lumie di sicilla
numero 37
ottobre 1999
la parola al Presidente:
Ricominciare...
A fatica, dopo tanto silenzio, riprendo a scrivere per il “Lumie”; affrontiamo un nuovo corso di attività associativa, gravati da un
altro anno di senescenza, logorati da mille difficoltà vissute in quasi totale solitudine, disillusi da eventi e comportamenti che ci hanno
ferito spesso.
Arriviamo però all’inizio del nuovo anno associativo, purtroppo, addolorati dai lutti che hanno colpito molti di noi.
Di tali lutti, alcuni sono stati “fisiologici”; e pertanto, se hanno ferito i parenti e gli amici più vicini, sono stati peraltro accolti come
normale evoluzione della grande vicenda della VITA. Altri lutti, altre morti, invece, ci hanno straziati tutti, per l’inaccettabile violenza
con cui la grande falce ha colpito, alla cieca, con crudeltà estrema, VITE giovani, più giovani, e giovanissime, nel momento del loro
riposarsi con il raggiungimento degli obbiettivi che ogni essere umano persegue, o quando la pedana del lavoro e della preparazione ti
sta spingendo in alto, dove stanno i migliori.
Ricordo qui Bernadette, moglie al consocio e fraterno amico notaio Nino Poma, morta, direi accidentalmente caduta dalla vita, per
l’insipienza, la trascuratezza e, pensiamo, la scarsa professionalità, forse, di chi della sua vita di donna ammirevole, moglie e madre
perfetta, coinvolta nella vita sociale come è di chi molto ha da dare, avrebbe dovuto avere cura.
In ordine di tempo, poi, è venuta la morte di Alfredo De Rosa, figlio della consociata signora Franca; pochi di voi Lo conoscevano.
Io Lo ebbi paziente sin dalla nascita; ricordo l’uomo, per la Sua riservatezza e affettuosità, ma soprattutto per la Sua tenace volontà di
essere “bravo”. Nel momento in cui gli uomini e la vita lo chiamavano in alto (nominato, poco più che trentenne, alla vice direzione
amministrativa di un grande istituto assicurativo), il mare di Cefalù, nell’ultimo meriggio di una breve vacanza, Lo uccise
inspiegabilmente, a pochi metri dalla nostra amata terra di Sicilia.
A conclusione di questa trilogia di infmito dolore, ricordo la morte accidentale di Alessio Passalacqua, figlio dei consoci Giuseppe
e Francesca Camilleri. A questa madre, cui mi lega fraterno affetto nutrito dalle zolle della stessa terra che ci ha generato, laggiù
nell’Agrigentino, non ho parole nè messaggi di solidarietà da trasmettere, se non dire: il dolore per la perdita di quel tuo unico figlio,
meraviglioso per bontà, per la Sua generosità di capoguida degli scouts, per la Sua serietà di studente, per la Sua immensa fede di
cristiano attivamente praticante, questo immenso dolore, tuo e di Giuseppe, sia un po’ rimpicciolito, concedimelo, di quel poco che
noi vogliamo toglierti, per farlo nostro.
Chiudo la relazione di questo lungo periodo di sconforto per ricordarmi a voi tutti, associati, simpatizzanti, lettori, con un lungo
affettuoso abbraccio augurale per le imminenti ricorrenze natalizie e di fine anno. Dell’Associazione e della sua vita parleremo in altra
occasione.
All’ultima ora apprendiamo che il nostro associato, prof
ANSELMO PRADO, cultore di cose d’arte e archeologia della
Valle dei Templi, sulla quale ha pubblicato un bellissimo volume, èstato insignito del “Telamone”, premio che va ai
migliori.Congratulazioni da noi tutti.
Ennio Motta
ritratti
Lessico sozziano
una suggestiva caleidoscopica carrellata di personaggi e di ricordi
presentata ai nostri lettori dal Prof Antonio Pagano
Lauretano Illi Magistro Vincentio
Sozzi memoriam recolentes Eius
Trasandatissimo, padre Vincenzo Sozzi
si distingueva per la tonaca stinta e lisa, il
cappello da prete più marrone che nero
per il sole, l’acqua e la polvere e le larghe
scarpe allacciate in modo strampalato, o
mancanti, qualche volta, addirittura di
stringhe, sicché i piedi erano costretti a
guazzarvi dentro.
Era rettore del Santuario Mariano di
Loreto, la ridente borgata a poca distanza
da Acireale, e docente di filosofia e storia
nel Liceo di Stato “Gulli e Pennisi”, uno
degli istituti più prestigiosi della provincia
etnea. Rara avis per quei tempi un prete
professore ordinario (per di più di filosofia e storia) nelle scuole governative.
Michele Federico Sciacca, che fu alunno vivace e genialissimo di don Vincenzo
negli anni venti, parla del Maestro con
stima c rispetto in alcune pagine de “La
clessidra”, stupende, il libro del “nostos”,
del ritornò, ad un passato pieno di inquietudini, tumulti e fermenti. Il caro
padre Sozzi soleva chiamare l’irrequieto
ragazzo “‘u filosufu di Giarri”, apprezzandone la vivacità intellettuale e dialettica. Si trattava di un vero e proprio
presagio!
Chi scrive questa noterella fu allievo
del Sozzi nella seconda parte degli anni
quaranta: anni difficili, ma tanto ricchi di
grandi speranze.
Quell’Uomo inflessibile, duro, intransigente formò tantissime generazioni. Parlare dell’originalissimo prete-filosofo comporterebbe ripercorrerne non solo le vicende della lunga vita, ma anche illustrarne il pensiero e l’azione. Chissà se un
giorno - qualcuno, mosso da intelletto
d’amore, non si decida a farlo! Tra le
tante cose, padre Sozzi ne merita due in
modo particolare: un libro tutto
“sozziano”, non oleografico (del resto,
l’oleografia non piaceva al vecchio
Maestro) e la traslazione dei suoi resti
mortali dal cimitero di Acireale al
Santuario di Loreto, dove riposa il primo
Vescovo della Diocesi, monsignor
Gerlando Maria Genuardi dei Baroni di
Mulinazzo e Consolida. E davvero
paradossale che la suggestiva chiesetta
dedicata alla Madonna nera non accolga il
“genius” di quel luogo, dove l’ombra del
Filosofo sembra aggirarsi, nelle placide
sere d’estate, tra i pioppi svettanti e i
vialetti delle bellissime aiuole fonte di
gerani color rosso fuoco.
Paternese di nascita, ma acese di adozione, padre Sozzi aveva un gergo tutto
particolare, del quale faceva uso in determinate circostanze, alternandolo con un
italiano solenne, ortodosso in fatto di
scelta di termini e di costrutti.
Il “transfert” repentino dall’italiano al
dialetto e dal dialetto all’italiano segnava i
prodromi di un’arrabbiatura con relativa
impennata, di un improvviso cambiamento di umore, di una più che ferma presa di
posizione, di un “lisciabus” fatto di parole
ora roventi come fuoco ora accompagnato
da un sorrisetto ironico, sferzante.
Con l’arma dell’ironia e del sarcasmo
don Vincenzo si difendeva dai saccenti e
dai presuntuosi, che si mettevano rigidamente in posa, ostentando quello che in
effetti non erano. Di fronte a tipi del genere diventava giovenaliano: le sue frecciate
lasciavano i lividi dovunque arrivassero.
Di un politicante, che in un pubblico
comizio s era lasciato andare ad una
logorrea estenuante a base di parole
sesqu4oedali, d’un piede e mezzo, destinate, più che altro, a fare effetto, a
sbalordire, ma inutili, il Filosofo ebbe a
dire sornionamente: “Mi pentu ca a chistu
‘na vota a scola ci desi ‘n pezzu di
sei.Astura non avissi spunticatu tantu
comu va facennu ora...”
Quando incontrava un professionista
abbastanza colto, non privo di humour, gli
chiedeva: “Chi dici ‘a spirltera addumata?”, con evidente allusione al simbolo
di un movimento di destra.
Queste battute in dialetto, molto più
efficaci di qualsiasi altro discorso, erano
destinate a rimanere indelebili nel ricordo.
Venne coniato, addirittura, il termine
“sozzeggiare”, atteggiarsi alla Sozzi, cercare di imitarne lo stile, il modus agendi,
il modo di fare. A “sozzeggiare” erano in
tanti. Sozzi rimaneva, però, un esemplare
unico. Più unico che raro. I riproduttori,
più o meno maldestri, ci rimettevano le
penne. A volere imitare Tindaro Tebano
si cade giù con le ali spezzate. Questo
insegna Orazio di Venosa.
I ragionamenti campati in aria, tipici di
chiunque non si fosse preoccupato gran
ché di studiare con il dovuto impegno
cercasse disperatamente di evadere
aggiungendo parole a parole con il
supporto di se, di ma, di cioè, di stavo per
dire, dunque, e di perciò (oggi, si fa uso
abuso di nella misura in cui, di a monte a
valle, di al limite, di praticamente,
portare avanti un certo discorso ecc)
irritavano il Professore, che, dopo avere
ascoltato per un po’ con un sorrisetto
maliziosamente sardonico sulle labbra
serrate ermeticamente, frenava di colpo
valanga con .l’immancabile: “Sti cosi a
1ei ci sguazzariunu, chi mi sta cuntannu
nummira
o
filosofia?”,
lasciando
interdetto l’incauto dispensatore di aria
fritta. C’era, poi, il caso inverso: quello di
chi, corto di argomenti, non era in grado
mettere insieme un “gruzzoletto” di
parole: “Sintissi, ci addumassi ‘’n turciuni
San Tummasu”, esclamava Sozzi,
devotissimo a San Tommaso d’Aquino,
Doctor Angelicus, un gigante del
pensiero.
Riferendosi a Platone, dalle “larghe
spalle”, Sozzi soleva dire che “è comu ‘u
porcu”. Una asserzione del genere
potrebbe correre il rischio di apparire
quanto mai irriguardosa, se venisse
estrapolata dal contesto: “non ci si jetta
nenti’ intendendo, con ciò, dire -e
giustamente che il pensiero del grande
autore di dialoghi bisogna conoscerlo
integralmente, senza trascurarne proprio
nulla, se si vuole intenderlo a fondo.
Non penso proprio di mancare di rispetto
a quell’Uomo sui generis, vera mente
geniale, se oso parlare di “baccagghiu”
sozziano. Con questo catanesissimo
termine si suole indicare un linguaggio,
che, pur esprimendosi mediante geniali
metafore e traslati, più o
meno arditi, a trasi e nesci, dice e non
dice, nondimeno viene recepito seduta
stante dall’interlocutore addentro alle
segrete cose. Intellegentì pauca...
“Tavula
niura”,
un
autentico
francesismo da “tableau noir”, era la
lavagna sicché la domanda: “Da quantu
tempu non ni videmu a tavula niura?” era
l’equivalente del rituale: “Da quanti
tempo non siamo interrogati? “, espressi
dal docente all’interrogato. Anche il
confessore chiedeva all’inizio: “Da
quanto tempo non si confessa?”. Oggi,
l’interrogazione si chiama “verifica”.
Chiamala come vuoi.... Mutato nomine
fabula de te narratur, dice Orazio. Lo
stesso concetto veniva, talora, presentato
mediante un termine del gergo dei
contadini, “trippaturi”, il posto del
coniglio, per cui vinissi a trippaturi”
significava “si accosti, per favore, alla
cattedra per farsi interrogare”. Con un
infallibile sesto senso egli intuiva
immediatamente il grado di cottura del
chiamato (dall’espressione del viso?
dall’incedere lento e dinoccolato?), sicché
cominciava a storcere il muso per esprimere perplessità. Novantanove volte su
cento le cose stavano proprio come pensava don Vincenzo, che borbottava alcune
frasi allusive all’imminente fiasco del poveretto o della poveretta destinati alla più
meschina delle “malacumparsi”, di centorbiana memoria. “‘U trugghiu da malacumparsa”.
Quando un ragazzo rispondeva disinvoltamente, prima di mandarlo a posto,
Sozzi, soddisfattissimo, gli rivolgeva una
domanda “di geniu” per avere
un’ulteriore conferma delle capacità
intellettive dell’ interpellato per il “redde
rationem”
Per chi non ne “masticasse” granché il
rinvio a settembre, in seconda sessione,
era più che inevitabile. Nel colorito linguaggio di don Vincenzo il preavviso
della bocciatura, l’avviso di garanzia, era
notificato con questa formula significativa: “Ni videmu a tempu di vinnigni”. Il
termine “bocciatura”, odioso, terribile, veniva sostituito da una perifrasi che
chiamava in causa il periodo della raccolta dell’uva, coincidente con quello della seconda sessione di esami, che ormai
non esiste più. Mutantur tempora et nos
mutamur cum illis...
Per rintuzzare un ragionamento capzioso, bizantineggiante, capace soltanto di
sollevare un gran polverone, padre Sozzi
diceva che si trattava, senza alcun dubbio,
di “un buttanisimu di raggiunamentu”, di
cui suole fruire chiunque cocottescamente
voglia tirare acqua al proprio mulino,
facendo discorsi anodini, poco o niente
lineari, equivoci.
Nella parlata del Filosofo di Loreto ricorrevano abbastanza frequentemente la
sineddoche o metonimia, il traslato, la
icasticità delle immagini e l’ironia, che,
qualche volta, nei momenti di amarezza,
si faceva sarcasmo.
L’automobile era “‘u ferru”, la
carrozza “‘u lignu”, “scanneddu” la
cattedra, “scola di Giannettinu” o
“casinu di cumøagnia” la scuola presa
con allegria, fin troppo alla leggera, senza
il dovuto impegno, “‘u parrinu”
l’insegnante di Religione (in cattedra lui,
prete, era solo il docente di filosofia),
“nuddu ‘mmiscatu ccu nenti” la nullità in
senso assoluto, “non ti scippa”
l’elemento mancante di versatilità e di
predisposizione naturale, “sciabbacotu” il
fannullone, che ama bighellonare, “non
cunfanfura” il dubbio e la perplessità su
certi presunti geni che “pigghiunu ‘u
munnu a pugna”, troppo rumor per nulla.
Di un professore, fin troppo buono, ebbe a
dire: “Non sacciu cu’ di dui, iddu o ‘u
carusu ca sta facennu esami di maturità,
si spagna di chhiu’...”
Una delle sue frasi più tipiche suonava
proprio cosi: “Sti cosi lei mi li va dicennu
caddozza caddozza”. Si trattava della
condanna, in chiave popolareggiante, del
frammentarismo di certe idee, che, per
mancanza di un fulcro sostenitore,
vengono fuori a spezzoni, come rocchi di
salsiccia, senza un benché minimo tessuto
connettivo, supporto essenziale di ogni
discorso, che intenda procedere con un
filo di logica.
Nella trattazione degli argomenti padre
Sozzi era limpido, cristallino. Michele
Federico Sciacca ricorda che la filosofia
don Vincenzo la porgeva “col cucchiaino”, con estrema chiarezza, non
venendo così meno al dovere di ogni buon
pensatore, che è quello di farsi capire da
tutti. Diffidava dei discorsi ermetici,
cavillosi.
Indimenticabili, fra le tante, le lezioni
sui rapporti del Conte di Cavour, il
Tessitore”, con Re Vittorio Emanuele II,
il Padre della Patria, su Vittorio
Emanuele Orlando, il Presidente della
Vittoria, al tavolo della pace alla fine del
primo conflitto mondiale, che ci regalò
solo le briciole di una vittoria mutilata,
sulla Marcia su Roma delle camicie nere
di Benito Mussolini. Certi aspetti dello
staracismo non sfuggivano al suo giudizio
penetrante, severo, dissacratore di tanti e
tanti miti intoccabili. Famosa la battuta
venuta fuori estemporaneamente durante
una concione tenuta da un alto esponente
del Partito Nazionale Fascista ai docenti
della provincia di Catania, chiamati a
rapporto nella federazione del capoluogo
etneo di Palazzo dei Chierici. “È fissa e
vulissi ca macari nuautri facissimu i fissa,
non sapi ca si a iddu ‘a cammisa niura ci
arriva finu o viddicu, a mia parrinu
m’arriva longa finu e pedi non ci
l’agguanta... Ammatula ca si duna
versu...
