Un umanista del ‘700 italiano – Alfonso Maria de Liguori
2. S. Alfonso pittore
Indice
1. La preparazione
2. La funzione dell’immagine
3. I soggetti delle sue tele
4. Il Crocifisso e l’ovale di Maria
5.La Divina Pastoraela Madonnadello Spirito Santo
6. Le incisioni
7. Scheletri a fumo
8. La “sphaera armillaris”
9. Il Crocifisso di sant’Alfonso
1. La preparazione
Il signor Giuseppe de Liguori, padre di Alfonso, era appassionato della pittura: non solo gli piaceva
tenere molti quadri in casa ma si dilettava anche a dipingere. Nelle Vite de’ pittori, B. de Dominicis,
infatti, scrive: «Don Giuseppe de.Liguoro, Cavaliere napoletano, si applicò ancor egli con gran genio
al disegno, e volle per maestro Francesco Solimena, con la cui direzione fece qualche cosa, copiando
l’opere sue. Ma lasciando poi di colorire a olio, si volse a dipingere in miniatura ed in tal modo ha
fatto moltissime cose con sua lode» (1).
Don Giuseppe trasfuse nel figlio questa passione. E il primo biografo del Santo ricorda che il ragazzo
ebbe «maestri per lo disegno»; cioè almeno due: uno per il disegno artistico, l’altro per la tecnica e
l’estetica dei piani e. degli stili. Il primo fu certamente il Solimena, già maestro del padre.
Alla scuola del prestigioso artista, Alfonso, anche se dilettante, conobbe altri studenti di architettura,
scultura e pittura. A due di essi -Paolo De Majo (1703-1784) e Francesco De Mura (1696-1782) resterà legato da profonda amicizia e collaborazione per tutta la vita.
In disegno e pittura «riuscì a meraviglia Alfonso; e vivendo tra di noi, ancorché vecchio, non lasciava
abbozzare, secondo veniva animato dalla propria divozione, delle varie immagini, specialmente di
Gesù, o Bambino o Crocifisso, e delle tante in onore di Maria SS., che, a beneficio comune, non
mancò far incidere in vari rami» (2).
2. La funzione dell’immagine
Il de Liguori aveva intuito la potenza suggestiva dell’immagine. E date le sue doti naturali e le
capacità acquisite nell’arte figurativa, se ne servì per parlare alla gente, che, pur se molto semplice
e poco istruita, era ben capace di ricevere il messaggio di un’immagine sacra con più immediatezza
e più proficuamente di un insegnamento orale.
Egli insegnava, o ricordava, tanti elementi della dottrina cristiana con immagini che erano, pur nella
loro essenzialità, di un’ espressività così commovente e di una comunicabilità così diretta da
trasportare dalla visione all’amore. Lo ricorda lui stesso in una lettera scritta al suo amico De Majo,
al quale aveva commissionato la tela di un’Immacolata per la chiesa delle suore Carmelitane di
Frasso Telesino: «Caro mio D. Paolo, voi dite che amate assai la Madonna; lo credo, ma vorrei che
questo amore lo faceste trasfondere anche negli altri: e però finite presto il quadro, che così sarà
amata anche dagli altri» (3).
