1
°
GIOVEDÌ
15 OTTOBRE 2015
ore 20.30
VENERDÌ
16 OTTOBRE 2015
ore 20.3 0
JURAJ VALČUHA | Direttore
SANDRINE PIAU | Soprano
CHLOÉ BRIOT | Soprano
KARAN ARMSTRONG | Contralto
GUILLAUME ANDRIEUX | Baritono
MAURO BORGIONI | Baritono
PAUL GAY | Baritono
ROBERT LLOYD | Basso
CORO MAGHINI
CLAUDIO CHIAVAZZA | Maestro del coro
Debussy
SAPER ASCOLTARE
15 OTTOBRE 2015
ore 18.45
A CURA DI
PAOLO GALLARATI
Conversazione di introduzione a
Pelléas et Mélisande
Ingresso libero
In col labora zione con
1
°
GIOVEDÌ
15 OTTOBRE 2015
ore 20.30
VENERDÌ
16 OTTOBRE 2015
ore 20.3 0
JURAJ VALČUHA | Direttore
SANDRINE PIAU | Soprano (Mélisande)
CHLOÉ BRIOT | Soprano (Yniold)
KARAN ARMSTRONG | Contralto (Geneviève)
GUILLAUME ANDRIEUX | Baritono (Pelléas)
MAURO BORGIONI | Baritono (il dottore, il pastore)
PAUL GAY | Baritono (Golaud)
ROBERT LLOYD | Basso (Arkël)
CORO MAGHINI
CLAUDIO CHIAVAZZA | Maestro del coro
Claude Debussy (1862-1918)
Pelléas et Mélisande,
dramma lirico in cinque atti
e dodici quadri su libretto di
Maurice Maeterlinck (1893/1902)
Durata: 2h 40’ ca.
Ultima esecuzione Rai a Torino: 22 settembre
1994, Claire Gibault, Catherine Dubosc,
Stéphanie Morales, Corinne Marquet, Frédéric
Caton, Jean-Baptiste Dumora, Gérard Theruel,
Philippe Huttenlocher, Jean-Philippe Courtis,
Accademia Corale Stefano Tempia, Giuseppe Ratti
(per Settembre Musica).
L’intervallo avrà luogo dopo l’Atto III
(dopo 1h 30’ ca.)
Il concerto è trasmesso in collegamento
diretto su Rai 5, su Radio 3 per il programma
Radio 3 Suite e in streaming audio-video su
www.osn.rai.it.
La ripresa televisiva è effettuata dal Centro
di Produzione Rai di Torino.
L’ACQUA E LE NOTE
Un reverberìo continuato, d’acqua di luci e note, abita quest’opera in cui
tutto permane in stato di fluttuazione, e in cui serpeggia fino all’ultimo
l’indefinito.
Opposte e diversissime vi sono le acque.
Una Melusina, quell’essere che Piero Gelli ha definito un Ariele triste e
confuso, è colei che viene trovata appunto “au bord de l’eau”: Mélisande
è una “svagata fanciulla” apportatrice di guai. Quasi rappresentasse tutta
una generazione di squisiti sognatori sui quali si affaccia imminente la
catastrofe apportatrice di milioni di morti e non, come scriveva Debussy,
“di uno che se ne vada discretamente come chi ne ha avuto abbastanza di
questo pianeta”.
Se ne va infatti così Mélisande, e guarda caso di nuovo di fronte a una
vastità d’acqua in cui il sole sta lentamente affogando.
Bachelard ha qualificato, ne “L’eau et les rêves”, i tipi diversi d’acque che
tralucono in versi e racconti. “ Les songes de l’eau qui sommeille” era detto
ne “Le Promenoir des deux amants” di Tristan l’Hermite, nella grotta messa
in musica da Debussy che ci riporta all’altra grotta, “pleine de lumières
bleues” in cui passeggiano ancora due amanti (ma lo saranno mai stati?)
alla ricerca di qualcosa che si sa comunque perduta: l’anello simbolo
dell’unione matrimoniale con Golaud.
(Le situazioni si ripetono: già nella prima scena una corona d’oro giaceva
in fondo all’acqua, una corona che “qualcuno” aveva donato alla fanciulla
piangente).
Ma, se vogliamo partire da un punto acquatico, la scena chiave è quella in
cui Golaud, nei sotterranei, costringe Pelléas a respirare il sentore di morte
che dal basso esala lo stagnare dell’acqua. Immaginiamo qui una sorta di
pece che ingromma le pareti, come nell’episodio dantesco, e ricordiamo
non solo “La casa Usher” di Edgar Allan Poe (di cui Debussy lasciò un
abbozzo per canto e pianoforte) ma quel rivo scuro, a strati cromatici, che lo
stesso Poe (incombente da Baudelaire a Mallarmé fino a Debussy) descrive
nelle fatali ultime pagine di “Gordon Pym”.
Fagotti, clarinetti e corno inglese scivolano verso il basso, il cuore impaurito
batte nel timpano.
E poi irrompe l’esatto contrario. Guizzano verso l’alto flauti e arpe, monta
l’orchestra verso il registro acuto, Pelléas “Ah, je respire enfin” tocca il mi,
poi con “toute l’air de toute la mer” il fa diesis. E siamo passati dall’acqua
dei simbolisti, l’acqua che per altro dà quasi sempre il tono a tutta l’opera
(il castello è circondato da acque opache, da cupe foreste che ottundono il
sole) a quella degli impressionisti: di un Monet, se vogliamo.
(Abbastanza contraddittorio il fatto che sulla spiaggia assolata i bambini
scendano a bagnarsi nelle “piccole onde verdi”: non ci aggiravamo in
un grigio luogo di mezzi ciechi, dove “tous ceux qui l’habitent sont déjà
vieux”?)
Appunto, ma qualche giovane c’è. Si vorrebbe affermare che l’impressionismo (e il chiarore) siano dominanti nelle scene in cui Pelléas e Mélisande
provano a liberarsi: sull’inusata “Fontaine des Aveugles” che la cecità
più non cura e dove l’anello scintilla nel sole prima di precipitare in un
glissando d’arpa e di brillare ancora un attimo sul fondo (e qui ci vengono
in mente i guizzi dei “Poissons d’or” che Benedetti Michelangeli rendeva
tanto mirabili). O nelle scene notturne, nel gioco di luna e d’ombra.
Insistere ancora si vorrebbe sul fatto che i due giovani tendano
all’impressionismo mentre i vecchi si accucciano nelle loro cavità simboliste.
(Un altro esempio, se si vuole: il gregge passa vicino al piccolo Yniold che
s’informa sul destino dei “petits moutons”. Il simbolo sta nel loro andare ad
immolarsi, come tipico degli innocenti e degli agnelli, mentre l’orchestra
descrive impressionisticamente lo zampettìo e i belati.
Siamo, appunto, tra due acque.
In questo Debussy ha avuto qualche precedente. Nei Lieder di Schubert
passiamo dalle acque brillanti in cui scoda la trota, allo sgocciolìo mesto
dei remi in “Die Stadt”, al ruscello ambiguo della “Schoene Muellerin”, alla
“glatte Flaeche” ,piatta distesa marina che angoscia il pescatore.
Mai però come qui, in un’opera intera, il liquido elemento e i suoi volti
diversi affiorano in ogni luogo e situazione.
E con il suo cangiare, apparire vibrare acquattarsi, riflette ciò che Claude
Debussy si riprometteva: ”Offuscando la tonalità si può sempre arrivare in
modo naturale dove si vuole, uscire e entrare dalla porta che si preferisce”
Cesare Mazzonis
PELLÉAS ET MÉLISANDE
Soggetto
Personaggi:
Pelléas, Golaud nipoti di Arkël
Arkël re di Allemonde
Yniold figlio di prime nozze di Golaud
Mélisande
Geneviève madre di Pelléas e di Golaud
Un dottore
Un pastore
Ancelle
Atto I
Quadro primo
Nella foresta in cui s’è smarrito, inseguendo un cinghiale, Golaud scorge
una fanciulla che, seduta sull’orlo di una fontana, singhiozza. Il nipote di
re Arkël la interroga e ne riceve risposte vaghe: viene di lontano, è fuggita
perché le hanno fatto del male, il suo nome è Mélisande, le è caduta una
corona nell’acqua, ma non vuole che egli tenti di recuperarla. Poi, come
trasognata, acconsente a seguirlo.
Quadro secondo
Nel castello reale, Geneviève, madre di Golaud e, da altro marito, di
Pelléas, legge al vecchio Arkël una lettera di Golaud al fratellastro: gli
racconta di aver sposato da sei mesi una bellissima fanciulla, Mélisande,
delle cui origini nulla sa; desidera tornare, ma teme l’ira del nonno. Se
però fra tre giorni vedrà una luce sulla torre, vorrà dire che a sua moglie
verrà fatta un’accoglienza affettuosa e allora tornerà. Entra Pelléas, che
manifesta l’intenzione di andare a trovare un amico morente, ma Arkël gli
rammenta che anche suo padre è in fin di vita e merita una sua visita: ma
prima bisogna aspettare Golaud. Geneviève invita Pelléas ad accendere la
lampada.
Quadro terzo
Golaud è tornato con Mélisande. La giovane sposa è malinconica e
Geneviève cerca di rincuorarla. Si fa sera. Arriva dal mare Pelléas e parla
dell’imminente burrasca. Geneviève lo prega di accompagnare a casa
Mélisande; lei andrà a vegliare il piccolo Yniold, figlio di primo letto di
Golaud, che è malato. Pelléas dice a Mélisande che domani forse partirà.
