L’EUCARISTIA NEL BANCHETTO MEDITERRANEO
Si nasconde, al centro della teoria mimetica di Girard – che non ha eguali,
nella cultura contemporanea, per la breccia salutare che ha creato nella
rimozione collettiva della Bibbia, di Israele e di Gesù Cristo – un paradosso
metodologico stupefacente: quello della relazione mito-rito.
Se è difficile trovare, nelle scienze umane del XX secolo, una posizione che,
più rigorosamente di quella girardiana, sottolinei la profonda unità tra mito
e rito, questa corrispondenza viene meno al momento di considerare il centro del
sistema. Tale centro è il cristianesimo: leva senza la quale – a detta del suo
Autore – il sistema stesso risulta inconcepibile.
Girard insiste sulla formula della verità del cristianesimo. È tale verità che –
una volta messa in luce – ha la forza di sovvertire l’impalcatura del mito e le
religioni della violenza. Nell’esame del cristianesimo, la verità è l’inverso del
mito delle religioni primitive: essa occupa, pertanto, il medesimo posto. Quanto al
rito, è noto che, laggiù, esso prende il nome di liturgia, cosicché, da un punto
di vista metodologico generale, si può tranquillamente ricostruire la
proporzione:
mito : rito
(religioni primitive)
=
verità : liturgia
(cristianesimo)
Ciò che l’antropologo cataloga sotto la doppia rubrica mito-rito corrisponde
– nel caso del cristianesimo – alla coppia verità-liturgia.
Ne risulta che l’analisi girardiana del cristianesimo è incompleta. Salvo
errore, in un’opera monumentale che abbraccia mezzo secolo non esiste un
solo accenno al rito cristiano.1 È, precisamente, questa scorciatoia
metodologica che permette a Girard di parlare di verità: il cristianesimo è
visto come una rivelazione cognitiva (Cose nascoste dalla fondazione del mondo),
laddove – dal punto di vista dello stesso cristianesimo – non si può neppur
parlare di analisi ‘zoppicante’ ovvero ‘dimezzata’, dato che la parola – nome
della verità secondo il cristianesimo – è, essa stessa, una parte della liturgia. Si
vede come il paradosso della teoria mimetica sollevi una seconda, ben nota
questione metodica: quella della congruenza tra le rappresentazioni
dell’antropologo e quelle della cultura da lui messa sotto esame. Come la
messa è – all’esame obiettivo – liturgia della parola e, assieme, del pane, così il
concetto di verità nel cristianesimo è rappresentato da un termine, parola,
che – giuste le sue origini semitiche: dabhar – indica, al tempo stesso, la parola
e la cosa. L’eucaristia, parte del rituale apparentemente consacrata all’azione,
L’affermazione prende come date-limite il 1961 e il 2007, da Mensonge romantique et vérité
romanesque a Achever Clausewitz.
1
indica – di fatto – un atto di parola;2 mentre la parte riservata alla conoscenza
– la lettura preliminare della parola – indica la cosa stessa: il Verbo di Dio.
Attualizzazione della parola e frazione del pane indicano, perciò, un’unità
indissolubile: la carne fatta Verbo e il Verbo fatto carne3 – ovvero, quel
mistero che è la persona di Gesù.
Verità, nel cristianesimo, non è un fatto cognitivo, ma una persona in carne e
ossa; e la liturgia una ripresentazione di Gesù Cristo inglobata nella sua stessa
persona.
L’unità mito-rito è, pertanto, il mistero e il perno stesso del cristianesimo.
Osiamo, allora, dare uno sguardo alla messa dalla stessa prospettiva
antropologica del mimetismo. Ne risulterà una coscienza accresciuta della
Passione come sacrificio.
***
Se guardiamo alla liturgia cristiana antropologicamente – se vogliamo, in
altri termini, classificare la messa alla luce delle forme della storia delle
religioni – la prima evidenza è, precisamente, questa: che, come già per la
Pasqua di Israele – Pessah ovvero, più tardi, Haggadah4 – il rito cristiano non è
altro che un banchetto. Invariante ben nota, per non dire universale, nella
storia delle religioni. Cerchiamo, allora, di guardare alla messa né più né
meno che con metodo comparativo: nei limiti della presente analisi, in
rapporto ad altre forme del banchetto sacrificale, filosofico e politico nel
bacino del Mediterraneo.
***
In effetti, una tradizione millenaria indica nel banchetto un simbolo
maggiore della religione mediterranea: non soltanto della maniera ebraica e
cristiana di concepire l’uomo in rapporto ai suoi simili colta nel vivo delle
sue pratiche religiose, ma, altrettanto, di altre tradizioni: quella pagana o
greco-latina specialmente. Basti pensare ai banchetti socratici: al Simposio di
Platone, o a quello di Senofonte; ovvero al Satyricon, al Convivio dei sette sapienti
e a tutte le altre operette plutarchee che, di fatto, si svolgono a tavola; alla
summa di Ateneo, i Deipnosofisti; ai Saturnali di Macrobio; all’etimologia,
rivelatrice, della satura latina, e così via.
2
È noto che eucaristia vuol dire resa di grazie.
Cfr. Jn 1,14 e 8, 25, ove leggo con il punto fermo secondo G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo,
Milano, 1974 (1941), vol. II, § 422, p. 462 e n. 1, e non con il semicolon di Nestle-Aland27 o
Merk11, che mi sembra una trivializzazione nel contesto di un Vangelo teso a dichiarare il
Messia come Verbo.
4 Nel concetto di Haggadah – aramaico per « racconto » – si ripete l’unità tra l’azione e la
parola (Pessah, «passare oltre»/Haggadah, «il racconto»), ovvero – vedi sotto – tra il banchetto e
la parola.
3
2
Ciò che, a tutta prima, colpisce in queste pratiche e queste attitudini sono le
considerazioni seguenti:
1) che, nonostante esse si affermino all’interno di tradizioni di ricerca della
sapienza, esse facciano ricorso a un simbolismo altrettanto remoto
dall’ideale disincarnato della filosofia quanto la pratica alimentare e l’atto di
mangiare che la sottende e, solo, la rende possibile;
2) che la filosofia – sapere, apparentemente, individuale per definizione – si
dichiari, laggiù, come un atteggiamento collettivo: come una pratica di tipo
sociale.