Prete della “bassa forza” del clero, ma
intellettuale finissimo, non sempre tanto
corrivo verso il fascismo, faceva capire,
con una battuta del genere, che non
intendeva sottomettersi alla gerarchia.
Con chi non amava lo studio era
implacabile, sfoderando una grinta assai
minacciosa: infatti considerava l’impreparazione come un gravissimo atto di
indisciplina bello e buono, una mancanza
di riguardo verso la scuola, sicché rimandava a posto gli impreparati per infingardaggine bruscamente, o, addirittura, li
espelleva dall’aula per l’intera durata
della sua lezione. “Cacciassi ppi lu so’
postu, anzi ‘u sapi chi ci dicu? Addizzassi
ppi fora...” Era un ordine categorico da
eseguire
immediatamente,
senza
discutere. “Cacciassi” era usato anche per
invitare a dare inizio, tout court, alla
trattazione di un argomento, o a
riprendere il discorso dopo un suo
necessario intervento per rispondere alle
domande degli alunni interpellanti.
Era per la sostanza più che per la
forma. Allorché una persona antipatica e
“fumogena” non riusciva affatto a
convincerlo, don Vincenzo, storcendo il
muso, e allargando e riunendo le dita della
destra, ‘a manu ritta, con un movimento
sincronico, quasi volesse incapsulare
l’aria, se ne usciva con un sorrisetto
sarcastico accompagnato da un commento
abbastanza
significativo:
“Chi
ci
pigghi?”.
Taglienti i suoi giudizi. Certe sue caricature tratteggiate con abilissima icasticità, tutta archilochea, sono rimaste impresse nella nostra mente.
Di un trittico di ecclesiastici così sentenziava, categorico come Suprema Corte
di Cassazione: “Il primo è buono, pio,
zelante, ma ha una cultura da seminario;
il secondo, gagliardo, pugnace, pieno di
ardore, sembra che abbia intenzione di
prendere il mondo a pugni, ma non
conclude nulla, o quasi; il terzo, alto,
prestante, mitrato, poveretto, è troppo
basso di altare maggiore...”. Per altare
maggiore intendeva la testa, sede del
comprendonio.
A proposito del gruppo bronzeo dello
scultore acese don Michele La Spina in
onore dei caduti, eseguito su commissione
della municipalità, ebbe a dire con sicumera: “‘U mortu è troppu mortu, ‘u vivu è
troppu vivu..
Per il monumento funebre a Monsignor
Salvatore Bella, Vescovo di Foggia, poi di
Acireale, storico e pubblicista di chiara
fama, eretto nella Matrice di Nostra
Signora della Catena, soleva rinfacciare,
senza mezzi termini, ai catenoti, concittadini dell’illustre Presule, questa volta in
italiano e con piglio solenne: “Ad un
grande Vescovo voi di Aci Catena, Città
nobile e civilissima, si badi, avete innalzato un brutto monumento, orirpilante,
‘horribile visu’, tremendamente in
guardabile.”. “, non risparmiando loro la
fortissima stoccata finale, agghiacciante:
“La testa non è quella di un Vescovo,
colto, mite, competentissimo, ma di un
cane. Se lo ricordino loro, cittadini di Aci
Catena...”.
Taluni termini filosofici venivano resi con
rara efficacia.
‘U tuttu, il tutto; ‘u cchi, il “quid”; ‘u
nenti, il nulla; ddi cosi senza porti e senza
finestri,
le
monadi
di
Leibniz;
l’omeomerii di tutti i mmischigghi, le
omeomerie di Anassagora di Abdera.
Celeberrima la definizione di concetto
di metafisica. Ad una candidata agli esami
di maturità che non riusciva ad afferrare il
concetto di metafisica, rivolse questa domanda: “Lit signurina, ‘u vidi chiddu ca
cc’è ‘nta ddu muru?”. L’interlocutrice,
confusa, rispose che scorgeva tante cose,
compreso il quadro del Duce Fondatore
dell’impero accanto a quello del Re
Vittorio Emanuele. “E arreri a lu stissu
identicu muru lei ‘u vidi chiddu ca
cc’è??”. Naturalmente, la studentessa disse che non era in grado di scorgere alcunché, nulla, proprio nulla... “Bene, propriu
chistu è ‘a metafisica”, concluse il Filosofo di Loreto, non senza aver dato prima
un serio avvertimento: “Si arricurdassi
lei, signurina, ca vuautri fimmini non siti
cosa per la quali in quantu a filosofia,
aviti i capiddi longhi e u giudiziu curtu;
ha sintutu forsi diri ca ‘nta storia da
filosofia ci ha statu ‘nfilosufu fimmina?”.
In tempi di acceso femminismo, chissà
come sarebbe stato contestato il povero
don Vincenza, antifemminista più per
posa che per effettiva convinzione...
Padre Sozzi, un Uomo che ho amato.
Un prete semplice, trasandato, intelligente, mordace, ma anche profondamente
umano... Non riesco a dimenticare la sua
battuta nei confronti di mio nonno
Sebastiano Pulvirenti, un misto di humour
e di grande affetto per l’amico: “Si
ricordi che suo nonno è stato n’omu
catolicu, non si lu scurdassi mai...”. E
appunto per questo ho inserito questa
espressione in questo florilegio lessicale
sozziano ognora vivo e palpitante nel mio
cuore. Manet alta mente repostum,
vergilianamente. Eius meminisse juvat. Di
Lui è bello ricordarsi. Un personaggio
autentico che fa parte della mia vita... In
scrinio pectoris. Nello scrigno del petto.
Come un piccolo tesoro da non perdere.
A Monsignor Ignazio Cannavò, Arcivescovo Emerito di Messina e dell Eolie, ho
detto, l’altra sera, in occasione dell’incontro nel Seminario Vescovile per ricordare
il primo anniversario della scomparsa di
don Giuseppe Cristaldi, che non c’è occasione in cui non mi sovvenga di don
Vincenzo, Maestro di vita e di dottrina.
Antonio Pagano
storia di sicilia
Giubileo calatino – Aere perennius
È il titolo dell’ultimo libro (uscirà fra
qualche mese) di Calcedonio DONATO,
nato a Vittoria, insegnante liceale di
storia e filosofia, appassionato studioso e
autore di ricerche storiche e di articoli
d’interesse storico-filosofico.
Un’approfondita ricerca su fatti di notevole valenza conoscitiva, non registrati o
ignorati dalla storiografia ufficiale, relativi all’importante ruolo storico svolto dal
popolo e dal clero siciliani agli inizi di
questo secolo al fine di evitare, per il Sud,
la subalternità economica, politica e religiosa verso cui lo sospingevano la scienza
e la politica del tempo.
In Sicilia, popolo e clero, stretti dalla
morsa della miseria e dal malgoverno, al
grido di” La terra ai contadini” e “Fuori
dalle sacrestie”, alla fine del secolo scorso, misero in atto un programma di rinnovamento sociale e politico i cui risultati
soltanto ora cominciano a delinearsi nella
loro unitaria portata e che sono ravvisabili, per un verso nella definizione di una
compiuta democrazia, e per l’altro nella
difesa dei valori della cristianità.
La ricerca è riferita soprattutto alla cittadina di Caltagirone, per l’irripetibile
ruolo svolto in virtù di scelte operate, nel
primo quarto di questo secolo, durante la
sindacatura Sturzo e durante l’attività
pastorale (1899-1925) di mons. Damaso
Pio De Bono, per merito del quale don
Sturzo esercitò l’attività di prosindaco.
Di mons. De Bono, dei suoi rapporti
con don Sturzo e della sua prestigiosa attività episcopale, conclusasi nel 1925 con
dimissioni, non sì sapeva assolutamente
nulla. E’ merito dell’autore averla segnalata sin dal 1994 nel libro “La primavera
di Caltagirone”, con presentazione di
padre Ennio Pintacuda.
Il presente lavoro analizza quel periodo
di storia siciliana, e in particolare di Caltagirone, quando popolo e clero, guidati
rispettivamente dal Prosindaco e dal Vescovo, inaugurarono una politica e una
pastorale, delineandone anche le rispettive
sfere di competenza, volte a sconfiggere,
nel caso specifico, corruzione e malaffare
coniugando semplicemente i valori della
Giustizia con quelli della Carità.
Quel felice esperimento, reso possibile
per la perfetta intesa fra Vescovo e
Prosindaco, pur entro un sistema di
difficili rapporti fra Stato e Chiesa, sorse e
si irrobustì durante l’era giolittiana. Ciò
rendeva ancor più pericoloso quell’operato politico religioso in conseguenza
dell’ammorbidimento del non expedit, che
di fatto tendeva a sostenere quella liberaItrasformistica politica.
In conseguenza dello scioglimento dell’
Opera dei Congressi e del ripiegamento
moderato che la S. Sede andava attuando
in Sicilia, con dimissioni di vescovi locali
e con conseguenti insediamenti di vescovi
preferibilmente lombardi, sarebbe stato
temerario il solo pensare di poter esercitare l’attività di prosindaco, come anche
più temerario sarebbe stato pensare ad un
incondizionato appoggio, in tal senso, da
parte della cittadinanza e del proprio
vescovo.
Il capolavoro di mons. De Bono consistette appunto nel sollecitare la 5. Sede ad
acconsentire alla prosindacatura di don
Luigi Sturzo in conseguenza di una effettiva legale possibilità. Non solo, ma ad un
deciso primo rifiuto, il Vescovo non si
perse d’animo, insistette sino ad ottenere
uno stentato “sì”.
Da allora a Caltagirone, per quindici
anni la necessità della giustizia si coniugò
con la libertà della carità, per il bene della
città dell’uomo. Fu un’esperienza importante, irripetibile e forse l’unica “utopia” a
materializzarsi nel presente dai tempi di
Empedocle, nella popolosa Agrigento, o
di Platone, nella grande Siracusa, o di
Federico, nella raffinata Palermo, e dalla
quale trassero vantaggio lo Stato italiano e
la Chiesa cattolica.
Quando infatti questa si rese conto dell’
isolamento storico nel quale si ritrovava
in seguito alla conclusione della Grande
Guerra, per lo smantellamento dei tradizionali Imperi, sostegni terreni di metafisiche attese, ricorse a don Luigi Sturzo.
il quale estese quelle esperienze alla
Nazione, lacerata e priva di guida per una
crisi economica e politica, che lasciava
presagire lo spettro della sconfitta entro la
vittoria.
L’avvento del fascismo spazzò via
tutto. Nel 1924, don Sturzo andava in
esilio; nel 1925, mons. De Bono, mentre
preparava grandiosi festeggiamenti per la
celebrazione del Giubileo della Chiesa
mariano per Caltagirone, rassegnava le
dimissioni da vescovo. Queste, subito
accolte, indussero la S. Sede ad attuare
anche a Caltagirone quella “rimoralizzazione” già avviata in altre diocesi della
Sicilia agli inizi del secolo durante la
polemica modernista con l’invio e
l’insediamento di episcopi lombardi.
Erano anni particolarmente difficili e
delicati per la politica e per la fede: il
fascismo governava e si tessevano i preliminari per i Patti Lateranensi, che reclamavano l’esilio di don Sturzo e le dimissioni di mons. De Bono.
Una pagina di storia, che non doveva
fare storia, viene in parte riproposta grazie
alla passione per la ricerca del nostro
autore, volta a rievocare i fatti per una
migliore e più completa conoscenza di
questo difficile secolo che va a morire.
homo ridens
Il buco
nell’ozono (E’
ITALIANO)
Giallo catanese in tre puntate, di
Giuseppe C. Pappalardo
Prima puntata
Una sera, quando il signor Pompeo
si vide comparire davanti la moglie
Alfonsa in body nero e tacchi a spillo,
in tutte le sue gt Ì...tine tremolanti,
capì che c’era da preoccuparsi. Per
questo non la mandò subito ad
affogarsi.
Da un po’ di tempo la donna
accusava disturbi strani. Invece di dire
“parlare” o “fare”, diceva “portare
avanti un discorso”; citava “i per7orsi
di genere al femminile” e “il recupero
della sessualità al femminile”; farciva
le frasi di “voglio dire” e di
“diciamo”. Era diventata, improvvisamente, “un attimino” bionda;
e invece di usare come al solito, le
lamette di Pompeo, comprava a giorni
alterni e a costi stratosferici un
minuscolo tubetto del depilatorio
inglese “The Kojack’s wife”. Ma il
fenomeno
più
inquietante
era
l’emissione
di
comunicazioni
telegrafiche, simili a uno spot
televisivo,
con
cui
a
tratti
interrompeva
il
suo
eloquio
quotidiano:
- Restàrè o tornare giovani? Si può.
Anzi si deve! — esclamava. Mattina e
sera si spalmava con una quantità di
strani, nauseabondi intrugli misteriosi.
L’edonismo, con tutti i suoi
imperativi categorici bussava con
prepotenza alla porta di quella casa.
Pompeo cadde in ambascia.
Divenne distratto: un giorno scambiò
per l’Alka Seltzer le pastiglie
effervescenti per la pulizia della
dentiera della vecchia.
Eh sì, egli aveva ricevuto in dote
una suocera. Che abitava sulla sedia a
dondolo
con
servizi
annessi.
Telecomando appeso al collo e cuffia
ha fai per timpani d’epoca, la
vegliarda stava davanti al video 24 ore
al giorno. Sembrava un comandante di
Boeing che, in collegamento con la
torre di con.. )llo dell’aldilà, seguiva
sul monitor la rotta per l’atterraggio
definitivo. Per fortuna taceva;
incrementava il fatturato Enel, ma
taceva.
Nello scenario geriatrico della casa
c’era anche la serva Cammilina. La
sua origine risaliva ai nonni di
Pompeo, i quali l’avevano lasciata in
eredità alla madre di Pompeo.
Quest’ultima
a
sua
volta,
mantenendone l’usufrutto in vita,
aveva passato la nuda proprietà di
Cammilina al figlio per risparmiare
sulle tasse di successione.
Dentiere, busti, calze elastiche,
lassativi e cinti erniari facevano
dunque del loro meglio in quella casa:
allo stesso tempo, TV e giornali ne
bombardavano, con i loro sorridenti e
freschi prodotti in scatola, gli indifesi
abitanti. Irresistibili, potentissime, le
armate
televisive
riportavano,
falsificandoli, i giornalieri bollettini di
guerra della quotidiana, estrema
battaglia: quella contro il tempo.
La sera, per non guardare la puntata di
“Più sani più belli”, Pompeo
immergeva gli occhi nella minestra e,
di nascosto, la diluiva con qualche
lacrima.
Alfonsa,
assidua
lettrice
di
rotocalchi di moda e di attualità, ne
studiava minuziosamente gli articoli e
gli inserti scientifici. Un giorno,
sventolando sul muso di Pompeo
l’inserto della settimana, un manuale
di cosmesi, « Le mille e una
po(si)zioni », lo apostrofò dicendo: Pompeuccio caro... ma ti rendi un
attimino conto che da molti anni a
questa parte i soli rapporti fisici fra
noi sono i pediluvi caldi di saltrati che
facciamo in coppia nelle sere
d’inverno?
A questo punto bisogna sapere che
il fascino meraviglioso di quest’uomo
consisteva nella sua coscienza: la sua
coscienza di cretino. Era un cretino
cosciente. Oggi quasi tutti i cretini
della vita quotidiana, che s’incontrano
ovunque, sul teleschermo, nelle
università, nelle cene di lavoro, al
caffè e via discorrendo, i cretini usuali
insomma, si credono di essere persone
assolutamente intelligenti e non hanno
la coscienza esatta della propria
idiozia. Pompeo, invece, l’aveva.
Ebbene, fu proprio in quel momento
che a Pompeo mancò la sua coscienza
di cretino. Si credette intelligente. E
decise.