3. I soggetti delle sue tele
Della sua attività pittorica, troviamo descritti i soggetti nella deposizione che il redentorista G.B. Di
Costanzo rilasciò davanti al tribunale ecclesiastico di Sant’Agata dei Goti, il 10 settembre 1788: il
Servo di Dio «chiamò sempre Gesù Bambino ladro de’ cuori e lo fe’ esprimere con divote figurine a
rame, rappresentanti un Bambino, con un cuore in una mano, e nell’altra un amo, che pesca i cuori…
Si conosce questo suo straordinario affetto verso Gesù sacramentato e verso il suo divin Cuore dalle
figure che ideò e fece tirare da stampatori: del Sacramento che scaglia saette d’amore le quali
feriscono i cuori, e del Sacro Cuore di Gesù che erutta fiamme d’ardore e nel tempo stesso è
circondato da una corona di spine. E tutto questo esprime gli affetti dell’anima del Servo di Dio, non
altrimenti che le canzoncine da esso lui composte su tal soggetto e fatte dare alle stampe… Si
conosce chiaramente questo suo affetto straordinario verso il paziente nostro Redentore Gesù Cristo
non solo dalle figure che ideò e fe’ imprimere, di Gesù Cristo in ginocchioni nell’orto, che suda
sangue, che è confitto in croce e scaglia saette d’amore dalle sue piaghe; ma ancora dalle molte
canzoncine ed ariette da lui composte sulla Passione di Gesù Cristo…. Tutti i suoi affetti a Maria
Santissima troppo vivamente l’espresse con tante diverse e bellissime figure, esprimenti le doti e
perfezioni della Vergine e la sua tenerezza verso dei peccatori» (4).
4. Il Crocifisso e l’ovale di Maria
Nel 1719, a 23 anni, nella piena attività di avvocato in continui successi, Alfonso fissò, con intenso
verismo, sopra una tela, la sua drammatica versione del Crocifisso, sprofondato nella sua morte
d’amore, ferito e sanguinante: plastica e condensata espressione di ciò che scriverà un giorno:
«Anima mia, alza gli occhi e guarda quell’uomo crocifisso. Guarda l’Agnello divino già sagrificato su
quell’altare di pena. Pensa ch’egli è il Figlio diletto dell’Eterno Padre, e pensa ch’è morto per
l’amore che t’ha portato. Vedi come tiene le braccia, stese per abbracciarti, il capo chino per darti il
bacio di pace, il costato aperto per riceverti nel suo Cuore. Che dici? Merita di essere amato un Dio
così amoroso? Senti quello ch’egli ti dice da quella croce: Vedi figlio, se vi è nel mondo, chi ti abbia
amato più di me»(5).
Il de Liguori farà riprodurre il suo Cristo sofferente in immaginette per regalarle ai fedeli, e in
grandi quadri, sia per le comunità di Redentoristi, sia per i missionari che, durante la predicazione,
lo mostravano agli ascoltatori.
Del 1719, probabilmente, è anche l’ovale che ritrae una Madonna, il cui volto, intensamente
spirituale, è aureolato dalle dodici stelle dell’Apocalisse. Fermarsi davanti a questa immagine vuol
dire lasciarsi trasportare, nel silenzio, alla riflessione, alla preghiera.
Per questo studio giovanile, l’autore si è ispirato alla Madonna e sant’Ignazio – quadro conservato
nella pinacoteca del Museo Nazionale di Napoli – del suo maestro F. Solimena.
Verso il 1764, l’altro grande pittore napoletano, Paolo De Majo, anche lui amico del santo, e da
questi sollecitato, ne fece una rielaborazione sostituendo le stelle con l’aureola e aggiungendo il
busto e le mani.
5. La Divina Pastora e la Madonna dello Spirito Santo
In molti ritratti di sant’Alfonso (quello di Pagani, di Marianella, di Benevento ed altri., specialmente
dell’Ottocento) è dipinta una “madonnina”. Questa presenza di Maria nell’iconografia alfonsiana
vuole ricordare la sua intensa devozione e la sua profonda dedizione a lei, regina, madre di Dio e
madre nostra, corredentrice e mediatrice di tutte le grazie; ma vuole anche ricordare l’anelito
costante del santo: «Voglio la Signora mia vicina».
Pertanto il soggetto più proposto, attraverso i suoi quadri, alla contemplazione e alla preghiera, non
poteva essere che Maria.
