SAMIZDAT
COLOGNOM
Numero 2 giugno 2000
DIARIO -CRONACHETTA
Unico sprazzo di gioia pubblica: ho
partecipato alla manifestazione contro
il Centro di via Corelli a Milano.
Poi il lavoro paziente nel deposito della
vita quotidiana: accudimento delle
faccende
di
casa,
trasloco,
corrispondenza e-mail con amici,
“covare” dei testi per alcune riviste
culturali, esplorazione dall’interno
della miseria sociale di un condominio,
ascolto dei travagli esistenziali di
conoscenti.
A
mezza
strada,
l’improvvisa
evaporazione
dell’Associazione
Culturale Ipsilon, proprio quando si
stava pensando di “festeggiare il
decennale” (L’avevamo fondata nel
1989, l’anno di un’altra evaporazione ,
del PCI).
Non mi resta che riconoscere la
divaricazione delle intenzioni dei
partecipanti, pochi, pochissimi ma
amici da lunga data, e fare, a modo
mio, dei dignitosi funerali (Cfr. 10 anni
di IPSILON).
L’amalgama non è riuscito se non
all’inizio e in rare occasioni. I percorsi
si distanziano: io continuerò a scrivere
ancora da solo Samizdat Colognom,
altri
hanno
fondato
Società
democratica antiliberista o tacciono,
presi dai piccoli vortici (o schermi)
quotidiani della professione, della
famiglia, della vita, come si dice.
“Digerita” la guerra in Kosovo. E
Timor Est, la Cecenia?
Digeriscono tutto, ma - come il piccolo
animale sanguinario della poesia di
Fortini – hanno “morso nel veleno” e
qualche effetto mortuario (fosse solo
elettorale!) si nota.
Ma anche nella posizione dell’esodo,
l’impotenza (la solitudine) attutisce
l’emozione politica.
Constato, comunque, anche su di me
l’effetto narcotico dei mass media.
Se non danno rilievo a certi eventi (ad
es. i fatti della Cecenia), l’emozione
non scatta. Se davvero andassimo dove
ci porta il cuore, staremmo freschi.
Saremmo negli stagni delle emozioni
quotidiane mai più rimescolati (e
anche turbati positivamente) da
emozioni civili.
Quando
si
dice
colonizzazione
dell’inconscio!
Quanta “emozione” :nel caso del
Kosovo è stata solo debitrice dei mass
media!
Su QUI. Appunti dal presente, una
rivista alla macchia su Internet del mio
amico
Massimo
Parizzi,
uno
psicanalista ha tenuto un diario durante
la guerra in Kosovo (“la guerra di
maggio” per qualcuno...). Bene, ad
ossessionare i suoi sogni è stata la
figura del “cattivo” di Milosevic.
E perché non quella di Clinton? – mi
sono chiesto.
Perché l’inconscio assorbe dalla
seconda natura prodotta dai mass
media e dall’adesione compiacente ai
miti democratici della comunità in cui
viviamo.
Si deve annaspare con l’intelletto per
scovare nella giungla massmediologica
la notizia e il commento rivelatore di
cui nutrire
intelletto e cuore,
attrezzandoli agli eventi che
ci
plasmano nostro malgrado.
Anche il fallimento di Ipsilon mi fa
pensare alla difficoltà di costruire
nuovi luoghi (singoli e/o collettivi) che
tengano sveglia la coscienza critica e
permettano di bonificare un tantino
l’inconscio.
Nel frattempo il luogo della solitudine
(l’esodo la produce o almeno se la
trova addosso) e i luoghi cenacolari o
“alternativi” (come i Centri Sociali
preferiti dai giovani), che con l’esodo
non contrastano poi tanto, sono
comunque dei surrogati.
Siamo di fatto avvolti nei flussi
comunicativi dei mass media, abbiamo
poche possibilità di rapporti autonomi e
diretti gli eventi-simboli della crisi
contemporanea.
Vi prevalgono più l’espressione del
disagio presente rispetto al falso e
imponente Nuovo e la sistemazione o
conservazione intelligente del Passato
ripulito, di una Storia compiuta (Questo
faccio con Stocolognom). Sincerità ci
vuole.
Possibile
che
sbagli
sempre
compagnia? Qualcuno mi potrebbe
rimproverare di attardarmi con la
sinistra moribonda e di restare nella
scia dei loro problemi. Ma questo
qualcuno è figura della mia
immaginazione per il momento (. Dallo
stare qui, a Colognom, non viene lo
scatto per mettermi con gli antagonisti
dichiarati (quelli del Leoncavallo?
Quelli di Derive e Approdi?)
I tentativi di approccio reali sono falliti.
E’ un caso?
Può darsi che anche questi antagonisti
del sistema non hanno - per la loro
approssimazione
e
l’autismo
narcisistico che spesso caratterizza i
loro gesti politici – presa su di me.
L’esodo, per chissà quando tempo
(poco, perché sono vecchio), me lo
devo fare da solo, come i miei
samizdat.
Nella
risposta
che
ho
dato
all’Associazione Baldisseri di Siena sul
tema della militanza oggi, nella
corrispondenza con Luperini e Cataldi
e nella rivista Chichibio torna il tema
dell’umanesimo. (Il tema della scrittura
oggi, proposto dalla Fondazione
Bianciardi di Grosseto è affine).
Mio
scetticismo
verso
una
riproposizione a tutto tondo e magari
anche
consapevolmente
e
provocatoriamente (nella situazione
d’oggi) conservatrice di questo valore.
Maggiore interesse ad affrontare il
tema della crisi dell’umanesimo e dei
motivi e delle possibili proposte di
soluzione.
Raccatto spunti.
[Patrick Viveret, Una sfida all’umanesimo, Le
monde diplomatique il manifesto, febbraio 2000
Parla dal punto di vista della tradizione umanistica
progressista contro le tesi della “post-umanità” di
Fukuyama (destra conservatrice americana) e Peter
Sloterdijk (sinistra radicale tedesca contro Habermas e
le tesi della Scuola di Francoforte). All’eugenetica
fascistizzante non si può contrapporre solo lo sdegno:
“Vi sono due importanti ragioni per sottoporre a
un’analisi lucida la crisi dell’umanesimo della
modernità. In primo luogo, la sua insufficiente
attenzione per la mutazione informatica, così come per
la rivoluzione biologica. La seconda ragione... attiene
alle carenze del trittico individuo/ragione/progresso,
quale era stato costruito a partire dall’Illuminismo”.
L’umanesimo è fragile sul piano dell’ecologia: è
affascinato dal progresso tecnico e quindi dal “nuovo
trittico scienza/tecnica/mercato” e sul piano
antropologico: vuole rifondare il legame sociale sul
solo individuo ignorando l’inserimento collettivo,
facilitando le logiche stataliste.