Con occhialoni scurissimi, e finti
baffoni neri appiccicati sotto il naso,
egli si presentò al banco della
farmacia
di
piazza
Duomo.
Dall’insegna, che a chiare lettere
diceva: «Farmacia dott. Vieni»
(testuale, venire a Catania per
credere, ndr), quella farmacia gli
sembrava la più specializzata nella
vendita del farmaco che cercava. Con
fare circospetto cavò di tasca un
foglietto dove c’era scarabocchiato un
nome e lo allungò alla laureata che
svolgeva il semestre di tirocinio. La
giovane afferrò il foglio e cominciò a
leggere con difficoltà lo scarabocchio
de medico: - Via..., viaaa... - e si
fermò, per mandare uno sguardo al
monumento al liotru. Pompeo
fremeva e sudava freddo per paura
che entrassero altri clienti. Po la
ragazza riprese a sillabare: - . . .
aa...grrr..., ah, Viagrande! Non è da
questi parti. Chieda un attimino al
vigile davanti al municipio qui
accanto.
Pompeo, indignato per essere stato
scambiato per un turista, le strappò i
foglio di mano e uscì con l’intenzione
di affogarsi nella vasca zampillante ai
piedi dell’elefante. Ma in città le cose
eran cambiate. C’erano i pub, e perciò
la città diventava internazionale.
Europea, a di poco. Per rilanciare le
grandi opere pubbliche dal “Palazzo
degli elefanti” era partito l’ordine di
restaurare il monumento. Per questo la
fontana con gli zampilli che
circondava il liotru non c’era più: era
stata tolta per riportare il monumento
all’antico-nuovo splendore.
Pompeo rimase lì, a sbavare,
appallottolando in tasca il foglietto
con lo scarabocchio, e ammirando
estatico dal basso in alto il pancione
con accessori del possente liotru.
Altro che Viagrande, pensò Pompei
Lui, d’estate, villeggiava a Trois
Marrons (vulgo: Trecastagni, ridente
paesino del Etna. Ma chissà perché
tutti i paesini sono ridenti. Anche
Viagrande, tutto sommato è ridente).
Prima di allontanarsi mestamente,
comprò all’edicola un giornale
specializzato. Lesse alcuni annunci
più o meno economici. Fu sorpreso
leggendone un “Giovane ottima
famiglia, distinto elegante, piacente,
dirigente, incontrerebbe giovane
donna (eventualmente coppia) di
ottima qualità, ma soprattutto
autoritaria. Abiti di cuoio. Gradita
foto”. Non faceva per lui.
Quella sera Pompeo, durante la cena
invece di seguire come al solito la
puntata di « La malattia in diretta »,
densa di sintomi e di particolari
nauseabondi, cambiò canale. E si
immerse nella contemplazione del
programma che era un attimino secsi,
intitolato “Colpo grossissimo”.Egli
seguì attento tutte le puntate di quel
varietà: con gli occhi strabuzzati,
mentre dalla sua dentiera sfuggiva un
suono
agghiacciante, simile a quello di una
carrucola metallica arrugginita che
sale e scende.
Cammilina tremava di spavento.
Alfonsa dava segni di nervosismo.
Pompeo, che di solito a casa circolava
con addosso i pantaloni del pigiama,
in un telefilm vide uno che portava,
del pigiama, soltanto la giacca. Pensò
all’eventualità che inesattezze simili
accadessero a lui, uscendo di casa. E
decise finalmente che era il momento
di chiedere aiuto alla scienza ufficiale.
Passarono mesi. E un giorno,
Pompeo esaurito vociferò ad Alfonsa:
- Medici? Sessuologi? Mi hanno
imbottito di stimolanti e di rilassanti,
e di pozioni spaventose; mi hanno
ecografato, radiografato, fotografato
in ogni parte e in tutte le pose; mi
hanno prelevato e analizzato tutto ciò
che secerno. Mi hanno messo
cataplasmi,
protesi,
e
perette
fabbricate a Hong Kong; mi hanno
fatto
spalmare
con
pomate
pestilenziali. Risultati, zero.
Ma Alfonsa, prevedendo gesti di
disperazione del marito, era attrezzata
per l’emergenza: gli sventolò sul
muso un rotocalco patinato, e —
Pompeuccio, - gli disse prendendogli
la mano e sorridendo, ovvero
storcendo la bocca quel tanto che le
consentiva il chirurgo plastico
svizzero che le aveva riparato labbra,
mento, sotto-mento e sottopancia
qualche anno prima,- -non avere
dubbi, anche noi saremo presto
biutiful. Guarda, leggi!
IL SEGUITO ALLA PROSSIMA
PUNTATA
PIENA
DI
AVVENIMENTI
MISTERIOSI!
QUALI
SCONVOLGENTI
CI
ATTENDONO IN QUELLA CASA?
AVVINCENTI COLPI DI SCENA VI
ATTENDONO.
NON PERDETE IL PROSSIMO
NUMERO CON LA SECONDA
PUNTATA
DI
QUESTO
AVVINCENTE SECSI-THRILLER
MOZZAFIATO E MOZZATUTTO..
Seconda puntata
Pompeo afferrò il rotocalco e lesse.
L’articolo raccontava di un eminente
scienziato che aveva scoperto l’elisir
di giovinezza.
C’erano sempre gare di solidarietà
con raccolta di miliardi attraverso la
no-stop
televisiva
“Teletiè”.
Occorrevano fondi per la lotta contro i
malanni del secolo: la bassa statura, la
calvizie, l’adipe, la morte subitanea e
quella al rallentatore, la vecchiezza, i
calli, la sterilità, la fecondità, e il
cortocircuito della natura morta.
Nel paese fiorivano geni compresi
come quel grande scienziato che una
volta al mese comunicava su
quotidiani e rubriche televisive la
scoperta contro la malattia più
contagiosa di tutte: la vecchiaia.
L’articolo sul settimanale diceva:
“Con questo medico si può”. E
raccontava pure che quel generoso
luminare, chiamato “professore” già
quand’era nella culla, emetteva il suo
sapere anche in molti talchi-sciò e
varietà televisivi.
- Pompeuccio, — squittì Alfonsa a
bocca stretta per non scucirsela - è
difficile avere un consulto, ma ci
riuscirò. Poi andrai anche tu a farti
prescrivere la terapia, e così saremo
sempre più biutiful, caro -. E gli
indicò la foto del luminare che poteva:
il professor Kenarc Ison, un arzillo
vecchietto di quarant’anni che diceva
di averne, biologicamente, trenta.
Alfonsa, dopo aver pagato il
consulto in anticipo, fu ricevuta. Le
presentarono un televisore. Tutto per
lei. E la cornetta di un telefono.
Abituato com’era allo studio — allo
studio televisivo, beninteso - quel
taumaturgo visitava i suoi clienti
soltanto in diretta.
Lo schermo si accese e, preceduto
dalle note di un pianoforte e da 6baiadere-6 in camice bianco che
dimenavano
l’osso
sacro,
il
taumaturgo apparve sullo schermo.
Superbo! Proprio lui, l’inventore del
sesso a batteria, del colpo della siringa
nella penna stilografica, della
pompetta
spruzzaprofumo,
del
resuscitatore della natura morta!
Scientifico! Incommensurabile!
L’ambiente era lo stesso della
trasmissione “Teledò”, durante la
quale egli dava risposte definitive ai
seguenti insondabili misteri: la
piramide di Cheope, la metafisica del
non-essere, l’autocombustione delle
cosine
durante
la
presa
dell’abbronzatura, il segreto della pila
al Kronprinz, la depilazione del monte
calvo, e il farmaco per vincere la
traversata del Sahara in bicicletta.
Telecamere mobili lo inquadravano
da tutte le parti. Un infermiere vestito
da conduttore televisivo (o viceversa,
un
presentatore
travestito
da
infermiere)
gli
passò
la
comunicazione con la paziente
Alfonsa di anni ... anta e passa,
sdraiata al di là del video.
Parlò.
— Comprendo, signora — disse
marcando
un
sopracciglio
e
guardando la telecamera con occhio
ispirato come un veggente — il suo
problema. Sì, dall’età di 2 anni, per
sfuggire ad oltre 270 cameriere e balie
bionde innamorate di me fino alla
follia, ho dovuto frequentare da allora
tutte le università del mondo, dove
sono stato amato in tutti gli idiomi,
beninteso, e dove ho messo a punto le
mie sensazionali scoperte che mi
hanno portato al premio Snobel...
Tre lunghi e simmetrici oh uscirono
dalla trachea di Alfonsa: - Oh oh oh.
-Dalla sintomatologia che lei
riferisce —proseguì il telescienziato
— mi accorgo che lei soffre di
endocrinobioetaosi
del
cervello
medio, con sindrome del superpiano
flocculotrasmettitore e conseguente
shock che le manda onde alla centrale
termica.
Meraviglioso!
Emolliente!
Il
pubblico in sala applaudì.
Alfonsa fiatava forte. E lui
proseguì:
Tutti sanno della mia età biologica
trent’anni. Ebbene, la possiedo da
quando ero un bambino di sei anni.
Invece adesso eseguirò su di lei
l’esperimento di e biologica reverse.
Ah se sapesse! Dulbecco, Modigliani,
Montalcini, Fo li ho inventati io. Con
la pila...
- Ma... - scandì Alfonsa, e precisò: glu gglu glu.
- Le spiego. Con la mia terapia le
farò raggiungere immediatamente
un’età biologica di centovent’anni,
che potrò mantenerle inalterata per
altri cinquant’anni.
Nel frattempo si presentò una
segreta con la scollatura fin sotto ai
ginocchi che annunciò: - C’è altro
consulto in linea.
- Ho visto tutte le sue trasmissioni
all’ora di cena, “La colite ci chiama”!
strepitò estatica Alfonsa.
Ma lui imperterrito tagliò corto:
Troverà
all’uscita
i farmabra-
cadabranti che le prescrivo per
ripristino
dell’accensione
a
iniezione variante e conseguente
fluidificazione
dell’indotto
presfinteroippoassirofrenico
dell’endocauterio di primo-talamo del
cervello medio. Li pagherà alla cassa.
E le mostrò la mano destra, messa a
taglio, un po’ pendente verso il basso.
Poi la scosse colpendola da sopra, con
palmo piatto della sinistra, all’altezza
dell’articolazione del polso. Ad ogni
colpetto, la destra si levava e si
metteva tesa, a bandiera, funzionando
anche da freccia indicatrice di
direzione. Scientifico ed anatomico
segnale, bulbo-regolato dal cervello
medio, per dire che ilconsulto era
chiuso.
La linea fu passata alla nuova
paziente. La quale iniziò a parlare
alitando sulla cornetta: - Prontooo...,
sono Cittina, da dove chia... ah aah
aah?
Frattanto Alfonsa aveva già perduto
l’audio, il video, e il rimasuglio del
bulbo
del
cervello
medio.
L’elettroencefalo-gramma della sua
zona di primotalamo era divenuto
extra-piatto.
Rientrò a casa in ambulanza e
barella
Cammilina, in segno di inossidabile
fedeltà, cominciò a strapparsi quei
capelli che di solito riservava per
condire il brodo dei padroni.
Pompeo fece finta di niente; fece
finta di leggere il giornale e di
guardare la tivvù; fece finta di aver
capito. Il rimasuglio del suo cervello
medio era un attimino fermo. Pensava
che Alfonsa si sarebbe presto ripresa e
che anche quella sera, all’ora di
andare a nanna, essa - al solito avrebbe indossato l’abbigliamento
consigliato dalla rubrica della rivista
femminile preferita: un paio di
stivaloni neri a mezza coscia, un
braccialetto
da
gladiatore,
e
nient’altro; e che lui — al solito avrebbe detto le sue preghiere e si
sarebbe addormentato. Al solito.
Preso da questi pensieri non notò lo
strano ticchettio; non si avvide
dell’aumentare della frequenza di
oscillazione della sedia a dondolo con
vegliarda, indicante che a bordo la
comandante Campana era innervosita
dall’agitazione dei passeggeri del suo
jumbo.
Ebbene,
fasten
seat
belts.
Allacciatevi le cinture. Anche le
scarpe, le fibbie, tutto. Le mutande chi
le ha.
L’indomani mattina, dopo una notte
piena di sogni su pozioni miracolose
ed unguenti rivitalizzanti, Alfonsa e
Pompeo trovarono la sedia a dondolo
vuota. Ancora oscillante.
Sì, vuota! La vecchia non c’era più.
Volatilizzata.
La confezione di pannoloni fu
trovata intatta al suo posto. Il cornetto
acustico giaceva abbandonato a terra,
in un angolo, come pure la cuffia ahi fai e il telecomando.
Malgrado le ricerche della polizia
scientifica, l’Interpol, le trasmissioni
di “Chi l’ha visto?”, i paragnosti e i
chiromanti, un consulto del mago
Silvan, della vecchia con le cerniere
arrugginite non si ebbe più notizia.
Scomparsa. Dissolta nel nulla.
Terza e ultima puntata
Passarono alcuni anni da quando la
vecchia si era volatilizzata.
La sua sedia a dondolo con servizi
fu messa all’asta nella gara di
solidarietà televisiva < Teledò >, e il
suo cornetto acustico fu destinato alla
raccolta di offerte per la missione
umanitaria “Fregabaleno” abbinata
alla trasmissione < Teletiè >.
I nostri due eroi avevano
abbandonato ogni speranza di
ritrovarla, ma non demordevano sul
fronte del restauro del secsappill.
Quando imperversava la calu-ra
estiva, rigagnoli grigiastri, nerastri,
bluastri, rossastri, giallastri si
spargevano sul loro volto decorandolo
come quello di un Maori. Il sudore
scendeva da fronte, tempie, occhi,
naso, labbra, attaccando e sciogliendo
tinture, maskara, rimmel e unguenti
vari; e creando, con deodoranti e
dopobarba, una sinfonia di odori
estivi.
Sedute di fittness, di bodibbudding
e, a casa, di aerobbica, non si
contavano. Alfonsa si era fatta i
polpacci di Maradona e i bicipiti di
Tyson, mentre nelle parti restanti
mostrava
il
proprio
scheletro
all’atterrito Pompeo. Questi portava
ogni mattina la sua pancia montata su
due gambette corte a fare futingh; e la
sera tornava stanco dal quotidiano
massaggio che prometteva: “Nudo
sarai bello!”.
Pompeo aspirava il brodo dalla
punta del cucchiaio per non fare
scolorire i baffetti tinti. Alfonsa,
invece, il brodo lo beveva con la
cannuccia, a causa delle labbra che,
per le cuciture del chirurgo svizzero,
si aprivano soltanto a fischietto. E
così ogni sera, a tavola, essi comunicavano in un loro codice segreto, fatto
di grugniti, gorgoglii, suono di
masticazione di sedano crudo.
Ormai colloquiavano col televisore
soltanto. Un giorno telefonarono in
diretta a Giucas Casella per fargli
ipnotizzare il gatto di casa.
Ma una sera, mentre essi erano
intenti a trasmettersi i loro messaggi
cifrati, si udì il trillo del campanello di
casa. – Chi è mai a quest’ora? – si
domandarono.
La fedele Cammilina andò ad aprire.
Poi si udì un guaìto, come quello di
un cane al quale pestino la coda. E per
annunciare la visita, nella sala da
pranzo, anziché l’intera Cammilina,
rientrarono per primi i suoi occhi,
tanto erano strabuzzati. Poi la serva
arrivò,
completa.
Disse:
Hauiiiooohhhuuuiii!!-.
Gesticolò
freneti-camente emettendo fischi,
suoni rauchi, qualche singulto seguito
da sibili, mentre a gambe aperte e
piegate, ella si batteva le mani sulle
cosce. Sembrava un giocattolo di latta
caricato a molla. Poi eseguì due danze
tirolesi, si sventolò con le vesti,
squittì, sbavò, e finalmente, dopo
avere salmodiato una serie di – Uh ih
ah ah ! - stramazzò a terra, stecchita.
