1 ° GIOVEDÌ 15 OTTOBRE 2015 ore 20.30 VENERDÌ 16 OTTOBRE 2015 ore 20.3 0 JURAJ VALČUHA | Direttore SANDRINE PIAU | Soprano CHLOÉ BRIOT | Soprano KARAN ARMSTRONG | Contralto GUILLAUME ANDRIEUX | Baritono MAURO BORGIONI | Baritono PAUL GAY | Baritono ROBERT LLOYD | Basso CORO MAGHINI CLAUDIO CHIAVAZZA | Maestro del coro Debussy SAPER ASCOLTARE 15 OTTOBRE 2015 ore 18.45 A CURA DI PAOLO GALLARATI Conversazione di introduzione a Pelléas et Mélisande Ingresso libero In col labora zione con 1 ° GIOVEDÌ 15 OTTOBRE 2015 ore 20.30 VENERDÌ 16 OTTOBRE 2015 ore 20.3 0 JURAJ VALČUHA | Direttore SANDRINE PIAU | Soprano (Mélisande) CHLOÉ BRIOT | Soprano (Yniold) KARAN ARMSTRONG | Contralto (Geneviève) GUILLAUME ANDRIEUX | Baritono (Pelléas) MAURO BORGIONI | Baritono (il dottore, il pastore) PAUL GAY | Baritono (Golaud) ROBERT LLOYD | Basso (Arkël) CORO MAGHINI CLAUDIO CHIAVAZZA | Maestro del coro Claude Debussy (1862-1918) Pelléas et Mélisande, dramma lirico in cinque atti e dodici quadri su libretto di Maurice Maeterlinck (1893/1902) Durata: 2h 40’ ca. Ultima esecuzione Rai a Torino: 22 settembre 1994, Claire Gibault, Catherine Dubosc, Stéphanie Morales, Corinne Marquet, Frédéric Caton, Jean-Baptiste Dumora, Gérard Theruel, Philippe Huttenlocher, Jean-Philippe Courtis, Accademia Corale Stefano Tempia, Giuseppe Ratti (per Settembre Musica). L’intervallo avrà luogo dopo l’Atto III (dopo 1h 30’ ca.) Il concerto è trasmesso in collegamento diretto su Rai 5, su Radio 3 per il programma Radio 3 Suite e in streaming audio-video su www.osn.rai.it. La ripresa televisiva è effettuata dal Centro di Produzione Rai di Torino. L’ACQUA E LE NOTE Un reverberìo continuato, d’acqua di luci e note, abita quest’opera in cui tutto permane in stato di fluttuazione, e in cui serpeggia fino all’ultimo l’indefinito. Opposte e diversissime vi sono le acque. Una Melusina, quell’essere che Piero Gelli ha definito un Ariele triste e confuso, è colei che viene trovata appunto “au bord de l’eau”: Mélisande è una “svagata fanciulla” apportatrice di guai. Quasi rappresentasse tutta una generazione di squisiti sognatori sui quali si affaccia imminente la catastrofe apportatrice di milioni di morti e non, come scriveva Debussy, “di uno che se ne vada discretamente come chi ne ha avuto abbastanza di questo pianeta”. Se ne va infatti così Mélisande, e guarda caso di nuovo di fronte a una vastità d’acqua in cui il sole sta lentamente affogando. Bachelard ha qualificato, ne “L’eau et les rêves”, i tipi diversi d’acque che tralucono in versi e racconti. “ Les songes de l’eau qui sommeille” era detto ne “Le Promenoir des deux amants” di Tristan l’Hermite, nella grotta messa in musica da Debussy che ci riporta all’altra grotta, “pleine de lumières bleues” in cui passeggiano ancora due amanti (ma lo saranno mai stati?) alla ricerca di qualcosa che si sa comunque perduta: l’anello simbolo dell’unione matrimoniale con Golaud. (Le situazioni si ripetono: già nella prima scena una corona d’oro giaceva in fondo all’acqua, una corona che “qualcuno” aveva donato alla fanciulla piangente). Ma, se vogliamo partire da un punto acquatico, la scena chiave è quella in cui Golaud, nei sotterranei, costringe Pelléas a respirare il sentore di morte che dal basso esala lo stagnare dell’acqua. Immaginiamo qui una sorta di pece che ingromma le pareti, come nell’episodio dantesco, e ricordiamo non solo “La casa Usher” di Edgar Allan Poe (di cui Debussy lasciò un abbozzo per canto e pianoforte) ma quel rivo scuro, a strati cromatici, che lo stesso Poe (incombente da Baudelaire a Mallarmé fino a Debussy) descrive nelle fatali ultime pagine di “Gordon Pym”. Fagotti, clarinetti e corno inglese scivolano verso il basso, il cuore impaurito batte nel timpano. E poi irrompe l’esatto contrario. Guizzano verso l’alto flauti e arpe, monta l’orchestra verso il registro acuto, Pelléas “Ah, je respire enfin” tocca il mi, poi con “toute l’air de toute la mer” il fa diesis. E siamo passati dall’acqua dei simbolisti, l’acqua che per altro dà quasi sempre il tono a tutta l’opera (il castello è circondato da acque opache, da cupe foreste che ottundono il sole) a quella degli impressionisti: di un Monet, se vogliamo. (Abbastanza contraddittorio il fatto che sulla spiaggia assolata i bambini scendano a bagnarsi nelle “piccole onde verdi”: non ci aggiravamo in un grigio luogo di mezzi ciechi, dove “tous ceux qui l’habitent sont déjà vieux”?) Appunto, ma qualche giovane c’è. Si vorrebbe affermare che l’impressionismo (e il chiarore) siano dominanti nelle scene in cui Pelléas e Mélisande provano a liberarsi: sull’inusata “Fontaine des Aveugles” che la cecità più non cura e dove l’anello scintilla nel sole prima di precipitare in un glissando d’arpa e di brillare ancora un attimo sul fondo (e qui ci vengono in mente i guizzi dei “Poissons d’or” che Benedetti Michelangeli rendeva tanto mirabili). O nelle scene notturne, nel gioco di luna e d’ombra. Insistere ancora si vorrebbe sul fatto che i due giovani tendano all’impressionismo mentre i vecchi si accucciano nelle loro cavità simboliste. (Un altro esempio, se si vuole: il gregge passa vicino al piccolo Yniold che s’informa sul destino dei “petits moutons”. Il simbolo sta nel loro andare ad immolarsi, come tipico degli innocenti e degli agnelli, mentre l’orchestra descrive impressionisticamente lo zampettìo e i belati. Siamo, appunto, tra due acque. In questo Debussy ha avuto qualche precedente. Nei Lieder di Schubert passiamo dalle acque brillanti in cui scoda la trota, allo sgocciolìo mesto dei remi in “Die Stadt”, al ruscello ambiguo della “Schoene Muellerin”, alla “glatte Flaeche” ,piatta distesa marina che angoscia il pescatore. Mai però come qui, in un’opera intera, il liquido elemento e i suoi volti diversi affiorano in ogni luogo e situazione. E con il suo cangiare, apparire vibrare acquattarsi, riflette ciò che Claude Debussy si riprometteva: ”Offuscando la tonalità si può sempre arrivare in modo naturale dove si vuole, uscire e entrare dalla porta che si preferisce” Cesare Mazzonis PELLÉAS ET MÉLISANDE Soggetto Personaggi: Pelléas, Golaud nipoti di Arkël Arkël re di Allemonde Yniold figlio di prime nozze di Golaud Mélisande Geneviève madre di Pelléas e di Golaud Un dottore Un pastore Ancelle Atto I Quadro primo Nella foresta in cui s’è smarrito, inseguendo un cinghiale, Golaud scorge una fanciulla che, seduta sull’orlo di una fontana, singhiozza. Il nipote di re Arkël la interroga e ne riceve risposte vaghe: viene di lontano, è fuggita perché le hanno fatto del male, il suo nome è Mélisande, le è caduta una corona nell’acqua, ma non vuole che egli tenti di recuperarla. Poi, come trasognata, acconsente a seguirlo. Quadro secondo Nel castello reale, Geneviève, madre di Golaud e, da altro marito, di Pelléas, legge al vecchio Arkël una lettera di Golaud al fratellastro: gli racconta di aver sposato da sei mesi una bellissima fanciulla, Mélisande, delle cui origini nulla sa; desidera tornare, ma teme l’ira del nonno. Se però fra tre giorni vedrà una luce sulla torre, vorrà dire che a sua moglie verrà fatta un’accoglienza affettuosa e allora tornerà. Entra Pelléas, che manifesta l’intenzione di andare a trovare un amico morente, ma Arkël gli rammenta che anche suo padre è in fin di vita e merita una sua visita: ma prima bisogna aspettare Golaud. Geneviève invita Pelléas ad accendere la lampada. Quadro terzo Golaud è tornato con Mélisande. La giovane sposa è malinconica e Geneviève cerca di rincuorarla. Si fa sera. Arriva dal mare Pelléas e parla dell’imminente burrasca. Geneviève lo prega di accompagnare a casa Mélisande; lei andrà a vegliare il piccolo Yniold, figlio di primo letto di Golaud, che è malato. Pelléas dice a Mélisande che domani forse partirà. Atto II Quadro primo Pelléas e Mélisande sono nel parco, presso la fontana che, secondo una leggenda, restituisce miracolosamente la vista ai ciechi: essa è stata abbandonata da quando il re stesso è diventato cieco. Mélisande vorrebbe toccare l’acqua, profonda forse come il mare. Vi immerge le mani, i suoi lunghi capelli biondi si bagnano. Vicino a una fontana eguale, ricorda, la incontrò Golaud. Gioca con l’anello che lui le ha regalato, e l’anello cade nell’acqua. Mélisande è sgomenta: non sarà possibile ritrovarlo