Atto II
Quadro primo
Pelléas e Mélisande sono nel parco, presso la fontana che, secondo
una leggenda, restituisce miracolosamente la vista ai ciechi: essa è stata
abbandonata da quando il re stesso è diventato cieco. Mélisande vorrebbe
toccare l’acqua, profonda forse come il mare. Vi immerge le mani, i suoi
lunghi capelli biondi si bagnano. Vicino a una fontana eguale, ricorda, la
incontrò Golaud. Gioca con l’anello che lui le ha regalato, e l’anello cade
nell’acqua. Mélisande è sgomenta: non sarà possibile ritrovarlo più. E se
Golaud domanda dov’è? Bisogna rispondergli la verità, dice Pelléas.
Quadro secondo
Golaud è nel suo letto, assistito da Mélisande: è caduto malamente da
cavallo, mentre era a caccia, ma ha il cuore forte ed è certo di cavarsela.
D’un tratto Mélisande scoppia in lacrime. Perché?, le chiede Golaud, c’è
qualcuno che le usa torti? Pelléas forse, che è spesso un po’ strano? No, non
sa neppure lei, si sente infelice e oppressa in questi luoghi tetri, e vorrebbe
andarsene lontano. Nell’ansia di consolarla, Golaud le stringe le mani e si
accorge che non ha più l’anello nuziale. Mélisande dice d’averlo perduto in
una grotta in riva al mare, mentre raccoglieva conchiglie per Yniold. Golaud
le impone di tornare là a cercare l’anello, e poiché Mélisande dice d’aver
paura la esorta a farsi accompagnare da Pelléas.
Quadro terzo
È notte. I cognati sono davanti alla grotta. Bisogna entrarvi, per saperla
poi descrivere a Golaud, dice Pelléas a Mélisande. La luna improvvisamente
dirada le tenebre. Si vedono tre vecchi mendicanti addormentati uno
accanto all’altro. Mélisande spaventata vuole uscire subito, Pelléas la segue.
Atto III
Quadro primo
A una finestra della torre Mélisande sta pettinandosi per la notte. Pelléas
passando di sotto la vede, le annuncia la sua partenza la mattina dopo e
le chiede se può baciarle la mano. Mélisande si sporge e i lunghi capelli
si rovesciano su Pelléas, lo avvolgono, si impigliano tra i rami d’un salice.
Pelléas se ne inebria, li bacia. Sopraggiunge Golaud e rimprovera la moglie
e il fratellastro per la loro fanciullaggine.
Quadro secondo
Golaud conduce Pelléas nei sotterranei del castello, e lo sorregge perché
si sporga sull’acqua stagnante. La lanterna che tiene in mano gli trema un
poco. Pelléas se ne accorge. Quindi chiede di uscire: si sente soffocare dai
miasmi che salgono dal fondo.
Quadro terzo
Fuori dai sotterranei, all’aria del mare, Pelléas respira. Alzando lo sguardo,
vede a una finestra la madre e Mélisande. A proposito di Mélisande, gli
dice Golaud gravemente, bisogna che quanto è avvenuto la sera prima non
si ripeta, sono cose da ragazzi, e lei, delicata e sensibile com’è, deve essere
lasciata tranquilla e serena, ora che aspetta un bambino.
Quadro quarto
Golaud, divorato ormai dalla gelosia, interroga Yniold: che cosa fanno
Mélisande e Pelléas quando sono insieme? Discutono per via della porta
che non può stare aperta, risponde Yniold, sono spesso tristi, tacciono a
lungo, non vogliono che lui s’allontani, una volta si sono baciati sulla bocca.
Golaud prende in braccio il figlio perché guardi, attraverso la finestra, nella
stanza di Mélisande: Pelléas è lì, con lei, non fanno niente, gli occhi fissi
alla luce, silenziosi. Spaventato dalle insistenti domande del padre, Yniold
lo prega di farlo scendere.
Atto IV
Quadro primo
Pelléas e Mélisande si incontrano in una sala del castello. Pelléas le dice
che suo padre sta meglio e lo ha consigliato di intraprendere il viaggio tante
volte rimandato. Partirà, dunque, ma prima le chiede di rivederla ancora,
la sera, presso la fontana. Entra Arkël, anche lui con l’animo sollevato per
la guarigione del figlio: il re mostra grande tenerezza per Mélisande, così
smarrita e misteriosa, ed è contento che pure per lei la vita del castello si
prospetti meno triste. Li raggiunge Golaud, agitato: respinge Mélisande,
chiede della propria spada, poi, sempre più irritato dall’aspetto innocente e
impaurito della moglie, l’afferra per i capelli, la getta a terra, la trascina per
la stanza. Quando Arkël infine interviene, si finge calmo. Arkël pensa che il
nipote sia ubriaco. Mélisande capisce che è invece perché non l’ama più, e
si sente tanto infelice.
Quadro secondo
Pelléas arriva al convegno presso la fontana. Vedrà Mélisande per
l’ultima volta, la guarderà negli occhi e le dirà le cose taciute finora. Entra
Mélisande e Pelléas le dice finalmente che l’ama: invano ha inseguito
dappertutto la bellezza, adesso l’ha trovata, non sapeva quanto era bella
Mélisande. Anche lei lo ama, lo ha sempre amato dal primo momento: è
la verità, solo con Golaud mente. Si è fatto tardi, hanno chiuso le porte del
castello, si odono dei passi. È Golaud armato, li ucciderà? Tanto meglio,
mormora Mélisande. Golaud è su di loro, Pelléas cade colpito a morte.
Mélisande fugge nel bosco, inseguita da Golaud.
Atto V
Arkël, Golaud e il medico sono al letto di Mélisande. È rimasta ferita, dal
marito, ma leggermente, e non c’è pericolo di morte. Si sveglia, vuole che
si apra la finestra, domanda chi vi sia nella stanza: c’è anche Golaud, le dice
il re. Golaud vuole rimanere solo con lei. Le chiede se lo perdona, poi la
prega di confessargli se ha amato Pelléas. Sì. Ma l’ha amato di un amore
colpevole? No. Golaud la incalza: è la verità? Mélisande non risponde, è già
troppo lontana, e il dubbio e il rimorso tortureranno per sempre Golaud.
Rientrano Arkël e il medico. Mélisande ha freddo ma non vuole che si
chiuda la finestra finché il sole non sarà calato in mare: allora comincerà
l’inverno. Le mostrano la bimba, nàtale da poco, così piccola, così fragile, e
che tuttavia lei non ha la forza di prendere in braccio. Entrano nella stanza
le ancelle. Golaud se ne stupisce, e chiama con voce rotta dal pianto
Mélisande. Le ancelle s’inginocchiano. Arkël esorta Golaud a uscire:
Mélisande ha bisogno di silenzio ora e conviene dedicarsi alla bimba,
perché viva al posto di lei.
PELLÉAS ET MÉLISANDE, OVVERO L’ARTE
DELL’ELUSIONE E DEL SILENZIO
di Fiamma Nicolodi
“Non pretendo - scriveva Debussy al termine della sua decennale fatica - di
avere scoperto tutto con Pelléas, ma ho cercato di tracciare una strada che altri
potranno seguire, ampliandola di contributi personali che forse libereranno
la musica drammatica dalla pesante schiavitù in cui da tanto tempo vive”. Un
auspicio rimasto com’è noto purtroppo deluso. Non solo Pelléas et Mélisande
sarà l’unica opera teatrale scritta da Debussy a sopravvivere accanto a una
selva di progetti e abbozzi incompiuti, ma il suo modello, frutto di un
delicato equilibrio fra gusto e tradizione, intuito e ragione o, per usare le
parole dell’autore, fra natura e immaginazione, non avrà seguito nella storia
del teatro musicale moderno. Resterà un pezzo unico che, com’è proprio di
alcuni (rari) capolavori, non ammette repliche neppure al prezzo di un falso.
Il musicista aveva idee ben chiare sul teatro lirico e sulla necessità di una
sua ‘riforma’ - problema avvertito con particolare urgenza un po’ dovunque
alla fine del secolo -, prima ancora di accingersi a mettere in musica Pelléas
et Mélisande: il dramma in cinque atti del belga Maurice Maeterlinck che
aveva acceso la sua fantasia alla prima (e unica) rappresentazione presso
il Théâtre des Bouffes-Parisiens il 17 maggio 1893. Serata memorabile, al
di là dello scarso successo di pubblico, cui oltre al nostro, che si affrettava
a stendere i primi appunti musicali, erano presenti e congiunti nel plauso
simbolisti di specchiata fede: Mallarmé, Henri de Régnier, il pittore Whistler.
Qualche tempo prima due episodi apparentemente diversi ma di fatto
ravvicinati avevano provocato in Debussy un’esatta messa a fuoco di poetica
drammatica. Era il 1889. Di ritorno dal santuario di Bayreuth, pellegrinaggio
abituale dei cultori del Simbolo che in Wagner erano soliti identificarsi
(idolatrando l’opera d’arte totale, il complesso sistema analogico, la musica
come regno esclusivo dell’indicibile, di ciò che sta al di là dell’apparenza,
ecc.), il compositore venne assalito da parecchi ripensamenti e da più di
un rovello critico. Già fervente ammiratore del tedesco, Debussy pensava a
soluzioni più consonanti con la musa francese dell’equilibrio, della clarté,
della finezza e per ciò stesso alternative alla logica esplicativa dei “biglietti da
visita di cui si declama liricamente il contenuto” (come definiva sprezzante
i Leitmotive), alla pedanteria di raccontare la stessa storia (Ring) in quattro
serate (“bisogno tutto germanico - scrive - di ribattere osti­natamente lo
stesso chiodo per paura di non farsi intendere”), al “mastice multicolore [di
un’orchestra in cui non si] può distinguere il suono di un violino da quello di
un trombone”.
