia di forza? Ma perché, in realtà, per fare una metafora del secondo teorema di Goedel, come viene chiamato o del teorema di Goedel sulla inconsistenza, in realtà i pazzi sono la metafora qui indicata, cioè quanti di voi hanno mai detto a qualche vicino o qualche parente “io non sono pazzo”? Le uniche persone che dicono “io non sono pazzo” sono in genere queste persone qua e soprattutto lo dicono nel momento in cui vengono portate via in camicia di forza dagli infermieri verso il manicomio, cioè le persone sane non possono dire e non dicono di non essere pazzi. Il teorema di Goedel dice esattamente la stessa cosa, solo che nel caso dei sistemi formali della matematica essere sani significa essere consistenti, non dimostrare contraddizioni. Gli unici sistemi che possono asserire, possono dimostrare la propria consistenza, sono precisamente quelli analoghi dei matti, cioè i sistemi matematici che non sono consistenti sono gli unici che possono dire io sono consistente, così come i matti sono gli unici che dicono io non sono matto, tutti gli altri sistemi che sono consistenti matematicamente non possono dimostrare la propria consistenza, analogamente quelli che sono sani di mente non dicono io non sono matto, così come i sistemi consistenti non dicono io sono consistente. Quindi ricordate queste due metafore, una mafiosa e quell'altra psichiatrica, per avere in mente per l’appunto delle immagini intuitive del teorema di Goedel, che vedremo più tecnicamente la prossima volta. Il terzo campo di azione di Goedel è invece quello che ho detto prima, cioè “l'intuizionismo”. 3. Intuizionismo Ebbene l'intuizionismo,di cui abbiamo parlato parecchio nel caso di Brouwer Brouwer quando abbiamo a lui dedicata una lezione, è un tipo di matematica, in particolare di logica costruttiva e sembrava soprattutto a Brouwer che fosse qualche cosa totalmente di diverso dalla matematica classica. Brouwer chiedeva di scegliere tra la sua matematica intuizionistica e quella classica, che era in qualche modo simboleggiata, capitanata da Hilbert, sembrava una battaglia di titani, di giganti, ma Goedel nel 1933 arriva con uno dei suoi soliti risultati sorprendenti e dimostra che c'è un modello intuizionistica della logica classica, cioè in altre parole dimostra che la matematica intuizionista sarà anche qualcosa di costruttivo, ma certamente non è qualche cosa di più Godel consistente sulla quale si possa fare più affidamento della logica classica, perché esiste un modello intuizionista della logica classica e dunque se la (1933) logica classica fosse inconsistente, se avesse dei problemi, se fosse matta Modello intuizionista della logica classica riguardo alla metafora che abbiamo già fatto prima, ebbene poiché c'è un modello della logica classica nella logica intuizionista, anche la logica intuizionista sarebbe inconsistente, anche la logica in intuizionista sarebbe matta, quindi come una trasmissione genetica di questa pazzia e dunque la logica intuizionistica non è qualcosa di più solido, di meglio fondata della logica classica, se ci sono problemi nella logica classica, questi problemi ci sono già anche nella logica intuizionista; di nuovo un risultato sorprendente, di quelli proprio alla Goedel, nel 1933. Questi sono più o meno i grandi risultati che Goedel dimostra prima della guerra mondiale. Che cosa succede nel caso della guerra mondiale? Beh, ovviamente succede anzitutto che scoppiano le ostilità; Goedel viveva all'epoca in Austria, aveva già avuto gravi problemi psichiatrici, era entrato e uscito da ospedali psichiatrici, da manicomi, perché aveva avuto delle gravi crisi nervose, degli esaurimenti nervosi, però nel 1938 si accorge che sta arrivando la guerra, il ‘38 ricorderete è l'anno dell'Anschluss, dell'invasione dell'Austria da parte di Hitler e Goedel decise di 128 scappare, di andarsene dall'Austria; se ne va, ormai è tardi per poter passare l'oceano e quindi è costretto a prendere un treno che lo porta attraverso tutta la Russia, percorre tutta la parte della Russia fino a Vladivostock; prenderà di là un piroscafo, una nave che lo porterà sulla costa californiana dell'America e dalla costa californiana dell'America prende un treno che la porterà invece Princeton. Ebbene, a Princeton Goedel vivrà per il resto della sua vita, dal 1938 al 1978, facendo risultati importanti, certamente non così importanti come i precedenti dei quali abbiamo parlato, risultati sulla teoria degli insiemi, sulla relatività, sulla teologia, ai quali accenniamo adesso brevemente. Però, volevo dirvi prima brevemente che, Princeton(1938-1978) per l’appunto, Goedel se ne andò dall'Austria con un certo risentimento, 5. teoria degli insiemi era molto seccato di questo fatto che sono arrivati i nazisti, non era una persona particolarmente politicizzata, però fino ad arrivare a distinguere 6. relatività fra il nazismo e il suo posto ci arrivava ed ecco che Goedel rifiutò nella 7. teologia sua vita, in questi quarant'anni che gli rimanevano da vivere, rifiutò sempre non soltanto di andare di nuovo a visitare l’Austria, ma addirittura le onorificenze che l’Austria propose di dargli nel corso degli anni. Goedel ovviamente quando divenne famoso ricevette onorificenze da tutte le parti, non ricevette mai il premio Nobel, perché come abbiamo già detto altre volte, il premio Nobel non esiste per la matematica, in particolare non esiste per la logica, non ricevette mai la medaglia Fields che è l'analogo del premio Nobel per la matematica, perché ormai aveva più di quarant'anni e la medaglia Fields viene data soltanto a persone che hanno meno di quarant'anni e notate che la prima venne data praticamente nel 1936 e poi non ne vennero date più altre fino al 1950, quindi quei due riconoscimenti, quelle due onorificenze Goedel non li ottenne, il Nobel o la medaglia Fields. Però ebbe tantissimi riconoscimenti da varie parti del mondo, in particolare l’Austria che più volte cercò di dare delle onorificenze, a questo suo figlio, diciamo così, tra più importanti; forse insieme a Schroedinger, Goedel è l'austriaco che nel campo della scienza in questo secolo ha fatto di più, per portare avanti il nome della sua nazione. Ebbene Goedel ha sempre rifiutato queste onorificenze, non ne volle più sapere di sentire parlare dell'Austria. Vediamo però che cosa successe a Princeton. A Princeton Goedel andò, non andò all'università, ma a quello che si chiama, Institute for Advanced Studies, l'istituto degli studi avanzati. Un istituto che è un Istituto di pura ricerca, dove ci stavano per esempio Einstein, dove ci stava Von Neumann, queste grandi menti, dove si stava Herman Wiles, quindi moltissime persone. Che cosa succede qui? Goedel si dedica soltanto alla ricerca; non riesce più a ottenere quei grandissimi risultati, anche perché quelli erano risultati epocali, li aveva già ottenuti, però continua a produrre delle cose di altissimo livello. Vediamo dunque più da vicino che cosa fece Goedel in questi anni. Anzitutto si interessò di teoria degli insiemi, in particolare dell'ipotesi del continuo. Vi ricorderete che cos'è l'ipotesi del continuo: l'ipotesi del continuo è praticamente la domanda che chiede quanti sono i numeri reali. La risposta ovvia che voi pensereste e anch’io penseremo di dare che ce ne sono infiniti ovviamente non vale, perché da Cantor oggi sappiamo che di infiniti ce ne sono tanti; quindi sapere quanti sono i numeri reali significa dire che si certo ce ne sono infiniti, ma quale ordine di infinito? Cantor dimostrò che ci sono più numeri reali che numeri interi, cioè che l'infinito dei numeri reali è maggiore di quello dei numeri interi. Il problema però era sapere quanto maggiore, cioè poiché gli infiniti sono tutti ordinati in fila, cioè esattamente come i numeri interi, c'è l'infinito dei numeri naturali, c'è l'infinito dei numeri reali che è più grande, in mezzo che cosa c'è? In mezzo c'è qualche cosa, ci sono altri infiniti oppure no? Questo il grande problema che Cantor chiamò “l’ipotesi del continuo”, si chiama continuo perché i numeri reali spesso vengono chiamati appunto il continuo, perché sono messi con continuità su una retta; ebbene l'ipotesi del continuo chiedeva se ci fossero degli infiniti a metà tra l'infinito di numeri interi e l'infinito dei numeri reali. 5. Teorie degli insiemi Questo problema Cantor cercò di risolverlo, anche lui finì in manicomio Ipotesi del continuo più volte, perché ovviamente questi studi di matematica sono talmente avanzati che stremano completamente coloro che li fanno; ebbene Cantor, non riuscii a risolverlo ovviamente durante la sua vita e nel 1900 di nuovo allo stesso congresso di Parigi del quale abbiamo già parlato poco fa, parlando del problema della consistenza, Hilbert propone questa volta il problema di Cantor come primo problema della sua lista di 23 grandi problemi per il secolo venturo. Ricordatevi, il secondo problema era la consistenza dell'analisi; Goedel aveva già risolto questo secondo problema dimostrando 129 Hilbert congresso di Parigi che non è possibile dimostrare la consistenza dell'analisi o (1900) Primo problema dell’aritmetica all'interno del sistema stesso. Adesso quando arriva a Princeton, Goedel attacca in realtà il primo problema, il più importante di tutti, quello appunto che Hilbert aveva posto agli inizi della sua lista per significare il fatto che effettivamente era quello il problema al quale teneva di più. Ebbene qual'è il risultato di Goedel? Il risultato che Goedel ottenne nel 1938, più o meno nel momento in cui arriva a Princeton, probabilmente ci aveva già pensato prima, è che l'ipotesi del continuo non è refutabile. Voi direte questo è un modo strano di affrontare un problema; che cosa significa che non è refutabile? Godel Significa che non si può dimostrare che è falsa e dunque come fa Goedel (1938) a dimostrare un risultato di questo genere? Si inventa un universo che L’ipotesi del continuo si chiama “l'universo degli insiemi costruibili”; ricorderete “costruibile” non è refutabile è ciò che viene in qualche modo identificato con la filosofia, la logica e la matematica intuizionista di Brouwer, questa è più o meno un'idea analoga, cioè l'idea di Goedel è di prendere soltanto insiemi che si possono effettivamente costruire a mano. Goedel dimostra che questi insiemi formano quello che oggi viene chiamato un modello, un universo della teoria degli insiemi, soddisfano tutte le proprietà degli assiomi della solita teoria degli insiemi e in più soddisfano anche all’ipotesi del continuo ed ecco che allora, poiché c'è un mondo in cui tutti gli assiomi della teoria degli insiemi sono soddisfatti e anche l'ipotesi del continuo è soddisfatta, non è possibile dimostrare la negazione dell'ipotesi del continuo, perché se questa negazione fosse dimostrabile sarebbe appunto vera la negazione e dunque falsa l'ipotesi del continuo in tutti i mondi possibili e invece Goedel ne fa vedere uno in cui l'ipotesi del continuo non è falsa, in cui l'ipotesi è vera. Questa è soltanto una parte della storia, perché dire che non è refutabile è molto meno che dire che invece è provabile; ovviamente nel caso in cui una formula, un'ipotesi sia provabile, se il sistema è consistente non può essere certo refutabile, altrimenti ci sarebbe una contraddizione. Quindi sembrava all'epoca, il 1938, che questo fosse un risultato secondario, cioè Goedel aveva dimostrato che l'ipotesi del continuo non si può refutare, però in realtà sarebbe forse venuto qualcun altro che avrebbe fatto passare in secondo ordine questo risultato di Goedel, dimostrando che invece l'ipotesi era provabile. Ebbene invece questo non successe e successe stranamente l'esatto contrario, cioè nel 1963, quindi molti anni dopo questo risultato di Goedel, questo signore che si chiama Paul Cohen dimostrò che quest’ipotesi del continuo non è dimostrabile, cioè l'altra faccia della medaglia. In altre parole Goedel aveva dimostrato che l'ipotesi del continuo non è refutabile, Cohen dimostra che la stessa ipotesi non è dimostrabile; i loro metodi di dimostrazione sono simili, in un caso Goedel si costruisce un universo in cui l'ipotesi del continuo è vera e dunque non si può refutare, nell'altro caso Cohen si costruisce un universo o meglio tanti universi, perchè poi se ne costruì effettivamente parecchi, addirittura infiniti, in cui l'ipotesi del continuo è falsa e dunque non si può provare. E allora che cosa succede questo punto? L’ipotesi del continuo, il grande problema, il primo della lista di Hilbert, il problema che aveva fatto impazzire addirittura Cantor, non si può risolvere con i mezzi della matematica moderna. Non è né dimostrabile né refutabile, in altre parole è un esempio di quelle verità indimostrabili che Goedel aveva dimostrato esistere per qualunque sistema matematico; in questo caso però mentre la dimostrazione di Goedel era una dimostrazione generale e come vedremo nella prossima lezione in realtà è qualche cosa di abbastanza indiretto, fa un uso di una frase che dice di se stessa di non essere dimostrabile all'interno del sistema e dunque è interessante per i logici, ma non per matematici, in questo caso invece, dicevo, Goedel ha trovato insieme a Cohen un esempio molto concreto di questo suo teorema di incompletezza e l'esempio è addirittura il più famoso problema della matematica di quegli anni, cioè l'ipotesi del continuo, che appunto non è né dimostrabile né refutabile all'interno del sistema. Che cosa succede in seguito? Beh, succede che Goedel s’interessa di altro. Una volta che ha risolto i problemi legati alla logica col teorema di completezza, quelli legati all'aritmetica e all’analisi col teorema di incompletezza, una volta dimostrato il secondo teorema sulla consistenza dell’aritmetica che non si può provare all’interno di un sistema, una volta che ha risolto perlomeno una metà, una parte del primo problema di Hilbert sulla teoria di insiemi, che cosa gli 130 rimane da fare? In matematica, perlomeno nella matematica di cui si interessava lui, poco e dunque quindi si rivolge altrove, si rivolge in particolare a questo signore che come voi tutti sapete, conoscete benissimo, si chiama Albert Einstein. Einstein, come vi ho detto, era anche lui un membro dell'Institute di Princeton, era uno di quei signori, dei cervelloni che non insegnavano, facevano soltanto ricerca. Einstein e Goedel diventano molto amici e in particolare Goedel si interessa della relatività generale. Nel 1948 Goedel scopre una cosa interessante, cioè dimostra un'importante teorema nel campo della relatività generale, per il quale poi gli viene data addirittura quella che oggi si chiama il premio Einstein, la medaglia Einstein, uno dei più grandi riconoscimenti in questo campo e scopre un risultato sugli universi rotanti, cioè dimostra che benché la relatività del tempo fosse qualche cosa che andava contro il senso comune, all’epoca tutti i modelli noti della relatività generale avevano una nozione di tempo assoluta, che scorre cioè sempre in un senso, ebbene dimostra che si sono degli universi in cui non c'è una nozione assoluta di tempo, una nozione comune di tempo; anzi dimostra addirittura di più, una cosa molto strana e questo si che lo fece diventare, come dire, quasi un personaggio singolare della relatività, dimostra cioè che è possibile fare il viaggio in avanti e indietro nel tempo. Eccolo qua Goedel vestito da astronauta, che se ne va in giro per l'universo; notate viaggio nel tempo, ovviamente quando si parla di viaggio nel tempo non si fa riferimento al viaggio nel futuro, perché tutti ci stiamo andando nel futuro, pian piano arriviamo dal passato al futuro. Il viaggio di cui parla Goedel è il viaggio nel passato e Goedel dimostra, sembra quasi fantascienza, anzi in realtà lo è addirittura, dimostra che ci sono dei modelli della relatività generale in cui è possibile fare il giro dell'isolato, esattamente come nel nostro mondo facciamo il giro dell'isolato e andiamo sempre a destra per esempio, ad un certo punto ci ritroviamo nel punto di partenza perchè abbiamo fatto tutti e quattro angoli del caseggiato, ebbene nel caso degli universi di Goedel è possibile fare una cosa analoga, solo che questa volta lo si fa non solo nello spazio, ma addirittura nello spazio tempo; si va avanti, si va avanti, si va avanti e ad un certo punto si ritorna indietro e ci si ritrova nello stesso punto, però nello stesso punto non soltanto spaziale, cioè nelle tre coordinate spaziali, ma nello stesso punto dello spazio tempo, cioè stesso luogo e stesso istante, cioè si è tornati indietro nel tempo, cioè Goedel dimostra che il viaggio all’indietro nel tempo non è contrario alle leggi della fisica moderna Se non piace, come infatti non piace alla maggior parte dei fisici moderni, allora non bastano l'equazioni della relatività generale per impedire che si possa fare questo viaggio all’indietro nel tempo, c'è bisogno di qualche cosa di più. Benissimo, abbiamo visto questa progressione dei risultati di Goedel, che partito dalla logica, arrivato alla matematica, risolti magari parzialmente i più importanti problemi, passa alla fisica, studia addirittura questo problema del tempo, dimostra che è possibile fare viaggi nel passato, che cosa gli rimaneva da fare? Ebbene, quando si è arrivati a questi livelli di astrazione, l'unica cosa che rimane oltre quello è Dio. E infatti Goedel s’interessa nell'ultima parte proprio della sua vita, nella parte finale della sua vita, della teologia e in particolare affronta la cosiddetta prova ontologica dell'esistenza di Dio. Questo signore che vedete qui è Santa Anselmo d'Aosta che nel 1079, verso la fine del 1000, aveva dimostrato, aveva introdotto una dimostrazione dell'esistenza di Dio. La dimostrazione fece parlare di sé praticamente per 900 anni, perché la famosa dimostrazione è praticamente una dimostrazione di struttura veramente matematica, cioè ha un assioma, ha una definizione, ha un enunciato e una dimostrazione. Qual'è la definizione? Beh, è una definizione di Dio. Che cosa è Dio? Dio è l'essere è che ha tutte le perfezioni. Qual'è l'assioma? L'assioma è che l'esistenza è una perfezione, meglio esistere che non esistere. E il teorema? Il teorema è che dio esiste. E la dimostrazione? Beh, la dimostrazione a questo punto è banale, perché se Dio è un essere che ha tutte le perfezioni e una delle perfezioni è l'esistenza e allora Dio ha quella proprietà lì e 131 dunque Dio esiste. Ora questa dimostrazione poteva andar bene nell’anno 1000 per l’appunto, poi col passare il tempo, con l'affinarsi dei metodi scolastici e ovviamente con l'arrivo della nuovo filosofia, della filosofia moderna, con Cartesio, soprattutto del razionalismo con Cartesio, con Leibniz, con Spinosa e così via, ebbene questo tipo di ragionamento continua ad attrarre i filosofi, ma la dimostrazione originale di Sant’Anselmo non soddisfa più. Ebbene nel 1970 Goedel studia la versione che Leibniz aveva dato di questa prova ontologica, che era già un rifacimento della versione di Cartesio e le dà una versione puramente matematica, puramente logica. Goedel non credeva nell'esistenza di Dio, però voleva in realtà dimostrare che era possibile riformulare questi argomenti da un punto di vista matematico e farli diventare qualche cosa che non avesse gli errori che invece i filosofi precedenti e i santi precedenti avevano in qualche modo fatto. Quindi vedete come questo percorso in realtà è stato un percorso veramente grandioso, cioè Goedel è partito con i problemi forse più terra terra, cioè legati alla logica, al linguaggio eccetera, è salito via via nel campo della astrazione, è arrivato alla teoria degli insiemi e poi addirittura è arrivato alla cosmologia e all'esistenza di Dio. Bene, questa è stata la lezione che in qualche modo ci ha introdotti al personaggio e ai risultati di Goedel, ma nella prossima lezione affronteremo da vicino questo suo famoso teorema di incompletezza, al quale abbiamo oggi soltanto accennato. Vi do appuntamento a quella che sarà la più importante lezione del nostro corso, cioè alla lezione sui teoremi e non sul personaggio di Goedel. LEZIONE 16: Metamorfosi di un teorema Benvenuti alla seconda lezione su Goedel, l'unica persona a cui dedicheremo in realtà due lezioni. Nel nostro corso, nella nostra serie di lezioni abbiamo parlato ogni volta di un personaggio, abbiamo cercato di introdurre le sue idee, i risultati, la sua vita e così via, però a Goedel dobbiamo ovviamente dare qualcosa di più. Goedel, come vi ho detto più volte, è in realtà il più grande logico certamente della contemporaneità, forse il più grande logico della storia insieme ad Aristotele, uno dei due più grandi logici e quindi è giusto che al teorema di Goedel o meglio a quello che viene considerato il teorema di Goedel dedichiamo un pochettino più di attenzione. Nella scorsa lezione abbiamo visto la vita e le opere di Goedel in una maniera più generale, abbiamo già accennato più di una volta, tra l'altro, a questo famoso “teorema di incompletezza” che dimostrò nel 1931 e quest'oggi è arrivato il momento di parlare un po’ più a fondo di questo teorema, cercare di spiegarlo, cercare di vedere da dove arriva e ovviamente lo faremo in maniera il più possibile indolore, cercando di andare a vedere anzitutto alcune metafore del teorema di Goedel, cioè cercare di capire che cosa questo teorema dice veramente, facendo degli esempi tratti di altri campi. Parleremo di fisica, di letteratura, di filosofia e così via e poi nella seconda parte della lezione andremo veramente a scavare un pochettino più a fondo per cercare di capire effettivamente quali sono i meccanismi che regolano questo teorema. E’ per questo che abbiamo chiamato questa lezione “metamorfosi di un teorema”, cioè i modi diversi di vedere questo teorema come si è presentato nella storia e come si può presentare nelle metafore. Cominciamo subito con la metamorfosi, che è la metafora più significativa e anche più semplice di tutte, cioè quella che arriva dal mondo fisico. Vediamo qui nella slide una rappresentazione del mondo fisico. Questo triangolono che vediamo è più o meno l'universo come si comporta, come si è espanso dal suo inizio, che come tutti sapete si chiama Big Bang Ebbene questo universo è cominciato ad un certo punto circa 15 miliardi di anni fa e ad un certo punto siamo arrivati nella sua storia, ma ciò che però possiamo vedere dell'universo è soltanto una sua piccola parte, cioè quello che viene chiamato l'orizzonte degli eventi dell'osservatore è la parte che possiamo osservare perché la luce ha già potuto percorrere la distanza che separa quella parte dell'universo da noi; come vedete dalla figura, questa parte dell'universo a cui possiamo accedere, che noi possiamo direttamente vedere, è soltanto una piccola parte dell'intero universo, cioè c'è tutta una parte dell'universo che è in qualche modo nascosta alla nostra osservazione e che noi non possiamo ancora vedere Ed ecco che allora una delle metafore del teorema di Goedel è quella che ho scritto qui sotto nella slide, cioè che “nessun osservatore può avere un'immagine completa dell'universo”, 132 in questo caso si tratta ovviamente di osservatori fisici, mentre nel caso di Goedel saranno osservatori matematici. Detta così non sembra una grande scoperta, però in un certo qual modo è certamente significativa ed è tipica anche del ‘900, è un teorema caratteristico di limitatezza o di limitazione delle possibilità umane.:L'uomo è qui, guarda l'universo intorno a sé, però può vedere soltanto una piccola parte dell'universo e quindi c'è una certa incompletezza, una certa incapacità della conoscenza a ricoprire tutto l'universo nella sua interezza. Questa è la prima metafora, vediamo più da vicino invece un qualche cosa che ci porta anche al vero teorema. Guardate questo testo di letteratura, abbiamo qui di fronte a noi un grande libro aperto, da una parte porremmo delle cose che si riferiscono alla letteratura e dall'altra parte faremo la metafora, cioè guarderemo invece ai sistemi matematici. Cominciamo anzitutto con la prima parte, cioè quando noi leggiamo un testo letterario ci troviamo di fronte per l’appunto un testo, cioè la storia che viene raccontata così come ha voluto raccontarcela l'autore. In matematica il corrispondente, il corrispettivo di un testo è quello che si chiamano gli assiomi. Gli assiomi sono praticamente le proposizioni che vengono poste agli inizi della storia e che noi consideriamo come un testo dal quale dobbiamo dedurre le cose, dal quale dobbiamo dedurre la nostra immagine di ciò che ci viene detto. La critica letteraria o perlomeno l'esegesi del testo è ciò che i matematici chiamano invece le dimostrazioni, cioè un tentativo di andare a fare un'analisi di ciò che l'autore ha scritto, così come i matematici fanno invece un'analisi di ciò che gli assiomi dicono, cercando di ricavare le conseguenze, anche le parti più recondite, quelle che magari l'autore ha soltanto in qualche modo accennato. La stessa cosa si fa in matematica, cercando di prendere questi assiomi e di analizzarli andando a vedere ciò che nascondono dietro l'apparenza. Ebbene il risultato di questa critica o di queste dimostrazioni sono nel caso della letteratura i cosiddetti aspetti impliciti, quelli di cui a prima vista non ci eravamo accorti perché il testo non ne parlava in maniera esplicita, che però si possono dedurre dalle informazioni che ci vengono date dall'autore. Ebbene i teoremi in matematica sono precisamente l'analogo di questi aspetti impliciti, cioè il tentativo di dedurre dagli assiomi ciò che era nascosto e tirarlo fuori attraverso dimostrazioni. Cosa c'entra il teorema di Goedel in tutto questo? Beh, anzitutto guardiamo che cosa succede in letteratura; prendiamo un testo letterario per esempio “i promessi sposi” e vediamo che cosa succede nella realtà descritta dai promessi sposi. Ebbene quello che qui ho scritto è precisamente una metafora del teorema di Goedel che dice “nessun testo descrive una realtà sufficientemente complessa in modo completo”. Ho fatto l'esempio dei promessi sposi perché tutti probabilmente siamo stati torturati a scuola, costretti a leggerlo e la domanda che vi potrei fare, una delle domande che vi potrei fare sui Promessi sposi è per esempio, che dopo tutte le vicende che, come ovviamente voi tutti sapete, si conclusero Felicemente, Renzo e Lucia si sposano, ebbero dei figli, ebbene quanti figli ebbero Renzo e Licia? Immagino che voi ci pensiate un momento, non vi viene in mente quanti figli ebbero, per un motivo molto preciso, perchè Manzoni dice semplicemente dopo di questo, dopo il primo figlio, ne ebbero chissà quanti altri e non precisa, non lascia determinato, qual'è il numero, la consistenza, diciamo così, della famiglia Tramaglino. Ebbene questo non è un'eccezione, perché è vero sempre che quando si ha di fronte a noi un testo che racconta una realtà che è sufficientemente complessa, non ci possono essere tutte le informazioni, per esempio il colore dei vestiti che Renzo aveva in un certo momento oppure, non so, la forma delle scarpe di Lucia quando scappava dai Bravi e così via, sono tantissime cose che il testo non riesce descrivere, cioè c’è una realtà, ma questa realtà è sottodeterminata in qualche modo, non si può raccontare in maniera completa. Ebbene questa ovvietà che si potrebbe dire letteraria, da un punto di vista 133 matematico diventa invece qualche cosa di molto profondo; così come nessun testo descrive una realtà letteraria sufficientemente complessa in maniera completa, ebbene nessun testo matematico, in questo caso nessun sistema aritmetico sufficientemente complesso è completo. Ecco però che quello che da un vista semplicemente letterario non ci dava forse molto fastidio, da un punto di vista matematico c'è ne da molto di più, perché di certo vi ricorderete quando abbiamo parlato di Frege, quando abbiamo parlato di Russell e di Wittgenstein, dell'idea, del sogno di poter arrivare a un sistema che fosse appunto una descrizione completa di tutta la matematica o perlomeno del sistema aritmetico, della realtà che tratta dei numeri interi, ebbene, purtroppo, il risultato di Goedel dice precisamente questo, che per quanto riguarda anche soltanto la piccola parte o perlomeno quella parte importante, certamente non totale della matematica che tratta dei numeri interi, già di questa parte non si può dare una descrizione completa, non ci può essere il libro, il testo letterario nel quale sono descritte, non esplicitamente ovviamente perché questo non ce lo potremmo aspettare, ma nemmeno implicitamente, tutte le proprietà del sistema, cioè qualunque sistema di assiomi che noi poniamo per i numeri interi sarà incompleto, non sarà una descrizione completa, ci saranno sempre delle verità aritmetiche che non sono né dimostrabili né refutabili all'interno di questo sistema, cioè il testo aritmetico della matematica non è completo; il che significa che non ci può mai essere la fine della storia, che la matematica se vogliamo paragonarla per l’appunto a qualcosa di letterario, non è un libro, ma è una biblioteca