A questo punto si consiglia ai signori
lettori, ansiosi di conoscere la
sorprendente piega che hanno preso
gli eventi, una pausa dall’estetista.
Oppure alle ‘ascine, per fare futingh.
Si udì la voce dell’ospite inatteso
dire: - Conosco, hum hum, la strada,
hum hum
.
Ed entrò. Con tutto il corpo di
profilo. E la criniera rossa. E la traccia
di vestito, il perfido, che, casualmente
aperto su un fianco, dall’ascella
all’inguine, copriva la rimanente
mercanzia del melodioso corpo di girl.
Ella aveva labbra che sembravano il
bordo di un canotto rosso fuoco. Per
questo quando parlava sembrava
ciucciasse una enorme caramella, e
faceva uhm uhm.
Alfonsa e Pompeo rimasero con
cannuccia e cucchiaio a mezz’aria, a
bocca aperta, e con gli occhi spiritati.
La fatale dimenò il duodeno, scosse
la criniera, mostrò la faccia di tre
quarti verso la platea dei due
esterrefatti telespettatori, adoperò il
sorriso
numero
ventuno
bis
ammortizzato, e si sedette. In maniera,
bisogna
precisare,
tecnicamente
perfetta. Accavallò le gambe!
Pompeo si riprese dalla paralisi. E
divenne un diluvio di cachinni; un
vero delirio. Respirava come se
soffocasse. Sgocciolava.
Alfonsa
assunse
l’aria
del
barbagianni. Fece pressappoco così: Hau u u u, - poi sventolò col
tovagliolo Cammilina. La quale aprì
un occhio, poi l’altro, scattò in piedi e
applaudì.
Sì, per chi non lo avesse capito era
“lei”, seduta sullo sgabello e con le
gambe accavallate. La quale, avendo
accavallato le gambe, poteva attaccare
a parlare. E lo fece.
- Sì, miei cari, sono io, Alba, hum
hum, l’autentica, esclusiva Alba
italica, “la Parietti”, uhm uhm, chiocciò, accatti-vante, mentre con il
silicone a forma di labbra imbronciate
cominciava a degustare l’inesistente
caramella.
Espettorante,
declamatoria.
E
proseguì: - Ma su, andiamo, non mi
avete ancora riconosciuta?
Pompeo la scrutò e cominciò a
emettere il suo caratteristico gemito
agghiacciante di carrucola arrugginita.
Sbavava.
- Sì, sono Alba ma ero… ero…
indovinate… - disse lei capovolgendo
la criniera e scoprendo un lembo di
pelle sulla nuca che, premuto un
pulsante segreto, si aprì come il
coperchio di una scatoletta a molla.
Apparve una pelle raggrinzita e una
voglia di cozze. La sola che l’avesse
era…
- La nonnaaa a a a ! – echeggiò
Alfonsa, diventata bluastra.
Pompeo si dimenava come un
ballerino di tango. E poi voleva
sapere. Era chiaro che il segreto della
nonnetta costituiva la sua ragione di
vita. Scoprirlo era il solo scopo della
sua esistenza.
– Ero la nonna, sei anni fa, proseguì la fulgida, - ma adesso sono
io, l’autentica, esclusiva Alba italica.
Una trasforma-zione? Macché. Ho
ritrovato il mio self, il mio essere
donna, il mio “genere”; ho compiuto
un percorso “di genere” al femminile.
- Tu? La rossa che fa smaniare gli
italiani? Ma se sembri un viado! Ah,
la vecchiaccia! – vociferò invidiosa
Alfonsa che non aveva ancora
recuperato un minimo controllo del
self.
- Eh sì, - replicò la fatale, facendo
un assolo di labbrone imbronciate: Hum hum.
- Ma ci dica, - disse Pompeo, trascurando l’occhiataccia torva della
moglie, - ci dica, quale nuova opera
prepara?
- Non posso parlare, per ora.
- Segreto?
- No, mi cadono le labbra, - disse.
Fece una pausa per iniettarsi una
siringa di silicone nel fiammeggiante
bordo di gommone sotto il naso, e
aggiunse: - Hum, hum, è la necessaria
manutenzione giornaliera. Ma sono
ancora in garanzia.
Essa aveva compreso l’ansia di
conoscenza di Pompeo. Gli lanciò lo
sguardo numero 43 bis rinforzato, con
inclusa sistemazione di un pendulo
boccolo rosso della chioma. E
continuò a dire: - Sono stata nella
famosa clinica di Noom Màda Kaskar,
dove opera il professor Guardhomar
Q’uantebel, il quale, scuci di qui,
taglia di là, ricuci di lì, tira per qua, mi
ha restituito il mio fascination.
Poi prese un’altra siringa, la
conficcò, si siliconò la scollatura, e
riprese a dire: - Dopo altri lavori di
restauro a Noom Màdak Askar,
tornata in Italia, appena compiuti
trentuno anni, che ho da novantadue
anni, ho iniziato la carriera in TV. Lo
studio fatto sulla sedia a rotelle mi è
servito a capire tutti i segreti del
mestiere.
Pompeo, ormai preda della più
scatenata frenesia, ansimò: - Cosa
fanno a Nooomm… come si chiama
quel paese?
- Noom Màdak Askar, appresso
Hong Kong e lo stretto dei Sargassi…
- essa rispose. E sfoderò per lui, con
l’intento di liquefarlo, il sorriso con
sguardo in-corporato numero due
turbo-modificato: il grande slam per
cretino che ha perso la coscienza di
cretino.
- Nella clinica – essa continuò a dire
– sfornano almeno tre Alba come me
e fino a due coppie di sorelle Carlucci
ogni anno, per l’esportazione nei paesi
sottosviluppati. Fabbricano anche
tanti Mino Damato che vendono
nell’isola di Pasqua, dove li usano
come totem al posto dei veri totem di
pietra, tutelati dall’ente turistico
nazionale. Gli indigeni li sottopongono alla prova del fuoco nelle
notti di luna piena trasformati in Mino
Damianto; oppure, spacciandoli come
totem autentici, li riservano ai turisti
imbecilli e cesellatori, i quali possono
liberamente inciderli sulle chiappe, a
pun-ta di temperino, col loro nome,
cognome, indirizzo, data di nascita e
data della visita, o con cuoricino
trafitto da freccia. Fabbricano pochi
Biscardi biondi, ormai poco richiesti
anche dal Ghana, ma molto adoperati
nella stessa clinica per il controllo di
qualità dei prodotti. Infatti servono
per collaudare la tenuta delle suture
del lifting di viso e labbra: basta
mostrare e far parlare un Biscardi, e
nemmeno una mummia egizia può
esimersi dallo sganasciarsi dalle
risate. Per questo ogni esemplare di
segnorina uscito dalle magiche mani
del professor dottor commendator
Guardhomar Q’uantebel è sottoposto
alla “prova Biscardi”: se tiene e non si
rompono le cuciture è buono e si
consegna.
Che
tecnica,
che
organizzazione… hum hum.
Pompeo voleva sapere qualcosa
sul luminare che con ago e crine di
cavallo aveva trapunto una parrucca
naturale sulla teca del noto ancor-man
e sciò-man televisivo Peep Bawoodd.
Ma per mostrarsi spettatore televisivo
disinteres-sato, balbettò: - E Raff
raff…
- Uffa, la Carrà? - essa rispose con
aria di sufficienza - Da quando fuggì
dalla casa di riposo, trent’anni fa, e si
è rifatta l’ombelico, è fuori
produzione. I fondi di magazzino
rimasti servono a qualche paese
socialista. Mancano perfino i pezzi di
ricambio,.
Alfonsa tremava in tutte le sue
gelatine. Indignata. – Mamà! La
diroccata
delle
meningi,
la
vecchiaccia, ah!, con la cuffia. Eccola
qua, eccola là sul video, tutta rossa
fuoco, che parla, parla, che dà le sue
opinioni, opinionista dei miei stivaliii!
– sbraitò.
Essa aggiunse altre vituperie prima
di essere interrotta dalla fatale che
sussiegosa disse: - Ma Alfonsa, che ti
prende? E’ questo il ringraziamento
per la mia visita? Oggi riposo la mia
intelligenza, come da libretto di
manutenzione. Come avete ben
appreso io sono molto, molto
intelligente. Hum hum. Spargo
opinioni. Opinionizzo su tutto.
Pompeo intanto faceva tremare la
sedia con la sua prostata. Disse: - Sì,
sì, intelligente, intelligente sei! Sai
tutto, parli di tutto, opinionizzi su
tutto. Sei esperta su tutto. Il tuo è
pensiero allo stato puro, inguinale;
distilli dal tuo collant verità
universali; sei una scuola d’Atene,
una corrente di pensiero, un
abbeccedario dello scibile. Come fai?
La sua calza sinistra ebbe un
singulto. Rispose: - Semplice. Nel
trattamento del professor Guardhomar
Q’uantebel è com-preso un cervello a
svitamento
centrifugo,
con
inserimento
di
grammofono
miniaturizzato. Tutta questione di
micro-chips.
Infatti
sono
programmata. Vuoi che dica la mia
opinione sull’aborto? Attivo il
commutatore x2zy del circuito
nascosto nella palpebra sinistra, e
appena accavallo le gambe –
sinistrdestr – il disco comincia a
trasmettere fesserie sull’aborto. Vuoi
che io divenga esperta di calcio?
Subito: basta che io inverta
l’accavallamento – destrsinistr – e tiri
fuori la lingua di quanto ha
millimetricamente stabilito il bisturi a
Noom Màda Kaskar, uhm uhm, e io
parlo di calcio…
Pompeo già batteva freneticamente i
piedi. Era passato al tango. E al “tu”:
con occhi sognanti, muovendo appena
le labbra sussurrò alla fatale: - Dimmi
cose di sinistraaa…
Alfonsa, inviperita, prima di
piombare in deliquio nelle braccia
della
fedele Cammilina, parlò: Bella, sì, opionionista, eeeee secsi, e,
voglio dire, io lo eeeee sono ancora,
diciamo, anzi eeeee di più voglio dire
adesso. Tu ricorderai quanto, eeeee,
da ragazzina, bella voglio dire io fossi
(Alfonsa sfoggiò la sua preparazione
televisiva, e mostrò come anche lei
fosse capace di parlare allo stessa
maniera delle attuali ministre della
repubblica nelle interviste e nei talchisciò tv). Diciamo che scompariresti.
Eeee vi farò vedere le mie fotografie
di allora!
- Menti! - chiocciò la vegliarda
madre che a colpi di tinture, massaggi,
tagli, cuciture e materiale plastico era
stata trasformata in segnorina nella
clinica del celebre Guardhomar. Finse
di essere crucciata sotto la maschera
astringente.
- Sì, menti. Perché, quando tu eri
bella, onorevole Alfonsa, la fotografia
non era stata ancora inventata, –
ribadì Pompeo alla maniera di Bruno
Vespa. E, ormai sbavante, guardò con
un sorriso ruffiano da primo ebete
della classe la pupa suocera per
riceverne una sventolata di ciglia di
approvazione.
La pupa dalla solita, inesistente
caramella in bocca gli sussurrò a
labbra chiuse come se masticasse
purea: - Dimmi cose di destraaa…
Poi mostrò la dentiera e proclamò: Un uomo così intelligente, fra tanti
intelligenti che circolano, non l’avevo
mai incontrato. Ed io, come ho detto
nella
mia
recente
intervista
opinionistica, conosco soltanto la
passione, non l’amore.
Infine gli lanciò un’occhiata a 220
volts che per poco non le scaricò le
batterie installate a Noom Màdak
Askar.
Alfonsa gemeva. Aveva perduto
ogni controllo del self. Cammilina la
cullava fra le sue braccia. Nel
frattempo la rossa, essendo di casa,
andò in cucina e riapparve a cavallo
della scopa. Afferrò Pompeo, lo mise
a cavalluccio dietro e s’alzò; volò via
per la finestra aperta. Traversò l’aria,
le nuvole. Il comandante Campana era
decollato col suo jumbo. Responsabile
dei servizi a bordo: Pompeo.
Pompeo e la rossa divennero piccini
piccini e poi scomparvero. Andarono
lontano lontano. Per biodegradarsi
nell’in-finito, oltre le antenne e i
ripetitori tv, al di là delle frequenze e
dei canali.
Spray planetario. Che bucò l’ozono.
Epilogo.
Alfonsa ritrovò presto il suo self.
Dopo aver partecipato ai viaggi
oriental-esotici della Fesstours a
prezzi stracciati, con borsetta a
tracolla in finta pelle con logo
“Fesstours” in omaggio, e dissenteria
artisti di sicilia
DIECI ANNI? OLTRE.
Dieci anni. Un’infinità. Oppure un lampo, un battito di ciglia.
Sufficienti per ricordare, per dimenticare, significativamente.
Così è stato per Renzo Collura: dimenticato, ricordato artista.
Nella partita a scacchi col tempo, ora, nel decimo anniversario
della morte, l’occasione di una nuova “scossa”.
Mentre Grotte, suo paese natale, con il concorso di altre
istituzioni, estimatori e studiosi, è pronto con orgoglio a
rilanciare il gioco e a riappropriarsi del suo illustre figlio,
tentando di dare scacco matto agli avversari di sempre, all’oblio
e al disinteresse, incominciano a riaffiorare i ricordi.
L’ho conosciuto tardi, a Palermo, ma per un tempo sufficiente
perché nascessero amicizia e intesa. Le radici ci accomunavano,
originari entrambi di due paesi vicini, opposti e intersecantisi.
Nell’infanzia aveva frequentato le terre avite ricadenti in
territorio racalmutese presso un mulino ad acqua che non esiste
più. Rimase a suo modo legato al paese detto per antonomasia
“del sale e della Madonna del Monte”.
Con gioia perciò, alla vigilia inconsapevole del suo epilogo
terreno, subito dopo la presaga mostra palermitana “Processione
delle ombre”, espresse con il candore di un bambino il desiderio
di esporre i suoi quadri a Racalmuto.
Nell’auditorium “Santa Chiara” venne a scandire con passo
della
sala per commisurare alla
cadenzato profondità e larghezza
superficie delle pareti un numero consono di tele.
Per l’occasione, dipinse festosamente, in particolare “Memorie
di zolfo” e “Il vecchio mulino”, dove sembrano cadere le
cateratte plumbee della pittura precedente e che rappresentano
nella vividezza giallo-sulfurea di giovanili colori, nella serena
distensione di bianchi ricordi, l’inizio di una fase pittorica che
malauguratamente non avrà seguito..
Quell’evento, fortemente voluto, organizzato con meticolosità
e sfarzo, sfiorò, toccò la storia di un paese indaffarato nella
nostra quotidianità di sempre e non ricadde nella condizione
ipotizzata da Paul Valery: “...saremo approvvigionati di
immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un piccolo
gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano”.
Nella temperie di mostre e di pittori che hanno fatto tappa a
Racalmuto, patria tra l’altro di Pietro D’Asaro, il secentesco
dipintore serioso di scene sacre e di scene profane dall’alterna
fortuna critica misurata sulla lunghezza dei secoli, il ricordo della
mostra colluriana, dei suoi quadri, delle “sue” immagini, non ci
ha lasciato Ancora resistono echi di quel concerto visivo. Nella
sua pittura, abbiamo riconosciuto luoghi noti, cari emblemi;
rispecchiati, ci siamo ritrovati, ci siamo guardati, come non
sempre avviene, con altri occhi, con sguardo rinnovato. È stata
un’esperienza indimenticata.
E quanto più, penso, lo sarà a Grotte, dove Renzo Collura
approda conclusivamente da artista compiuto, per ricongiungersi
alle sue origini e inalvearsi, per la seconda volta, in un destino,
questa volta eminentemente pubblico.
Il destino, si vuole intendere, che avranno il ricordo di un
uomo nella coscienza dei posteri e la considerazione del suo
valore di artista.