Nello stesso ‘89, infatuato alla lettura de La princesse Maleine di Maeterlinck
- che un precedente accordo fra il poeta e Vincent d’Indy gli impedì con suo
disappunto di mettere in musica -, Debus­sy percepisce che la via da percorrere
per liberarsi dall’enfasi, dalle saghe nordiche e dai toni eroici sta proprio
lì, nel clima allucinato e misterioso che circonda la fragile Maleine, negli
oscuri presagi di male che corrompono ogni segno di vita, nella debolezza di
Hjalmar e del vecchio padre, incapaci di opporsi alle forze oscure che li com­
battono. In una franca conversazione nel novembre ‘89 con il suo insegnante
di composizione Ernest Guiraud, puntualmente annota­ta dall’amico Maurice
Emmanuel, Debussy rivelava i principî di un credo drammaturgico, tanto
radicato nella sua coscienza, da restarvi d’ora in avanti sempre fedele, sia in
sede compositiva, sia nei suoi co­piosi scritti critici.
“Non sono tentato di imitare ciò che ammiro in Wagner - con­fessava -. Ho in
mente una forma drammatica diversa: la musica co­mincia là dove la parola è
impotente a esprimere”. E in ossequio alla vaghezza, ai giochi iridescenti dello
‘sfumato’ e dell’invisibile (“car nous voulons la nuance encor, pas la couleur”,
recitava Verlaine), così delineava la figura del librettista ideale: “colui che
dicendo le cose a metà mi permetterà di innestare il mio sogno sul suo; che
concepirà dei personaggi in cui la storia e la dimora non avranno epoca né
luo­ghi determinati; che non m’imporrà la scena madre”. Quindi in per­fetta
equidistanza dal dramma wagneriano come dall’opera italiana: “non seguirò
gli erramenti del teatro lirico in cui la musica predomi­na insolentemente,
e la poesia è relegata in secondo piano, soffocata da panni musicali troppo
pesanti. Nel teatro musicale si canta ‘trop­po’. Bisogna invece ‘cantare’ solo
quando ne vale la pena e riservare gli accenti patetici. È necessario contentarsi
di dipingere ogni tanto in chiaroscuro. Niente deve arrestare il cammino del
dramma: ogni sviluppo musicale non richiesto dalle parole è un errore. [...]
Io sogno poemi che non mi condannino a perpetrare atti lunghi, pesanti;
che mi forniscano scene mutevoli, diverse per i luoghi e il carattere; in cui i
personaggi non discutano, ma subiscano la vita e la sorte”.
Salvo l’abiura wagneriana, qui espressa nel rifiuto dello sviluppo sinfonico
e del predominio invadente dell’orchestra, che fa sì che Debussy sia meno
sincero del dovuto (numerosi saranno in verità i debiti contratti con l’autore
di Tristano), questa lunga, articolata di­chiarazione suona come il profetico
annuncio di Pelléas et Mélisande e il suo miglior commento critico.
Ottenuta da Maeterlinck l’autorizzazione a musicare il suo dram­
ma,
ricevendo in segno di incoraggiamento e stima utili consigli sui tagli da
operare, il musicista trentunenne sembra procedere in uno stato di autentico
furor creativo. Rispettando il testo originale in pro­sa - che determina sul piano
musicale un declamato lirico di assoluta originalità, fedele ai valori prosodici
e all’intonazione della lingua francese, dotato di un ventaglio espressivo
infinitamente vibratile e vario per condensazione e rarefazione del tempo -,
Debussy si limita a eliminare alcune ripetizioni, qualche simmetria, simbolismi
trop­po scoperti, associazioni di maniera (le “servantes”, mute foriere di morte,
chine a lavare macchie di sangue prima che siano state versa­te, atto I, scena 1;
il dialogo fra Pelléas e il vecchio Arkël che invita per la seconda volta il nipote
a restare al castello, così involontariamente precipitando gli eventi, II, 4; la
disperazione di Yniold per la paventa­ta partenza di Mélisande, III, 1; la lotta
fra cani e cigni, ivi). Restano inalterate le molte contraddizioni che percorrono
la pièce e che tanto mandano in bestia i puristi della ragione (Barraud, Boulez,
fra questi). Accade comunque che il compositore smussi tal­volta i contorni,
conferendo accenti musicali diversi a quanto espres­so nel dramma. (Arkël
non è il cattivo profeta o il finto saggio dipinto suo malgrado da Maeterlinck,
ma un vecchio realmente traboccante “tenerezza disinteressata” come
intendeva Debussy. Lo indica in particolare nell’atto IV, scena 2, il fraseggio
sinuoso raddolcito da­gli intervalli di terza, il caldo intreccio polifonico che lo
avviluppa al tema di Mélisande, l’intenso controcanto “doux et expressif” dei
violoncelli nella regione della dominante di mi maggiore alle paro­le “Viens
ici”, poi ripreso in raddoppio dal primo oboe e dal primo fagotto, quindi dal
clarinetto e dal corno inglese; cfr. partitura Du­rand, pp. 272-74). In altri casi
Debussy sembra accogliere invece con giubilo le sfasature deliberatamente
contemplate dal testo (che sim­bolismo e che “mistero poetico” altrimenti
sarebbe?), quasi si trat­tasse di sconfiggere la discorsività burocratica della
logica in favore dell’incoerenza evocativa del sogno. (Inutile chiedersi per
esempio nell’atto IV, scena 4, il duetto sui generis fra Pelléas et Mélisande,
chi dei due amanti voglia stare alla luce o all’ombra, perché entrambi si
contraddicono a distanza di pochi minuti. La musica ne approfitta per
trascolorare in un inquieto divenire di états d’âme, per creare dei chiaroscuri
nella mutevole scacchiera dell’affettività, per introdurre in altri termini una
poetica e modernissima sonda fra le pieghe del relativismo psicologico). Nel
settembre ‘93, appena quattro mesi dopo aver assistito allo spettacolo dei
Bouffes-Parisiens, Debussy ha terminato la scena quarta del quarto atto (“Una
fontana nel parco”). Ma il “fantasma” di Wagner che gli sembra di avvertire
dietro alcune battute, lo costrin­ge a ricominciare daccapo. Nel desiderio di
raggiungere uno stile più naturale, così comunica il 2 ottobre ‘93 all’amico e
collega Ernest Chausson: “sono ripartito alla ricerca di una piccola alchimia di
frasi più personali. [...] Mi sono servito [...] di un mezzo che mi sembra as­sai
raro, cioè il silenzio, come strumento di espressione e forse l’unico modo di
far valere l’emozione di una frase”. Pur fra mille ripensamenti e incertezze
che il lavoro gli procu­ra, l’artista si compiace di ricreare il colore fuligginoso
e tetro che grava su Allemonde: il regno dell’ombra e della vecchiaia, dalla
ge­ografia imprecisata e lontana, circondato da foreste intricate che a stento
lasciano intravedere la luce, insidiato da malattie misteriose (quella del
padre di Pelléas), dalla carestia (vittime, anche i tre vecchi addormentati nella
grotta), un regno dove il profumo della giovinez­za (di Mélisande, Pelléas,
Yniold) è corroso dai miasmi di acque sta­gnanti, da un greve sentore di
morte. Il problema maggiore, di cui Debussy era perfettamente coscien­te,
consisteva nel coniugare la dimensione onirica, misteriosa, irre­ale con quella
concreta, reale, determinata dell’azione scenica, con personaggi che mimano
da un lato sentimenti e gesti quotidiani ap­parentati al dramma borghese
(amore, gelosia, violenza, fratricidio, morte), e dall’altro si atteggiano a pure
efflorescenze dell’inconscio, allegorie dell’“eterna anima umana, egoista,
ingenua, dolce, crudele, irresponsabile, cieca” (J. Marnold).
“Ho passato intere giornate alla ricerca di questo niente [rien] di cui è fatta
Mélisande - confida sempre a Chausson nel gennaio ‘94 -. Adesso è Arkël a
tormentarmi: questi è un personaggio d’oltretomba e ha quella tenerezza
disinteressata e profetica proprio di chi sparirà fra breve. E tutto questo va
detto con do, re, mi, fa, sol, la, si do!!! Che mestiere!”.
