i luoghi & i giorni
SBC Edizioni è un marchio:
© SBC Communication srl 2008
www.sbcedizioni.it
Perugia - Ravenna
Direzione editoriale: Via Pier Traversari 16 - 48100 Ravenna
IEdizione Novembre 2010
ISBN 978-88-6347-130-4
Bruno Servadei
Vita da
Caccia Bombardiere
SBC Edizioni
Introduzione
Leggendo il libro scorrono 12 anni della vita di un uomo, una vita insolita
se misurata con il metro dell’immaginario comune.
Procedendo nella lettura la presa sul lettore diventa via via più tenace.
Contribuisce la scorrevolezza del testo, il senso dell’umorismo pur se mai
spinto all’estremo, l’eccezionalità delle situazioni narrate e ridotte a disarmante normalità.
Su tutto aleggia la figura dell’autore, protagonista di questa singolare vita:
il suo sguardo acuto e parziale sul mondo, la sua colpevole innocenza, la sua
sintonia con l’ambiente che lo definisce, le piccole e grandi decisioni prese,
in apparenza, senza angoscia, i sentimenti vissuti in solitudine ed espressi in
modo distaccato e rassicurante, il poco spazio per l’amore quasi un disturbo
nella sequenza d’adempimenti ineludibili.
Sullo sfondo la Storia con la S maiuscola che sta lì senza prova contraria su
cosa era giusto o cosa era sbagliato, che non è fatta solo dalle scelte dei potenti,
ma si realizza sommando vite singole impegnate quotidianamente nei tanti
piccoli tasselli che la compongono.
Quello che nella grande storia è il periodo della Guerra Fredda in realtà
erano uomini seduti su una bomba, addestrati ad obbedire in venti minuti,
all’ordine di andare a distruggere il mondo e loro stessi.
Come si vive una realtà di questo tipo è quello che ha cercato di scrivere
l’autore di questo libro.
Quello è stato un periodo in cui le persone, ma soprattutto quelli come
l’autore, vivevano il grande paradosso di una civiltà che si godeva la sua solidità seduta sulla sua prevedibile distruzione totale.
Il silenzio su questa realtà era riempito dalla propaganda contro il nemico
e dalla pubblicità sul benessere economico che avanzava e riempiva di nuovi
doveri consumistici i rari momenti di consapevolezza che si insinuavano al
pensiero di una simile catastrofe.
La rimozione era la pratica psicologica, individuale e collettiva, unita
all’opacità e all’ipocrisia dell’informazione su quanto realmente accadeva nei
luoghi della guerra. Lui, l’autore, era lì e da questa visuale è nata l’esigenza di
proporre un punto di vista parziale e privilegiato sugli eventi di quegli anni.
Per la prima volta gli uomini preparavano una guerra che insieme al nemico avrebbe distrutto anche loro e l’unica speranza era di “non dover fare”
ciò che “sapevano fare”. Un deserto dei tartari senza neppure la speranza della
gloria.
Questo paradosso forse spiega, in particolare nella realtà italiana, tante
leggerezze, incongruenze, ipocrisie e vere e proprie assurdità nel modo di prepararsi ad un evento di tale portata.
Vivere ogni giorno con questo incubo è stato il prezzo della pace e del benessere di quegli anni.
E allora la mistificazione cinematografica del “top gun” si liquefa nella descrizione della vita di ogni giorno di questi uomini, nella normalità e assurdità
dei compiti loro assegnati, nella forzata allegria della vita del campo, nella loro
vita familiare condizionata da esigenze commisurate al compito primario cui
erano destinati.
Poi c’era il volo, che da routine quotidiana, ogni tanto, nel silenzio delle
nuvole e dello spazio infinito, regalava momenti intimi e completi di felicità e
restituiva alla loro vita il senso più profondo e autentico.
Da fuori l’attività del volo suscita ammirazione ed entusiasmo, da dentro è
un’esperienza fisica e spirituale in cui la vita di un uomo raggiunge i suoi limiti
di verità e di realizzazione di sé.
Marina Vici
Parte Prima
La 6a Aerobrigata di Ghedi
Vita da Caccia Bombardiere - 11
Verso il mio Reparto
Il motore della mia piccola BMW ronfava sommesso alle mie spalle, mentre, in un giorno dell’Agosto 1963, percorrevo la Romea, la strada che da Rimini, attraverso l’assolata campagna romagnola, mi portava verso il nord. Il
più stupito di tanta tranquillità doveva essere il motore bicilindrico della mia
vetturetta, il mitico boxer di origine motociclistica, abituato ad essere costantemente strapazzato oltre ogni limite. Non avevo voglia di correre: quel giorno
la mia ansia di competere, sempre vigile e quasi astiosa, sembrava placata. La
mia mente era così presa dal pensiero dell’imminente che mi attendeva da sopportare, senza reagire, che qualche auto mi superasse. In effetti, il momento
era storico: stavo per raggiungere il mio Reparto operativo da caccia.
Entro sera mi sarei presentato alla base aerea che sarebbe diventata il mio
nuovo mondo. Dopo quattro duri anni d’Accademia e di scuole di volo stava
per avere inizio, finalmente, la mia vera vita di pilota!
L’Accademia era stata un vero tormento: sveglia alle 5:30, adunate, marce,
giri di corsa, punizioni e celle. Ogni giorno undici ore sui libri, di cui sette di
lezioni per il biennio d’ingegneria; in un ambiente dove i docenti t’interrogavano come al liceo e, se non eri preparato, eri punito, fino anche alla cella. Prima e dopo le lezioni avevamo quattro ore di studio obbligatorio, in un’enorme
sala con cento scrivanie; dietro ciascuna un malcapitato che, specie nei primi
giorni, si chiedeva cosa diavolo di male avesse fatto per essere capitato in un
simile incubo. Erano concessi un paio di minuti per decidere quali libri di
studio estrarre dalla scrivania: poi i giochi erano chiusi. Se solo ti raschiavi la
gola o aprivi un cassetto - di tentare l’apertura dello sportello, non se ne parlava nemmeno: aveva una chiusura a molla che faceva un “click” assordante-,
eri considerato un vile disturbatore della comunità ed additato al pubblico
ludibrio, prima di andare a passare la notte in cella. Tutti gli esami del primo
e, poi, del secondo anno del biennio di ingegneria, con l’aggiunta di una decina di esami su materie militari, erano sostenuti in un mese, a distanza di un
paio di giorni uno dall’altro; tengo a sottolineare giorni, non mesi o semestri.
Tutto ciò fatto in concomitanza con l’attività di volo, con il risultato che chi
12 - B. Servadei
incontrava problemi nello studio o nel volo li travasava anche nell’altra attività. Così, fra difficoltà nello studio o nel volo, quasi metà dei nostri colleghi ci
aveva lasciato lungo il tragitto.
In effetti, potevo considerarmi un sopravissuto: al concorso eravamo partiti in circa 1500 candidati per 90 posti. La visita medica aveva provveduto a
segarne quasi 1200. Sapendo della difficoltà di superare l’esame fisico, alcuni
candidati avevano tentato l’impossibile: c’erano obesi che avevano rischiato
l’infarto pedalando sulla famigerata bicicletta, quella i cui pedali diventavano
sempre più duri. Altri - che non riuscivano quasi a stare dritti in piedi ad occhi
chiusi - si erano persi tentando di camminare diritti su una riga tracciata per
terra. Ne ricordo uno che, a 20 anni, aveva le mani che tremavano tanto da
sembrare malato del morbo di Parkinson! I restanti, quelli fisicamente buoni
per fare i piloti, si erano confrontati con gli esami di cultura, che avevano
determinato la graduatoria finale. Io mi ero piazzato poco dopo la metà, un
risultato che mi aveva lasciato, nel complesso, soddisfatto. Consideravo importante essere nei 90; poco sapevo del fatto che, invece, la posizione in quella
graduatoria sarebbe stata decisiva per tutta l’Accademia e ben oltre.
Oggi, alla luce dell’esperienza acquisita sulle spinte che stanno dietro al
concorso e del fatto che provenivo da un mondo del tutto estraneo a quei
giochi, rivaluto in positivo la mia prestazione, ottenuta, fra l’altro, senza particolare impegno.
Così, il nostro corso si era avviato con un centinaio di allievi: 90 nuovi
ed una decina dell’anno precedente, che non ce l’avevano fatta a superare gli
esami ed erano stati ammessi a ripetere l’anno.
Il nostro era il terzo corso di un iter sperimentale che prevedeva l’effettuazione di tutto il programma di addestramento al volo contemporaneamente
allo studio. In precedenza le due attività erano fatte in tempi diversi. I risultati
del nuovo iter erano stati disastrosi: nei due corsi precedenti la percentuale di
allievi eliminati per ragioni di studio o di volo era stata di gran lunga superiore a quelle degli anni passati. Di conseguenza, era già stato deciso che con il
nostro corso la sperimentazione si sarebbe conclusa.
Del centinaio di allievi piloti dell’inizio del corso, ne erano rimasti solo una
cinquantina, dei quali poco più della metà diretti verso i reparti da caccia.
Personalmente non avevo sofferto molto né per lo studio né per il volo. Lo
studio non mi aveva dato grosse preoccupazioni in quanto non mi c’ero proprio dedicato. Studiare non era mai stata una mia specialità: al liceo me l’ero
sempre cavata grazie ad una memoria fuori del comune (almeno così dicevano
Vita da Caccia Bombardiere - 13
gli insegnanti) ed una buona dose di culo. Si diceva che fossero state proprio
queste mie particolari attitudini a consentirmi di passare anche gli esami in
Accademia; sembra che capitasse che mi fossero regolarmente fatte domande
proprio su quello che avevo letto un minuto prima di entrare a fare l’esame.
Sarà anche stato così: certo è che, superati in prima sessione tutti gli esami
del secondo anno, avrei potuto andarmene dall’Accademia a 20 anni appena
compiuti, con il biennio di ingegneria ed il servizio militare fatto. Cosa che era
poi, proprio quanto avevo programmato di fare entrando in Accademia.
Ma il mio programma utilitaristico non aveva fatto i conti con il volo:
un’esperienza nuova ed emozionante, che non mi aspettavo e che era stata per
me una rivelazione. I voli istruzionali sull’AT6, a Pomigliano e poi a Grottaglie, erano stati un’esperienza esaltante. Peccato solo che non avessi potuto
condividerla con qualcuno: mi era toccato di viverla da solitario.