Racalmuto, 30 settembre 1999
Piero Carbone
Dopo un periodo di non infecondo silenzio, il Comune di Grotte
si appresta a celebrare il decimo anniversario della morte di
Renzo Collura, pittore e studioso. Il prossimo 19 dicembre verrà
inaugurata una mostra retrospettiva, il cui catalogo-album
conterrà contributi critici e testimonianze di Giorgio Segato,
Cosimo Scordato, Aldo Gerbìno, Piero Carbone.
È prevista anche l’istituzione di una Fondazione da intitolarsi
all’artista grottese.
una pervicace speranza
Pirandello aveva scritto "La favola del figlio cambiato"; Melo Freni,
scrittore cattolico di lunga militanza, propone "La favola del paese cambiato"
(SEI, Torino 1995, pp.155). E se nel dramma pirandelliano un figlio buono e
bello viene cambiato, con inganno e sortilegio, da malefiche, fantomatiche
"Donne", in uno malformato e brutto, nel romanzo breve o lunga parabola di
Freni il protagonista, Giovanni, viene a predire e a sancire il cambiamento
inverso: il paese del dolore, della sopraffazione, della violenza, si riscatta in
un altro aperto all'amore, alla pacificazione, alla speranza. Ma quando? e
dove? Le parabole non hanno tempo. O forse no.
E' la scheggiata e bruciante realtà dei nostri giorni, la violenta cronaca
dei morti ammazzati, dei Falcone e dei Livatino ad essere assunta, manipolata, trasfigurata, resa romanzesca e duttile ad un messaggio: il paese (cioè
la Sicilia, ma non solo) è, finalmente, cambiato, speriamo che cambi
davvero, sicuramente sarà cambiato. "Il paese si è scrollata la paura e dice
quello che ha visto, che sa, che ha sopportato in silenzio, in questi lunghi
anni" (p.140). "Adesso basta. Ora è il tempo dei frutti" (p.149). Come dire:
è sempre tempo per la rivolta morale. In ogni caso c'è sempre spazio per la
testimonianza solitaria, anche a costo di divenire eroi o santi. E pertanto: nè
mafia nè sfruttamento nè altro. Una bella utopia! Infatti è solo una favola.
Quello che emerge è un pervicace ottimismo cristiano quando con la
stessa forza dell'utopia si rivendica il diritto a cambiare, a riscattare un
vittoriniano mondo offeso, a riscrivere nuove regole di convivenza civile. "Ma
proprio questa volta falliremo", dice Basilio alla fine. Gli risponde Giovanni,
artefice e interprete della nuova anima di un paese ormai cambiato, almeno
nel suo sentire: "Può anche darsi, Basilio. Ma io ti dico: le vedi quelle
montagne lassù? Sembrano scoscese, inaccessibili, ma se ci arrivi sotto,
neppure ti accorgi di averle incominciate a salire, vi trovi sbocchi, sentieri.
La distanza non confonde solo la vista, ma anche le idee. Bisogna avvicinarsi
alle cose, affrontarle per quelle che sono, non per quello che sembrano. Gli
inganni, il più delle volte, sono dentro noi stessi" (p. 148).
Ma sia chiaro, è su un orizzonte teologico da "già e non ancora" che si
schiude la realtà di questo libro. Tobia, il vegliardo che rimane, "il più
vecchio dei vecchi", così congeda il pellegrino Giovanni: "I paesi cambiano,
lentamente, è vero, ma ancora hai tanto cammino da fare" (p.151).
Eppure è lo stesso Tobia a scorgere sopra la montagna un'alba che
attende, "un filo di bava rosa nel cielo" (p. 152). Una conclusione che
interpella il lettore. Irromperà la luce o non basteranno gli occhi per
vederla? E', si diceva, una parabola, una favola bella.
A fronte di tanta letteratura siciliana che si compiace di stanche pose
ideologiche o di rumorose sonorità verbali, quella di Melo Freni è un'ansia
quieta, il tentativo personale di indicare narrativamente un altro sentiero, il
suo, per dare nuova rappresentazione della Sicilia, oltre i malinconismi bufaliniani, gli sciascismi ad ogni costo o le archeologie linguistiche poco consolanti di Consolo, oltre la perpetuazione, passata e futura, di una Sicilia
"gialla" o macchiettistica"
E' un segnale. La via è additata. Quest'opera di Freni potrebbe essere
l'inizio di un cammino. E non solo per lui.
Piero Carbone
dialetto e poesia
Il sogno della “koinè”
Il Professor Salvatore Di Marco, fecondo saggista,
studioso, scrittore e poeta palermitano, ci ha inviato
un suo vivace pregevole saggio, “La questione della
‘koinè’ e la poesia dialettale siciliana”, tema al
quale ha dedicato numerosi appassionati, spesso
polemici, interventi sul Giornale di poesia siciliana,
da lui fondato e diretto. Lo scritto qui di seguito
riportato, tratto dal saggio, ne costituisce una
chiara ed incisiva sintesi, ponendo all’attenzione del
lettore i termini della vexata quaestio.
C’è una questione che -sia pure situata
ai margini rispetto ai temi che in questi
editoriali sono stati trattati e poi dibattuti
dai lettori, perché forse in gran parte fuori
dagli interessi più pressanti- mi pare invece giunto il momento di riguardare un attimo, soprattutto per una esigenza di dare
piena chiarezza alla posizione di questo
giornale. Ed è la questione della koinè.
Infatti, il problema del dialetto così come
lo abbiamo posto comprende anche una
precisa idea sul tema di una possibile
koinè siciliana, della quale di tanto in
tanto si discute. Ed è appunto su questa
idea che oggi ci pare utile dare alcune
informazioni esplicite e trarre qualche
considerazione, con l’avvertenza naturalmente- che da queste colonne non
si pronunciano verità, non si proclamano
dogmi, si tiene invece conto di ogni
possibile opinione diversa e si sollecitano
sempre la discussione e il confronto.
Partiremo da alcuni dati di fatto, perché
a questi vogliamo massicciamente
attenerci piuttosto che alle idee che dei
fatti succede di tenersi in testa.
Il primo è che stiamo vivendo in Sicilia
una stagione estremamente ricca e felice
della poesia in dialetto. Nel senso che c’è
una presenza numerosa di poeti i quali,
invece di abbandonare l’uso letterario del
dialetto -come del resto, ci si aspetterebbe
in tempi nei quali i nostri maggiori studiosi dei fenomeni sociali della lingua
scommettono sulla graduale scomparsa
dei dialetti dal panorama dei linguaggi
italiani- lo preferiscono piuttosto come
strumento efficacissimo di creazione
artistica. Un fatto del genere può essere
spiegato in tanti modi, e c’è chi se ne è
già occupato: ma in questo momento non
ci interessa affatto di studiare il
fenomeno. Naturalmente, è all’interno
ditale grande quantità di poeti dialettali
che si registrano le opere di quegli autori
nuovi, impegnati fortemente sul terreno
del rinnovamento della nostra poesia sici-
liana, dai quali è lecito trarre il convincimento che la grande tradizione
letteraria della poesia siciliana in dialetto
continui anche ai nostri giorni. Ma
nemmeno questo fatto ci preme qui di
commentare. Il dato che invece constatiamo è che la stragrande maggioranza dei
poeti siciliani scrive le proprie opere nel
proprio dialetto. C’è chi lo fa con quella
piena coerenza dal punto di vista lessicale, ortografico e grammaticale che i nostri dialettologi tanto apprezzano, c è invece chi lo fa con più o meno rimarcata
approssimazione, usando arbitrarie ortografie, oppure introducendo consapevoli
trasgressioni alle norme. Ma ciò che predomina è la tendenza pressoché generale a
non usare un dialetto siciliano standard,
non una lingua siciliana comune in tutta
quanta l’isola, ma il dialetto della propria
città, del proprid paese quando non
addirittura un lessico di settore. Potremmo
qui citare a decine i casi di poeti del
ragusano, dell’area catanese, delI’agrigentino, del messinese e così via. D’altronde, si tratta di un fenomeno che è
abbondantemente presente in tutte le
regioni italiane. E sia sufficiente citare il
caso del dialetto di Pasolini, di Albino
Pierro, di Mario dell’ Arco, di Scataglini,
di Franco Loi, per ricordare alcuni dei più
grandi poeti dialettali di oggi in Italia. Può
non piacere questo fatto a qualcuno, ma
oggi in Sicilia la realtà è questa.
Succede però che -e torniamo alla Sicilia- ci siano dei poeti, qualche studioso
delle nostre parti, i quali si mostrano
preoccupati, ostili, polemici nei riguardi
di questo fenomeno. Essi propongono
invece che i poeti dialettali siciliani
debbano abbandonare i dialetti locali che
hanno scelto come lingua di poesia per
adoperare una lingua comune per tutti i
siciliani, una sorta di koinè alimentata dai
dialetti di tutte le province siciliane e fusi
insieme in un nuovo e coerente sistema
linguistico. La koinè -sentita in questo caso come lingua che accomuna, che unisce,
che elimina le differenze lessicali, morfosintattiche, soprattutto ortografiche, facilitando così la comprensibilità del dialetto
in tutta l’Isola- comporterebbe da parte
dei poeti l’osservanza di ben precisi
principi linguistici. E si è perfino proposto
un modello ortografico. Ma quale sarebbe
il modello linguistico suggerito?
I passaggi della proposta sono questi.
Storicamente parlando, e prescindendo
dal modello letterario che si può fare
risalire al Duecento, una prima indicazione -però dagli esiti infelici- viene
rintracciata nelle Observantii di la lingua
siciliana di Claudio Maria Arezzo
(Messina 1543) e successivamente nei
cinque volumi dell’antologia poetica
Muse SiciLiane di Giuseppe Galeano,
dove si dice che sarebbe consacrato il modello di koinè tradizionale E si afferma
che oggi un modello di koinè siciliana
potrebbe essere individuato nel dialetto
palermitano; non il palermitano così
com’è oggi, ma quello che risulterebbe
dall’arricchimento e dagli apporti di tutti i
dialetti siciliani.
Ci sono in Sicilia dei poeti che questa idea
condividono e ad essa si attengono -più o
meno coerentemente- per scrivere loro
versi. E un loro diritto, e se poi fanno
anche della buona poesia tanto meglio Un
po’ meno convincente è l’atteggiamento
di chi diffonde l’idea che fuori dalla koinè
ci sarebbero confusione rozzezza e caos.
Anche se siamo convinti che la koinè di
cui si parla è solo -rispetto al presenteuna immaginazione, un sogno, una
chimera che esiste nell’idea d chi se la
progetta in mente, perché, come si può
constatare, sono in tanti i poeti siciliani
che preferiscono scrivere nel dialetto vero
e concreto che hanno imparato a parlare
venendo al mondo; anche se siamo
convinti che una koinè non si crea nel
laboratorio letterario di poche anime
elette; anche se ragioni di carattere
scientifico ci fanno perplessi al cospetto
di quella idea, ci pare assolutamente
inopportuno tuttavia sostenere, alimentare
una polemica sulle idee che abbiamo circa
la impraticabilità della koinè e delle sue
incongruenze proprio da un punto di vista
linguistico e dialettologico.
Ci sono molte cose che il compianto
Giorgio Piccino scrisse nei suoi Elementi
di ortografia siciliana (Crisafulli Editore,
Catania 1947) e che ci sembrano ancora
di grande attualità per l’argomento che
stiamo trattando. Sarà però il caso di
ritornarci con più comodo, con più spazio
disponibile. Qui ricordiamo soltanto che
per l’illustre dialettologo siciliano “il
dialetto non ha né può avere un carattere
di uniformità... Il dialetto non è qualcosa
di astratto che si distilli da scrittori che
passino per classici ma è una cosa ben
concreta, in quanto si individualizza nella
parlata di ciascun individuo, di ogni città
e paese. Alla relativa uniformità della
lingua letteraria esso contrappone una
molteplicità senza limiti; e per quanto ci
sia uno speciale linguaggio a fondo
palermitano e a tendenza arcaicizzante
che passa per siciliano comune o letterario, esso non ha che una vita artifìciale
e direi quasi fittizia, né può imporre una
sua forma, tacciando come scorrette
quella delle altre parlate locali. Nella
letteratura dialettale hanno uguale diritto
di cittadinanza la lingua letteraria del
Meli il catanese di Tempio e Martoglio, il
chiaramontano di Guastella, come l’agrigentino del Di Giovanni
E il Piccitto non è certo l’ultimo
arrivato nella dialettologia siciliana.Ma il
discorso è ormai aperto. Continueremo a
parlarne.
Salvatore Di Marco
dialetto e poesia
 tarbunira (All’imbrunire)
è il titolo dell’ultima raccolta di poesie di Benedetto Di Pietro, il “fondatore” del sistema ortografico del
dialetto gallo-italico
 tarbunira
All’imbrunire
Na vauta s’arcaunta e si disg,
ô tamp d’u re d’i bàia
ghj’era a Maunt Sar
na màndra di vàcchi bleanchi.Gusci accurnunziva u zzu Arfian
u caunt di la mändra
tramurära ng’ar.
Una volta si racconta e si dice,
al tempo del re dei boia
c’era a Monte Soro
una mandria di vacche bianche.Così cominciava lo zio Alfio
il racconto della mandria
tramutata in oro.
-
Nièucc carusgì assitei,
â tarbunira, ô scalan di la parta
sprämu chi n giuorn
m’avàia acapter di vrar
na bièstia cun tänt di mulogn
ô cadd, scampanijer
ntô buscott di Gudura.
Noi bambini seduti,
all’imbrunire, sul gradino della porta
speravamo che un giorno
ci doveva capitare di vedere
una bestia con tanto di campanaccio
al collo, scampanellare
nel boschetto di Collura.
-Lavai a pighjer pi li carni
e tinarla fierma, masenanqua
sprisc. Ma se ghj la fai,
acumanzu a passerv davänt,
una, daui, ciant väcchi,
li ciarvedi, i chiei,
li scioschi d’u dät, i quadirì d’u rräm,
tutta la rrantidarìa
e a mèan a mèan si chiéngiu ng’ar fìan.
Dovete pigliarla per le corna
e tenerla ferma, sennò
sparisce. Ma se ce la fate,
cominceranno a passarvi davanti,
una, due, cento vacche,
le caprette, i cani
le fiasche del latte, le caldaie di rame,
tutta la mandria
e mano a mano
si tramuteranno in oro fino.-
-
Mi suntimu giea rricch, ma ogni sara
si rrumpiva u ncantiesim
quànn mestr Antunìan turnàva di la campegna
a caveu di n scecch cilàrb cu n fesc d’aiàna.
Anämu a rruberghjla pi ferm li sampogni
e tutt li vauti eru santiuòi e giastomi,
chi m’avàiu a cascher ghj’uogg
pircà ermu fighjuoi di gràan baiesci.
Ci sentivamo già ricchi ma ogni sera
si spezzava l’incantesimo
quando mastr’Antonio tornava dalla campagna
in sella ad un asino guercio con un fascio d’erba.
Andavamo a rubargliela per farci le zampogne
e tutte le vo/te erano bestemmie e imprecazionj,
che dovevano cascarci gli occhi
perché eravamo figli di gran bagasce.
U rritràtt
Il ritratto
La fraunt ièuta, u neas a cracch,
u barbaratt spartì a n duoi,
i mustäzz a carni di tar partiraur.
La mièuzza di vilut n testa
avarära saura di n’arògia
da parar n balarìan di grèan talant.
U cuder c’u ptureu di camìsgia
cun nant darrier,
suota d’u giacot nar,
e n’espressian da patran
di tucc i stäbu di la cunträra.
Cuscì avoss a èssir u rriträt
di mi catanänu: n cristijen
pavr di saccota, ma rricch di rrispiet.
Benedetto Di Pietro
La fronte alta, il naso adunco,
il mento diviso in due
i mustacchi a corna di toro partitore.
La “mièuza “ di velluto in testa
girata sull’orecchio
da sembrare un ballerino di gran talento.
Il colletto col pettorale di camicia
con nulla dietro,
sotto il gilet nero,
e un ‘espressione da padrone
di tutti i terreni della contrada.