che non viene mai terminata perché bisogna sempre continuare ad aggiungere volumi uno dietro l'altro. Quindi qui vediamo che questa metafora che nel caso della letteratura permetteva alla letteratura di continuare a vivere, cioè nessun libro era completa, ma questo va bene, il che significa possiamo continuare a leggere altri romanzi, nel caso della matematica va un po' meno bene, comunque questa è effettivamente la realtà. Questa era la seconda nostra metafora, mentre la prima era una metafora fisica, il fatto che gli osservatori non possono ricoprire col loro sguardo, naturalmente non solo fisico, ma anche attraverso i telescopi l'intero universo, questa seconda metafora è letteraria, cioè nessun testo matematico ci può raccontare l'intera storia della matematica, ci sarà bisogno non soltanto di tanti testi, ma addirittura di infiniti testi, nessun numero finito di testi è sufficiente a dirla tutta per così dire. Bene, passiamo ad un'altra metafora che è ancora più vicina proprio alla dimostrazione del teorema di Goedel ed è una metafora che ci viene invece dalla filosofia. Questo signore nella slide lo riconoscere tutti, è ovviamente Kant; ebbene Kant scrisse un opera molto importante verso la fine del ‘700 e questa opera, come tutti almeno sapete dal titolo, si chiama “la critica della ragion pura”. Ebbene la critica della ragion pura è ovviamente un monumento della filosofia contemporanea, è il tentativo di mettere insieme da una parte il razionalismo di Cartesio, di Spinosa e dall'altra parte invece l’empiricismo, l'empirismo inglese di Hume e Locke e così via, cioè è un tentativo di sintesi ed è per questo che Kant effettivamente è considerato forse il più importante filosofo del ‘700, ma anche forse il più importante filosofo dell'era moderna. Ebbene tra le tante cose che si trovano nella “critica della ragion pura” si può guardare, come vogliamo fare noi adesso in questi brevi istanti, qual'è l'impianto, qual’è l'idea essenziale della critica della ragion pura. Ebbene l'idea l'ho espressa in questo modo, cioè l’idea di Kant è questa: “se la ragione vuole essere consistente, non può essere completa”. Cerchiamo di capire meglio che cosa significa questo; Kant aveva questa idea, che noi ci troviamo di fronte, quando parliamo con noi stessi o con altri, quando pensiamo alle nostre idee, al problema dell'estensione delle potenzialità della ragione. Ora ci sono in qualche modo due tensioni quando si parla di ragione, da una parte vogliamo che la ragione sia consistente, ricorderete, per esempio dalla lezione su Platone, che uno dei principi fondamentali della logica è per l’appunto il cosiddetto “principio di non contraddizione”, cioè noi possiamo dire una cosa oppure il suo contrario, ma non certamente possiamo dire la stessa cosa e il suo contrario nello stesso momento, perché questo sarebbe una contraddizione che è appunto contraria a tutta la storia, a tutto l'impianto della logica contemporanea e la mancanza di contraddizione è proprio ciò che si chiama consistenza. Quindi questo sembrerebbe essere una delle richieste fondamentali che noi imponiamo alla ragione, vogliamo che le ragioni sia consistente. Ebbene l'altra proprietà invece che ci piacerebbe che la ragione avesse, sarebbe la completezza, cioè riuscire con la sola ragione ad arrivare a capire praticamente tutto ciò che si può capire, 134 cioè ogni verità dovrebbe essere accessibile alla ragione. Questa completezza per l’appunto è l'altra faccia della medaglia, quindi da una parte la consistenza, la mancanza di contraddizioni, dall'altra parte la completezza, la possibilità di capire, di arrivare a capire ogni verità. Ebbene l'essenza della critica della ragion pura è proprio questo, cioè “se la ragione vuole essere consistente non può essere completa”, cioè queste due caratteristiche, queste due richieste non vanno d'accordo, perché se noi vogliamo avere la completezza non possiamo avere la consistenza e viceversa. Questo di nuovo è una limitazione della ragione umana, non si può avere tutto ciò che si piacerebbe avere, soltanto una di queste due possibilità. Vediamo più da vicino come Kant ha cercato di dimostrare questo suo appunto, ovviamente non possiamo fare in un minuto la critica della ragion pura, ma l'idea fondamentale di Kant è questa: quando la ragione si spinge ai suoi limiti estremi, ciò che trova sono le “idee trascendentali”, come lui le chiama. Le tipiche idee trascendentali sono il “concetto di Dio”, il Dimostrazione Le idee trascendentali, ottenute “concetto di anima”, il “concetto di mondo” e così via. Ebbene con passaggi al limite, quando si considerano queste idee trascendentali ottenute come producono contraddizioni dicevo con un passaggio al limite, spingendosi oltre le colonne d'Ercole della ragione, queste idee trascendentali producono delle contraddizioni, cioè una parte della critica della ragion pura è precisamente la parte delle cosiddette quattro antinomie della ragione, cioè chi arriva a considerare, chi si spinge oltre i limiti della ragione, perchè si cerca di avere la completezza e in particolare si vuole poter parlare di Dio, dell'anima, del mondo, si cade nell'inconsistenza, perchè si arriva a dimostrare delle antinomie, delle contraddizioni. Allora la completezza implica l'inconsistenza, il che significa per “il principio di contrapposizione” che abbiamo usato già più di una volta e che è stato trovato appunto da Aristotele, “completezza implica inconsistenza” e significa che,se noi vogliamo la consistenza, allora non possiamo avere la completezza. Quindi questo è l’impianto della critica della ragion pura ed è proprio ciò che in realtà poi Goedel fece poi per la matematica. Anche qui dire che un sistema consistente non può essere completo, è un buon modo di riformulare il teorema di Goedel di cui parleremo tra poco. Bene, avviciniamoci ancora un pochettino di più e cerchiamo questa volta di vedere la matematica, cioè un modo di affrontare il teorema di Goedel da un p. di v. matematico. Da un punto di vista matematico il teorema di Goedel si può dire molto facilmente, basta dire che “la verità è diversa dalla dimostrabilità”, ciò che è vero Matematica è un conto, ma ciò che si dimostra è solo una parte di tutto quello verità ≠ dalla dimostrabilità che è vero, cioè la verità non coincide con la dimostrabilità, non .. … ≠ si riesce a dimostrare tutta la verità, ci saranno delle cose vere ∞ ≠ 1 che non si riesce a dimostrare, questa è l'idea. Come mai? Oggi certamente non sarebbe poi così complicato convincersi della verità del teorema di Goedel, perché la verità coinvolge un numero potenzialmente infinito di quantificatori, cioè tutti, nessuno, qualcuno. che aveva già introdotto Aristotele: naturalmente si possono fare combinazioni a piacere di questi quantificatori e allora la verità è un qualche cosa la cui complessità è potenzialmente infinita, mentre invece la dimostrabilità è qualche cosa la cui complessità è molto semplice, cioè dire che una formula, un’affermazione è dimostrabile, significa dire che dunque esiste un solo quantificatore, esiste una sua dimostrazione. Allora può anche essere intuitivo questo fatto, che la verità è diversa dalla dimostrabilità, perché infiniti quantificatori sono diversi da uno, cioè praticamente dal p.di v. matematico il teorema di Goedel si riduce a questa constatazione, che l’infinito è diverso dal numero 1. Naturalmente questo è un po’ mascherato, ma questo è uno degli aspetti, l’aspetto matematico del teorema di Goedel. Vediamo più da vicino ancora una riformulazione matematica, in particolare aritmetica perché come ho già detto prima il teorema di Goedel riguarda in particolare “il romanzo” dell’aritmetica e quindi è bene guardare queste cose più da vicino. Aritmetica Consideriamo qui una proprietà che abbiamo chiamato P, ovviamente P = per ogni x e y, in onore di questo signore che era per l’appunto Pitagora; ebbene il contenuto del teorema di Pitagora, per lo meno del fatto che ci sono dei x2 ≠ 2x2 ¾ P vera se x, y interi numeri irrazionali, si può esprimere dicendo che per ogni x e y, per (V2 non è razionale) ogni numero x e y il quadrato di x è diverso da due volte il quadrato di ¾ P falsa se x, y reali y, cioè il rapporto tra x e y al quadrato non può essere uguale a 2, questo (V2 è reale) è il significato appunto di ciò che Pitagora scoprì come conseguenza del 135 suo famoso teorema, cioè il fatto, oggi diremo, che la radice di 2 è un numero irrazionale. Ebbene guardiamo allora questa proprietà P, questa proprietà è vera o falsa? Beh, ho appena detto naturalmente che questa proprietà è vera, se noi supponiamo che i numeri inseriti siano numeri interi, non c’è nessuna coppia di numeri interi il cui rapporto al quadrato è uguale a 2, quindi abbiamo qui una proprietà che è vera nel caso dei numeri interi perché la V2 non è un numero razionale; però se invece dei numeri interi noi considerassimo dei numeri reali, allora la V2 è ovviamente un numero irrazionale e ci sarebbero dei numeri x e y che hanno questa propriètà e quindi significa che noi abbiamo una proprietà che è vera in un caso quando noi interpretiamo queste variabili come se fossero dei numeri interi ed è falsa in un altro caso quando invece interpretiamo queste variabili come se fossero dei numeri reali. Ora com’è possibile che una proprietà sia vera e falsa? Beh, ovviamente stiamo parlando di ambienti diversi, però da questo fatto che una stessa proprietà è vera in un caso e falsa nell’altro, possiamo ricavare la seguente conseguenza: questa proprietà P, che praticamente esprime il fatto che la V2 non è razionale, non è né P non è dimostrabile né dimostrabile né refutabile in un qualunque sistema i cui assiomi refutabile in un sistema siano veri sia per i numeri interi che per i numeri reali. Come mai i cui assiomi valgano questo? Supponiamo di metterci in un sistema di assiomi in cui sia per i numeri interi gli assiomi siano veri in entrambi i casi, cioè sia che parlino dei che per i numeri reali numeri reali e sia che parlino dei numeri interi; per esempio una proprietà che vale in tutti e due i casi è questa: se prendiamo x e aggiungiamo a x zero, otteniamo ancora x, x + 0 = x; questo è vero sia che x sia un numero intero, sia che x sia un numero reale. Possiamo mettere una lista anche infinita di proprietà di questo genere, che sono vere sia per i numeri interi che per i numeri reali. Ebbene possiamo considerare questa lista come un particolare sistema di assiomi dell’aritmetica, come una particolare descrizione di questo romanzo dell’aritmetica, però comunque abbiamo qui una proposizione che non può essere né vera né falsa, cioè non può essere né dimostrabile né refutabile in quel sistema, perché? Ma perchè è una proposizione che è vera per i numeri interi, ma è falsa per i numeri reali; se gli assiomi sono veri in entrambi i casi, sia per i numeri interi che per i numeri reali, anche tutte le loro conseguenze dovranno essere vere sia per gli interi che per i numeri reali, ma qui abbiamo una formula che è vera in un caso e falsa nell’altro e quindi non è possibile che questa formula sia derivabile da assiomi che sono veri in tutti e due i casi. Ebbene questo è praticamente, quasi quasi il teorema di Goedel; l’unica differenza è che Godel riuscì a trovare una proposizione molto simile, fra l’altro, alla proposizione che abbiamo trattato poco prima, che non è né dimostrabile né refutabile in un qualunque sistema di assiomi in cui gli assiomi siano veri per i numeri interi, cioè Goedel riuscì a far cadere questo riferimento all’aritmetica dei numeri reali, che in effetti è qualche cosa che centra poco quando si parla dei numeri interi e questo sembrerebbe un piccolo miglioramento, in realtà è una grande complicazione da un punto di vista matematico; però l’idea è più o meno quella che già si ottiene dal teorema di Goedel, cioè ci sono cose che non si riescono né a dimostrare né a refutare in sistemi di assiomi, i cui assiomi siano veri per i numeri interi. Quindi siamo ormai arrivati praticamente al dunque. Come fece Goedel a dimostrare il suo teorema che adesso enunceremo per bene, di cui accenneremo alla dimostrazione. Bene, Goedel fece questo, cominciò a considerare la storia della logica e si rifece alla famosa antinomia con la quale abbiamo cominciato praticamente il nostro corso di lezioni, cioè la famosa antinomia del mentitore. Ve la ricordo brevemente, la nostra lezione si chiamava il naso di Pinocchio per l’appunto, perché era qualche cosa che aveva a che fare con la verità e con la menzogna. L'antinomia del mentitore che è dovuta ad Epimenide consiste Epimenide semplicemente nel considerare una frase che dice “io non sono vera” “io non sono vera” oppure considerare una persona, un pinocchio che dice” io sto mentendo”. Una frase di questo genere, è vera o falsa? Beh, vediamo da vicino che cosa succede: la frase che dice “io non sono vera” non può essere vera, perché? Perché se fosse vera quello che dice sarebbe vero, ma dice di dire falso, di non essere vera e allora se fosse vera sarebbe falsa. Questa è una cosa che non può Non può essere vera fare e quindi non può essere vera. Cosa succede nel caso contrario? (altrimenti direbbe il falso) Vediamo: non può nemmeno essere falsa, perché se fosse falsa, la frase che dice “io non sono vera”, sarebbe vero il contrario di quello che dice, ma dice di non essere vera, il suo contrario è essere vera e dunque se fosse falsa sarebbe vera. Sono sicuro che naturalmente la vostra testa sta girando come succede sempre ogni volta, anche a me tra l'altro, quando parlo di queste antinomie, 136 di questi paradossi, però se provate a farlo ovviamente su un foglio di carta o nell'ambito della vostra mente, vi accorgerete presto che effettivamente il dire “io non sono vera “ è un qualche cosa che non sta né in cielo né in terra, perché è una frase che non può essere né vera né falsa. Ora che cosa fece Goedel? Goedel fece un piccolo cambiamento a prima vista, che però provocò un grande sconquasso, cioè invece di considerare una frase che dice “io non sono vera” e di ottenere in questo modo un paradosso e quindi non saper bene che cosa fare, perché poi alla fine quando si ha di fronte a sé un paradosso, i paradossi sono sempre delle cose un po’ fastidiose, non si sa come risolverli, ebbene Goedel riuscì a fare una modifica del paradosso del mentitore che non è paradossale, che diventa appunto quello che si chiama il teorema di Goedel. Vediamo da vicino come arrivò a questa cosa Il cosiddetto primo teorema di incompletezza, perché vedremo presto che c’è ne un secondo che deriva da esso, ebbene in questo primo teorema di incompletezza, Goedel invece di considerare la frase che dice "io non sono vera", considera la frase che dice "io non sono dimostrabile", cioè fa questo passaggio appunto dalla verità alla dimostrabilità. Primo problema: "io non sono vera" è una Primo teorema di incompletezza frase punto e basta, perché o si è veri o non si è veri, mentre “io non sono dimostrabile in F” invece dire "io non sono dimostrabile" semplicemente non ha nessun senso, perché essere dimostrabili non è qualche cosa di assoluto, come la verità, ma è qualcosa di relativo al sistema di assiomi in cui ci si pone. Si può non essere dimostrabili in un certo sistema, ma poi magari si può diventare dimostrabili in un altro sistema; per esempio, un modo molto semplice per far sì che una certa formula sia dimostrabile consiste nel prenderla come assioma e certamente se prendiamo una formula come assioma, poi quella diventa dimostrabile perché l'abbiamo già presa agli inizi, quindi non si può dire così come si diceva "io non sono vera", non si può dire "io non sono dimostrabile", bensì bisogna dire "non sono dimostrabile in un certo sistema F ", che abbiamo indicato appunto con F , che sta per sistema formale. Allora per ciascun sistema formale F ci sarà in realtà una frase di Goedel e su questa dovremmo ragionare, in altre parole mentre il paradosso del mentitore lavorava in assoluto, valeva in assoluto, qui ci si riferisce ad un particolare sistema formale F che abbiamo fissato per il momento. Fissato questo sistema formale F, consideriamo la frase che dice "io non sono dimostrabile in quel sistema formale F" e vediamo che cosa succede, vediamo se otteniamo magari addirittura un paradosso analogo a quello del mentitore. Cominciamo subito con la prima parte; la prima parte è effettivamente la stessa storia del paradosso del mentitore, no? Vediamo questa frase che dice "io non sono dimostrabile", può essere dimostrabile? Anzi tutto dipende, dipende molto da come è fatto il sistema formale di cui stiamo parlando, ma supponiamo che il nostro sistema formale F sia un sistema che si chiama in logica " corretto", cioè un sistema che dimostra soltanto delle verità. Ebbene, se il sistema dimostra soltanto delle verità e se la frase che dice di se stessa "io non sono dimostrabile" fosse dimostrabile, allora avremo di fronte a noi una frase che è dimostrabile, che dice di non esserlo, dunque sarebbe falsa, però questo non è possibile perché il sistema è corretto, dimostra solo verità, quindi questo è lo stesso procedimento del paradosso del mentitore, sembreremo avviati verso la stessa via e dunque avviati verso gli stessi problemi; però attenzione nel caso della frase di Goedel le cose cambiano. ¾ Non può essere dimostrabile Abbiamo già ottenuto questo primo passo, che la frase se F corretto che dice "io non sono dimostrabile in un certo sistema (cioè se F dimostra solo verità) F", se il sistema è corretto effettivamente non è Non può essere refutabile dimostrabile e allora questo che cosa significa? Beh, (perché, non essendo dimostrabile, significa semplicemente che questa frase è vera, perché è vera e allora F non può dimostrare dice di non essere dimostrabile, non è dimostrabile, la sua negazione, che è falsa) dunque è vera. Allora se è vera, la sua negazione è falsa ovviamente, ma stiamo parlando di un sistema corretto, in un sistema corretto non è possibile dimostrare delle falsità, dunque la negazione della frase di Goedel non può essere dimostrabile, la frase stessa non può essere dimostrabile perché il sistema è corretto, dunque è vera, dunque la sua negazione neppure può essere dimostrabile se il sistema è corretto e allora siamo arrivati di fronte ad una frase che non è dimostrabile, la sua negazione non è dimostrabile, quindi la frase di partenza non è nemmeno refutabile, siamo arrivati di fronte ad una frase che il sistema non può descrivere. Abbiamo una frase che è vera, noi sappiamo che questa frase è vera, ma il sistema non può sapere se questa frase è vera oppure no. Non lo può sapere? Abbiamo appunto fatto vedere che questa frase non è dimostrabile e ovviamente non può nemmeno 137 dimostrare che questa frase è falsa, cioè la negazione di questa, perchè altrimenti dimostrerebbe una falsità, quindi con un piccolo cambiamento, piccolo per modo di dire ovviamente, effettivamente Goedel riuscì a dimostrare che c’è una frase che parla di se stessa, dice di non essere dimostrabile, è vera e non è dimostrabile e dunque non essendo dimostrabile, ma essendo vera, nemmeno la sua negazione è dimostrabile, Questo è molto peggio del giramento di testa che viene dopo un paradosso; effettivamente il teorema di Goedel quando apparve o meglio quando fu annunciato e enunciato da Goedel nel 1930-‘31, effettivamente fece scalpore, moltissimi non lo capirono, moltissimi continuarono a credere per anni che effettivamente fosse semplicemente una versione del paradosso, che ci fosse qualche inconsistenza nel ragionamento di Goedel, eccetera. Goedel aveva all’epoca 24 anni quando scoprì questo teorema, era praticamente il risultato che ottenne subito dopo la sua tesi di laurea, come abbiamo già detto nella scorsa lezione, la sua tesi di laurea nel 1930 dimostrò “il teorema di completezza della logica proposizionale e predicativa” e nel 1931 Goedel dimostra invece “l’incompletezza della aritmetica” e di tutto ciò che poi estende l’aritmetica, in particolare di qualunque sistema matematico che sia sufficientemente potente e sufficientemente grande da contenere in particolare l’aritmetica. Benissimo, vediamo allora che cosa si può dedurre da questo teorema; ebbene, la conseguenza più importante del teorema di Goedel o meglio il modo di formulare in maniera indipendente da questa formulazione che abbiamo visto prima, cioè da questa frase il teorema di Goedel, è il seguente: se noi prendiamo un sistema che sia vero matematico, cioè che sia corretto e abbiamo già visto che cosa significa corretto, lo ripeteremo fra poco, ma comunque brevemente possiamo dire che dimostra soltanto delle verità e che sia anche sufficientemente potente e su questo ritorno tra un momentino, allora questo sistema è incompleto. Incompleto significa che non può dimostrare Un sistema matematico corretto tutte le verità, cioè ci troviamo di fronte ad una verità, che e sufficientemente potente è vera perché appunto è una verità, ma non è dimostrabile; è incompleto qual’è questa verità che è vera, ma non dimostrabile? E’ proprio la frase che dice "io non sono dimostrabile". Ora tutto questo l’abbiamo già detto prima, abbiamo considerato l’ipotesi di correttezza, perché altrimenti non saremmo riusciti a derivare il fatto che la frase di Goedel non era dimostrabile, abbiamo dedotto l'incompletezza proprio dal fatto che c’è una verità che non è dimostrabile, non abbiamo parlato di questa aggiunta, il fatto che il sistema debba essere sufficientemente potente. Beh, qui sta veramente il trucco del teorema di Goedel, perché in realtà quello che abbiamo fatto noi è praticamente il gioco delle tre palle, cioè abbiamo fatto un pochettino i prestigiatori. Ora però, mentre nel caso del paradosso di Epimenide non c'era nessun trucco, cioè avevamo considerato la frase che dice "io non sono vera "oppure "io sono falsa" e poi avevamo visto quali erano le conseguenze di questa frase, nel caso del teorema di Goedel abbiamo considerato una frase che dice "io non sono dimostrabile in un certo sistema formale F", però questa è una frase del linguaggio naturale. Nel caso del paradosso del mentitore per l’appunto stavamo lavorando nel linguaggio naturale, ma nel caso del teorema di Goedel stavamo lavorando in un sistema formale per la matematica; nei sistemi formali per la matematica abbiamo soltanto delle formule. Ora come si fa a scrivere una formula che dica "io non sono dimostrabile in un certo sistema formale", ci sono alcune cose che abbiamo lasciato, per così dire, in sospeso. Il primo problema è questo fatto, cioè che si possa parlare, all'interno di un sistema formale, di dimostrabilità; in genere i sistemi formali, soprattutto quelli per i numeri, parlano di proprietà dei numeri, somma, prodotto, uguaglianze e così via, mentre qui invece abbiamo cercato di parlare di cose che erano al livello metà matematico, cioè non di cose che stanno dentro il sistema, ma di cose che stanno fuori e che noi guardiamo dall'alto, in particolare la dimostrabilità. Come possibile questo? Qui sta proprio il trucco della dimostrazione di Goedel, si tratta di far diventare in maniera molto pitagorica tutto numero, cioè di associare ad ogni parte del linguaggio un numero, in modo tale che poi alla fine tutto ciò che noi diciamo nel linguaggio si trasformi in numeri e dunque si possa parlare non delle frasi del linguaggio bensì dei numeri che le rappresentano. Oggi queste cose sono abbastanza normali, il linguaggio dei computer, come tutti sapete, è semplicemente fatto di zeri e uni. Voi scrivete sul computer fammi questa figura, per esempio oppure colora di rosso questa fa parte della figura, però poi il computer in realtà capisce soltanto zeri e uni. Anche prima che ci fosse il computer c'era questo modo di associare dei numeri a delle cose, per esempio, non so quanti di voi siano mai stati arrestati, che abbiano mai avuto queste belle foto segnaletiche di fronte al quale c’era un numero che identificava il carcerato, non so quanti di voi siano poi finiti in galera con un bel numero sullo stomaco che lo identificava 138 per l’appunto, ebbene il sistema di numerazione dei carcerati era precisamente questo: assegnare a ciascuno carcerato dei numeri, in modo che ci si potesse dimenticare del fatto che erano uomini, della loro identità e parlare soltanto di numeri. L'idea di Goedel non è molto diversa, cioè si tratta di fare un'enorme prigione, un enorme sistema carcerario in cui tutto diventa identificato in questo moto, se non vi piace la metafora del carcerato, perchè naturalmente è un po' fastidiosa, non ci piace pensare che noi potremo essere o siamo stati carcerati, ebbene pensate per esempio alla vostra automobile; anche quella in realtà la si identifica con una targa, che è semplicemente un numero oppure anche un sistema con delle lettere, quindi in realtà questo sistema di associare i numeri a cose, a persone, è un qualche cosa che si fa indipendentemente dal teorema di Goedel, però Goedel lo sfruttò a fondo e allora questa sufficiente potenza vuol dire proprio questo, cioè che il sistema che stiamo considerando è qualche cosa che ci permette di parlare dei numeri e dunque ci permette di fare ragionamenti sul linguaggio, però tramutati, travestiti da numeri. Questa è la prima cosa e la seconda cosa, il secondo aspetto di questa potenza sufficiente è il fatto che la frase di Goedel non dice soltanto non dimostrabile in esso, ma dice “io non sono dimostrabile in esso”; questa è una cosa un po' più complicata, cioè la possibilità di una formula di essere autoreferenziale, per il parlare di se stessi. Questo è qualche cosa che veramente è nuovo, perché in realtà nel linguaggio naturale si dice io, ma si parla di noi stessi, mentre invece nel linguaggio formale sembrava una cosa difficilissima riuscire a fare queste autoreferenze, queste circolarità e il trucco del teorema di Goedel, il trucco tecnico è proprio questo. Non vi posso spiegare qui, ma naturalmente vedrete sui testi che sono consigliati per queste lezioni, come Goedel arrivò a fare effettivamente questa autoreferenza. Ecco che allora, un sistema in cui è possibile fare autoreferenza e in cui è possibile parlare di dimostrabilità, permette di esprimere la frase che dice “io non sono dimostrabile in questo sistema”, dunque se il sistema è corretto, quella frase è vera e non è dimostrabile, cioè il sistema è incompleto, questa è l’idea del teorema di Goedel. Che cosa succede allora? Vediamo più brevemente, ma in maniera scritta per lo meno, quali erano queste ipotesi: “corretto” significa dire che il sistema non dimostra delle falsità, “sufficientemente potente” significa dire che il sistema permette di esprimere autoreferenze, io e concetti come la dimostrabilità e da ultimo “l'incompletezza” era semplicemente il fatto di dire che ci sono delle asserzioni non dimostrabili e non refutabili. ¾ Corretto = Questo è praticamente il teorema di Goedel e un non dimostra falsità accenno alla sua dimostrazione, però c'è certamente ¾ Sufficientemente potente = l'idea fondamentale, questo fatto di considerare la frase permette di esprimere autoreferenze che dice "io non sono dimostrabile". C'è un secondo e concetti come dimostrabilità teorema di Goedel, che si chiama “secondo teorema di incompletezza” che cercheremo di enunciare in questi ¾ Incompleto = ci sono asserzioni non dimostrabili brevi minuti che ci separano dalla fine della lezione. e non refutabili Consideriamo ora, esattamente come prima abbiamo considerato la frase P che si riferiva a Pitagora, la frase G che Goedel ha inventato, però non possiamo usare la sola frase G perché ce n'è una per ogni sistema formale, quindi usiamo la frase GF, con un indice Secondo teorema di incompletezza che sta ad indicare che stiamo nel sistema formale F, GF : ebbene qual'e la frase di Goedel? Dice "io non sono "io non sono dimostrabile in F" dimostrabile nel sistema F"; ebbene io sono proprio ovvero quella frase di Goedel, che dice semplicemente GF "GF non è dimostrabile in F" non è dimostrabile nel sistema F, va bene? Qual’era Il 1° teorema dice: il contenuto del primo teorema di Goedel? Il primo F corretto → GF teorema di Goedel diceva: se il sistema è corretto, la frase G con F non è dimostrabile in F, ma dire che la frase G con F non è dimostrabile in F è dire niente altro che G con F, perché G con F dice proprio questoo. Allora il primo teorema diceva “se abbiamo un sistema corretto allora vale questa frase”, però attenzione adesso, perché noi sappiamo già che questa formula non è dimostrabile nel sistema; se fosse possibile dimostrare all'interno del sistema formale corretto che il sistema formale è corretto, potremo dimostrare l'ipotesi di questa implicazione e dunque potremo dimostrare anche la sua conclusione, ma la sua conclusione è proprio la frase di cui Goedel ha dimostrato che non era dimostrabile e allora non è dimostrabile nemmeno il fatto che il sistema sia corretto. Ora questo 139 lo rivediamo, lo riduciamo in una maniera un pochettino più formale, cioè un sistema matematico che sia corretto, che sia sufficientemente potente e questo l’abbiamo gia visto, in cui vale il teorema di Goedel, cioè il fatto che se il sistema è formale allora vale quella certa frase in cui il primo teorema di Goedel sia dimostrabile all’interno del sistema, non può dimostrare di essere corretto. Questo è quello che in qualche modo fece scalpore perché sfrondato da tutti questi tecnicismi, diciamo così, che possono anche in qualche Un sistema matematico modo distrarre dal succo faccenda, il secondo teorema di ¾ corretto Goedel dice semplicemente che se voi avete di fronte un ¾ sufficientemente potente sistema corretto, che è quello che volete avere, cioè un ¾ in cui si può dimostrare sistema che non dimostra delle falsità, ebbene questo l'implicazione precedente sistema non può sapere lui di essere corretto, cioè non può non può dimostrare di essere corretto sapere che le cose che dimostra sono soltanto verità oppure se volete, avete di fronte a voi una persona che è l'analogo del sistema formale, questa persona non è fuori di testa, non è una persona pazza, ebbene se in altre parole ha la consistenza, diciamo così, dentro la sua testa, non può sapere di essere consistente. Il secondo teorema di Goedel dice semplicemente che le uniche persone che dicono guarda che “io non sono matto” sono quelle che sono effettivamente matte e in effetti tutte le scene che voi avete visto nei film e spero soltanto nei film, quando si porta in manicomio qualcuno in camicia di forza, in genere quello che viene detto da questo qualcuno è proprio la famosa frase “io non sono matto”. Le frasi frase del tipo “io non sono matto” le possono dire soltanto i matti. Le affermazioni del tipo “io sono corretto”, cioè non dimostro delle falsità, le possono dire soltanto “i sistemi che non lo sono corretti”, perché i sistemi che sono corretti non possono avere questa capacità. Questa è una grossa limitazione perchè significa che non ci può essere questa specie di autoriflessione che i sistemi matematici possono fare. Che cosa succede dopo Goedel? Questo in parte lo vedremo nelle successive lezioni, però quello che effettivamente si fece fu di togliere questo riferimento alla correttezza, che in qualche modo Miglioramento lega il sistema con il mondo esterno, che dice che le frasi che si Si sostituisce la dimostrano dentro il sistema sono vere, mentre vero è qualche correttezza (esterna) cosa che si riferisce al mondo, ebbene si sostituì questa ipotesi con la di correttezza con la sola consistenza. La consistenza non consistenza (interna) fa riferimento all'esterno, ma fa solo riferimento all'interno, significa che non è possibile dimostrare allo stesso tempo una frase e la sua negazione, non è possibile ottenere delle inconsistenze. Il teorema di Goedel vale anche sotto questa ipotesi più debole, quindi c’è la forma più forte del teorema di Goedel, in particolare un sistema consistente non può dimostrare la propria consistenza. Se ricordate questo era effettivamente quello che era il famoso problema di Hilbert, il tentativo di Hilbert di fondare la matematica in qualche modo che fosse autofondante, cioè cercare dimostrare la consistenza dei sistemi all'interno dei sistemi stessi. Questo teorema di Goedel riformulato in questo modo, riferito alla consistenza, distrusse in qualche modo proprio il programma, il sogno di Hilbert. Bene, io spero che non vi siate annoiati, che non abbiate avuto paura, questa è stata forse la lezione più tecnica che abbiamo fatto, ma valeva la pena, in qualche modo, di vedere più da vicino anche che cosa fanno i logici e anche di capire che effettivamente non si vive di soli aneddoti, perché molte delle nostre lezioni passate e anche qualcuna delle lezioni future si è un po’ limitata raccontare a grandi linee quello che succede. Oggi invece, abbiamo cercato di andare un pochettino più a fondo e di vedere effettivamente, perlomeno nel caso più l'importante della logica moderna, qual'era lo stato delle cose. La prossima volta ripartiremo di nuovo con qualcuna delle lezioni generali. 