più. E se Golaud domanda dov’è? Bisogna rispondergli la verità, dice Pelléas. Quadro secondo Golaud è nel suo letto, assistito da Mélisande: è caduto malamente da cavallo, mentre era a caccia, ma ha il cuore forte ed è certo di cavarsela. D’un tratto Mélisande scoppia in lacrime. Perché?, le chiede Golaud, c’è qualcuno che le usa torti? Pelléas forse, che è spesso un po’ strano? No, non sa neppure lei, si sente infelice e oppressa in questi luoghi tetri, e vorrebbe andarsene lontano. Nell’ansia di consolarla, Golaud le stringe le mani e si accorge che non ha più l’anello nuziale. Mélisande dice d’averlo perduto in una grotta in riva al mare, mentre raccoglieva conchiglie per Yniold. Golaud le impone di tornare là a cercare l’anello, e poiché Mélisande dice d’aver paura la esorta a farsi accompagnare da Pelléas. Quadro terzo È notte. I cognati sono davanti alla grotta. Bisogna entrarvi, per saperla poi descrivere a Golaud, dice Pelléas a Mélisande. La luna improvvisamente dirada le tenebre. Si vedono tre vecchi mendicanti addormentati uno accanto all’altro. Mélisande spaventata vuole uscire subito, Pelléas la segue. Atto III Quadro primo A una finestra della torre Mélisande sta pettinandosi per la notte. Pelléas passando di sotto la vede, le annuncia la sua partenza la mattina dopo e le chiede se può baciarle la mano. Mélisande si sporge e i lunghi capelli si rovesciano su Pelléas, lo avvolgono, si impigliano tra i rami d’un salice. Pelléas se ne inebria, li bacia. Sopraggiunge Golaud e rimprovera la moglie e il fratellastro per la loro fanciullaggine. Quadro secondo Golaud conduce Pelléas nei sotterranei del castello, e lo sorregge perché si sporga sull’acqua stagnante. La lanterna che tiene in mano gli trema un poco. Pelléas se ne accorge. Quindi chiede di uscire: si sente soffocare dai miasmi che salgono dal fondo. Quadro terzo Fuori dai sotterranei, all’aria del mare, Pelléas respira. Alzando lo sguardo, vede a una finestra la madre e Mélisande. A proposito di Mélisande, gli dice Golaud gravemente, bisogna che quanto è avvenuto la sera prima non si ripeta, sono cose da ragazzi, e lei, delicata e sensibile com’è, deve essere lasciata tranquilla e serena, ora che aspetta un bambino. Quadro quarto Golaud, divorato ormai dalla gelosia, interroga Yniold: che cosa fanno Mélisande e Pelléas quando sono insieme? Discutono per via della porta che non può stare aperta, risponde Yniold, sono spesso tristi, tacciono a lungo, non vogliono che lui s’allontani, una volta si sono baciati sulla bocca. Golaud prende in braccio il figlio perché guardi, attraverso la finestra, nella stanza di Mélisande: Pelléas è lì, con lei, non fanno niente, gli occhi fissi alla luce, silenziosi. Spaventato dalle insistenti domande del padre, Yniold lo prega di farlo scendere. Atto IV Quadro primo Pelléas e Mélisande si incontrano in una sala del castello. Pelléas le dice che suo padre sta meglio e lo ha consigliato di intraprendere il viaggio tante volte rimandato. Partirà, dunque, ma prima le chiede di rivederla ancora, la sera, presso la fontana. Entra Arkël, anche lui con l’animo sollevato per la guarigione del figlio: il re mostra grande tenerezza per Mélisande, così smarrita e misteriosa, ed è contento che pure per lei la vita del castello si prospetti meno triste. Li raggiunge Golaud, agitato: respinge Mélisande, chiede della propria spada, poi, sempre più irritato dall’aspetto innocente e impaurito della moglie, l’afferra per i capelli, la getta a terra, la trascina per la stanza. Quando Arkël infine interviene, si finge calmo. Arkël pensa che il nipote sia ubriaco. Mélisande capisce che è invece perché non l’ama più, e si sente tanto infelice. Quadro secondo Pelléas arriva al convegno presso la fontana. Vedrà Mélisande per l’ultima volta, la guarderà negli occhi e le dirà le cose taciute finora. Entra Mélisande e Pelléas le dice finalmente che l’ama: invano ha inseguito dappertutto la bellezza, adesso l’ha trovata, non sapeva quanto era bella Mélisande. Anche lei lo ama, lo ha sempre amato dal primo momento: è la verità, solo con Golaud mente. Si è fatto tardi, hanno chiuso le porte del castello, si odono dei passi. È Golaud armato, li ucciderà? Tanto meglio, mormora Mélisande. Golaud è su di loro, Pelléas cade colpito a morte. Mélisande fugge nel bosco, inseguita da Golaud. Atto V Arkël, Golaud e il medico sono al letto di Mélisande. È rimasta ferita, dal marito, ma leggermente, e non c’è pericolo di morte. Si sveglia, vuole che si apra la finestra, domanda chi vi sia nella stanza: c’è anche Golaud, le dice il re. Golaud vuole rimanere solo con lei. Le chiede se lo perdona, poi la prega di confessargli se ha amato Pelléas. Sì. Ma l’ha amato di un amore colpevole? No. Golaud la incalza: è la verità? Mélisande non risponde, è già troppo lontana, e il dubbio e il rimorso tortureranno per sempre Golaud. Rientrano Arkël e il medico. Mélisande ha freddo ma non vuole che si chiuda la finestra finché il sole non sarà calato in mare: allora comincerà l’inverno. Le mostrano la bimba, nàtale da poco, così piccola, così fragile, e che tuttavia lei non ha la forza di prendere in braccio. Entrano nella stanza le ancelle. Golaud se ne stupisce, e chiama con voce rotta dal pianto Mélisande. Le ancelle s’inginocchiano. Arkël esorta Golaud a uscire: Mélisande ha bisogno di silenzio ora e conviene dedicarsi alla bimba, perché viva al posto di lei. PELLÉAS ET MÉLISANDE, OVVERO L’ARTE DELL’ELUSIONE E DEL SILENZIO di Fiamma Nicolodi “Non pretendo - scriveva Debussy al termine della sua decennale fatica - di avere scoperto tutto con Pelléas, ma ho cercato di tracciare una strada che altri potranno seguire, ampliandola di contributi personali che forse libereranno la musica drammatica dalla pesante schiavitù in cui da tanto tempo vive”. Un auspicio rimasto com’è noto purtroppo deluso. Non solo Pelléas et Mélisande sarà l’unica opera teatrale scritta da Debussy a sopravvivere accanto a una selva di progetti e abbozzi incompiuti, ma il suo modello, frutto di un delicato equilibrio fra gusto e tradizione, intuito e ragione o, per usare le parole dell’autore, fra natura e immaginazione, non avrà seguito nella storia del teatro musicale moderno. Resterà un pezzo unico che, com’è proprio di alcuni (rari) capolavori, non ammette repliche neppure al prezzo di un falso. Il musicista aveva idee ben chiare sul teatro lirico e sulla necessità di una sua ‘riforma’ - problema avvertito con particolare urgenza un po’ dovunque alla fine del secolo -, prima ancora di accingersi a mettere in musica Pelléas et Mélisande: il dramma in cinque atti del belga Maurice Maeterlinck che aveva acceso la sua fantasia alla prima (e unica) rappresentazione presso il Théâtre des Bouffes-Parisiens il 17 maggio 1893. Serata memorabile, al di là dello scarso successo di pubblico, cui oltre al nostro, che si affrettava a stendere i primi appunti musicali, erano presenti e congiunti nel plauso simbolisti di specchiata fede: Mallarmé, Henri de Régnier, il pittore Whistler. Qualche tempo prima due episodi apparentemente diversi ma di fatto ravvicinati avevano provocato in Debussy un’esatta messa a fuoco di poetica drammatica. Era il 1889. Di ritorno dal santuario di Bayreuth, pellegrinaggio abituale dei cultori del Simbolo che in Wagner erano soliti identificarsi (idolatrando l’opera d’arte totale, il complesso sistema analogico, la musica come regno esclusivo dell’indicibile, di ciò che sta al di là dell’apparenza, ecc.), il compositore venne assalito da parecchi ripensamenti e da più di un rovello critico. Già fervente ammiratore del tedesco, Debussy pensava a soluzioni più consonanti con la musa francese dell’equilibrio, della clarté, della finezza e per ciò stesso alternative alla logica esplicativa dei “biglietti da visita di cui si declama liricamente il contenuto” (come definiva sprezzante i Leitmotive), alla pedanteria di raccontare la stessa storia (Ring) in quattro serate (“bisogno tutto germanico - scrive - di ribattere ostinatamente lo stesso chiodo per paura di non farsi intendere”), al “mastice multicolore [di un’orchestra in cui non si] può distinguere il suono di un violino da quello di un trombone”. Nello stesso ‘89, infatuato alla lettura de La princesse Maleine di Maeterlinck - che un