In genere ad un istruttore erano assegnati due o tre allievi. In effetti, anch’io
avevo iniziato l’addestramento al volo con due compagni: ma uno trovò fin
dai primi giorni la vita di Accademia troppo tosta per i suoi gusti e se la filò;
l’altro incontrò gravi problemi con il volo e ben presto venne eliminato dal
corso di pilotaggio. Così rimasi solo. Pensavo che, almeno, avrei avuto il mio
istruttore tutto per me: invece fu assegnato ad altri allievi. Ebbi l’impressione
di essere stato abbandonato: da allora non ho più avuto un istruttore mio, uno
che potessi considerare il mio punto di riferimento. Nei primi mesi ho volato chiedendomi se ci “acchiappavo”, perché mi cambiavano continuamente
istruttore. Non mi sembrava una cosa buona. Non avevo qualcuno cui riportare le mie sensazioni ed avevo l’impressione che a nessuno sarebbe importato
qualcosa del mio destino. Vedevo miei colleghi coccolati e seguiti passo passo
sempre dallo stesso istruttore, di cui diventavano anche amici. Istruttore e
rispettivi allievi dopo un po’ diventavano quasi una squadra. Io, invece, non
avevo un istruttore che mi filasse: e la cosa non si è limitata solo alla scuola iniziale di Pomigliano. Si è ripetuta nella seconda fase di addestramento sul T6
a Grottaglie ed anche, sia pure in misura più limitata, ad Amendola sul T33.
In quattro anni di scuole di volo non sono mai riuscito ad avere un istruttore
che potessi definire mio; certo, poteva capitare che ogni tanto volassi due o
tre volte di fila con lo stesso istruttore, ma sembrava sempre un fatto casuale.
All’inizio mi ero anche preoccupato perché pensavo che nessuno volesse volare
con me. E non c’era un motivo apparente: al contrario di molti altri, io non
sono mai stato male in volo, neppure nei primissimi voli, quando era prassi
quasi rituale e volare dopo che qualcuno aveva vomitato nel velivolo poteva
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indurre ad imitarlo!
Un giorno, espressi i miei dubbi ad uno dei vari istruttori con cui avevo
volato: mi disse che se mi cambiavano spesso era un buon segno. Voleva dire
che non avevo problemi, come gli risultava dal volo appena fatto. Era sua
opinione, invece, che proprio chi aveva un istruttore fisso, che lo curava “a
uomo”, dovesse preoccuparsi. Così mi consolai un po’, anche se avrei preferito
che qualcuno si prendesse a cuore il mio addestramento: di certo n’avrei tratto
dei vantaggi.
Fatto sta che anche nel volo superai, apparentemente senza difficoltà e senza dover far ricorso al culo, anche perché nel volo serviva poco, i vari esami
previsti, senza essere mai “gratificato” di missioni di proroga che, nel volo, erano l’equivalente degli esami a settembre di antica memoria liceale. Superata la
selezione iniziale, quella che sanciva se saresti diventato pilota o meno, l’esame
successivo più importante era certamente quello che divideva i più bravi - destinati agli aviogetti - da quelli che lo erano meno, ma a volte, anche solo orbi
opportunisti o cacasotto, destinati alle altre linee di volo dell’A.M.
Superata quindi tutta la selezione del volo senza subire limitazioni, ora era
venuto il momento della mia destinazione al Reparto operativo.
La notizia della mia destinazione mi sarebbe giunta per telegramma a Riccione, nella casa di famiglia al mare, dove avevo trascorso tutte le estati fin
dalla prima infanzia. Lì mi trovavo da qualche giorno, dopo avere lasciato la
scuola di volo di Amendola, al termine del corso aviogetti sul T33 ed il conseguimento del brevetto di pilota militare. Durante le fasi finali del corso tutti
gli allievi, ormai ufficiali con il grado di sottotenente, avevano indicato, in
ordine di preferenza, i Reparti ai quali avrebbero desiderato essere assegnati.
Non so su quali parametri i miei colleghi avessero fatto le proprie scelte e
quanto sapessero dell’attività svolta da ciascun Reparto: sono convinto che coloro che avevano parenti o amici in Aeronautica fossero molto più informati di
me ed avessero quindi potuto fare scelte più consapevoli. Durante l’Accademia
nessuno ci aveva informato in modo adeguato su quelli che erano i compiti
operativi dei vari Reparti: tanto meno c’erano state menzionate le conseguenze
che lo svolgerle presso l’uno o l’altro avrebbe avuto sulla vita di tutti i giorni e
sulla carriera. E se anche lo avevano fatto, io di certo me lo ero perso. Ricordo
solo che i vari piloti provenienti da reparti operativi assegnati al nostro inquadramento ci avevano parlato delle caratteristiche dei velivoli in dotazione, ma
non certo delle loro capacità belliche: solo quelle acrobatiche erano tema di
vanto. Alla fine, ti facevi l’idea che la massima capacità operativa dei reparti
Vita da Caccia Bombardiere - 15
bellici, quelli che avrebbero dovuto difendere i “sacri” confini della Patria, si
estrinsecasse nel fare bene l’acrobazia. In sintesi, l’arma migliore per difendere
la pace sembrava essere un buon tonneau1, ma fatto dopo un bel looping2,
ambedue fatti alla minima quota possibile!
Di armi non si parlava mai. Allora ero giovane e non facevo caso a queste cose, ma più tardi mi sarei reso conto di quanto questo concetto, più sei
acrobata più sei bravo, fosse radicato in Aeronautica: molto più di quanto si
potesse immaginare. Non dico poi quanto lo fosse, e come lo è tuttora, fra la
popolazione civile.
Fatto sta che stavo andando verso il mio Reparto e scoprivo di non sapere
molto di quanto andavo a fare. La cosa non mi preoccupava più di tanto, e
invece avrebbe dovuto! Solo in seguito avrei scoperto quanto il ruolo di un
Reparto potesse essere decisivo per la vita di un pilota.
Fu così che, avendo un’idea molto vaga di quello che i vari Reparti dell’Aeronautica facessero, quando dovetti esprimere le mie preferenze per l’assegnazione mi orientai sulla base di motivazioni di comodo. Tutti quelli del nord
chiedevano di essere assegnati a Reparti dislocati nell’area di provenienza: per
la verità anche molti del sud chiedevano di andare al Nord. Io, romagnolo
di origine ma cresciuto a Como, dove tuttora erano i miei, non avevo alcun
interesse a tornare a Como o dintorni: a prescindere dall’assenza di reparti
aeronautici in zona, stavo benissimo lontano dalla famiglia ed i pochi legami
sentimentali o di amicizia che avevo in zona si erano sfilacciati al punto da
essere insignificanti. Così, avevo chiesto di essere assegnato alla 5° Aerobrigata
di Rimini, perché lì avrei potuto utilizzare la casa di famiglia e rimanere in un
ambiente che mi era congeniale. In estate avrei avuto parenti, amici e ragazze
di ogni provenienza a volontà; in inverno mi sarei accontentato delle ragazze locali che, per esperienza diretta, non avevano nulla da invidiare alle più
acclamate tedesche o vichinghe, in gran voga all’epoca. In alternativa, come
seconda opzione, avevo chiesto la 2° Aerobrigata di Treviso, perché volare sul
piccolo e manovriero G91, di cui era dotata, mi intrigava. Il fatto che ambedue
questi Reparti fossero cacciabombardieri non aveva avuto alcuna influenza
sulla mia decisione: credo che se a Rimini invece di cacciabombardieri ci fossero stati intercettori montati su altri velivoli avrei comunque chiesto di essere
assegnato a quel Reparto.
1
Tonneau: manovra che prevede l’avvitamento del velivolo sull’asse longitudinale.
2
Looping - detto anche “giro della morte”: manovra che prevede la rotazione completa del velivolo intorno all’asse trasversale.
16 - B. Servadei
La decisione delle alte sfere sulla mia destinazione mi sarebbe stata notificata tramite telegramma all’indirizzo che avevo fornito.
L’attesa del telegramma si era protratta per alcuni giorni, senza procurarmi
ansia alcuna. Riccione è una località che in estate sa offrire ampie possibilità
di distrazione: il fatto che l’arrivo del telegramma ritardasse rispetto ai tempi
promessi era quasi benvenuto.
Ammetto, però, che la vista del postino con in mano il tipico involucro
giallo dell’epoca mi mise un po’ di agitazione: mi si ripropose la situazione di
quando, quattro anni prima, ricevetti, sempre a Riccione, il telegramma con
i risultati dell’esame di maturità. Quella volta andò bene, anzi e inaspettatamente, benissimo: un tele con una sola parola: “maturo”. Per inciso, mi urge
sottolineare l’enorme differenza fra il “maturo” del 1959 e quello di oggi. Forse
il fatto che l’abbia conseguita anch’io, superando anche l’esame di italiano,
può rappresentare un elemento a discapito di questa tesi; ma la maturità nel
1959 era una cosa seria, veramente seria. Io fui, certo immeritatamente, uno
dei soli 5 promossi a luglio del liceo Scientifico Paolo Giovio di Como, su un
centinaio di maturandi provenienti da tutta la provincia: 5%. di promossi in
prima sessione, 50% scarsi in tutto. Oggi sono tutti promossi, quindi un telex
che annuncia “maturo” sembra una banalità: allora era un evento!
Sono diventati tutti così bravi? Direi proprio di no. Le nostre scuole, che
una volta ci erano invidiate, oggi sono fra le peggiori al mondo, e gli effetti
sono sotto gli occhi di tutti.
Tornando al telegramma tanto atteso, il suo responso mi lasciò a dir poco
sorpreso: “6° Aerobrigata di Ghedi”. Non era né quello che avevo chiesto, anche in seconda priorità, né quello che mi aspettavo.