La tesi: per resistere ai fantasmi della post-umanità
bisogna tener conto della mutazione indotta dalle
tecnologie dell’informazione e dalla rivoluzione del
vivente. Il pericolo massimo è quello delineato dalla
prospettiva della clonazione, parte emergente di un
iceberg e indice di una fantasia infantile di
onnipotenza. Bisogna lottare per il divieto
generalizzato della clonazione umana. Bisogna, contro
il fascino del mito e dell’Indifferenziato (del
Medesimo) affermare “un progetto nel quale l’alterità
costituisca un’opportunità e non una minaccia”, in una
prospettiva di rifondazione dell’umanesimo.]
[Cini, Clonazione mercantile, il manifesto 29
febbraio 2000
“Lo scandalo non è la clonazione, ma il brevetto”, col
quale si arriva a “colmare l’abisso che separa la
materia inerte da quella vivente”. Non potendo
intervenire sui laboratori militari segreti che “studiano
la guerra genetica come prima studiavano guerra
chimica e batteriologica” (D’Eramo), si può rendere
pubblica la ricerca civile e affermare qui che “la
materia vivente non può essere brevettabile in nessuna
forma”, distinguendo fra studio (obiettivo lecito e
socialmente apprezzato) e riduzione a merce ( da
proibire): ogni scoperta deve essere a disposizione di
tutti. E non è vero che senza l’incentivo del profitto, la
ricerca verrebbe rallentata. Moltissimi sono gli
scienziati appagati dal “godimento intellettuale che
provano nel capire come e fatto il mondo” e dei
finanziatori
privati
si
potrebbe
fare
a
meno:“basterebbe che gli stati dedicassero alla
ricerca un decimo delle lore spese militari”.. Il rischio
che la forza del mercato introduca nella biosfera
organismi manipolati che possono produrre delle
Cernobyl biologiche dalle conseguenze ancora più
pericoloe e imprevedibili di quella nucleare” è
enorme.
CONTATTI/ Nuovi immigrati
ISMAIL SAMIR
Incontro del 31 ottobre 1999
Abita con la giovane moglie e due bambini,
uno di 2 anni e l’altro di 7 mesi, al settimo
piano di via Monte Grappa 35.
L’appartamentino è minuscolo: una stanzetta
con l’angolo cucina, un divano, un tavolinetto
lungo col piano apribile e un’altra stanza, di
certo la camera da letto, nella quale sulla
parete in alto ho intravisto soltanto un
televisore che trasmetteva programmi
egiziani. C’è un balconcino con una rete alta
per evitare al bambino di sporgersi.
Anche se la temperatura non è mite - per tutto
l’incontro io mi sono tenuto addosso
l’impermeabile – la finestra e la porta
d’ingresso restano spalancate.
Interrogo Ismail, mentre la moglie è seduta ad
ascoltare con in braccio il bambino e si alza
due volte per prepararci un caffè e, alla fine
della chiacchierata, un succo di frutta, che mi
offre in una coppa da champagne.
Lei l’avevo già vista e in una circostanza
drammatica.
Mia figlia, che mi ha procurato l’incontro
d’oggi, abita allo stesso piano e, un giorno
[...] che ero a casa sua, sentimmo
all’improvviso urla e rumori sul pianerottolo.
Aperta la porta, vedemmo la moglie di Ismail
distesa sul pavimento semisvenuta, assistita
da una vicina di casa e il bambino di due anni
piangente accanto a lei.
Pareva che fosse scoppiata la bombola del
gas. La donna non parlava italiano. Mia figlia
corse a chiamare la moglie del libanese al
secondo piano, perché potesse fare da
interprete. Corsi nell’appartamento, ma non
c’era odore di gas. A scoppiare era stato un
accendino di plastica, di cui trovammo i resti.
Forse era stato avvicinato imprudentemente
alla fiamma del fornello.
Ismail è magro e parla veloce, a scatti, in un
italiano poco fluente, non imparato a scuola
ma – come il francese – nelle occasioni
pratiche create dal suo lavoro.
E’ nato nel 1960 a El Mehala (Gharbia) – mi
faccio scrivere il nome - una città di 2 milioni
di abitanti. (Sulla Garzantina di geografia
trovo poi solo Al Mahallah...).
Ha sei fratelli e due sorelle. Suo padre ha
lavorato in una grande azienda statale di filati
e tessuti. Mi pare di capire che, prima di
andare in pensione, facesse il caporeparto e
che la fabbrica a ciclo continuo impiegasse
circa 150.000 dipendenti. Un po’ me ne
stupisco, ma il tentativo di approfondire la
questione fallisce.
Ismail è stato a El Mehala fino a 27 anni e ha
studiato elettronica [?]. Poi è andato a Parigi e
per 6 anni vi ha lavorato come imbianchino.
Nel frattempo è venuto una volta, per tre o
quattro mesi, a Milano e dal ’92 è a Cologno
Monzese. Ha fatto sempre l’imbianchino. In
Italia è stato dapprima alle dipendenze della
ditta Orlandi di Lecco e ora lavora assieme ad
altri due connazionali in una piccola società
artigianale indipendete, la Delta snc (società
in nome collettivo).
Pur trovando più socievole e aperta la vita a
Parigi, ha preferito stare in Italia, perché vi ha
trovato maggiore possibilità di lavoro e qui ha
ottenuto un permesso di soggiorno regolare.
Se il lavoro dovesse mancare, tornerebbe in
Egitto. Mi fa capire che comunque il governo
egiziano garantisce un minimo di reddito di
sussistenza ai disoccupati .
Dell’Italia, quando era al suo paese, aveva
un’immagine generica.
Spaghetti, football, pizza: questi erano i
simboli del nostro paese che gli erano noti o
l’interessavano.
Parla dei giovani francesi e italiani e nota che
rifiutano il lavoro pesante, ma evita di dare un
giudizio negativo esplicito e preferisce
mostrarsi comprensivo. In fondo – mi fa
capire - tutti i genitori vogliono che i loro figli
abbiano condizioni di vita e di lavoro
migliori.
Approfondisce poco anche la questione del
razzismo verso gli stranieri. A lui episodi
spiacevoli non sono accaduti. Certo, mentre in
Francia nei cantieri la maggioranza dei
lavoratori è straniera, qui in Italia sul lavoro
più numerosi sono ancora gli italiani. e mi fa
intendere che, perciò, è più diffusa la
diffidenza e l’ostilità verso i lavoratori
stranieri. Ma non mi fa esempi.
Il suo lavoro è faticoso. Torna a casa stanco e
ha poche occasioni di uscire la sera. A cinema
non ci va. Vede la televisione via satellite.
E’ islamico “al cento per cento” e, toccatoda
una mia domanda, infervorandosi, mi dice che
il terrorismo algerino non ha nulla a che fare
con l’Islam.
Dell’Egitto mi faccio scrivere i nomi di alcuni
scrittori a lui noti: Kasem Amen, Nagib
Mahfoz, Mostafa Amin.