Ma l’osservazione senz’altro più interessante è:
3) che questa pratica – sopra detta di tipo, genericamente, sociale – meriti, a
un esame più attento, di essere definita come eminentemente e
rigorosamente politica.
Politica non tanto nel senso – moderno – di ciò che caratterizza il potere in
una società umana,5 quanto nel senso più antico della relazione
dell’individuo alla polis: alla comunità organizzata degli uomini.6
Si è detto eminentemente e rigorosamente politica. Una tale intensificazione
deve essere approfondita. Nel mondo pagano, l’azione collettiva di mangiare
è un atto politico fondatore: è, alla prova dei fatti, l’atto stesso di fondazione del
politico nel senso che abbiamo specificato qui sopra. Essere cittadini significa
essere ammessi ad un pasto collettivo:7 e un atto collettivo di mangiare
sembra ciò che fonda l’identità originaria della polis. Pensiamo,
naturalmente, al banchetto a base di carne che presuppone e rende
necessario un sacrificio. La polis si identifica con quest’atto collettivo: tutti i
cittadini sono obbligati a parteciparvi (religione, theous nomizein, significa
prendere parte ai riti della polis); tutti, e nessun altro vi può partecipare:
l’apparizione di un estraneo nel cerchio dei commensali è vietata, e ignorare
il divieto può portare a delle conseguenze che si impongono per chi profani
un rito segreto.
Così, la ripartizione omerica dell’animale nel sacrificio,8 ovvero il racconto
esiodeo di istituzione del sacrificio9 permettono di comprendere il ruolo
eminentemente politico di questa pratica preliminare ad ogni atto di
mettersi a tavola dei Greci. Alla stregua di un microcosmo, la sezione della
vittima riproduce, e riflette, le relazioni gerarchiche all’interno della
comunità in questione; e la suddivisione delle porzioni che ne consegue si
opera rispettando la rete dei rapporti che uniscono e, al contempo, tengono
accuratamente distinte le posizioni sociali all’interno di un insieme unico.
Ivi compresa la partizione originaria di ciò che, nella suddivisione, spetta
alla divinità, e di ciò che, al contrario, fa ritorno sull’uomo (hosie).
Così Schmidt 1978.
Come nell’espressione «animale politico».
7 Osservazioni fondamentali presso Detienne in Detienne-Vernant 1979, 7-35.
8 Saïd 1979.
9 Cfr. Vernant 1974 e Vernant 1979.
5
6
3
Ogni banchetto a base di carne implica, per conseguenza, una messa a
morte rituale. È proprio per questa ragione che Filone Alessandrino opera
una divisione tra usi pagani e pietà giudaica esattamente a proposito del
modo di mettersi a tavola. Dimmi come mangi e ti dirò chi sei. Ed è
precisamente per le ragioni appena evocate che quest’autore consacra al
banchetto un’opera dai toni non meno metafisici di quella che porta per
titolo De vita contemplativa. La vita contemplativa si fa luce nei banchetti; i
banchetti metterebbero in luce la vita contemplativa.
Noi ci siamo domandati perché, e l’abbiamo fatto con il medesimo intento
di Filone: quello che si può definire «comparatista» di far apparire le
differenze specifiche – alla lettera: la fisionomia propria al giudaico-cristiano
in rapporto ai paganesimi del bacino del Mediterraneo.
Vedremo tra un momento che tale distinzione è operata da Filone facendo
ricorso a un’altra maniera di mettersi a tavola; e che quest’altra maniera
politica di mangiare si caratterizza come il negativo del modello originale. È
analizzando la figura negativa di un comportamento alimentare, che – per
così dire – si desolidarizza dalle pratiche della polis che si cercherà, seguendo
Filone, di sondare la relazione abbastanza enigmatica tra banchetto e sapere
nelle tradizioni di sapienza.
Filone traccia uno spartiacque reciso tra il banchetto pagano e i banchetti
della tradizione sapienziale giudaica: quella, precisamente, della comunità
dei Terapeuti sita sui bordi della palude Mareotide, non lontano – ma ben
separata – dalla metropoli di Alessandria. Una comunità che, con ogni
probabilità, Filone ha personalmente frequentato e descritto in quel pamphlet
che è il De vita contemplativa.
Così, al momento di mettersi a tavola, pagani e Israeliti si oppongono,
secondo Filone, nella maniera più semplice e più netta come la saggezza si
oppone alla follia, la moderazione all’eccesso, la frugalità allo stravizio e –
soprattutto – l’alimentazione vegetariana a pane e acqua a una dieta a base
di carni annaffiate da ogni sorta di vini.
In occasione di quei banchetti non si porta – ci sarà, lo so bene, chi riderà
apprendendo la notizia […] –, in quei giorni non si serve vino, ma limpida acqua,
fredda per la maggioranza degli invitati, tiepida per i vecchi delicati. La tavola è
rigorosamente monda da ogni pietanza ove sia presente sangue: vi si trova, come
alimento, del pane, e – onde renderne più grato il sapore – del sale, che, talvolta, i
più raffinati accompagnano, in guisa di spezia, con l’isopo.10
La conclusione di questo passaggio sembra rivelare il senso profondo
dell’atteggiamento sopra descritto.
La retta ragione insegna a costoro la sobrietà durante la vita come insegna ai sacerdoti a
essere sobri nel sacrificio, giacché il vino è la bibita della follia, e i piatti di lusso
10
Filone, De vita contemplativa 73-74 (Cohn-Wendland).
4
esasperano ciò che la creatura ha di più insaziabile, il desiderio.11
In maniera del tutto contraria è descritta l’attitudine dei gentili al banchetto.