140 LEZIONE 17: Risposta a Pilato Benvenuti ad una lezione su uno dei temi centrali del nostro corso, la logica matematica in generale, anzi addirittura la logica, anche quella filosofica, cioè il tema della verità. Vi ricorderete siamo partiti dagli inizi parlando di uno dei paradossi più importanti, quello del mentitore, che oggi riprenderemo brevemente e abbiamo detto all’epoca, che proprio da questi paradossi, dallo studio della verità era nata la logica prima e poi la logica matematica in seguito. Oggi cercheremo di tirare le fila, dopo tutto quello che abbiamo gia detto riguardo ai vari personaggi e introdurremo in particolare uno dei personaggi più famosi della logica moderna che si chiama Alfred Tarski, che non è considerato forse al livello di Goedel, ma insomma poco dopo, forse il secondo logico, soprattutto negli anni ‘30, che ha portato un contributo essenziale a questo studio della logica matematica. La nostra lezione viene intitolata oggi “risposta a Pilato”, come mai? Sembra quasi una cosa blasfema, ma in realtà c’è un motivo molto preciso che vediamo subito. Nella slide c’è un'immagine della passione di Cristo che forse qualcuno di voi avrà riconosciuto, è la metà di un famoso quadro di Piero della Francesca che si chiama “la flagellazione”, manca la seconda parte del quadro, ma questo non ci interessava in questo momento; ebbene chiunque, anche coloro che non sono religiosi conoscono la storia di questa faccenda, cioè il fatto che uno dei due a un certo punto subì un processo e tra le varie traversie, tra le varie stazioni di questa via crucis, come ancora oggi viene chiamata, una di queste stazioni fu quando Gesù si trovò di fronte a Ponzio Pilato. Ci fu uno scambio di opinioni tra il governatore romano della Palestina dell’epoca e Gesù, per l’appunto, il profeta di questa nuova religione. La cosa che a noi interessa in questo particolare momento furono queste due frasi riportate qui sulla slide, cioè ad un certo punto Gesù parlava e disse una delle frasi che ripeteva spesso “io sono la verità”. Pilato gli chiese, gli domandò che cosa è la verità? Beh, la risposta ovviamente Pilato non stette ad aspettarla, io non so se Pilato fosse un logico matematico, se sapesse che la risposta a Gesù non avrebbe potuto dargliela, non perché non la conosceva, ma perché nessuno la sapeva. La verità non esiste all'interno del linguaggio, diremmo noi oggi dopo 2000 anni, ma di questo appunto parleremo quest'oggi. Quindi in altre parole cercheremo di andare a rispondere in maniera ovviamente non religiosa, in maniera scientifica alla domanda di Pilato che cos'è la verità? Ebbene poniamoci anche noi questa domanda e cerchiamo di andare a vedere, come abbiano trattato di questa domanda, anzitutto nel periodo passato, quando ci siamo interessati della logica al tempo dei greci, eccetera e poi anche di venire più vicini a noi e di vedere qual’è la soluzione al problema su che cosa sia la verità che è stata proposta nei tempi moderni. Dirò subito, che non c'è una soluzione, qui non c'è la soluzione del problema, ce ne sono tante, quella che a noi interessa di più, visto che questo è un corso di logica matematica, è la soluzione che diede Alfred Tarski, cioè la definizione formale della verità nel meta linguaggio e la dimostrazione che una definizione della verità nel linguaggio non esiste, però accenneremo molto brevemente al fatto che ci sono appunto altre teorie della verità, che forse sono state anche più influenti, più interessanti per coloro che studiano invece filosofia del linguaggio, che studiano filosofia in generale. Quindi volevo sottolineare appunto questo fatto, che noi cercheremo di dare questa risposta alla domanda di Pilato "che cos'è la verità", ma la daremo questa risposta ovviamente dal nostro p.di v., che è il p.di v. di un logico e di un matematico. Quindi cerchiamo di tracciare le fila allora di ciò che abbiamo detto finora, di andare a rivedere l'inizio della nostra storia. Ricorderete che abbiamo fatto questa lezione sul paradosso del mentitore di Eubulide del IV-V secolo a.C., che disse ad un certo punto "io sto mentendo". La storia del paradosso del mentitore non la sto a ripetere, potete andare a vederla in una delle prime lezioni, ma la cosa importante è rivedere qual’è il problema in Eubulide questa frase "io sto mentendo". E’una frase che apparentemente non può essere né (V secolo a. C.) vera né falsa, come mai? Proviamo a supporre che questa frase "io sto mentendo" Io sto mentendo sia vera; ebbene le frasi vere dicono la verità per l’appunto e allora ciò che dice questa frase, se è vera, dev’essere effettivamente così nel mondo, ma la fase dice “io sto mentendo”, quindi se è vera la frase che dice "io sto mentendo" dovrebbe anche essere falsa, perché è vero ciò che dice, ma dice di essere falsa. Quindi questa è un'ipotesi assurda, per così dire, non si può supporre che una frase “io 141 sto mentendo” sia vera, perché altrimenti sarebbe anche falsa. A prima vista uno potrebbe dire, allora sarà falsa; ebbene però, se noi supponiamo che questa frase sia falsa, allora dovrebbe essere vero il contrario di ciò che dice, ma poiché dice io sto mentendo, il contrario sarebbe “io sto dicendo la verità”, quindi anche supponendo che questa frase sia falsa si arriva al suo posto, ad una contraddizione; in altre parole, in breve se si suppone che la frase sia vera, allora si dimostra che è falsa e se si suppone che la frase sia falsa allora si dimostra che è vera ed ecco qui che i greci scoprirono un impasse praticamente, scoprirono che c'erano delle frasi, tra l'altro frasi anche molto semplice come questa, che ha semplicemente soggetto e predicato e nient'altro, ebbene frasi di questa semplicità che però mettono in forse, mettono in dubbio il cardine essenziale di quello che è la logica classica, cioè il fatto che le frasi, perlomeno le frasi affermative, cioè quelle che esprimono un pensiero compiuto debbano essere o vere o false, non tutte e due assieme e questo è il famoso “principio di non contraddizione” e almeno una delle due dev'essere vera, esattamente una delle due e questo è ” il principio del terzo escluso”. Quindi questa base, questo fondamento della logica classica, cioè di basare la teoria della verità praticamente sul fatto che ci siano due soli valori di verità, il vero e il falso, il fatto che ciascuna frase debba avere uno dei due valori di verità e non tutti e due, cioè ”il principio del terzo escluso” e “il principio di non contraddizione”, ebbene questa semplice teoria della verità viene messa in dubbio, viene in qualche modo minata dall’esistenza di un paradosso di questo genere appunto da una frase così semplice che dice “io sto mentendo”, che non può essere né vera né falsa, perché qualunque delle due supposizioni porta al suo contrario e dunque porta a una contraddizione. Questo è l'inizio, questo è il problema della verità, problema che in qualche modo forse poteva essere noto a Pilato, quando chiede a Gesù appunto che cos'è la verità. Voi direte insomma come potete sapere notizie di questo genere, perché in realtà ci sono delle testimonianze storiche; per esempio San Paolo nella lettera a Tito cita espressamente il paradosso del mentitore, lo conosceva, non lo aveva capito molto bene, se andate a rileggere la lettera a Tito, vi accorgerete subito che fa un po' di pasticci quando lo riprende, quando lo riporta, però certamente queste erano cose che ormai erano entrate nel saper comune, che risalivano al quinto secolo a. C.; San Paolo ovviamente e prima di lui Gesù Cristo vivevano nel primo secolo d. C. e quindi insomma qualche cosa si sapeva e non s’era certamente persa memoria di questi avvenimenti e allora andiamo a vedere che cos'è successo. Ovviamente prima di Gesù Cristo i filosofi greci incominciarono a cercare di avvicinarsi a precisare la nozione di verità, una definizione della verità. Il primo che cercò di fare questo fu Platone. Ecco qui nella slide Platone, lo abbiamo visto più volte nella rappresentazione di Raffaello, questa è l'ultima volta probabilmente che lo vediamo nelle nostre lezioni, questa è la famosa Scuola di Atene, Platone è colui che indica il cielo, il mondo delle idee, Aristotele invece è colui che guarda in basso al mondo della natura e naturalmente quando Raffaello fece questa immagine non aveva in mente quale fosse la figura di Platone, questo non ve l'ho mai detto, ma molti di voi lo sapranno, questa non è nient'altro che un'immagine di Leonardo da Vinci, cioè Raffaello si ispiro a Leonardo, al grande scienziato per rappresentare un grande pensatore come Platone. Che cosa fece Platone? Platone ovviamente nel campo della logica fece molte cose, se non ve le ricordate, ritornate alla lezione che abbiamo dedicato a lui, ma in particolare fece qualche cosa che ha a che fare con il problema di cui trattiamo oggi, cioè con la definizione di verità e in questo suo dialogo nel “sofista” diede per la prima volta nella storia quella che oggi viene considerata, spesse volte in maniera un pochettino riduttiva, la definizione di verità. Se voi leggete testi filosofici, si pensa quasi che questa sia la definizione di verità e Tarski in qualche modo fece cattiva propaganda a se stesso quando nel suo lungo articolo del 1936, un centinaio di pagine, affrontò questo problema della verità e diede poi quella che tra poco riporteremmo e che ricorderemmo e che divenne per i filosofi, finalmente per i filosofi, quasi la definizione di verità per antonomasia, ma in realtà non era su questo che Tarski aveva lavorato e vedremo meglio quali sono i problemi che aveva affrontato lui. La prima parte, quella che in genere viene citata nella definizione di verità, già risale in realtà al dialogo di Platone "il sofista", per cui prima vediamo meglio qual’è la definizione che Platone dà della verità. Ovviamente ci sono due parti: la definizione di verità deve dire quand'è che una frase vera e quand'è che una frase è falsa. Andiamo a vedere la prima parte anzitutto. Quand'è che qualche cosa è vero? Ci sono due casi e sono i casi, che ho scritto appunto sulla slide, cioè “è 142 vero dire di ciò che è che è e dire di ciò che non è che non è”. Ora questo sembra quasi uno scioglilingua, cerchiamo di capire meglio, di affrontare meglio il problema. Quand'è che una frase è vera? Una frase è vera quando ciò che dice effettivamente succede nel mondo, cioè questo significa dire di ciò che è che è; Definizione di verità significa che noi stiamo dicendo che qualcosa succede e questo Vero effettivamente succede nel mondo oppure il caso contrario, stiamo dicendo che qualcosa non succede, qualcosa non ha una = dire di ciò che è che è certa proprietà e questo non ce l’ha effettivamente nel mondo, = dire di ciò che non è che non è cioè in altre parole l’idea di Platone, della definizione di verità basilare, per i fatti atomici perlomeno, come diremo oggi nel linguaggio logico, cioè la definizione di verità è semplicemente che ci dev’essere corrispondenza tra ciò che si dice nel linguaggio e ciò che accade nel mondo, cioè un legame tra il linguaggio da una parte e i fatti e la realtà dall'altra. C'è l'altra faccia della medaglia, cioè dire quando una cosa è falsa. Ora è chiaro che una volta che si sa quand'è che una frase, un’affermazione è vera, il contrario varrà per definire quand’è che un'affermazione analoga è falsa; però vediamo anche questo più da vicino, cerchiamo di capire quand'è che una frase secondo Platone è falsa. Ebbene nella sua formulazione una frase è falsa quando “è falso dire di ciò che è che non è e dire di ciò che non è che è”. Si tratta semplicemente di capire che cosa Platone avesse in mente quando intendeva dire queste cose; ebbene “dire di ciò che è che non è”, significa fare una affermazione nel linguaggio che contraddice ciò che succede nel mondo, cioè si Falso dice che una cosa vale, che succede, che accade. quando in realtà = dire di ciò che è che non è poi nei fatti succede il contrario oppure si dice che una cosa non accade quando invece nella realtà essa accade. In altre parole, per = dire di ciò che non è che è dirla brevemente, la definizione di verità secondo Platone è semplicemente un accordo, come ho già detto prima, tra ciò che succede nel linguaggio e ciò che succede nel mondo. Se si afferma qualche cosa nel linguaggio, quella affermazione è vera se ciò che esprime è vero nel mondo e se si nega qualche cosa nel linguaggio, ebbene quella negazione è vera se effettivamente ciò che essa nega non accade nel mondo; viceversa invece, un'affermazione è falsa quando dice, afferma qualche cosa, ma nel mondo succede il contrario e una negazione è falsa quando invece nel mondo accade ciò che è. Quindi in altre parole ci deve essere accordo per l’appunto, una specie di isomorfismo avrebbe poi detto Wittgenstein qualche tempo dopo, un isomorfismo tra ciò che succede nel linguaggio e ciò che succede nel mondo. Ricordatevi però che Platone parlava a livello praticamente di quelli che abbiamo chiamato i predicati atomici, come raffigureremo noi oggi queste definizioni? La frase che citavo prima appunto, che poi Tarski ha reso noto nel suo linguaggio, è questa qui: la frase che dice "la neve è bianca" se e solo se la neve è bianca. Se però io lo dico a parole, ovviamente la cosa non si capisce assolutamente, perché dire che la neve bianca se e solo perché la neve è bianca, sembra una tautologia. E’ rosso ciò che rosso e così via; in realtà, notate nel motto scritto nella slide, la prima frase “la neve è bianca” è tra virgolette, la seconda frase “la neve è bianca” è senza virgolette. Che cosa significa questo? Significa dire che la frase “la neve è bianca “ è vera nel linguaggio se e solo se effettivamente la neve è bianca. La seconda parte senza virgolette esprime un fatto, mentre la prima parte tra virgolette esprime invece una citazione, sta parlando di una frase del linguaggio. Ecco qui la raffigurazione metaforica di questa frase “la neve è bianca”, abbiamo qualcuno che scia, ovviamente visto che queste sono cose che succedevano in Grecia, questi sono i campi del monte Olimpo, dove ovviamente c’è sempre molta neve e dove si scia da dei si potrebbe dire, ma non si scia da dio. Ebbene, scherzi a parte, comunque bisogna stare attenti, perché in realtà identificare questa con la definizione di verità sarebbe un errore nuovo. La neve è bianca se e solo se la neve è bianca, cioè la neve bianca tra virgolette, se e solo se la neve è bianca senza virgolette, è un'affermazione che definisce effettivamente che cosa vuol dire essere vero, ma lo definisce soltanto per frasi di questo genere, cioè frasi del tipo la neve è bianca. Ora queste frasi che cosa hanno? Hanno un soggetto, cioè la neve, hanno un predicato, cioè essere bianchi e la frase “la neve è bianca” è semplicemente un predicato applicato ad un soggetto. Ebbene queste frasi sono quelle che noi abbiamo chiamato formule atomiche, quando abbiamo 143 parlato di Crisippo agli inizi del caso proposizionale, allora la definizione di Platone era praticamente il primo passo, cioè diceva che cosa significa essere vero e naturalmente di conseguenza che cosa significa essere falso, ma soltanto per le formule più semplici, più rudimentali del linguaggio, cioè quelle che per l’appunto vengono chiamate formule atomiche. Ora il linguaggio in generale, ma soprattutto quello che a noi interessa il linguaggio matematico, è un linguaggio costruito a strati. Si parte dalle formule atomiche e per le formule atomiche la definizione di verità sarà questa qui, cioè una forma atomica è vera, se ciò che essa esprime succede effettivamente nel mondo, se c'è corrispondenza tra il linguaggio e il mondo stesso, fra il linguaggio e la realtà, ma non bastano le formule atomiche. Se noi parlassimo soltanto con formule atomiche saremo insomma quasi degli schizofrenici, diremmo la neve è bianca, oggi ho mangiato, eccetera, senza mai mettere insieme queste frasi, farle diventare delle cose più complicate e soprattutto senza mai fare dei ragionamenti, perché i ragionamenti fanno coinvolgere le particelle del linguaggio, tipo i connettivi, in particolare le implicazioni. Allora il secondo livello per la definizione di verità consiste nel dire quand'è che una frase composta è vera, una volta che noi sappiamo quando le sue componenti, cioè proprio queste frasi atomiche, sono vere o sono false, si tratta di fare un passo avanti oltre Platone, di non limitarsi soltanto alle frasi atomiche, ma di cominciare a considerare le frasi più complesse e questo è stato per l’appunto il secondo livello. Il secondo livello che ovviamente si fece molto in seguito a Platone; in realtà, subito dopo Platone venne Aristotele, ma anche Aristotele nella metafisica non va oltre la definizione di verità per via di Platone, molto spesso qualcuno dice che in realtà la definizione di verità la si trova per la prima volta nella metafisica, cioè si è consci che non fu Tarski a dare questa prima definizione, ma si pensa che Aristotele sia Aristotele stato il primo. Ora è vero che nella Metafisica, soprattutto nel quarto libro, nel libro Metafisica gamma della metafisica che è quello più logico, di cui abbiamo parlato spesso e soprattutto nella lezione dedicata ad Aristotele, c’è questa definizione di verità, cioè “è vero dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è” ed è falso dire di “ciò che è che non è e di ciò che non è che è”, sembra quasi uno scioglilingua, ma in realtà questo risale a Platone. Stavo dicendo insomma che bisogna salire ad un secondo livello, bisogna andare oltre e andare oltre significa andare alla logica degli stoici, cioè andare a fare questa seconda analisi del linguaggio, cioè “l'analisi proposizionale che consiste dei connettivi”. Questa analisi, come voi sapete, la fece Crisippo, al quale pure a lui abbiamo dedicato un'intera lezione, quindi vedete stiamo un po’cercando di tirare i fili di ciò che abbiamo detto, però concentrandoci questa volta su questo problema essenziale della verità, che è il centro, il nucleo della logica moderna ed anche antica. Crisippo diede come suo contributo massimo, essenziale alla logica, la definizione di cosa significa verità nel caso della logica proporzionale, delle formule proposizionali. Rivediamo allora brevemente, qual'è l'idea fondamentale di questa definizione di verità di Crisippo. Anzi tutto dobbiamo rivedere brevemente che cosa significa logica proposizionale. Abbiamo parlato poco fa di predicati atomici e la logica proporzionale mette insieme questi predicati atomici attraverso delle particelle del linguaggio che si chiamano appunto i Crisippo connettivi. Quali sono i connettivi? I connettivi sono i soliti, li abbiamo Verità proposizionali detti tante volte, ormai dovreste averli imparati anche voi che avete seguito queste lezioni, sono “la negazione”, “la congiunzione”, “la disgiunzione” e “l'implicazione”. In corrispondenza a ciascuno di questi quattro connettivi fondamentali della logica proporzionale, c'è una definizione di verità che va a dire quand'è che una negazione è vera o falsa, quand'è che una congiunzione è vera o falsa, quand'è che una disgiunzione è vera e falsa e quand'è che una implicazione è vera o falsa. Queste definizioni di verità sono il nucleo centrale della logica proporzionale, così come oggi viene insegnata attraverso, per esempio, le tavole di verità che risalgono a Wittgenstein, ma che è stata già introdotta e definita per la prima volta da Crisippo. E allora andiamo a ripassare anche queste nozioni, vediamo com’è definita la verità a livello proporzionale per i vari connettivi. Primo connettivo è la negazione: ricordatevi che questi sono i simboli quello logico e quello insiemistico che corrispondono alla Negazione (¬, –) negazione (¬, –). Quand'è che una negazione e vera e quand'è che una negazione è falsa? La negazione è un operatore che inverte il valore ¾ Negazione vera se negato falso di verità, tramuta il vero nel falso e il falso nel vero ed ecco che allora ¾ Negazione falsa se una negazione sarà vera se ciò che viene negato è falso e una negazione 144 negato vero sarà falsa se ciò che viene negato è vero. In altre parole, la definizione di verità della negazione si rifà completamente alla verità o falsità di ciò che viene negato; una volta che noi sappiamo che ciò che viene negato è vero o falso, sappiamo anche se è vera o falsa la sua negazione e in particolare basta prendere il valore di verità di ciò che viene negato, cambiarlo nel suo contrario, cioè cambiare il vero nel falso, il falso nel vero e si ottiene la definizione di verità per la negazione. Tutto questo è abbastanza banale e abbastanza semplice. Il prossimo passo è passare al “connettivo di congiunzione” e vediamo allora che cosa succede in questo caso Anzitutto abbiamo qui i due simboli quello logico e quello insiemistico che corrispondono alla congiunzione (^, ∩) ed ecco che abbiamo i seguenti due casi, cioè Congiunzione (^, ∩) dobbiamo dire quand'è che una congiunzione è vera e dobbiamo dire ¾ congiunzione vera se quand'è che una congiunzione è falsa. Nel caso della congiunzione tutti i congiunti veri abbiamo anzitutto un qualche cosa che è chiaro dagli inizi, cioè ¾ congiunzione falsa se stiamo dicendo che è vero questo e quell’altro e allora cosa vuol dire almeno un congiunto falso che è vera una congiunzione? Vuol dire che i suoi congiunti, cioè le due parti che formano la congiunzione sono tutti e due veri ed ecco perché abbiamo scritto da prima qui nella slide, che una congiunzione è vera se tutti i congiunti sono veri; dico tutti i congiunti perché si possono fare ovviamente congiunzioni non soltanto con due congiunti, questo e quello, ma con un numero qualunque, questo e quello e quell’altro e quell’altro ancora, eccetera e comunque una congiunzione, anche plurima in questo caso, è sempre vera nel caso in cui tutte le sue parti sono vere e allora di conseguenza abbiamo immediatamente che una congiunzione è falsa se almeno un congiunto è falso. Basta una delle cose di cui stiamo affermando la congiunzione, basta che una sia falsa per rendere falsa tutta la congiunzione. Ovviamente anche tutte le altre potrebbero essere vere, ma se noi diciamo è vero questo e quello e quello e quello e un primo congiunto è già falso, anche se tutti gli altri sono veri, ovviamente l’intera congiunzione rimarrà falsa. Quindi in questo modo, attraverso questa che praticamente è una forma verbale della tavola di verità della congiunzione, Crisippo riuscì a decidere che cosa significa verità per i due connettivi principali negazione e congiunzione. Quindi la negazione scambia fra di loro il valore di verità, vero e falso e la congiunzione è vera solo in un caso, cioè quando tutti i congiunti sono veri ed è falsa negli altri casi. Notate, nel caso di due congiunti, i casi sarebbero quattro, perché potrebbero essere tutti e due veri o tutti e due falsi o il primo vero e il secondo falso o il primo falso ed il secondo vero, ebbene questa definizione di verità dice che solo il caso in cui tutti e due sono veri rende la congiunzione vera, gli altri tre casi, sono tutti casi che rendono la congiunzione falsa. Ora non ci sarebbe bisogno di andare oltre, perché si potrebbe definire tutta la logica proposizionale, anzi si può definire la logica proposizionale usando soltanto i due connettivi fondamentali, cioè negazione e congiunzione, però naturalmente si possono dare direttamente le definizioni di verità anche per gli altri connettivi ed quello che adesso facciamo direttamente senza preoccupazioni. Quand’è che la disgiunzione è vera e quand’è che la disgiunzione è falsa? Innanzi tutto, qui ci sono i due simboli che si riferiscono alla disgiunzione, come al solito quello logico e quello insiemistico (V, U). Ora la disgiunzione è praticamente il contrario, cioè si comporta in una maniera che i logici tecnicamente Disgiunzione (V, U) chiamano duale rispetto alla congiunzione. Nel caso congiunzione ¾ disgiunzione falsa se c’era un solo caso in cui la disgiunzione era vera ed era quello in cui tutti i disgiunti falsi tutti i congiunti fossero veri, ebbene qui nel caso della disgiunzione ¾ disgiunzione vera se la cosa è analoga, poiché si comporta al contrario, cioè è analoga al almeno un disgiunto vero caso della falsità. Questo significa che una disgiunzione è falsa, quando tutti i suoi disgiunti sono falsi. Se stiamo dicendo che o questo succede oppure quell’altro oppure quell’altro oppure quell’altro, c’è un solo caso in cui non è vero quello che stiamo dicendo ed è quando tutte queste cose, tutte queste alternative che noi stiamo mettendo insieme sono tutte false. Quindi la disgiunzione è falsa solo in un caso, quando tutti i disgiunti sono falsi e allora in tutti gli altri casi la disgiunzione sarà vera. Ora però quali sono tutti gli altri casi? Se non è vero che tutti i disgiunti sono falsi, almeno uno di essi sarà vero ed ecco che la disgiunzione è vera se almeno un disgiunto è vero. Allora in questo modo abbiamo praticamente