precedente accordo fra il poeta e Vincent d’Indy gli impedì con suo disappunto di mettere in musica -, Debussy percepisce che la via da percorrere per liberarsi dall’enfasi, dalle saghe nordiche e dai toni eroici sta proprio lì, nel clima allucinato e misterioso che circonda la fragile Maleine, negli oscuri presagi di male che corrompono ogni segno di vita, nella debolezza di Hjalmar e del vecchio padre, incapaci di opporsi alle forze oscure che li com battono. In una franca conversazione nel novembre ‘89 con il suo insegnante di composizione Ernest Guiraud, puntualmente annotata dall’amico Maurice Emmanuel, Debussy rivelava i principî di un credo drammaturgico, tanto radicato nella sua coscienza, da restarvi d’ora in avanti sempre fedele, sia in sede compositiva, sia nei suoi copiosi scritti critici. “Non sono tentato di imitare ciò che ammiro in Wagner - confessava -. Ho in mente una forma drammatica diversa: la musica comincia là dove la parola è impotente a esprimere”. E in ossequio alla vaghezza, ai giochi iridescenti dello ‘sfumato’ e dell’invisibile (“car nous voulons la nuance encor, pas la couleur”, recitava Verlaine), così delineava la figura del librettista ideale: “colui che dicendo le cose a metà mi permetterà di innestare il mio sogno sul suo; che concepirà dei personaggi in cui la storia e la dimora non avranno epoca né luoghi determinati; che non m’imporrà la scena madre”. Quindi in perfetta equidistanza dal dramma wagneriano come dall’opera italiana: “non seguirò gli erramenti del teatro lirico in cui la musica predomina insolentemente, e la poesia è relegata in secondo piano, soffocata da panni musicali troppo pesanti. Nel teatro musicale si canta ‘troppo’. Bisogna invece ‘cantare’ solo quando ne vale la pena e riservare gli accenti patetici. È necessario contentarsi di dipingere ogni tanto in chiaroscuro. Niente deve arrestare il cammino del dramma: ogni sviluppo musicale non richiesto dalle parole è un errore. [...] Io sogno poemi che non mi condannino a perpetrare atti lunghi, pesanti; che mi forniscano scene mutevoli, diverse per i luoghi e il carattere; in cui i personaggi non discutano, ma subiscano la vita e la sorte”. Salvo l’abiura wagneriana, qui espressa nel rifiuto dello sviluppo sinfonico e del predominio invadente dell’orchestra, che fa sì che Debussy sia meno sincero del dovuto (numerosi saranno in verità i debiti contratti con l’autore di Tristano), questa lunga, articolata dichiarazione suona come il profetico annuncio di Pelléas et Mélisande e il suo miglior commento critico. Ottenuta da Maeterlinck l’autorizzazione a musicare il suo dram ma, ricevendo in segno di incoraggiamento e stima utili consigli sui tagli da operare, il musicista trentunenne sembra procedere in uno stato di autentico furor creativo. Rispettando il testo originale in prosa - che determina sul piano musicale un declamato lirico di assoluta originalità, fedele ai valori prosodici e all’intonazione della lingua francese, dotato di un ventaglio espressivo infinitamente vibratile e vario per condensazione e rarefazione del tempo -, Debussy si limita a eliminare alcune ripetizioni, qualche simmetria, simbolismi troppo scoperti, associazioni di maniera (le “servantes”, mute foriere di morte, chine a lavare macchie di sangue prima che siano state versate, atto I, scena 1; il dialogo fra Pelléas e il vecchio Arkël che invita per la seconda volta il nipote a restare al castello, così involontariamente precipitando gli eventi, II, 4; la disperazione di Yniold per la paventata partenza di Mélisande, III, 1; la lotta fra cani e cigni, ivi). Restano inalterate le molte contraddizioni che percorrono la pièce e che tanto mandano in bestia i puristi della ragione (Barraud, Boulez, fra questi). Accade comunque che il compositore smussi talvolta i contorni, conferendo accenti musicali diversi a quanto espresso nel dramma. (Arkël non è il cattivo profeta o il finto saggio dipinto suo malgrado da Maeterlinck, ma un vecchio realmente traboccante “tenerezza disinteressata” come intendeva Debussy. Lo indica in particolare nell’atto IV, scena 2, il fraseggio sinuoso raddolcito dagli intervalli di terza, il caldo intreccio polifonico che lo avviluppa al tema di Mélisande, l’intenso controcanto “doux et expressif” dei violoncelli nella regione della dominante di mi maggiore alle parole “Viens ici”, poi ripreso in raddoppio dal primo oboe e dal primo fagotto, quindi dal clarinetto e dal corno inglese; cfr. partitura Durand, pp. 272-74). In altri casi Debussy sembra accogliere invece con giubilo le sfasature deliberatamente contemplate dal testo (che simbolismo e che “mistero poetico” altrimenti sarebbe?), quasi si trattasse di sconfiggere la discorsività burocratica della logica in favore dell’incoerenza evocativa del sogno. (Inutile chiedersi per esempio nell’atto IV, scena 4, il duetto sui generis fra Pelléas et Mélisande, chi dei due amanti voglia stare alla luce o all’ombra, perché entrambi si contraddicono a distanza di pochi minuti. La musica ne approfitta per trascolorare in un inquieto divenire di états d’âme, per creare dei chiaroscuri nella mutevole scacchiera dell’affettività, per introdurre in altri termini una poetica e modernissima sonda fra le pieghe del relativismo psicologico). Nel settembre ‘93, appena quattro mesi dopo aver assistito allo spettacolo dei Bouffes-Parisiens, Debussy ha terminato la scena quarta del quarto atto (“Una fontana nel parco”). Ma il “fantasma” di Wagner che gli sembra di avvertire dietro alcune battute, lo costringe a ricominciare daccapo. Nel desiderio di raggiungere uno stile più naturale, così comunica il 2 ottobre ‘93 all’amico e collega Ernest Chausson: “sono ripartito alla ricerca di una piccola alchimia di frasi più personali. [...] Mi sono servito [...] di un mezzo che mi sembra assai raro, cioè il silenzio, come strumento di espressione e forse l’unico modo di far valere l’emozione di una frase”. Pur fra mille ripensamenti e incertezze che il lavoro gli procura, l’artista si compiace di ricreare il colore fuligginoso e tetro che grava su Allemonde: il regno dell’ombra e della vecchiaia, dalla geografia imprecisata e lontana, circondato da foreste intricate che a stento lasciano intravedere la luce, insidiato da malattie misteriose (quella del padre di Pelléas), dalla carestia (vittime, anche i tre vecchi addormentati nella grotta), un regno dove il profumo della giovinezza (di Mélisande, Pelléas, Yniold) è corroso dai miasmi di acque stagnanti, da un greve sentore di morte. Il problema maggiore, di cui Debussy era perfettamente cosciente, consisteva nel coniugare la dimensione onirica, misteriosa, irreale con quella concreta, reale, determinata dell’azione scenica, con personaggi che mimano da un lato sentimenti e gesti quotidiani apparentati al dramma borghese (amore, gelosia, violenza, fratricidio, morte), e dall’altro si atteggiano a pure efflorescenze dell’inconscio, allegorie dell’“eterna anima umana, egoista, ingenua, dolce, crudele, irresponsabile, cieca” (J. Marnold). “Ho passato intere giornate alla ricerca di questo niente [rien] di cui è fatta Mélisande - confida sempre a Chausson nel gennaio ‘94 -. Adesso è Arkël a tormentarmi: questi è un personaggio d’oltretomba e ha quella tenerezza disinteressata e profetica proprio di chi sparirà fra breve. E tutto questo va detto con do, re, mi, fa, sol, la, si do!!! Che mestiere!”