Il 7 ottobre 1763, già da un anno vescovo di Sant’Agata dei Goti, mentre si trovava ad Arienzo, firmò
questa dichiarazione sulla proprietà di due quadri che, forse da Pagani, aveva portato con sé nella
sede vescovile: «Colla presente dichiaro io quì sottoscritto D. Alfonzo di Liguoro, vescovo di Agata
de’ Goti, come il Crocifisso grande, e li due quadri dipinti sopra tele, con cornici indorate, ed
intagliate, uno rappresentante la Divina Pastora, alto palmi tre, e grande due e mezzo e l’altro alto
circa palmi due, e grande circa un palmo e mezzo, rappresentante la Madonna SS.ma, che nel petto
tiene dipinto lo Spirito Santo, sono della mia Congregazione del SS.mo Redentore» (6).
Tannoia ci fa sapere che Alfonso, lasciando il governo della diocesi, si ritirò a Pagani nel 1775, ed
abitò due stanze: «in una, che destinò per oratorio, vedevasi su l’altare il gran Crocifisso, che
ricevuto avea in dono dal P. D. Francesco Longobardi; ed a’ piedi di quello una bellissima immagine
di Maria Santissima, con a fianco la Divina Pastora, ed un’altra di Maria Santissima collo Spirito
Santo in petto» (7).
La Madonna dello Spirito Santo fu disegnata da Alfonso e dipinta da F. De Mura. Le suore
Redentoriste di Sant’Agata dei Goti ne conservano una incisione: «È di cm 26,5 x 20. Essa ci dà una
bella immagine di Maria: la destra solleva con grazia il lembo del suo manto, mentre la sinistra si
apre come per meraviglia e così appare visibile una colomba sul petto. La testa si volge in alto, un
po’ a sinistra, evidentemente verso l’Angelo che le annuncia l’incarnazione del Verbo: è il momento
in cui pronuncia il suo Fiat, e lo Spirito Santo discende in lei e la rende Madre del Verbo incarnato. A
pie’ dell’immagine è scritto Concepit de Spiritu Sancto» (8).
Nella Divina Pastora, l’autore contempla Maria madre degli uomini, i quali sono rappresentati dalle
pecorelle che, da lei che sorregge Gesù, ricevono rose e grazie. Per rifinirla si rivolse a De Majo.
6. Le incisioni
All’inizio delle sue opere era solito apporre, come antiporta, un’immagine che visualizzasse
l’argomento trattato. Egli stesso preparava, o suggeriva, i disegni che gli incisori riportavano su
rame per la stampa.
Quelli riproposti in queste pagine – che son tutti quelli di cui de Liguori è sicuramente l’autore -sono
più che sufficienti per comprendere la capacità inventiva del santo e la funzione didascalica
dell’immagine.
Nel 1745 pubblicò le Riflessioni utili a’ Vescovi. Vi premise un disegno che rappresenta due pastori:
uno in cammino verso l’alto, verso la salvezza indicata dalla croce e dalla luce di Dio che inonda la
vetta del monte; l’altro che va verso il basso, verso la rovina. Sia il primo che il secondo, sono seguiti
da greggi di pecore.
Nell’edizione del 1748 del libretto Pensieri ed affetti divoti nelle Visite al SS. Sacramento ed alla
sempre Immacolata SS.ma Vergine Maria premise una incisione molto ricca, divisa in due parti: in
quella alta, l’ostensorio in gloria, attorniato da nimbi e da angeli in adorazione, da dove partono
frecce d’amore,nella bassa, si vedono monti, compreso il Golgota sul quale si stagliano tre croci, e
cuori incendiati dall’amore di Cristo.
Nel 1750, ad apertura delle Glorie di Maria, pose una Madonnina, che ripete l’atteggiamento
dell’immagine ovale. La Vergine, dolcissima, guarda in basso, verso l’umanità; la testa, piegata a
sinistra, è circondata dalle dodici stelle. Il tutto è raccolto in una cornice, sorretta da una base, sulla
quale è scritto: Spes nostra, salve.
Nel 1751, al libro sulla passione, L’Amore dell’Anime, premise un Gesù che prega nell’orto degli
ulivi, davanti agli strumenti della flagellazione, coronazione di spine e crocifissione.