La mia iniziale delusione, dopo qualche riflessione, fu attenuata dalla constatazione che, tutto sommato, la 6° Aerobrigata era quella dei famosi “Diavoli
Rossi”, un Reparto di grande prestigio. Poi, Ghedi era in Lombardia, vicino
Brescia. Non distava molto da Como, città dalla quale provenivo. Un’ulteriore riflessione mi indusse anche a pensare che, forse, con tale assegnazione i
miei superiori avessero voluto agevolarmi mandandomi in Lombardia, vicino a casa. Oggi mi rendo conto che era un’ipotesi fantasiosa: c’è voluto del
tempo per scoprire le lotte e gli intrighi che stanno dietro alle assegnazioni
degli allievi dell’Accademia. Buona parte di loro è dotata di padrini altolocati,
consci che il Reparto di prima assegnazione è di per se un biglietto da visita
importante per la carriera. Io ero, e sono sempre rimasto, un perfetto estraneo
all’organizzazione aeronautica; di padrini neanche l’ombra! Del resto la prima
Vita da Caccia Bombardiere - 17
divisa aeronautica che avevo visto in vita mia era stata quella del VAM, soldato di guardia dell’A.M., all’ingresso dell’Accademia il giorno in cui mi sono
presentato al concorso. La mia assegnazione a Ghedi sarà stata anche decisa
in base alle più oculate considerazioni, ma fra queste escluderei sicuramente
qualsiasi possibilità che esse avessero tenuto in alcun conto i miei personali
interessi!
Tuttavia, grazie alla mia ingenuità, sul momento mi piacque pensare alla
bontà dei miei superiori; un’idea utopica che mi aiutò ad accettare, quasi con
riconoscenza, un verdetto inatteso, che mi lasciava solo un certo rammarico
per non avere avuto Rimini.
Il viaggio proseguiva e la mia mente era perduta nella ricerca di ricordi che
riguardassero Ghedi: fra i nostri ufficiali di inquadramento avevamo avuto
anche piloti della 6° Aerobrigata. Ma non riuscivo a mettere a fuoco ricordi di
loro racconti che mi consentissero di identificare una immagine del Reparto
che andasse oltre il Diavolo Rosso, peraltro grintosissimo, del distintivo. Ricordavo che la 6° Aerobrigata aveva avuto la pattuglia acrobatica che più si era
distinta negli ultimi tempi, quei “Diavoli Rossi” che avevano riscosso grande
successo anche negli USA. Ma in quel periodo “la pattuglia acrobatica” era un
compito che era assegnato ogni anno ad un Reparto diverso, ed ogni Reparto
faceva a gara per dimostrare di essere più bravo di quello che lo aveva preceduto. Così il successo di una pattuglia rispetto all’altra era un titolo effimero;
anno dopo anno il titolo di più bravo passava di mano con facilità e senza una
reale rispondenza al valore del gruppo: così dai “Getti Tonanti” alle “Tigri
Bianche” fino ai “Lancieri Neri”, tutti erano stati i più bravi! Avevo visto i
Diavoli Rossi in una esibizione ed ero rimasto affascinato, oltre che dalla bravura del complesso, da alcune manovre veramente “da naso” fatte dal solista.
Allora non ero in grado di apprezzare con cognizione di causa la bravura e la
spericolatezza delle manovre: solo dopo avere cominciato a volare con l’F84F
ho capito perché i “Diavoli Rossi” si fossero fatti così ammirare all’estero oltre
che in Italia. Nessuno al mondo sapeva fare quello che essi avevano fatto con
un “ferro da stiro” come l’F84F, un velivolo che allora era diffuso in tutta la
NATO e non era certo considerato l’ideale per fare manovre acrobatiche sia
da solista che in formazione!
A parte questa mia ammirazione per la loro pattuglia, chi fossero e cosa in
realtà facessero questi famigerati “Diavoli Rossi” sapevo poco o niente. La mia
curiosità era quindi alle stelle, così come quella di sapere quali sarebbero stati
gli altri del mio corso assegnati allo stesso Reparto.
18 - B. Servadei
L’arrivo
Immerso nei miei pensieri non mi accorsi di essere arrivato in vicinanza
dell’aeroporto: rimasi un po’ deluso di non trovare indicazioni quasi fino al
suo ingresso e di essere costretto a percorrere stradine strette e tortuose per
arrivarvi. Giunto sul rettilineo che portava al corpo di guardia all’ingresso
dell’aeroporto, vidi in lontananza, al di là della recinzione, quasi protetti da
una foschia densa che ne rendeva vaghi i contorni, un lungo schieramento di
F84F che mi procurò un brivido di emozione. Poi giunsi al corpo di guardia,
un fabbricato di stile “Ventennio”, in condizioni di manutenzione decisamente precarie, dove dovetti fare i conti con una accoglienza, da parte del personale di guardia e di servizio, a dir poco “distaccata”. Quell’accoglienza mi
convinse della definitiva fine dei bei tempi in cui essere allievo dell’Accademia,
che spesso, ironicamente, era chiamato il “massimo istituto” da chi non l’aveva
frequentata, era garanzia di trattamento in guanti bianchi.
Entrato in aeroporto, seguendo le indicazioni fornitemi da un aviere con
forte accento ostrogoto, mi diressi verso il circolo ufficiali: la strada contornata
da alberi datati dava l’idea di scarsa cura generale. L’impressione di vecchio e
maltenuto veniva confermata dall’apparizione delle prime palazzine, anch’esse
di stile ventennio, che si incontravano prima del circolo ufficiali. Quest’ultimo
non faceva eccezione: era un tipico esempio di malcurato, ma ciò nonostante
ancora saldo, pezzo di architettura fascista. All’epoca non mi intendevo ancora molto di appalti truccati e costruzioni fatte con lo sputo fatte pagare per
buone; per questa ragione, non fui in grado di apprezzare il fatto che quella
palazzina fosse lì da tanti anni e sembrasse ancora in buona salute, mentre le
analoghe fatte nel dopoguerra crollavano dopo 10 anni. Vidi solo una palazzina dall’aria vecchiotta che mi mise un po’ di tristezza: in fin dei conti stavo
per accedere alla punta di diamante della capacità militare italiana e mi aspettavo che tutto ciò che la riguardava fosse nuovo e lucente: invece mi trovavo
di fronte al centro vitale delle attività ludiche dei piloti jet dell’Aeronautica e
questo edificio aveva luccicato da nuovo si e no ai tempi di Italo Balbo. E di
certo da allora non aveva avuto alcuna rilucidata!
Vita da Caccia Bombardiere - 19
Lasciata la mia piccola vettura nel parcheggio adiacente, entrai con circospezione nel circolo ripensando alle raccomandazioni che ci erano state fatte
per questa particolare circostanza. Il telegramma con il quale notificavo al
comandante la mia gioia per l’assegnazione ed il saluto alla bandiera, atto
considerato essenziale per potersi presentare alla base, lo avevo fatto; da questo
punto di vista stavo tranquillo. Ora era necessario presentarsi a tutti, senza
esitazioni e senza tema di ripetersi, in caso di dubbi. Bisognava essere certi di
non avere scordato alcuno.
Il circolo appariva semivuoto: del resto era una domenica d’agosto. Solo
un paio di giovani ufficiali dell’Esercito era in piedi vicino al banco del bar.
Qualche voce concitata, tuttavia, proveniva da più lontano e indicava la presenza di altre persone.
La presentazione ai due marmittoni, rivelatisi sottotenenti di complemento, mi consentì di apprendere che sulla base era dislocato anche un reparto
dell’Esercito, di Artiglieria Contraerea, con il compito della difesa dell’aeroporto.
Consumato un caffè, mi accinsi alla ricognizione del circolo, in parte per
presentarmi agli ufficiali della base, ma soprattutto per vedere se trovavo qualcuno dei miei compagni di corso eventualmente assegnato anche lui alla 6°. La
prima impressione fu di un locale poco esteso, ma poi mi accorsi dell’esistenza
di una sala adiacente, quella da cui provenivano le voci concitate. Là, immersi
in una fumera densa ed ondeggiante verso l’alto, che riduceva la visibilità come
la foschia che copriva la campagna esterna, alcuni individui stavano seduti intorno a tavoli verdi illuminati da basse lampade. Da come si esprimevano avrei
potuto anche pensare di essere capitato in un’osteria di scaricatori di porto:
l’unica cosa che si riuscisse a comprendere con chiarezza erano le bestemmie,
circa il 90% del totale dei discorsi, inframmezzate da frasi in dialetto locale
e da epiteti non propriamente edificanti. Rimasi per un po’ in dubbio se disturbare quei “signori” per presentarmi o defilarmi e rimandare l’incombenza
a un momento più propizio: poi optai per la seconda ipotesi, convinto che se
avessi distratto dal gioco uno qualsiasi degli appartenenti ai tavoli per una cosa
insulsa come una presentazione avrei rischiato di essere azzannato al collo da
qualche contendente più incarognito degli altri.
Constatata l’assenza di compagni di corso, cosa che aggiunse angoscia alla
sensazione di spiacevole disagio che cominciava a prendermi, decisi di prendere contatto con l’ufficiale di picchetto (di norma colui che svolge le funzioni
di capro espiatorio per qualsiasi cosa vada storta nelle 24 ore di servizio asse-
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gnategli) che avrebbe dovuto provvedere a indicarmi a chi fare riferimento per
la sistemazione logistica. Un aviere mi assegnò una camera singola al primo
piano della palazzina di fronte al circolo, piccola e senza bagno in camera,
ma negli anni 60 era la norma, e per un po’ fui impegnato in operazioni di
scarico bagagli e assestamento dell’alloggio. Durante queste operazioni vidi
giungere un paio di vetture che conoscevo: appartenevano a due compagni di
corso. Provai una prima sensazione di sollievo: dunque, non sarei stato solo ad
affrontare la banda di lanzichenecchi di cui avevo visto una rappresentanza al
circolo! I miei due colleghi non erano di quelli con i quali ero stato in grande
confidenza, uno emiliano e l’altro napoletano, ma visto l’ambiente, meglio
che niente: almeno le difficoltà le avremmo divise in tre! Poi ne arrivarono
altri due, tutti e due meridionali: ed eravamo 5, già una forza. Poi ancora
due: e sette! Una potenza. Infine gli ultimi due, del tutto inattesi perché sette
assegnazioni di accademisti in un anno sembravano già un’esagerazione. Gli
ultimi erano ovviamente i locali, quelli che avevano la famiglia vicino ed erano
rimasti a casa fino all’ultimo momento, anche perché erano già venuti a fare
un’ispezione del sito in mattinata.