. Facendo sue le categorie dell’indefinito, dell’ambiguo, care ai dettami di casa simbolista (“definire un oggetto è annullare i tre quarti del godimento della poesia...; suggerirlo, evocarlo, è questo che ammalia la fantasia”, sosteneva Mallarmé), Debussy si immerge nel cli ma di terrore del subconscio maeterlinckiano tanto apprezzato da Artaud, in modo da far risplendere per contrasto le oasi sommesse della distensione, i fasci abbaglianti di luce. “Ho appena finito la scena dei sotterranei - scrive il 28 agosto 1894 al pittore Henri Lerolle -, piena di terrore subdolo e misterioso da dare la vertigine, e [ho terminato] anche la scena all’uscita dagli stessi, che è piena di sole, ma di un sole bagnato dalla nostra buona madre, il mare”. E quanto piacessero a Debussy (come a tutti i compagni simbolisti) i sottofondi claustrofobici, le case dirute e inabitate, gli stati morbosi, gli incubi, le figure spettrali è testimoniato anche da due progetti teatrali falliti: Axël di Villiers de l’IsleAdam, di cui resta una sola scena composta nel 1888, e La chute de la Maison Usher di Edgar Allan Poe che tenne occupato il compositore dal 1908 alla vigilia della morte, e della quale è pervenuto il libretto e la musica per canto e pianoforte di due scene (completata dal compositore cileno Juan AllendeBlin, La caduta della casa Usher è stata eseguita la prima volta a Francoforte nel ‘77; direttore d’orchestra Eliahu Inbal). Per ultimo Debussy lavorò nel ‘95 al finale (atto V) di Pelléas, interamente dedicato alla morte della protagonista. Ma è preoccupato per l’accoglienza che il pubblico riserverà a questa pagina così parca di effetti e di eventi: “in Francia quando una donna muore sulla scena - confida sempre a Lerolle il 17 agosto 1895 - bisogna che sia come nella Dame aux Camélias. [...] La gente non ammette che uno se ne vada discretamente come chi ne ha avuto abbastanza di questo pianeta che è la Terra, per andarsene là dove crescono i fiori della tranquillità”. Debussy scrisse dunque Pelléas et Mélisande in due anni (1893-1895), ma prima di giungere alla fase dell’orchestrazione (1901-1902), che comporterà di per sé parecchie modifiche e aggiustamenti, non fece che ritornare sulle pagine composte, con un estenuante lavoro di lima. Quanti hanno studiato gli autografi di Pelléas (O. d’Estrade-Guerra, F. Lesure, R. Nichols) registrano due tendenze prevalenti: per un verso la cura rivolta all’assottigliamento, alla semplificazione, alla riduzione dei mezzi orchestrali (e mai all’ampliamento), per un altro, la preoccupazione di rendere il canto duttile e scorrevole come il parlato francese, con i suoi accenti, inflessioni (di qui l’eliminazione di molte pause che arrestavano l’eloquio, di qui il frequente ricorso al tribraco, ecc.). L’artista sa di avere scritto un’opera per pochi intenditori, tanto da auspicarne la rappresentazione nel Pavillon des Muses, la sontuosa residenza di Robert de Montesquiou, il ricco e raffinato dandy amico di Proust. Fatto più che naturale per chi dichiara di odiare l’opera “popolare”, i “gridi umani” del teatro verista (la “fabbrica del niente”, come aggiunge infastidito), la “sentimentalità” a buon mercato di Charpentier (“ancora qualche opera come Louise - scrive il 6 febbraio 1900 a Pierre Louÿs - e ogni tentativo di tirare fuori [il pubblico] dal fango sarà vano”). I fasti della democrazia in arte lo irritano: “Liberté, Egalité, Fraternité: parole buone al massimo per dei fiaccherai”; o altrove “odio le folle, il suffragio universale e le frasi tricolori!”, oppure: “per la musica provo una forma di adorazione che è sempre più rara, visto che il modo irrispettoso in cui la trattano sembra ormai del tutto naturale”. Far rappresentare Pelléas et Mélisande non fu impresa da poco, e ci volle tutta la dedizione e il coraggio del direttore d’orchestra André Messager che convinse il nuovo direttore artistico dell’Opéra-Comique Albert Carré ad accogliere il lavoro nel suo teatro, perché si potessero finalmente apprezzare i risultati di questo lungo parto. La generale ebbe luogo il 28 aprile 1902, dopo due giorni la prima (30 aprile 1902). Sul podio lo stesso Messager; interpreti principali: la scozzese Mary Garden (“non posso concepire timbro più dolcemente insinuante”, dichiarava Debussy a proposito della sua Mélisande), Jean Périer (Pelléas), Hector Dufrane (Golaud), F. Vieuille (Ar kël), Gerville-Réache (Geneviève); la regia (anche se ancora non si chiamava così) portava la firma di Carré e se ne conserva a tutt’oggi una minuziosa descrizione; le scene erano quelle naturalistiche, tristi e grigiastre, color “jus de tabac” dei due scenografi titolari dell’Opéra-Comique, Ronsin e Jusseaume (che non dispiacquero comunque all’autore). I mesi precedenti l’andata in scena furono travagliatissimi per il musicista. Maeterlinck si accanì contro di lui per via che non era stata scelta come interprete nel ruolo di Mélisande la sua compagna Georgette Leblanc: lo sfidò a duello, e non avendone ricevuto soddisfazione, tuonò sulla stampa: “Pelléas è un lavoro che mi è diventato estraneo, ostile; senza il mio controllo su di esso, mi vedo costretto ad augurargli un fiasco immediato e completo” (“Le Figaro”, 14 aprile 1902). Un’azione di disturbo supplementare, rispetto ai tanti problemi arrecati dalla musica in sé: un’orchestrazione non ancora terminata, i molti errori del copista da correggere, le lamentele di cantanti e orchestrali da sedare durante le difficili prove, e da ultimo la brevità degli interludi sinfonici, insufficienti per i cambiamenti di scena, che dovevano essere rimaneggiati e allungati. Quando si giunse alla matinée del 28 aprile il clima era surriscaldato dai pettegolezzi e da una campagna di stampa prevenuta. Un programma di sala distribuito all’ingresso del teatro ironizzava sui doppi sensi, raccontando la trama in termini maliziosamente voyeuristici (“scena terza: Pelléas, il fratello di Golaud, passeggia con la sua cognatina nei giardini ombrosi. Eh... eh...”), mentre “Le Figaro” annunciava per scherzo il matrimonio di un certo P. Léas con la signorina Méli Zandt. Bastarono alcune frasi della protagonista per scatenare il riso di una platea assai poco ben disposta. Al sommesso “Non sono felice” di Mélisande il pubblico replicò “Neppure noi!”, e giù battute e lazzi a non finire. (Oggi, più che i risibili “ne me touchez pas”, sono certi da tati simbolismi a rischiare il grottesco, ammesso che sia operazione possibile trattandosi di un capolavoro come Pelléas. Tali, la fluviale capigliatura di Mélisande che ha buone probabilità di restare davvero impigliata ai “rami del salice”, provocando l’ilarità in una scena di forte tensione emotiva. Senza contare i problemi posti alla regia da quell’anemico fantoccio di Mélisande jr. nel finale, che, per il gusto di Bortolotto, acuto esegeta dell’opera, tocca “il vertice dell’insipido”). In sala alla generale rimase ad applaudire solo una ristretta rosa di spiriti eletti: Valéry, Mirbeau, Régnier. Il giorno della prima, nonostante il divieto impartito dal direttore del Conservatorio Théodor Dubois agli allievi di assistere allo spettacolo, giunsero a frotte i musicisti più giovani. Ravel e il gruppo degli “Apaches” stipati in galleria contrastarono parrucconi e wagneriani incalliti. “Imponevamo il silenzio a chi rideva - ricorda nel suo Journal intime uno degli Apaches, il pianista Ricardo Viñes -, e l’emozione, il coinvolgimento conquistò un po’ alla volta gli uomini di buona volontà”. Con le repliche il successo andò aumentando, malgrado le riserve superciliose della critica che parlava di “arte nihilista”, “perenne nebulosità”, “mancanza di forma”, “monotonia melodica e ritmica”, “concatenazioni armo niche incomprensibili”. Di fatto Pelléas et Mélisande divenne l’argomento del giorno e fece dilagare ben presto la moda dei “Pelléastres” (la definizione fortemente ironica è del giornalista Jean Lorrain su “Le journal” del 22 gennaio 1904): “efebi dai lunghi capelli con una sapiente scriminatura nel mezzo, dai volti opachi e dagli sguardi profondi”. Quando Debussy aveva iniziato a scrivere quest’opera egli era l’autore di alcune pagine decisive, ma lontane da un consenso incondizionato urbi et orbi (Prélude à l’après-midi d’un faune, 1892-94; Quatuor in sol minore, 1893; molte liriche per canto e pianoforte, fra cui Cinq poèmes de Baudelaire, 1890; Fêtes galantes su testo di Verlaine, 1891; Proses lyriques, 1892-93). A queste se ne aggiunsero altre di capitale importanza durante la fase di gestazione del dramma (Nocturnes, 1897-99; Chansons de Bilitis, da P. Louÿs, 189799; Pour le piano, 1894-1901). Ma solo con Pelléas et Mélisande Debussy divenne il padre riconosciuto della musica francese a cavallo di secolo (im pressionista o simbolista, comunque la si voglia chiamare) e ogni suo lavoro un costante punto di riferimento e di stimolo per le generazioni più giovani. Sarebbe naturalmente un errore pensare che in questo “dramma lirico” il musicista muti pelle al punto da trasformare radicalmente il suo linguaggio e il suo stile, quale si era venuto magistralmente delineando nella produzione degli anni ‘90. E infatti non è