Mi aggiunge che la metropolitana in Egitto è
più pulita di quella italiana grazie anche al
controllo molto severo della polizia.
Certo le strade sono più sporche, ma la causa
è da cercare nel caldo, nella polvere e nella
scarsità di pioggia.
Lui non è mai stato nel sud dell’Egitto dove la
povertà è più diffusa. Mi conferma la
divaricazione della società fra ricchissimi e
poverissimi e mi accenna alla Zakat, che
dovrebbe essere la tassa che, secondo il
Corano, i ricchi dovrebbero versare a favore
dei poveri.
ALLOUCHE ABBAS
Incontro del 1 novembre 1999
Ha 36 anni. E’ nato nel 1964 a Beirut e vi ha
vissuto fino a 17 anni diplomandosi come
elettricista. Suo padre faceva l’artigiano
(muratore) e aveva sei figli maschi e tre
femmine.
L’invasione israeliana del Libano nel 1980 (?)
costrinse tutta la famiglia ad abbandonare la
casa e i terreni di proprietà e a rifugiarsi nella
campagna a sud del paese.
Scapparono assieme a molte altre famiglie,
quando già arrivavano i primi missili su
Beirut.
Nel 1987, per le difficoltà incontrate nella sua
professione di elettricista – spesso non gli
pagavano il lavoro finito, i prezzi del
materiale elettrico
subivano sbalzi
speculativi, assenza di qualsiasi controllo
statale – decise di partire.
La tradizione mercantile del Libano, le sue
personali ambizioni di diventare un
commerciante e la sua ammirazione per il
made in Italy gli fecero scegliere senza
esitazioni l’Italia.
Non partiva alla disperata. Portava con sé un
piccolo capitale (circa 18 milioni) e aveva a
Milano un cugino, già commerciante, che
abitava a Lambrate e esportava prodotti
italiani in Medio Oriente: giocattoli, articoli
da regalo, eccetera.
Con lui ha aperto un magazzino a Bareggio
per esportare soprattutto in Libano e negli Usa
scotch e grandi rotoli di carta.
Ma gli affari sono andati male. La loro merce
non reggeva la concorrenza e non ha trovato
spazio sui mercati.
E’ rimasto in Italia e fra ‘90 e ’91 ha ripreso il
suo mestiere di elettricista, ma come
lavoratore dipendente in varie ditte. Ha
lavorato così per altri 4 anni. Non si trattava
di lavoro nero, ma non tutto è andato sempre
liscio. Mentre lavorava per la Telecom in un
cantiere di via Washington a Milano, dov’era
assunto a tempo indeterminato, si è visto
recapitare una lettera di licenziamento: “a
causa della crisi in Lombardia non abbiamo
più appalti”. Assieme ad altri 15 lavoratori
licenziati si sono rivolti alla Camera del
Lavoro. La causa intentata è ancora aperta,
ma non si sa per quanto tempo si prolungherà.
Abbas definisce una “giungla” il mondo del
lavoro: “Ti mangiano legalmente”.
Dopo il licenziamento si è rassegnato a fare i
lavori che gli capitavano. Se li procurava nel
giro dei suoi amici libanesi e italiani. Ha fatto
il controllore dei biglietti ai concerti e alla
sala pattini al Forum di Assago. Ha fatto
anche il manovale nell’edilizia.
In questo periodo ha vissuto in affitto.
Occupava assieme a due studenti italiani un
appartamento (un salotto e una camera da
letto). Pagavano 800mila lire al mese.
E’ stato il momento più difficile per lui. Non
poteva mandare soldi ai suoi genitori, a cui è
molto legato e ha dovuto chiedere soldi in
prestito agli amici.
Ma la sua voglia di riuscire nel commercio
l’ha di nuovo spinto a fare società con un
italo-libanese. Hanno aperto un magazzino
per selezionare e poi esportare in Medio
Oriente e in Africa indumenti e scarpe usate.
Hanno affittato un capannone. Si sono
riforniti da un grossista italiano. Ma anche
stavolta i buoni guadagni sperati non sono
arrivati.
Abbas riassume così le difficoltà: “La merce
parte, ma il cliente non paga” e mi fa
l’esempio di un suo cliente, che aveva scelto
la merce di persona, pagando immediatamente
la metà del prezzo pattuito, e ha poi contestato
l’acquisto all’arrivo a destinazione. Non ci
sono leggi che proteggono da queste truffe,
mi dice.
Chiusa anche quest’attività, è passato a fare
l’intermediario nel commercio di scarpe
nuove. Lavora con ditte di Padova e Rovigo.
Accompagna in fabbrica i grossisti
mediorientali con cui entra in contatto e
riceve una percentuale sugli acquisti
realizzati.
Ovviamente il guadagno non è alto ed egli ha
deciso di affiancare a quest’attività il suo
lavoro di elettricista.
A Cologno Monzese è arrivato la prima volta
nel 1993.
I due studenti, che abitavano con lui
nell’appartamento di Milano, avevano finito
gli studi ed egli non poteva pagare da solo
l’affitto di 800mila lire.
Ha conosciuto una persona di Taranto, che a
650mila lire ha affittato a lui e ad un altro un
prefabbricato industriale, riscaldato con una
stufa elettrica, in via Brunelleschi
Ci ha abitato due anni. Accanto al
prefabbricato c’erano altri edifici abusivi in
pessimo stato, affittati a 500mila lire al mese
ad una famiglia calabrese e a un famiglia della
Somalia.
Lo speculatore metteva e toglieva la corrente
elettrica a suo capriccio. Sono arrivati ai ferri
corti e assieme agli altri hanno denunciato la
situazione ai carabinieri e al Sunia.
Dal 1996 è in un piccolo appartamentino di
35 mq. al primo piano di via Monte Grappa
35.
Ci abita con sua moglie, Chraim Nahla,
libanese, e Alì, il figlioletto di due anni nato
in Italia.
Hanno un contratto “transitorio”. “Quello per
le prostitute”, mi dice polemico Abbas. Paga
800mila lire un appartamentino,
che gli è
stato affittato come “ammobiliato”, ma che
aveva all’inizio solo un tavolo e un armadietto
da cucina (anni ’60) e un armadio a muro
nella camera da letto.
Col proprietario è in urto, perché – mi dice –
rifiuta di rifare le tubature e di far riparare dei
termosifoni che non funzionano.
Mi fa entrare nel bagno per mostrarmi il
soffitto scalpellato. Ci sono dei tubi
deteriorati e una macchia di umidità su una
parete.
Da tre mesi ha deciso di non versare più
l’affitto, per ripagarsi in qualche modo dei
lavori che lui stesso ha dovuto fare
nell’appartamento.
Sua moglie, dopo aver preparato per noi due il
caffè, segue silenziosa il nostro colloquio,
guardando la televisione.
C’è anche un giovane, loro parente, che poi
va via e mi saluta.