Così, dalla fifa d’essere solo, mi ritrovai nel bel mezzo di una folla: 9 neoassegnati dall’Accademia in un solo anno! Credo che sia stato un evento senza
precedenti nella stessa storia dell’Aeronautica postbellica. Aveva le sue brave
motivazioni, ma mi sarebbero state chiare solo qualche tempo dopo.
I giorni successivi furono dedicati a tutta una serie di attività logistiche:
fare i pass, visita medica, assegnazione di materiale di volo, visite ai vari settori
di attività del reparto, presentazioni varie. Gli F84 erano sempre là, lontani e
irraggiungibili. La mia impressione di essere arrivato in un mondo di pazzi si
radicava sempre più con il passare del tempo: il medico di stormo, ad esempio,
quello cioè che avrebbe dovuto occuparsi dei problemi fisici dei piloti connessi
all’attività di volo, era un dentista. Era uno del gruppo dei giocatori di carte
più incalliti. Mi fece la prima visita con aria distratta e schifata, come se la
cosa gli pesasse molto: mi avesse fatto una sola domanda riguardante l’attività
di volo! Visto che avevo qualche problema ai denti, chiesi se poteva fissarmi
un appuntamento per darmi un’occhiata e programmare il da farsi. Pensavo
di fargli cosa gradita: era il suo mestiere e mi proponevo come nuovo cliente.
Mi guardò di sotto gli occhiali come si guarda un rompicoglioni: poi scrisse
qualcosa su un foglietto e me lo diede dicendomi “questo è l’indirizzo di un
buon dentista”. Ovviamente non era il suo
Non ricordo se e quando fummo presentati al comandante: devo immagi-
Vita da Caccia Bombardiere - 21
nare che la cosa ebbe luogo, perché è prassi consolidata, con tanto di sciarpa e
sciabola. Ma più ci penso, meno ricordo la circostanza. Ricordo però benissimo la faccia del comandante, i suoi baffi ed il fatto che, a parte il briefing del
mattino, lo avrò visto sì e no due o tre volte in tutto. Si vedeva poco, ma in
compenso la sua presenza si sentiva molto, anche troppo: riuscì a farci un “culo
come una capanna”, come si usava dire allora, un argomento che avrà ampia
trattazione in seguito.
Fra le varie presentazioni cui venimmo sottoposti mi rimase impressa quella al circolo ufficiali. Credo che non sia rimasta impressa solo a me: eravamo
lì, tutti belli, schierati in fila; una fila di neo-assegnati lunga che così lunga
non si era vista mai, e l’ufficiale incaricato, non mi ricordo se il capo calotta
o qualche ufficiale di grado più elevato, ci stava presentando agli altri ufficiali
convenuti, numerosi perché dopo si beveva a nostre spese. Improvvisamente
un ufficiale entrò nel circolo bestemmiando: riconoscemmo subito la voce e
così capimmo che ad originare le bestemmie non era un’incazzatura o qualche
valido motivo; era il suo naturale, e quasi unico, modo di esprimersi. Si trattava di un capitano pilota anzianotto, a noi ben noto perché ci aveva fatto da
istruttore sul T6 alla scuola di volo di Pomigliano. Come ci vide si fermò di
botto, rimase un po’ sulle sue a guardarci e poi sbottò in un “…madona quant
funeral quest’an!”.
La frase ci parve un po’ fosca e di per se poco “beneaugurate” e quando
provammo ad investigare sul suo significato, lo fu anche meno. Essa infatti,
trovava origine nel fatto che i due precedenti corsi dell’Accademia durante il
primo anno di permanenza al reparto avevano lasciato sul campo esattamente
il 50% degli assegnati; il corso precedente 2 su 4, quello dell’anno prima 3 su
6. Noi eravamo 9 quindi, la prospettiva era di 4 o 5 funerali nell’anno. Una
prospettiva pesante, anche per la 6a Aerobrigata, che di funerali se ne intendeva. Le grattate ai maroni si sprecarono!
La frase non piacque in particolare ad uno dei miei colleghi, che già aveva
trovato l’ambiente non di proprio gradimento: questa frase lo convinse che il
vaso fosse stato colmato. Dette corso ad un’operazione di resistenza passiva
e determinata: quando iniziammo a volare si rese regolarmente irreperibile.
Suonava bene il pianoforte e l’organo: sfruttò questa sua capacità per fare comunella con il prete, che lo incaricò di suonare alla messa. Con la scusa di
allenarsi sull’organo il prete gli consentiva di rifugiarsi in chiesa, da dove era
difficile stanarlo, anche perché buona parte dei piloti, da grandi bestemmiatori
senza Dio quali erano, mai sarebbero entrati in una chiesa per braccarlo.
22 - B. Servadei
In quel periodo delicato ci raggiunse anche la notizia della morte di un nostro collega, la prima vittima di volo del corso. Per problemi fisici aveva dovuto
interrompere il corso sul T33 ad Amendola, e mentre noi andavamo ai reparti
era rimasto a completare il corso. Si disse che avesse avuto una piantata di motore in atterraggio e che ne avesse tentato uno fuori campo senza fortuna.
Il fatto c’intristì molto e contribuì a rendere anche più cupa l’atmosfera che
si era creata in quei primi tempi di assegnazione. Di certo l’incidente rese ancora più determinato il nostro pianista nella sua smania di allenarsi con tutte
le possibili messe funebri ed i requiem durante il periodo dell’attività di volo.
L’unico modo che escogitarono per stanarlo fu quello di trasferirlo alla 3°
Aerobrigata di Villafranca; era la tipica destinazione per chi denunciava problemi di volo marginali o, spesso, anche solo attitudinali, alla permanenza alla
6a Aerobrigata. In fin dei conti alla 3° volavano su un velivolo simile al nostro,
ma erano ricognitori fotografici. Avevano minori esigenze di volo in formazione e di tiro: anche se sbagliavi il bersaglio, il danno massimo che potevi fare
era portare a casa foto di un posto diverso da quello previsto. Ben altro era il
rischio di buttare bombe in testa a chi non doveva averle, specie se atomiche!
Un ragionamento che non faceva una grinza.
Per quelli che invece avevano problemi considerati gravi, non vi era scampo: erano direttamente spediti a fare gli istruttori alle scuole di volo. Evidentemente il fatto che pessimi istruttori, o semplicemente istruttori poco motivati,
avrebbero tirato su piloti a loro immagine e somiglianza, o bocciato ragazzi
potenzialmente idonei ma che richiedevano un po’ più d’impegno, non era
considerato un problema. Nessuno si è mai peritato di fare il conto di quanto
questo sia costato alle tasche di pantalone!
Essere mandati alle scuole era considerato una vera e propria infamia per
un pilota di reparto. Purtroppo il rischio di subirla era stato fino allora una
vera e propria “spada di Damocle” permanente, soprattutto per i piloti di recente assegnazione: ogni Reparto doveva, infatti, fornire annualmente uno o
due istruttori alle scuole.
Spesso si trovava la vittima designata perché pilota con problemi suoi, o
non gradito all’ambiente, o semplicemente stanco di fare vita di Reparto. Ma
se non c’era, qualcuno in ogni caso doveva partire, che lo gradisse o no.
Fra tutte le disgrazie connesse al nostro incombente compito di bombardieri nucleari, una cosa buona almeno ci fu concessa: ci mise al sicuro dal
rischio scuole. Fino a quando il Gruppo svolse il ruolo Strike3 non ci pervenne
3
Strike: denominazione assegnata al ruolo di attacco con armamento nucleare.
Vita da Caccia Bombardiere - 23
alcuna richiesta per le scuole.
Del resto in quel periodo era ben più difficile trovare piloti da assegnare al
nostro gruppo che non per le scuole.
La partenza del nostro collega risolse automaticamente anche il grave dilemma in merito ai funerali che avremmo avuto nell’anno. L’amletico dubbio
fra 4 o 5 si era risolto: essendo rimasti in 8, ce ne dovevamo aspettare “solo”
4!
24 - B. Servadei
L’assegnazione al Gruppo
Ci fu presto chiaro che la 6° Aerobrigata avesse come compito essenziale
quello di Cacciabombardiere, cioè di unità devoluta all’attacco di obiettivi di
superficie. Cosa questo significasse in pratica era invece un po’ più misterioso,
anche perché nessuno ce lo spiegava.
Avrò modo di tornare spesso sull’argomento del ruolo dei Reparti, perché
tutti i Reparti da combattimento sono chiamati “da caccia” ma esistevano, ed
esistono tuttora, differenze fondamentali fra i compiti assegnati agli uni ed
agli altri.
La Quarta e la Sesta erano ambedue Aerobrigate da caccia, ma una era
composta di gruppi intercettori e l’altra da cacciabombardieri. La differenza
era, per molti versi, abissale: una faceva difesa, in pratica il portiere, o il terzino, tanto per riferirsi a qualcosa che in Italia, paese affetto da sindrome da
calcio, capiscono anche i ritardati mentali; l’altra l’attacco, cioè il centravanti o
l’ala. La differenza del ruolo lascia segni indelebili sulla mentalità e l’approccio
alla vita dei piloti che lo svolgono: forse anche nel calcio è così, solo che i rischi,
e soprattutto i guadagni, sono diversi.
Il periodo nel quale fummo assegnati a Ghedi vedeva la 6a Aerobrigata
costituita da tre gruppi di volo: il 154°, che aveva per emblema una freccia, il
155° che aveva una pantera nera, ed il 156°, che aveva una lince.
Figura 1- Distintivi dei Gruppi della 6° A/B
Senza saperne le motivazioni, capii ben presto che esisteva una gerarchia
Vita da Caccia Bombardiere - 25
fra i tre Gruppi: il più nobile era il 154°, che al momento del nostro arrivo era
in fase di transizione sull’F 104G in Germania.
I suoi piloti, quelli che già avevano fatto la transizione sul nuovo velivolo,
li riconoscevi solo a vederli muovere. Giravano per la base senza aver un tubo
da fare - a parte rompere le palle a noi come dirò in seguito - perché di F104
sulla base ancora non ce n’era manco uno.