Facendo sue le categorie dell’indefinito, dell’ambiguo, care ai det­tami di casa
simbolista (“definire un oggetto è annullare i tre quarti del godimento della
poesia...; suggerirlo, evocarlo, è questo che am­malia la fantasia”, sosteneva
Mallarmé), Debussy si immerge nel cli­
ma di terrore del subconscio
maeterlinckiano tanto apprezzato da Artaud, in modo da far risplendere per
contrasto le oasi sommesse della distensione, i fasci abbaglianti di luce. “Ho
appena finito la sce­na dei sotterranei - scrive il 28 agosto 1894 al pittore
Henri Lerolle -, piena di terrore subdolo e misterioso da dare la vertigine, e
[ho ter­minato] anche la scena all’uscita dagli stessi, che è piena di sole, ma
di un sole bagnato dalla nostra buona madre, il mare”. E quanto pia­cessero
a Debussy (come a tutti i compagni simbolisti) i sottofondi claustrofobici,
le case dirute e inabitate, gli stati morbosi, gli incubi, le figure spettrali è
testimoniato anche da due progetti teatrali falliti: Axël di Villiers de l’IsleAdam, di cui resta una sola scena composta nel 1888, e La chute de la Maison
Usher di Edgar Allan Poe che tenne occupato il compositore dal 1908 alla
vigilia della morte, e della quale è pervenuto il libretto e la musica per canto
e pianoforte di due scene (completata dal compositore cileno Juan AllendeBlin, La caduta della casa Usher è stata eseguita la prima volta a Francoforte
nel ‘77; direttore d’orchestra Eliahu Inbal). Per ultimo Debussy lavorò
nel ‘95 al finale (atto V) di Pelléas, interamente dedicato alla morte del­la
protagonista. Ma è preoccupato per l’accoglienza che il pubblico riserverà a
questa pagina così parca di effetti e di eventi: “in Francia quando una donna
muore sulla scena - confida sempre a Lerolle il 17 agosto 1895 - bisogna che
sia come nella Dame aux Camélias. [...] La gente non ammette che uno se ne
vada discretamente come chi ne ha avuto abbastanza di questo pianeta che
è la Terra, per andarsene là dove crescono i fiori della tranquillità”. Debussy
scrisse dunque Pelléas et Mélisande in due anni (1893­-1895), ma prima
di giungere alla fase dell’orchestrazione (1901-1902), che comporterà di
per sé parecchie modifiche e aggiustamenti, non fece che ritornare sulle
pagine composte, con un estenuante lavoro di lima. Quanti hanno studiato
gli autografi di Pelléas (O. d’Estra­de-Guerra, F. Lesure, R. Nichols) registrano
due tendenze prevalen­ti: per un verso la cura rivolta all’assottigliamento, alla
semplificazio­ne, alla riduzione dei mezzi orchestrali (e mai all’ampliamento),
per un altro, la preoccupazione di rendere il canto duttile e scorrevole come il
parlato francese, con i suoi accenti, inflessioni (di qui l’elimi­nazione di molte
pause che arrestavano l’eloquio, di qui il frequente ricorso al tribraco, ecc.).
L’artista sa di avere scritto un’opera per pochi intenditori, tanto da auspicarne la
rappresentazione nel Pavillon des Muses, la son­tuosa residenza di Robert de
Montesquiou, il ricco e raffinato dan­dy amico di Proust. Fatto più che naturale
per chi dichiara di odia­re l’opera “popolare”, i “gridi umani” del teatro verista
(la “fabbrica del niente”, come aggiunge infastidito), la “sentimentalità” a
buon mercato di Charpentier (“ancora qualche opera come Louise - scri­ve il 6
febbraio 1900 a Pierre Louÿs - e ogni tentativo di tirare fuori [il pubblico] dal
fango sarà vano”). I fasti della democrazia in arte lo irritano: “Liberté, Egalité,
Fraternité: parole buone al massimo per dei fiaccherai”; o altrove “odio le
folle, il suffragio universale e le fra­si tricolori!”, oppure: “per la musica provo
una forma di adorazione che è sempre più rara, visto che il modo irrispettoso
in cui la trattano sembra ormai del tutto naturale”.
Far rappresentare Pelléas et Mélisande non fu impresa da poco, e ci volle
tutta la dedizione e il coraggio del direttore d’orchestra André Messager
che convinse il nuovo direttore artistico dell’Opéra-Com­ique Albert Carré ad
accogliere il lavoro nel suo teatro, perché si po­tessero finalmente apprezzare
i risultati di questo lungo parto. La generale ebbe luogo il 28 aprile 1902,
dopo due giorni la prima (30 aprile 1902). Sul podio lo stesso Messager;
interpreti principali: la scozzese Mary Garden (“non posso concepire timbro
più dolcemen­te insinuante”, dichiarava Debussy a proposito della sua
Mélisande), Jean Périer (Pelléas), Hector Dufrane (Golaud), F. Vieuille (Ar­
kël), Gerville-Réache (Geneviève); la regia (anche se ancora non si chiamava
così) portava la firma di Carré e se ne conserva a tutt’og­gi una minuziosa
descrizione; le scene erano quelle naturalistiche, tristi e grigiastre, color
“jus de tabac” dei due scenografi titolari dell’Opéra-Comique, Ronsin e
Jusseaume (che non dispiacquero co­munque all’autore).
I mesi precedenti l’andata in scena furono travagliatissimi per il musicista.
Maeterlinck si accanì contro di lui per via che non era stata scelta come
interprete nel ruolo di Mélisande la sua compagna Georgette Leblanc: lo
sfidò a duello, e non avendone ricevuto soddi­sfazione, tuonò sulla stampa:
“Pelléas è un lavoro che mi è diventato estraneo, ostile; senza il mio controllo
su di esso, mi vedo costretto ad augurargli un fiasco immediato e completo”
(“Le Figaro”, 14 aprile 1902).
Un’azione di disturbo supplementare, rispetto ai tanti problemi arrecati
dalla musica in sé: un’orchestrazione non ancora termina­ta, i molti errori del
copista da correggere, le lamentele di cantanti e orchestrali da sedare durante
le difficili prove, e da ultimo la brevità degli interludi sinfonici, insufficienti
per i cambiamenti di scena, che dovevano essere rimaneggiati e allungati.
Quando si giunse alla matinée del 28 aprile il clima era surriscal­dato dai
pettegolezzi e da una campagna di stampa prevenuta. Un programma di sala
distribuito all’ingresso del teatro ironizzava sui doppi sensi, raccontando la
trama in termini maliziosamente voyeu­ristici (“scena terza: Pelléas, il fratello
di Golaud, passeggia con la sua cognatina nei giardini ombrosi. Eh... eh...”),
mentre “Le Figaro” an­nunciava per scherzo il matrimonio di un certo P. Léas
con la signo­rina Méli Zandt. Bastarono alcune frasi della protagonista per
scatenare il riso di una platea assai poco ben disposta. Al sommesso “Non
sono felice” di Mélisande il pubblico replicò “Neppure noi!”, e giù battute e
lazzi a non finire. (Oggi, più che i risibili “ne me touchez pas”, sono certi da­
tati simbolismi a rischiare il grottesco, ammesso che sia operazione possibile
trattandosi di un capolavoro come Pelléas. Tali, la fluviale capigliatura di
Mélisande che ha buone probabilità di restare davve­ro impigliata ai “rami
del salice”, provocando l’ilarità in una scena di forte tensione emotiva. Senza
contare i problemi posti alla regia da quell’anemico fantoccio di Mélisande
jr. nel finale, che, per il gusto di Bortolotto, acuto esegeta dell’opera, tocca “il
vertice dell’insipido”).
In sala alla generale rimase ad applaudire solo una ristretta rosa di spiriti
eletti: Valéry, Mirbeau, Régnier. Il giorno della prima, nono­stante il divieto
impartito dal direttore del Conservatorio Théodor Dubois agli allievi di
assistere allo spettacolo, giunsero a frotte i mu­sicisti più giovani. Ravel
e il gruppo degli “Apaches” stipati in galleria contrastarono parrucconi e
wagneriani incalliti. “Imponevamo il si­lenzio a chi rideva - ricorda nel suo
Journal intime uno degli Apaches, il pianista Ricardo Viñes -, e l’emozione, il
coinvolgimento conquistò un po’ alla volta gli uomini di buona volontà”. Con
le repliche il suc­cesso andò aumentando, malgrado le riserve superciliose
della criti­ca che parlava di “arte nihilista”, “perenne nebulosità”, “mancanza
di forma”, “monotonia melodica e ritmica”, “concatenazioni armo­
niche
incomprensibili”.
Di fatto Pelléas et Mélisande divenne l’argomento del giorno e fece dilagare
ben presto la moda dei “Pelléastres” (la definizione for­temente ironica è del
giornalista Jean Lorrain su “Le journal” del 22 gennaio 1904): “efebi dai
lunghi capelli con una sapiente scriminatu­ra nel mezzo, dai volti opachi e
dagli sguardi profondi”.
Quando Debussy aveva iniziato a scrivere quest’opera egli era l’autore di
alcune pagine decisive, ma lontane da un consenso in­condizionato urbi et
orbi (Prélude à l’après-midi d’un faune, 1892-94; Quatuor in sol minore, 1893;
molte liriche per canto e pianoforte, fra cui Cinq poèmes de Baudelaire, 1890;
Fêtes galantes su testo di Ver­laine, 1891; Proses lyriques, 1892-93). A queste
se ne aggiunsero al­tre di capitale importanza durante la fase di gestazione
del dramma (Nocturnes, 1897-99; Chansons de Bilitis, da P. Louÿs, 189799; Pour le piano, 1894-1901). Ma solo con Pelléas et Mélisande Debussy
divenne il padre riconosciuto della musica francese a cavallo di secolo (im­
pressionista o simbolista, comunque la si voglia chiamare) e ogni suo lavoro
un costante punto di riferimento e di stimolo per le generazio­ni più giovani.