Nel 1758 stampò la Novena del Santo Natale, aperta da un disegno che presenta Gesù Bambino in
atto di pescare i cuori umani. Sotto di essa, due versi a rima baciata:
Dunque il desìo de’ Cuori,
o mio Signore,
Bambin ti fece
e pescator d’amore.
Forse è l’incisione più ricca di particolari coreografici. Nel 1760, pubblicando la Selva di materie
predicabili, vi prepose l’immagine di un sacerdote, il quale caccia dall’anima un demonio che lascia il
posto allo Spirito Santo. Sotto, la sentenza in latino: Magna dignitas, sed magnum pondus (Grande la
dignità, ma grande anche la responsabilità).
Nell’edizione del 1762 dell’Apparecchio alla morte –che fu stampato la prima volta nel 1758 troviamo l’incisione più drammatica e più carica di sentimenti. È tagliata in due parti: in quella
bassa, il cadavere di una persona appena morta, con i capelli dritti; nella superiore, un moribondo
attorniato da un prete, un angelo e un demonio: da lui, ognuno dei tre brama ardentemente l’unica
cosa che gli resta da dare in quel momento, momentum a quo pendet aeternitas: l’anima. Davanti al
letto, in terra, una clessidra, ormai inutile. In alto a sinistra, sulla finestra, un macabro uccello che
aggiunge tristezza e malinconia al dramma che si va consumando.
Questo disegno merita un’attenzione particolare perché rappresenta il momento in cui il sipario cala
sulla “commedia umana” di ogni uomo, senza però decretarne la fine. In quel medesimo istante
infatti si apre la scena dell’eternità, quando l’uomo giusto vive il primo attimo della grande festa per
l’arrivo alla casa del Padre. E pur vero che da quel momentum ci potrebbe essere il rischio di
iniziare una vita di eterna sofferenza, proprio perché in morte – come riflette Alfonso nel punto
secondo della Considerazione VI dell’Apparecchio alla morte – i demoni, questi orrendi nemici
mettono tutta la forza per far perdere quell’anima, che sta per urscir di questa vita, intendendo che
poco tempo lor resta per guadagnarla, e che se la perdono allora l’avran perduta per sempre.
Il santo scongiura per sé e per i suoi lettori questa tragica possibilità proponendo continue riflessioni
di speranza nella misericordia divina e nella potente intercessione della Madonna, impegno di
conversione e preghiere umili e fiduciose.
«Caro mio Redentore, vi ringrazio che mi avete aspettato. Che sarebbe di me, se mi aveste fatto
morire quando io stava lontano da voi? Sia sempre benedetta la vostra misericordia, e la pazienza,
che per tanti anni avete avuta con me. Maria, speranza mia, intercedete per me».
Nell’anno 1760 diede alle stampe la Vera sposa di Gesù Cristo, a cui premise l’immagine di una
monaca, incoronata regina dal piccolo Gesù, anch’egli con la corona regale sul capo.
Nel 1767, la Verità della Fede fu preceduta da un’incisione molto curata. Rappresenta una donna
che sorregge la croce e l’ostensorio; ha il viso velato, ma inondato dalla luce dello Spi rito Santo.
Contro di essa, le frecce scagliate dagli eretici e dagli illuministi. Sotto, la scritta: Nimium vexata,
ploro (Troppo maltrattata, piango).
Nel 1768 premise a uno stock di copie della Pratica di amar Gesù Cristo l’immagine di Gesù
agonizzante, creata appositamente. In altre copie ha ripetuto quella premessa, nel 1751, all’Amore
dell’Anime.
L’edizione napoletana del 1772 apre il Trionfo della Chiesa con una nave sbattuta dalle onde del
mare mentre infuria una tremenda tempesta con lampi e fulmini. La stessa immagine è riproposta,
perfezionata, nel 1773 dall’edizione remondiniana.
Nel 1774, all’inizio delle Riflessioni sulla passione di Gesù Cristo, fa incidere il crocifisso da lui
dipinto nel 1719, accentuandone però la sofferenza e lo strazio del corpo, e rimarcandone il.
messaggio: le cinque piaghe scoccano frecce d’amore per ferire il cuore degli uomini.