Loro guardavano sempre sopra le nostre teste, con l’aria schifata di chi è
costretto a convivere con esseri preistorici, che ancora si arrabattavano nei cieli
con velivoli subsonici4.
Sono certo che Neil Armstrong qualche annetto dopo, di ritorno dalla
Luna, non si sarebbe permesso l’atteggiamento arrogante e pomposo di questi
nostri primi “astronauti”.
Peraltro, devo ammettere che noi, appena arrivati e già impressionati
dall’idea di salire sul F84F, li guardavamo con grande soggezione e rispetto,
perché a quei tempi l’F104 era veramente un mito. Ho anche avuto l’impressione che i piloti anziani del 155° e del 156° mal sopportassero la prosopopea,
bellamente ostentata, degli altri.
Nella scala della considerazione dopo il 154° veniva il 155°; non so se ciò
fosse dovuto a meriti acquisiti in guerra, tenuti in gran conto, o semplicemente
ai suoi piloti con le palle più quadrate di quelli del 156°; di certo questo era
l’ultimo nella considerazione, tanto da essere soprannominato “Il mucchio”.
Tutta questa tiritera sulla situazione dei Gruppi di volo è dovuta al fatto
che dopo una settimana dal nostro arrivo a Ghedi, e ormai nell’imminenza
dell’inizio dell’attività di transizione sull’F84F, ancora non si parlava della
nostra assegnazione ad uno di essi. Fummo subito informati che di andare al
154° non se ne parlava nemmeno: all’epoca per volare con “l’astronave” F104
era necessario essere in possesso di almeno 1000 ore di volo su velivoli seri,
la benedizione del Papa, bella presenza e laurea 110 e lode in “bestemmie”.
Quest’ultimo requisito, credo, fosse tassativo: non ricordo un solo pilota del
154° che non bestemmiasse a raffica. Per noi se ne sarebbe parlato forse fra due
o tre anni - non di bestemmiare, quello potevamo cominciare a farlo anche
subito, e tutte le circostanze sembravano fatte per indurci in tentazione - di
volare sul F104. Ovviamente saremmo dovuti sopravvivere al primo anno avevamo il noto 50% di probabilità - e dimostrare di essere stati bravi, ma
molto, molto bravi ( a bestemmiare?)!
Cancellato il 154°, ci restavano gli altri due gruppi, su ambedue dei qua4
In effetti, l’F84F era un velivolo supersonico, ma solo in picchiata
26 - B. Servadei
li aleggiavano brutte storie. Intanto si vociferava dell’assegnazione del ruolo
“Strike”, fatto che era considerato una disgrazia fra le più gravi. In mancanza
di qualcuno che ci spiegasse di che si trattava, per un po’ rimasi perplesso,
visto che mi sembrava del tutto normale che un gruppo di cacciabombardieri
facesse Strike. Solo più tardi mi fu spiegato che Strike significava assumere il
ruolo di cacciabombardieri dotati di armamento nucleare. Allora condivisi le
preoccupazioni dei più, miste, però, anche ad una certa emozione per entrare
a far parte di un Reparto che era stato ritenuto degno di tanto impegno.
Mi sembra, a questo punto, doveroso spiegare la situazione nella quale noi,
neo assegnati, abbiamo vissuto i primi mesi di permanenza al Reparto. Anche
così, non so se sarà possibile giustificare situazioni a prima vista incomprensibili, come quella appena citata, nella quale nessuno si premurava di spiegarci
ciò che invece c’interessava direttamente.
Ad esempio, il compito del Gruppo di volo nel quale avremmo dovuto
operare per gli anni a venire, ce lo dovemmo andare a scoprire da soli. Fare
l’allarme con una bomba atomica sotto il sedere, con la prospettiva di andarla
a tirare su una città, non è un lavoro molto normale, neanche per un militare.
Fino a che si tratta di sganciare in territorio nemico un paio di bombe da 500
lbs o razzi da 5 pollici di diametro, che al massimo fanno un buco in una fortificazione o in un carro armato, ci si può anche stare, specie se consideri che
se ordinano a te di andarlo a fare vuol dire che qualcun altro è già venuto a
farlo sul tuo, di territorio. Ma l’atomica non è una bazzecola: è l’atomica! Tutti
noi sapevamo delle crisi che avevano interessato i piloti che l’avevano sganciata
ad Hiroshima e Nagasaki! Possibile che qualcuno non si sentisse in dovere di
informarci su cosa stavano per chiederci di fare?
A Ghedi la tradizione era diversa! A Ghedi i piloti neoassegnati erano definiti “vermi” e come tali esseri senza diritto di parola o di porre domande che
non fossero strettamente pertinenti alla sola condotta del velivolo, ed anche qui
era concessa una possibilità, ma senza repliche. Non erano ammesse deroghe,
pena pagamento di bevute colossali o punizioni di vario tipo, ad insindacabile
scelta del più anziano presente all’atto dell’infrazione. In un simile ambiente,
ho personalmente trovato veramente difficile capire cosa mi avveniva intorno,
o far valere le mie obiezioni a decisioni che mi riguardavano e che sempre, ma
proprio sempre, sono state prese senza tenere in minima considerazione il mio
gradimento.
Come ho detto, la minaccia di assumere il ruolo Strike incombeva sia sul
155° che sul 156°, ma era una minaccia i cui contorni erano decisamente vaghi
Vita da Caccia Bombardiere - 27
per noi “vermi”. Quella che ci interessava di più, anche perché immediatamente comprensibile e reale, riguardava il possibile trasferimento dei due Gruppi.
Si diceva che il 155° sarebbe andato “molto presto” a Piacenza, mentre sul
156° incombeva una minaccia ben più grave, anche se più distante nel tempo:
il trasferimento a Gioia del Colle, paese del profondo sud, che non si sapeva
neanche dove fosse di preciso, ma il cui nome già rappresentava l’anticamera
dell’inferno per tutti gli ufficiali e specialisti che erano bresciani o che, avendo
mogli e parenti locali, vantavano interessi in zona.
L’assegnazione ad uno o all’altro dei due Gruppi quindi, assumeva una
valenza che non teneva conto solo del prestigio che essi avevano nel sentire
comune, ma una ben più rilevante, connessa alla loro dislocazione futura.
Strano a dirsi, la prospettiva di andare a finire a Gioia del Colle fu più
terrorizzante per i nostri colleghi del sud che per noi del nord. Così, quando si
cominciò a parlare di preferenze fra un gruppo e l’altro, tutti e 9 - il pianista
era ancora con noi - ci orientammo per il 155°. Nessuno voleva finire al “mucchio”, con l’aggravante di rischiare anche la Terronia!
Sarebbe stato troppo facile procedere all’assegnazione in tempi brevi: bisognava farci stare un po’ sui carboni accesi, dare ai nostri cari superiori un po’
di goduria nel vederci soffrire. E così fu deciso di iniziare l’attività di volo per
vedere le nostre attitudini al pilotaggio, prima di ogni decisione sull’assegnazione. E fu proprio in questa fase della nostra esperienza di Ghedi che il nostro
pianista fu stanato dalla chiesa e trasferito alla 3a Aerobrigata.
28 - B. Servadei
Le transizioni sul F84F
Nei giorni appena trascorsi non ci erano state concesse molte possibilità
di salire sul F84F: eravamo passati molte volte davanti alla linea di volo ed
avevamo visto il velivolo da vicino, ma ancora non avevamo avuto modo di
prenderci confidenza.
Ormai era venuto il momento di fare conoscenza diretta con la macchina.
Questa ci pose subito un problema nuovo per i primi voli: non esisteva una
versione biposto, né esisteva un simulatore. Era quindi imperativo fare la prima esperienza di volo da soli, basandosi su tutto quanto poteva essere appreso
a terra.
Quella del velivolo da combattimento in versione solo monoposto era una
usanza in auge in quegli anni: anche l’F86E ed il suo derivato F86K non avevano versioni biposto.
Figura 2 - L’autore e l’F84F
Vita da Caccia Bombardiere - 29
Il T33, velivolo tipico delle scuole aviogetti, era considerato sufficientemente impegnativo per consentire il passaggio su queste macchine operative, anche se la differenza in dimensioni e pesi fra T33 e F84F erano considerevoli.
Ci fu fatto un corso teorico sulle caratteristiche tecniche del velivolo, durante il quale scoprimmo che gli F84F schierati sulla linea di volo, che esternamente sembravano tutti uguali, erano invece in varie versioni con differenze di
allestimento cabina e motore anche considerevoli. Salire a bordo per la prima
volta è stata una bella emozione: l’abitacolo era certamente il più alto su cui
fossi mai salito: ci voleva una bella scaletta per arrivarci. Una volta in cabina si
aveva la sensazione di dominare la situazione intorno e si poteva ammirare la
grande ala a freccia, con diedro negativo.
L’insieme degli strumenti, dei pannelli laterali e del seggiolino eiettabile
davano la netta impressione di essere a bordo di un vero velivolo da combattimento, di una mezzo “vissuto” che, se anche non l’aveva fatta davvero, la guerra l’aveva comunque vista da vicino. Giravano, infatti, voci che attribuivano
a qualche F84F della nostra linea la partecipazione alla guerra di Corea, cosa
del resto del tutto plausibile, visto che quei velivoli c’erano stati regalati dagli
USA in conto MAP (Military Assitance Program).
Certo era strana la situazione di allora: gli USA erano venuti a fare la guerra
in Europa; avevano sacrificando tanti uomini e soldi; ci avevano regalato di
tutto con il piano Marshall; infine ci davano pure le armi per difenderci dai
Sovietici. In compenso quasi metà degli italiani tifava proprio per questi ultimi che, oltre a non averci mai regalato niente, avere concorso a farci fregare
l’Istria ed averci creato infinità di problemi interni, ci puntavano anche contro
un congruo quantitativo di armi nucleari!
Avevo maturato l’impressione che l’italiano medio era fondamentalmente un gregario, con poche palle, che voltava facilmente bandiera, seguendo
quella di chi sembrava vincente al momento. Purtroppo la nostra storia, in
qualunque modo la si voglia rigirare, anche quando vuol farci credere di avere
vinto guerre irrimediabilmente perse, soprattutto sul piano morale, è tutto un
susseguirsi di fatti del genere.