Sarebbe naturalmente un errore pensare che in questo “dramma lirico” il
musicista muti pelle al punto da trasformare radicalmen­te il suo linguaggio e
il suo stile, quale si era venuto magistralmente delineando nella produzione
degli anni ‘90. E infatti non è così. Già nelle liriche per canto e pianoforte
(Ariettes oubliées, Fêtes galantes) si trova anticipata quella varietà nel
disporre la linea del canto che incontreremo in Pelléas e che spazia da un
declamato più sculto­reo, al recitativo mosso e agitato (spesso sostenuto
dall’indicazione “serrez”), a più esplicite volute melodiche, memori della
fragranza massenetiana. Una varietà di articolazione vocale che viene così
a compensare la relativa ristrettezza dell’ambito intervallare dell’ope­ra, la
quale, salvo momenti di maggior pathos, difficilmente eccede l’intervallo di
sesta maggiore o di settima minore, lasciando preferi­bilmente scivolare la
voce per grado congiunto. E anche per quanto riguarda la scrittura armonica,
l’insofferenza di Debussy ai trattati scolastici non è cosa di oggi. Nel Prélude à
l’après-midi d’un faune o nei Nocturnes, per tacere d’altro, si trova dispiegato
quel ventaglio di soluzioni ‘anarchiche’ che rende inconfondibile lo stile di
Pelléas: concatenazione di triadi parallele, settime che non risolvono secon­
do le regole tradizionali, bruschi accostamenti di accordi perfetti di settima,
nona, undicesima, impiego di accordi alterati e incompleti, modulazioni
per terze (armonia di medianti). Un lessico che contri­buisce a creare quella
fluidità tonale, quel senso di continuità, non interrotto dalla punteggiatura
rilevata della cadenza perfetta (in Pelléas se ne contano appena una ventina,
tutte motivate dal testo), che era mèta ambíta dal giovane allievo di Guiraud
fin dall’89 (“accordi incompleti [...], fluttuanti. Offuscando la tonalità si può
sempre arri­vare in modo naturale dove si vuole, uscire e rientrare dalla porta
che si preferisce”). Se è vero dunque che le conquiste innovative raggiunte da
De­bussy (melodiche, armoniche, ma anche ritmiche, timbriche) non nascono
con Pelléas et Mélisande, è altrettanto vero che i problemi compositivi
connessi con un’opera teatrale sono molto diversi da quelli di una pagina
vocale, di un lavoro strumentale da camera o per orchestra.
Bisognava far sì che, in una struttura drammatica di cinque atti e dodici
quadri - tale la suddivisione adottata da Debussy -, il colore di ogni episodio
mantenesse le sue proprietà collegandosi all’insieme, che le leggi dell’unità
e della varietà, della tensione e della disten­sione, proprie del teatro lirico,
venissero rispettate, che l’assenza di “melodie infinite” e forme chiuse
(fatta eccezione per la canzone arcaizzante di Mélisande) non degenerasse
nell’informe, che il re­alismo (anche brutale e grand-guignolesco come
nell’atto IV, scena 2, quando Golaud trascina per i capelli l’esterrefatta consorte)
non annullasse il clima di generale astrazione, che la staticità verticale delle
singole scene, autosufficiente e come risolta in se stessa, si spo­sasse al
divenire del dramma e alla scansione orizzontale del tempo. Si dovevano
inoltre rendere plausibili, umani, poetici dei personaggi privi di ogni
caratterizzazione psicologica definita, fissa, positiva, e invece perennemente
in preda all’ambiguità, alla reticenza, allo spi­rito di contraddizione, al delirio
della follia, agli incubi della paura, ai sortilegi del mistero e perfino inclini alla
menzogna. (È il caso molto sfaccettato di Mélisande. Essa può mentire con la
candida innocenza di chi ignora il male, come quando racconta al marito di
aver perso l’anello in un luogo diverso da dove è avvenuto il fatto. Talvolta le
sue bugie suonano piuttosto reticenti: così nel lamentarsi con Golaud di aver
visto il cielo una sola volta, la musica, anziché alludere al “chia­rore” percepito
in compagnia di Geneviève introduce il rapido fluire di quartine di biscrome
del “cielo” visto con Pelléas presso la fontana. In altre occasioni la coscienza di
mentire significa difesa dai pericoli, dalla violenza, dal male; così nell’atto IV,
scena 4, Mélisande a Pelléas: “je ne mens jamais, je ne mens qu’à ton frère”).
Ma le difficoltà po­ste dal dramma non erano esaurite. Bisognava riuscire
infine a co­niugare parole/immagini simboliche (luce, acqua, ombra, mare),
di cui Debussy con una tecnica inimitabile dell’istante sapeva catturare tutta
la fragranza, con il libero fluire associativo di figure sonore che il colore
orchestrale e la tavolozza armonica disponevano in conti­nue metamorfosi.
Questo fu appunto il miracolo irripetibile di Pelléas et Mélisande (e infatti
mai più ripetuto), sul quale ancora oggi ci interroghiamo.
Certo Debussy non dovette partire da zero, inventandosi tutto di sana
pianta. La conoscenza folgorante del Boris Godunov di Mu­sorgskij negli
anni in cui iniziava a scrivere il suo dramma (1893-95), così come l’assidua
frequentazione del teatro di Wagner - autore verso cui il nostro nutrì quel
sentimento conflittuale di odio-amore proprio di chi con modi cavallereschi
riconosce i pregi di un precur­sore, ma se ne distacca in cerca di vie più
personali - giocarono un ruolo tutt’altro che irrilevante nella stesura del lavoro.
Proprio da Wagner discendono quelle cornici sinfoniche che avvolgono le
sin­gole scene, ‘sviluppando’ il materiale esposto e strutturando il tempo
nella dimensione del passato (memoria) e del futuro (anticipazioni, presagi).
Non a caso le pagine linguisticamente e morfologicamente più ‘wagneriane’
sono proprio gli interludi, sebbene Boulez reperi­sca citazioni quasi testuali
da Parsifal e Tristano anche in altri passi del dramma. Sempre dal tedesco
deriva l’uso dei Leitmotive, la loro manipolazione, trasformazione variata,
l’intrigante casistica combi­natoria. (In apertura di sipario, nel preludio atto I,
scena 1, il destino di Golaud è intrecciato a quello di Mélisande prima ancora
che i due appaiano sulla scena; il tema di Pelléas si trova unito a quello della
protagonista nella seconda parte dell’interludio atto III, scena 1 e 2, ossia fra
la scena d’amore presso la torre e quella successiva carica di sensi di colpa nei
sotterranei del castello). Solo che i motivi conduttori del dramma debussyano
non sono affatto monolitici, dotati di una segnaletica fissa come quelli dei
Mu­sikdramen di Wagner, ma ricevono una infinità di riverberi dal con­testo
o dai personaggi che vi proiettano la loro inquieta emotività, in modo da
connotare situazioni e oggetti apparentemente lontani. Emblematico in tal
senso il cosiddetto ‘tema di Golaud’, il quale non viene utilizzato solo per
ritrarre il personaggio omonimo o per evo­carlo in absentia, ma compare
come elemento di richiamo ansiogeno nei momenti di maggior pericolo.
Tanto che alcuni lo hanno definito il ‘motivo del fato’. (Alla fine dell’atto I,
scena 3, si annida il suo rit­mo minaccioso, alle parole che Pelléas rivolge
a Mélisande: “Est-ce le bruit de la grotte qui vous effraie?”). E questo tema
è inoltre diviso, ‘doppio’, stridente come il personaggio di cui dovrebbe
restituire le sembianze e come la gamma per toni interi che lo racchiude. Il
rit­mo puntato della testa (nella seconda formulazione dell’inciso) ma­nifesta
decisione, risolutezza, marzialità, ma è subito contraddetto dalla terzina
sincopata sul tempo debole della battuta che gira su se stessa mediante le
note di volta e che rimanda alle indecisioni di un debole, ai dubbi irrisolti
di chi non saprà mai la “verità”. (Questa è la domanda rivolta alla moglie
in punto di morte, destinata a rimanere sospesa). Ma la novità di Pelléas
et Mélisande non consiste in questo even­tuale andare après Wagner
(più che d’après Wagner), come si era augurato una volta Debussy. E non
risiede neppure - anche se a ciò l’opera deve buona parte del fascino che
tuttora ci attrae - nella sa­pienza chiaroscurale, nella percezione fisica della
materia - espe­dienti tutto sommato prossimi al descrittivismo -, che inonda
con squarci abbaglianti di sole le zone buie della coscienza o viceversa fa
rabbrividire nei coni d’ombra gli specchi di luce. (Si veda il passag­gio da
fa diesis minore a fa diesis maggiore per la “clarté de la mer” annunciata
da Geneviève, atto I, scena 1. Oppure si ripercorra la scena dei sotterranei,
degna del miglior Poe, atto III, scena 2, inte­ramente costruita su angosciose
scale a armonie esatonali, dove le appoggiature cromatiche discendenti
di fagotti, clarinetti e corno in­glese dipingono il lugubre ondeggiare della
lampada sulle pareti e il timpano scandisce ossessivamente la paura. Il
senso di liberazione dall’incubo, l’aria fresca che improvvisamente irrompe
all’uscita da questo asfittico sottosuolo la si respira a pieni polmoni nella
stru­mentazione, nel cambio di registro che dal grave si sposta all’acuto,
imprimendosi agli arabeschi dei flauti, alle biscrome delle due arpe che con
le loro agili figurazioni sembrano misurare lo spazio, mentre gli intervalli
banditi dall’esatonalismo - terze minori, quarte, quinte giuste - riacquistano
spessore e forza comunicativa. L’esclamazione liberatoria di Pelléas “Ah!
je respir enfin!”, la musica l’ha già per suo conto mirabilmente espressa).
Continuando a sottilizzare, neppure certi arcaismi come la canzo­ne modale
di Mélisande (“Mes longues cheveux descendent jusqu’au seuil de la tour”;
atto III, scena 1) o il preludio introduttivo imprezio­sito da accordi incompleti
privi della terza possono essere annoverati fra le prove dell’originalità
debussyana, dato il largo consumo di ‘fal­si antichi’ e ‘canti piani’ che si faceva
in Francia all’epoca con autori come Satie o Fauré. (Saint-Saëns non aveva
tutti i torti quando, con acido risentimento per il successo di Pelléas, scriveva
nel ‘10 a Romain Rolland: “non posso fare a meno di ridere quando vedo
che ci si me­raviglia di qualche nota scritta nel ‘primo modo’ gregoriano
all’inizio di questa famosa opera. Molti anni fa avevo impiegato anch’io
questo ‘modo’ e con ben altra estensione”). L’unicità di Pelléas et Mélisande
sta altrove e in luoghi tanto diversi che sarà impossibile enumerarli tutti.