così. Già nelle liriche per canto e pianoforte (Ariettes oubliées, Fêtes galantes) si trova anticipata quella varietà nel disporre la linea del canto che incontreremo in Pelléas e che spazia da un declamato più scultoreo, al recitativo mosso e agitato (spesso sostenuto dall’indicazione “serrez”), a più esplicite volute melodiche, memori della fragranza massenetiana. Una varietà di articolazione vocale che viene così a compensare la relativa ristrettezza dell’ambito intervallare dell’opera, la quale, salvo momenti di maggior pathos, difficilmente eccede l’intervallo di sesta maggiore o di settima minore, lasciando preferibilmente scivolare la voce per grado congiunto. E anche per quanto riguarda la scrittura armonica, l’insofferenza di Debussy ai trattati scolastici non è cosa di oggi. Nel Prélude à l’après-midi d’un faune o nei Nocturnes, per tacere d’altro, si trova dispiegato quel ventaglio di soluzioni ‘anarchiche’ che rende inconfondibile lo stile di Pelléas: concatenazione di triadi parallele, settime che non risolvono secon do le regole tradizionali, bruschi accostamenti di accordi perfetti di settima, nona, undicesima, impiego di accordi alterati e incompleti, modulazioni per terze (armonia di medianti). Un lessico che contribuisce a creare quella fluidità tonale, quel senso di continuità, non interrotto dalla punteggiatura rilevata della cadenza perfetta (in Pelléas se ne contano appena una ventina, tutte motivate dal testo), che era mèta ambíta dal giovane allievo di Guiraud fin dall’89 (“accordi incompleti [...], fluttuanti. Offuscando la tonalità si può sempre arrivare in modo naturale dove si vuole, uscire e rientrare dalla porta che si preferisce”). Se è vero dunque che le conquiste innovative raggiunte da Debussy (melodiche, armoniche, ma anche ritmiche, timbriche) non nascono con Pelléas et Mélisande, è altrettanto vero che i problemi compositivi connessi con un’opera teatrale sono molto diversi da quelli di una pagina vocale, di un lavoro strumentale da camera o per orchestra. Bisognava far sì che, in una struttura drammatica di cinque atti e dodici quadri - tale la suddivisione adottata da Debussy -, il colore di ogni episodio mantenesse le sue proprietà collegandosi all’insieme, che le leggi dell’unità e della varietà, della tensione e della distensione, proprie del teatro lirico, venissero rispettate, che l’assenza di “melodie infinite” e forme chiuse (fatta eccezione per la canzone arcaizzante di Mélisande) non degenerasse nell’informe, che il realismo (anche brutale e grand-guignolesco come nell’atto IV, scena 2, quando Golaud trascina per i capelli l’esterrefatta consorte) non annullasse il clima di generale astrazione, che la staticità verticale delle singole scene, autosufficiente e come risolta in se stessa, si sposasse al divenire del dramma e alla scansione orizzontale del tempo. Si dovevano inoltre rendere plausibili, umani, poetici dei personaggi privi di ogni caratterizzazione psicologica definita, fissa, positiva, e invece perennemente in preda all’ambiguità, alla reticenza, allo spirito di contraddizione, al delirio della follia, agli incubi della paura, ai sortilegi del mistero e perfino inclini alla menzogna. (È il caso molto sfaccettato di Mélisande. Essa può mentire con la candida innocenza di chi ignora il male, come quando racconta al marito di aver perso l’anello in un luogo diverso da dove è avvenuto il fatto. Talvolta le sue bugie suonano piuttosto reticenti: così nel lamentarsi con Golaud di aver visto il cielo una sola volta, la musica, anziché alludere al “chiarore” percepito in compagnia di Geneviève introduce il rapido fluire di quartine di biscrome del “cielo” visto con Pelléas presso la fontana. In altre occasioni la coscienza di mentire significa difesa dai pericoli, dalla violenza, dal male; così nell’atto IV, scena 4, Mélisande a Pelléas: “je ne mens jamais, je ne mens qu’à ton frère”). Ma le difficoltà poste dal dramma non erano esaurite. Bisognava riuscire infine a coniugare parole/immagini simboliche (luce, acqua, ombra, mare), di cui Debussy con una tecnica inimitabile dell’istante sapeva catturare tutta la fragranza, con il libero fluire associativo di figure sonore che il colore orchestrale e la tavolozza armonica disponevano in continue metamorfosi. Questo fu appunto il miracolo irripetibile di Pelléas et Mélisande (e infatti mai più ripetuto), sul quale ancora oggi ci interroghiamo. Certo Debussy non dovette partire da zero, inventandosi tutto di sana pianta. La conoscenza folgorante del Boris Godunov di Musorgskij negli anni in cui iniziava a scrivere il suo dramma (1893-95), così come l’assidua frequentazione del teatro di Wagner - autore verso cui il nostro nutrì quel sentimento conflittuale di odio-amore proprio di chi con modi cavallereschi riconosce i pregi di un precursore, ma se ne distacca in cerca di vie più personali - giocarono un ruolo tutt’altro che irrilevante nella stesura del lavoro. Proprio da Wagner discendono quelle cornici sinfoniche che avvolgono le singole scene, ‘sviluppando’ il materiale esposto e strutturando il tempo nella dimensione del passato (memoria) e del futuro (anticipazioni, presagi). Non a caso le pagine linguisticamente e morfologicamente più ‘wagneriane’ sono proprio gli interludi, sebbene Boulez reperisca citazioni quasi testuali da Parsifal e Tristano anche in altri passi del dramma. Sempre dal tedesco deriva l’uso dei Leitmotive, la loro manipolazione, trasformazione variata, l’intrigante casistica combinatoria. (In apertura di sipario, nel preludio atto I, scena 1, il destino di Golaud è intrecciato a quello di Mélisande prima ancora che i due appaiano sulla scena; il tema di Pelléas si trova unito a quello della protagonista nella seconda parte dell’interludio atto III, scena 1 e 2, ossia fra la scena d’amore presso la torre e quella successiva carica di sensi di colpa nei sotterranei del castello). Solo che i motivi conduttori del dramma debussyano non sono affatto monolitici, dotati di una segnaletica fissa come quelli dei Musikdramen di Wagner, ma ricevono una infinità di riverberi dal contesto o dai personaggi che vi proiettano la loro inquieta emotività, in modo da connotare situazioni e oggetti apparentemente lontani. Emblematico in tal senso il cosiddetto ‘tema di Golaud’, il quale non viene utilizzato solo per ritrarre il personaggio omonimo o per evocarlo in absentia, ma compare come elemento di richiamo ansiogeno nei momenti di maggior pericolo. Tanto che alcuni lo hanno definito il ‘motivo del fato’. (Alla fine dell’atto I, scena 3, si annida il suo ritmo minaccioso, alle parole che Pelléas rivolge a Mélisande: “Est-ce le bruit de la grotte qui vous effraie?”). E questo tema è inoltre diviso, ‘doppio’, stridente come il personaggio di cui dovrebbe restituire le sembianze e come la gamma per toni interi che lo racchiude. Il ritmo puntato della testa (nella seconda formulazione dell’inciso) manifesta decisione, risolutezza, marzialità, ma è subito contraddetto dalla terzina sincopata sul tempo debole della battuta che gira su se stessa mediante le note di volta e che rimanda alle indecisioni di un debole, ai dubbi irrisolti di chi non saprà mai la “verità”. (Questa è la domanda rivolta alla moglie in punto di morte, destinata a rimanere sospesa). Ma la novità di Pelléas et Mélisande non consiste in questo eventuale andare après Wagner (più che d’après Wagner), come si era augurato una volta Debussy. E non risiede neppure - anche se a ciò l’opera deve buona parte del fascino che tuttora ci attrae - nella sapienza chiaroscurale, nella percezione fisica della materia - espedienti tutto sommato prossimi al descrittivismo -, che inonda con squarci abbaglianti di sole le zone buie della coscienza o viceversa fa rabbrividire nei coni d’ombra gli specchi di luce. (Si veda il passaggio da fa diesis minore a fa diesis maggiore per la “clarté de la mer” annunciata da Geneviève, atto I, scena 1. Oppure si ripercorra la scena dei sotterranei, degna del miglior Poe, atto III, scena 2, interamente costruita su angosciose scale a armonie esatonali, dove le appoggiature cromatiche discendenti di fagotti, clarinetti e corno inglese dipingono il lugubre ondeggiare della lampada sulle pareti e il timpano scandisce ossessivamente la paura. Il