Voglio… parlare delle loro riunioni ordinarie (scil. dei Terapeuti di tradizione
giudaica) e dello svolgimento gioioso dei loro banchetti opponendoli ai banchetti
del resto degli uomini. Costoro, quando si sono ben riempiti di vino, è come se
avessero trangugiato non del vino, ma una droga debilitante, che rende folli, che –
ancor di più – fa loro perdere ogni ragione. Menano, allora, colpi all’impazzata,
affetti da rabbia come cani selvatici, e fanno irruzione gli uni contro gli altri per
mordersi, sbranarsi il naso, le orecchie, le dita e le altre parti del corpo. La leggenda
del Ciclope e dei compagni di Ulisse, in verità, si applica a loro: e se – come dice il poeta –
ingurgitano anch’essi lacerti di carne umana, sono, di fatto, più crudeli del Ciclope,
giacché mentre costui si rivolgeva a presunti nemici, questi si attaccano ai loro familiari,
agli amici, fino ai propri genitori, con cui hanno condiviso il sale e la tavola.12
Si ritrovano altresì, a detta di Filone, effetti meno veementi che fanno
seguito all’ingestione di vino:
Per altri bevitori dalle arie meno convulse, il vino ingerito ha come l’effetto della
mandragora. Eccoli, dunque, ben debosciati mentre – accasciati sul gomito
mancino – vomitano nelle loro coppe, per poi essere vinti da profonda letargia,
senza vedere o sentire più nulla, come ridotti ad avere un solo senso, il più servile di
tutti, il loro gusto. […] Menando questo tipo di esistenza, costoro passano tutta la
vita lontano dalle proprie case e dal focolare domestico: nemici dei genitori, delle mogli,
dei propri figli, nemici – ulteriormente – della loro patria, essi sono, ancora, ostili a se
stessi. Una vita passata a bere e il libertinaggio rappresentano una minaccia per
tutti.13
L’inversione del modello politico pagano non potrebbe essere portata più
oltre. Lungi dal rinsaldare i vincoli della comunità, la festa e il banchetto
pagani vengono percepiti come una minaccia all’esistenza ordinata delle
comunità umane; mentre l’attitudine inversa riscontrata nei Terapeuti, il
distacco solitario dalla città, l’esistenza separata delle donne da una parte,
degli uomini dall’altra di un’unica tavola; l’austerità e il silenzio, un pasto
che sfiora il digiuno, l’alimentazione a pane e acqua sono dichiarate, per
colmo di paradosso, come l’unica garanzia veramente politica contro la
minaccia che la riunione alimentare porta all’esistenza dell’associazione
umana. Se ne deve concludere che, per Filone, la saggezza si oppone alla
follia come la sobrietà si oppone alla violenza: il contrasto tra quiete degli
uni e virulenza degli altri riassume, mi sembra, il senso delle opposizioni e
pare restituire la significazione più profonda dei divieti alimentari così come
– in generale – della maniera di vivere nel perseguimento giudaico della
Ibid., 74.
Ibid., 40.
13 Ibid., 45 e 47.
11
12
5
saggezza.
***
Per quanto profondo e efficace esso appaia, il modello filoniano presenta
due eccezioni che ne mettono seriamente in questione la credibilità. Si
sottaggono alla dicotomia, al dualismo severo tra pietà giudaica e follia dei
gentili da un lato delle tradizioni altrettanto distinte quanto quelle degli
Orfici e dei Pitagorici, dall’altro i Cristiani nelle loro pratiche alimentari così
come nel simbolismo ultimo della loro liturgia.
Cominciamo dai primi: da coloro che contestano l’alimentazione a base di
carne e, con essa, il sacrificio politico dall’interno stesso del mondo pagano.
Sul versante settentrionale del bacino del Mediterraneo, ripetute
testimonianze a proposito di una setta greca che prende il nome dal
personaggio di Orfeo rigettano l’alimentazione carnea con altrettanta
decisione, inducono all’astensione da ogni sacrificio e rifiutano di vivere in
solidarietà con gli altri uomini.
Vestito di abiti bianchi, rifuggo
la nascita dei mortali,
e, senza accostarmi all’urna dei morti
mi guardo
dal mangiare nutrimento ove fu presente vita.14
Gli eccessi cosiddetti «retorici» di Filone Alessandrino15 – che associano,
presso i pagani, l’ebbrezza alla pazzia e l’alimentazione carnea al
cannibalismo – sono, inaspettatamente, confermati dall’Orfismo. È
attraverso il loro mito principale, quello di Dioniso sbranato dai Titani, che
gli Orfici confermano non solo l’associazione tra assunzione collettiva di
carni e violenza, ma anche il distacco dalla vita politica, così giustificando la
credenza nella reincarnazione.
Secondo questo mito, Dioniso è sedotto dalla muta dei Titani, i quali,
mascherati sotto un velo di gesso, dapprima lo circondano offrendogli dei
giocattoli, poi lo fanno a pezzi con un coltello per i sacrifici (machaira), ne
bollono le membra, in seguito le arrostiscono e, finalmente, se ne cibano
assieme in un pasto cannibale che è, al tempo stesso, il primo assassinio nella
storia del mondo, il primo banchetto a base di carni e l’origine della razza
degli uomini.
Colto dall’ira per la morte del figlio, Zeus, infatti, folgora i Titani: e dalla
fuliggine (aithale) che si deposita a terra dalla combustione dei loro corpi
Euripide, Cretesi fr. 3 Cantarella = Porfirio, De abstinentia 4, 19 (Patillon-Segonds-Brisson).
« On sent fortement ici le développement rhétorique » : F. Daumas ad Phil. de vit. cont. 41
(Daumas-Miquel 1963, p. 110, n. 1) ; cfr. ibid., p. 109, n. 2 : « Il est probable que, là encore
(scil., il § 40), il (scil. Filone) déforme la perspective… comme font tous les moralistes qui
veulent combattre certains maux ».
14
15
6
calcinati (atmoi) nasciamo noi, gli esseri umani.16 L’uomo comporta, per
conseguenza – come un marchio che stigmatizzi in eterno le sue origini –
una parte ‘divina’, il pasto di un fanciullo, in una parte titanica, la fuliggine
degli assassini.