Così dovrebbe essere il ritratto
di mio bisnonno: un uomo
Povero di tasca, ma ricco di rispetto.
intermezzo
di lu nicu sinu a lu chiù granni.
‘Sti paiseddi ca ti stanu attomu
ca guardanu lu mari e la muntagna,
ccu tantu ‘ngegnu fòru fatti ‘n jornu
‘ntra li ricchizzi di ‘sta costa magna.
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Dio, Patria, Famiglia = i valori “bollati”, ovverosia “non c’è più
religione!”
Il vino del Conte va consumato a temperatura abbiente
Il caro-taxi = fermate il conto, voglio scendere!
Hai mai vinto al lotto? = io? Nemmeno per... sogno!
Còmpito in casa = l’assegno integrativo
In molti cimiteri = si scopron le tombe, si levano i morti
Fecondazione artificiale = la corsa all’ovo
Proposta da un’associazione animalista la mattanza di Favignana
con finti tonni di plastica = non avranno scambiato la mattanza
con l’opera dei pupi?!
Contraddizione in termini = fare bella (!) mostra di sè
11 “tocco” di una volta all’osteria = la secondazione in litro
Da un quotidiano nazionale: “Nella fotina (sta per “foto piccola”
n.d.r) l’on. pinco pallino” = a quando “motina” per motoretta?!
Si racconta che ad un parlamentare siciliano, noto per la sua
scarsa dimestichezza con grammatica e sintassi, nel corso di un
comizio sia scappato detto: “.. .quando abbiamo stato a
Roma...”. Al suo portaborse che, con una furtiva gomitata, gli
suggerisce “siamo stati”, dubbioso borbotta: Jddu tu ccu mia eri?
La zootecnia in Italia = è in una fase di stalla
La scuola di oggi (e di ieri) = l’ufficio promozioni
La grammatica a scuola = si studia per (il) modo di dire
Il concorso per primario ospedaliero = la corsia di sorpasso
La riforma della pubblica amministrazione = stato freschi!
Per entrare alle Poste = occorre la laurea in... lettere!
A piedi, con le scarpe strette = si cammina obtorto callo
L’orologiaio = un commerciante al... minuto
La merceria = la stanza dei... bottoni
Scommesse all’ippodromo = il dado è trotto!
La giuria al Giro d’Italia = ci vediamo doping!
Quando il caffè riesce “lento” = il barista si è espresso male
Il dietologo = soddisfatto se riesce a fare una magra figura!
Lo spuntino del dopoteatro = il cacio della buonanotte
Ferrovie sotto accusa = processo per direttissima
Il semaforo segna verde = l’autorizzazione a procedere
Per strada
Un uomo nero, non più giovane, un vu’ cumpra’, mi viene
incontro offrendomi la sua povera mercanzia.
- No, non insistere, non mi serve niente...
-Nessuno compra... -lamenta guardandomi negli occhi- dammi
qualcosa, per mangiare...!
Tirando fuori della tasca un fascio di biglietti da mille, gli ho
dato “qualcosa”. E mi sono vergognato.
Io
Paesi di Sicilia
Iu si’ lu granni di tutti li Jaci (Aciriali)
Si’ comu ‘na lumera a novi micci
e di lu centru lo to luci spanni,
a tutti lu cugnomu to ci dasti,
C’è Lucia, Catina, Fulippu e ‘nNtoni
ccu Platani ca è lu nicareddu,
Bonaccursi ‘n testa a lu balcuni
e a la marina Trizza e Casteddu.
Mittennu ‘nsemi Isula e Ciclopi
-ca spicchiulìunu ‘ntra l’acqui purifanu di curnici a ‘ssu gran quatru
ca pingiri ‘un lu sa nuddu pitturi.
Peppino Marano
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“A Graniti””
di Aristide Casucci
Nta Sicilia c’è na vaddhi
chi tutt’u munnu fa ‘ncantari,
ci curri un ciumi friddulinu
cu so scrusciu sauta e canta
di la sira a lu matinu
e scava i petri da tant’anni.
Filagnati di biddizzi
su’ i paisi ch’iddu vagna
acqui duci di muntagna
genti bboni e gimrusi.
Ciuri di maiu e cirasi ’i l’acquavini
fannu iazzu fessiri e cucugghiati;
nta jnestra spalassara su mmucciati
merri, strunedda e beccaccini.
Nta sta vaddhi c’è ‘npaisi
chi fu fattu di Sicani, vecchiu,
natu di na funti com’u ciumi:
GRANITI,
patre di burdunari e stagnatari.
cu si ferma un minuteddu
nta calura ‘i menzujonnu
supra u bordu du Pitrolu
senti a buci di Stinchinu
e li zzocculi du so mulu:
-tuc toc, tuc toc, tuc toc.Me cumpari, unne annate?
-Vaiu a Finaita e dopu a Muscianò,
ma, stasira stissa ‘cchianu
pila festa ‘i San Bastianu,
comu voli Diu e Maria.
Jurnata rutta pirdila tutta.
...E antrasattu nu scrusciu ‘i luntanu
fa vulari na picca ‘i spunsunedda;
su i carusi cu la troccula nta la manu,
vannu puttanu, praneta nto ventu,
la so felicità, vanedda vanedda,
sutta u suli caudu di l’austu sicilianu.
Curiosità
prestai un libru, bench’io me ne pento,
ad unu: et quandu e’ lu appi assay tenutu,
et illu mi dissi mi lu avia rendutu,
undi cunvenni a mi essiri cuntenti.
Però nixunu mi cherki in presenza
azochì non m’avegna, comu soli
k’io perda un libru et anco l’amistanza...
(sonetto cantato dai musici del ‘400: come
si può notare, nulla di nuovo sotto il sole)
radici
“Al centro della loro gloria”
(I Normanni in Sicilia)
Al centro della loro gloria i Normanni
furono in Sicilia.
Scorriamo le pagine del bellissimo libro
di Allen Brown, “NORMANNI”, -Edizioni Piemme- e vi troviamo l’origine
vichinga e la storia oltremodo interessante
dei guerrieri del Nord.
Allen Brown è stato professore di
Storia al King’s College dell’Università di
Londra ed ha scritto vari saggi su questo
popolo dell’Europa settentrionale. Desidero subito precisare che trovo in lui una
vibrante partecipazione alle vicende complesse e pur semplici di una straordinaria
classe di uomini-guerrieri che hanno enormemente influito sulla storia dell’intera
Europa, a partire dal X secolo.
Parafrasando le parole di Allen Brown
possiamo dire che i Normanni furono
fortunati a espandersi nell’XI secolo, periodo di esuberante sviluppo in ogni campo: essi, audaci per natura, pronti all’avventura, ardentemente desiderosi di
possedere terre e con estrema voglia di
viaggiare, colsero ogni opportunità nel
coraggioso nuovo mondo dell’Europa
feudale e portarono la loro “Normanitas”
dal nord al sud del continente europeo,
spingendosi nel Mediterraneo sino alla
Terra Santa al tempo delle prime Crociate. Possiamo anche dire che la conquista
dell’Europa meridionale e della Sicilia fu
l’impresa più romantica della storia del
vecchio continente, la più densa di
affascinanti leggende e di vicende di
incredibile coraggio. La cristianità normanna si ispirò sempre più a quella latina
e questo forte spirito religioso è in fondo
l’essenza più vera della sopraddetta “Normanitas”. I Normanni incarnarono con
facilità il sentimento del loro tempo radicato in una religione sentita e proclamata, ed oltre ad una fede davvero ammirevole ebbero abilità tecnica e, in generosa dose, magnificenza e orgoglio combattivo. Essi fecero della Normandia la
loro terra promessa, fondandovi il principato feudale più importante della Francia, invasero con la benedizione papale
l’Inghilterra e, come alleati del Papato,
costruirono i loro principati in Italia e in
Sicilia sino ad ergersi campioni della
nuova concezione della guerra santa, in
virtù della quale giunsero ad assalire le
città di Antiochia e di Gerusalemme. Così
dominarono i loro tempi.
Allen Brown, riferendosi alla conquista
dell’Italia meridionale e della Sicilia, scri-
ve che essa fu .... . completamente conseguenza di un ‘impresa privata, quando
singoli cavalieri e le loro relative
compagnie uscirono dalla Normandia per
cercare fortuna al sud”. Per mettere in
rilievo il valore dei campioni Normanni,
lo storico inglese precisa: “Le fonti ditale
periodo diedero molto risalto ai cavalieri
a cavallo e giustamente, poiché fu grazie ai
cavalieri che la vittoria fu possibile. - - e
che l’immigrazione normanna in Italia...
soprattutto un afflusso di cavalieri e una
‘esportazione’ di cavalleria. “.
Per sottolineare il forte senso della
fede normanna, Allen Brown scrive
ancora: i Normanni divennero presto i
difensori della Chiesa latina, come alleati
del Papato e alleati e patroni dei grandi
monasteri longobardi e latini esistenti...”.
E poi, sulla detta conquista, precisa che
essa “... fu accompagnata in modo singolare
da una grande serie di costruzioni e
ricostruzioni, paragonabili ai programmi
appunto, di costruzioni eseguite in Inghilterra dopo il 1066 e, appunto, nella stessa
Normandia durante l’XI secolo.” E poi: si
suppone che il numero dei castelli fondati
durante la lunga conquista sia stato in
‘competizione’ col prodigioso numero
costruito in Inghilterra e nel Galles nei
decenni successivi al 1066. Comunque le
chiese e le costruzioni di palazzi secolari
in modo particolare a Palermo e intorno
alla città hanno attratto le entusiastiche
attenzioni degli storici dell’ architettura e
dell’arte in questo paese come altrove...
In merito al successo di questi
guerrieri del nord, Allen Brown
evidenzia, con l’acume di cui è dotato, la
sua vera radice, scrivendo che: “... i
Normanni erano il popolo più eclettico e
poche furono le caratteristiche più
importanti della ‘Normanitas ‘se non
l’eclettismo.”.
Questi intrepidi guerrieri, peraltro,
erano
capaci
di
grandi
slanci
architettonici. Scrive ancora Allen Brown:
“Lo splendore interno della Cappella
Palatina nel palazzo di Palermo è stato
recentemente definito ‘un capolavoro di
felice eclettismo’ trattandosi infatti di una
forte mescolanza di antico cristiano,
dilatino, di bizantino e di arabo. Tali
costruziont in Sicilia in modo particolare,
rievocano la splendida frase di Jean
Decarreaux,che ha evidenziato la loro
capacità di dare espressione a ‘uno
spirito di sintesi spinto alla genialità ‘... e
impressioni di Vittorio Morello
riflettono
direttamente
non
solo
l’eclettismo normanno, ma anche, come
tutta l’arte e l’architettura, la società che
li generò,. emozionante, polìglotta e
multipla, una società che fu creata dai
signori normannt i quali la ‘modellarono’
poi secondo il loro volere. Coloro che
compirono la conquista normanna
dellIitalia e della Sicilia erano certamente
Normanni in modo predominante e consapevoli di ciò... Normanni quanto coloro
che conquistarono l’inghilterra...
Sulla scia delle parole entusiaste di
Allen Brown, ci sembra giusto concludere
affermando che i Normanni furono dei
magnifici cavalieri, nel fisico e nell’
anima, i quali in piccole compagnie seppero affrontare e sgominare grandi eserciti, con la loro innata abilità marziale.
Essi, con il loro genio e soprattutto con la
loro peculiare capacità eclettica, capacissima di assorbire e dominare le più varie
culture, conquistarono il mondo medioevale, riuscendo a creare -fra l’altro- quella che fu definita la brillante e straordinaria cultura e civiltà” del regno siciliano
del XII secolo, con la mirabile fusione di
tre mondi grandissimi: il latino, il greco e
il musulmano. E in ciò si avvalsero indubbiamente della loro eletta “Normanitas”.
Si rivelarono una grande aristocrazia
guerriera, che seppe dare ai propri tempi
l’impronta dei valori più alti concessi all’
uomo.
È così che, al centro della loro gloria
intramontabile, i Normanni furono in
Sicilia!
‘3
vetrina
L’aquilone triste
di Eugenio Giannone
Un tuffo nel passato alla riscoperta delle proprie radici, lasciate ma non dimenticate per le nebbie di Lombardia, sulle orme del
grande Quasimodo.
È quanto è avvenuto quest’estate nei paesi della Montagna Agrigentina (Alessandria della Rocca, Bivona, Cianciana, S. Biagio
Platani), dove ha esposto Lorenzo Maria BOTTARI.
“So di avere avuto coraggio ad esporre in questi minuscoli centri; altrove -e gli inviti non sono mancati- avrei guadagnato
parecchio. Ma questo è un omaggio, un atto d’amore verso la mia gente”.
Un’opportunità, la mostra, per ricongiungersi a quei quattro elementi, così evidenti in questo lembo della Sicania, che sono la sua
linfa pittorica, -qui hanno avuto il loro più grande e antico mentore, Empedocle-, e che, con le combinazioni di acqua, aria, terra e
fuoco, perpetuamente agitati da odio e amore, originano la vita e che, modernamente intrecciandosi e fondendosi sulla tela (o sulla
ceramica), danno corpo alla mitopittura del Maestro Bottari.
La Sicilia che vi traspare è la terra solare, patria del mito e di antiche e forti passioni, intense, in una simbiosi perfetta di realtà e
sogno.
“La realtà che diventa sogno ti lascia volare sulle ali della fantasia”, mi dice Lorenzo.
Forse in un mondo meno ipocrita o meschino, onirico appunto, che non conosce i compromessi e riacquista tutto il suo candore, la
sua innocenza. Traspirano infatti dalle opere del Maestro Bottari, oltre che un’accentuata sensualità, tanta 4elicatezza, espressa nelle
composizioni floreali (fiore = effimero?), e tanta voglia di dare e ricevere amore; ma si ha l’impressione che qualcosa sia andato stono,
che non funzioni.
C’è irrequietezza, inquietudine come di chi vorrebbe abbandonarsi alla gioia di vivere ma è rimasto scottato da profonde delusioni,
avendone vuotato il calice amaro, ricavandone un’indicibile tristezza che traspare dall’ “Aquilone” e talvolta anche dal viso del
burattino che diventerà uomo.
È una sensazione passeggera che ben presto svanisce per dare spazio alla levità degli angeli, ai cuori timidi d’amore, al potente
Cristo che, risono, viene librato in aria da celesti spiriti.
“I suoi colori sono vivi -ha scritto sul registro dei visitatori, in inglese, una donna-, un vero piacere della vista”.
Artista di livello internazionale ha saputo fomire un’immagine positiva della nostra Isola.
Una tematica, uno stile, quello di L.M.Bottari, che può non piacere, interessare un pubblico poco attento al suo tipo di pittura,
oscillante tra An Deco e Surrealismo e che fonde in eclettismo esemplare la lezione della vita e dei grandi Maestri che ne hanno
influenzato l’espressione (Guttuso, Cagli, Lam, Kodra etc.); ma che non può lasciare indifferenti.
Una pittura originale, unica, che ‘~a di Lorenzo Maria Bottari con la sua accesa e lussureggiante tavolozza”, che “insegue ed
accarezza i sogni dell’anima e i desideri del corpo” (A. Miredi) l’inimitabile Aedo del millennio che chiude.
“
“ROSI DI VENTU”
di Marco Scalabrino
(Pietro Tamburello – Siculgrafica, Agrigento 1998)
Il nome di Pietro Tamburello naturalmente evoca la stagione della Poesia Siciliana dell’immediato dopoguerra e l’esperienza d quel
gruppo di giovani, sorto a Palermo attorno a Federico De Maria, che, in un primo tempo appellato “Società Scrittori Artisti”, venne in
seguito denominato “Gruppo Alessio E Giovanni”. Stagione ed esperienza che -pure assieme a quelle contestuali del gruppo catanese
chiamato “Trinacrismo”- stanno alle fondamenta del rinnovamento della Poesia Siciliana.