L’F84F era lì, davanti a noi, pronto a regalarci l’emozione di starci sopra
per la prima volta. Gli strumenti di volo erano più o meno i soliti che già si
trovavano sul T33, ma sia sul cruscotto che sui pannelli laterali, ve n’erano
un sacco d’altri, con tanti interruttori, per lo più connessi con l’uso dell’armamento, che non avevo mai visto prima e che davano all’insieme un aspetto
grintoso. Fra gli altri vi era anche il pannello dei “danni di battaglia”, una
30 - B. Servadei
serie d’interruttori che consentivano di escludere il serbatoio eventualmente
colpito da proiettili, evitando di perdere tutto il carburante. Un indice della
serietà del progetto. Un cacciabombardiere è destinato ad operare in mezzo
alla contraerea: prendere un colpo è un’eventualità molto probabile e bisogna
tenerne conto.
Il seggiolino eiettabile del primo velivolo che ho visto aveva un aspetto
molto rustico, direi anche antico: poi mi dissero che ne esistevano due versioni, con procedure di attivazione diverse, e che la versione che avevo visto era
quella più datata.
Ovviamente, prima di volare spendemmo molto tempo sul velivolo per
imparare la funzione di tutti gli apparati, fino al punto da essere in grado di
trovare ogni interruttore senza guardare. Nel frattempo avevamo anche iniziato a conoscere le zone destinate all’attività di volo intorno all’aeroporto e le
procedure di avvicinamento ed atterraggio effettuando qualche volo a doppio
comando con T33 o piccoli velivoli ad elica della squadriglia collegamenti.
Di norma, quando non esiste la versione biposto del velivolo, i voli di transizione5 dei neo-assegnati sono una specifica responsabilità dei piloti più anziani del Gruppo a cui i piloti stessi sono stati assegnati. Non avendo ancora
portato a termine questa procedura, per effettuare il decollo e le successive
transizioni venimmo affidati ad un gruppo misto di piloti esperti che non
appartenevano solo al 155° e 156° a cui eravamo destinati, ma anche al 154°.
Questi erano tutti piloti esperti ed avevano bisogno di volare, stante la mancanza di F104 sulla base.
Prima del “decollo”, il primo volo, era prevista una prova di “rullaggio
veloce” con il velivolo. In pratica, il pilota doveva eseguire tutte le procedure
come per un volo normale, mettere in moto il velivolo con l’assistenza di un
pilota anziano in piedi sull’ala, rullare lentamente fino al punto attesa prima
dell’ingresso in pista. A questo punto il pilota anziano scendeva dall’ala del
velivolo, il pilota chiedeva allineamento, entrava in pista, effettuava la prova
motore e iniziava la corsa di decollo accelerando fino a 100 nodi circa. Poi toglieva motore, frenava -non ricordo se era prevista anche la prova del parafreno
- e rientrava al parcheggio.
Sembrava una procedura semplicissima e, infatti, lo era; ma a Villafranca
un pilota, appena arrivato dalle scuole come noi, era riuscito ad accopparsi
facendo questa stupida prova: era andato nel pallone e non aveva tolto motore
una volta raggiunti i 100 nodi. Poi non aveva nemmeno chiesto di alzare la
5
Transizione: volo per l’acquisizione della capacità basica di conduzione del velivolo
Vita da Caccia Bombardiere - 31
barriera6, andando a schiantarsi oltre il fondo pista.
Non ricordo chi mi fece da assistente al rullaggio veloce: di certo ricordo invece la spiacevole impressione che mi fece il rullaggio. L’F84F aveva un
carrello larghissimo ed apparentemente molto stabile e robusto. La direzione
si controllava solo con i freni, non essendo il ruotino anteriore asservito alla
pedaliera: con una carrello così largo i freni erano estremamente efficaci e la
direzione si controllava benissimo. Ma in quel primo rullaggio, appena la velocità cominciò ad aumentare, ebbi l’impressione che il velivolo ondeggiasse e
di avere problemi nel controllarne la direzione. Fui quindi veramente contento
di ridurre motore quando raggiunsi i fatidici 100 nodi. Questa esperienza mi
mise un po’ d’ansia per il decollo, dove si dovevano acquisire velocità ben superiori per staccare il velivolo da terra.
Invece, non ho ricordi precisi del mio primo volo sul F84F: mi sembra di
averlo fatto assistito dal capitano che poi sarebbe diventato il mio primo comandante di squadriglia: era un tipo tranquillo, che parlava poco ma diceva
l’essenziale, rendendo le cose da fare semplici e chiare. Evidentemente, tutto
è andato così tranquillo da non lasciarmi ricordi particolari; del resto in volo
l’F (come si usava chiamarlo per distinguerlo dal suo predecessore, l’F84G,
che aveva le ali diritte) era una buona macchina, facile e stabile, specialmente
nelle configurazioni leggere. Di certo non si poteva dire che avesse un motore
esuberante, ma all’epoca la nostra massima esperienza di potenza era rappresentata dal T33 rispetto al quale l’F, se non caricato, non sfigurava.
Le transizioni si trascinarono per un bel po’ di tempo, anche perché esse
richiedevano condizioni meteo particolarmente buone: a Ghedi il problema
principale è sempre stato rappresentato dalla visibilità, costantemente di merda anche d’estate. Poi non vi era alcuna spinta operativa a farcele finire: si capiva che i due gruppi erano impegnati in problemi di varia natura che attiravano
l’attenzione dei capi su altre materie. Noi eravamo un po’ abbandonati a noi
stessi: ci avevano parcheggiato a frequentare un corso d’inglese organizzato
nella base e ci chiamavano ogni tanto, quando saltava fuori l’occasione di fare
una transizione. Per un certo periodo, a causa di lavori sulla pista di Ghedi, si
volava dalla vicina pista di Montichiari, che si poteva raggiungere attraverso
vecchi raccordi fatti dai tedeschi durante la II Guerra Mondiale.
Pur con lentezza, alla fine, terminammo i voli di transizione che segnarono
anche l’avvento della fatidica assegnazione ai Gruppi.
6
Barriera di arresto: rete posta a fine pista sollevabile da parte dei controllori di torre
su richiesta del pilota con la parola convenzionale “Gina” ripetuta più volte.
32 - B. Servadei
Seppi, non ufficialmente, di essere stato richiesto dal 155°, il Gruppo che
doveva andare a Piacenza. A questo punto un mio collega toscano, un amico,
uno con cui avevo condiviso molte avventure in Accademia, mi chiese quasi in
ginocchio di prendere il suo posto al 156° e di lasciargli il mio al 155°. “Teneva
famiglia” e Piacenza era più vicina alla sua Pisa etc. etc. Mi fece una “capa
tanta” ed alla fine, anche in considerazione del fatto che le voci su Gioia del
Colle sembravano essersi un po’ spente, accondiscesi. Fu così che mi ritrovai
nel “mucchio”.
Vita da Caccia Bombardiere - 33
Il “Mucchio”
La mia presentazione al Gruppo, come pilota ufficialmente assegnato, non
fu delle più felici. La mattina in cui mi accingevo a varcare la soglia della palazzina del Gruppo, fui quasi investito da un enorme sottufficiale, una
specie d’omino della Michelin un po’ cresciuto, infilato in una tuta da volo
XXXXL che gli andava stretta. Aveva un fisico incredibile per un pilota di jet.
Tutto avresti pensato, vedendolo, tranne che potesse tirare dei “g”7: di certo
doveva essere uno di quelli che con le loro dismisure avevano fatto sballare le
statistiche sulle misure degli indumenti di volo. Usciva di corsa, inseguito da
un energumeno con i gradi di maggiore. Questi, fra una bestemmia e l’altra,
simulando di prenderlo a calci - così ho voluto interpretare il movimento, che
in realtà non sembrava affatto una simulazione -, gli ingiunse di andare immediatamente in volo. Visto l’ambiente che avevamo sperimentato sulla nostra
pelle nei giorni precedenti, pensai che si trattasse di uno dei soliti scherzi di
bassa lega in uso nella base, anche se l’aria del maggiore non sembrava per
niente scherzosa. Ed infatti, entrato nella palazzina, ebbi subito conferma da
uno dei miei colleghi che già vi si trovava, che quello che avevo visto era la
conclusione di una accesa discussione che aveva coinvolto il capo, il maggiore,
mio nuovo comandante di Gruppo, ed uno dei piloti del gruppo stesso.
Cominciai subito a rimpiangere di avere lasciato il mio posto all’altro
Gruppo, non sapendo che anche là l’ambiente non era poi molto diverso.
I tre compagni del mio corso che condividevano la sventura di essere stati
assegnati al 156° erano uno locale, un napoletano, ed uno abruzzese. Fummo
equamente divisi fra le quattro squadriglie che componevano il Gruppo: a me
toccò la 381° Squadriglia, nella quale vi erano, oltre al comandante, capitano
anziano, un paio di ufficiali di cui uno di complemento, e tre o quattro sottufficiali.
Con l’ingresso nella squadriglia, venne anche il rito dell’assegnazione del
7
“g”: indicatore dell’accelerazione a cui è sottoposto un pilota durante le variazioni
dell’assetto di volo. Il valore è 1 in volo livellato, e varia positivamente o negativamente in
funzione dell’entità della variazione dell’assetto e dei parametri di volo.
34 - B. Servadei
nominativo radio personale: per le transizioni avevamo fatto uso di nominativi temporanei. Il nominativo del Gruppo derivava direttamente dal distintivo
dello stesso: il nostro distintivo era una lince, e Lince era il nostro nominativo,
seguito da un numero che indicava anche la posizione nell’ambito del gruppo.
La prassi prevedeva che al Comandante di Aerobrigata, quando volava sui
nostri velivoli, spettasse il nominativo “Lince 0”, al Comandante di Gruppo
“Lince 1” e via a salire in funzione del grado. I comandanti di squadriglia
avevano il nominativo in funzione del numero della squadriglia di pertinenza.
Il C.te della 381a era “Lince 10”, quello della 382a “Lince 20” e così via. A me,
come ultimo arrivato alla 381a, squadriglia di ben 7 elementi, fu assegnato
“Lince 16”.