7. Scheletri a fumo
Già prete e fondatore, mentre era a Ciorani, «volendo additare qual gruppo di marciume sia l’uomo
in se stesso, delineò a fumo il cadavere di Alessandro il Grande, tutto difformato ed intorniato da
topi, con iscriverci di sotto: Ecco dove finisce ogni grandezza… Così nel refettorio della casa d’Iliceto
si vede un altro scheletro, ma ben grande, attorniato da topi e da marciume» (9).
Quello disegnato a Iliceto (oggi Deliceto), nel 1746, è conservato a Pagani. Vicino alla testa dello
scheletro, c’è una clessidra con l’iscrizione: È finita l’ora. Accanto ai piedi, una lampada che si sta
spegnendo e le parole: È terminato [‘olio. Più in basso, per tutta la lunghezza del cartone, la
drammatica frase: 0 tu che leggi vedi quale hai da essere un giorno.
La prima impressione che suscita questo scheletro è la stessa che si prova davanti a una scena
ripugnante, o, per lo meno, sconvolgente. E in effetti sconvolge soprattutto coloro che conoscono il
de Liguori come uno che infonde serenità e fiducia, speranza e simpatia. Il disegno e le frasi
didascaliche, in un certo senso, travisano questa caratteristica della spiritualità alfonsiana. Questa
però, nella sua dimensione totale, ha pure -e lo ha necessariamente -l’aspetto del timore, anche se
esclude -altrettanto necessariamente -il terrore. Con parole diverse e più adatte alla visione di
questo quadro tetro, possiamo dire che, secondo la dottrina di sant’Alfonso, il cristiano, pur davanti
alla morte, non si dispera, ma s’impegna: la coscienza della propria caducità lo porta ad affidarsi
all’amore di Dio e ad impegnarsi nel servizio del Signore e dei fratelli. Il quadro va “letto” con le
parole dello stesso autore che un giorno scrisse: «Hanno fatta gran fortuna un tempo su questa terra
un Alessandro Magno, un Cesare Augusto; ma da tanti secoli questa loro fortuna è già finita… Tutte
le fortune in somma di questa vita vanno a finire ad un funerale e ad esser lasciato marcire in una
fossa. L’ombra della morte cuopre ed oscura tutti gli splendori delle grandezze terrene. Beato
dunque solamente chi serve a Dio in questa terra, e con servirlo ed amarlo si acquista l’eternità
felice» (10).
8. La “sphaera armillaris”
Per insegnare ai suoi alunni anche cosmografia e astronomia, disegnò una sfera armillare. Di questo
strumento scientifico, da molti decenni non più in uso, riportiamo la presentazione che ne fa una
Encicolpedia della prima metà dell’Ottocento:
«Riunione di diversi circoli di metallo, di legno o di cartone, nel centro dei quali è posto un
piccolo globo che serve ad indicare la terra. Questi circoli sono stati immaginati per
rappresentare i movimenti degli astri, secondo il sistema di Tolomeo, vale a dire nell’ipotesi
che la terra sia immobile nel centro dell’universo. Sebbene il vero sistema del mondo sia
oggi fuori di qualunque disputa, pure la sfera di Tolomeo è la più usitata, come la più
semplice: essa basta infatti per le nozioni elementari dell’astronomia e della geografia,
serve a spiegare i fatti apparenti del moto dei corpi celesti. Non si sa con certezza chi sia
l’inventore della sfera armillare: alcuni scrittori ne hanno attribuita la prima idea a Talete,
altri ad Archimede. Il nome di armillare le è derivato dalla voce latina armilla, che significa
braccialetto. Tutti i circoli che compongono questa sfera, sono infatti fasce. circolari assai
somiglianti a braccialetti» (11).
Questo «grosso planisferico armillare, architettato e portato a perfezione – come testimonia p.
Tannoia – dalle sue mani» (12), si trova nell’archivio generale dei Redentoristi, a Roma. [oggi a
Pagani, Museo Alfonsiano].