Riducendo al minimo l’elenco, propria di Debussy, e di nessun altro, è l’arte
dell’elusione, quel dire le cose a mezzo e subito smor­zarle, deviando, con
la consapevolezza, verrebbe voglia di aggiungere, che nomi, oggetti, figure
evocate sono pura apparenza, immateriali e imprendibili come i sogni. (Il
testo di Maeterlinck favorisce indubbia­mente questo tipo di operazione ma
non basta a garantire la pienezza dei risultati). Nel presentarsi a Mélisande
per offrirle le sue generali­tà, Golaud si inorgoglisce compiaciuto del suo
rango “Je suis le prince Golaud le petit-fils d’Arkël le vieux roi d’Allemonde...”).
Quattro ac­cordi di nona allo stato fondamentale (due su do diesis, gli altri
su mi e fa), inframezzati da una triade (mi minore) siglano con l’ostentata
complicità di una cadenza perfetta (fa - si bemolle maggiore) questo gesto
umanissimo di boria. Ma tale affermazione è subito interrotta dal recitativo
doucement expressif di Mélisande nella tonalità di fa diesis maggiore che
riconduce il principe a un ben più miserevole status: “Oh! vous avez déjà les
cheveux gris!”. Collegata in un certo senso all’arte dell’elusione è la tecnica
della ‘duplicazione’ già presente in molte pagine pianistiche e sinfoniche
di Debussy. Ancora una volta il dramma in prosa funge da molla per alcune
soluzioni musicali. Maeterlinck usava far ripetere ai perso­naggi le stesse
parole, quasi invitandoli a coglierne l’eco, dal momen­to che il senso restava
per loro oscuro, inafferrabile. Analogamente agisce il musicista, e anche se
la ripetizione di due unità alla volta (melodiche, armoniche, ritmiche) non
è mai letterale al cento per cento, ma diverge per minimi dettagli, resta
pur sempre evidente un procedimento iterativo scandito secondo le leggi
atemporali del rito.
In una partitura in cui Debussy cerca di prolungare il tono di in­canto, di
smarrimento in cui si dibattono personaggi agiti “dalla vita e dalla sorte”
(quante pause e note tenute per i loro continui “Ah!”, “Oh!” di stupore), è l’arte
del silenzio a darci l’esatta misura della mo­dernità di scrittura e di pensiero
sottesi a quest’opera. Nessun fuoco brucia la passione. Nell’atto IV, scena 4,
l’orchestra tace mentre Pel­léas e Mélisande si confidano il loro amore e la
voce è resa così flebile dall’emozione da necessitare una replica (Pelléas: “Je
t’aime” - Mélis­ande: “Je t’aime aussi” - Pelléas: “Oh! Qu’as-tu dit, Mélisande!
Je ne l’ai presque pas entendu!...”). Gli accadimenti non hanno bisogno
di essere enfatizzati, perché privi del concorso del soggetto, dell’attiva
partecipazione dell’Io. L’anello lanciato da Mélisande sul bordo della fontana
(atto II, scena 1) cade impercettibilmente su un glissando di arpa lungo
cinque ottave e il commento di Pelléas in p registra l’enig­matica evidenza del
fato: “Oh! Il est tombé!”. E anche la morte av­viene senza clamore. In silenzio,
su un cupo movimento di terzine di violini e viole si dileguano le pecore con
cui Yniold vorrebbe giocare, e che sappiamo essere destinate a morire (atto
IV, scena 3). Ed è in punta di piedi che sparisce Mélisande, “un petit être si
tranquille, si timide et si silencieux” come dice Arkël (fine atto V). I suoi silenzi,
le sue reticenze che avevano sconfessato la fallacia, la brutalità delle pa­role
umane per esprimere a loro modo tutto il mistero dell’indicibile sono accolti
ora da una musica che si estingue impercettibilmente nel nulla: en allant
se perdant, à peine murmuré, un lento decrescendo fino all’accordo finale
ppp in do diesis maggiore. L’anti-operismo, l’anti-realismo, l’anti-effettismo,
l’anti-eroismo (non dimentichiamo che il ruolo di Pelléas era stato concepito
ini­zialmente en travesti), non condusse a un’opera alla rovescia (pole­mica,
sperimentale), ma a un dramma lirico di pura poesia con cui Debussy vinse
la sua più alta scommessa sui tempi.
Il Soggetto dell’opera e il saggio di Fiamma Nicolodi sono qui pubblicati per
gentile concessione del Maggio Musicale Fiorentino.
JURAJ VALČUHA
Juraj Valčuha è Direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale
della Rai dal 2009.
Nato nel 1976 a Bratislava vi studia composizione e direzione e prosegue
gli studi a San Pietroburgo con Ilya Musin e a Parigi.
Nel 2006 debutta con l´Orchestre National de France e al Comunale di
Bologna con La bohème. Viene regolarmente invitato dalle maggiori
compagini internazionali quali i Münchner Philharmoniker, la
Philharmonia di Londra, la Filarmonica di Oslo, la DSO di Berlino, la
Gewandhaus di Lipsia, l’Orchestra della Radio Svedese, la Staatskapelle
di Dresda, la Pittsburgh Symphony, la Los Angeles Philharmonic, la San
Francisco Symphony, la National Symphony di Washington, la New York
Philharmonic, la Filarmonica di Berlino, l´Orchestra del Concertgebouw
di Amsterdam, l’Orchestra del Maggio Musicale e dell’Accademia di Santa
Cecilia. Con l´OSN Rai ha effettuato tournée al Musikverein di Vienna, alla
Philharmonie di Berlino, nella stagione di Abu Dhabi Classics, al Festival
Enescu di Bucarest, a Verona e a Rimini
Nella stagione 2013/2014 ha diretto l’Orchestra dell´Accademia di Santa
Cecilia al Festival di Bratislava e a Roma. Sono seguiti concerti con la
Filarmonica della Scala, i Münchner Philharmoniker, la Philharmonia di
Londra, la Pittsburgh Symphony, le Orchestre delle Radio NDR di Amburgo,
WDR di Colonia, della Radio Svedese di Stoccolma e della NHK a Tokyo. Ha
diretto inoltre una produzione de L’amore delle tre melarance di Prokof’ev
nell’edizione 2014 del Maggio Musicale Fiorentino.
La stagione 2014/2015 lo ho impegnato in una tournée con l´OSN Rai
che ha toccato Monaco, Colonia, Zurigo, Basilea e Düsseldorf con Arcadi
Volodos. Ha diretto Turandot al San Carlo di Napoli e Jenůfa al Comunale
di Bologna oltre ai concerti con le orchestre sinfoniche di San Francisco,
Pittsburgh, Washington e Los Angeles, con l’Accademia di Santa Cecilia, la
Konzerthaus di Berlino e i Wiener Symphoniker.
Nella stagione 2015/2016 ritroverà la New York Philharmonic, la Pittsburgh
e la San Francisco Symphony, l´Orchestre de Paris, l´Orchestre National de
France, la Philharmonia a Londra e in tournée, l´Orchestra dell´Accademia
di Santa Cecilia, l´Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, le orchestre
della Radio di Francoforte e di Amburgo e i Münchner Philharmoniker.
SANDRINE PIAU
Molto nota nel campo della musica antica, ha cantato con direttori quali
Christie, Herreweghe, Rousset, Leonhardt, Bolton, Koopman, Jacobs,
Minkowski e Harnoncourt. Nel repertorio lirico canta ruoli quali Cleopatra
nel Giulio Cesare (Opéra National di Parigi), Mélisande nel Pelléas et
Mélisande (Théâtre de la Monnaie di Bruxelles e Opéra di Nizza), Ännchen
in Der Freischütz di Weber, Pamina in Die Zauberflöte e Donna Anna nel Don
Giovanni. E’ stata interprete anche de L’Incoronazione di Poppea a Colonia,
de La finta Giardinera a Bruxelles, in Mitridate Re di Ponto a Ginevra, nel
Werther di Massenet a Toulouse.
In concerto è invitata in festival e sale quali Festival di Salisburgo, Carnegie
Hall di New York, Wigmore Hall, Covent Garden Festival, Musikverein,
Salle Pleyel di Parigi, Festival de Saint Denis e da orchestre quali Berliner
Philharmoniker, Muenchner Philharmoniker, Orchestre de Paris, Boston
Symphony, Concertgebouw di Amsterdam, Teatro Comunale di Firenze
e di Bologna e Accademia Nazionale di Santa Cecilia. È anche interprete
rinomata del repertorio liederistico tedesco e francese.
Ha all’attivo una ricca attività discografica e un contratto in esclusiva con
Naïve. Après un rêve e Le Triomphe de L’amour con il gruppo Les Paladins
sono stati definiti “CD del mese” da Opera News. Di recente uscita il disco
Desperate Héroïnes, dedicato a Mozart e diretto da Bolton, e il Requiem di
Mozart.
È stata insignita del titolo di Chevalier de l’ordre des Arts e Lettre nel 2006
e nel 2009 del Premio “Victories de la Musique Classique” come “Artista
lirica dell’anno” .
Fra i recenti impegni: Les Dialogues des Carmélites di Poulenc al Théâtre
des Champs Elysées di Parigi, Ariodante di Haendel al Festival d’Aixen-Provence, Alcina di Haendel all’Opéra di Parigi, a Bruxelles e ad
Amsterdam.