Alì, il bambino, tenta di farsi notare facendo
rimbalzare con forza sul pavimento una
piccola pallina di gomma.
Abbas ha imparato l’italiano da solo. Ha
seguito solo un mese la scuola per stranieri in
via Benedetto Marcello; e l’ha insegnato poi
alla moglie, senza farla iscrivere alla Scuola
d’italiano per stranieri del Comune di
Cologno. Credo anche per diffidenza.
La sua vita è tutta dedicata al lavoro e alla
famiglia. Con la moglie ha fatto dei viaggi per
vacanze a Bormio, a Massa Carrara ed in
Germania, in visita ad amici libanesi.
Di Cologno sa poco. Ha fatto ricorso al
Consultorio quando sua moglie era incinta e
pensa di mandare il bambino alla scuola
materna. Non all’asilo nido. E’ convinto che
nei primi anni il bambino debba stare
soprattutto con sua madre.
Ha fatto la domanda per ottenere una casa
popolare. Ha presentato tutti i documenti. Ha
mandato spesso la moglie a parlare con
l’assistente sociale. Ma sono sei anni che
aspetta.
E’ sfiduciato e sospetta intrighi e
raccomandazioni. Pare, mi dice, che se uno
straniero accetta di andare nell’albergo
convenzionato col Comune (quello in fondo a
via Cavallotti), trova più facilmente casa. Ma
lui aveva la moglie incinta e non ha voluto
andarci.
Sa che la moglie qui è spaesata e passa gran
parte del suo tempo in casa col bambino. Sta
pensando anche di farla tornare in Libano col
bambino.
Il problema della casa è per lui davvero il più
urgente e essenziale.
Se il Comune fosse davvero “sensibile” e non
solo alle esigenze degli stranieri ma dei
lavoratori dovrebbe fare qualcosa su questa
questione. Non è possibile che uno prenda
due milioni al mese e debba pagare un
milione d’affitto. Gli sembra uno scandalo e
se la prende con il “capitalismo sovrano”. Del
resto egli rivendica il “diritto alla casa”
(proprio come facevamo noi negli anni ’70,
mi viene da pensare). Non chiede elemosine.
Lui lavora, paga le tasse, paga la Gescal.
Perché non dovrebbe ottenere una casa
almeno di due locali senza spendere – come
gli hanno chiesto - 1 milione e 300mila lire al
mese?
Si è rivolto anche a don Ernesto, il prete della
parrocchia
di
S.
Maria,
animatore
dell’associazione Una casa per gli amici.
Ma le richieste sono tante, gli ha risposto.
Sposto il discorso sull’islamismo. Abbas è
musulmano e reagisce alla mia “domanda
provocatoria” sul fondamentalismo islamico o
sulla situazione in Algeria o in Afghanistan,
dicendo che l’Islam non ha niente a che fare
con quei “fanatici” e con la loro selvatichezza
da “animali”.
E anche a proposito della recente
manifestazione a Torino dichiara la sua
disapprovazione. La rivendicazione del diritto
delle donne islamiche a portare il velo anche
nelle foto segnaletiche non la condivide:“Se ti
trovi in un paese e ci sono certe leggi, devi
rispettarle. E, allo stesso modo, nessun
italiano può imporre a una donna araba di
mettersi la minigonna. L’Islam è contro questi
fanatici”.
Per lui ogni civiltà ha le sue cose belle e
brutte.
L’Europa suscita la sua ammirazione per le
tecnologie. Ma qui “si è persa la base umana e
la gente vuole solo far soldi”.
Il mondo islamico ha il valore del legame
familiare “stretto e forte”.
Per Abbas uomo e donna (marito e moglie)
hanno nella famiglia ruoli precisi e
inconfondibili: l’uomo si deve “fare in tre”
per mantenere la famiglia e non mandare la
donna a lavorare; la donna è la “padrona della
casa”, a cui il marito lavoratore affida la
gestione.
La donna europea, che lavora e vuole essere
emancipata, è per lui “più trascurata” di quella
araba, che “non è obbligata a lavorare” e “ha
più tempo per i figli e non deve affidarli alla
nonna o alla tata”.
Se questi ruoli precisi non vengono rispettati,
se la donna è costretta (o sceglie) di giocare
contemporaneamente due ruoli, quello della
casalinga-madre e della lavoratrice, “spacca”
la famiglia.
La forza di queste tradizioni non può essere
annullata dall’immigrazione. Se uno straniero
che arriva in Europa, dimentica i suoi legami
e i suoi costumi, sbaglia e la colpa è sua: “l’ha
voluto lui”, nessuno glielo impone.
Abbas sente di avere un legame (“un debito”)
coi suoi genitori. Perciò ritorna almeno una
volta l’anno in Libano, e non in periodi
necessariamente festivi. Sente questo viaggio
come un segno di devozione ai genitori e ai
parenti, un modo di “saldare” quel debito.
Ma è possibile conciliare modernità e
tradizione in modo così liscio? C’è sempre il
ritorno del migrante-Ulisse alla patria?
Gli faccio notare che la modernità ha distrutto
o deformato quel mondo tradizionale non solo
qui in Europa, ma anche nei paesi arabi o
africani (o dovunque).
Gli vorrei anche esprimere i miei dubbi su
un certo attaccamento alle “radici”, che ha
effetti devastanti, e dirgli che la modernità ha
svelato anche nuove possibilità sia agli
uomini che alle donne, ai singoli.
Ma è tardi e non mi va di intaccare a freddo la
sua fiducia così ferrea nella possibilità di
tenere assieme i valori della modernità e
quelli della tradizione: “Devi traballare fra un
mondo e l’altro. Io lavoro qui ma torno
sempre a casa”.
Mi accontento di cogliere in silenzio che
l’esperienza ibrida dell’immigrato costringe
pure Abbas a contraddirsi: “Oggi non si può
più tornare indietro: chi ha l’automobile non
può usare l’asino, chi ha la lavastoviglie non
può lavare a mano i piatti”.
Spunti al margine di questi incontri
Illuminati, Il colonialismo delle differenze, il
manifesto 1 marzo 2000 (recensione a: Johannes
Fabian, Il tempo e gli altri-la politica del tempo in
antropologia, ed. L’ancora del mediterraneo,
Napoli)
E’ la critica (affine a quella di Edward Said per
l’orientalismo della cultura otto-novecentesca)
dell’antropologia “che fissa altri uomini in un
altro tempo, rimuovendoli dal presente del
soggetto parlante/scrivente”, comunque basata su
un originario modello evoluzionistico, rimasto
inalterato nello strutturalismo di Greimas o Levi
Strauss o nell’antropologia simbolica1.
Quest’antropologia arriva alla “pietrificazione
della relazione (entro) gli schemi di una storia a
senso unico: progresso, sviluppo, modernità
versus immobilità, sottosviluppo, tradizione”.
Suoi presupposti: l’idea di tempo storico come
secolarizzazione della storia sacra giudaicocristiana; l’idea di scienza come “viaggio di
esplorazione e successiva conquista”.