Rispetto ai numeri dei gruppi odierni sembra di parlare di una folla: l’organico di una nostra squadriglia avrebbe fatto la gioia di un intero gruppo
intercettori nei tempi di magra dell’Aeronautica. Ma a quel tempo i gruppi
cacciabombardieri erano montati su ben 25 velivoli, ed avevano piloti in abbondanza. I tempi cupi della fuga dei piloti all’Alitalia erano appena all’inizio!
Ed erano i tempi in cui l’A.M. aveva ancora piloti con il grado di sottufficiale8
che, non so per quale malsana idea, sono stati in seguito aboliti. Non mi ci
volle molto per capire che la vera forza del Gruppo erano proprio i sottufficiali,
gente esperta e smaliziata, non condizionata da ambizioni carrieristiche, che
teneva benissimo testa agli ufficiali, soprattutto a quelli che avevano posizione
per dettare legge; ed al 156° di questi c’era abbondanza. Credo di dovere molto
più a loro che agli ufficiali per tutto quello che ho imparato sul volo e sulla
sopravvivenza in situazioni critiche.
8
I militari sono suddivisi in tre grandi categorie: ufficiali, sottufficiali e truppa, a loro
volta suddivise in vari gradi. Negli anni 60 l’Aeronautica bandiva ancora concorsi per piloti
sottufficiali, che sono stati successivamente aboliti. Dagli anni 70 i piloti dell’A.M. sono solo
ufficiali, mentre altre FF.AA continuano ad avere piloti anche sottufficiali.
Vita da Caccia Bombardiere - 35
Il personale del reparto
Con l’arrivo a Ghedi noi giovani “vermi” ci trovammo catapultati in un
ambiente abbastanza nuovo, nonostante i 4 anni di “naia” già maturati. La
nostra esperienza era stata tutta vissuta da allievi, anche se nell’ultimo periodo
con i gradi d’ufficiale. E da allievi eravamo sempre stati tenuti in una condizione un po’ estranea all’ambiente “normale”. Nel bene o nel male, a noi era
sempre stato riservato un trattamento particolare, sempre con i guanti bianchi
- fosse per educarci o per inquadrarci pesantemente - in ogni caso il nostro
comportamento era stato improntato a regole che erano tipiche degli istituti
di formazione.
Ora, invece, eravamo nel bel mezzo di un Reparto operativo, a contatto
giornaliero con tutta la variegata gamma di elementi che lo componevano.
Noi, come piloti, eravamo entrati a far parte di diritto del nucleo d’ “elite”
della base, anche se al momento di questo privilegio non avevamo alcun sentore. Impegnati com’eravamo, senza soluzione di continuità, a toglierci le lische
del pesce che ci veniva sbattuto in faccia ad ogni piè sospinto, ci era molto
difficile apprezzare il fatto di appartenere al vertice della gerarchia, coloro che
erano destinati a dare pratica attuazione ai compiti ai quali l’Aeronautica era
devoluta. C’era sempre stato detto che noi piloti da caccia eravamo le punte di
diamante, i veri attori sulla scena della grande organizzazione dell’Aeronautica; tutti gli altri fornivano un contributo, più o meno grande e spesso misconosciuto, per far si che noi fossimo in grado di ottenere il risultato voluto.
Sarà stato anche vero, ma per noi, in quel momento, era veramente difficile
rendercene conto.
Ho già detto che a quei tempi i piloti erano sia ufficiali che sottufficiali:
questi ultimi erano un numero cospicuo, oltre il 50% della forza totale dei
gruppi.
Un reparto cacciabombardieri degli anni 60 aveva una configurazione che
penso differisca in modo sostanziale da quella odierna.
Dei piloti ho già in buona parte detto: erano divisi circa a metà fra sottufficiali ed ufficiali, con questi ultimi a loro volta divisi circa a metà fra piloti
36 - B. Servadei
provenienti dall’Accademia e piloti di complemento. Questi erano giovani
che svolgevano il servizio militare come pilota, con una ferma obbligatoria di
5 anni, al termine della quale spesso se ne andavano alle società aeree civili,
quando c’era richiesta di piloti - a quei tempi l’unica linea aerea era l’Alitalia - oppure facevano domanda per restare in Aeronautica. Al gruppo c’era
qualche pilota di complemento passato in servizio permanente o raffermato
da vari anni: si riconoscevano subito perché, pur essendo abbastanza anziani,
avevano ancora il grado di tenente o al massimo di capitano.
I sottufficiali facevano un iter analogo, ma avevano maggiori difficoltà per
entrare in Alitalia, che richiedeva il diploma di scuola superiore. Restavano
quindi quasi tutti in Aeronautica e passavano in servizio permanente con
concorso e la promozione al grado di sergente maggiore.
Il restante personale della base era diviso in tre grandi categorie: ufficiali,
sottufficiali e truppa. Tre categorie ben distinte e coscienti del proprio ruolo,
cosa che oggi può quasi stupire, visto che la truppa è in pratica scomparsa,
la maggior parte dei sottufficiali diventa maresciallo ancora prima di entrare
in Aeronautica ed ha gradi che sembrano quelli di un ufficiale, e gli ufficiali
portano con imbarazzo gradi spesso non onorati da una adeguata coscienza
delle responsabilità ad essi connesse.
Gli ufficiali non erano molti: svolgevano gli stessi ruoli che svolgono ancora oggi, tecnici, logistici, amministrativi e sanitari. Per lo più avevano l’incarico di capo servizio, con gran parte di sottufficiali alle dipendenze. Ad
onta della mancanza di un diploma di scuola media superiore, i sottufficiali
di allora svolgevano benissimo le loro funzioni: oggi ci vuole addirittura la
laurea breve per fare il baby-maresciallo, ma, in effetti, se non si hanno un po’
di nozioni di informatica e non si sa l’inglese si è fuori dal mondo dell’aviazione moderna.
I sottufficiali erano il fulcro di ogni attività della base, ma a quei tempi
anche buona parte della truppa aveva un rilevante ruolo nelle operazioni del
reparto: infatti era considerato truppa, e come tale assoggettato alle rigide
regole del tempo, anche tutto il personale uscito dalle scuole specialisti fino
al grado di sergente. Buona parte degli specialisti che preparava i velivoli in
linea di volo apparteneva alla truppa.
Il reparto annoverava anche un ridotto numero di dipendenti civili: erano
per lo più addetti ai magazzini, officine, mense ed alloggi. La nostra palazzina
era gestita da una signora molto attiva ed energica, che ci trattava come se
fossimo stati i suoi figli: inquadrate a destra e manca ogni volta che lascia-
Vita da Caccia Bombardiere - 37
vamo la camera in disordine, o ci dimenticavamo di dare la biancheria alla
lavanderia etc. etc. Ricorderò sempre lo strillo e l’inquadrata che mi beccai
da lei appena arrivato, quando, rientrato in divisa in camera al rientro dalla
prima presentazione agli ufficiali della base, gettai senza farci caso il berretto
sul letto. Scattò come un gatto a togliere il berretto dal letto e mi disse, con
tono serissimo, di non farlo mai più. La guardai stupito e le chiesi il motivo di
tanto casino: mi fissò come se fossi un extraterrestre. Poi disse: “ma lei non sa
che il berretto si mette sul letto dei morti? “Non lo sapevo. Ancora non avevo
mai visto un morto in vita mia. Immagino che lei, invece, dopo tanti anni di
Ghedi, di berretti sui letti ne dovesse avere visti parecchi. Superstizione o no,
dopo quello strillo il berretto sul letto non l’ho messo più.
Nel nostro ambiente naturale, vale a dire fra gli ufficiali, la nostra recente
assegnazione ci relegava ad essere l’ultima ruota del carro. Ma fino ad un certo punto: gli ufficiali non piloti sapevano benissimo che noi eravamo un’altra
genia, che eravamo qualcosa di più e di diverso. E poi sapevano altrettanto
bene che nel giro di un paio d’anni noi avremmo avuto qualche striscia di
più sulla divisa, e che saremmo anche potuti diventare i loro capi. Per cui,
anche se più anziani, non si permettevano di bistrattarci, come facevano i
piloti. I piloti di complemento, cioè quelli che facevano il servizio militare di
5 anni, pur sapendo che noi li avremmo superati in grado molto rapidamente,
facevano valere la loro anzianità di reparto scherzando pesantemente con noi
senza troppe remore. Ciò grazie al fatto che fra piloti più che il grado vale
l’esperienza ed il manico: la prima, essendo arrivati dopo, non avremmo mai
potuto uguagliarla; il secondo avremmo dovuto dimostrarlo sul campo.
Come ufficiali di prima assegnazione avevamo l’obbligo di alloggiare in
campo: compiuto un anno di assegnazione al reparto si poteva chiedere al
comandante di alloggiare fuori base. Se si era sposati, lo si poteva fare anche prima. Alloggiare fuori base non era cosa per tutti, fondamentalmente
per questioni economiche: con lo stipendio dell’epoca pagare un affitto era
un’impresa, per questo quasi tutti gli ufficiali scapoli alloggiavano in campo.
Il circolo ufficiali era sempre ben frequentato: verso la metà del mese cominciava ad affollarsi, man mano che i soldi dello stipendio finivano e con loro
la possibilità di fare colpi di vita fuori della base. Fuori dalle ore di servizio il
mondo degli ufficiali stava da una parte, con il suo circolo ed i suoi “privilegi”; quello dei sottufficiali a sua volta aveva il suo circolo ed i suoi “privilegi”,
nel senso che se ai sottufficiali era preclusa l’accesso al circolo ufficiali, la
stessa regola si applicava agli ufficiali nei confronti del loro circolo.
38 - B. Servadei
Figura 3 - L’autore davanti al circolo Ufficiali
Non che fosse proibito, non sarebbe potuta esistere una regola simile: semplicemente si evitava di andarci se non si era specificamente invitati da un
sottufficiale. I sottufficiali erano forse più gelosi di questa loro “privacy” che
non gli stessi ufficiali.
Anche la truppa aveva il suo circolo: credo di averlo visitato in tutto un
paio di volte per servizio, durante il turno di ufficiale di picchetto.
Il circolo truppa era sempre un casino e un interessante miscuglio di esistenze: si passava dagli avieri scesi dai monti e quasi analfabeti agli avieri figli
di magnati dell’industria delle fonderie o delle armi con laurea in ingegneria,
a primi avieri e sergenti specialisti di linea di volo usciti dalle scuole dell’A.M.