È dunque pura logica, per questi vegetariani, disertare attentamente ogni
sacrificio politico. Per gli Orfici, la rivelazione dell’affinità del vivente va di
pari passo con la critica del sacrificio e di ogni messa in comune di carni. È
per questa ragione che l’immaginazione dell’iniziato orfico lo proietta in una
sorta di religione ‘cosmica’ – l’unità del vivente, la metempsicosi, e via così –
che gli consente, in quanto individuo, di credersi avulso dalla polis umana.
***
Che l’atteggiamento anti-sacrificale e vegetariano degli Orfici abbia nette
conseguenze sul piano politico si vede, mi sembra, con la massima chiarezza
presso un’altra setta attiva nel versante settentrionale del Mediterraneo:
quella dei Pitagorici in Magna Grecia nel VI secolo.
L’elemento caratteristico di questi Pitagorici in rapporto alle credenze
orfiche – da cui, mi sembra, dipendono in tutto e per tutto per quanto
riguarda le concezioni religiose – consiste nella reintegrazione della polis
umana: nell’accettazione della prospettiva politica pur continuando a
sottoscrivere alla metafisica delle origini omicide dell’umanità.
In altre parole, i Pitagorici si propongono come un’élite politica vegetariana e
antisacrificale per il resto degli uomini che continua a fondarsi sul sacrificio e
l’alimentazione a base di carne. Scopo dei Pitagorici sarà, allora, di
discernere – all’interno di questa massa primaria – gli eletti suscettibili di
essere salvati al rango di «puri», di perfetti settatori di Pitagora; e niente, mi
sembra, risulta più interessante dell’ammissione, nei regimi politicoalimentari della Magna Grecia, di gradi intermedi tra il filosofo perfetto e il
cannibalismo ignaro dell’uomo volgare. Troviamo, perciò, delle categorie di
cittadini alle quali, se è proibito il contatto con il bue e con la pecora, è,
tuttavia, concesso di gustare le carni della capra ovvero del porco.17 Alla
scuola di Pitagora, la purezza si conquista non più in una dicotomia recisa,
ma attraverso un camminamento che tradisce, al tempo stesso, una teoria
della gerarchia e il tentativo di inglobamento dell’inferiore da un
superiore.18
L’esperienza orfica e pitagorica insegna, in conclusione, una cosa piuttosto
evidente, vale a dire l’elitismo di ogni vegetarianismo. Se gli Orfici
oppongono, sic et simpliciter, la coscienza della solidarietà tra il crimine e la
vita alla sancta simplicitas degli altri, una volta fatto ritorno nelle mura della
Riassunto e escussione delle fonti presso Sorel 1995 ; edizione e traduzione presso Colli
1977.
17 Cfr. Detienne in Detienne-Vernant 1979, 14.
18 È la celebre definizione di gerarchia secondo Dumont 1979.
16
7
polis il Pitagorismo non si sognerà menomamente di proporre la perfezione a
tutto il corpo politico, ma si limiterà esclusivamente a moderare la
solidarietà antica tra politica e delitto. Alla fine del mondo antico, un
vegetariano del rango di Porfirio – allievo, editore, biografo di Plotino oltre
che filosofo, egli stesso, à part entière19 – ne sarà ben cosciente: quella
vegetariana è una pratica improponibile alla totalità del genere umano e che
si riserva ai soli filosofi.20 Si conferma, così, l’intuizione di partenza senza
proporre alcun’altra soluzione: banchetto e alimentazione carnea, esistenza
di vita sociale e crimine sono realtà confermate e indissolubili, che sarebbe
pura follia di rimettere in discussione, e che – dunque – lasciano un marchio
indelebile sulla condizione umana in generale.
È ciò che risulta dalle fonti dirette: l’autobiografia dell’iniziato a Zagreus
conferma la connivenza tra omicidio e pessimismo. Il vegetarianismo non è
che il rovescio della medaglia di una violenza che si è incapaci di sovvertire
perché se ne risulta solidali dalle origini.
Torniamo alla testimonianza dei Cretesi presso Euripide:
Conduco una vita santa
avendo celebrato i festini dell’omofagia.21
L’ammissione del coro degli iniziati è appariscente: anche la conclusione, di
conseguenza, è evidente. È grazie all’esperienza dell’omofagia,22 e
nient’affatto in opposizione ad essa, che il «santo» si astiene, oramai, da ogni
carne. Il dato è confermato dalla biografia di Orfeo così come veniva
ricostruita da Eschilo: prima di rigettare le abominazioni dell’orgiasmo,
19
Il nome semitico di Porfirio, Malco – così come quello pagano, che evoca la porpora –
dichiara la sua associazione con la funzione regale (*mlk).
20 Cfr. Porfirio, De abstinentia 1, 27, 1 (Bouffartigue): «Per prima cosa, occorre notare che i
consigli contenuti in questo mio trattato non si applicano a un’esistenza umana
qualunque». Porfirio sta replicando a chi contesta il vegetarianismo sulla base della
constatazione che l’ordine stesso del mondo è basato sull’immolazione sistematica degli
animali, e che un’interruzione di questa regola primordiale metterebbe in pericolo domini e
gerarchie stabiliti una volta per tutte tra le differenti specie animali, compreso l’uomo (ibid.,
1, 14, 1; 16, 1; 24, 1). La precisazione di Porfirio succitata indica – dunque – che anche per
lui è proprio la massa disprezzabile degli uomini a garantire gli equilibri ‘cosmici’ del filosofo
continuando a nutrirsi di esseri animati. Cfr. ibid., 1, 28, 3 : «Se nella città i legislatori
avessero definito gli usi legali con lo scopo di elevare gli uomini alla vita contemplativa e
intelligente, bisognerebbe – naturalmente – obbedire loro, e financo accettare le concessioni
fatte nel dominio dell’alimentazione. Ma quelli non hanno in vista che la vita secondo
natura – la vita detta media – e stabilirono delle leggi che anche la moltitudine è pronta ad
accettare, dato che gli oggetti esteriori e corporei sono, da quella, ben considerati come gli
unici beni e gli unici mali». Trad. Bouffartigue leggermente modificata. Il senso è chiaro:
l’accecamento bestiale del volgo, che continua a uccidere delle creature viventi per
nutrirsene, non solo non è affatto incompatibile, ma solo permette la possibilità del vegetarianismo
senza che, per questo, i limiti di natura siano irrimediabilmente prevaricati dal filosofo.