Contro la concezione positivistica dell’etnografia,
strutturalismo,
relativismo
culturale
e
antropologia simbolica possonoessere considerati
avanzamenti “nella misura in cui spostano l’asse
verso il linguaggio e la comunicazione
intersoggettiva”, ma questi strumenti intellettuali
non evitano che “il conoscente rivendichi un
potere più o meno benevolo sul conosciuto, che
ben raramente può a sua volta configurarsi come
conoscente, come antropologo dell’Occidente”]
LA SCUOLA DA LONTANO
La tentazione di Orbilius
Intervista2 a Carlo Oliva*
-
Partiamo dall’inizio. Come nacque
Lettera ad una studentessa?
Questo libro era nato da un’idea di Luigi
Manconi. Lui allora era nella direzione
editoriale della Savelli e collaboravamo
insieme ad Ombre rosse. Nella collana da
lui diretta (“Attualità politica”) uscivano
testi politici d’esplorazione, di frontiera. E
questo libretto era stato pensato come una
parodia. Ci pareva che le argomentazioni
allora correnti sulla scuola, sul lavoro
dell’insegnante, sullo studente fossero
deboli. Ma altrettanto fiacco ci pareva il
punto di vista dei tradizionalisti. Insomma
non erano convincenti né gli uni né gli
altri. Volemmo allora sviluppare per
eccesso le posizioni dei tradizionalisti
d’allora, per mostrarne appunto la
debolezza. Oltretutto in quegli anni –
siamo attorno al ‘78-‘79 – il movimento
degli insegnanti si trovava su un crinale:
stava per rinunciare alle posizioni
1
In quest’ultima si ha “una prevalenza del tratto
visuale come stile cognitivo riduttivo, che privilegia gli
elementi e i dispositivi tipici della civiltà occidentale”
2
L’intervista risale al gennaio 1999
-
-
-
antiautoritarie e libertarie e volgersi alla
riscoperta del proprio ruolo e al recupero
della figura tradizionale.
Orbilius è dunque una maschera del
docente di allora.
Sì, sia del vecchio insegnante che non
aveva capito niente del ’68 sia di quello
che cominciava a stancarsi e ripensava la
propria professionalità in termini tutto
sommato tradizionali. Il nome classico
aveva questo significato. Orbilius è una
figura storica, citata in una delle Satire di
Orazio, che si lamentava di aver dovuto
studiare sotto la sua egida autori per lui
arretrati e poco interessanti (e di essere
preso a frustate quando non lo faceva).
Che effetto ebbe Lettera ad una
studentessa sui lettori di quegli anni?
Il libretto ebbe più successo del previsto.
Ma, con mio disappunto, fu preso
terribilmente sul serio. Per la prima volta
ho capito che in Italia non bisogna mai
fare troppo gli spiritosi. Il libretto, infatti,
venne
visto
come
una
seria
argomentazione a favore del recupero
della
professionalità
scolastica
tradizionale.
Il pubblico del mio libretto? La collana in
cui uscì era di opuscoli politici e quindi la
destinazione era quella dei militanti di
allora, magari la fascia medio-alta che si
occupava di problemi teorici: i lettori di
Ombre rosse, di Quaderni Piacentini, ecc.
Di recensioni non ne ebbi. Fu un testo da
occupazioni, molto usato cioè durante le
occupazioni studentesche e anche nei
corsi abilitanti degli insegnanti. Ci furono
una quantità di articoli ed articoletti in cui
il libro veniva – ahimé! - presentato come
segnale di una svolta: finalmente gli
insegnanti sessantottini si rendono conto
che bisogna ricominciare a bocciare gli
studenti. Una reazione che mi aveva
irritato parecchio e mi aveva fatto giurare
che non avrei mai più riprovato a fare
della satira di questo tipo.
Ti confesso che io pure intesi all’incirca
così quel messaggio. Coglievo la forma
satirica, ma il corposo contenuto
“reazionario” mi pareva che la
“sfondasse” e s’imponesse.
-
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-
-
Sì, molti l’hanno preso così. Io non riesco
ancora a capire perché, nel senso che il
tipo di argomentazioni di Orbilius è
fortemente esagerato.
Forse la maschera di Orbilius non era
affatto esagerata sia per i docenti
impermeabili al ’68 sia per quelli stanchi
o delusi. L’identificazione “seria” era,
malgrado le tue intenzioni, resa possibile
dalla situazione di crisi. Io, stando nella
scuola da “militante”, sentivo l’aria che
tirava, la temevo e ero più sensibile
soprattutto all’ideologia lì veicolata.
E’ difficilissimo autoriconoscersi in una
satira. Io ho sempre pensato che nella
scuola ci fosse un eccesso di autostima e
ci si desse troppa importanza. Era un
residuo del passato, che forse oggi è stato
riciclato in senso modernizzante.
La satira è un tradizionale strumento di
demistificazione, di abbassamento; specie
questo tipo di satira, difficile da
maneggiare, che è la caricatura, dove si
esagerano le caratteristiche che si
intendono criticare, sperando di mettere in
rilievo contraddizioni e debolezze.
Il difetto è che si tende a pensare che unici
oggetti di satira siano gli altri. Non è
facile vedere se stessi in coloro che sono
messi alla berlina.
Ti volevo proporre, in proposito, un
aspetto più attuale. Anche oggi, più che la
critica, sono diffusi lo sberleffo o la
squalificazione più o meno sarcastica
della figura dell’insegnante, del suo
vittimismo,
della
sua
scarsa
professionalità, ecc. Umberto Galimberti
è uno di questi fustigatori, lo chiamerei
un martello degli insegnanti.
Era un mio collega insegnante al liceo
classico di Monza.
Ah, sì? Mi racconterai allora. Ma vorrei
sentire cosa pensi della mia ipotesi. Io
credo che questa polemica contro i
docenti tradizionali o massificati,
comunque rimasti nella scuola, fiorisca
soprattutto sotto la spinta dei mass media
e magari di intellettuali ex-docenti,
divenuti firme di successo. Anche
nell’interpretazione “caricata” nel senso
di un “ritorno all’ordine” del tuo Orbilius
-
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-
-
ci vedo soprattutto lo zampino interessato
della cultura massmediale.
Certo, gli insegnanti come al solito sono
in una posizione difficile. Dovrebbero
rappresentare il ceto intellettuale. In realtà
ne rappresentano il gradino più basso.
Hanno perso prestigio sociale, sono
malpagati e estranei ancor più che in
passato al circuito dei mass media. Di
conseguenza si tende a scaricare su di loro
gran parte delle colpe del cattivo
funzionamento di una istituzione. Si è
sempre detto: ah, se gli insegnanti
lavorassero di più! Vanno in pensione
troppo presto, hanno troppe ferie,
lavorano soltanto poche ore, ecc.