Non sappiamo come i professionisti della critica d’arte potrebbero giudicare le opere di pittura e
disegno di sant’Alfonso. È certo però che il popolo, anche quello più incolto, ha capito il messaggio
di quelle tele e di quelle incisioni, e si è lasciato prendere, ammaestrare e trasportare da esse verso
il bene, verso Dio. E questo risultato è già arte. Ed è tutto quello che il de Liguori voleva.
9. Il Crocifisso di sant’Alfonso
«Trattasi di un Crocifisso su tela, di dimensioni 150 x100 cm, che sarebbe stato dipinto dal
giovane avvocato nel 1719. E in realtà, sulla destra in alto sono segnate quattro lettere
AMDL, e sotto la data. Di questa opera il Santo fece fare delle copie che mostrava durante
le sue missioni.
Ciò che colpisce immediatamente è la estrema energia che ancora dimostra questo corpo
pur nell’abbandono della morte sulla Croce. Le braccia segnano un grande arco esaltato
dalla traversa del sacro legno e il corpo estremamente piegato appare purtuttavia come
raccolto e composto in masse proporzionate, tese attraverso un attento studio di una
calibrata anatomia martoriata. Il sangue che appare dappertutto non ha invece toccato il
viso che appare stranamente sereno quasi a riprendere il tipo del Christus patiens di
medievale memoria. Ed è appunto a questa cultura figurativa che ritengo debba essere
collegata l’opera, ritrovando la sua matrice in rappresentazioni che con tutta probabilità
avevano colpito la mente e la fantasia dell’Autore.
Una calda materia pittorica contribuisce, pur nella monocromia del colore solcato dalle
grandi chiazze di sangue, all’esaltazione di una volontà dimostrativa che più che espressiva
diventa espressionistica. Colpisce nella testa del Cristo, eccentrica rispetto al corpo e alla
croce, ma che pure costituisce il punto focale della composizione, il suo baricentro, l’ampio
intreccio della corona di spine posta non a seguire la circonferenza del capo ma avviata ad
espansione: corona e insieme aureola». Luigi G. Kalby (13).
Opere di S. Alfonso pittore
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Note
(1) B. De Dominicis, Vite de’ Pittori, Scultori ed Architetti Napoletani non mai dati alla luce da
autore alcuno, Napoli 1745, III, p. 569.
(2) A. Tannoia, op. cit., I, p. 8.
(3) S. Alfonso, Lettere, Roma 1887, I, p. 565.
(4) Copia processus auctoritate ordinaria constructi in dioecesi S. Agatae Gothorum, t. I, folio 194 v;
198; 210
(5) S. Alfonso, Via della Salute, in Opere Ascetiche, Roma 1968, X, pp. 214-215.
(6) Analecta C. SS. R., XIV, 1935, p. 80.
(7) A. Tannoia, op. cit., III, p. 10.
(8) D. Capone, Il Volto di Sant’Alfonso, Roma 1954, p. 112.
(9) A. Tannoia, op. cit., I, p. 8. Secondo antiche testimonianze di Redentoristi, sembra che lo
scheletro a fumo di Deliceto sia la risposta scanzonata alla fame degli studenti, in un periodo in cui
scarseggiavano i viveri. «Non vi preoccupate troppo del cibo -avrebbe voluto dire il santo -tanto
questa è la fine che faranno i vostri corpi: nutrire topi e vermi».
(10) S. Alfonso, Via della Salute, op. cit., pp. 34-35.
(11) Nuova Enciclopedia Popolare, Torino 1849, XI, p. 843.
(12) Cfr. A. Tannoia, op. cit., I, p. 9.
(13) L. G. Kalby, La Pittura Sacra di S. Alfonso, in P. Giannantonio (a cura di), Alfonso M. de Liguori
e la società civile del suo tempo, Atti del Convegno internazionale per il Bicentenario della morte del
santo, Firenze 1990, II, p. 614.
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