21 Euripide, loc. cit.
22 Fornari 1997.
8
Orfeo era stato un iniziato di Dioniso.
Essendo sceso all’Ade a causa della moglie, e dopo che ebbe visto le cose di laggiù, Orfeo
cessò di onorare Dioniso.23
Orfismo e Pitagorismo saranno, perciò, capaci di invertire, ma non di
sovvertire una condizione umana rivelatasi d’un tratto – per un’intuizione
drammatica, straziante – come macchiata per sempre da una tabe
originaria.
***
La seconda anomalia allo schema filoniano è, come si è detto, il
cristianesimo.
Di fatto, il cristianesimo è in rottura di paradigma sia con gli uni che con gli
altri, mentre ingloba atteggiamenti sia degli uni che degli altri.
Siamo di fronte al paradosso di una religione che sembra abbracciare la
problematica umana nelle sue forme più disparate, e che – d’altra parte –
non si lascia ridurre ad alcuna di queste forme, né singolarmente prese, né
nel loro insieme.
Se, senza alcun dubbio, il cristianesimo riprende la posizione antisacrificale
del profetismo ebraico – basti pensare all’episodio di Gesù al suo ingresso
nel tempio di Gerusalemme – esso nega, d’altra parte, ogni vegetarianismo e
astensione dal vino, fino al punto di annunciare la personalità del Messia
con un franco ricorso al simbolismo della carne. Basti pensare – nel Vangelo
di Giovanni – alle nozze di Cana, debutto della sua manifestazione
pubblica, là dove un Terapeuta si sarebbe rallegrato per un pranzo di
matrimonio ove il ‘sangue’ viene a mancare. Basti pensare – questa volta,
nei Sinottici – alla conclusione del suo insegnamento: alla Cena per la
celebrazione della Pasqua, là dove ogni atteggiamento vegetariano di
purismo viene cancellato nel simbolismo dell’eucaristia.
Il banchetto messianico ingloba, e sorpassa, allo stesso tempo il ricorso
pagano al vino e alle carni e l’iper-purezza antisacrificale. Come sarebbe
possibile? Si vorrebbe, qui, proporre una sola osservazione che, mi sembra,
spiegherebbe anche il perché nella tradizione giudaico-cristiana (ma, si
dovrebbe dire, ugualmente pagano-cristiana, alla luce degli scacchi orfico e
pitagorico), una semplice attitudine di astensionismo, di fuga, di
perfezionismo e – tutto sommato – di elitismo a proposito del banchetto
politico si riveli inadeguata all’affrancamento della condizione umana.
Quest’osservazione ha per base una constatazione di fatto. Al di là delle
opposizioni che abbiamo appena visto, una sola, grande invariante sembra
abbracciare tutti questi atteggiamenti rispetto alla pratica del pasto comune.
Che si tratti di Filone, degli Orfici, dei Pitagorici, ovverossia della tradizione
23
Pseudo-Eratostene, Catasterismi 24 (Olivieri). Il corsivo è mio.
9
cristiana; che si parli di religione, di sapienza o di filosofia, la pratica del
banchetto, nel bacino del Mediterraneo, non è mai dissociata dall’atto
parallelo della messa in comune di una parola. Dagli aedi che coronano col
canto i leggendari festini di Omero al discorso tradizionale del testimone di
matrimonio non si sa mettere, assieme, alla bocca senza condividere al
contempo una parola. La pratica del banchetto rivela, in filigrana, un nesso
fondamentale e del tutto inatteso: quello che sembra legare manducazione e
fonazione. Non si mette in comune del cibo senza condividere, al contempo,
un sapere: vale a dire una parola, una conoscenza e una coscienza, in
religione come in filosofia, presso gli Ebrei, gli Elleni o i Cristiani; e il primo
segnale di un’alimentazione solitaria – del decadimento del banchetto al
rango di alimentazione – è proprio il silenzio in cui questa si consuma.24
Sapere e mangiare sono legati nelle origini, a Atene e a Gerusalemme, a
Qumran o sui bordi del lago Mareotide come – in Magna Grecia – a
Crotone e a Metaponto.
Tra queste figure del festino mediterraneo non vi è, naturalmente, alcuna
filiazione, eppure tutte senza eccezione trasmettono un legame,
apparentemente, originario tra due attività per noi così distinte come quelle
di nutrirsi e di comunicare. Da cosa dipende? Non saprei dire; ma è senza
dubbio là – in questa base primordiale – che si dovranno cercare le ragioni
di Gesù, così come dello scandalo che l’eucaristia cristiana mena presso gli
Ebrei come presso i pagani, per i difensori dell’ultra-purezza rituale così
come per gli apologeti dell’asinificazione dionisiaca.
***
Nella tradizione ebraica – dunque, altrettanto giudaica e cristiana – questa
invariante fondamentale lega, prima ancora che parola e nutrimento, uomo
e Dio, creatore e creatura, pasto in comune e – prima ancora che parola –
conoscenza. Penso alla scena del peccato originale: a Genesi 3, ove la
tentazione consiste nel desiderio di eguagliarsi a Dio; ove questa
assimilazione si dimostra con la scienza; e dove la scienza si acquista con un
atto alimentare.
La donna vide che l’albero era buono da mangiare e attraente per la vista – che
era, ancora, desiderabile per acquistare il discernimento. Prese, dunque, del suo
frutto e ne mangiò. Ella ne diede, ancora, a suo marito che era con lei, e anche
quello ne mangiò.25
24
Sebbene spesse volte si possano osservare dei surrogati alla pratica immemoriale del
pasto in comune accompagnato da parola: ad es. la lettura silenziosa del giornale, ovvero
una posizione delle sedie, nei fast food, che mette il consumatore di fronte a uno specchio.
25 Gn 3, 6. Trad. della Bible de Jérusalem.
10
L’attenzione di Eva è dirottata: 1. dalla relazione, 2. con Dio medesimo;26
1’. al desiderio, 2’. di essere come Dio. 27
E sarete come Dio, conoscendo e bene e male.28
Wattereh, wattichaq, watt’okhal, wattitten: una serie di quattro imperfetti
scandisce – nello spazio di un solo versetto – progressione e compimento
della scena originaria. Vedere, afferrare, mangiare, condividere: è il
banchetto del peccato originale.