Ma la difesa della categoria non deve
impedire di rendersi conto dei suoi difetti,
soprattutto in termini di autocoscienza.
Nel mio scrivere sugli insegnanti io avevo
già allora questo doppio problema: tener
conto delle esigenze che esprimevano, ma
al contempo degli attacchi a cui venivano
sottoposti.
Il livello culturale è però davvero troppo
basso. E proprio perché si preoccupano
poco di questo livello culturale, dei
problemi dell’insegnamento e accettano
troppo i modelli proposti dall’istituzione,
gli insegnanti si deintellettualizzano ancor
più, diventano sempre meno critici e più
portatori di verità già confezionate. E’ un
circolo vizioso.
Ora togliti la maschera di Orbilius. Il
giudizio su Lettera ad una professoressa di
don Milani, che è nella prefazione firmata
da Oliva, è drasticamente negativo tanto
da far pensare che l’autore di Lettera ad
una studentessa, e non solo il suo
personaggio, capovolgesse davvero la
visione di don Milani. Ribadisci quel
giudizio?
Beh, dicevo che era un libro illeggibile,
rozzo e manicheo, fondamentalmente non
marxista, populista e arcaico. Ma erano
esagerazioni polemiche e satiriche. Pur
non condividendone l’ideologia di fondo,
lo consideravo anch’io quel testo
sconvolgente che era e riconoscevo che
aveva avuto un effetto straordinario.
Che il testo di un prete avesse il coraggio
d’indicare il carattere di classe della
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-
selezione a scuola non era poco allora e
poteva magari essere anche una premessa
alla lettura dei Grundrisse di Marx.
Su questo sono assolutamente d’accordo.
Quella denuncia della scuola di classe fu
di estrema efficacia. La mia polemica
contro don Milani è, tutto sommato,
semiseria. Insisto che quel mio testo non
andava o va preso troppo sul serio.
Bocciare o non bocciare? Questo è
l’amletico dilemma su cui arrivano alla
rottura Orbilius, ex sessantottino e
professore democratico e la sua
“sessantasettina” studentessa, che “è
intelligente ma non studia” e pretende
però di essere promossa senza troppe
storie, magari con il “sei politico”. Ma la
bocciatura non era forse l’ultima arma
spuntata, una sorta di inutile vendetta di
un professore calato di prestigio,
nostalgico della gioventù perduta e
costretto ad un amaro elogio della
“scuola di merda”?
Esattamente. Il tema era quello. La
bocciatura era ed è una vendetta. E’ uno
strumento della cui logicità e funzionalità
didattica io, Carlo Oliva, non sono mai
riuscito a convincermi. E ancor più oggi,
dopo aver visto tutto lo svolgimento della
crisi, tutto il passaggio dal tentativo di
cambiare la scuola al suo fallimento e alla
riproposizione della scuola tradizionale
come sta andando avanti adesso.
Non ho nulla in contrario contro la
severità o il rigore degli studi, ma non
riesco a capire come si concili la
bocciatura con la severità o il rigore.
Eppure la difesa della bocciatura è stata
portata avanti dai vari Orbilius con
estremo accanimento. Tant’è vero che
tuttora credo che si bocci, e in questi
giorni leggevo che ai nuovi esami di
maturità ci sarà una percentuale diversa
fra promossi e non promossi. E questo va
bene a moltissimi, sembra di capire.
Quindi Carlo Oliva è sicuramente contro
Orbilius.
Lo è sicuramente non solo su questo punto
ma in tutto il libro. Sono polemiche ormai
di vent’anni fa, ma Oliva vedeva in
Orbilius uno sviluppo sbagliato di
processi vissuti da lui e dai suoi compagni
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-
d’allora; di una tentazione sempre latente
anche negli insegnanti coinvolti nei
movimenti di rinnovamento della scuola.
Essi sentivano la perdita del loro peso
sociale e dello stesso ruolo dentro
l’istituzione, la crisi del tipo di cultura in
cui erano cresciuti (che era poi l’unica su
cui fondavano il loro insegnamento) e
potevano reagire con questi ritorni al
passato scioccamente ammantati di
argomenti vagamente progressisti.
Ma gli Orbilius ottennero il sostegno di
forze politiche potenti proprio perché
rappresentavano il lato più oscuro e
frenante degli insegnanti “sinceramente
democratici” di allora.
Sì, gli Orbilius, magari in versione meno
tipizzata e ridicola, hanno vinto. Ma non
parlerei né di lato oscuro né di cattiveria.
La loro era una tentazione che andava
capita. Ricordiamoci che gli insegnanti in
tutto quel convulso periodo erano stati
abbandonati a se stessi. Sia nel
movimento degli studenti che in quello
politico-generale, il problema del lavoro
degli insegnanti (del loro ruolo, di come
svolgerlo) se lo ponevano in pochissimi e
non ci furono risposte risolutive.
Io ero nella schiera dei criticati da
Orbilius. Ero fra quelli che si
“sprecarono” nel volantinaggio davanti
alle fabbriche o nei quartieri periferici o
nella “militanza complessiva” nei gruppi
extraparlamentari. Ma mi chiedo perché
dovevano essere gli studenti e non gli
insegnanti stessi i protagonisti di
un’eventuale riforma della scuola?
Perché gli Orbilius democratici la riforma
della scuola se l’aspettavano dalla
contestazione degli studenti e non da una
propria contestazione?
Mi sembra un’obiezione giusta. In realtà
gli studenti sono quelli che nella scuola ci
stanno meno. Il movimento degli
insegnanti in quegli anni non aveva una
coscienza del suo ruolo e delle sue
funzioni. Da un lato si pensava che
bastasse andare dietro agli studenti.
Dall’altro, visto che questo accodarsi non
portava da nessuna parte per ciò che
riguardava la scuola, si aveva un
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-
contraccolpo. Io cercai di illustrare questo
momento di contraccolpo.
E analizzando il tutto a distanza di
tempo?
E’ straordinario, a distanza di tempo,
vedere quanto poco si sia ottenuto. A te
non sembra?
Io
sfumerei
il
giudizio.
In
quell’inquietudine, in quel muoversi fra
scuola fabbrica e quartiere, malgrado le
astrattezze della militanza “complessiva”,
vedo ancora la ricerca positiva di una
risposta dei dominati a processi distruttivi
profondi, che allora fecero cadere i muri
delle istituzioni totali e ora hanno reso
quelle zone – scuola compresa – del tutto
porose alle esigenze di Das Kapital.
Ci trovammo a vivere in un momento in
cui la scuola come istituzione a sé,
“chiusa”, non poteva più esistere, ma
neppure esistevano i canali per un
costruttivo collegamento con il “sociale”
o il “territorio” (come allora si diceva). E
allora si tentò di prepararli. Chi si spese
in una sorta di andirivieni, cercando di
fare bene sia l’insegnante nella scuola
che il militante davanti ai cancelli di una
fabbrica o in un gruppetto politico,
perse; ma non operò invano.