data la definizione di verità dei tre connettivi più semplici, più elementari, cioè negazione, congiunzione e disgiunzione; in particolare siamo riusciti a ridurre verità o falsità della congiunzione, della disgiunzione e della negazione, alla verità o falsità delle cose che vengono negate o che vengono congiunte o che vengono disgiunte. Rimane ancora un connettivo, che come ho già detto prima si potrebbe eliminare, 145 perché ovviamente questo connettivo, l'implicazione, si può definire in base a questi altri, cioè in base alla negazione e alla congiunzione oppure in base alla negazione e alla disgiunzione; però possiamo andare a vedere direttamente come viene definita la verità per l'implicazione, perché anche questo è istruttivo. Al solito abbiamo la tabellina, le due forme sintattiche della negazione, i due simboli che corrispondono alla negazione, il primo è quello logico e il secondo è quello insiemistico(=>, ). Quand’è che una implicazione è vera o quand'è che un'implicazione è falsa? Implicazione (=>, ) Qui le cose sono un pochettino più complicate, però ricorderete ¾ implicazione falsa se dalla lezione di Crisippo, che Crisippo riuscì proprio in questo o ipotesi vera e conclusione falsa meglio la Scuola Megarica riuscì più che la Scuola stoica, ¾ implicazione vera se riuscirono comunque questi greci, a definire il valore di verità ipotesi falsa o conclusione vera dell'implicazione, usando soltanto i valori di verità della premessa e della conclusione di questa implicazione. Come fecero ad arrivare a questa definizione vero funzionale, l'abbiamo chiamata, dell'implicazione? Ebbene lo fecero appunto andando ad analizzare la definizione di verità di questa implicazione ed in particolare osservando la prima parte della nostra slide, cioè “l'implicazione è falsa se l'ipotesi è vera e la conclusione è falsa”. Facciamo un momento di meditazione su questo, perchè questo è un punto veramente centrale. Cosa significa quando noi partiamo da un'ipotesi vera, facciamo un ragionamento ed arriviamo alla fine ad ottenere una conclusione falsa? Siamo partiti dal vero, abbiamo fatto un ragionamento, siamo arrivati al falso ed è chiaro che il ragionamento dev’essere stato sbagliato, perché se il ragionamento fosse stato corretto e questo è il motivo per cui si ragiona, partendo dal vero, facendo un ragionamento corretto, saremo arrivati a qualche cosa di vero e invece qualcosa è andato storto, cioè siamo partiti dal vero, abbiamo fatto un ragionamento e siamo arrivati al falso. Quello che è andato storto e precisamente l'implicazione. Allora un'implicazione in cui si parta dal vero, cioè la premesse è vera e si arrivi al falso, cioè a una conclusione falsa, deve essere un ragionamento sbagliato e per questo abbiamo scritto che un'implicazione è falsa, se l'ipotesi è vera e la conclusione è falsa. Benissimo su questo, come si dice, non ci piove. Il problema è: gli altri casi come funzionano? Cioè quando si parte, per esempio, dal vero e si arriva al vero, il ragionamento è corretto? A prima vista ovviamente non c'è nessun motivo di credere che il ragionamento sia corretto, si potrebbe essere partiti da un'affermazione vera, aver fatto un ragionamento completamente fuori dal seminato e poi dopo essere arrivati comunque ad una conclusione vera oppure essere partiti dal vero ed essere arrivati appunto a qualche cosa di diverso. Allora se si parte dal vero e si arriva ad una conclusione vera, questo non è automaticamente un motivo per credere che il ragionamento sia corretto, però quello che a noi interessa sono soltanto i valori di verità. Se siamo arrivati ad una conclusione vera, non c'importa da dove siamo partiti e questa è l'idea per l’appunto fondamentale della logica stoica, della logica di Crisippo, in altre parole quella condizione che abbiamo visto prima, che è una condizione necessaria per la verità della implicazione, cioè non può essere vera un'implicazione che parte da un ipotesi vera e arriva a una conclusione falsa, se questa condizione la si mette a testa in giù e la si fa diventare una condizione, direbbero i matematici, necessaria e sufficiente, la si fa diventare una definizione dell'implicazione, allora l'implicazione è falsa soltanto nel primo caso e in tutti gli altri casi è vera. Allora oltre al primo al caso in cui l’ipotesi è vera e la conclusione è falsa, gli altri casi sono quelli in cui l'ipotesi è falsa oppure la conclusione è vera. Ed ecco allora che abbiamo la seconda parte della nostra definizione di verità per l'implicazione: un'implicazione è vera se o l’ipotesi è falsa o la conclusione è vera. Questa è quella che dall'epoca della Scuola Megarica e della Scuola stoica viene considerata come la definizione della implicazione. Questo è il campo di implicazione megarica oppure se volete di implicazione vero funzionale. È un tentativo, riuscito tra l'altro, di completamente dimenticarsi di tutti i connotati semantici, diciamo così, del ragionamento, limitarsi soltanto al fatto di vedere se l'ipotesi è vera o falsa e se la conclusione è vera o falsa. In base a queste quattro possibilità, ipotesi vera o falsa, conclusione vera o falsa, tutte combinate fra di loro, ebbene abbiamo una definizione vero funzionale della implicazione. Bene, cosa abbiamo fatto finora? Abbiamo ricordato la soluzione di Platone e Aristotele per quanto riguarda la definizione di verità delle formule atomiche, abbiamo ricordato la definizione vero funzionale delle formule proporzionali data da Crisippo nella logica stoica. Che cosa rimane? Beh, rimane quello che è stato introdotto di nuovo nella logica moderna. Ora questo che è stato introdotto di nuovo da Frege in avanti sono stati i quantificatori praticamente, lo studio di tutti, qualcuno, nessuno. Ora sembrerebbe a questo punto 146 molto semplice estendere la definizione di verità e l'idea sarebbe la seguente che ho indicato però come problema nella slide, quindi capirete che c'è qualche cosa che non va. Anzitutto cominciamo a considerare, ricordatevi, la frase famosa: la neve è bianca, tra virgolette, se e solo se la neve è bianca, senza virgolette, cioè una frase che dice la neve è bianca è vera se e solo se effettivamente succede che la neve sia bianca nel Problema mondo.Come si può pensare di risolvere la questione della verità in una frase che “per ogni x, A(x)” faccia intervenire un quantificatore, per esempio questo quantificatore universale se e solo se “per ogni”. Si potrebbe dire la frase che dice: “per ogni x, A di x” è vero, cioè la per ogni x, A(x) frase è vera se e solo se effettivamente nel mondo per ogni x., A di x è vero. Ora qui però c'è un problema ed è per questo che appunto abbiamo intitolato questa slide problema. Il problema è che mentre questo trucchetto di Platone e di Aristotele funzionava per quanto riguarda le formule atomiche, nel caso dei quantificatori la cosa non funziona più, perché? Ma perché la neve è bianca senza o con virgolette sono due cose che hanno senso indipendentemente; però dire qui “per ogni x, A di x”, effettivamente questa è una frase che tutta insieme ha senso, ma se noi diciamo “per ogni x, A di x“ e vogliamo andare a vedere se “A di x è vero”, ecco che questo non ha più nessun senso, perché qui c'è una variabile, sarebbe come se io vi chiedessi: è vero che x è uguale due? Voi mi direste, ma scusi, che cosa significa x, perché fino a quando non mi si dice che cosa vuol dire x, allora effettivamente io non posso dire se x è uguale due oppure no; posso dire se ogni x è uguale a due, questo è chiaramente falso perché ci sono molti x che non sono uguali a due oppure se qualche x è uguale due, allora questo è certamente vero perché qualche x in particolare 2 è uguale a 2, ma nel momento in cui io lascio cadere questo quantificatore, lascio cadere “per ogni” oppure “in qualche caso”, ebbene ecco che rimane qui una frase, rimane una formula tipo A di x, per esempio x uguale 2 che non ha più nessun senso, perché c'è una variabile. Questo è il vero problema che i logici hanno dovuto affrontare negli anni ‘30, non il problema che la neve sia bianca oppure no, che appunto sapevano già risolvere Crisippo e ovviamente anche i filosofi dell'antichità greca. Allora chi risolse questo problema? Chi risolse questo problema fu Tarski e il modo in cui lo risolse fu anzitutto introdurre una distinzione tra il linguaggio e il meta linguaggio; non vi posso dire nei dettagli qual’è effettivamente la soluzione, posso soltanto accennarla e l'idea di Tarski è che effettivamente noi non possiamo dire che x è uguale 2 è vero o falso, perché dipende da che cosa significa x, però possiamo Tarski far finta di non avere delle variabili, cioè possiamo introdurre, possiamo (1936) ampliare il nostro linguaggio, mettendoci dentro dei nomi che corrispondono Linguaggio e ad ogni oggetto e allora una volta che abbiamo dei nomi che corrispondono a metalinguaggio ogni oggetto, dire per ogni x, A di x è vero significherà andare a vedere se è vero che A vale per ogni cosa di cui abbiamo un nome, cioè poiché, abbiamo dato nome ad ogni cosa, questo significa precisamente andare a vedere se A è vero per ogni cosa che esiste nel mondo. E’chiaro che detta così questa soluzione sembrerà assolutamente fumosa, non si può d'altra parte parlare così di fronte ad una telecamera, raccontare quello che è una definizione, una soluzione piuttosto tecnica. La cosa importante per noi è comunque ricordarsi anzitutto che Tarski introdusse questa distinzione di livelli tra linguaggio e metalinguaggio e ciò che riuscì a fare fu questo: anzitutto capire che stiamo cercando di definire la verità in un certo linguaggio, il linguaggio è ciò di cui trattiamo; per esempio quando stiamo cercando di imparare una lingua straniera, per esempio l’inglese, andiamo a scuola e ovviamente le prime cose che ci vengono dette sono in italiano, noi stiamo cercando di imparare l'inglese, ma parliamo fra di noi con la professoressa o il professore in italiano,; ecco allora che abbiamo due lingue, la lingua di cui si sta parlando, che è l'inglese e la lingua nella quale si parla di quell'altra lingua che viene chiamata invece metalinguaggio, che è l’italiano. Ebbene in matematica succede la stessa cosa; la lingua di cui si sta parlando viene chiamata il linguaggio e la lingua nella quale si parla di quell'altra lingua viene chiamata metalinguaggio e la scoperta di Tarski fu che queste due cose sono separate fra di loro. La prima parte della scoperta di Taski fu capire che si può definire la verità nel meta linguaggio, non all'interno del linguaggio stesso. Definibilità nel metalinguaggio La verità si definisce nel caso di Tarski per le formule atomiche, ¾ formule atomiche come faceva Platone ed Aristotele, nel caso dei connettivi come faceva Crisippo, nel caso dei quantificatori in questo modo che ¾ connettivi ¾ quantificatori vi ho detto, cioè allargando il linguaggio, introducendo nomi per tutti gli oggetti che ci sono nel mondo. Questa però è una definibilità della verità nel metalinguaggio. Che 147 cosa succede nel linguaggio? Nel linguaggio succede quello che ci si potrebbe aspettare, cioè succede che il paradosso del mentitore si può riprodurre, si potrebbe riprodurre all'interno del linguaggio se ci fosse una definizione di verità che sta dentro al linguaggio e allora il teorema di Tarski dice che questa definizione Indefinibilità nel linguaggio che lui ha dato e qualunque altra definizione della verità, si può Paradosso del mentitore dare nel meta linguaggio, ma non si può trasferire all'interno del linguaggio, in altre parole Tarski ha scoperto, esattamente come Goedel, una limitazione del linguaggio formale, del linguaggio matematico, nessun linguaggio matematico può contenere la propria definizione di verità, perché se lo potesse fare si potrebbe riprodurre il paradosso del mentitore. Come vi detto prima, naturalmente queste non sono le uniche teorie del linguaggio che sono state proposte. Ed ecco che allora vi faccio vedere semplicemente qui le figure di due personaggi, due famosi filosofi, Austin che è questo signore qui in primo piano e Kripke che è questo signore che gli sta dietro alle spalle gridacchiandosela. Sono due filosofi degli anni 50, uno più vicino a noi, ancora tutt’ora in attività negli anni ‘70-‘80, due fra i tanti, che hanno proposto teorie alternative a quella di Tarski per la verità. Come mai? Perché quella di Tarski non funziona? Funziona ovviamente benissimo, però in realtà funziona per i linguaggi formali, cioè i linguaggi tipo quelli della logica matematica, i linguaggi della matematica e delle scienze, ciò che Tarski non riuscì a fare fu quello di dare una definizione di verità per l'intero campo dei linguaggi; per esempio per l'italiano, per l’inglese, per i linguaggi soliti che noi usiamo nella vita. Austin e Kripke cercarono di fare questo e in particolare vi dico soltanto due delle parole essenziali di queste nuove teorie, Austin (qui scherzosamente abbiamo introdotto invece che la foto di Austin, la foto di un qualcosa che si chiama Austin pure lei, cioè la famosa mini minor, che era fatta dalla casa automobilistica Austin e si chiamava la Austin mini), ebbene, l'idea della teoria del linguaggio di Austin, è quella che il linguaggio si riferisce soltanto a situazioni, non c'è una verità assoluta praticamente nell'empireo, ma ci sono soltanto verità relative a certe situazioni, ciò che può essere vero in una situazione può essere falso in un'altra situazione, tutto deve essere riferito alla situazione. Dunque la teoria del linguaggio di Austin è qualche cosa che non parla di verità di una frase, ma parla di verità di una frase in una certa situazione, introduce qualche cosa di più. Invece Kripke fece qualcosa di diverso, nel 1975 fece una teoria che parla di atterraggio; ovviamente quando parliamo di atterraggio pensiamo ad aerei ed ecco che per questo che abbiamo messo qui in questa figura. L’idea di Kripke è che le frasi del linguaggio comune possono essere anche molto complicate, ovviamente molto più complicate di quelle del linguaggio formale; la semplicità del linguaggio formale, rispetto a quello del linguaggio naturale, è che praticamente noi prendiamo una qualunque frase, la scomponiamo, togliamo i quantificatori, togliamo i connettivi, arriviamo alla fine a qualche cosa che sono le formule atomiche, delle quali formule atomiche la verità è nota, perchè si riferisce appunto a quel trucchetto di Platone e Aristotele “la neve è bianca se e solo se la neve bianca”. Kripke dice il linguaggio naturale è qualcosa di molto più complicato, quindi in generale non è possibile fare questa discesa cioè scomporre le frasi, diciamo così, in modo da arrivare a delle costituenti atomiche alle quali ci si può riferire per definire la verità, però dice Kripke in qualche modo bisogna avere appunto un atterraggio, perché ci sono tante frasi che non hanno nessun valore di verità, proprio perché in qualche modo non riescono mai a discendere dal livello dell’astrazione fino ad atterrare a livello della concretezza. In altre parole, la teoria di Kripke fa vedere che è possibile in certe situazioni non assegnare i valori di verità a delle frasi e questo in qualche modo si ricollega al problema che il paradosso del mentitore già aveva già messo in luce agli inizi di questa storia, cioè in altre parole le frasi che possono essere dichiarate vere o false effettivamente sono soltanto 148 quelle che prima o poi riescono ad atterrare dall’astrazione nella concretezza e allora riescono a fondarsi sul mondo reale. Naturalmente non ho preteso in questo modo di riuscire a spiegarvi quale fosse la teoria di Austin nel caso delle situazioni o la teoria di kripke nel caso dell'atterraggio, però certamente volevo almeno dirvi che in realtà la soluzione di Tarski che viene considerata più che soddisfacente per quanto riguarda i linguaggi formali, non è sufficiente per quanto riguarda invece i linguaggi naturali. Per i linguaggi naturali la storia è un pochettino più complicata e quindi effettivamente bisogna fare qualche cosa di più. Che cosa bisogna fare di più adesso dal p.di v.nostro? Beh, noi siamo arrivati alla fine di questa lezione, quasi alla fine ormai del nostro corso sulla verità, comunque ho voluto soffermarmi per un'intera lezione, perché questo era uno dei punti centrali della nostra storia e in effetti era uno dei punti con i quali siamo partiti. Abbiamo detto che uno degli scoprì della logica moderna era precisamente quello di arrivare a definire esattamente quali sono i confini della verità, ebbene credo che vi ho fatto vedere, più o meno, che attraverso passaggi successivi, attraverso Platone, Aristotele e Crisippo e poi altri si è effettivamente riusciti Wilde a risolvere questo problema. Termino questa lezione semplicemente “chi dice la verità prima con una battuta, che è una battuta di Oscar Wilde, che riguarda la verità o poi viene scoperto” e questo potreste impararlo attenzione, perchè diceva Oscar Wilde: chi dice la verità prima poi viene scoperto. Ebbene allora vi rilascio con questo gioco di parole e vi do appuntamento per le ultime lezione del corso di logica che ci rimangono. . 149 LEZIONE 18: L’enigma dell’informatica Benvenuti all'ultima lezione sui personaggi della logica. Non è l'ultima lezione del nostro corso, ne faremo ancora due di seguito, le prossime due, che poi saranno lezioni di ricapitolazione e invece questa è l'ultima lezione nella quale ci interessiamo di un personaggio, come abbiamo fatto praticamente per tutto il corso. Questo personaggio forse è uno tra i più interessanti tra quelli della logica matematica, è un personaggio ovviamente abbastanza recente, contemporaneo, è vissuto nella prima metà del secolo e si chiama Alan Turing . La nostra lezione si intitola "l'enigma dell'informatica", come mai? Vediamo anzitutto perché il termine enigma, in effetti questo personaggio ha avuto una vita che è stata in molti sensi, in molti versi enigmatica, ma c’è anche un motivo più preciso che dirò al momento opportuno. Inoltre come mai dell'informatica? Perché, vi ricorderete, abbiamo iniziato la nostra carrellata dei personaggi, la nostra storia della logica ai tempi della Grecia, ai tempi quindi della filosofia e poi ci siamo accorti pian piano che la logica stava mutando aspetto, è incominciata come un'analisi filosofica e tra l'altro i primi logici erano per l’appunto dei filosofi; ricorderete i nomi dei primi grandi logici dei quali abbiamo parlato, Platone, Aristotele, Crisippo e così via, poi siamo arrivati attraverso il Medioevo, attraverso la Scolastica e poi nell'800 ci siamo accorti che la logica matematica ha avuto quasi una mutazione genetica, cioè è diventata, per l’appunto quello che indica l'aggettivo nella seconda parte del suo nome, cioè è diventata parte della matematica, cioè è partita come un'analisi filosofica del ragionamento, è diventata un'analisi matematica del ragionamento matematico. Ebbene questa è stata la sua seconda vita, la sua seconda pelle come i serpenti, ma nell'ultima parte della nostra storia, che è anche poi tra l'altro quella che ci introduce ai tempi moderni, vedete qui vicino a me appunto un computer, ebbene dicevo nell'ultima parte della sua storia la logica matematica è stata collegata con l'informatica, collegata addirittura in un senso molto preciso, perché l'informatica, cioè lo studio dei computer è nata proprio da problematiche logiche ed è nata soprattutto con il personaggio del quale parliamo oggi che si chiama Alan Turing. Come al solito introduciamo perlomeno i paletti della sua vita, la data di nascita e la data di morte. Turing è nato nel 1912 ed è morto nel 1954; noterete subito immediatamente che morto piuttosto giovane, ha 42 anni e spiegheremo anche come mai, non è morto in maniera naturale, si è suicidato addirittura e vedremo anche perché si è suicidato. Ebbene però dobbiamo incominciare a vedere quali sono stati i risultati, le problematiche che Turing ha studiato nella sua vita e quali sono stati soprattutto i frutti di questa sua ricerca. Turing è stato veramente un personaggio singolare, anche perché nella sua vita, nella sue ricerche ha trattato gli argomenti che hanno spaziato dall'analisi dei primi computer, dalla invenzione dei primi computer fino a cose completamente slegate apparentemente da quelle che ho appena detto, come lo spionaggio, lo studio del DNA e così via; quindi avremo in questa nostra lezione da spaziare in argomenti che sono abbastanza diversi uno dall'altro. Andiamo a vedere meglio la lista di questi argomenti, la lista di questi contributi che Turing ha lasciato al pensiero moderno. Questi contributi, come vedete, sono parecchi; noi ci concentreremo meglio su cinque punti , che sono anzitutto le macchine Turing, quelle che portano il suo nome; poi parleremo di spionaggio e vedremo come mai, parleremo di informatica, di intelligenza 1. macchine di Turing artificiale e morfogenesi. Argomenti che, come vi ho detto, non sono 2. spionaggio completamente legati l'uno all'altro, perchè Turing in realtà come tra 3. informatica l'altro succede spesso agli scienziati, ha fatto nella sua vita sempre la 4. intelligenza artificiale stessa cosa, cioè aveva un interesse particolare che era quello di cercare 5. morfogenesi di capire, di carpire anzi addirittura i segreti che stavano nascosti, scritti da qualche parte in qualche linguaggio. Ecco che allora, questa idea di carpire i segreti è un po' quello che è il filo conduttore, diciamo così, di questa sua ricerca, perchè ovviamente la ricerca sulle macchine di Turing era il tentativo di capire quali sono i segreti della macchina, cioè cercare di vedere che cosa può fare una macchina, che cosa può pensare una macchina, che cosa può calcolare una macchina. Lo spionaggio, non c'è bisogno che lo dica, ovviamente lì il carpire segreti è effettivamente la questione centrale, la questione cruciale. L'informatica è nata per l’appunto da una realizzazione pratica di quelle che sono state le macchine 150 di Turing, che invece erano un modello teorico di calcolatore. L'intelligenza artificiale è cercare di spingere ai limiti del possibile le potenzialità del computer.Turing è stato colui che ha inventato praticamente, che ha sognato, non si sa se questo sia un sogno o un incubo e naturalmente se questa è un'attività onirica dipende dai p.di v. sul quale dei due aspetti sia determinante, comunque Turing è stato il primo che effettivamente ha sognato di far pensare le macchine, cioè ha cercato di carpire il segreto per l’appunto del pensiero e di riuscire a metterlo addirittura su una macchina e poi la morfogenesi, cioè il tentativo di capire com’è possibile creare degli organismi come quelli che sono viventi, dalle piccole cose della vita, dalle piccole piante eccetera, fino a quelle più grandi, animali, uomo e così via. Com’è possibile creare delle forme che abbiano altre dimensioni a partire da un'informazione che come tutti sappiamo è codificata nel DNA. Questi sono le direttive, diciamo così, del pensiero e della ricerca di Turing. Andiamo pian piano a vedere da vicino che cosa ha fatto effettivamente Turing nella sua vita e ovviamente il suo nome, come ho già detto, è legato a questa invenzione che si chiama macchina di Turing. La macchina di Turing, Turing l’ha studiata nel periodo che va dal ‘36 al ‘39. Vi ho detto che Turing è nato nel 1912, quindi nel 36 aveva 24 anni. La domanda che si pose praticamente per scrivere la sua tesi è: che cosa si può calcolare meccanicamente, cioè che cos'è possibile far 1. Macchine di Turing Cha cosa è calcolabile fare a una macchina dal p.di v. dei calcoli? Ora, anzi tutto, richiamiamo meccanicamente? la questione dell’incompletezza di Goedel, perchè qui si ripete la stessa e storia sattamente, cioè Turing che è nato nel 1912, fa la sua prima grande ricerca, la sua prima scoperta nel 1936, cioè a 24 anni, esattamente l'età che aveva Goedel quando fece la sua tesi di laurea e dimostrò il suo primo grande teorema di completezza della logica dei predicati e come ricorderete dalle due lezioni che abbiamo fatto su Goedel, nel 1931 a 25 anni dimostra il suo teorema più noto, quello che gli ha dato la rinomanza che ancora oggi ha, il famoso teorema di incompletezza, che era il tentativo di far vedere che i sistemi matematici usuali sono incompleti, cioè ci sono, ricorderete la metafora che abbiamo usato facendo vedere un immagine di un mafioso, delle verità indimostrabili, ebbene queste due cose di Turing e Goedel non sono slegate. Ora questo teorema naturalmente all'epoca fece un certo scalpore, la sua dimostrazione era abbastanza complicata, perlomeno per gli schemi tecnici dell'epoca e allora molte persone cercarono di studiare questa dimostrazione e di riformularla in una maniera diversa e questo precisamente è quello che fece Turing nella sua tesi agli inizi, cioè cercare di dire: io vorrei riformulare questi teoremi di Goedel in una maniera che sia più lontana possibile da questa astrazione legata alla matematica e più vicina possibile alla concretezza, di quello che oggi noi diremmo dei computer, ma all'epoca ricordiamoci che i computer non c'erano. In questo tentativo di riformulare l'essenza del teorema di Goedel attraverso un modellino meccanico Turing arrivò appunto alla progettazione, diciamo così, teorica di quelle che oggi si chiamano le macchine di Turing. La domanda come ho detto è: che cosa è calcolabile meccanicamente? Ora cerchiamo di vedere più da vicino che cosa effettivamente fece Turing. Dunque anzitutto voi sapete, lo avete provato anche voi, perché sarete andati a comprare, a fare la spesa al mercato, in un negozio e così via, avrete dovuto prima o poi fare dei calcoli e quando si fanno dei calcoli in genere si seguono delle regole, che sono regole meccaniche, cioè s'insegnano queste regolette ai ragazzi già nelle scuole elementari e fare calcoli, fare di conto non è una cosa molto complicata, ma appunto l'idea di Turing è che questo fare di conto, questo fare calcoli, dovrebbe esser qualcosa di talmente poco complicato, che dovrebbe essere possibile farlo fare direttamente ad una macchina. Ora questa è un'idea vecchia come il mondo ovviamente, non è stato Turing il primo a pensare di costruire delle macchine che potessero fare i conti. Infatti i primi che hanno provato al mondo a fare delle vere e proprie macchine calcolatrici, notate macchine calcolatrici e non un calcolatore, dirò presto qual è la differenza fra queste due approcci, dicevo, quelli che hanno provato a fare questo primo tentativo sono questi due signori, che notate sono stati due filosofi, cioè Pascal, questo signore che sta sulla sinistra e Leibniz che invece abbiamo già visto più volte nelle nostre lezioni precedenti, tutti e due vissuti nel secolo diciassettesimo, nel 1600 e la loro risposta perlomeno provvisoria era che è possibile calcolare meccanicamente perlomeno la somma ed il prodotto di numeri interi, cioè per esempio fare 3+5 non è complicato, lo può 151 fare certamente una macchinetta, fare 3 x 5 è un pochettino più complicato, ma certamente non è una cosa così stratosferica da non essere possibile da essere fatta da una macchina. Ora che cosa fece effettivamente anzitutto Pascal? Pascal costruì un meccanismo che era fatto attraverso delle ruote dentate e questo meccanismo era la prima macchina, la prima vera e propria macchina calcolatrice della storia, cioè ruote che giravano in maniera che si potesse impostare sulle varie rotelle le cifre dei numeri che si volevano sommare e qualcuno di voi forse ricorderà, certamente non i più giovani, ma io ricordo ancora mio padre per esempio, che aveva una vecchia calcolatrice a manovella, questa manovella appunto girava, si impostavano i numeri facendo praticamente girare delle rotelle, si faceva girare questa manovella tante volte quanto serviva e si facevano in questo modo le somme. Io come potete vedere non è che abbia 200 anni, cioè sono nato del 1950, questo vuol dire che quando io ero bambino ancora negli anni ‘50, negli anni ‘60, questo era il modo in cui venivano fatti i calcoli in maniera automatica negli uffici normalmente. C'erano già ovviamente computer a quell'epoca, ma non erano così ubiqui come sono oggi su tutte le scrivanie, anche dove non dovrebbero essere forse. Ebbene dicevo, l'inizio di questa storia, diciamo così, della meccanizzazione del calcolo, è per l’appunto la macchinetta di Pascal e poi Leibniz che era un gran matematico, come vi ho già detto più volte e che è stato colui che ha inventato addirittura anche l'analisi infinitesimale, il calcolo infinitesimale insieme a Newton, migliorò questa invenzione di Pascal, la migliorò facendo fare alla macchinetta di Pascal, aggiungendo ovviamente alcune rotelle, cambiando un pochettino il meccanismo, anche i prodotti. Ora all’epoca si pensava che questa fosse la fine, perché in realtà facendo girare le rotelle al contrario invece di fare le somme si potevano fare le sottrazioni, facendo girare al contrario le rotelle della macchinetta di Leibniz, invece di fare i prodotti, si potevano fare le