Sembra, allora, arduo non mettere in relazione l’attitudine di Gesù durante
l’Ultima Cena con la colpa originaria della tradizione ebraica e cristiana. Il
simbolismo dell’eucaristia suggerirebbe, per conseguenza, una strategia
ulteriore in rapporto alle origini? Una conversione, o ricapitolazione al
posto di un negativo che – come un doppio in uno specchio – resti complice
di un delitto più originario?
***
In effetti, nella tradizione cristiana il Messia sembra rivisitare il banchetto
delle origini con lo scopo di ricapitolarlo: una parola che, nel linguaggio di Paolo:
ricapitolare ogni cosa nel Cristo,29
così come nell’opera di Ireneo di Lione, il fondatore della teologia,30 non
significa «riassumere», «stilare un sommario», o «raggruppare per sommi
capi», ma significa ripetere un’altra volta, così convertendo la significazione
originaria.31 Ricapitolazione è dunque, per Ireneo alla scuola di Paolo, tutta
la parabola di Gesù Cristo: discendere, incarnarsi, convertire, risalire, una seconda
sequenza formata da quattro verbi che sovvertono il valore degli imperfetti
di Genesi. In linguaggio pagano-cristiano: la colpa è cancellata grazie alla
ripetizione da parte della vittima, e non dell’aggressore, ovvero dell’iniziato
Grazie – e non nonostante – la mediazione di un inter-detto, come ben vuole J.-M. Verlinde.
«Come» Dio (K.): il doppione di un modello.
28 Gn 3, 5b. Mi discosto, in questo caso, dalla trad. della Bible de Jérusalem. Vi è ragione di
credere che la iunctura «bene e male» indichi – semplicemente – l’onniscienza di Dio (bene
+ male = tutte le cose).
29 Ep 1, 10 : omnia instaurare in Christo. È notevole che il lat. instaurare – impiegato da S.
Girolamo nella cosiddetta Vulgata, e perfetto equivalente del gr. anakephalaioo, utilizzato da
Paolo e Ireneo per indicare la ricapitolazione – contenga, nella sua etimologia precristiana,
precisamente un riferimento alla croce: gr. stauros, lat. in-staurare. Questa circostanza fa di
questa sola parola semplicemente una figura Christi : in latino classico, «ricapitolare» si dice
con l’espressione elevare-su-una-croce.
30 La cui opera colossale in cinque libri, Denuncia e confutazione della gnosi dal nome spurio, è
un’unica glossa a quest’espressione paolina, che Ireneo non smette di applicare e dispiegare
a tutta la sostanza della scienza di Dio.
31 Cfr. Sesboüé 1982, 245-72 e Sesboüé 2000.
26
27
11
dai sepolcri imbiancati.
L’attitudine di Gesù ci è così restituita nel racconto dei quattro Vangeli, e
prende, mi sembra, un valore paradigmatico al capitolo 6 del racconto
Secondo Giovanni il quale – come è noto – ispira particolarmente la liturgia
cristiana della messa.
L’attitudine di Gesù si dichiara al versetto 35 :
Gesù disse loro:
Io Sono il pane della vita.
Ripresa al versetto 48 :
Io Sono il pane della vita,
essa è amplificata, in un crescendo drammatico, dalla dichiarazione di 6, 51:
Io Sono il pane vivo, disceso dal cielo:
chi mangia di questo pane vivrà per sempre.
E, anzi, il pane che io darò
è la mia carne per la vita del mondo;
fino a diventare principio ultimo di discernimento al versetto 53 e seguenti.
Se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo
e non berrete il suo sangue,
non avrete la vita dentro di voi.
Chi mangia la mia carne
e beve il mio sangue
avrà la vita eterna
e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
La chiusura della progressione, a 6, 59, suggella secondo le norme della
composizione anulare la conclusione di questo scambio cruciale.
Fu questo l’insegnamento che impartì in una sinagoga a Cafarnao.32
Cionondimeno, la fine dello scambio non è la fine dell’episodio. I discepoli
medesimi sono turbati da quelle parole:
Ben dura è questa parola: chi potrà mai ascoltarla?33
Di conseguenza, la scena si prolunga in un resoconto delle reazioni
all’interno della cerchia dei discepoli. Da una parte, la defezione di un buon
32
33
Tradd. della Bible de Jérusalem.
Jn 6, 60.
12
numero tra di essi (ibid., 6, 66):
A partire da quel momento, molti si ritirarono e non andavano più con lui;
dall’altra, niente di meno che la professione di fede di Pietro, che Giovanni
colloca in questo luogo decisivo assieme al discernimento dei dodici apostoli
(6, 67 sg.).
Gesù disse allora ai Dodici: «Volete, forse, partire anche voi?»
La domanda del maestro spinge Pietro fino al riconoscimento del Santo di
Dio (6, 69) : dell’identità del Messia fatto uomo.
Simon Pietro gli rispose: «Signore, e da chi andremo?
Tu hai le parole della vita eterna.
Noi crediamo,
e riconosciamo che tu sei il Santo di Dio.»34
È l’unica via superstite allo scandalo e all’abbandono; e l’auto-dichiarazione
messianica si avvera, al capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, come la vera pietra
di paragone all’interno stesso del circolo dei discepoli.
Prima di questo avvenimento decisivo, d’altronde, Gesù ha fornito agli
amici una spiegazione supplementare. Questa dichiarazione capitale –
questa vera e propria auto-interpretazione – ha, mi sembra, lo stesso valore
che assumono nei Sinottici le spiegazioni di parabole riservate ai soli
discepoli.
È lo spirito che dà la vita: la carne non serve a niente.
Come interpretare queste parole? Qual è la loro relazione al contesto? È ciò
che spiega la frase seguente.
Le parole che vi ho detto sono spirito e sono vita.
È l’instaurazione della Cena del Signore: l’intervento di Gesù è, così,
spiegato e fondato.