Ci furono eccessi semplificatori, ma la
crisi esigeva che si agisse anche fuori
dagli ambiti specifici (o che se ne tenesse
gran conto), che si spezzassero steccati di
privilegio e separatezze umilianti. E fino a
che punto anche un’ipotesi di impegno
riformistico specifico nella scuola trovava
allora fondamento nella realtà? Se un
maggior numero di insegnanti avesse
concentrato le sue energie esclusivamente
sulla scuola avremmo ottenuto di più?
Adesso risponderei che non lo so. Anzi,
vedendo i processi di lungo periodo,
dovrei dire di no. Ma all’epoca era il tipo
di scelta che auspicavo io. Allora pensavo
che l’impegno specifico dovesse essere
quello sul posto di lavoro, nell’istituzione
in cui si era inseriti.
Era la posizione anche della Torre Rossi,
di Fortini.
Io e la Torre Rossi, in effetti, andavamo
molto d’accordo. Tant’è vero che Carlo
Oliva, non Orbilius, era molto impegnato
-
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-
nel sindacato. Certamente sembrava una
scelta riduttiva e magari anche un po’
pedante rispetto alle proposte di
cambiamento totale delle istituzioni che
venivano proclamate dai gruppi politici.
A distanza di tempo si deve ammettere
che c’era un’astrattezza rivoluzionaria,
ma anche un’astrattezza riformista.
Mentre poi sia nella scuola che altrove ci
sarà stato un lavoro positivo, che si è
disperso.
Certamente. Io però penso che il lavoro
positivo che gli insegnanti hanno fatto
nelle scuole è sempre stato un lavoro
individuale. Ho l’impressione che
sull’istituzione gli effetti non ci siano
stati, anche se a volte ci si è provati.
Ho in mente almeno due tentativi grossi:
quello sindacale e quello istituzionale dei
decreti delegati. Io mi sono impegnato in
tutti e due, ma ammetto che non sono
serviti.
Un altro tentativo apprezzabile, che non si
muoveva né sul piano sindacale né su
quello strettamente istituzionale, fu in
quegli anni (fra 1971 e ’77) l’esperienza
de L’erba voglio; e tuttora la ricordo come
una delle cose giuste fatte nell’ambito
della scuola. Si voleva trovare una
convalida
dell’insegnamento
non
dall’esterno, ma attraverso la pratica
stessa dell’insegnamento, rinunciando a
certe strutture burocratiche e autoritarie. E
servì molto ad innescare tutto il processo
di liberalizzazione nella scuola poi frenata
e istituzionalizzata attraverso il sindacato
e i decreti delegati.
Certo è stato un lavoro che non ha
lasciato traccia. Via gli insegnanti, via gli
studenti, nella scuola di quel lavoro non
resta quasi niente. Ma se penso alla mia
azione nella scuola, l’unica cosa che son
contento di aver fatto è quel lavoro
individuale con gli studenti. Come me,
molti insegnanti, finché ce l’hanno fatta,
lo hanno svolto con i loro studenti; “al di
fuori” o “dentro” l’istituzione, ma in
forme sotterranee, magari a prezzo di
qualche accomodamento.
E’ una forma di testimonianza quasi
“artistica”, resa stando
dentro una
massa di colleghi che non ne vengono
-
-
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scalfiti. E forse non è casuale che chi vi si
impegna è poi spinto a fare la satira della
categoria. Eppure questo ricorso alla
satira per l’impossibilità di riuscire a
coinvolgere o almeno a sbriciolare
l’esercito degli Orbilius non ti pare un
altro segno di sconfitta
e magari
un’autoconsolazione,
un
piccolo
risarcimento?
Sicuramente, Non siamo riusciti ad aprire
brecce fra i nostri colleghi. Io adesso non
seguo più come prima la situazione nella
scuola, ma credo che molti dei problemi
su cui ci arrabbattavamo 30-20 anni fa
siano ancora lì, irrisolti. Non mi sembra
che siano penetrati nella scuola strumenti
didattici efficaci e nuovi. La bocciatura in
sé resta ancora la sanzione di quel
determinato sistema didattico. Per questo
aveva un valore emblematico o era vissuta
come tale. Gli insegnanti che facevano
certe cose non bocciavano gli studenti.
Sarà stato giusto o sbagliato? Per me era
giusto. Ma si trattava comunque di scelte
individuali senza effetto sulla struttura.
E oggi? Con i discorsi correnti (scuolaazienda, preside-manager, aggiornamento
“a tappe forzate”, ecc.) a me pare che i
processi auspicati da Orbilius siano
addirittura stati sopravanzati fino a
cancellare anche qualche elemento
positivo contenuto nel suo atteggiamento.
Boh, non era molto il positivo che c’era
nei vari Orbilius. Il preside-manager, ti
confesso, non ho capito bene in che senso
vada inteso e non mi pronuncio. Ma negli
anni successivi all’uscita di questo libretto
avevo elaborato una teoria. Secondo me
una delle cose che teneva in piedi la
scuola è fondamentalmente la finzione. La
scuola La scuola è stata sempre
un’istituzione burocratica, un’istituzione
che finge cioè di fare molte cose: di
trasmettere una cultura, di agire
collettivamente, di discutere, d’imparare e
d’insegnare. A me pare che la figura del
preside-manager
sia
un’evoluzione
peggiorativa, che va nel senso della
finzione più totale. La scuola non sarà mai
un’azienda. Non ha senso far finta di
essere una realtà di quel tipo. Ma
all’epoca non immaginavo sviluppi di
-
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questo genere. Il manager viene forse
visto come una figura più moderna di
quella del burocrate.
Secondo me, si assumono senza
mediazioni
modelli
vincenti
di
comportamento sociale e si ripropongono
anche nella scuola, considerata “settore
arretrato”.
Qualche reazione però comincia a
manifestarsi. Ti vorrei chiedere ad
esempio, visto che hai dato uno sguardo a
Chichibìo, cosa ne pensi?
Nel primo numero c’è di tutto, ma
l’esigenza di difendere e valorizzare la
tradizione umanistica in sé è giusta.
Dipende da come la si vede: se ci si
riserva un margine di critica soprattutto
rispetto alla sua idealizzazione passata o
no. Il problema dell’umanesimo è che ha
avuto, per così dire, troppo successo ed è
stato per troppo tempo al centro dei
processi di educazione tanto da perdere la
sua funzione specifica e assumere quella
di centro ideologico dell’istituzione.
Bisogna riportarlo a quello che è.
Ma anche Orbilius era un umanista...
Ma era un umanista tradizionale. Cita i
classici, Esiodo, Omero, Leopardi. Sono
citazioni banali e a cui crede molto. E’
estremamente pomposo...
E allora chi rappresenterebbe una
tradizione umanistica positiva?
Che domanda! E in un afoso pomeriggio
d’estate poi!