divisioni, quindi le quattro operazioni fondamentali, quelle che sono per l’appunto la base dell'aritmetica, cioè somma, prodotto, sottrazione e divisione. Queste quattro operazioni fondamentali dopo Leibniz e Pascal si potevano meccanizzare, cioè c'erano delle macchinette, le famose macchine calcolatrici, che potevano fare queste operazioni. Ora per i matematici la storia finisce lì, perché i matematici sanno che tutte le altre operazioni delle quali si fa uso nella matematica correntemente, vengono definite a partire dalla somma e il prodotto, anzi addirittura già il prodotto è definito a partire dalla somma, perché il prodotto è, quello che dicono i matematici, una iterazione della somma e poi iterando via via il prodotto si ottengono le funzioni esponenziali, tutti gli esponenziali e così via. Quindi praticamente tutte le altre funzioni sono combinazioni della somma e del prodotto, al punto che quando si dovete dare un'assiomatizzazione della aritmetica, Peano, Dedekind, Hilbert e così via, cercarono quali erano le verità fondamentali dell'aritmetica e scoprirono appunto che era necessario dare le proprietà fondamentali di somma e prodotto, il resto seguiva. Però ovviamente è molto complicato ridurre tutto a somma e prodotto; quindi man mano che crescono le necessità, man mano che c'è bisogno di calcolare più funzioni, le macchine calcolatrici di una volta diventavano via via più grosse, si faceva quello che aveva incominciato a fare Leibniz, cioè si potenziava via via la macchinetta di Pascal e si aggiungevano nuove funzioni. Qualcuno di voi ricorderà che ancora qualche anno fa, questa volta non nel ‘30-‘40, ma una decina di anni, una quindicina di anni fa semplicemente, si andava in giro con nel taschino una di queste calcolatrici tascabili, Texas-intrument per esempio, che avevano alcuni tipi di operazione aritmetiche, cioè c'erano ovviamente la somma e prodotto, c'erano a volte le radici, gli esponenziali, i logaritmi, le funzione trigonometriche e così via, un certo stock, una certa quantità di funzioni che queste macchine potevano calcolare. Il problema di quest'approccio è precisamente che ogni volta che si vuole avere una calcolatrice più potente, bisogna aggiungere delle funzioni, bisogna aggiungere delle rotelle. Naturalmente queste prime macchine calcolatrici erano fatte per l’appunto in maniera meccanica, poi pian piano sono diventate macchine elettriche, macchine elettroniche, si dovevano aggiungere dei circuiti, cioè non ci sarebbe stata mai fine in teoria all’aggiunta di quello che si poteva mettere in una macchina calcolatrice, ma l'idea fondamentale di Turing, nel 1936, fu di capovolgere l'intera questione. Turing si pose la domanda che abbiamo detto, cioè “che cos'è che si può calcolare attraverso la macchina”, diede questa risposta che oggi sarebbe forse una risposta banale, ma che non lo era perché all'epoca non c'erano i computer, la risposta di Turing è che si può calcolare mediante una macchina esattamente ciò che può calcolare un computer. Ora cerchiamo meglio di qualificare questa sua risposta, cioè Turing capii che non si doveva continuare a potenziare via via le macchine calcolatrici facendole diventare sempre più grandi, sempre più potenti, ma era sufficiente trovare una sola macchina che avesse un 152 minimo di potenza necessaria per leggere quello che oggi si chiamano semplicemente i programmi, cioè si trattava non di ampliare la macchina, ma di arrivare ad una macchina che fosse in grado di leggere ed seguire programmi e allora tutto il calcolo sarebbe stato riversato sul programma e la calcolatrice in questo caso diventa una calcolatrice universale, cioè calcolatore Questa fu un'idea veramente geniale, notate 1936, prima che s’inventassero quelli che si chiamavano i computer; anzi in realtà fu proprio Turing a capire che da questa sua invenzione, che appunto era partita da problematiche completamente logiche, cioè il tentativo di riformulare il teorema di Goedel, sarebbe stata possibile costruire effettivamente una macchina Turing (1936) universale in grado di fare praticamente tutti i calcoli possibili. Ebbene Ciò che può calcolare vi ricordate, l’ho appena detto poche frasi fa, l’idea Turing era in realtà un computer quella di riformulare i teoremi di limitazione che Goedel aveva scoperto nella sua ricerca e allora il famoso teorema per cui Turing introdusse queste macchine si chiamava “il problema della fermata”, cioè Turing all’epoca era interessato alle limitazioni del meccanismo del calcolatore o del computer e solo in seguito poi l'accento venne spostato sulle potenzialità di questa macchina. E allora come mai e abbiamo messo qui un cartello di stop? Appunto perchè Turing riformulò le limitazioni dei sistemi formali in termini di macchine e divenne famoso questo problema che lui introdusse, che si chiama il problema della fermata. In altre parole i computer appunto si programmano, questi programmi possono essere programmi che a volte danno dei risultati quando li si usa con certi dati e altre volte invece possono non dare dei risultati, possono entrare in quella che è ormai un'espressione linguistica inglese, ma che è diventata di uso comune, cioè quella che si chiama entrare in loop, che significa semplicemente un circolo vizioso, incominciare a circolare; ebbene le macchine calcolatori fanno praticamente questo a volte, quando il programma li porta a fare questo. Allora ci si trova di fronte a due comportamenti diversi del computer, da una parte un comportamento per cui il computer lavora per un certo periodo di tempo, magari molto lungo, ma poi ad un certo punto si ferma con una risposta e che dice la risposta è questa, il risultato del calcolo è questo oppure c'è questa possibilità che il computer entri in loop ad un certo punto e che quindi abbia questo comportamento infinito praticamente, non si ferma mai. Allora Turing si chiese: è possibile distinguere a priori, dal di fuori, quando dato un certo programma e dato un certo input, il programma su quell'input lì si fermerà oppure no? Questo è quello che appunto viene chiamato il problema della fermata; la fermata ha a che fare con il fatto che il calcolo prima o poi arriva ad un risultato, dunque si ferma oppure prosegue all'infinito. Ebbene Turing riuscì a dimostrare che questo problema della fermata è indecidibile, non c'è nessun modo meccanico, non c'è nessun algoritmo, non c'è nessuno computer che sappia in generale risolvere questo problema della fermata. Quindi vi accorgerete qui che c’è una limitazione, un teorema di impossibilità ed è proprio questa la versione che Turing diede dei risultati di incompletezza, dei risultati di indecidibilità che erano stati scoperti da Goedel e da i suoi seguaci nella logica matematica. Quindi una versione completamente diversa legata alla macchina. Bene, fatto questo, che cosa fece Turing? Era passato un pochettino di tempo, arrivarono gli anni della guerra e Turing nel ‘40 – ‘45 incominciò a lavorare per lo spionaggio inglese. Naturalmente qui abbiamo messo il simbolo dello spionaggio, cioè il Pentagono americano; gli inglesi e americani comunque erano alleati e quello che fecero gli americani e gli inglesi, in particolare il team di Turing, fu una cosa che ebbe un grande influsso sulla guerra, cioè i tedeschi usavano ovviamente un meccanismo per codificare i loro messaggi, lanciavano degli ordini, ogni mattina si alzavano come tutti naturalmente, però lanciavano anzi tutto la codifica del linguaggio che avrebbero usato durante la giornata e poi da quel momento lì in poi davano gli ordini soltanto in questa maniera codificata, che si chiama appunto in gergo tecnico crittografato, cioè in qualche modo mascheravano i loro ordini, li traducevano in una lingua che non 153 era possibile tradurre per coloro che non avessero a disposizione la macchina di traduzione e qual'è la questa macchina? Questa macchina si chiamava l’Enigma, eccola qua, questa è una foto ovviamente, si capisce abbastanza poco da una foto, ma potete vedere comunque un certo numero di rotelle. Non era nient'altro che una macchina calcolatrice, ma era una macchina che non serviva in questo caso per fare dei calcoli, serviva bensì per codificare le lettere dell'alfabeto; in altre parole queste rotelline avevano un certo numero di dentini, ciascun dentino corrispondeva ad una lettera dell'alfabeto, venivano piazzate agli inizi della giornata in una maniera che era completamente casuale e dunque non c'era modo di prevedere come sarebbe stata la disposizione di queste rotelline e da quel momento in poi e per tutta la giornata i messaggi venivano codificati scrivendo al posto della A la lettera che la prima la rotella diceva di scrivere, al posto delle altre lettere quello che dicevano le altre rotelle e la cosa diventava molto complicata. Ovviamente è sempre stato molto utile sapere durante la giornata come venivano codificati i messaggi, perché i tedeschi erano sicuri che nessuno sarebbe riuscito a decodificare i loro messaggi, a decodificare il loro trucco crittografico e quindi tranquillamente continuavano a trasmettere senza nessuna preoccupazione i loro ordini. Ebbene lavorando per l’appunto a questo problema, Turing riuscì effettivamente a decodificare il linguaggio degli Enigma. Agli inizi ci volle molto tempo, cioè ci volevano alcuni giorni per riuscire a capire come funzionavano i messaggi di una certa giornata. È chiaro che dal punto di vista bellico non era molto utile sapere una settimana dopo quali erano stati gli ordini, ma alla fine le cose si affinarono e negli ultimi anni della guerra, pensate voi, i tedeschi lanciavano questi messaggi, comunicavano tra di loro e senza sapere che effettivamente i comandi alleati riuscivano a decrittare i loro messaggi praticamente in tempo reale, questo grazie Turing, a lavoro di Turing che aveva già fatto appunto sulle macchine di Turing e che però riuscì in qualche modo ad applicare anche alla crittografia e ci furono anche degli episodi piuttosto tragici, poiché non si poteva far capire ai tedeschi che ormai si era capito quale era il loro linguaggio perché altrimenti avrebbero cambiato il metodo e tutto il vantaggio se ne sarebbe andato in fumo e quindi molte volte quando la cosa era piuttosto grave allora sì esitava, si faceva finta di arrivare per caso magari sul luogo del bombardamento, dove i tedeschi avevano detto la mattina che sarebbero andati e riuscire a fermare le navi, le portaerei, gli aerei e così via. Altre volte purtroppo quando l'obiettivo magari non era così importante, gli alleati fecero finta di nulla, quindi sapevano che i tedeschi sarebbero andati a bombardare una città, sarebbero andati magari a distruggere un paese e così via, stavano zitti, facevano finta di nulla e forse con la morte nel cuore vedevano queste distruzioni. Comunque questo è un aspetto un po' strano, cioè quest'uso bellico del calcolatore. Che cosa successe negli anni immediatamente successivi? Beh, successe che proprio queste ricerche arrivarono a produrre quello che oggi viene chiamato l'informatica. 3. Informatica Notate, gli anni sono tra i ‘45 e ‘50, quindi immediatamente dopo la fine (1945-1959) della guerra e l'informatica non è nient'altro che la costruzione pratica di quelli Costruzione che sono effettivamente i computer teorici, che Turing si era inventato nella del computer sua tesi di laurea. Ora come mai l'informatica nacque da questi problemi? Ma perché, proprio da una parte Turing, quando doveva fare questo lavoro di controspionaggio e dall'altra parte in America, quando gli americani stavano cercando di costruire la bomba atomica, si accorsero che c'era bisogno di fare un enorme numero di calcoli e questo enorme numero di calcoli, come veniva fatto? Oggi l'avremmo fatto con i computer, ma all'epoca non c'erano i computer, quindi c'era una schiera di signorine letteralmente, cioè tante ragazze che venivano arruolate, decine di migliaia, pensate voi, a Los Alamos e poi in Inghilterra e queste ragazze funzionavano come oggi funzionano tutti i computer, cioè erano dedicate a fare tutto il giorno sempre la stessa operazione. Qualcuno scriveva un programma e diceva tu fai quello, tu fai quello, tu fai quell'altro e questa specie di orchestra che aveva ovviamente un direttore, quello che noi oggi chiameremo il programmatore, faceva questi calcoli enormi. Dopo la guerra, con più tranquillità, sia Turing da una parte che Von Neumann dall'altra pensarono che forse sarebbe stato meglio automatizzare questa cosa. L'idea del computer nacque per l’appunto da problemi veri, lo spionaggio da una parte e la bomba atomica, il nucleare dall'altra. Guardate qui, vi faccio vedere due foto dei primi computer, questo è il 154 computer al quale lavorò Turing in Inghilterra, si chiamava Colossus e come vedete il nome era perfettamente adeguato. Il computer di oggi, che ha un piccolo hard disk, come quello che abbiamo, per esempio sul nostro tavolo, è enormemente più potente di questo Colossus che Turing aveva a disposizione. In realtà oggi questi computer sono i computer di quelli che all'epoca sarebbero stati supercalcolatori. Guardate come il computer in realtà prendesse l'intera stanza e poi anche stanze vicine; guardate qui i nastri che giravano attraverso le rotelle, i famosi loop, che oggi naturalmente sono semplicemente correnti elettriche che passano dentro il calcolatore. Guardate qui delle valvole che si intravedono e naturalmente i primi computer venivano programmati in questo modo, cioè si andava col camice bianco e col cacciavite, quando si doveva aprire un programma non si batteva mica sul tasto della tastiera come si fa oggi, com'è facile fare, ma bisognava andava a svitare delle valvole, cambiare il posto delle valvole e cambiando le valvole si cambiava la struttura del computer, lo si riprogrammava. Quindi una cosa completamente diversa e per questo, fino a quando non furono inventati i computer da tavola, l'informatica era qualche cosa per addetti ai lavori. Un'immagine invece dell'altro computer, il famoso Eniac, che fu costruito negli stessi anni in America da Von Neumann è questo qui. Anche qui vedete un enorme batteria di aggeggi che venivano usati e questa la foto di Von Neumann orgoglioso vicino al suo giocattolo, vicino a questo Eniac. L’informatica nacque precisamente da queste problematiche qui, con la costruzione di queste enormi macchine, di questi enormi cervelli elettronici. Allora la metafora dei cervelli elettronici fu un qualche cosa che prese in qualche modo la spinta da queste ricerche e fece arrivare Turing a proporre una domanda che sarebbe stata abbastanza imbarazzante. Siamo nel 1950, Turing si pone la domanda fatidica. A questo punto le macchine che noi abbiamo costruito, che io Turing prima ho progettato e poi ho contribuito a realizzare fisicamente, queste macchine che sanno fare questi calcoli in maniera molto veloce, in maniera molto più “reliable” direbbero gli inglesi, affidabile, di quanto non potessero fare forse le signorine dell'epoca, ebbene queste macchine possono addirittura pensare? Cioè è possibile credere che ad un certo punto le macchine si svilupperanno così tanto da diventare quasi l'analogo degli esseri umani e del loro cervello? Questa è la grande domanda di ciò che oggi si chiama il progetto dell’intelligenza artificiale. Notate che del progetto della intelligenza artificiale oggi se ne parla parecchio, ma in realtà è nato di nuovo nella mente di Turing, in un famoso articolo del 1950. Qui abbiamo un esempio di questa intelligenza artificiale, qui nella slide, tutti voi lo avrete riconosciuto, è una scena de film "2001 Odissea nello spazio" e lì c'era questo computer che mandava effettivamente avanti l'intera astronave, questo è uno degli astronauti che vanno a toccare la memoria del computer; vi ricorderete che mettevano dentro cassette che facevano parte della memoria dei computer; però questa è fantascienza ovviamente. Questa invece era una domanda scientifica, cioè Turing voleva scrivere non il copione di un film, ma voleva sapere effettivamente se la sua domanda aveva una risposta, se era possibile spingersi, a continuare a sviluppare queste macchine fino a quando fossero diventate intelligenti. Ora il problema è: come si fa capire quando una macchina e intelligente? Beh, si può fare come nella filosofia, si può dare una definizione di che cosa significhi essere intelligente e poi vedere se questa macchina si adatta alla definizione. Turing era uno scienziato e non un filosofo, insomma provocò il dibattito in un altro modo e introdusse quello che fu chiamato il test di Turing: che cos'è il test di Turing? Il test di Turing è semplicemente un modo operativo per capire se la macchina pensa oppure no. Se l’inventò 155 Turing appunto in quell'articolo che vi ho detto, del 1950; l'idea è la seguente: si tratta di mettere in una stanza un uomo e in un'altra stanza qualche cosa, non sappiamo se sia un uomo o se sia una macchina; si comunica attraverso una radio per esempio, attraverso una tastiera e così via, ci si scrive domande, l'uomo fa domande a ciò che si trova nell'altra stanza, ottiene delle risposte; ebbene se attraverso questa conversazione, dopo un certo periodo di tempo, l'uomo non riesce a capire se dall'altra parte ci sia una macchina oppure ci sia un uomo, ecco che allora ciò che c'è dall'altra parte è qualche cosa di intelligente; poi si apre la porta e si va a vedere cosa c'è dall'altra parte; se c’era un uomo, bene, tanto meglio per lui, ma se invece c'era una macchina, quella la macchina ha superato il test, è riuscita in qualche modo a simulare il comportamento mentale di una persona in modo tale che è comprensibile da questa persona ed ecco che allora, si dice che ha superato il test di intelligenza di Turing e la si può dichiarare intelligente. Finora l'unico computer che abbia effettivamente superato il test di Turing è questo computer per l’appunto Al nel film "2001 Odissea nello spazio"; ma che cosa si fa effettivamente nella vita reale, quali sono le realizzazioni di questi sogni? Andiamo a vedere, effettivamente la realtà è questa: nella slide non c’è un computer, c’è il campione mondiale di scacchi che si chiama Garry Kasparov, il campione mondiale attualmente in carica, questa è una partita di scacchi, come vedete qui, qui c'è scritto, Kasparov, qui c'è scritto Deep blue e al posto di Deep Blue non c'è nessuno, come mai? Perché, come vedete nella slide in realtà sembra che ci sia uno schermo, Kasparov sta giocando una partita di scacchi contro una macchina, contro un programma. Che cosa è successo? E’ successo che i programmi per gli scacchi, che furono già subito un sogno di Turing, che appunto scrisse a mano il primo programma per scacchi, ma il computer suo era talmente lento che era più facile simulare il programma a mano che non farlo giocare dal computer, infatti Turing simulò il suo programma, giocò una partita di scacchi contro un suo amico, un essere umano e l'amico vinse subito in 26 mosse, ebbene pian piano negli anni questi programmi per gli scacchi sono diventati sempre più complicati, sono diventati sempre più raffinati, ad un certo punto hanno incominciato a giocare nei tornei, hanno incominciato a prendere punti, a diventare maestri, a diventare grandi maestri e ad un certo punto è successo il patatrac, è successo l’irreparabile, cioè in una partita di scacchi del 1996 Kasparov, campione mondiale in carica, è stato battuto da un computer. Voi direte, va beh, succede a tutti, è una brutta giornata e così via e in effetti Kasparov all'epoca così la prese. Dopo qualche anno nel 1998 Kasparov fece un torneo contro questo programma che si chiama deep blue, un torneo in sei partite, insomma prese due punti e mezzo e come potete immaginare, il computer ne prese il rimanente, cioè tre punti e mezzo, cioè ci fu, era un giorno fatidico del 1998, la prima sconfitta da parte di un campione mondiale di scacchi contro un programma. Che cosa succederà domani? Beh, ovviamente questi programmi diventeranno via via più potenti, ormai battono il campione del mondo, presto neppure più il campione del mondo potrà giocare contro queste cose, non c'è da preoccuparsi ovviamente, perché non ci saranno i programmi che diventano campioni mondiali di scacchi, così come l'automobile, così come i treni non diventano campioni olimpici quando si tratta di correre, cioè le Olimpiadi si continuano a fare tra gli atleti, che sono degli umani e le macchine vanno si più veloci degli uomini, ma chi se ne importa tutto sommato, perchè insomma far simulare ad una macchina, una automobile o il treno un'attività umana, come quella motoria, non è un qualche cosa che mette in dubbio la nostra unicità nel creato, però quando si arriva invece a questi punti, cioè a far fare al computer qualche cosa che noi credevamo essere tipico dell'uomo, ecco che allora cominciamo ad essere un pochettino più a disagio. Dove però potranno arrivare i computer? Beh, questo non è più la realtà, questo è il sogno, quello che ci sta di fronte nella slide e il sogno è quello di arrivare appunto a costruire degli androidi. Ora la parola androidi, forse qualcuno di voi l’avrà già vista, perché questo fa parte ancora della fantascienza, non vi preoccupate, questo è un domani chissà quanto 156 lontano;, ebbene qui ci sono due personaggi, questa bellissima signorina che qualcuno di voi riconosce è Sten Young e questo signore è Harrison Ford agli inizi della sua carriera e questo è un famoso film che si chiama “Blade runner”. Ebbene il problema di Blade runner era precisamente questo: il signor Ford era un cacciatore di androidi e gli androidi sono degli organismi, sono delle macchine che sono indistinguibili da un essere umano, credo che tutti voi, per lo meno coloro che sono dei maschietti tra il pubblico, saranno d'accordo che anche se questa è una macchina insomma andrebbe benissimo a chiunque di noi; ebbene quando arriviamo a questi punti, a costruire macchine che non si possono più distinguere da un essere umano, maschile o femminile, ebbene allora si abbiamo effettivamente superato il limite, siamo arrivati ad un punto in cui la convergenza tra la macchina e l'uomo è indistinguibile, è completa e questo è appunto il sogno, io direi in realtà un incubo; non credo che oggi ci dobbiamo preoccupare troppo, però mettendo insieme non soltanto i progressi dell’intelligenza artificiale, ma anche quelli dell'ingegneria genetica e così via, della robotica, delle protesi, eccetera, effettivamente si pensa che ci sia questo incubo di fronte a noi, che ci sarà un giorno un mondo in cui circoleranno degli esseri e non si saprà bene che cosa succede. Nel famoso racconto di Philip K. Dick che è colui che ha scritto “il libro cacciatore di androidi” da cui è stato tratto questo film Blade runner, dice che il momento cruciale arriverà il giorno in cui ci sarà una macchina di fronte ad un uomo, l'uomo sparerà alla macchina e si accorgerà con sua grande sorpresa che la macchina incomincia a sanguinare. La macchina risponde e si accorgerà, sparando all'uomo, con sua grande sorpresa che invece dall'uomo esce una nuvoletta di fumo, cioè saremo arrivati al punto in cui credevamo di avere un uomo contro una macchina e invece esattamente il contrario, cioè non ci si riesce più a distinguere. Questo è dove siamo arrivati partendo dalle macchine di Turing, con questa evoluzione dei computer. Problema Bene, negli ultimi minuti invece della nostra lezione, vogliamo parlare dal DNA lineare alle di cose un pochettino diverse, ma non troppo slegate, perché Turing forme tridimensionali nell'ultima parte appunto della sua vita, si interessò della morfogenesi. Nel 1952, praticamente l'anno in cui morì, pubblicò un famoso lavoro in cui la domanda questa volta non era più come una macchina può pensare oppure che cosa significa fare calcolare una funzione ad una macchina, bensì come si forma un organismo. Qui nella slide vedete due esempi di organismi, questa è una conchiglia, il famoso nautilus, di lato invece c’è qualche cosa di organico, ebbene il problema dell'organismo è che in realtà, come tutti sapete, l'organismo si forma in base ad una informazione e notate la teoria dell'informazione e l’informatica non sono poi così slegate fra di loro, anzi sono due aspetti, due facce di uno stesso studio, di una stessa medaglia. Ebbene, qual'è il problema però che sta sotto? Il problema è che l'informazione, come tutti sapete, è codificata in qualche cosa che si chiama il DNA e poi da questo DNA si formano delle forme per l’appunto. Ora il DNA che cos’è? Il DNA è fatto in maniera lineare, è una striscia praticamente come tutte le cose che noi scriviamo, per esempio prendiamo un libro, questo libro è Problema fatto in maniera tridimensionale, ha uno spessore, una larghezza e Dal DNA lineare alle un’altezza, però in realtà il libro è semplicemente una grande linea che comincia dall'inizio e va fino alla fine e tutta l’informazione è forme tridimensionali attraverso questa linea, ovviamente la si piega questa linea in modo da farla stare in un dm3, cioè è molto meglio leggere un libro che sta in un dm³ che non andare a leggere un libro che si lungo un kilometro. Ebbene il DNA è un qualche cosa di estremamente lungo, naturalmente è intrecciato, come tutti sapete, in questa cosa che si chiama doppia elica, ma la cosa importante è che è lineare. Ora questa informazione lineare, cioè messa praticamente su una linea, come fa a produrre un organismo che invece in genere ha tre dimensioni, cioè come si fa a passare dalla linearità dell'informazione alla tridimensionalità, quindi questo salto in tre dimensioni degli organismi viventi. Questo è il problema che Turing voleva risolvere, è un problema che non è stato ancora oggi completamente risolto, la sua soluzione è una soluzione che 157 effettivamente in qualche modo precorre i tempi ed la soluzione che diede appunto Turing, è il fatto che ci sia un equilibrio instabile nella materia e che questo equilibrio instabile venga rotto. Soluzione Che cosa è questo equilibrio instabile? Non vi posso dire ovviamente Rottura di nei dettagli, ma lo vedete qui immaginato, per esempio una ballerina che sta equilibri instabili sulle sue punte è in equilibrio instabile, se voi andate vicino ad una ballerina e la toccate, probabilmente questa casca per terra. Ebbene equilibri instabili sono per l’appunto quelle cose, quelle situazioni, quegli eventi che sranno in equilibrio, ma che però basta un piccolo cambiamento a far degenerare, a far cadere da una parte o dall'altra. Turing pensava che fosse questa rottura spontanea di equilibri per l’appunto instabili, che permettesse di passare dal DNA lineare alle forme tridimensionali. Questo è il percorso che poi è stato ripreso da vari premi Nobel, per esempio Prigogine che ha preso il premio Nobel per la chimica, Edelman che ha preso il premio Nobel per la medicina, che sono persone che appunto hanno portato avanti queste ricerche di Turing ed è strano leggere libri di chimica, libri di medicina e scoprire che uno degli antenati, che questi signori, oggi titolati attraverso premi Nobel, considerano uno dei loro precursori, che uno di questi precursori è appunto Alan Turing, cioè un logico, un informatico. Bene, siamo arrivati più o meno alla fine, all'ultimo atto di questa sfida; come vi ho già anticipato dagli inizi, l'ultimo atto di questa sfida è in realtà una tragedia. Nel 1954 Turing muore, muore suicidato. Come mai? Qui la cosa è abbastanza pruriginosa in qualche modo, Turing aveva delle abitudini sessuali che non erano proprio standard, era un omosessuale e nell'Inghilterra di quell'epoca, nell'Inghilterra degli anni 50, Suicidio(1954) ma anche più recentemente credo, fino a qualche anno fa e forse ancora adesso, l'omosessualità in Inghilterra era proibita per legge. Dunque Turing un giorno ospita un ragazzino che aveva rimorchiato per la strada, come si direbbe oggi, lo ospita in casa sua, fanno delle cose che non è il caso che vi racconti adesso e la mattina questo ragazzino scappa dalla casa e ruba degli oggetti dalla casa di Turing. Turing, ingenuo come spesso succede ai matematici, ai filosofi, ai grandi pensatori, va dalla polizia a denunciare il fatto. Denuncia questo fatto, dice c’è stato un furto in casa mia. La polizia gli chiede, naturalmente al buio brancolando, ma lei ha un'idea di chi possa essere stato a fare questo furto? E Turing disse certo che ce l’ho, è stato quel signore che è stato a casa mia. Ma lei lo conosce quel signore? L’ho rimorchiato ieri sera, come rimorchiato, per fare cosa? Beh, io ho queste tendenze, Turing non pensava che la cosa sarebbe stata così grave, Ebbene, immediatamente fu arrestato, fu processato, però poiché era un eroe di guerra, non lo sapeva nessuno, ovviamente non lo sapevano i carabinieri della stazione di polizia, però immediatamente quando Turing venne arrestato si muovono gli alti comandi che dicono appunto ai giudici, ai carabinieri che Turing in realtà è un eroe di guerra, perché è stato un eroe del controspionaggio. Queste cose sul controspionaggio, sull'Enigma che vi ho raccontato, sarebbero poi state rivelate soltanto molti decenni dopo, negli anni 70-80 e allora come grande gentilezza verso questo grande eroe della patria, che aveva così contribuito a salvare, anche a far vincere la guerra, che cosa gli si propone? Si propone una scelta o andare in galera per 10 anni oppure essere curato. Ora come si fa curare una persona dalla omosessualità? Negli anni 50 si era molto ingenui, gli americani semplicemente castravano gli omosessuali, ne hanno castrato 50.000 negli anni 60, ebbene gli inglesi fanno una cura di ormoni a Turing, una cura di ormoni femminili, pensando che questo potesse guarire l'omosessualità, Turing sviluppa addirittura il seno e gli cadono i capelli e così via e in preda ad una crisi emotiva più che comprensibile, si suicida, si suicida come? Si suicida mangiando una mela avvelenata perché non voleva che sua madre capisse che era stato un suicidio. Fin da bambino lui era ossessionato dalla storia di Biancaneve, dalla storia della mela, cantava sempre l'incantesimo di Biancaneve e della strega ed ecco che usa alla fine della sua vita questo mezzo per ammazzarsi. Questa è la strana fine per l’appunto, di un personaggio così importante per la storia della tecnologia ed è anche la fine dei nostri excursus storici biografici sui grandi personaggi della logica. Abbiamo ancora due lezioni, che sono due lezioni ricapitolative dove parleranno invece di ciò che è successo in questo secolo, da una parte da un punto di vista della logica, della logica contemporanea, la logica moderna e dall'altra parte invece dal punto di vista dei fondamenti. 