senso di liberazione dall’incubo, l’aria fresca che improvvisamente irrompe all’uscita da questo asfittico sottosuolo la si respira a pieni polmoni nella strumentazione, nel cambio di registro che dal grave si sposta all’acuto, imprimendosi agli arabeschi dei flauti, alle biscrome delle due arpe che con le loro agili figurazioni sembrano misurare lo spazio, mentre gli intervalli banditi dall’esatonalismo - terze minori, quarte, quinte giuste - riacquistano spessore e forza comunicativa. L’esclamazione liberatoria di Pelléas “Ah! je respir enfin!”, la musica l’ha già per suo conto mirabilmente espressa). Continuando a sottilizzare, neppure certi arcaismi come la canzone modale di Mélisande (“Mes longues cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour”; atto III, scena 1) o il preludio introduttivo impreziosito da accordi incompleti privi della terza possono essere annoverati fra le prove dell’originalità debussyana, dato il largo consumo di ‘falsi antichi’ e ‘canti piani’ che si faceva in Francia all’epoca con autori come Satie o Fauré. (Saint-Saëns non aveva tutti i torti quando, con acido risentimento per il successo di Pelléas, scriveva nel ‘10 a Romain Rolland: “non posso fare a meno di ridere quando vedo che ci si meraviglia di qualche nota scritta nel ‘primo modo’ gregoriano all’inizio di questa famosa opera. Molti anni fa avevo impiegato anch’io questo ‘modo’ e con ben altra estensione”). L’unicità di Pelléas et Mélisande sta altrove e in luoghi tanto diversi che sarà impossibile enumerarli tutti. Riducendo al minimo l’elenco, propria di Debussy, e di nessun altro, è l’arte dell’elusione, quel dire le cose a mezzo e subito smorzarle, deviando, con la consapevolezza, verrebbe voglia di aggiungere, che nomi, oggetti, figure evocate sono pura apparenza, immateriali e imprendibili come i sogni. (Il testo di Maeterlinck favorisce indubbiamente questo tipo di operazione ma non basta a garantire la pienezza dei risultati). Nel presentarsi a Mélisande per offrirle le sue generalità, Golaud si inorgoglisce compiaciuto del suo rango “Je suis le prince Golaud le petit-fils d’Arkël le vieux roi d’Allemonde...”). Quattro accordi di nona allo stato fondamentale (due su do diesis, gli altri su mi e fa), inframezzati da una triade (mi minore) siglano con l’ostentata complicità di una cadenza perfetta (fa - si bemolle maggiore) questo gesto umanissimo di boria. Ma tale affermazione è subito interrotta dal recitativo doucement expressif di Mélisande nella tonalità di fa diesis maggiore che riconduce il principe a un ben più miserevole status: “Oh! vous avez déjà les cheveux gris!”. Collegata in un certo senso all’arte dell’elusione è la tecnica della ‘duplicazione’ già presente in molte pagine pianistiche e sinfoniche di Debussy. Ancora una volta il dramma in prosa funge da molla per alcune soluzioni musicali. Maeterlinck usava far ripetere ai personaggi le stesse parole, quasi invitandoli a coglierne l’eco, dal momento che il senso restava per loro oscuro, inafferrabile. Analogamente agisce il musicista, e anche se la ripetizione di due unità alla volta (melodiche, armoniche, ritmiche) non è mai letterale al cento per cento, ma diverge per minimi dettagli, resta pur sempre evidente un procedimento iterativo scandito secondo le leggi atemporali del rito. In una partitura in cui Debussy cerca di prolungare il tono di incanto, di smarrimento in cui si dibattono personaggi agiti “dalla vita e dalla sorte” (quante pause e note tenute per i loro continui “Ah!”, “Oh!” di stupore), è l’arte del silenzio a darci l’esatta misura della modernità di scrittura e di pensiero sottesi a quest’opera. Nessun fuoco brucia la passione. Nell’atto IV, scena 4, l’orchestra tace mentre Pelléas e Mélisande si confidano il loro amore e la voce è resa così flebile dall’emozione da necessitare una replica (Pelléas: “Je t’aime” - Mélisande: “Je t’aime aussi” - Pelléas: “Oh! Qu’as-tu dit, Mélisande! Je ne l’ai presque pas entendu!...”). Gli accadimenti non hanno bisogno di essere enfatizzati, perché privi del concorso del soggetto, dell’attiva partecipazione dell’Io. L’anello lanciato da Mélisande sul bordo della fontana (atto II, scena 1) cade impercettibilmente su un glissando di arpa lungo cinque ottave e il commento di Pelléas in p registra l’enigmatica evidenza del fato: “Oh! Il est tombé!”. E anche la morte avviene senza clamore. In silenzio, su un cupo movimento di terzine di violini e viole si dileguano le pecore con cui Yniold vorrebbe giocare, e che sappiamo essere destinate a morire (atto IV, scena 3). Ed è in punta di piedi che sparisce Mélisande, “un petit être si tranquille, si timide et si silencieux” come dice Arkël (fine atto V). I suoi silenzi, le sue reticenze che avevano sconfessato la fallacia, la brutalità delle parole umane per esprimere a loro modo tutto il mistero dell’indicibile sono accolti ora da una musica che si estingue impercettibilmente nel nulla: en allant se perdant, à peine murmuré, un lento decrescendo fino all’accordo finale ppp in do diesis maggiore. L’anti-operismo, l’anti-realismo, l’anti-effettismo, l’anti-eroismo (non dimentichiamo che il ruolo di Pelléas era stato concepito inizialmente en travesti), non condusse a un’opera alla rovescia (polemica, sperimentale), ma a un dramma lirico di pura poesia con cui Debussy vinse la sua più alta scommessa sui tempi. Il Soggetto dell’opera e il saggio di Fiamma Nicolodi sono qui pubblicati per gentile concessione del Maggio Musicale Fiorentino. JURAJ VALČUHA Juraj Valčuha è Direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai dal 2009. Nato nel 1976 a Bratislava vi studia composizione e direzione e prosegue gli studi a San Pietroburgo con Ilya Musin e a Parigi. Nel 2006 debutta con l´Orchestre National de France e al Comunale di Bologna con La bohème. Viene regolarmente invitato dalle maggiori compagini internazionali quali i Münchner Philharmoniker, la Philharmonia di Londra, la Filarmonica di Oslo, la DSO di Berlino, la Gewandhaus di Lipsia, l’Orchestra della Radio Svedese, la Staatskapelle di Dresda, la Pittsburgh Symphony, la Los Angeles Philharmonic, la San Francisco Symphony, la National Symphony di Washington, la New York Philharmonic, la Filarmonica di Berlino, l´Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam, l’Orchestra del Maggio Musicale e dell’Accademia di Santa Cecilia. Con l´OSN Rai ha effettuato tournée al Musikverein di Vienna, alla Philharmonie di Berlino, nella stagione di Abu Dhabi Classics, al Festival Enescu di Bucarest, a Verona e a Rimini Nella stagione 2013/2014 ha diretto l’Orchestra dell´Accademia di Santa Cecilia al Festival di Bratislava e a Roma. Sono seguiti concerti con la Filarmonica della Scala, i Münchner Philharmoniker, la Philharmonia di Londra, la Pittsburgh Symphony, le Orchestre delle Radio NDR di Amburgo, WDR di Colonia, della Radio Svedese di Stoccolma e della NHK a Tokyo. Ha diretto inoltre una produzione de L’amore delle tre melarance di Prokof’ev nell’edizione 2014 del Maggio Musicale Fiorentino. La stagione 2014/2015 lo ho impegnato in una tournée con l´OSN Rai che ha toccato Monaco, Colonia, Zurigo, Basilea e Düsseldorf con Arcadi Volodos. Ha diretto Turandot al San Carlo di Napoli e Jenůfa al Comunale di Bologna oltre ai concerti con le orchestre sinfoniche di San Francisco, Pittsburgh, Washington e Los Angeles, con l’Accademia di Santa Cecilia, la Konzerthaus di Berlino e i Wiener Symphoniker. Nella stagione 2015/2016 ritroverà la New York Philharmonic, la Pittsburgh e la San Francisco Symphony, l´Orchestre de Paris, l´Orchestre National de France, la Philharmonia a Londra e in tournée, l´Orchestra dell´Accademia di Santa Cecilia, l´Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, le orchestre della Radio di Francoforte e di Amburgo e i Münchner Philharmoniker. SANDRINE PIAU Molto nota nel campo della musica antica, ha cantato con direttori quali Christie, Herreweghe, Rousset, Leonhardt, Bolton, Koopman, Jacobs, Minkowski e Harnoncourt. Nel repertorio lirico canta ruoli quali Cleopatra nel Giulio Cesare (Opéra National di Parigi), Mélisande nel Pelléas et Mélisande (Théâtre de la Monnaie di Bruxelles e Opéra di Nizza), Ännchen in Der Freischütz di Weber, Pamina in Die Zauberflöte e Donna Anna nel