Ciò che salva non è una fuga, o l’astensione, ma la conversione di una colpa
primitiva. L’orfismo, la sapienza pagana, le tradizioni ultra-sacerdotali
mimano il Paradiso perduto, il Giardino prima della caduta: fuggono, di
conseguenza – come dice il pagano Euripide – le origini sacrificali della
condizione umana. Non sembra questa la via di salvezza all’interno della
tradizione cristiana. Questo genere di attitudini anticipa, laggiù, senza
34
Jn 6, 68-69.
13
ombra di dubbio l’illusione gnostica.35 La salvezza non è un’astensione dalla
lettera: dal circolo vizioso del sacrificio animale, su cui si sofferma l’Epistola
agli Ebrei, 9, 25-36:
Né è per offrire se stesso a più riprese, come fa il gran sacerdote che rientra, ogni
anno, nel santuario ricoperto di un sangue che si rivela non essere il suo proprio,
giacché allora avrebbe dovuto soffrire ripetutamente dalla fondazione del mondo.
Ma, ora, è adesso, una volta per tutte, alla fine dei tempi che si è manifestato per
abolire il peccato grazie al suo sacrificio.
La salvezza è una conversione dello spirito del sacrificio operata dall’amore
dichiarato da Gesù (ibid., 12b).
Non con il sangue di capri e giovani tori,
ma con il sangue suo proprio,
avendoci acquistato una redenzione eterna.
Non violenza, dunque, ma dono – fino al per-dono, dono all’infinito.36 Non
costrizione, ma libertà piena. Né espulsione, né fusione: com-unione,
relazione. Non indifferenziazione, ma trascendenza, trasfigurazione. Non
commedia dell’innocenza, ma confessione di un pentimento. Non
accecamento, accettazione dolce. Né entusiasmo bestiale, redenzione
spirituale; e neanche abolizione – o sublimazione – della materia, ma
inveramento del Verbo nella carne. E neppure, semplicemente, carne, ma
Spirito Santo in questa carne. Non – dunque – lettera, trasfigurazione della
lettera; né ripetizione zoppa di un crimine, ma memoriale di un atto unico.
Sottratto a ripetizione perché perfetto.
Tra le due labbra del bacino del Mediterraneo – il versante meridionale
delle origini, l’arcata settentrionale della destinazione – il cristianesimo ha
affermato la sua fisionomia rendendo testimonianza su tre fronti al
contempo: quello giudaico, che poneva il ferro alle radici; quello pagano,
che attaccava di fronte; quello dell’eresia, che insorgeva all’interno. Tutte
queste tradizioni mettevano in questione precisamente l’eucaristia, la
conversione che Gesù ha durevolmente operato dell’uso mediterraneo di
mettersi a tavola. Contrariamente a ciò che sembra affermare Filone, la
purezza del banchetto, nella prospettiva cristiana, non sembra definita dal
cosa, ma dal come: non dalla purezza dell’astensione dalla lettera, ma dallo
spirito della vittima perfetta. Dunque dal cuore di Dio fatto uomo.
***
Fino al rifiuto definitivo di alimentarsi e alla morte conseguente per endura presso i Catari
nel XIII secolo, ovvero alla consumazione dei due eccessi solidali – orgiasmo sfrenato la
notte, ascesi mortifera il giorno – presso la setta di Carpocraziani negli Stromata di Clemente
Alessandrino (II-III sec. d.C.).
36 In perdono, il prefisso *per- ha valore intensivo.
35
14
L’orgiasmo dionisiaco e l’eucaristia cristiana divergono – per concludere –
tanto più quanto più si assomigliano. La loro opposizione, di fatto, è totale,
ciò che implica volentieri una certa simmetria.37 L’un modello è l’inverso
dell’altro. Il primo infrange, l’altro ricapitola. La chiave per comprendere
l’apparente contraddizione sembra essere il ruolo che giuoca l’amore nella
conversione della violenza: il rapporto dei protagonisti del sacrificio alla
violenza, la distribuzione dei ruoli in rapporto a quest’ultima.38 Nella
fondazione pagana, attiva è la funzione dell’omicida, nell’eucaristia quella
della vittima. Nell’orgiasmo dionisiaco, di segno positivo è l’espulsione della
violenza, nell’eucaristia il raccoglierla su di sé. È la vittima che diventa attiva
– i carnefici sono imbambolati nell’iterazione della colpa. Perciò, se il
sacrificio pagano è un’apologia della violenza, l’eucaristia cristiana è
un’apologia della carità: il concetto stesso di sacrificio è convertito. Se, da una
parte, la muta pagana si monda le mani, dall’altra la convocazione cristiana
si riconosce colpevole. Da un lato riconosce il male, dall’altro lo espelle su
una vittima innocente. Così, accettando il dono di un Dio che si fa vittima,
la comunità accetta di comunicare a questa vittima: di testimoniare il ruolo
della vittima fino – ove necessario – a configurarsi a questo ruolo.
L’ ‘affamato’ di sapienza, il ‘terapeuta’ disincarnato riconoscono l’inversione
proprio in quanto la rifiutano, e la loro astensione è una dichiarazione di
impotenza. Gesù, al contrario, intende liberare l’uomo assumendo
pienamente il meccanismo onde trasfigurarne, una volta per sempre, la
violenza. Il divieto del desiderio è stato infranto: Gesù, vero Verbo e vero
logos, ripara all’antica colpa donandosi egli stesso come nutrimento. Spirito,
dunque, come anticipazione e memoriale, e non cieca ripetizione. Nella
tradizione cristiana, Dio non dona la lettera del suo corpo e del suo sangue,
ma fa diventare proprio corpo e proprio sangue donando, per amore, il proprio
Spirito. La salvezza non è, dunque, un atto cognitivo, né la messa una
ripetizione della crocefissione di Cristo, ma il memoriale della sua
anticipazione – della decisione, libera, di Gesù di rimettere la propria vita a
tavola con i suoi amici. È lo Spirito che conta – la carne, la lettera, da sole
Cfr. Girard 1978, 241, coll. Girard 1972, 224 sg.