158 LEZIONE 19: Gran finale Benvenuti alla penultima, purtroppo, lezione del nostro corso di logica matematica. Vedete qui il titolo della lezione, si chiama gran finale, in realtà questo è il finale nel senso che abbiamo già praticamente esaurito i personaggi di cui volevamo trattare. Abbiamo praticamente parlato di 16-17 grandi personaggi della storia della logica, siamo partiti dai greci, siamo passati attraverso la Scolastica e abbiamo finito con un buon numero di personaggi della modernità, della contemporaneità e ora faremo una specie di carrellata sulla contemporaneità, cioè su quello che succede oggi nella logica e quello che è successo ieri e l'altro ieri, cioè molto vicino a noi, poi ci sarà ancora una lezione conclusiva, in cui invece parleremo di ciò che è stata la logica per quanto riguarda il problema dei fondamenti. Quindi questa lezione di oggi è una specie di conclusione, una delle possibili conclusioni, poi ce ne sarà una seconda, che sarà veramente l'ultima lezione. Dicevo che quest'oggi parliamo di ciò che è successo negli ultimi tempi, lo dirò in poche parole e naturalmente voi non cercherete di capire esattamente tutto quello che dirò, a differenza invece delle altre lezioni, perché l'idea di questa lezione è soltanto di farvi familiarizzare con alcuni dei termini che sono diventati quotidiani nella logica matematica contemporanea e anche di dirvi quali sono i personaggi che sono ancora sulla scena o che l'hanno lasciata da poco e che praticamente stanno facendo la logica in questi anni. Divideremo la nostra lezione nelle quattro parti in cui si dice oggi che la logica viene divisa; notate che la logica come l’abbiamo trattata finora è stata un'analisi del processo di ragionamento, soprattutto del processo di ragionamento matematico e man mano che ci siamo più avvicinati ai giorni nostri, man mano che siamo entrati soprattutto nel vivo del ‘900, nel vivo del nuovo secolo per la logica matematica, ecco che questa logica stava prendendo vita, stava diventando matura, acquistava maturità ed è diventata oggi un qualche cosa di indipendente, è diventata una branca della matematica moderna ed è per questo che oggi si chiama logica matematica e la si divide in genere in quattro parti che si chiamano: 1) teoria dei modelli, 2) teoria della dimostrazione, 3) teoria della discorsività, 4) teoria della ricorsività, 5) teoria degli insiemi. La logica contemporanea Le origini di ciascuna di queste branche sono ovviamente in ciò 1. teoria dei modelli che abbiamo già visto nel passato e poi per la contemporaneità, 2. teoria della dimostrazione vi dirò brevemente, dove sta e quindi vedremo pian piano 3. teoria della discorsività ciascuna di queste branche. Incominciamo subito con la prima 4. teoria degli insiemi parte, cioè la “teoria dei modelli". Naturalmente qui nella slide abbiamo voluto scherzare, quando si parla di modelli ci vengono subito in mente le passerelle, dove ci sono questi indossatori e poiché io sono maschietto ovviamente, come si dice, ho preferito invece prendere delle modelle, quindi questo è soltanto un riferimento, si potrebbe meglio dire che questa sarebbe una teoria delle modelle. Però scherzi a parte, che cosa fa la teoria dei modelli? La teoria dei modelli non è nient'altro che lo studio della semantica; vi ricorderete che quando abbiamo parlato di linguaggio, a partire da Crisippo e poi pian piano venendo vicino a noi Frege, Russell, Wittgenstein e così via, molta parte della logica è stata una teoria del linguaggio. Però ricorderete anche che il linguaggio praticamente si divide in due parti, da una parte c'è la sintassi, cioè i segni, ciò che si scrive e dall'altra parte c’è la semantica, cioè il significato, ciò che si vuole dire. Ebbene “la teoria dei modelli” oggi è diventata lo studio formale, matematico, di questa seconda parte alla quale ho appena accennato, cioè “la semantica”, invece “la teoria della sintassi”, c'è pure quella, si chiama oggi in logica matematica la “teoria della dimostrazione”, ne parleremo tra breve. Vediamo allora meglio, da dove è partita questa teoria dei modelli. E’ partita da un personaggio che abbiamo già visto più volte, anche recentemente abbiamo dedicata a lui un'intera lezione, che si chiama Tarski e ricorderete, da ciò che abbiamo fatto, che nel 1936 Tarski introdusse quello che è il suo risultato più importante nella logica Tarski (1936) matematica ed è uno anche dei cardini veramente fondamentali della logica Definizione di verità matematica moderna ed è quella che abbiamo chiamato “definizione di verità”. La definizione di verità di Tarski, come ricorderete, è data nel meta linguaggio e una parte del teorema di Tarski dice, invece, che non esiste nessuna definizione di verità che si possa fare invece a livello del 159 linguaggio. Ebbene questo risultato, per l’appunto del 1936, sottolineatevi questa data, perché stranamente ci sono delle connessioni quasi numerologiche, cioè il 1935-36 è l'anno in cui praticamente sono nate tutte queste quattro branche della logica moderna, poi stranamente il 1963 è l'anno cui si sono dimostrati alcuni dei teoremi più importanti in ciascuna di queste branche, quasi per una specie, come si può dire, di stravaganza numerica, comunque nel 1936 questo teorema importante di Tarski, mette finalmente sul terreno quello che è la nozione logica, la nozione precisa, formale della verità. Ricorderete che una delle nostre prime elezioni, anzi il primo ciclo dedicato ai personaggi, era dedicato appunto al paradosso del mentitore. Il paradosso del mentitore che, ricorderete tutti, diceva "io mento", in qualche modo si imbatteva in una antinomia, una frase che non poteva essere né vera né falsa, ebbene dopo 2500 anni praticamente, questo risultato di Tarski fece intervenire questa nuova definizione di verità e praticamente risolse perlomeno da un certo p. di v., che è quello che interessa noi come logici matematici, risolse questo paradosso. La soluzione del paradosso del mentitore è precisamente che il paradosso del mentitore non si può riprodurre all'interno di un sistema formale, non si può riprodurre all'interno dei sistemi matematici, perché la frase che dice "io sono falsa" non è possibile scriverla; non è possibile scriverla, non perché si possa parlare di io, l’autoreferenza, non perché non si possa parlare del non, della negazione, ma perché non si può parlare della verità all'interno del linguaggio. La verità è qualcosa che sta fuori, sta appunto, come ha dimostrato Tarski, nel meta linguaggio. Questo è stato l'inizio della cosiddetta teoria dei modelli. Naturalmente Tarski era negli anni ‘30, ha vissuto fino agli anni 70 e ha continuato a produrre un gran numero di risultati, ma non è questo che oggi ci interessa, noi vogliamo ora a vedere qualche altro personaggio che è appartenuto o ha creato questa teoria dei modelli. Uno di questi personaggi è questo signore dall'aria un po' triste e anche un po' sorniona in qualche modo che si chiama Abraham Robinson (v. slide); abbiamo messo il nome, in genere non lo facciamo, in genere identifichiamo i nostri personaggi soltanto col cognome, ma nel caso di Robinson c'era bisogno perché di Robinson anche nel campo della logica ce ne sono stati tanti. Ce ne sono stati almeno tre: Raffael, Duia e Abraham, quindi è necessario distinguerli. Ebbene questo signore Abraham Robinson è stato negli anni ‘50-‘60 il massimo esponente di questa teoria dei modelli; Tarski effettivamente ha iniziato questa teoria dei modelli facendo questo studio fondamentale della verità, che notate, non ve lo mai detto nelle altre lezioni, era uno studio lunghissimo, cioè il suo risultato originale era stato scritto all'interno di un lavoro di centinaia di pagine e questo è molto atipico, perché in genere i lavori della matematica moderna sono di qualche pagina, molto densi ovviamente, molto difficili anche da leggere, ma in genere molto contenuti, soprattutto quando riferiscono, quando parlano, quando trattano, quando dimostrano un solo teorema, ebbene nel caso di Tarski invece c’era un teorema molto lungo, proprio perché il risultato di Tarski che parlava della verità, aveva che fare con molte speculazioni filosofiche e quindi era qualche cosa di più ampio respiro. Ebbene, dicevo, il risultato di Tarski è stato poi a posteriori ciò che ha iniziato questa teoria dei modelli, ma all'epoca la teoria dei modelli non si chiamava teoria dei modelli, si chiamava semplicemente logica matematica. Tarski era uno di coloro che dimostravano teoremi all'interno della logica matematica, invece negli anni ‘50-‘60 proprio grazie all'opera di questo signore Abraham Robinson, la teoria dei modelli si è staccata dal resto della logica, così come le altre branche ed ha acquistato una vita indipendente, è diventata matura in qualche modo, come i figli di una famiglia che prima vivono tutti insieme sotto lo stesso tetto e poi ad un certo punto ciascuno se ne va per la sua strada e crea nuove famiglie. Qualcuno di voi sa che cosa ha fatto Abraham Robinson senza saperlo, perchè in realtà Abrahm Robinson prima di diventare un logico matematico era un matematico applicato ed è colui che ha inventato le ali a delta degli aerei. Tutti voi avrete visto, per esempio i caccia americani sopra tutto, che hanno questa strana forma delle aria a triangolo, ebbene Robinson si interessava appunto durante la guerra, negli anni ‘40‘50 di questi problemi di fluidodinamica e una delle sue invenzioni è stata questa. Dopo di che invece è diventato un logico matematico ed ha creato però due grandi cose, che sono questi due risultati: anzitutto quella che si chiama oggi ”l'analisi non standard”. L'analisi non standard sono sicuro che non la conoscerete perché è una versione appunto, come dice il nome, non standard, dell'analisi infinitesimale. 160 Robinson Abraham L'unica cosa che vi posso dire, nel caso poi siate interessati per andare (anni’50-’60) a sviluppare, ad approfondire questo risultato e soprattutto questa teoria Analisi non standard che Robinson ha creato, ebbene, quello che dicevo, quello che vi posso Strutture algebriche dire, è che è una versione dell'analisi f atta come sarebbe piaciuto a Leibniz, cioè usa gli infinitesimi, usa gli infiniti in una maniera precisa. Gli infinitesimi, soprattutto nel campo dell'analisi, sono stati rimossi per secoli, praticamente per un bel po' di anni si cercato di non parlarne, perché erano cose con cui ci si sentiva a disagio, non si capiva bene che cosa potessero essere. Ebbene la teoria della logica matematica, soprattutto la teoria dei modelli, ha permesso al Robinson di costruire un'analisi basata su questi concetti e poi il secondo campo di azione di Robinson è stato quello dello studio delle strutture algebriche, cioè uno studio, attraverso la logica, di ciò che sono le strutture per l'algebra però, quindi in particolare, ne abbiamo già parlato, ma rivedremo meglio nell'ultima lezione quella conclusiva della prossima volta, le strutture algebriche introdotte da Burbaki. Ebbene lo studio che Robinson ne fece fu uno studio da un p.di v. logico, che poi praticamente nel corso dei decenni è andato a confluire direttamente nella vera e propria matematica. Quindi non ho potuto dire nemmeno uno dei risultati ormai tra quelli, tanti, che ha dimostrato Robinson, perché ormai queste cose sono troppo tecniche, non sono più adatte a un corso introduttivo sulla logica matematica come il nostro e anche nel caso del prossimo personaggio che io conosco tra l’altro personalmente, perché insegna a Cornell, università dove anch’io insegno parecchio soprattutto d’estate, ebbene questo signore di cui non ho trovato nessuna foto, si chiama Michel Morley e nel 1963, quella data di cui vi ho già parlato prima, ha dimostrato un famoso teorema di categoricità. La categoricità, in due parole, è semplicemente lo studio di strutture che sono oppure possono non essere isomorfe l'una con l'altra. Ebbene Morley ha dimostrato una famosa congettura che aveva a che fare con questa nozione di categoricità. Come vedete andiamo molto a volo d'uccello soltanto per Morley (1963) impratichirci con alcune delle nozioni della logica moderna. Invece il Categoricità personaggio forse più importante degli ultimi anni della teoria dei modelli, nel campo della teoria dei modelli, si chiama Shelah ed è un israeliano e veramente negli anni ‘80, ma anche negli anni ‘90 praticamente, è stato un po' il re, il personaggio più importante di questa teoria, al punto che ha sfiorato la vittoria in quella che si chiama la medaglia Fields, che è l’analogo del premio Nobel per la matematica, perché per la matematica la fondazione Nobel non assegna il Nobel per motivi che non andremo a toccare quest'oggi, ebbene però c'è una medaglia che si chiama la medaglia Fields, di cui parleremo anche a proposito anche di una altro personaggio verso la fine della lezione, ebbene dicevo questa medaglia Fields è considerata l'analogo del premio Nobel, il massimo riconoscimento che viene assegnato ai matematici in generale, non soltanto i logici. Ebbene Shelah l’ha sfiorata, non era uscito a ottenerla appunto negli anni ‘80, ma ci è andato molto vicino e questo dimostra che effettivamente anche i matematici avevano in qualche modo ormai capito che la teoria dei modelli è la parte, forse, della logica matematica più vicina al resto della matematica classica. Ciò che Shelah ha fatto, è stato fare grandi teoremi di classificazione di strutture, cioè queste strutture che servono per modellare la semantica, di cui parla la teoria dei modelli, ebbene Shelah è riuscito a classificarle in vari modi. Naturalmente le figure che sono qui sono strutture geometriche che non hanno niente a che vedere con quelle algebriche di cui parla invece la teoria dei modelli, di cui parla l’algebra, ma ovviamente è più facile fare delle fotografie di strutture geometriche che non di strutture astratte, ma la cosa importante è sapere questo, che appunto negli anni ‘80, quindi circa 50 anni dopo il momento in cui Tarski ha iniziato questo studio della semantica, si è arrivati ormai a dei risultati di classificazione di queste strutture, si sa esattamente quante sono le famiglie di queste possibili strutture, quali sono esempi di queste strutture e si cerca di fare quello che si fa ormai nel resto della matematica, cioè i teoremi di classificazione. Questo brevemente quel che è successo dagli inizi, da Tarski a Shelah nel campo della teoria dei modelli. 2. teoria della dimostrazione La seconda parte invece, come ho già detto prima, è l'altra faccia studio della sintassi della medaglia, cioè se la teoria dei modelli era lo studio della 161 semantica, del significato, lo studio invece della sintassi, dei segni, di ciò che si scrive sulla carta, delle formule così via, è quello che viene chiamato “la teoria delle dimostrazione”. Dov'è nata questa teoria della dimostrazione? Ebbene è nata con un personaggio del quale non abbiamo ancora parlato; notate sempre il 1936, questo aspetto numerologico, questo personaggio si chiama Gentzen, è un matematico che è morto molto giovane purtroppo in campo di concentramento durante la guerra; come vedete i suoi risultati sono appunto del ‘36, anteriori di poco a lla guerra mondiale, poi Gentzen è morto giovane in un campo di Gentzen(1936) concentramento, non ha potuto continuare questa carriera che Consistenza dell'aritmetica probabilmente sarebbe stata molto brillante e il problema che Gentzen ha affrontato è stato il problema della dimostrazione della consistenza dell'aritmetica. Voi direte, com’è possibile dimostrare la consistenza dell'aritmetica, non era forse quello che diceva il teorema di Goedel che era impossibile fare? Ebbene certamente la conseguenza del teorema di Goedel dice che impossibile dimostrare la consistenza dell'aritmetica all'interno dell'aritmetica e questo fa cadere per l’appunto i sogni su i quali s'era basata forse la logica matematica prima di Goedel, prima del 1931, ma questo non significa che non sia possibile fare una dimostrazione di consistenza al di fuori dell'aritmetica della stessa aritmetica, usando altri mezzi che poi ovviamente per forza di cose, grazie o per colpa del teorema di Goedel dovranno essere più potenti dell'aritmetica. Ebbene la prima dimostrazione di consistenza dell'aritmetica che è stata data nella storia è proprio quella di Gentzen del 1936 e per coloro che forse hanno sentito, hanno già orecchiato queste cose, Gentzen usa principio di induzione transfinita; sembrerebbe quasi strano voler dimostrare la consistenza dell'aritmetica che usa un principio di induzione fino al più piccolo numero infinito, cioè a omega, usando però un'induzione molto più grande, ma qui insomma ci sono dei problemi molto sottili, vi posso appunto soltanto dire che certamente si usano induzioni su dei numeri molto più grandi, però per formule molto più semplici, quindi in qualche modo c'è un aspetto di “trade off” come si direbbe in inglese, un dare e avere, che permette di dire che questa è una dimostrazione per l’appunto di consistenza dell'aritmetica dal di fuori, che ci dice qualche cosa di più sull’altimetrica che non sapevamo prima. Che cosa succede una volta che uno ha dimostrato la consistenza dell'aritmetica? Beh, deve passare al secondo livello, cioè a quella che viene chiamata, in genere, l'analisi. Vi Ricorderete dalle scorse lezioni, che abbiamo già parlato di questo fatto, che c'era la “teoria dei numeri interi” che, per l’appunto, si chiama “aritmetica” e la “teoria dei numeri reali” che invece si chiama “analisi”. Allora, una volta dimostrata la consistenza dell'aritmetica, il prossimo passo è cercare di dimostrare la consistenza dell'analisi. Qui abbiamo scherzato ancora una volta , abbiamo messo la targa che Freud, inventore ovviamente di un altro tipo di analisi, la psicoanalisi, aveva fuori del suo studio a Vienna. Come vedete qui ci sono due nomi, perché negli anni ‘50-‘60 sono stati questi due signori, Schutte che era un tedesco e Takeuti che era un giapponese, quasi a voler fare una specie di asse, continuare l'asse che c'era stato durante la seconda guerra mondiale, ebbene dicevo, sono stati questi due logici che hanno cercato di dimostrare la consistenza di parti dell'analisi come vedete scritto nella slide. Come mai soltanto parti? Ma perché si è cercato di estendere i risultati di Gentzen, il teorema di consistenza dell'aritmetica, cercando di dimostrare nello stesso modo, usando gli stessi mezzi che erano dei mezzi costruttivi con i quali insomma si lavorava praticamente a mano, la consistenza dell'analisi, cioè della teoria dei numeri reali. Non si è riusciti come si vede qui nella slide, perché appunto ho scritto consistenza di parti dell’analisi. Ci sono state delle difficoltà oggettive, però qualcuno, subito dopo, è riuscito effettivamente ad arrivare a dimostrare la consistenza dell'intera analisi, però, come vedete anche dalla slide, in maniera non costruttiva e questo signore si chiama già Janin Girard , che negli anni ’80 –‘90 è stato praticamente il personaggio più importante di questa parte della logica della teoria della dimostrazione. Girard 162 è un francese, molto interessante, molto strano, un personaggio di quelli certamente singolari, è un personaggio che ogni 4-5 anni inventa una teoria completamente nuova e naturalmente questi logici, tutti coloro che fanno teoria della dimostrazione, sono lì che gli corrono dietro, cercano di capire questa nuova teoria, ci mettono in genere mesi, anni, per riuscire a capire quello che lui diceva in certo periodo e nel momento in cui dicono, ah, finalmente incomincio capire qualche cosa, Girard ha già prodotto un'altra teoria, altri risultati nuovi e così via, quindi tante Scuole che sono state praticamente iniziate da lui, un vero piccolo genio effettivamente della logica moderna. Quindi in particolare è Girard che ha identificato il suo nome con la teoria della dimostrazione degli ultimi anni del secolo, degli anni ‘80-‘90. Girard è riuscito a dimostrare la consistenza dell'analisi in maniera globale, quindi non soltanto di parti, ma in maniera però non costruttiva ed ecco che allora il compito della teoria della dimostrazione del XXI, del 2000, degli anni che seguiranno al 2000 sarà proprio questo, cioè di riuscire a mettere insieme, in qualche modo, le dimostrazioni costruttive che Schutte e Takeuti hanno dato di parte dell'analisi dal di sotto e la dimostrazione non costruttiva che Girard ha dato dell'intera analisi, quindi dal di sopra. C'è ancora questo gap, questa forbice, fra questi due tipi di risultati e bisognerà riuscire a colmare il divario. Invece questa logica lineare, come è indicata qui nella slide, è una di quelle teorie, come ho detto appunto, che Girare inventa a getto continuo, è un'estensione non soltanto della logica classica, perché quella già ce l’avevamo, ne abbiamo parlato n el corso della lezione su Brouwer, che aveva inventato la logica intuizionista, ebbene questa logica lineare è praticamente il passo dopo a quella intuizionista. Si può dire facendo una proporzione, visto che parliamo di logica matematica, che la logica lineare sta alla logica intuizionista, come la logica intuizionista sta alla logica classica. E’ un'analisi ancora più sottile, ancora più profonda dei meccanismi del ragionamento. Questa è più o meno l'avventura della parte della teoria della dimostrazione che è stata fatta durante questo secolo. La terza parte, abbiamo detto, del nostro corso, quella che oggi viene chiamata la logica matematica contemporanea, si chiama invece “teoria della ricorsività”. Questa è qualche cosa di cui più o meno tutti siamo a conoscenza, in maniera magari inconscia, perché la teoria della ricorsività oggi si può definire semplicemente dicendo che studia le potenzialità e le limitazioni dei calcolatori. Ora naturalmente all'epoca quando è nata la teoria della ricorsività i calcolatori non c'erano, ma quando abbiano fatto l'ultima lezione 3. Teoria della ricorsività su Turing, l'ultima lezione con la quale abbiamo chiuso il nostro potenzialità e limitazioni corso, la nostra carrellata sui personaggi, vi ricorderete che dei calcolatori Turing nel 1936, tanto per cambiare, sempre lo stesso anno, aveva inventato la macchina di Turing. Che cosa era la macchina di Turing? Era un tentativo di fare col pensiero, cercare di catturare col pensiero, costruire un modello, naturalmente un modello astratto, un modello fatto di carta, di una macchina che fosse in grado di calcolare tutto ciò che è possibile effettivamente calcolare all'uomo. Ebbene questa macchina di Turing che all'epoca era soltanto un qualche cosa fatto sulla carta, poi col tempo, negli anni ‘40-‘50 è diventato quello che oggi chiamiamo i computer. Quindi è precisamente il padre dell'informatica moderna, ma l'informatica moderna, l'informatica teorica, è quello che in logica viene chiamato appunto teoria della ricorsività e quindi ricorsività è precisamente questo, cioè lo studio delle potenzialità e delle limitazioni di questa nuova macchina che Turing ha posto sul mercato, nel caso suo delle idee e poi ovviamente entrata sul mercato anche per l’appunto degli oggetti che si comprano. Allora quali sono i personaggi che hanno caratterizzato questa teoria della ricorsività? Il personaggio che negli anni ‘40‘50 è stato il dominatore di questa teoria si chiama Stephen Kleene, era un allievo di Goedel, un allievo Kleene(anni’40-’50) di Church, quindi uno dei grandi della logica per l’appunto, uno di quei ricorsività classica quei personaggi che faceva o parte della ristretta cerchia di logici come Goedel, Church, Turing e così via, che hanno dato inizio, hanno dato origine a questa nuova avventura di questa branca della matematica. Ebbene al nome di Kleene è associato praticamente lo studio di quella che viene chiamata oggi “ricorsività classica”. Che cosa vuol dire classica? Beh, vuol dire calcolare sugli oggetti più naturali che si possano immaginare, cioè i numeri interi. Ricorderete che l'analisi di Turing era precisamente questa, ovviamente veniva dopo l'algebra booleana, che era lo studio della calcolabilità, se così vogliamo dire, sui numeri 0,1. Ebbene Turing ha esteso questo studio, ha dato una definizione di cosa significa calcolare su numeri interi, ebbene questo studio della calcolabilità sui numeri interi che si chiama appunto “ricorsività classica” e i teoremi più fondamentali sono stati dimostrati da Kleene. Che cosa 163 succede una volta che si è fatto questo studio sulla ricorsività classica? Beh, ovviamente bisogna guardare altrove, bisogna guardare ad altre cose e colui che ha fatto queste cose, che ha studiato “la ricorsività generalizzata” è precisamente questo signore che si chiama Gerald Sacks. E’ un personaggio anche lui molto singolare, questa è la foto che lui ha messo sulla sua home page, sull’Web ed è una foto che fa vedere che sta dormendo, in realtà l'impressione, credo, che voglia dare è semplicemente che sta apparentemente dormendo. E’ uno dei più grandi pensatori, più profondi pensatori della logica matematica contemporanea e quindi probabilmente è uno scherzo questo qua che ci sta facendo. Ebbene qui nella slide ho citato uno dei suoi primi più importanti teoremi, lo citato di nuovo solo per nome, come nel caso del teorema di Morley sulla categoricità, non vi posso dire molto su questo, ma che è il teorema della densità dei gradi cosiddetti ricorsivamente enumerabili, ma è stato dimostrato, guarda caso, di nuovo nel 1963, quindi questo anno fatidico esattamente come il 1936, che se notate sono le stesse cifre però soltanto invertite, ci deve essere qualcosa di miracoloso che ha fatto sì che questi due anni fossero gli anni effettivamente più fecondi della logica matematica del secolo. Sempre invece a Sacks si deve lo studio della “ricorsività generalizzata”, in particolare tanto per capirci, così come Kleene aveva studiato “la ricorsività classica”, cioè lo studio della calcolabilità dei numeri interi, ecco che Sacks fa lo studio della calcolabilità, sui numeri reali, quindi l'analogo di ciò che è successo nella teoria della dimostrazione, quando Gentzen dimostra la consistenza dell'aritmetica, cioè dello studio dei numeri interi e poi Takeuti, Schutte e Girard cercano di studiare la consistenza dell'analisi, cioè la teoria dei numeri reali. Qui si fa la stessa cosa, però non più dal p. di v. della consistenza, ma dal p.di v. della possibilità di calcolare con questi oggi. Oggi invece il personaggio più importante di questa teoria della ricorsività, di questa branca che viene chiamata “teoria dei gradi”, è questo signore che si chiama Clark Slaman, che è un allievo tra l'altro di Sacks che abbiamo visto prima. Questa è di nuovo la foto che Slaman ha messo sulla sua home page, vedete che è di fronte a un'esplosione, un'eruzione di un vulcano e effettivamente credo che l’abbia fatta in maniera metaforica, perché anche lui con i suoi risultati effettivamente è paragonabile ad un vulcano, perché precisamente è colui che forse ha dato il maggior contributo in questi ultimi anni alla teoria della ricorsività. Ed ecco che arriviamo praticamente alla quarta parte di questa nostra carrellata, che è la parte relativa alla teoria degli insiemi. Questa è la parte più classica, diciamo così, della logica matematica. La teoria degli insiemi, lo sappiamo già, è lo studio degli insiemi. Che cosa sono gli insiemi? Beh, gli insiemi sono un oggetto