CHLOÉ BRIOT
Entrata al Conservatorio di Parigi con Mireille Alcantra e Michelle Voisinet,
ha vinto il “Prix du jeune espoir” al Concorso internazionale di Canto
Lirico dell’UFAM e si è laureata nel 2014 all’Accademia HSBC del Festival
d’Aix-en-Provence. Nella stagione 2015-16 sarà a Lione in Le Roi Carotte,
a Tolone in Pelléas et Mélisande e ad Avignone in Lakmé. I successi
recenti includono Pelléas et Mélisande e L’Enfant et les Sortilège con la
Philharmonia Orchestra diretta da Salonen e con la Chicago Symphony.
Ha cantato al Glyndebourne Festival Opera, al Théâtre de La Monnaie
di Bruxelles nell’Alcina e ha debuttato all’Opéra de Saint-Étienne come
Papagena in Die Zauberflöte. Altri successi includono Jano nella Jenůfa a
La Monnaie, Cupid nell’Orfeo all’Inferno, Yniold nella nuova produzione di
Pelléas a Nantes, in Les Boréades di Rameau con Les Musiciens du Louvre
e Minkowski a Aix-en-Provence. Ha cantato in L’Amour Masqué di Messager
e in Les Enfants Terribles di Glass a Bordeaux e Parigi. Tra i suoi ruoli si
annoverano opere del repertorio da Monteverdi al grande melodramma
dell’Ottocento. Le sue esibizioni in concerto includono il Gloria di Vivaldi,
il Requiem di Fauré, il Miserere di Allegri e la Harmoniemesse di Haydn.
KARAN ARMSTRONG
Conosciuta come “la prima donna della musica moderna” e acclamata per
ruoli quali Salome, Mélisande, Emilia Marty (L’affare Makropulos), Marie
(Wozzeck), Lulu, Marie/Marietta (Die Tote Stadt), ruolo del titolo nella Lady
Macbeth del Distretto di Mcensk di Šostakovič e Agaue in Die Bassariden di
Henze. Ha interprato ruoli protagonisti in opere del melodramma italiano
e dell’opera tedesca, in particolare Sieglinde (Die Walküre) e Marschallin
(Der Rosenkavalier). All’Opera di Helsinki canta regolarmente Brünnhilde
nell’Anello del Nibelungo di Wagner. Ha partecipato a produzioni televisive
di opere quali Lohengrin (Bayreuth Festival), Falstaff con Solti, Die Tote
Stadt di Korngold, La Voix Humaine di Poulenc e Lyrische Symphonie
di Zemlinsky. Ha debuttato come Klytemnestra in Elektra a Tolosa e ha
ottenuto grande successo nella Jenůfa alla Komische Oper di Berlino diretta
da Kirill Petrenko. Tra i recenti impegni si citano The Turn of the Screw a
Monte-Carlo, Kabanicha (Katya Kabanova) a Berlino, Begbick (Mahagonny)
a Erfurt, Candide di Bernstein ad Anversa, Alice in Wonderland di Unsuk
Chin a Ginevra e nel 2015 è tornata a Berlino nell’Evgenij Onegin. Le sono
state conferite varie onorificenze per meriti artistici. Dal 1996 è Professore
Ospite alla Universität der Künste di Berlino.
GUILLAUME ANDRIEUX
È entrato a 7 anni nel coro della Maîtrise dell’Opera Nazionale di Lione
diretto da Claire Gibault, collaborando con William Christie, Kent Nagano
e John Nelson. Ha studiato danza e jazz e si è formato al Conservatorio
Nazionale della regione di Lione prima di entrare al Conservatorio di
Parigi, dove si è laureato nel 2010. Canta prevalentemente in opere
del repertorio francese e in pagine come Noye’s Fludde di Britten, The
Messiah di Haendel, i Requiem di Fauré, Duruflé e Brahms e La Passione
secondo Matteo di Bach. Recentemente ha cantato all’Opera Nazionale
di Bordeaux e al Théâtre de l’Athéné di Parigi (Les Enfants Terribles di
Glass); all’Opera Nazionale di Parigi; Winterreise e in Le Balcon di Eötvös;
alla Monnaie di Bruxelles e ha debuttato al Festival di Aix-en-Provence
(L’Enfant et les sortilèges). Nella stagione 2014-15 ha ottenuto grande
successo in Francia nei ruoli di Gardefeu (La vie parisienne di Offenbach),
Pelléas (Pelléas et Mélisande) e Bassanio in Le Marchand de Venise di
Hahn. Tra i suoi progetti futuri: Mercutio (Roméo et Juliette di Gounod),
ancora Pelléas et Mélisande all’Opera di Tolone e Moralès in Carmen al
Festival di Aix-en-Provence.
PAUL GAY
Ha completato gli studi al Conservatorio di Parigi e si è perfezionato a
Colonia con Kurt Moll. Ha vinto numerosi premi internazionali e nel 1997
è diventato un membro stabile dell’Opera di Osnabrück. Ha collaborato con
direttori d’orchestra quali Fischer, Christie, Benini, Bychkov, Rizzi e con registi
quali Decker, Bondy, Stein, Villegier e Freyer. Nel 2014-15 ha cantato in
L’Heure Espagnole e in L’enfant et les Sortilèges in Giappone, ne I Capuleti e i
Montecchi a Parigi, nel Castello di Barbablù di Bartók a Bordeaux, in Pelléas et
Mélisande e Le Cid a Parigi. Ha cantato anche in Lucrezia Borgia, Giulio Cesare,
Der Zwerg di Zemlinsky, Dialogues des Carmélites, St. François d’Assise di
Messiaen a Monaco, Faust di Gounod e Manon a Parigi, Nick Shadow in The
Rake’s Progress e al Glyndebourne Festival. Nel 2010 ha debuttato a Toronto
cantando Escamillo nella Carmen ed è stato Flint in Billy Budd a Parigi. Si è
esibito ancora nella Lulu a Lione e a Madrid e in Anna Bolena a Francoforte, in
Theseus (A Midsummer Night’s Dream) e Don Fernando (Fidelio) all’Opéra de
Paris. Tra i progetti futuri figurano Roméo et Juliette di Berlioz ad Amsterdam,
Colline (La bohème) a Barcellona, Golaud (Pelléas) a Oslo.
ROBERT LLOYD
Nato a Essex, ha studiato alla Oxford University. Ha iniziato come storico
accademico, intraprendendo la carriera di cantante all’età di 28 anni. Nel
1972 è diventato Basso Principale della Royal Opera House Covent Garden
di Londra. È stato il primo basso inglese a cantare il ruolo del titolo nel Boris
Godunov di Musorgskij al Covent Garden nella produzione di Tarkovsky nel
1983, poi all’Opera di Kirov di Leningrado, e nel 1991 diretto da Claudio
Abbado all’Opera di Vienna. Ha cantato alla Scala di Milano (Der Fliegende
Holländer e Parsifal con Muti), alla San Francisco Opera; alla Chicago Lyric
Opera (Simon Boccanegra con Gatti), alla Staatsoper e alla Deutsche Oper
di Berlino; all’Opéra National de Paris; all’Opera Olandese (Pelléas et
Mélisande, Tristan und Isolde, L’Incoronazione di Poppea, Parsifal con Simon
Rattle e Don Carlos con Chailly), al Festival di Salisburgo (Pelléas et Mélisande,
Les Troyens, Le nozze di Figaro, Die Zauberflöte, Don Giovanni con Gergiev
e Don Carlo con Pappano) e al Metropolitan di New York. Tra gli impegni
futuri: Don Giovanni a Francoforte; Il barbiere di Siviglia con la Budapest
Festival Orchestra e The Mikado con la English National Opera. In concerto
si è esibito con le orchestre di Cleveland (von Dohnanyi), Philadelphia
(Jansons), London Philharmonic (Haitink), Boston Symphony (Frühbeck de
Burgos e Levine). Con la London Symphony e Sir Colin Davis ha registrato
A Midsummer Night’s Dream. Ha partecipato a molte produzioni televisive
e radiofoniche e ha presentato Six Foot Cinderella della BBC. È apparso nella
ripresa televisiva del Castello di Barbablù su BBC2 (premiato dalla Royal
Philharmonic Society). Nella New Year’s Honours List del 1991, fu insignito
del titolo Commander of the British Empire dalla Regina d’Inghilterra.
MAURO BORGIONI
Ha studiato alla Scuola Civica di Milano e al Conservatorio di Cesena,
perfezionandosi alla Fondation Royaumont di Parigi. Ha collaborato con La
Venexiana, Concerto Italiano, Coro della Radio Svizzera, La Verdi Barocca,
Orchestra da Camera di Mantova, I Turchini, Academia Montis Regalis,
Accademia Stefano Tempia, Die Kölner Akademie e Concerto Romano e con
direttori tra cui Cavina, Alessandrini, Fasolis, Brock, Rovaris, Guida, Webb,
Campanella, Banchini, Ghielmi. Tra le opere interpretate figurano Orfeo
(Ferrara, Festival di Santander e Klangraum Vokal Dortmund) e Il ritorno
di Ulisse in patria di Monteverdi (Cité de la Musique di Parigi, Tage Alte
Musik Regensburg, Concertgebouw di Amsterdam e Musikfest Stuttgart)
di Monteverdi; Euridice di Caccini (Innsbruck Festwochen); Dido & Aeneas
di Purcell; La Serva Padrona di Pergolesi e La Senna Festeggiante di Vivaldi.