Don Giovanni. E’ stata interprete anche de L’Incoronazione di Poppea a Colonia, de La finta Giardinera a Bruxelles, in Mitridate Re di Ponto a Ginevra, nel Werther di Massenet a Toulouse. In concerto è invitata in festival e sale quali Festival di Salisburgo, Carnegie Hall di New York, Wigmore Hall, Covent Garden Festival, Musikverein, Salle Pleyel di Parigi, Festival de Saint Denis e da orchestre quali Berliner Philharmoniker, Muenchner Philharmoniker, Orchestre de Paris, Boston Symphony, Concertgebouw di Amsterdam, Teatro Comunale di Firenze e di Bologna e Accademia Nazionale di Santa Cecilia. È anche interprete rinomata del repertorio liederistico tedesco e francese. Ha all’attivo una ricca attività discografica e un contratto in esclusiva con Naïve. Après un rêve e Le Triomphe de L’amour con il gruppo Les Paladins sono stati definiti “CD del mese” da Opera News. Di recente uscita il disco Desperate Héroïnes, dedicato a Mozart e diretto da Bolton, e il Requiem di Mozart. È stata insignita del titolo di Chevalier de l’ordre des Arts e Lettre nel 2006 e nel 2009 del Premio “Victories de la Musique Classique” come “Artista lirica dell’anno” . Fra i recenti impegni: Les Dialogues des Carmélites di Poulenc al Théâtre des Champs Elysées di Parigi, Ariodante di Haendel al Festival d’Aixen-Provence, Alcina di Haendel all’Opéra di Parigi, a Bruxelles e ad Amsterdam. CHLOÉ BRIOT Entrata al Conservatorio di Parigi con Mireille Alcantra e Michelle Voisinet, ha vinto il “Prix du jeune espoir” al Concorso internazionale di Canto Lirico dell’UFAM e si è laureata nel 2014 all’Accademia HSBC del Festival d’Aix-en-Provence. Nella stagione 2015-16 sarà a Lione in Le Roi Carotte, a Tolone in Pelléas et Mélisande e ad Avignone in Lakmé. I successi recenti includono Pelléas et Mélisande e L’Enfant et les Sortilège con la Philharmonia Orchestra diretta da Salonen e con la Chicago Symphony. Ha cantato al Glyndebourne Festival Opera, al Théâtre de La Monnaie di Bruxelles nell’Alcina e ha debuttato all’Opéra de Saint-Étienne come Papagena in Die Zauberflöte. Altri successi includono Jano nella Jenůfa a La Monnaie, Cupid nell’Orfeo all’Inferno, Yniold nella nuova produzione di Pelléas a Nantes, in Les Boréades di Rameau con Les Musiciens du Louvre e Minkowski a Aix-en-Provence. Ha cantato in L’Amour Masqué di Messager e in Les Enfants Terribles di Glass a Bordeaux e Parigi. Tra i suoi ruoli si annoverano opere del repertorio da Monteverdi al grande melodramma dell’Ottocento. Le sue esibizioni in concerto includono il Gloria di Vivaldi, il Requiem di Fauré, il Miserere di Allegri e la Harmoniemesse di Haydn. KARAN ARMSTRONG Conosciuta come “la prima donna della musica moderna” e acclamata per ruoli quali Salome, Mélisande, Emilia Marty (L’affare Makropulos), Marie (Wozzeck), Lulu, Marie/Marietta (Die Tote Stadt), ruolo del titolo nella Lady Macbeth del Distretto di Mcensk di Šostakovič e Agaue in Die Bassariden di Henze. Ha interprato ruoli protagonisti in opere del melodramma italiano e dell’opera tedesca, in particolare Sieglinde (Die Walküre) e Marschallin (Der Rosenkavalier). All’Opera di Helsinki canta regolarmente Brünnhilde nell’Anello del Nibelungo di Wagner. Ha partecipato a produzioni televisive di opere quali Lohengrin (Bayreuth Festival), Falstaff con Solti, Die Tote Stadt di Korngold, La Voix Humaine di Poulenc e Lyrische Symphonie di Zemlinsky. Ha debuttato come Klytemnestra in Elektra a Tolosa e ha ottenuto grande successo nella Jenůfa alla Komische Oper di Berlino diretta da Kirill Petrenko. Tra i recenti impegni si citano The Turn of the Screw a Monte-Carlo, Kabanicha (Katya Kabanova) a Berlino, Begbick (Mahagonny) a Erfurt, Candide di Bernstein ad Anversa, Alice in Wonderland di Unsuk Chin a Ginevra e nel 2015 è tornata a Berlino nell’Evgenij Onegin. Le sono state conferite varie onorificenze per meriti artistici. Dal 1996 è Professore Ospite alla Universität der Künste di Berlino. GUILLAUME ANDRIEUX È entrato a 7 anni nel coro della Maîtrise dell’Opera Nazionale di Lione diretto da Claire Gibault, collaborando con William Christie, Kent Nagano e John Nelson. Ha studiato danza e jazz e si è formato al Conservatorio Nazionale della regione di Lione prima di entrare al Conservatorio di Parigi, dove si è laureato nel 2010. Canta prevalentemente in opere del repertorio francese e in pagine come Noye’s Fludde di Britten, The Messiah di Haendel, i Requiem di Fauré, Duruflé e Brahms e La Passione secondo Matteo di Bach. Recentemente ha cantato all’Opera Nazionale di Bordeaux e al Théâtre de l’Athéné di Parigi (Les Enfants Terribles di Glass); all’Opera Nazionale di Parigi; Winterreise e in Le Balcon di Eötvös; alla Monnaie di Bruxelles e ha debuttato al Festival di Aix-en-Provence (L’Enfant et les sortilèges). Nella stagione 2014-15 ha ottenuto grande successo in Francia nei ruoli di Gardefeu (La vie parisienne di Offenbach), Pelléas (Pelléas et Mélisande) e Bassanio in Le Marchand de Venise di Hahn. Tra i suoi progetti futuri: Mercutio (Roméo et Juliette di Gounod), ancora Pelléas et Mélisande all’Opera di Tolone e Moralès in Carmen al Festival di Aix-en-Provence. PAUL GAY Ha completato gli studi al Conservatorio di Parigi e si è perfezionato a Colonia con Kurt Moll. Ha vinto numerosi premi internazionali e nel 1997 è diventato un membro stabile dell’Opera di Osnabrück. Ha collaborato con direttori d’orchestra quali Fischer, Christie, Benini, Bychkov, Rizzi e con registi quali Decker, Bondy, Stein, Villegier e Freyer. Nel 2014-15 ha cantato in L’Heure Espagnole e in L’enfant et les Sortilèges in Giappone, ne I Capuleti e i Montecchi a Parigi, nel Castello di Barbablù di Bartók a Bordeaux, in Pelléas et Mélisande e Le Cid a Parigi. Ha cantato anche in Lucrezia Borgia, Giulio Cesare, Der Zwerg di Zemlinsky, Dialogues des Carmélites, St. François d’Assise di Messiaen a Monaco, Faust di Gounod e Manon a Parigi, Nick Shadow in The Rake’s Progress e al Glyndebourne Festival. Nel 2010 ha debuttato a Toronto cantando Escamillo nella Carmen ed è stato Flint in Billy Budd a Parigi. Si è esibito ancora nella Lulu a Lione e a Madrid e in Anna Bolena a Francoforte, in Theseus (A Midsummer Night’s Dream) e Don Fernando (Fidelio) all’Opéra de Paris. Tra i progetti futuri figurano Roméo et Juliette di Berlioz ad Amsterdam, Colline (La bohème) a Barcellona, Golaud (Pelléas) a Oslo. ROBERT LLOYD Nato a Essex, ha studiato alla Oxford University. Ha iniziato come storico accademico, intraprendendo la carriera di cantante all’età di 28 anni. Nel 1972 è diventato Basso Principale della Royal Opera House Covent Garden di Londra. È stato il primo basso inglese a cantare il ruolo del titolo nel Boris Godunov di Musorgskij al Covent Garden nella produzione di Tarkovsky nel 1983, poi all’Opera di Kirov di Leningrado, e nel 1991 diretto da Claudio Abbado all’Opera di Vienna. Ha cantato alla Scala di Milano (Der Fliegende Holländer e Parsifal con Muti), alla San Francisco Opera; alla Chicago Lyric Opera (Simon Boccanegra con Gatti), alla Staatsoper e alla Deutsche Oper di Berlino; all’Opéra National de Paris; all’Opera Olandese (Pelléas et Mélisande, Tristan und Isolde, L’Incoronazione di Poppea, Parsifal con Simon Rattle e Don Carlos con Chailly), al Festival di Salisburgo (Pelléas et Mélisande, Les Troyens, Le nozze di Figaro, Die Zauberflöte, Don Giovanni con Gergiev e Don Carlo con Pappano) e al Metropolitan di New York. Tra gli impegni futuri: Don Giovanni a Francoforte; Il barbiere di Siviglia con la Budapest Festival Orchestra e The Mikado con la English National Opera. In concerto si è esibito con le orchestre di Cleveland (von Dohnanyi), Philadelphia (Jansons), London Philharmonic (Haitink), Boston Symphony (Frühbeck de Burgos e Levine). Con la London Symphony e Sir Colin Davis ha registrato A Midsummer Night’s Dream. Ha partecipato a molte produzioni televisive e radiofoniche e ha presentato Six Foot Cinderella della BBC. È apparso nella ripresa televisiva del Castello di Barbablù su BBC2 (premiato dalla Royal Philharmonic Society). Nella New Year’s Honours List del 1991, fu insignito del titolo Commander of the British Empire dalla Regina d’Inghilterra. MAURO BORGIONI Ha studiato alla Scuola Civica di Milano e al Conservatorio di Cesena, perfezionandosi