matematico, un po' diverso da quelli soliti dei quali abbiamo parlato anche questo oggi, cioè non i soliti numeri interi o i numeri reali, che sono qualche cosa di abbastanza concreto, con i quali tutti più o meno abbiamo familiarità fin già dalla scuola, 4. teoria degli insiemi bensì sono oggetti molto astratti, sono appunto collezioni di oggetti e studio degli insiemi in genere nella teoria degli insiemi si fanno collezioni talmente astratte che non ci sono nemmeno degli elementi dentro, si parte come ricorderete quando abbiamo parlato di Frege, di Cantor e così via, come ancora ricorderemo nell'ultima lezione conclusiva, si parte praticamente dal nulla, dall’insieme vuoto che è quello che corrisponde al numero zero e a partire soltanto dall’insieme vuoto si riescono a costruire insiemi via via più complicati e questo è l'oggetto, diciamo così, questo è l'ambito di studio della teoria degli insiemi. Perché questi insiemi sono così importanti? Ma perché, quando furono introdotti per l’appunto da Cantor alla fine dell'800, dal 1870 al 1890, furono studiati proprio perché la matematica ormai era arrivata a questa necessità, cioè ciò che studiava Cantor, che erano praticamente funzioni sui numeri reali, avevano bisogno di un uso della teoria degli insiemi, perché queste funzioni si comportavano in maniera un po' singolare in certi punti e Cantor scoprì che effettivamente era importante sapere su quanti do questi punti. Ora nel caso di numeri reali è difficile, perché i numeri reali sono tanti, sono infiniti, non si può soltanto dire su uno, su due, su tre punti, a volte bisogna dire su infiniti punti, ma bisogna andare anche scavare all'interno di questi infiniti e cercare di fare una gerarchia di infiniti. Il grande 164 risultato di Cantor fu precisamente questo, cioè che riuscì a dimostrare che di infiniti in matematica non c’è ne uno solo, ma ce ne sono tanti, quanti? Infiniti, però di nuovo appunto poiché ce ne sono tanti, bisognerebbe essere più precisi. Ora questa teoria degli infiniti è quella da cui poi nacquero tutti i problemi, cioè i famosi problemi dei paradossi, ricorderete la lezione su Russell, che scoprì il paradosso appunto che porta il suo nome e che mise in qualche modo in forse la consistenza, anzi in realtà dimostrò l'inconsistenza della teoria ingenua degli insiemi di Cantor e di Frege. Ebbene la teoria degli insiemi è praticamente qualche cosa che si era sviluppata indipendentemente dal resto della logica matematica, si può dire che le origine della logica matematica sono praticamente due nell'800: da una parte la logica algebrica, cioè ciò che arrivava dalla tradizione di Boole, per cercare di manipolare le proprietà dei connettivi, le proprietà dei quantificatori attraverso operazioni matematiche, che poi oggi per si chiama algebra booleana e l'altro filone importante, forse di più ancora di quello dell'algebra booleana fu per appunto quello della teoria degli insiemi di Cantor e di Frege. Allora non è stupefacente pensare che questa teoria degli insiemi, quest’oggi, è una delle quattro parti importanti della logica matematica moderna. Chi è stato colui, che da un punto di vista moderno, ha fatto i risultati più importanti nella teoria degli insiemi? Potete immaginarlo, perché di nuovo doveva saltar fuori questo suo nome, si chiama come al solito Goedel. Guardate l'anno, non è proprio Goedel(1938) quello di prima, cioè il 1936, ma siamo molto vicini, è il 1938. Che cosa Consistenza dell’ipotesi fece Goedel? Notate un problema di consistenza anche qui, siamo alle del continuo solite, perché ovviamente ad un certo punto stiamo parlando di logica matematica e quindi i problemi sono sempre quelli. Oggi abbiamo già parlato di consistenza in vari campi, cioè consistenza della teoria dei numeri interi, cioè l'aritmetica, consistenza dei numeri reali, cioè l'analisi, ecco che Goedel dimostra o meglio affronta il problema della consistenza dell'ipotesi del continuo. Cosa significa questo? Anzitutto dobbiamo dire due parole, molto brevemente, su che cos'è la ipotesi del continuo. L'ipotesi del continuo è molto semplice da dire ed è questo: Cantor dimostrò che i numeri reali sono infiniti, questo lo sappiamo tutti, non c'è bisogno di Cantor, ma che sono di un infinito maggiore di quello dei numeri interi, quindi c'è praticamente l'infinito piccolo dei numeri interi e poi c’è l’infinito grande dei numeri reali; l'ipotesi del continuo è semplicemente la domanda: che cosa c'è in mezzo? E’ possibile avere un insiemi di numeri reali che sia infinito, ma che abbia un infinito più grande di quello di numeri interi, ma più piccolo di quello dei numeri reali oppure queste sono le due uniche possibilità, l'infinito dei numeri interi e l'infinito dei numeri reali, cioè non c'è niente di mezzo? Questa è la famosa ipotesi del continuo, l'ipotesi del continuo che Cantor cercò disperatamente di dimostrare durante la sua vita, finendo anche malamente, perché come forse sapete, finì in manicomio addirittura, perché è un problema difficilissimo, cercò in tutti i modi di trovare questa dimostrazione e alla fine ne andò, insomma, della sua sanità mentale. Ebbene il problema dell’ipotesi del continuo, tra l'altro come ricorderete da alcune altre lezioni, era praticamente il primo problema che Hilbert pose nel famoso congresso di Parigi del 1900, cioè era semplicemente una riformulazione del famoso problema dell'ipotesi del continuo di Cantor, ebbene questo problema, il primo problema di Hilbert fu risolto in una maniera inaspettata in due parti successive. Il primo passo è quello appunto a cui stiamo accennando, nel 1938 Goedel dimostrò che l'ipotesi del continuo è consistente. Cosa significa essere consistenti in questo caso? Significa che non è possibile dimostrare che è falsa, può anche darsi che lo sia, però non è possibile dimostrarlo, cioè in altre parole ci sono dei mondi, degli universi matematici, delle strutture come quelle che si studiano in teoria dei modelli per l’appunto, ebbene ci sono dei mondi matematici in cui l'ipotesi del continuo è vera e quindi non è possibile certamente refutare, dimostrare che è falsa in assoluto. Però, c'è l'altra faccia della medaglia e l'altra faccia della medaglia è quella di questo signore, che si chiama appunto Paul Cohen, che nel 1963, guarda caso, dimostrò che l'ipotesi del continuo è indipendente. Che cosa significa questo? Ho detto pochi minuti fa che Goedel ha dimostrato che esistono dei mondi in cui l'ipotesi del continuo è vera, cioè che effettivamente non c'è nessuna infinito tra quello dei numeri interi e quello dei numeri reali ; ebbene Cohen ha dimostrato l’esatto contrario. Non ovviamente la negazione di quello che ha fatto Goedel, ma ha dimostrato che si sono altri mondi, ovviamente non quelli di cui parlava Goedel, ci sono altri mondi 165 possibili in cui invece ci sono tanti infiniti, cioè c’è l'infinito dei numeri interi, c'è l'infinito dei numeri reali e in mezzo ce n'è uno, due, tre, anzi in realtà Cohen ha fatto vedere che se ne possono mettere a piacere, cioè ci sono mondi in cui succede praticamente di tutto. Questo è cosa vuol dire? Beh, il risultato di Goedel diceva che non è possibile refutare l'ipotesi del continuo all'interno della teoria degli insiemi, il risultato di Cohen dice che non è ne meno possibile provarla e allora non è possibile provarla, non è possibile refutarla, ecco che di fronte a noi abbiamo un esempio di quelle famose proposizioni indecidibili che Goedel aveva dimostrato esistere in qualunque sistema matematico che avesse un minimo di potenza. Vi ricorderete la lezione che abbiamo dedicato proprio a questo famoso teorema di Goedel, ebbene però le frasi di Goedel che non sono né dimostrabili, né refutabili, sono in genere delle frasi costruite ad hoc, sono frasi che dicono “io non sono dimostrabile all'interno del sistema”, non sono frasi che hanno un interesse matematico intrinseco, ora nel caso della teoria degli insiemi, ecco che i risultati congiunti di Goedel nel 1938 e di Cohen nel 1963, dimostrano che effettivamente ci sono degli esempi concreti, naturali di queste proposizioni indecidibili, al punto che addirittura l'ipotesi del continuo, cioè quel problema che Cantor ha cercato inutilmente di dimostrare prima di rompersi la testa, proprio nel senso letterale e che Hilbert aveva posto come primo problema nella famosa lista del congresso del 1900, ebbene dicevo, proprio questo problema è un esempio delle affermazioni goedeliane, cioè di queste affermazioni che non si possono all’interno della teoria degli insiemi, né dimostrare né refutare. Ho detto prima, quando ho introdotto questa slide, che Cohen ha dimostrato l'altra faccia della medaglia, era una specie di allusioni sottile al fatto che Cohen la medaglia Fields riuscì a vincerla, perché con questo risultato del 1963, che risolveva il più importante problema della lista di Hilbert del congresso di Parigi, la comunità matematica disse che questo era un risultato di altissimo livello e Cohen è praticamente il logico che è riuscito a prendere la medaglia Fields facendo questi risultati. Che cosa è successo nella teoria degli insiemi dopo Cohen? Beh, ci sono due personaggi ai quali accenno brevemente per l’appunto, che sono anzitutto questo signore Solovay, negli anni ‘70. Vedete qui nella scritta do sotto, dei simboli che sembrano quasi esoterici, sulla sx in alto vediamo il simbolo a otto dell'infinito potenziale, giù in fondo a sx vediamo un omega e che come voi ricorderete, ∞ Solovay Ω l’alfa è l’inizio e l’omega è il termine, il fine di cui si parla in teologia, (anni’70) ebbene in matematica l'omega viene usata per indicare la fine in questo Conseguenza di assiomi caso dei numeri interi, cioè omega è quello che sta oltre i numeri interi ω dell’infinito che sono finiti e quindi è quello che si chiama il transfinito. Quindi c’è l'infinito potenziale, c'è il transfinito e poi c'è in alto a dx della scritta un omegone, un omega maiuscolo che viene chiamato l'infinito attuale, l'infinito assoluto in qualche modo. Come mai abbiamo messo questi tre simboli ? Perché i risultati di Solovay, negli anni 70, sono stati precisamente il tentativo di vedere che cosa succede nella teoria degli insiemi quando si aggiungono ai soliti assiomi di cui si parla regolarmente nella matematica, gli assiomi che si chiamano appunto assiomi dell'infinito, cioè si chiede via via se esistono degli infiniti sempre più grandi e quest'ipotesi aggiuntive, che si chiamano appunto assiomi dell'infinito, hanno delle conseguenze stranamente anche livello molto basso, cioè ci si chiede se esista qualche cosa di enorme e ci si accorge che l’esistenza di queste cose enormi in realtà poi si ripercuote sulle cose minime, cioè sui numeri interi. Ebbene questi risultati sono risultati che hanno fatto sì che Solovay venisse considerato come uno dei più grandi insiemisti, si chiamano così nel gergo, quel periodo. L'ultimo insiemista invece di cui parliamo si chiama Woodin ed è un signore che ancora oggi direi molto giovane, fra i 40 e 50 anni. Anche lui è stato uno di quelli che hanno sfiorato la medaglia Fiele; il motivo per cui poi non ha presa, probabilmente è proprio questo, perché i n realtà è già stata data alla logica un'altra medaglia Fields per i risultati di Cohen e quindi forse darne una seconda, sempre nello stesso campo, forse veniva considerato un qualcosa di troppo. Che cosa ha fatto invece Woodin? Vi ricorderete Solovay ha cercato di dimostrare le conseguenze degli assiomi dell'infinito, cioè l’aggiungere assiomi che riguardano questi numeri molto grandi. Ebbene Woodin ha fatto una cosa analoga, ha cercato di analizzare quali sono le conseguenze, ma di un altro tipo di assiomi, che è diventato di moda negli anni ’90 e che si chiama “assioma di determinatezza”. E’ un po' difficile dire che cosa 166 significa assioma di determinatezza, ma la scacchiera che ci sta sotto cerca di dirlo in maniera metaforica, cioè la scacchiera, per esempio in questo caso la scacchiera sono gli scacchi , vedete qui che ci sono i personaggi, le pedine, i testi degli scacchi, ebbene nel caso degli scacchi il gioco è determinato, come si dice in gergo matematico, cioè si può dimostrare, da un p. di v. matematico, che esiste o una strategia vincente per il nero o una strategia vincente per il bianco o una strategia che permette, a tutti e due di pareggiare. Il che non significa dire la cosa più ovvia di tutto, cioè se si è giocato a scacchi o uno vince o uno perde o si pareggia, non vuol dire questo, vuol dire che è possibile, c'è, esiste, ma non sappiamo quale di queste tre possibilità esista, un modo che se il nero segue vince sempre oppure un modo che se il bianco segue vince sempre oppure un modo che tutti e due i giocatori possono seguire per arrivare sempre alla patta. Il motivo per cui oggi non si sa, quale di queste tre alternative sia quella vera, è che ovviamente la dimostrazione è del tipo non costruttivo, dice che c’è una di queste possibilità, ma non dimostra quale sia. Ebbene, comunque aggiungere alla teoria degli insiemi assiomi, che vengono appunto chiamati “assiomi di determinatezza”, significa fare l’ipotesi che per giochi molto più complicati degli scacchi, molto più complicati nel senso che le partite degli scacchi durano sempre un numero finito di mosse soltanto, ma anche per giochi matematici che possono durare all'infinito, ebbene gli assiomi di determinatezza dicono che anche per quei giochi lì che possono durare all'infinito, succede una cosa come nel caso degli scacchi, cioè uno dei due giocatori deve avere una strategia vincente. Ebbene questo sembrerebbe avere poco a che fare con la teoria degli insiemi e infatti per molti anni questi assiomi di determinatezza venivano studiati isolatamente da coloro che facevano teoria dei giochi. Poi si è scoperto e soprattutto grazie ai di lavori di Woodin negli anni ‘90, che questi assiomi di determinatezza si possono riformulare in termini insiemistici, sono molto legati agli assiomi dell'infinito ai quali abbiamo accennato prima, parlando di Cohen e quindi questi sono i grandi risultati che appunto hanno portato all'ultima parte, di cui abbiamo parlato, di questa logica matematica. Bene siamo arrivati alla fine di queste lezioni, come vi ho detto, la prossima volta invece parleremo degli influssi, da un punto di vista fondazionale della logica e allora per concludere questa carrellata di personaggi ai quali abbiamo dedicato o una lezione intera o una recente oppure come nel caso di oggi una specie di volo d'uccello, abbiamo fatto una foto di gruppo, semplicemente facendovi vedere come il termine logica è un acronimo che si riferisce ad alcuni dei personaggi di cui abbiamo trattato,cioè la L a Leibniz, la O a Ocram, la G a Godel, la I non sapevamo a chi metterla, è il milite ignoto in qualche modo, il logico ignoto che abbiamo indicato con un punto interrogativo e la C a Crisippo e la A ad Aristotele. Quindi con questo terminiamo la nostra carrellata di personaggi, vi do ancora appuntamento alla prossima volta, per l'ultima lezione sui fondamenti della matematica. Vi ricordo, comunque come sempre, di ritornare al sito internet del Nettuno e di rivedere le slide di questa lezione anche per capire meglio, anche perché quest’oggi abbiamo cercato di fare questo volo d'uccello, siamo andati molto velocemente, quindi alla prossima lezione. LEZIONE 20: Un secolo di fondamenti Benvenuti allora all'ultima lezione del nostro corso; in realtà l'argomento l'abbiamo concluso la scorsa volta, abbiamo visto una carrellata degli ultimi risultati degli ultimi personaggi della logica matematica, ma quest’oggi vogliamo finire, non so se in bellezza, ma certamente parlando di un aspetto della logica matematica che non abbiamo toccato o perlomeno al quale abbiamo accennato più volte nel corso del nostro corso, ma che non abbiamo sviscerato in qualche modo ed è l'aspetto della logica matematica come “fondamento della matematica”. Vi ricorderete la prima volta che abbiamo parlato di logica matematica, abbiamo detto che la logica era la scienza del ragionamento, ma la logica matematica era la scienza del ragionamento matematico e uno degli aspetti del ragionamento matematica è proprio questo che costituisce una fondazione dell'intero edificio e allora la logica, nel corso dei secoli e soprattutto nel corso del ‘900, ma già 167 prima al tempo dei greci, come presto vedremo, è stata il tentativo, ovvero ci sono stati parecchi tentativi di cui questo uno, di fondare la matematica su basi certe, su basi che fossero anche oltre che certe complete. Ebbene quindi finiamo allora questo nostro corso parlando di questo aspetto e poi ci saluteremo. Allora questo secolo di fondamenti naturalmente sarà introdotto, come abbiamo fatto spesso, guardando all’indietro, cioè cercando di andare a vedere quali sono stati anzitutto i fondamenti classici della matematica. Ce ne sono stati parecchi, ma qui accenneremo brevemente ad alcuni personaggi di cui abbiamo già parlato, cioè Pitagora, Euclide, e Dedekind, quindi una breve carrellata di 2000 anni di storia. Fondamenti classici A Pitagora, ricorderete, abbiamo dedicato un'intera lezione e i ¾ Pitagora (Aritmetica) fondamenti della matematica secondo Pitagora erano in realtà l'aritmetica, cioè i numeri interi. Il famoso motto di Pitagora ¾ Euclide (Geometria) ¾ Cartesio (Analisi) “tutto è numero” voleva dire precisamente proprio questo, cioè ¾ Dedekind(Aritmetica) il fatto che l'intera matematica si poteva ridurre in essenza al concetto di numero, tutto il resto veniva derivato. Che cosa successe ai tempi di Pitagora lo sappiamo, lo abbiamo ricordato in quella lezione dedicata a lui, cioè successe ad un certo punto che Pitagora scoprì il suo famoso paradosso, cioè questa scoperta degli irrazionali, il fatto che ci fossero delle quantità geometriche, in questo caso in particolare la diagonale di un quadrato, che non erano commensurabili con altre quantità geometriche, in questo caso in particolare il lato del quadrato, cioè due grandezze così semplici, così naturali, come il lato e la diagonale del quadrato non potevano essere espresse attraverso numeri interi usando una stessa unità di misura. Ed ecco che questo provocò una crisi proprio dei fondamenti, cioè la vera crisi pitagorica fu una crisi di fondamenti, cioè capire che l'aritmetica non poteva essere sufficiente come fondamento della matematica. Questo ovviamente generò una contro crisi, si guardò esattamente al contrario e Euclide nel terzo secolo avanti Cristo costruì questo suo monumento che durò per più di 2000 anni, cioè gli "elementi di matematica", gli elementi di Euclide in 13 libri e l'idea di Euclide fu di ribaltare la costruzione, cioè se Pitagora aveva cercato di fondare la matematica sui numeri interi e quindi sull’aritmetica e non era riuscito, per la crisi degli irrazionali, ebbene Euclide cercava di fare il contrario, cioè di fondare l'intera matematica sulla geometria. Cosa ci sta a fare però l’aritmetica? Naturalmente fondare la matematica non significa buttare via dei pezzi, cioè l'aritmetica doveva rimanere come parte della Euclide matematica, però non doveva essere più la parte fondamentale. Ridurre (secolo III a. C.) l'aritmetica alla geometria era qualche cosa che ancora oggi noi facciamo; Geometria per esempio pensate all’idea di sommare due numeri usando però due rappresentazioni geometriche, quindi mettendo uno dietro l'altro due segmenti e misurando quindi i numeri attraverso due segmenti . Per il prodotto dei numeri per esempio, anche qui si prendono i due segmenti che ancora corrispondono ai due numeri e poi si considera un rettangolo che abbia come lati quei due segmenti,cioè si considera l'area del rettangolo. L'area del rettangolo è appunto la figura, diciamo così, il concetto geometrico che corrisponde al prodotto di due numeri. Se ci fosse il prodotto di tre numeri, si dovrebbe fare una figura che praticamente è un parallelepipedo e il volume del parallelepipedo corrisponderebbe a tre numeri e così via. Ed ecco che su questa base, naturalmente questi sono soltanto gli inizi di questa fondazione, su questa base Euclide riuscì praticamente a ridurre l'intera matematica alla geometria. Se voi leggete gli elementi di Euclide, si parla solo di geometria, però alcuni libri sono effettivamente dedicati ai numeri primi, ai numeri interi e così via, quindi alle solite costruzione aritmetiche, però viste sotto l'ottica geometrica. Questa fu la seconda fondazione che andò avanti a lungo e non ci fu una crisi immediata di questa fondazione e nemmeno al momento di Cartesio nel secolo diciassettesimo, il 1637; in particolare quando Cartesio scrisse "il discorso di un metodo " non c’era un problema, una questione di fondamenti, non c'era tanto una crisi, non c'era bisogno di sostituire la geometria con qualche cos’altro, non Cartesio c'era bisogno, ma si poteva fare e l'idea geniale di Cartesio fu appunto di introdurre (secolo XVII) quella che noi oggi chiamiamo la “geometria cartesiana”. Quindi vedete è ancora Analisi la geometria che è al centro dell'attenzione, però la geometria cartesiana è una geometria molto diversa da quella Euclide, mentre nella geometria euclidea, gli enti geometrici sono rappresentati fine a se stessi, in qualche modo si studiano i triangoli, si studiano i cerchi eccetera, perché li si vuole studiare in quel modo lì, ebbene nella geometria cartesiana si continua a studiare questi enti però in 168 maniera indiretta. L'idea geniale, fondamentale di Cartesio fu quella di associare agli enti geometrici delle quantità numeriche, ovviamente non delle quantità intere, questo lo si sapeva già appunto dalla crisi pitagorica che gli interi non erano sufficienti, quello che Cartesio fece fu di associare, per esempio ai punti, le coordinate cartesiane che si rappresentano con numeri reali. Allora la geometria fu fondata questa volta, perlomeno si poté ricostruire la geometria sulla base dell'analisi dei numeri reali. Abbiamo parlato abbastanza lungo di questo problema, quando abbiamo dedicato una lezione a Hilbert, perché poi di lì nacque un altro tipo di crisi dei fondamenti, che portò poi ai risultati dei teoremi di Goedel e così via, però ora ci stiamo interessando soltanto ai fondamenti della matematica e questo di Hilbert era un modo di sostituire la geometria euclidea praticamente con la teoria dei numeri reali. Poi finalmente in qualche modo il cerchio si chiude con Dedekind, nel secolo diciannovesimo, che riesce a ricostruire l'intera fondazione di nuovo ritornando all'aritmetica. Con l’aritmetica ovviamente c’era il problema di Pitagora, non è che si Dedekind fosse risolto, gli irrazionali rimanevano e allora scoperta di Dedekind (secolo XIX) fu un qualche cosa che metteva insieme da una parte i numeri interi, cioè l’aritmetica e dall'altra parte la teoria dell'infinito. L’idea oggi è Aritmetica talmente naturale che sembra quasi strano che ci sia voluto qualcuno che la introducesse, in realtà l'idea è semplicemente la seguente: un numero reale, per esempio radice di due, che sia irrazionale, che quindi non si possa esprimere come rapporto diretto di due numeri interi, si può ciò nonostante esprimere mediante una successione infinita di interi, che è semplicemente il suo sviluppo decimale. Una successione infinita di numeri, compresi fa zero e nove, ripetuti infinite volte ed ecco che allora la teoria dell'infinito più l'aritmetica, permettono appunto di chiudere questo cerchio e di ritornare all'aritmetica come fondamento della matematica. Ed eccolo qua il triangolo, quindi siamo partiti dall’aritmetica con Pitagora, poi abbiamo visto la crisi dei fondamenti, la matematica viene fondata da Euclide sulla geometria, Cartesio scopre che la geometria si può fondare su un'analisi e poi finalmente Dedekind scopre che anche l'analisi si poteva fondare sull'aritmetica, mancava a Pitagora un ingrediente essenziale che era appunto quello che mancava poi in realtà non soltanto a lui, ma a tutti i greci, la cioè capacità di considerare l'infinito come qualche cosa di attuale, come qualche cosa di esistente; fino a quando si considerava all'infinito come qualche cosa di potenziale, non era possibile prendere l'aritmetica a fondamento, ma dal momento in cui invece,si permette la considerazione dell'infinito, ecco che successioni infinite di numeri interi permettono di rappresentare anche i numeri reali e dunque i punti della geometria e in quel modo lì tutta l'intera matematica. Questo è a grandi linee ovviamente, a grandissime linee, a volo d'uccello, il percorso dei fondamenti della matematica praticamente dagli inizi della matematica greca, dal sesto secolo a. C., fino alla fine circa dell'800, con il lavoro di Dedekind del 1888. A questo punto che cosa succede? Ci fu veramente una crisi, la crisi veramente dei fondamenti. Quella che viene identificata come crisi dei fondamenti nella storia della logica, nella storia della matematica avvenne alla fine dell'800, anzi in realtà agli inizi del ‘900 con quel famoso paradosso di Russell di cui abbiamo parlato più volte, a cui abbiamo dedicato un intera azione, ma poi l’abbiamo citato anche quando abbiamo parlato di Frege e così via. E allora cosa successe? Successe di nuovo che ci fu il bisogno di fare quello che era successo ai tempi di Pitagora, cioè di ricostruire le fondamenta di questo edificio della matematica in modo tale da permettere di rifondarlo, in modo da dare appunto una fondazione solida all'intero edificio e nel ‘900 in realtà ci furono parecchi tentativi e di questi appunto voglio accennare in questa lezione. I fondamenti moderni, che più o meno corrispondono a un cambiamento di moda, un cambiamento di interessi ogni vent'anni nel secolo. Verso gli anni ’20 ci fu questo tentativo di fondare la matematica sulla “nozione di insieme” e sulla“relazione di appartenenza”. Ovviamente questo è un tentativo che viene da lontano,che risale già a Frege, 1879, ebbene anche di questo parleremo brevemente, l'idea comunque fu la nozione centrale di insieme. Negli anni ‘40 si propose invece questa nuova nozione di “struttura”, cioè “insieme con operazioni”. Negli anni “60 si passò a considerare 169 Fondamenti moderni 1. Anni’20: nozione di insieme/relazione di appartenenza 2. Anni ’40: insieme con operazioni o struttura/relazione di appartenenza 3.Anni’60: nozione di funzione/relazione di composizione 4. Anni’80: nozione di funzione/applicazione di una funzione ad un argomento “non più la nozione di insieme”, ma la “nozione di funzione” e “non più la relazione di appartenenza”, bensì quella di “composizione” e negli anni ‘80, “sempre la nozione di funzione” e una nuova relazione che “non è quella di composizione”, ma quella di “applicazione di una funzione ad un argomento”. Naturalmente non pretendete, nemmeno io pretendo di avervi insegnato in una slide quali sono stati i fondamenti e adesso andiamo a vedere uno per uno quali sono stati i concetti essenziali di queste quattro fondazioni della matematica degli anni ’80, di cui finora ho detto soltanto i nomi e poi concluderemo il nostro sguardo su come la logica è stata applicata in queste cose. Ebbene cominciamo allora dalla prima fondazione degli anni ’20, la cosiddetta teoria degli insiemi. Notate che benché ci sono state altre tre fondazioni in successione, in realtà la teoria degli insiemi è ancora oggi considerata dai matematici come un fondamento sufficientemente adeguato per l'intera matematica. Oggi non ci sono più questi grandi sogni che c'erano una volta, quella di avere un fondamento unico, un fondamento completo per l'intera matematica, come mai? Perché ormai dopo un corso di logica matematica, dopo 20 lezioni certamente lo saprete anche voi, perché c'è stato Goedel, ci sono stati i suoi teoremi, si è capito che la matematica è inerentemente incompleta, non ci può essere un unico fondamento, perché nessun fondamento è sufficiente e quindi nessuna area della matematica può essere sufficiente a fondare su di sé l'intero edificio. Quindi questo è il motivo per cui oggi forse si sente di meno il bisogno, dal 1931 in avanti, di fondare la matematica su un unico argomento; però in realtà i matematici, diciamo così, i lavoratori matematici, coloro che fanno la matematica effettivamente, gli analisti, i geometri, coloro che studiano la teoria dei numeri eccetera, si accontentano diciamo così della fondazione insiemistica. Quindi questa è rimasta un pochettino la soluzione, anche se questa, come tutte le altre soluzioni, sono appunto soggiacenti alle limitazioni del teorema di Goedel, cioè il fatto che nessuna fondazione è completa. Dov'è nata questa teoria degli insiemi? Lo abbiamo detto poc'anzi, in realtà è nata verso la fine dell'800 in due maniere abbastanza differenti, una maniera che è quella logica di cui abbiamo parlato in un'intera lezione dedicata Frege e l'altra maniera invece una maniera più matematica, cioè Cantor, che è arrivato a questa fondazione della teoria degli insiemi per motivi completamente differenti; non era interessato né particolarmente a