Rinnovamento che inerisce alla forma e al contenuto e ch altresì definisce un’attenzione nuova, responsabile, della Poesi verso la
realtà. Rinnovamento del quale Pietro Tamburello stato uno degli artefici principali e di cui, peraltro, si è res testimone validissimo
nel suo volume del 1982: “LI MI PALORI”.
E nondimeno l’uomo (Pietro Tamburello è nato a Palermo ne 1910) e il poeta -la cui impronta comunque avrebbe figurato ne
boulevard universale dei Poeti- sanno trovare, ancora oggi, motivi, l’animo, il gusto di riproporsi, di calarsi nella tenzone, c rischiare:
“Lassatimi vulari / nzinu a quannu... l’ali... nun ti regginu cchiù.” (LU SONNU DI CHUANG TSE).
Con la puntuale prefazione di Antonino Cremona, ha visto luce, infatti, lo scorso gennaio -a distanza di sedici anni dalla prima
precedente opera- la nuova silloge di Pietro Tamburelk “Rosi di Ventu”.
Fragili boccioli in apparenza -il gambo mediamente non super i venti versi- esse, invero, sono ben radicate nel più fecondo de
terreni:
“la ninna duci di lu me’ dialettu” (AMARA E DUCI),
e penetrano e permeano “...casuzzi bianchi.., porti abbutatì (PAISI DI SICILIA),
per raggiungere e scuotere “chi ddi / cu la test ‘nfasciata di pacenza... ca supportanu zotta e puntaloru (DICITIMI MASSARU).
In questo humus -scevro da qualsiasi “mirabilia” fonografiche insistono le varietà più pregiate dell’arbusto:
la pace “... s’arrampicava ... pi disiu di la paci” (LII ROMITORIU DI SAN FRANCISCU AD ASSISI);
(LA LIBIRTA’) “... ‘na canzuna fatta / pi cantalla 1u ventu”;
l’amore “... ‘na gnuni di sta terra... avi sarvati l’occhi c mé matri” (AMARA E DUCI);
e dispiegano i petali nelle tonalità della malinconia, de crepuscolo, dello struggimento:
lu gruppu / di li me’ jorna persi” (ROSI D VENTU);
la malincunia / di li finesiri ‘nchiusi (SIRA DI ‘NVERNU);
‘na curdedda di pena / casi va spidugghiannu” (OGNI VOTA)
Ognuna di esse, peraltro, riceve le premure sollecite, attente meticolose dell’Autore: appassionato, espertissimo cultori “...vaju
‘ncerca di palori antichi”, “...ogni palora persa ‘n’anticchia di Sicilia si nni va” (L’ORGANU DI LU TEMPU).
Alcuni esemplari addirittura vantano l’attribuzione di un. identità ben precisa: Chuang Tzu (filosofo cinese del IV secolo a.C.),
Jorge Manrique (poeta spagnolo del XV secolo), Federico Garcia Lorca, Omar Khayyam (poeta persiano del XII secolo) e ancora
quelle, a noi più vicine e meglio note, di Giuseppe Mazzola, San Francesco e Carmelo Lauretta.
Ma tutte, parimenti degne, sfilano nella rassegna disciplinatamente:
-Ma tu ventu tu ventu chi nnifici
di li pampini sicch i?
Nun tu dumannari;
‘nzinu a quannu lu tempu
è un firriu di jorna e di nuttati
pila pampina nova è ancora t’arba
e pi l’avutri è sonnu senza finiI
(LI PAMPINI SICCHI)
....
dintra mura di ventu.
...
‘Na coppula senza risettu
supra tanti pinsera.
...
pari c’addumannassiru pirdunu
d’essiri puvireddi
(LI PUVIREDDI)
Un’unica, suadente fragranza ammanta questo delicatissimo bouquet con traduzione in calce: la fragranza della Morte: ora pacata
attesa “... aspettu cuetu... l’urtimu cucù” (LU ROGGIU ‘NTESTA), ora sospirato capolinea “l’appuntamentu cu la tibirtà” (LU SANGU
DI GARCIA LORCA), ora ultraterreno spiraglio “Poi... attrova n‘autra vita” (LU CIUMI).
Rosi di ventu.
Rose.., senza spine.
L’Avvocato
Paese che vai.., avvocato che trovi.
Le facoltà di legge e di lettere erano le più affollate perché non comportavano una frequenza assidua; si potevano studiare le
materie a casa, frequentare il minimo indispensabile per la “firma” e poi sostenere l’esame. Per i non abbienti una vera manna.
In paese i dottori in legge erano tantissimi: qualcuno era diventato manager di importanti industrie o magistrato o era rimasto in
ambito accademico; altri si erano impiegati in vari uffici pubblici, qualcuno insegnava francese; altri ancora esercitavano la
professione libera; ma l’avvocato per antonomasia era lui, che non era riuscito a prendere la laurea.
A sentirlo, gli mancavano solo una materia e la tesi, da cui lo distraevano altri impegni. I più maligni, che lo conoscevano bene,
avevano indagato e scoperto che in dieci anni aveva sostenuto solo pochi esami complementari.
Le sue compagnie erano rappresentate da contadini e operai poco acculturati che, con la sua favella, in qualche modo, riusciva ad
irretire utilizzando l’avvocatese delle frasi apprese a memoria su quei pochi testi che avevano avuto la fortuna d’essere da lui sfogliati.
E parlava loro di consorzi, cooperative, contributi CEE, governativi e regionali. Il presidente della società sarebbe stato naturalmente
lui, che avrebbe pensato ad arricchire tutti. Indispensabile che avessero piena fiducia e gli affidassero i loro beni per amministrarli.
I paesani, come d’altronde tutti i contadini meridionali, anarchici e diffidenti per natura, lo ascoltavano pazientemente, annuivano
con la testa e continuavano ad operare com’erano abituati.
Quel “grosso affare” che aveva per le mani non incantava proprio nessuno.
A raccontar frottole aveva iniziato già ai tempi della scuola superiore, quando aveva smesso i pantaloni corti e illustrava a
compagni e amici le sue mirabilie di dongiovanni e cacciatore.
Un giorno con una pallottola aveva preso una cuturnice, che stava appollaiata su un ramo, e il coniglio che era sotto.
“Perché racconti panzane”? -lo rimproverò un giorno Peppe. -Credi che gli altri siano scemi”?
“Tutti hanno qualcosa da dire” -si giustificò. -“Io non ho nulla e invento”.
Era sempre più isolato e inutili erano le strane pose di viveur che assumeva.
Vivacchiò per anni sollecitando il disbrigo di pratiche varie e con la pensione di uno zio; alla fine si ridusse a campare del poco che
gli rendeva il fazzoletto di terra ereditato dal parente, della generosità dei vicini e divenne maestro nell’arte del “leccare la sarda”, pur
continuando a fantasticare e a costruire castelli in aria, inventati forse per ingannare se stesso.
Ora il tiro dei discorsi si era spostato sulle virtù taumaturgiche del lavoro.., degli altri. Agli amici, pochi, che lo invitavano a cercare
un’occupazione, rispondeva sempre di attendere l’esito dell’ultimo concorso sostenuto, che non arrivava mai non avendovi
partecipato!
Sprecò così l’esistenza senza mai avere lavorato un giorno, crogiolandosi con quel titolo di “avvocato” che i paesani gli avevano
affibiato e che per lui volava dire essere tenuto in grande considerazione, al di là del significato che gli attribuivano i concittadini,
sicuramente non positivo.
Lo svitamento del cervello e forse i morsi della fame lo indussero, negli ultimi anni di vita, allo sproloquio, per cui, oltre a ritenersi
il corrispondente di un noto quotidiano, cominciò a vestire in modo inusuale, eccentrico, con occhiali scuri e ad intrattenere davanti al
bar, spesso su una sedia, il pubblico che gli rinfrescava la gola offrendo in continuazione birra’e alcoolici, che lo stordivano.
Divenne l’avvocato “Corvo” e chiuse i suoi giorni in un ospizio.
Eugenio Giannone
schede
Musici trapanesi del XVI e XVII secolo
di Ignazio Navarra
L’Occidente deve all’Islam molti
strumenti musicali, tra i primi il liuto, la
ribeca, la lira da braccio e, di conseguenza, tutta la famiglia delle viole. Una
civiltà così “prepotente e magnifica” non
poteva •non influire sulla cultura della
Spagna e della Sicilia.
Sugli strumenti musicali, il teorico
Muhammad Ibn ‘Ebdal-Hamid alLadhigi, che nel XV secolo compilò un
trattato dedicandolo al sultano Bayzid
11(1481 -1512), così scrive: “Gli
strumenti musicali sono in tutto di due
specie: a corda e a Jìato. Tra questi
ultimi, alle volte, si comprende anche la
gota umana”.
Il Tintori dice che il liuto è onnipossente nella nostra civiltà dai Medioevo
in poi; il Guiraut de Calauson lo considera, nei “Conseil aux jongler”, strumento
indispensabile; il Guiliaume de Machault
lo cita ne “La prisa d’ Alessandrie” e
“Ramede de Fortuna”; il Boccaccio, in
“chiusura” della giornata prima.
Il liuto, dopo il passaggio in Francia,
Italia e Sicilia -dove la dominazione catalano-aragonese dura a lungo- diviene uno
strumento conosciuto a tutte le classi
sociali. Un passo dell’arciprete di Hita,
che enumera una trentina di strumenti
musicali, cita tra i primi il liuto, poi
l’arpa, la guitara morisca e la guitara
latina.
Il Trasselli riferisce su un menestrello
errante, Bonanàda Énglada, d’origine
catalana, morto a Trapani nel 1427, il
quale cantava accompagnandosi col liuto
catalano, col liuto veneziano e con l’arpa.
Palermo poco prima aveva avuto due
suonatori, Paolo Mantasi e Giovanni de la
Padula “magistri ministerù”, che avevano
fatto società fra di loro per andare insieme
a “pulsare de eorum artre ad nuptias” e
ovunque chiamati in Sicilia; s’erano
anche impegnati a non insegnare l’arte ad
alcuno se non previo accordo.
Gli esempi raccolti presso il Trasselli
autorizzano ad affermare che i menestrelli
continuarono a girare per l’isola, in tutt’
altra epoca, prestando la loro arte di
suonatori ove richiesta.
Il Trasselli afferma “dette musiche non
saper dire, ma che di canzoni di quel
periodo vagheggerebbe il sonicium de
matrimonio del 1443, inzeppato di memorie profetiche”. I musici divertivano
gli uditori con canti giocosi, come mostra
un sonetto per un libro non restituito, dai
versi assai significativi. I musici
cantavano anche canzoni carnascialesche
che ricordavano vecchi canti di scuola
italiana, o lirica popolareggiante, o forse
canzoni più licenziose.
Un documento dell’Archivio di Stato di
Trapani, dell’ultimo quarto del secolo
XVI, dà notizia del suonatore di piffero
Agostino Gallo, “de Urbe Panormi”,
trasferitosi a Trapani, dove si pose al
servizio dei giurati e dove istituì una
scuola di musica.
Congedatosi dall’incarico di suonatore di
piffero, nella sua città il trapanese Giulio
Oristagno assunse quello d’organista nella
cappella palatina, sostituendo il musico
Giuseppe Testaverde. Dell’ericino Nicolò
Toscano poco si conosce circa la sua
educazione musicale.
Il Tiby dei musico Toscano dice di non
saper “con chi.., abbia compiuto gli studi
musicali”.
Nella città di Trapani esistevano degli
ottimi organi, quindi dovevano esserci
anche dei buoni maestri organisti. I loro
cognomi non li conosciamo; però sappiamo che nel 1559 “ali 27 di augusto a
Maestro
Vincenzo
organista,
per
ripararsi l’organo et accordarlo” erano
state pagate once 15 e, nel successivo
1577, erano state versate “al maestro
Raphaeli organista, fra pagamento do
onsi 36, quali resto.., a complimento di
onse 66, per lo organo novo”, oncia una.
Giulio Oristagno era nato a Trapani nel
1543. Di lui scrive il biografo G.M. Ferro:
“Nel 1543, venne alla luce Giulio
Oristagno. Egli era di un ‘aria assai
pensierosa, e parlava assai poco. Il suo
genio lo trascinava alla musica, ed i suoi
genitori non vollero urtare la sua natura.
Quindi assicuratosi il padre di questa sua
disposizione, lo inviò in Palermo, per
apprenderne i canoni Sorpassando egli~
ben presto i suoi compagni. divenne
emulo perfino dello stesso suo maestro”.
Se avesse fatto studi a Trapani,
potremmo ritenere suo maestro lo stesso
rnusico alla cui scuola si era formato
Toscano; ma trattandosi di musico
palermitano, non possiamo pensare ad
altri ci ad Antonio Lo Duca di Cefalù, il
sacerdote siciliano musico, notato nel
novero degli amici di Michelangelo
Buonarroti. Antonio Lo Duca era nato
Cefalù nel 1491. Dopo aver studiato
Roma, era passato a Palermo, e per “sua
specifica competenza” era stai chiamato a
insegnare musica e canto. Oppure bisogna
pensare a un musico spagnolo, di cui non
si conoscono né m me né attività musicali.
Dobbiamo concludere che il biografo
dell’Oristagno, circa gli insegnamenti
musicali ricevuti e gli insegnanti avuti
non per niente chiaro, anzi mette in
sospetto sua mancata sincerità, dovuta
sicuramente
alla
mancanza
di
documentazione. Da qui l’omissione del
Di Ferro del nome di maestro del quale
era stato allievo giovane Oristagno.
Giulio Oristagno nel XVI secolo e nei
primi del XVII, fu nel novero dei mush
siciliani più stimati.
Nei primi anni del XVII secolo, in
Sicilia, Nicolò Toscano di Erice era
considerato un’autorità in fatto di musica.
Di lui possediamo un primo libro di
canzonette a quattro voci, stampato a
Venezia dall’editore Gordano nel 1594,
che oggi si trova conservato nella
Stadtstbibliothek di Danzica, in Polonia.
Il Toscano, nel 1600, fu tra i giudici che
valutarono le prove musicali dei
compositori Sebastiano Raval e Achille
Falcone. Come si siano svolti realmente i
fatti della sfida musicale, con precisione
non sappiamo dire. E’ noto soltanto che le
composizioni musicali furono affidate al
vicario della città, “acciò giudicare 1e
facesse da quei signori compositori”
dall’allora viceré di Sicilia, duca d
Maqueda. Sulle conclusioni della gara
musicale, il Tiby scrive: “...Vicario
generale di Palermo era il Pretore della
città, specie di Sindaco che nell’anno
1600 era don Francesco del Bosco Conte
di Vicari ma questo nome non dice nulla
Non risulta che a quell’epoca a Palermo
vi fosse una corporatione di musici che
potesse legittimamente rappresentare il
sapere e li interessi della classe. E
allora? E allora è da supporre che il
Pretore abbia chiamato i più noti
musicisti di Palermo, abbia loro
mostrato.., i sei pezzi e li abbia invitati ad
esprimere il loro giudizio. Chi erano
questi musicisti? Anzitutto il Verso, il
Toscano, il Formica, il Giglio...; poi fra’
Vincenzo Gallo maestro di cappella alla
Cattedrale, Giulio Oristagno organista
alta Cappella Reale e quindi dipendente
dal Raval, ed altri minori (Francesco
Tomeo, Barbarino Costanzo, il gesuita
Vincenzo Branci forte). Se non era
passato ancora a miglior vita (morì
appunto nel 1660), non sarà mancato il
parere del benedettino Fra’ Mauro
Chiaula...; né bisogna dimenticare il
Conte di Cammarata e Duca di S.
Giovanni, il protettore del Raval. “.
Ora è facile comprendere come, per la
posizione ufficiale di quest’ultimo e la
protezione del Viceré di cui godeva, dato
il predominio della Spagna e degli
spagnoli, gli animi fossero più propensi a
favorire il Raval e non un giovane musicista e poco conosciuto maestro di cappella d’una lontana città di provincia.