alla Fondation Royaumont di Parigi. Ha collaborato con La Venexiana, Concerto Italiano, Coro della Radio Svizzera, La Verdi Barocca, Orchestra da Camera di Mantova, I Turchini, Academia Montis Regalis, Accademia Stefano Tempia, Die Kölner Akademie e Concerto Romano e con direttori tra cui Cavina, Alessandrini, Fasolis, Brock, Rovaris, Guida, Webb, Campanella, Banchini, Ghielmi. Tra le opere interpretate figurano Orfeo (Ferrara, Festival di Santander e Klangraum Vokal Dortmund) e Il ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi (Cité de la Musique di Parigi, Tage Alte Musik Regensburg, Concertgebouw di Amsterdam e Musikfest Stuttgart) di Monteverdi; Euridice di Caccini (Innsbruck Festwochen); Dido & Aeneas di Purcell; La Serva Padrona di Pergolesi e La Senna Festeggiante di Vivaldi. Il suo repertorio include capolavori di Monteverdi, J. S. Bach, Haendel, Mozart, Haydn a cui si aggiungono lavori moderni e contemporanei come il Requiem di Fauré, Curlew River di Britten e Akhnathen di Glass. Ha inciso per importanti etichette discografiche e per emittenti radiofoniche e televisive. CORO MAGHINI E CLAUDIO CHIAVAZZA Intitolato a una delle figure più significative della vita musicale di Torino, Ruggero Maghini (direttore del Coro Rai dal 1950 per oltre vent’anni) il Coro Maghini si è costituito nel 1995, sotto la direzione di Claudio Chiavazza, in occasione di una produzione con l’OSN Rai, con cui collabora ancora oggi affrontando pagine del repertorio sinfonico-corale di Bach, Mozart, Beethoven, Verdi, Brahms, Grieg, Falla e Gershwin. Nel 2006, in occasione del Concerto inaugurale del restaurato Auditorium Rai “A. Toscanini” di Torino, ha preso parte alla Sinfonia n. 2 di Mahler diretta da Frühbeck de Burgos; ha in seguito partecipato alla 47ª Semana de Musica Religiosa di Cuenca con il War Requiem di Britten e la Messa da Requiem di Verdi. Più recentemente ha cantato La Creazione di Haydn, The Messiah di Haendel e la Messa in mi bemolle di Schubert. Collabora stabilmente con l’Academia Montis Regalis e De Marchi per concerti nelle stagioni dell’Unione Musicale di Torino e della Società del Quartetto di Milano. Ha partecipato alla 50ª Settimana Internazionale di Musica Sacra di Monreale, al Festival di Musica Antica di Bruges, all’Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, dove nel 2013 ha cantato ne La Clemenza di Tito di Mozart e nel 2014 nella Messa in si minore di Bach. Affronta anche il repertorio per coro a cappella, dal barocco alla musica contemporanea. A fianco del Coro è sorta, nel 2005, l’Accademia Maghini per la formazione vocale dei coristi, sia amatoriali che professionisti, e l’organizzazione di eventi quali la rassegna Musica nei luoghi dello spirito. Claudio Chiavazza ha studiato presso il Conservatorio di Torino diplomandosi in Clarinetto, Musica Corale e Direzione di coro. Si è perfezionato in direzione corale con Peter Erdei presso l’Istituto Kodály in Ungheria. È direttore del Coro Maghini. Ha diretto concerti in Europa spaziando dal canto gregoriano alla polifonia vocale contemporanea, con diverse prime esecuzioni. Ha collaborato con direttori quali Frühbeck de Burgos, Ahronovitch, K. Petrenko, G. Albrecht, Järvi, Baudo, Preston, Tate, Mena, Noseda, Marshall, Rilling, Hogwood, King, Dantone, De Marchi. Ha diretto diversi complessi partecipando a festival quali MITO Settembre Musica, Tempus Paschale di Torino, 50ª Settimana Internazionale di Musica Sacra di Monreale (Pa), Armoniche Fantasie, Musica Recercata di Genova, Festival dei Saraceni, 5° Festival Musicale della Via Francigena, Les Baroquiales di Sospel, Musique Sacrée di Avignone e Innsbrucker Festwochen der Alten Musik. VIOLE *Ula Ulijona, Matilde Scarponi, Geri Brown, Giovanni Matteo Brasciolu, Giorgia Cervini, Massimo De Franceschi, Federico Maria Fabbris, Riccardo Freguglia, Agostino Mattioni, Davide Ortalli. CORO MAGHINI MEZZOSOPRANI/CONTRALTI Giulia Beatini Elisa Brizzolari Sara Lacitignola Eliana Laurenti Annalisa Mazzoni Vittoria Novarino Svetlana Skvorzova TENORI Alessandro Baudino Massimo Lombardi Corrado Margutti Fabrizio Nasali Marco Pollone BARITONI/BASSI Sergio Alcamo Riccardo Bertalmio Cesare Costamagna Ermanno Lo Gatto Marco Milanesio Dario Previato MAESTRO DEL CORO Claudio Chiavazza PARTECIPANO AL CONCERTO VIOLINI PRIMI *Roberto Ranfaldi (di spalla), °Giuseppe Lercara, Antonio Bassi, Constantin Beschieru, Lorenzo Brufatto, Irene Cardo, Aldo Cicchini, Martina Mazzon, Enxhi Nini, Sara Pastine, Fulvia Petruzzelli, Francesco Punturo, Elisa Schack, Lynn Westerberg. VIOLINI SECONDI *Roberto Righetti, Enrichetta Martellono, Pietro Bernardin, Michal Ďuriš, Carmine Evangelista, Jeffrey Fabisiak, Rodolfo Girelli, Paolo Lambardi, Alessandro Mancuso, Marcello Miramonti, Francesco Sanna, Carola Zosi. VIOLONCELLI *Massimo Macrì, Giuseppe Ghisalberti, Ermanno Franco, Giacomo Berutti, Pietro Di Somma, Carlo Pezzati, Stefano Pezzi, Fabio Storino. CONTRABBASSI *Cesare Maghenzani, Antonello Labanca, Alessandro Belli, Luigi Defonte, Pamela Massa, Francesco Platoni. FLAUTI *Marco Jorino, Fiorella Andriani, Paolo Fratini. OTTAVINO Fiorella Andriani OBOI *Francesco Pomarico, Sandro Mastrangeli. CORNO INGLESE Franco Tangari CLARINETTI *Enrico Maria Baroni, Franco Da Ronco. FAGOTTI *Elvio Di Martino, Cristian Crevena, Mauro Monguzzi. CORNI *Ettore Bongiovanni, Marco Panella, Bruno Tornato, Marco Tosello. TROMBE *Roberto Rossi, Ercole Ceretta, Daniele Greco D’Alceo. TROMBONI *Diego Di Mario, Devid Ceste. TROMBONE BASSO Antonello Mazzucco TUBA Daryl Smith TIMPANI *Claudio Romano PERCUSSIONI Alberto Occhiena ARPE *Margherita Bassani, Donata Mattei. *prime parti ° concertini Ascoltare, conoscere, incontrare, ricevere inviti per concerti fuori abbonamento, scoprire pezzi d’archivio, seguire le tournée dell’Orchestra, avere sconti e facilitazioni. In una parola, diventare AMICI. Sono molti i vantaggi offerti dall’associazione Amici dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai: scegliete la quota associativa che preferite e iscrivetevi subito! Tutte le informazioni e gli appuntamenti sono disponibili sul sito www.amiciosnrai.it o scrivendo a [email protected]. LE DOMENICHE DELL’AUDITORIUM 5 concerti dei complessi da camera dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai I concerti saranno preceduti da brevi presentazioni a cura degli esecutori stessi 1 ° DOMENICA 25 OTTOBRE 2015 ore 10.30 SESTETTO “SCHIELE” DELL’OSN RAI ALDO CICCHINI | violino VALERIO IACCIO | violino FEDERICO MARIA FABBRIS | viola AGOSTINO MATTIONI | viola STEFANO BLANC | violoncello MICHELANGIOLO MAFUCCI | violoncello CONVENZIONE OSN RAI - VITTORIO PARK Tutti gli Abbonati, i possessori di Carnet e gli acquirenti dei singoli Concerti per la Stagione Sinfonica OSN Rai 2015/16 che utilizzeranno il VITTORIO PARK DI PIAZZA VITTORIO VENETO nelle serate previste dal cartellone, vidimando il biglietto di sosta nell’apposita macchinetta installata nel foyer dell’Auditorium Toscanini, avranno diritto allo sconto del 25% sulla tariffa oraria ordinaria. PER INFORMAZIONI RIVOLGERSI AL PERSONALE DI SALA O IN BIGLIETTERIA. Le varie convenzioni sono consultabili sul sito www.osn.rai.it alla sezione "riduzioni". Arnold Schönberg (1874-1951) Verklärte Nacht (Notte trasfigurata), sestetto op. 4 per archi (da una poesia di Richard Dehmel) Johannes Brahms (1833-1897) Sestetto n. 1 in si bemolle maggiore op. 18 per archi In collaborazione con I CONCERTI 2 ° GIOVEDÌ 22 OTTOBRE 2015 ore 20.3 0 VENERDÌ 23 OTTOBRE 2015 ore 20.3 0 PASCAL ROPHÉ | Direttore EMMANUEL PAHUD | Flauto Albert Roussel Le festin de l’araignée, frammenti sinfonici dal balletto-pantomima op. 17 Marc-André Dalbavie Concerto per flauto e orchestra Wolfgang Amadeus Mozart Concerto in sol maggiore KV 313 (285c) per flauto e orchestra Arthur Honegger Sinfonia n. 3 Liturgique CARNET da un minimo di 6 concerti scelti fra i due turni e in tutti i settori Adulti: 24,00 euro a concerto Under 30: 5,00 euro a concerto SINGOLO CONCERTO Poltrona numerata: da 30,00 a 15,00 euro (ridotto giovani) INGRESSO Posto non assegnato: da 20,00 a 9,00 euro (ridotto giovani) BIGLIETTERIA Tel. 011/8104653 - 8104961 - Fax 011/8170861 [email protected] - www.osn.rai.it www.facebook.com/osnrai instagram.com/orchestrasinfonicarai @OrchestraRai