problemi logici, né a 1. Insiemi problemi fondazionali, era interessato all’analisi, solo che le cose che lui studiava, che Cantor-Frege si chiamavano in analisi serie, erano molto complicate, si trattava di andare a vedere quando queste serie convergevano oppure no, quali erano i punti di convergenza e così (fine ottocento) via via Cantor fu condotto a considerare degli insiemi sempre più complicati dei punti di convergenza e alla fine capì che si stava in qualche modo allontanando un pochettino dalla matematica, andava a mettersi in campi che erano un pochettino le sabbie mobili, campi perigliosi e allora cera il bisogno per lui, come matematico, di costruire una teoria solida con cui potesse lavorare nell'analisi. Fu proprio per questo motivo che Cantor incominciò a costruire la teoria degli insiemi, in maniera indipendente da Frege che invece aveva i suoi bisogni logici e le sue caratteristiche erano differenti. Però la teoria che sia Cantor che Frege produssero fu più o meno lo stesso genere di teorie ed era basata, fondata su due assiomi che noi già conosciamo. Adesso li ripetiamo brevemente, anche perché c'è un motivo, questo oggi li rivedremo in un altra luce, in un'altra forma, quando parleremo della quarta fondazione, cioè del calcolo lamda. ¾ Estensionalità Vi ricordo brevemente i due assiomi sui quali Frege e Cantor due insiemi sono uguali fondavano la loro teoria intuitiva degli insiemi. Il primo assioma se hanno gli stessi elementi era il cosiddetto “assioma di estensionalità”, cioè il fatto che due insiemi sono uguali se hanno gli stessi elementi, cioè il fatto che due insiemi non si possono distinguere uno dall'altro se non per le cose che ci stanno dentro, cioè gli elementi, ebbene due insiemi indistinguibili l'uno dall'altra, cioè che hanno gli stessi elementi devono essere lo stesso oggetto, devono essere lo stesso insieme. Questo “principio di estensionalità” è per l’appunto una forma, una versione del famoso “principio di identità degli indiscernibili”, un parolone dovuto a Leibniz, cioè l'identità degli indiscernibili vuol dire 170 proprio questo, cioè due cose che non si possono discernere, che non si possono separare l'una dall'altra attraverso proprietà caratteristiche, devono essere identiche e devono essere la stessa cosa. Quindi il principio di estensionalità è qualche cosa di lapalissiano, bisogna certamente accettarla. Il secondo principio è diverso ed è quello precisamente su cui Frege fondò la sua teoria degli insiemi, si chiama “principio di comprensione”. E’ un modo di legare da una parte la logica, cioè le proprietà e dall'altra parte la matematica, cioè gli insiemi. ¾ Comprensione Il principio di comprensione dice semplicemente che “ogni proprietà ogni proprietà di insiemi di insiemi determina un insieme”, cioè ogni volta che noi vogliamo determina un insieme costruire un insieme, basta che diciamo qual’è la proprietà che determina i suoi elementi, ebbene una volta determinata la proprietà, viene automaticamente determinato l’insieme, che per il principio di estensionalità dovrà essere unico, quindi ciascuna proprietà determina uno e un solo insieme. Su questa fondazione Frege pensava di essere riuscito a fondare l'intera matematica. Che cosa successe lo sappiamo, perché su questo abbiamo parlato a lungo; successe che nel 1902 arrivò Beltrand Russell che produsse il suo famoso paradosso, il paradosso di Russel1 che dimostrò che alcuni concetti riferiti alla teoria degli insiemi, in particolare il concetto di “insieme di tutti gli insiemi” oppure il concetto di “insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi ” erano concetti fastidiosi, perché in particolare Paradosso di Russell (1902) quest'ultimo erano contraddittori. Non vi ripeto per l’ennesima L’insieme degli insiemi volta la dimostrazione o per lo meno l’accenno del fatto che non appartengono a se stessi “l'insieme degli insiemi che non appartengono a se stessi non può è contraddittorio né appartenere, né non appartenere a se stesso”, è la stessa cosa del paradosso del mentitore, della frase di Goedel e così via, sono questi i circoli viziosi che comunque nel 1902 provocarono questa crisi dei fondamenti. Che cosa successe? Questo l’abbiamo già visto una volta, oggi stiamo soltanto ripetendo, perlomeno in questo momento, cose che abbiamo già visto, ebbene la soluzione che i matematici accettarono, notate non la soluzione che diede Russell con la sua teoria dei tipi logici e così via, non quella che diede Frege, che in realtà non riuscì all'epoca a dare una soluzione, ma quella che oggi viene comunemente accettata è la cosiddetta “teoria assiomatica degli insiemi” che fu proposta da questi due signori: Zermelo nel 1904, diede la prima lista di assiomi per la teoria degli insiemi, qualche cosa rimase fuori di importante, fu aggiunto da Fraenkel nel 1921, naturalmente anche vari altri contribuirono a questa Soluzione lista e oggi c'è una lista di assiomi che si chiama teoria Zermelo (1904) Fraenkel(1921) degli insiemi di Zermelo e Fraenkel che prende il nome assiomi da questi due signori. Notate, attenzione, perché il teorema di Goedel dice precisamente che ha lista degli assiomi di Zermelo e Fraenkel non è completa, ci sono moltissime proprietà degli insiemi che sono vere e che non si possono dedurre da questa lista di assiomi; però abbiamo oggi dopo Goedel che questo non è un problema della lista di Zermelo e Fraenkel, ma è un problema della matematica in generale. Qualunque altra lista anche più lunga, anche diversa, certamente avrebbe lo stesso problema, perché il teorema di Goedel è un teorema universale, che dice appunto che ci sono queste limitazioni in generale. Però gli assiomi di Zermelo e Fraenkel sono quelli che i matematici hanno scoperto essere sufficienti per le cose che fanno o perlomeno che facevano fino ad un certo punto; quindi questo è il motivo per cui oggi si continua più o meno a tenere la lista degli assiomi di Zermelo e Fraenkel, perchè sono sufficienti per la maggior parte, perlomeno per una buona parte della matematica moderna, una parte quindi non significa Ovviamente ci sono delle parti della matematica in cui questo approccio, sia l'approccio insiemistico, che la lista particolare degli assiomi di Zermelo e Fraenkel non sono sufficienti e questo è il motivo per cui ci sono altre fondazioni della matematica. In particolare vorrei parlare della seconda fondazione, degli anni ’40, alla quale invece non abbiamo mai accennato e quindi è bene che oggi ne parliamo in maniera un po’ più diffusa. La seconda fondazione è quella che si chiama delle “strutture”, cioè invece di basare la matematica su insiemi soltanto, su insiemi che in qualche modo solo collezione di oggetti, ebbene viene basata la matematica sulla nozione di struttura. La struttura è semplicemente un insieme con operazione o meglio con una o più operazioni, in altre parole si considera la nozione di insieme non sufficiente a caratterizzare quello che è l'essenza dell'oggetto matematico, soprattutto della matematica moderna e si è pensato, verso gli anni ’40, che fosse necessario considerare insiemi in qualche modo vestiti, non nudi, così si dice nel gergo matematico, cioè non semplicemente 171 insiemi senza nessun’altra proprietà, ma insiemi che hanno in più delle operazioni e adesso faremo subito degli esempi. Prima volevo dirvi chi è che ha introdotto praticamente quello che ha reso famosa questa seconda fondazione, ebbene questo personaggio è Bourbaki, che ha cominciato dal 1939, ispirandosi ovviamente ad Euclide, a scrivere una grandissima opera, grande proprio nel senso di fisico, tantissimi volumi, 39 volumi finora, quella che si chiama “gli elementi di matematica”. Vedete che, anche nel titolo, c'è un tentativo di rimpiazzare l'opera di Euclide, come fondazione. Gli elementi di matematica di Bourbaki incominciarono nel ‘39 e come vi ho detto ci furono, guarda caso 39 volumi e poi fu sospesa semplicemente per esaurimento dei suoi autori, dico dei suoi autori e non del suo autore, perché questo Bourbaki è semplicemente uno pseudonimo, in realtà Bourbaki è il nome di un generale di Napoleone Bonaparte, che ad un certo punto si sparò perché non riuscì a farsi obbedire dai suoi commilitoni. Questo sembra un modo un po' strano per essere un matematico, infatti Bourbaki non era affatto un matematico, è semplicemente lo pseudonimo che alcuni studenti all'epoca, il ‘39, che poi naturalmente divennero grandi matematici, presero come loro pseudonimo, come gruppo di ricerca. Uno di questi studenti è questo signore che vedete nella slide, molto noto, forse uno dei più grandi matematici della metà del secolo, che si chiama Andrè Weil; qualcuno di voi forse conosce la sorella che si chiama Simone Weil, una filosofa, molto nota, religiosa, che poi alla fine morì molto giovane e della quale sono pubblicati moltissimi libri. Andrè Weil è meno noto ovviamente al grande pubblico, perché le sue opere che sono opere certamente molto più profonde di quelle della sorella, sono in realtà molto complicate, molto difficili, di altissima matematica, la matematica moderna e quindi però volevo almeno farvi vedere un membro della famiglia Weil e soprattutto un membro della famiglia Bourbaki. Dicevo che le strutture sono non insiemi nudi, ma insiemi rivestiti, cioè insiemi con più operazioni. Facciamo degli esempio per rendere un pochettino più chiara questa nozione. Prendiamo ad esempio l’insieme dei numeri reali, che come abbiamo visto ad un certo punto, da Cartesio in avanti potevano essere considerati come la fondazione della matematica. Ora coi numeri reali si possono fare tante cose, per esempio si possono fare delle somme, somme che ancora appartengono all’insieme dei numeri reali, allora l’insieme dei numeri reali con l’operazione somma sono un esempio di Esempi una struttura che Bourbaki chiama monoide, però naturalmente numeri reali con oltre alla somma si possono fare anche differenze, cioè sottrarre due numeri, differenze che ancora appartengono all’insieme dei Somma: monoide Differenza: gruppo numeri reali ed ecco che l’insieme dei numeri reali con le Prodotto: anello operazioni di somma e differenza sono un esempio di quello che Quoziente: campo viene chiamato un gruppo e la struttura di gruppo è una delle Radici di polinomi: campo alg. chiuso parti essenziali di quella che oggi è l'algebra moderna, ma naturalmente con i numeri reali si può fare di più, per esempio si può fare il prodotto. Allora un gruppo in cui si possono fare somme e differenze, ma che insieme alla somma e differenza permette anche di fare dei prodotti, prodotti che ancora appartengono all’insieme dei numeri reali, ma che inoltre tra di loro si comportano come si dovrebbero comportare, per esempio che sono associative, distributive e così via, cioè che hanno le solite proprietà della somma e del prodotto quando li si usa sui numeri interi e sui reali, si chiama un anello. Esattamente come prima, quando si faceva la somma e poi si diceva che si poteva anche fare cioè la differenza, cioè l’inverso della somma, anche nel caso del prodotto si può fare l'inverso del prodotto, cioè il quoziente e allora un anello in cui si possono fare quozienti, con quozienti che ancora appartengono all’insieme dei numeri reali, si chiama campo. Naturalmente questa non è la fine della storia, su campi si possono per esempio fare delle radici, radici che ancora appartengono all’insieme dei numeri reali, inoltre si può andare a cercare le radici di polinomi ed ecco che un campo che abbia le radici di tutti i polinomi, in cui i coefficienti di questi polinomi sono scelti in questo campo si chiama campo algebricamente chiuso. Vedete che lo stesso esempio dell’insieme dei numeri reali, lo stesso insieme in realtà può essere visto da molti p.di v. diversi a seconda che si consideri solo la somma, la somma con la differenza, la somma e la differenza con il prodotto, la somma, la differenza e il prodotto con il quoziente oppure tutte queste operazioni insieme più le radici di polinomi e così via, l'insieme è sempre lo stesso, però 172 questi sono p.di v. differenti ed ecco perché è utile considerare delle strutture, perché mentre l’insieme non cambia, possono cambiare però altre cose che sono altrettanto importante. Questa è l'idea fondamentale. Quanti tipi di strutture sono stati proposti da Bourbaki? Beh, tantissime, però in generale le tre famiglie più importanti sono le seguenti: le famiglie cosiddette pure e poi ci sono varie combinazioni. Tipi di strutture La prima famiglia è quella che abbiamo identificato poco tempo fa, cioè la (pure e miste) famiglia delle cosiddette strutture algebriche, cioè gruppi, insiemi di ¾ algebriche elementi sui quali si possono fare le solite operazioni, somma, prodotto e le loro inverse e così via. Ci sono poi strutture d'ordine, per esempio sempre ¾ d'ordine l’insieme dei numeri reali, ora dimentichiamoci della somma, del prodotto ¾ topologiche e così via, ora i numeri reali si possono per esempio confrontare fra di loro, cioè presi due numeri, ad esempio П ed е oppure П e radice di 2, si può andare a vedere qual’è più piccolo, qual’è più grande; questo qual'è più piccolo e quale più grande è una relazione che si chiama “relazione d'ordine” ed ecco allora che ci sono vari tipi di strutture d'ordine, in cui la cosa importante non è fare delle operazioni sopra, bensì guardare delle relazioni e poi ci sono strutture topologiche, sempre l’insieme dei numeri reali; per esempio i numeri reali hanno la possibilità di essere usati in analisi, per fare i limiti per esempio, la cosa interessante è guardare cosa succede nei dintorni dei numeri reali, non tanto confrontarne fra di loro due oppure sommare o moltiplicare o dividere o sottrarre due numeri ed ecco che allora, quando si guarda ai dintorni dei numeri reali, si ha una struttura che si chiama struttura topologica. Allora ci sono tre tipi quindi di strutture pure: le strutture algebriche, le strutture d'ordine, le strutture topologiche, ma naturalmente si può guardare ad una struttura algebrica, per esempio un gruppo, che abbia anche una relazione d'ordine e così via, quindi si considerano strutture miste. Questo è quello che effettivamente si fa spesso in certe parti della matematica, soprattutto l'algebra, la geometria, la geometria algebrica e così via. Ed è per questo che in questi particolari campi soprattutto, la fondazione della matematica che oggi viene preferita, non è tanto la teoria degli insiemi, che viene considerata un po' poverella e poi soprattutto che si basa su nozioni come gli assiomi che non interessano molto i matematici, ma è più che altro questo tipo di fondazione, cioè la fondazione strutturale, perché è proprio quella che isola, enuclea in qualche modo le proprietà essenziali che interessano agli algebrici che studiano strutture di questo genere. Ebbene questo è il secondo tipo di fondazioni. C’è un terzo tipo di fondazioni, che prosegue in questo processo di successiva astrazione, siamo partiti degli insiemi, poi abbiamo aggiunto agli insiemi delle operazioni, il terzo passo è la cosiddetta fondazione delle 3. Categorie categorie, che cominciò ad essere di moda verso gli anni ’50-‘60. Insiemi strutture Che cos'è una categoria? Per fare l'esempio di una categoria ----------= ----------possiamo fare questa proporzione: gli insiemi stanno alle funzioni funzioni morfismi come le strutture ai morfismi, cioè insiemi che si possono collegare x+y x y = 2 ·2 fra di loro attraverso le funzioni, sono un analogo di quello che 2 succede quando si considerano le strutture e le si collega non più soltanto con funzioni che sono cose che mandano un elemento in un elemento, bensì con cose che chiamiamo in matematica morfismi, cioè i morfismi sono funzioni che preservano la struttura. Ed ecco che allora le nozioni fondamentali della matematica che nel caso insiemistico erano semplicemente insiemi , cioè collezioni di oggetti e funzioni, cioè modi di mettere in relazione tra di loro queste collezioni, nel caso delle strutture diventano cose un po' più complicate, perché non ci sono solo più insiemi, ma si sono insiemi con operazioni e allora non ci saranno più soltanto funzioni che collegano degli insiemi, ma ci saranno funzioni che preservano delle strutture. Vi faccio un esempio qui: 2 elevato ad x per 2 elevato ad y, sapete tutti che quando si fa la moltiplicazione con una stessa base gli esponenti si sommano e 2 elevato ad x per 2 elevato ad y diventa 2 elevato ad x+y. Guardate che cosa è successo sulla destra: 2 elevato ad x per 2 elevato ad y, per una proprietà dell’operazione prodotto, sulla sinistra l’operazione di prodotto è diventata un'operazione di somma. Questo è un tipico morfismo, un morfismo che manda dei numeri reali in numeri reali e che però trasforma i prodotti in somme. Ed ecco che allora quello che in realtà era lo stesso insieme, cioè numeri reali, diventa un qualche cosa di diverso; qui sulla sinistra ci sono numeri reali col prodotto, qua sulla destra ci sono numeri reali con la somma, cioè due strutture diverse, lo stesso insieme, ma con strutture diverse, differenti. Allora, viene naturale introdurre questa nuova nozione appunto introdotta da questi due signori 173 Eilenberg e MacLane verso il 1945. La figura di questo baldo giovine che abbiamo nella slide è in realtà Maclane esattamente quando era giovane, oggi MacLane ha novant'anni, io lo ho visto qualche anno fa e non era più così, comunque questo era quello che succedeva 55 anni fa. La nozione che Eilenberg e MacLane introdussero appunto nel ‘45 si chiama categoria. La categoria è una classe, un grande insieme di strutture che sono collegate da morfismi che appunto preservano la struttura, cioè in altre parole nel momento in cui la nozione per esempio di gruppo, isola l'idea di un insieme con un'operazione di somma e sottrazione, ci si può poi chiedere che cosa c'e in comune fra tutti i vari gruppi, cambiano gli elementi ovviamente, cambia l’insieme che ci sta sotto, però l'idea è sempre la stessa, la struttura è sempre la stessa e allora l'idea di MacLane é quella di dire prendiamo tutti i possibili esempi di gruppi e cerchiamo di vedere come li si può collegare uno con l'altro mediante funzioni che preservano la struttura. Ebbene tutti questi esempi di gruppo vengono appunto a costituire quella che oggi viene chiamata una categoria. La teoria delle categorie si può addirittura fondare senza parlare più di insiemi e senza parlare più di strutture. Questa è stata la scoperta di Eilenberg e Maclane che invece di dire che la struttura è un insieme con (dimenticando gli insiemi e le strutture) certe operazioni e poi di considerare un insieme di strutture Categoria che hanno certe relazioni fra di loro che si chiamano morfismi, classe di morfismi che l'idea è quella di considerare soltanto i morfismi, dimenticarsi si compongono associativamente degli insiemi che ci stanno sotto e considerare soltanto le che ammettono identità relazioni tra queste strutture. Ecco allora, che “la definizione di categoria diventa una classe di morfismi”, non più di strutture che si compongono in maniera associativa e che ammettono identità. Non pretendo ovviamente che si capisca che cosa questo significa in due parole, però la cosa importante è questa, cioè che non c'è più bisogno nel momento in cui si parla di categorie di parlare anche di insiemi, di parlare di quello che era l'altra fondazione, mentre sembrava che la teoria degli insiemi fino a due minuti fa fosse la vera fondazione della matematica, in realtà si scopre che le categorie possono essere fondate indipendentemente senza più parlare degli insiemi. Effettivamente questo è quello che successe, l’identità o meglio la proporzione che abbiamo trovato prima tra insiemi e funzioni, tra strutture e i morfismi, si può estendere addirittura, si può trovare una nozione più generale di morfismo, che si chiama funtore e naturalmente sorge il problema esattamente come per la teoria degli insiemi, cioè che cosa corrisponde “all’insieme di tutti gli insiemi”, che in questo caso diventa “alla categoria di tutte le categorie”? E’ chiaro che questo sarà un concetto contraddittorio, esattamente come nel caso del paradosso di Russell, ma c’è stata una soluzione. insiemi strutture categorie Fra le varie soluzioni che sono state considerate, --------- = ------------ = ------introdotte nell'arco degli anni, anzitutto ci fu questa funzioni morfismi funtori idea di considerare soltanto le categorie piccole, cioè quelle che si potrebbero considerare come piccoli Problema insiemi, però questa è una limitazione che in matematica Categoria di tutte le categorie? è risultata poco utile e allora questo signore, che vedete nella slide, che sembra quasi uno marine, in realtà è un matematico, si chiama Grothendieck, uno dei grandi matematici del secolo, che prese la medaglia Fields l'analogo del premio Nobel, fu quella di considerare degli universi, cioè delle categorie enormi, che in realtà, dal p.di v. della teoria degli insiemi, sarebbero state contraddittorie e dal p.di v. della teoria delle categorie rimangono in qualche modo autosufficienti. Un'altro modo invece che è stato proposto da questo signore che si chiama Lawvere, è stato quello di proporre un’assiomatizzazione della nozione di categoria, esattamente come Zermelo e Fraenkel avevano proposto una assiomatizzazione della teoria degli insiemi. Quindi vedete, la “teoria delle categorie” è diventata qualche cosa di 174 autosufficiente, che ha cercato di sostituire, dal p.di v. della matematica, quella che era la nozione di insieme. Quanto ci sia riuscito, questo è naturalmente qualche cosa che si dibatte, alcuni matematici continuano a ritenere che la teoria degli insiemi sia sufficiente, che non ci sia bisogno di fare altro, molti altri matematici soprattutto quelli che come questo signore qui, Grothendieck, fanno geometria algebrica, si interessano di certe aree piuttosto complessa della matematica, ritengono che la teoria delle categorie sia più adatta invece come fondamento della matematica. A noi, che siamo dei logici, la cosa va benissimo in ogni caso, perché queste sono tutte parte di cui la logica poi si interessa, quindi a noi interessa essere utile a tutti e non certamente essere monopolisti. Ma c'è un quarto tipo di fondazione che è stato introdotto, come vedete nel 1933, da questo signore che si chiama Church, che era un grande logico, uno dei discepoli di Goedel, uno di quelli che capì immediatamente i risultati di Goedel negli anni ’30 e che anzi li estese e così via; però la cosa interessante è che questa teoria fondata da Church, di cui adesso dirò poche parole, in realtà divenne importante verso gli anni ‘80. Come mai? 4. Lambda calcolo Vediamo anzi tutto com’è fondata questa teoria del lambda calcolo; Church beh, l'idea è un po' l'uovo di colombo, la “teoria del lambda calcolo” (1933) è fondata esattamente come la teoria degli insiemi ingenua, cioè esattamente come la teoria di Frege e di Cantor. Solo che invece di fondarla sulla nozione di insieme la si fonda sulla nozione di funzione. Che cosa corrisponde all'elemento di un insieme? Corrisponde l'argomento di una funzione. Che cosa corrisponde all'appartenenza ad un insieme? Corrisponde al fatto di applicare la funzione al suo argomento. Cosa corrisponde all’astrazione, cioè al processo che data una descrizione degli elementi di un insiemi determina l’insieme stesso? Corrisponde quello che Churchl chiamava per l’appunto la lambda astrazione, cioè invece di definire gli insiemi attraverso le proprietà, si definiscano le funzioni attraverso le descrizioni dei valori. E allora sembrerebbe però che una fondazione della teoria del lambda insieme ׀funzione calcolo, data esattamente come la fondazione ingenua della elemento ׀argomento teoria degli insiemi, provochi gli stessi problemi; anzitutto cominciamo a vedere che cosa succede nel caso di appartenenza ׀applicazione questa astrazione ׀lambda astrazione fondazione. Vi ricordate che il primo assioma della teoria degli insiemi era il cosiddetto assioma di estensionalità, cioè due insiemi che hanno gli stessi elementi devono essere uguali. Cosa succede per l’estensionalità nel caso del lambda calcolo? Più o meno la stessa cosa, cioè due funzioni che abbiano gli stessi valori sono uguali per “il principio di comprensione”, che diceva nel caso degli insiemi, che un insieme viene determinato dalle proprietà dei suoi ¾ Estensionalità elementi, mentre ora il principio di comprensione diventa più o meno la due funzioni sono uguali se stessa cosa, cioè una funzione viene determinata da una descrizione dei hanno gli stessi valori suoi valori. Allora sembrerebbe d’aver messo in piedi una teoria delle ¾ Comprensione funzioni ingenua, molto analoga, molto simile alla teoria ingenua degli ogni decisione di valori insiemi, basata sugli stessi principi, basata su una analogia. C'è un unico determina una funzione dubbio però, che ci viene in mente e il dubbio è: ma il paradosso di Russell? Cioè se c'era un paradosso nel caso della teoria degli insiemi, se questa teoria del lambda calcolo è stata fondata nello stesso modo della teoria degli insiemi, succederà di nuovo un patatrac, cioè il paradosso di Russell verrà riformulato in un paradosso analogo per il lambda calcolo? C'è un unico problema però e il problema è questo, cioè quando si faceva il paradosso di Russell, che ho citato poco tempo fa, ebbene il paradosso di Russell parlava di insiemi che non appartengono a se stessi. Ora insieme, va bene, perché questa è parte della teoria degli insiemi, appartenere o no a se stessi, questa è di nuovo parte della teoria degli insiemi, perché l’appartenenza è la relazione fondamentale della teoria degli insiemi, ma c'è questa negazione che dà fastidio, perché la negazione nel caso della teoria degli insiemi è qualche cosa che viene inglobata nella teoria, la negazione è un predicato logico, ma qui nel lambda calcolo si parla soltanto di funzione, non c'è nessuna cosa che corrisponda alla negazione e allora non c'è la possibilità di usare la logica, il lambda calcolo in qualche modo è immune dalle cose che derivano dalla logica e allora questa 175 fu la scoperta di Church, cioè il paradosso di Russell diventa un teorema, il famoso teorema del punto fisso di Curry, quindi non c'è problema ed è per questo che la teoria della lampada calcolo è un qualche cosa di dimostrabilmente consistente. Questo diventò una fondazione della matematica che ai matematici il paradosso di Russell interessò poco per molti anni, ma che però negli anni 80 è diventata diventa importante perché è diventata la fondazione dell'informatica teorica, il teorema del in particolare il teorema del punto fisso è praticamente la fondazione punto fisso di Curry in informatica di quello che si chiama oggi la programmazione ricorsiva. Bene, io non credo di essere riuscito, ovviamente soltanto nel giro di un'ora, a darvi un'idea di quelli che sono stati i fondamenti della matematica in questo secolo, però quello che volevo dire era appunto che la logica non è stata soltanto, in questi due millenni che abbiamo più o meno percorso a volo d’uccello in queste 20 lezioni, una problematica che ha interessato la filosofia, che ha interessato l'informatica e la matematica da un p.di v. puramente logico, cioè puramente di analisi del linguaggio, analisi del ragionamento, è stata anche e soprattutto questo ed è su questo che ci siamo concentrati ovviamente, ma questo è stato quello che ho cercato di dimostrare o perlomeno di dire, di accennare in quest'ultima lezione, la logica è stata anche un tentativo di dare una fondazione, una possibile fondazione salda, sicura, certa alla matematica. Bene, siamo comunque arrivati più o meno alla fine di queste lezione, vi ricordate abbiano introdotto la logica come scienza del ragionamento, abbiamo fatto 18 lezioni dedicate ai grandi personaggi della logica, non soltanto di questo secolo ovviamente, ma dell'intera storia, siamo partiti molto alla lontana, da Pitagora, Platone, Aristotele, Crisippo e poi ci siamo avvicinati piano piano ai giorni nostri, passando attraverso la Scolastica; abbiamo parlato soprattutto dei grandi logici tipo Frege, tipo Russell, Wittgenstein e soprattutto ovviamente Goedel, Turing che ha fondato l'informatica e abbiamo scoperto che la logica in realtà è qualche cosa che coinvolge e interessa perlomeno tre campi del sapere, cioè la filosofia, perché questa è stata la sua origine, la matematica, perché questo è il suo oggetto fin dagli inizi e l'informatica, perché di lì, proprio dalla logica, è nata l'informatica. Bene, a questo punto non mi resta altro che invitarvi a continuare lo studio della logica, andando a vedervi i testi che vi suggerisco nelle indicazioni bibliografiche, perché questo non può essere stato altro che semplicemente un invito alla lettura, alla conoscenza della logica. Io finisco in maniera manzoniana, spero che comunque non lo sia stato troppo noioso e se in qualche modo siamo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta. 176