Tutti dormivano in camerate: pochissimi riuscivano ad ottenere un pernotto, sempre saltuario. Sono disposto ad immaginare che i figli dei magnati, o
il fratello di Mina, la cantante, che faceva servizio al nostro bar di gruppo,
qualche permesso in più della truppa normale lo ottenessero, ma in ogni caso
non molti.
Vita da Caccia Bombardiere - 39
Nel complesso, vuoi per le stringenti regole vigenti per gli ufficiali nuovi
assegnati, vuoi per quelle attinenti ai sottufficiali scapoli ed alla truppa, vuoi
per la scarsezza del “conquibus”, in campo alloggiava una massa consistente
di personale. I circoli erano sempre pieni, le mense affollate anche di sera, le
festicciole abbastanza frequenti.
Questa massa di personale imponeva di mantenere regole di comportamento piuttosto rigide, simili a quelle che oggi si ritrovano ancora sulle unità
navali o presso aeronautiche veramente operative.
Cose oggi dimenticate: la promiscuità fra i gradi è imperante, il rispetto
della gerarchia quasi una vergogna, i circoli vuoti e con orari di apertura miserevoli.
40 - B. Servadei
La linea di volo
I sottufficiali con i quali avevamo rapporti più continuativi e confidenziali
erano certamente i piloti, ma c’erano altri sottufficiali con i quali avevamo
un rapporto particolarmente sensibile: gli specialisti della linea di volo. Per
linea di volo si intende quella parte del reparto direttamente responsabile della
preparazione finale dei velivoli per l’attività di volo. A quei tempi il Gruppo
era responsabile non solo della conduzione dell’attività di volo vera e propria,
ma anche di una parte importante dell’attività di manutenzione dei velivoli;
gli specialisti erano quindi numerosi e divisi in varie categorie, alcune delle
quali avevano funzioni che, all’epoca, non mi erano molto chiare. Durante la
fase d’apprendimento dei sistemi del velivolo avevamo avuto lezioni da ufficiali tecnici e specialisti addetti a ciascun sistema, ma terminata questa fase i
nostri rapporti si erano ridotti al personale della linea di volo, quello addetto
alla preparazione finale del velivolo per il volo. Per la verità, intorno ai velivoli,
durante la fase d’allestimento finale e di messa in moto, c’erano anche altri
specialisti: il gruppo più numeroso era costituito dagli armieri, addetti all’armamento dei velivoli per le missioni di poligono, di aerocooperazione o per
il montaggio dei razzi JATO. Per noi il poligono era di là da venire e con gli
armieri non avevamo ancora necessità di contatti. C’erano poi i carburantisti
con le loro autobotti, gli ossigenisti con i loro fumanti contenitori gialli e gli
specialisti di sistema di turno in linea, per le emergenze in fase di messa in
moto: anche se appena controllato, spesso alla messa in moto qualche apparato
decideva di fare i capricci e si richiedeva l’intervento dello specialista per vedere se la malfunzione era rimediabile sul momento -spesso si scopriva che era il
pilota ad aver fatto una cazzata- oppure se era necessario cambiare velivolo. La
radio era uno degli apparati più gettonati in quelle situazioni.
Il nostro referente in linea di volo era il crew-chief, lo specialista addetto al
velivolo: era incaricato dei controlli finali prima del volo, di verificare che tutto
fosse in ordine e firmare il libretto di volo per quanto di sua competenza. Poi
accompagnava il pilota nel giro dei controlli esterni e gli illustrava eventuali
provvedimenti particolari che riguardavano il velivolo, riportati nell’apposi-
Vita da Caccia Bombardiere - 41
ta sezione del libretto del velivolo. Era raro che non ve ne fossero: in genere
si trattava di proroghe straordinarie di apparati scaduti, firmate dall’ufficiale
tecnico che se ne assumeva la responsabilità. Finito il giro, il pilota firmava a
sua volta il libretto del velivolo e saliva a bordo, dove il crew-chief lo aiutava a
sistemarsi nel seggiolino e ad allacciarsi le cinture. Restava a lato del velivolo
durante la messa in moto, che spesso presentava dei problemi, specie se il motore era ancora caldo, richiedeva al pilota di effettuare le manovre necessarie a
controllare il corretto funzionamento di flaps ed aerofreni, riportando l’OK al
pilota, ed infine forniva le indicazioni per uscire in sicurezza dal parcheggio.
Insomma, il crew-chief nei primi voli fungeva un po’ da mamma: e, infatti, di norma a noi “vermi” era assegnato un crew-chief con esperienza, ed
un velivolo in buone condizioni: a lui toccava risolvere quei piccoli problemi
che inevitabilmente incontravamo per mancanza di esperienza, a volte anticipando le mosse che noi avremmo dovuto fare per accelerare l’effettuazione di
procedure che altrimenti avremmo fatto lentamente, mandando in bestia il
solito impaziente capocoppia9, che spesso ostentava totale incomprensione per
la nostra condizione di “piloti saltuari”, godendo nel farcela pesare!
La linea era letteralmente dominata dal “Capo-linea”, un maresciallo che
aveva la responsabilità di far funzionare tutto quanto riguardava la predisposizione dei velivoli per l’attività. Era un personaggio rispettato da tutti, i cui
giudizi erano raramente contestati, anche dal Comandante: ci aveva impressionato la sua piena coscienza dell’importanza, delle difficoltà e delle responsabilità connesse al proprio ruolo, ma anche il polso ed il carisma che dimostrava
nel gestire il personale, facendo correre gli specialisti, quando occorreva. Fra i
piloti godeva di molto maggiore rispetto e considerazione dello stesso Comandante! Del resto, il Comandante cambiava ogni anno, il capolinea restava in
carica per anni.
L’autorevolezza e la grinta che dimostravano i marescialli anziani responsabili dei vari settori, mi aveva molto stupito. Erano elementi duri e tosti, tutti
con qualche esperienza bellica. Erano sempre i primi sul pezzo, pronti a dimostrare nella pratica ai più giovani come ci si doveva comportare, a volte anche
assumendo rischi non richiesti. Erano ancora i tempi in cui un maresciallo
“a tre botte”10 era una rarità, ed era un vero capo: sapeva comandare e farsi
9
Capocoppia: leader di una formazione di due velivoli.
10 Maresciallo “a tre botte” : i gradi di maresciallo sono costituiti da strisce poste
sulle spalline e sul berretto. Tre strisce, familiarmente dette “botte”, erano il grado massimo
dell’epoca.
42 - B. Servadei
rispettare. La gerarchia era chiara e applicata con determinazione. Ognuno
stava al proprio posto ed un maresciallo non invidiava un ufficiale od ambiva
diventarlo: si sentiva perfettamente realizzato nel suo ruolo, importante come
quello di tutti gli altri responsabili di qualche servizio. Il capo linea, quando
rilevava mancanze dei suoi sottoposti, poteva consegnarli in campo, o punirli,
se necessario: e spesso lo faceva.
Non so se quelli erano tempi migliori: di certo erano diversi. Oggi i sottufficiali hanno i gradi che sembrano da ufficiale, diventano marescialli con ancora il latte alla bocca, ma non sanno e nemmeno vogliono comandare: fanno
a gara ad evitare di assumere qualsiasi responsabilità e spesso si vergognano del
proprio ruolo. Di certo non sono nemmeno l’ombra di quei personaggi che ho
avuto il privilegio di incontrare all’alba della mia avventura aeronautica. Mi
ero convinto che fosse ormai una specie estinta a livello mondiale, uccisa dalla
modernità e dai nuovi sistemi: invece, molti anni dopo, ho avuto la sorpresa
di scoprire che la specie non si era estinta. Ne ho trovato esemplari ancora perfettamente attivi, ma in altre Aeronautiche, come quella inglese e americana,
dove il maggior impegno operativo ha richiesto la loro sopravvivenza.
Vita da Caccia Bombardiere - 43
L’addestramento operativo
Avendo completato le transizioni, divenimmo piloti in addestramento di
2a fase, quella destinata a portarci al conseguimento della prontezza al combattimento o Combat Readiness (C/R), vale a dire alla capacità di espletare il
compito operativo assegnato al Reparto. L’addestramento di 2a fase era, come
immagino sia ora, lungo ed impegnativo: ovviamente era diverso in funzione
della specialità, ma richiedeva circa 150 ore di volo e vari mesi di tempo. Ogni
missione di volo è descritta in dettaglio in un “sillabus” che definisce i livelli di
capacità che s’intendono conseguire, al fine di mettere il pilota in grado di raggiungere progressivamente tutte le capacità previste. Iniziammo a fare qualche volo di quest’essenziale fase d’addestramento, ma sporadicamente, senza
fretta. Un volo oggi, poi sosta di dieci giorni, poi un altro e così via. Non vi è
nulla di peggio che fare attività di volo in queste condizioni: ogni volta è come
ricominciare da capo. Non si acquisisce sicurezza e tanto meno, maggiori capacità. Ci accorgemmo che al Gruppo si tergiversava volutamente sulla nostra
attività. La ragione ci fu nota ben presto: la prevista e temuta assegnazione del
ruolo di bombardieri Strike era ormai un fatto acclarato. Il 156° Gruppo, il famigerato “Mucchio”, sarebbe stato il primo Reparto dell’Aeronautica Militare
Italiana ad assumere il compito di bombardamento con armamento nucleare. L’esame che il Gruppo avrebbe dovuto superare per certificare l’acquisita
capacità, sarebbe stato condotto da un Team NATO, guidato da un ufficiale
americano e composto da valutatori di vari Paesi dell’alleanza. L’esame, che era
denominato Valutazione Tattica, in inglese “Tactical Evaluation”, abbreviato
in TacEval, avrebbe avuto luogo, senza alcun preavviso, a partire dalla primavera seguente.
Non notai alcun segno di soddisfazione nell’atteggiamento dei nostri capi
per “l’onore” di cui erano stati gratificati: era evidente invece molta preoccupazione.
Per quanto riguardava noi ultimi assegnati, il Comandante di Gruppo doveva avere subito considerato che nei pochi mesi disponibili prima dell’esame
noi, vermi dell’ultima generazione, non avremmo potuto terminare la fase di
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