È dunque sorprendente che la riflessione di quel grande pensatore che è Girard non
abbia mai preso in conto il tema dell’eucaristia, così esponendosi alla critica ben giustificata
di Scubla 1985. Questo silenzio è tanto più sconcertante se si considera che è lo stesso
Girard a fornire – mi sembra – la chiave decisiva per risolvere l’intera questione : i contrari si
assomigliano, «per speculum in ænigmate». Cfr. Girard 1978, supra cit., e – in una bibliografia
sterminata – gli spartiacque di Loisy 1914 e Lagrange 1937 completati dalla sintesi di Nock
1952. Le somiglianze tra paganesimi e cristianesimo sembrano, oggigiorno, perturbare
anche Burkert, 1972, in Prefazione; e Detienne 1986 al cap. finale, surrogato nel 1998. Non
sembra casuale che la follia di Nietzsche si annunci col collasso della differenza suprema tra
Dioniso e Il Crocifisso: cfr., ad es., Girard 1984. Nei limiti della nostra prospettiva, vorremmo
rammentare che la filosofia nasce, precisamente, sulla presa di coscienza della somiglianza
ingannevole tra vero e falso: cfr. la rivelazione delle Muse ad Esiodo, Teogonia 16 sg., che
glossa Odissea 19, 203; Senofane, B 35 DK ; e Parmenide B 8, 52 e 60 DK, presso il quale
«verosimile» è sinonimo di «falso».
37
38
15
non servono a nulla; ma lo Spirito si invera nella carne e come carne: come a
dire, in cima al Golgota. Così l’eucaristia cristiana intende comunicare Gesù
sotto la forma della libertà di un amore che consente a donare la vita per gli
uomini.
Se pure parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli,
se non ho la carità
sono ottone che risuona e cembalo che tintinna.
E se, pure, donassi il mio corpo alle fiamme:
se non ho la carità
questo non mi serve a niente (1 Co 13, 1-2).
***
Seguendo un movimento di secolarizzazione che, di fatto, si eguaglia alla
parabola della civiltà occidentale-moderna, Girard ha rivoluzionato le
scienze dell’uomo facendo leva su una visione del cristianesimo che da
teologica si vuole antropologica. Ne risulta una concezione della verità come
scienza che – soprattutto nella prospettiva delle Choses cachées – sembra
rivendicare anch’essa il feticcio moderno dell’autonomia della ragione. È il
pendant metodologico, gnoseologico o metalinguistico dell’affermazione
cognitiva, o oggettiva, del cristianesimo come pura verità. Ne è, così, derivata
una terza questione metodica, che – dopo quelle del trattamento dimezzato
del cristianesimo e della congruenza tra l’antropologo e il suo oggetto –
solleva la questione scottante, e piuttosto frequente, della necessità o meno
di una conversione come mossa preliminare a ogni comprensione del
mimetismo. A questo proposito, vorremmo osservare che, proprio come il
presupposto dell’autonomia della ragione induce, in ultima analisi, la teoria
mimetica a fornire un trattamento zoppicante del suo centro, così la pretesa
di comprendere il cristianesimo da un punto di vista esclusivamente
cognitivo – come fosse un altro corpus di scritture da sottoporre all’analisi
comparativa, o come una rivelazione di cose nascoste capace di
interrompere, ipso facto, i meccanismi occulti della violenza collettiva – fa
torto alla rivelazione della verità come un amore che sorpassa ogni conoscenza.
Sto pensando al paradosso dell’Epistola agli Efesii, a un amore che,
paradossalmente, fa «conoscere» ciò che è «al di là di ogni conoscenza»:
questo ‘inconoscibile’ che viene ‘conosciuto’ come ‘al di là’ di ogni
conoscenza è, in effetti, quell’amore medesimo che, per amor nostro, ci fa
dono di se stesso.
Riceverete così la forza per comprendere, insieme a tutti i santi, ciò che è la
Larghezza, la Lunghezza, l’Altezza e la Profondità: conoscerete l’amore di Cristo che
sorpassa ogni conoscenza, e entrerete, grazie alla vostra pienezza, in tutta quanta la
Pienezza di Dio (Ep 2, 18 sg.).
16
Come, dunque, da un punto di vista metodologico, anche nel caso
particolare del cristianesimo l’antropologo dovrà fondarsi altrettanto sul rito
che sull’analisi esaustiva del mito, così, da Aristotele a Einstein – e persino
nella cosiddetta logica della scoperta scientifica – è noto che la formulazione
intuitiva di un’ipotesi non ottempera agli stessi criteri di un suo anello
deduttivo. Se, dunque, la comprensione del cristianesimo dipende,
anch’essa, da un’analisi della coerenza rito-mito, la strada da intraprendere
– se non sarà teologica – non sarà, neppure, tout court antropologica, ma –
secondo il linguaggio dei Padri – mistagogica: teoria, verità e esplicazione
cognitiva si fonderanno, allora, sul rito, proprio come agli inizi della
tradizione cristiana.39
39
Si intende per mistagogia – alla lettera, l’accompagnamento (agoghia) alla comprensione
del Mistero cristiano (*myst-) – l’abitudine antica dei vescovi cristiani di pronunciare l’omelia
alla fine della Messa, onde meglio comprendere i Misteri già celebrati. La pratica antica
vede, oggi, una rinascita soprattutto per opera di Christian Salenson (se ne veda, ad es., il
libretto Catéchèses mystagogiques pour aujourd’hui, Paris, 2008, che raccoglie, tra l’altro,
un’esplicazione dell’eucaristia fornita a Lourdes nell’ottobre 2007). A differenza di quello
antropologico o teologico, l’accesso mistagogico alla religione cristiana permette di rispettare
le priorità metodologiche che si devono al rito rispetto alla rivelazione discorsiva della
verità, così confermando il tramonto del feticcio dell’autonomia della ragione umana. Così
– come in mistica, ovvero in filosofia – anche in mistagogia, e sul piano rituale, il
dispiegamento discorsivo della verità dipende da un nucleo più importante e originario che è
intuitivo, kerigmatico, evenemenziale, mistico o liturgico a seconda della prospettiva che si
intende fare propria.
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