Il suo repertorio include capolavori di Monteverdi, J. S. Bach, Haendel,
Mozart, Haydn a cui si aggiungono lavori moderni e contemporanei come
il Requiem di Fauré, Curlew River di Britten e Akhnathen di Glass. Ha
inciso per importanti etichette discografiche e per emittenti radiofoniche
e televisive.
CORO MAGHINI
E CLAUDIO CHIAVAZZA
Intitolato a una delle figure più significative della vita musicale di Torino,
Ruggero Maghini (direttore del Coro Rai dal 1950 per oltre vent’anni) il Coro
Maghini si è costituito nel 1995, sotto la direzione di Claudio Chiavazza,
in occasione di una produzione con l’OSN Rai, con cui collabora ancora
oggi affrontando pagine del repertorio sinfonico-corale di Bach, Mozart,
Beethoven, Verdi, Brahms, Grieg, Falla e Gershwin. Nel 2006, in occasione
del Concerto inaugurale del restaurato Auditorium Rai “A. Toscanini” di
Torino, ha preso parte alla Sinfonia n. 2 di Mahler diretta da Frühbeck de
Burgos; ha in seguito partecipato alla 47ª Semana de Musica Religiosa di
Cuenca con il War Requiem di Britten e la Messa da Requiem di Verdi. Più
recentemente ha cantato La Creazione di Haydn, The Messiah di Haendel e
la Messa in mi bemolle di Schubert. Collabora stabilmente con l’Academia
Montis Regalis e De Marchi per concerti nelle stagioni dell’Unione Musicale
di Torino e della Società del Quartetto di Milano. Ha partecipato alla 50ª
Settimana Internazionale di Musica Sacra di Monreale, al Festival di Musica
Antica di Bruges, all’Innsbrucker Festwochen der Alten Musik, dove nel 2013
ha cantato ne La Clemenza di Tito di Mozart e nel 2014 nella Messa in si
minore di Bach. Affronta anche il repertorio per coro a cappella, dal barocco
alla musica contemporanea. A fianco del Coro è sorta, nel 2005, l’Accademia
Maghini per la formazione vocale dei coristi, sia amatoriali che professionisti,
e l’organizzazione di eventi quali la rassegna Musica nei luoghi dello spirito.
Claudio Chiavazza ha studiato presso il Conservatorio di Torino diplomandosi
in Clarinetto, Musica Corale e Direzione di coro. Si è perfezionato in direzione
corale con Peter Erdei presso l’Istituto Kodály in Ungheria. È direttore del
Coro Maghini. Ha diretto concerti in Europa spaziando dal canto gregoriano
alla polifonia vocale contemporanea, con diverse prime esecuzioni.
Ha collaborato con direttori quali Frühbeck de Burgos, Ahronovitch,
K. Petrenko, G. Albrecht, Järvi, Baudo, Preston, Tate, Mena, Noseda, Marshall,
Rilling, Hogwood, King, Dantone, De Marchi. Ha diretto diversi complessi
partecipando a festival quali MITO Settembre Musica, Tempus Paschale
di Torino, 50ª Settimana Internazionale di Musica Sacra di Monreale (Pa),
Armoniche Fantasie, Musica Recercata di Genova, Festival dei Saraceni,
5° Festival Musicale della Via Francigena, Les Baroquiales di Sospel, Musique
Sacrée di Avignone e Innsbrucker Festwochen der Alten Musik.
VIOLE
*Ula Ulijona, Matilde Scarponi, Geri Brown, Giovanni Matteo Brasciolu,
Giorgia Cervini, Massimo De Franceschi, Federico Maria Fabbris, Riccardo Freguglia,
Agostino Mattioni, Davide Ortalli.
CORO MAGHINI
MEZZOSOPRANI/CONTRALTI
Giulia Beatini
Elisa Brizzolari
Sara Lacitignola
Eliana Laurenti
Annalisa Mazzoni
Vittoria Novarino
Svetlana Skvorzova
TENORI
Alessandro Baudino
Massimo Lombardi
Corrado Margutti
Fabrizio Nasali
Marco Pollone
BARITONI/BASSI
Sergio Alcamo
Riccardo Bertalmio
Cesare Costamagna
Ermanno Lo Gatto
Marco Milanesio
Dario Previato
MAESTRO DEL CORO
Claudio Chiavazza
PARTECIPANO AL CONCERTO
VIOLINI PRIMI
*Roberto Ranfaldi (di spalla), °Giuseppe Lercara, Antonio Bassi, Constantin Beschieru,
Lorenzo Brufatto, Irene Cardo, Aldo Cicchini, Martina Mazzon, Enxhi Nini, Sara Pastine,
Fulvia Petruzzelli, Francesco Punturo, Elisa Schack, Lynn Westerberg.
VIOLINI SECONDI
*Roberto Righetti, Enrichetta Martellono, Pietro Bernardin, Michal Ďuriš, Carmine
Evangelista, Jeffrey Fabisiak, Rodolfo Girelli, Paolo Lambardi, Alessandro Mancuso,
Marcello Miramonti, Francesco Sanna, Carola Zosi.
VIOLONCELLI
*Massimo Macrì, Giuseppe Ghisalberti, Ermanno Franco, Giacomo Berutti,
Pietro Di Somma, Carlo Pezzati, Stefano Pezzi, Fabio Storino.
CONTRABBASSI
*Cesare Maghenzani, Antonello Labanca, Alessandro Belli, Luigi Defonte,
Pamela Massa, Francesco Platoni.
FLAUTI
*Marco Jorino, Fiorella Andriani, Paolo Fratini.
OTTAVINO
Fiorella Andriani
OBOI
*Francesco Pomarico, Sandro Mastrangeli.
CORNO INGLESE
Franco Tangari
CLARINETTI
*Enrico Maria Baroni, Franco Da Ronco.
FAGOTTI
*Elvio Di Martino, Cristian Crevena, Mauro Monguzzi.
CORNI
*Ettore Bongiovanni, Marco Panella, Bruno Tornato, Marco Tosello.
TROMBE
*Roberto Rossi, Ercole Ceretta, Daniele Greco D’Alceo.
TROMBONI
*Diego Di Mario, Devid Ceste.
TROMBONE BASSO
Antonello Mazzucco
TUBA
Daryl Smith
TIMPANI
*Claudio Romano
PERCUSSIONI
Alberto Occhiena
ARPE
*Margherita Bassani, Donata Mattei.
*prime parti ° concertini
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abbonamento, scoprire pezzi d’archivio, seguire le tournée dell’Orchestra,
avere sconti e facilitazioni. In una parola, diventare AMICI.
Sono molti i vantaggi offerti dall’associazione Amici dell’Orchestra
Sinfonica Nazionale della Rai: scegliete la quota associativa che
preferite e iscrivetevi subito!
Tutte le informazioni e gli appuntamenti sono disponibili sul sito
www.amiciosnrai.it o scrivendo a [email protected].
LE DOMENICHE
DELL’AUDITORIUM
5 concerti dei complessi da camera
dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
I concerti saranno preceduti da brevi
presentazioni a cura degli esecutori stessi
1
°
DOMENICA 25 OTTOBRE 2015
ore 10.30
SESTETTO “SCHIELE” DELL’OSN RAI
ALDO CICCHINI | violino
VALERIO IACCIO | violino
FEDERICO MARIA FABBRIS | viola
AGOSTINO MATTIONI | viola
STEFANO BLANC | violoncello
MICHELANGIOLO MAFUCCI | violoncello
CONVENZIONE OSN RAI - VITTORIO PARK
Tutti gli Abbonati, i possessori di Carnet e gli acquirenti dei singoli
Concerti per la Stagione Sinfonica OSN Rai 2015/16 che utilizzeranno
il VITTORIO PARK DI PIAZZA VITTORIO VENETO nelle serate previste
dal cartellone, vidimando il biglietto di sosta nell’apposita
macchinetta installata nel foyer dell’Auditorium Toscanini, avranno
diritto allo sconto del 25% sulla tariffa oraria ordinaria.
PER INFORMAZIONI RIVOLGERSI AL PERSONALE DI SALA O IN
BIGLIETTERIA.
Le varie convenzioni sono consultabili sul sito www.osn.rai.it
alla sezione "riduzioni".
Arnold Schönberg (1874-1951)
Verklärte Nacht (Notte trasfigurata),
sestetto op. 4 per archi
(da una poesia di Richard Dehmel)
Johannes Brahms (1833-1897)
Sestetto n. 1 in si bemolle maggiore
op. 18 per archi
In collaborazione con
I CONCERTI
2
°
GIOVEDÌ
22 OTTOBRE 2015
ore 20.3 0
VENERDÌ
23 OTTOBRE 2015
ore 20.3 0
PASCAL ROPHÉ | Direttore
EMMANUEL PAHUD | Flauto
Albert Roussel
Le festin de l’araignée, frammenti sinfonici
dal balletto-pantomima op. 17
Marc-André Dalbavie
Concerto per flauto e orchestra
Wolfgang Amadeus Mozart
Concerto in sol maggiore KV 313 (285c)
per flauto e orchestra
Arthur Honegger
Sinfonia n. 3 Liturgique
CARNET
da un minimo di 6 concerti scelti fra i due turni e in tutti i settori
Adulti: 24,00 euro a concerto Under 30: 5,00 euro a concerto
SINGOLO CONCERTO
Poltrona numerata: da 30,00 a 15,00 euro (ridotto giovani)
INGRESSO
Posto non assegnato: da 20,00 a 9,00 euro (ridotto giovani)
BIGLIETTERIA
Tel. 011/8104653 - 8104961 - Fax 011/8170861
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Programma - Orchestra Sinfonica Nazionale