Certo è che i giudici, quali che siano
stati, diedero una misera prova di
carattere, di coraggio civile, di integrità;
sola eccezione il Toscano, che fino
all’ultimo sostenne il Falcone, a voce, di
persona, e per iscritto.
Giulio Oristagno di Trapani, organista
alla Cappella Reale, stando al Tiby, morì
in Palermo, nel dicembre del 1623, all’età
di ottant’anni.
Altro compositore trapanese “degno di
onorevole menzione” è Francesco Maria
Bello, maestro di cappella e autore di un
componimento sacro-drammatico, che
reca il titolo di Adamo.
Altre individualità di spicco ebbe
Trapani: quella che l’avrebbe resa famosa
nel mondo nacque il 17 di maggio 1850:
Antonio Scontrino.
Un teatro dell’opera bello ed acusticamente perfetto:
noterelle sul “Bellini” di Catania
Il celebre tenore Beniamino Gigli, che
di teatri s’intendeva certamente, e che non
può essere tacciato di parzialità, ha fatto
questa affermazione: “Il teatro Massimo
Bellini di Catania è a mio giudizio il
teatro d’opera più bello e più
acusticamente perfetto del mondo,
acusticamente ancora più perfetto del
San Carlo di Napoli e persino più bello
della Fenice, I suoi colori e le sue
proporzioni si fondono in una armonia
che
non
mi
stanco
mai
di
contemplare.Ogni volta che raggiungevo
quel teatro era invariabilmente per me
un purissimo piacere’.
Quanto ha dichiarato questo grande
artista può essere da chiunque verificato:
basta entrare nella platea o in un palco, e
subito l’occhio spazia gradevolmente dappertutto, e lo sguardo attraversa ammirato
tutto il vasto ed armonioso ambiente.
Costruttore di questo pregevole monumento fu l’architetto milanese Carlo Bada
(1549-1924), allievo e collaboratore di
Andrea Scala, anch’egli eccellentissimo
costruttore di numerosi teatri in Alta
Italia.
Il Bada studiò dapprima nella città
natia, proseguì gli studi per qualche
tempo a Firenze, e frequentò poi a Roma
l’Accademia di San Luca. Ricevette
l’incarico di realizzare il “Bellini” nel
1550 e nel decennio successivo ebbe
modo di mostrare il suo grande talento,
portando a compimento l’opera nello
spazio dl sette anni.
Egli stesso ne diresse i lavori, ed il
teatro riuscì magnifico, elegante ed armonioso sotto ogni riguardo. Le decorazioni
della sala e del foyer, e quelle scultoree
del prospetto, attestano la sua arte
squisita, che si giudica improntata ad
eclettismo, perché in essa coesistono
stilemi neoclassici e rinascimentali,
nonché rivisitazioni dell’architettura
antica.
Prese naturalmente esempio da altri
celebrati architetti, come il Piermarini, il
Carpeaux, il Garnier, ed il lavoro ultimato
lasciò completamente soddisfatta la
pubblica aspettazione. Si avvalse di
bravissimi artisti, e per il gruppo centrale
del prospetto, una splendida “Gloria
alata”, realizzata in travertino, il compito
fu assegnato al leccese Eugenio
Maccagnani, il cui nome è legato alle
sculture dell’Altare della Patria a Roma.
Il “Bellini” fu Inaugurato il 31 maggio
1590, con la Norma, un’opera che nello
stesso teatro fu poi cantata da famosi
soprano come Gina Cigna, Maria
Caniglia, Elena Suliotis e Maria Callas,
che la interpretò in due stagioni
consecutive.
Costruito inizialmente per ospitare
2200 spettatori, dopo una ristrutturazione
dei posti, ne contiene ora circa 1300, e
soddisfa appieno le esigenze della città.
Per quanto riguarda l’acustica, il Bada
forse neppure immaginò che avrebbe
avuto tanta fortuna, ed è forse il
sottosuolo, fatto di durissima pietra
lavica, che impedisce in parte la
dispersione del suono, convogliandolo
verso la sala. Ma questa è solo un’ipotesi.
Sta di fatto che il Bada era assillato dal
problema dell’acustica, ed aveva fatto
delle ricerche per non incorrere in errori.
Nella relazione presentata nel 1880,
allorquando il suo progetto fu approvato,
dedicò alcune righe al problema dell’
udibilità nella sala, così scrivendo: “La
più forte ragione poi che non crediamo
utile fare i sottoscena troppo profondi, si
è che, come più si aumenta il volume
dell’aria del palcoscenico in proporzione
di quello della sala teatrale, l’onda
sonora viene assorbita più facilmente da
questa gran massa che da quella della
sala teatrale e quindi concentrandosi le
onde sonore nel palcoscenico, aiutate
anche per effetto della differenza di
temperatura e di atmosfera, ne risulta dl
conseguenza che la sala teatrale diventi
sorda. Esempio siano parecchi teatri
esteri, e fra questi i più recentemente e
sfarzosamente costruiti, quali sono
l’Opera dl Parigi eVienna, che mentre in
ogni angolo del palcoscenico si sente
perfettamente, la sala è affatto sorda, e
notare che queste sale sono più piccole di
quella del Teatro alla Scala dl Milano, Il
quale, sotto molti rapporti, abbenche’
vecchio e criticato per avere il
palcoscenico poco profondo, è ancora
fino ad oggi, il meglio rluscito riguardo
all’acustica.”.
Questo bel teatro, dl cui tutti hanno potuto ammirare uno scorcio nel 2 .1
“Johnny Btecchino” di Benigni, purtroppo
non è affatto sfruttato come punto di
attrazione turistica, benché sia tale da
poter suscitare nei visitatori grande
interesse e curiosità.
Carmelo Neri
artifices
Scultori siciliani del 500
Don Mariano Manno, priore di 5. Nicolò la Latina e di San
Calogero di Sciacca, nel 1530 diede inizio alla costruzione
dell’attuale Santuario di San Calogero esistente sul Monte
Cronio.
Lo stesso priore volle anche che fosse sostituito nella chiesa il
vecchio quadro di San Calogero con un ‘imponente statua. Così,
nel 1535, commissionò la statua, per mezzo del cappellano don
Antonio Bruno, ad Antonello Gagini.
La monumentale statua, ispirata alle “Lezioni del Breviario” del
tempo dei Normanni, con abito da eremita, e da egumeno (abate)
basiliano, Bibbia e cerva, con sfarzose decorazioni in oro
zecchino, iniziata da Antonello Gagini, fu completata dal figlio
Giacomo.
L’improvvisa morte, avvenuta nel 1536, aveva impedito al
maestro Antonello di consegnare la statua e di collocarla
sull’altare maggiore della Chiesa. L’opera che, per contratto,
doveva comprendere anche la figura dell’arciere, rimase
incompleta.
La statua di San Calogero presenta una figura dal forte carattere
e dallo sguardo toccante le profondità dell’anima. E’ ritenuta dal
Sanfilippo lavoro di Nicolò Milante; il Di Marzo la considera
invece eseguita dai maestri Gagini e consegnata nel 1536, e non
nel 1538 come invece asserisce il Sanfilippo.
Le due date, il 1536 e il 1538, non possono che indicare la
consegna di due statue di San Calogero : una lignea consegnata
nel 1536 dallo scultore Nicolò Milanti all’arciprete della Chiesa
di S. Maria Maddalena, l’altra marmorea -nel 1538- dallo
scultore Giacomo Gagini al priore Mariano Manno. La statua
lignea policrorna di San Calogero scolpita dal Milanti è provvista
della figura dell’ Arcano in posizione genuflessa.
Secondo le asserzioni del Sanfilippo, ma anche di Mario
Serraino, il Milanti (o Milante) avrebbe origine marsalese. Va
detto però che da tempo si era trasferito a Trapani, e per tale
motivo era stato indicato forse trapanese. Da Nicolò Milanti discenderebbe dunque quell’Antonio Milante trapanese,
erroneamente considerato il capostipite della famiglia.
Figli di Antonio sono Vincenzo e Leonardo; i due ultimi
prendono moglie rispettivamente nel 1643 e nel 1655. Figli del
primo sono Diego e Francesco, del secondo Cristoforo e
Giuseppe.
Diego e Francesco Milanti facevano parte della “Corporazione
dei professori di scultura di ogni materia”. Dei loro cugini, pure
scultori, sappiamo che lavorarono il marmo e il legno e che
tennero bottega sia a Trapani sia a Palermo.
Giuseppe Milanti è ritenuto dagli storici dell’arte J~utore di due
Crocifissi lignei policromi, di commovente religiosità: unitamente a quello realizzato per la Chiesa di San Pietro a Trapani,
gli viene assegnato il Crocifisso della chiesa del Collegio dei
Gesuiti, oltre ad un altro nella Chiesa di S. Maria dell’Itria.
Il suo biografo Di Ferro ne ricorda poi altri due,
rispettivamente nella Chiesa degli Agostiniani e nel Monastero
della Trinità, in aggiunta a una statua a grandezza naturale
raffigurante 5. lsidoro Agricola, nella sagrestia dell’oratorio di
San Filippo Neri intitolato a S. Giovanni Battista, sempre a
Trapani..
Sono pure opera di Giuseppe Malanti la statua in legno, tela e
colla dell’Addolorata e dell’Ecce Homo, che fanno parte della
collezione dei sacri gruppi dei Misteri.
Anche Cristoforo Milanti, detto Ottavio, fratello del citato
Giuseppe, si rese illustre come scultore tanto nella sua città,
quanto a Palermo, dove lasciò un bel Crocifisso ligneo
nell’Oratorio di S.Anna. A Trapani lasciò invece il gruppo della
Deposizione dalla Croce dei Misteri della Passione, che ogni
anno sono portati in processione durante la Settimana Santa;
eseguì inoltre la statua della Madonna del Soccorso per la
Cappella omonima (progettata dall’architetto trapanese Giovanni
Biagio Amico) della chiesa della Badia Nuova.
Con probabilità realizzò i due Crocifissi in legno sistemati
rispettivamente nelle Chiese di S. Francesco e dell’Addolorata.
Uno dei due gli storici lo vorrebbero eseguito insieme al fratello
Giuseppe.
Nei Crocifissi di maestro Cristoforo, ma anche in quelli scolpiti
dal fratello di questi, grande è il trasporto spirituale, che traspare
dai volti sofferenti del Nazareno, nei quali manifesto appare il
richiamo all’arte, formale oltre che pietosa, di frate Umile da
Petralia (al secolo, Giovanni Francesco Pontorno), la cui
influenza avrebbe toccato tutta la produzione dei Crocifissi del
secolo XVII, ma anche quella del secolo successivo.
Vincent Navarra
le rime in copertina
NUVOLE E PENSIERI
S’addensano soffici strati
su trasparenze ilari d’azzurro
e spargono riflessi d’oro
sulla schiuma ribollente del mare
S’addensano vaghi pensieri
dietro lo specchio dell’ iride
assorta in colori e rumori
Le narici catturano aromi di sabbia
e d’acqua
Ricreano profumi di lontani gelsomini
e misteriose voci d’una segreta grotta
ricolma
di lumache e millepiedi
su scivolio di verde
umido muschio
e porosi buchi di pietra
PAROLE COME FUOCHI
Con una rivistina intelligente
ventilo l’afa dal mio viso
e dal collo
imperlato di sudore
nell’ ipotesi gagliarda
che dalle pagine ricche di parole
soffi alla mente stanca
una nuova ispirazione
e vinca
la pigra voglia che sbarra
la voglia di accendere
parole
Enrica Di Giorgi Lombardo
LA FUNTANEDDA
Sunu ricordi di la carusanza
chiddi ca m’affuddanu la menti:
ccu ‘na gran pena sentu la mancanza
di tanti amici e vecchi canuscenti.
Dda funtanedda accostu a la me casa
dava ristoru a tutti l’assitati:
sinu a la Virmaria vinia invasa
di na gran fitdda ‘nta la fitta ‘stati.
Fimmini,carusi e vicchiareddi,
-a ddi tempi chista era l’usanzajevanu ccu quartari e ‘nchitureddi
all’acqua a la flintana ccu custanza...
Ora sta funtana è sicca e muta,
di nuddu idda chiù veni guardata;
è comu ‘na lumia già munciuta
Sta sorti attocca atutti’ntra’sta terra,
chistu è bonu si ci teni a menti:
doppu chi cummattemu ‘sta gran
guerra,
turnamu a’ ‘ssiri ‘autra vota... nenti
Peppino Marano
LU CUNTU
C’era ‘na vota,
c era...
e pari un cuntu
C’era ‘a famigghia
cu patri, matri e figghi,
e, nta lu spissu,
li nanni e li ziàni.
C’era lu patri,
veru patri di famigghia;
c’era la matri,
vinirata a tipu Santa;
c’eranu ‘i figghi,
chi facianu ... ‘i figghi.
Nun c’eranu
portafogghi chini ‘i rana;
nun c’eranu
fistini cu l’amici;
nun c’era
lu ragazzu e la ragazza;
nun c’era
l’abbrazzata strati-strati;
nun c’eranu
màchini mpurtanti...:
Si ja all’apperi,...
s’allustravanu bbalati.
C’era ‘na vota,
c’era...
e pari un cuntu!:
pulizzia di rintra
e pulizzia di fora;
c’era ‘u rispettu
pi li pirsuni ranni;
c’era scarsizza...
ma nun c’era droga.
C’era...
e pari un cuntu
Alberto D’Angelo
Mia isola
Lontano da te mia isola
ho amato la tua essenza
le tue accese rocce
le tue ruggenti eruzioni
io donna del sud
invoco il mio passato
l’arabesco sui vetri dell’infanzia
profumo intenso diventa l’aria
nel sogno di notti complici
di pazze fragranti estati.
Arrivo nella terra delle inodori
camelie
con il cuore trasparente
ho provato il dolore vero
resto presa come in una rete
io donna del nord
al ritmo di lontane epifanie.
Cerco il sentiero fra venti gelidi
fra lacrime di neve
che mi porti alla luce
ai caldi tramonti che portano
a tacere i monti e il mare.
Il passato si dissolve
mi avvolge solo il silenzio.
Tita Paternostro
PUNTUALITA’
P~~nninn
Canusciu ‘n omu ca non è puntuali
si dici a l’ottu veni e novi e menza
e si u ritardu ci lu fai nutari
dici c’aveva cosi di sbricari.
Quannu pi casu duna
appuntamento ti dici:
“U tempu di la strata e sugnu ‘ndocu”
e tu ci criri poviru mischinu!
Ma pi iddu lu riloggio
è ferru vecchiu,
l’avi a lu pusu
ma mancu lu talia,
quieto grigio
si ferma a leggiri i giurnali
davanti a l’ediculi fistanti,
si gira, si rivota,
perdi tempu,
‘ncontra n amicu e...
parra... parra...parra...
poi finammenti arriva cunfunnutu
e dici:
“Sapissi li cosi caiu sbricatu!”
N’avota ci crideva a sta sunata
ma, a stissa musica, presta o
taddu, annoia
e ora ca canusciu a sta suggettu
a l’ura stabilita si non veni...
mi ni vaiu avanti e non l’aspettu.
Rosetta Di Bella
SI CAMPA PURU Dl
CHISSU
Si campa puru di chissu,
quannu alèntanu li forzi
e nte mumenti bbisitùsi;
si campa puru di chissu,
quannu lu specchiu
t’arrifretti tuttu bbiancu
e li rutati di lu tempu
assùrcanu la facci.
Si campa puru di chissu:
di li riòrdi di la picciuttanza.
L’assùmmanu ‘i ritratti,
‘na crirènza trabballanti
o ‘na gghìcara canniàta,
‘na strata, un paisi, ‘na palora...
‘a vita d’ogni jomu
ch’i so’ cuntrasti c’u passatu
Si campa puru di chissu:
di ‘sta miricàta antica
a li cutiddati di lu tempu.
Alberto D’Angelo
(2° premio “Barunissa di Carini”)
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ottobre 1999 - Associazione Culturale Sicilia Firenze