Insisto, perché ho varie perplessità su
questo recupero dell’umanesimo, specie
per la sua connotazione aristocratica e
soprattutto per la versione scolasticoliceale, che poi tutti noi abbiamo subito.
Ma anche combattuto! Certo nei licei
degli anni ’50 si credeva molto
nell’aristocraticità della cultura. Greco e
latino dovevano essere materie selettive.
Pochi
potevano
accedervi.
Ma
quest’elemento
della
tradizione
umanistica spero non interessi più a
nessuno.
Nella scuola di massa, nella scuola di
tutti, però, i valori umanistici cosa
potrebbero fornire di importante a questi
tutti, se quei valori esclusivi furono
-
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-
-
congegnati proprio per una élite? Questo
è il mio cruccio...
Ho capito. Ma vanno spogliati di questo
aspetto aristocratico e offerti al godimento
e alla fruizione di tutti. Lo sforzo è quello
di mettere la gente nelle condizioni di
leggere gli autori. E possono essere letti
per arricchimento, per piacere. Io ho
inteso sempre l’umanesimo in questo
senso.
Ma ci vorrebbe un altro tipo di scuola, un
altro tempo-scuola a disposizione, altre
condizioni di vita insomma.
Non è facile, certo. Io ho sempre spiegato
ai miei studenti di liceo che dovevano
studiare greco e latino perché sono
materie molto divertenti e che loro erano
dei privilegiati che potevano divertirsi; e
di non dar retta a quelli che dicevano che
“servivano a qualcosa”. Non è vero. Non è
vero che il latino insegni a ragionare. Il
latino non serve assolutamente a niente e
appunto per questo è molto divertente.
Questo è un atteggiamento che si potrebbe
usare per tutta la tradizione umanistica. E’
evidente che la scuola va rinnovata, che in
essa non c’è spazio per tutto e che il ruolo
passato delle Lettere con la maiuscola
nell’insegnamento era esorbitante. Ma è
anche evidente che bisognerà trovare per
loro un nuovo spazio.
Passiamo ad un punto del libretto, in cui
si parla degli “insegnanti lavoratori” e
degli “studenti borghesi”. E’ un
paradosso, certo. Ma Orbilius accusa solo
gli studenti di cedere ad ogni moda
consumistica e si scaglia contro “quei
troppi che, frequentando le scuole
normali, indulgono, nel tempo libero, a
lavoretti precari ed occasionali ai limiti
del
mercato
del
lavoro
nero”,
concludendo la filippica con un “Non si
può servire due padroni: non si può
essere studenti a mezzo servizio e
lavoratori altrettanto a mezzo servizio(
indebolendo così, badi bebe, la forza
contrattuale del movimento organizzato
dei lavoratori seri”. Vorrei approfondire
questo passo.
A me pareva e pare che gli insegnanti
stessi cedevano e cedono alle sirene
del consumismo.
-
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-
-
D’accordo. Ma il discorso voleva essere
appunto paradossale ed esprimere una
caratteristica tipica degli insegnanti di
allora e forse anche d’oggi. Si tratta di una
categoria profondamente vittimistica, che
si lamenta di tutti; e anche degli studenti,
perché sono giovani, non lavorano, sono
privilegiati (specie quelli dei licei classici
con cui io ho lavorato). Naturalmente gli
insegnanti hanno un’immagine di se stessi
e si considerano spesso dei dotti, degli
intellettuali e quindi in un certo senso
protetti dalla cultura di massa e dalle
mode. E’ un’illusione, ovvio. Sono invece
completamente speculari ai loro studenti.
Ma l’introduzione di dosi massicce di
cultura di massa sotto forma di
audiovisivi, corsi di libera espressione,
ecc. ha prodotto uno “sfondamento
culturale” della scuola che fa problema.
Orbilius se la sarebbe presa molto. Lui era
attaccato ai modelli culturali che pareva
dessero sostanza alla sua superiorità
rispetto agli altri. Io, invece, credo che
nella scuola ci debba essere posto per tutto
e sono ancora dell’idea, espressa in un
vecchio articolo, che non è male che gli
insegnanti sappiano qualcosa di ciò di cui
si occupano gli studenti.
A me pare che la cultura di massa meriti
interesse, non vada disprezzata e può
servire anche come punto d’incontro.
Disprezzare quello che interessa agli altri
è sempre un atteggiamento sbagliato.
Bisogna saper usare anche un po’ di
trucchi del mestiere. Se, parlando con gli
studenti, per fare un esempio di metro
anapestico, gli citavo la Alabama song di
Jim Morrison, loro ci restavano di stucco.
Serviva, insomma, per stabilire un
dialogo... e anche per darsi un po’ di arie.
Quindi non vedi attrito fra cultura
scolastica e cultura di massa?
Non vedo tutto questo conflitto. Nel senso
che sono tutte esperienze, modi di
rapportarsi con il mondo. Dovrebbero
avere spazio nella scuola. Ma non credo
sia una cosa intelligente dividere la scuola
in due settori: al mattino la scuola seria e
al pomeriggio il divertimento. Tra l’altro
non penso che i giovani abbiano bisogno
che gli si organizzi il divertimento. Rock,
-
-
-
sport, cinema non si vede perché non
possano essere trattati come argomento di
studio.
A volte però si obietta (obiezione anche
mia) che, se giovani già così impregnati
di cultura di massa occupano con quella
stessa cultura spazio e tempo della scuola,
non si fa che rafforzare l’uniformità della
loro esperienza e magari il loro
pregiudizio antiscolastico. Uno spazio e
un tempo che potrebbero essere di
decantazione critica vengono soffocati o
sottomessi ad una cultura che già domina
incontrastata dappertutto.
Sì, è vero. La scuola dovrebbe sempre
affrontare i problemi in maniera critica, e
quindi insegnare a vedere oltre
l’apparenza, a non accettare le mode, a
non subire passivamente i prodotti della
cultura di massa, ma a impararne il
funzionamento, in un certo senso
vaccinando e vaccinandosi.
Ma queste sono osservazioni generiche
tratte dal proprio lavoro individuale. Non
saprei come trasformarle concretamente in
proposte collettive e soprattutto in
proposte istituzionali. Resta il fatto che
ciascun insegnante deve riorganizzare il
proprio mestiere tenendo conto che le
materie in sé sono un modo già parecchio
artificiale di ritagliare l’esperienza umana
e che i confini devono essere aperti, in
modo da permettere che certe cose
possano facilmente uscire e altre entrare.
Torniamo ancora alla contrapposizione
insegnanti-studenti.
Quando avevo letto Lettera ad una
studentessa mi aveva colpito la
somiglianza fra le tesi di Orbilius, che
bacchetta gli studenti immessi già nel
lavoro precario e la teoria di Asor Rosa,
che proprio allora parlava di due società
e contrapponeva un’etica del lavoro
produttivo al rifiuto del lavoro, alle spinte
edonistiche e qualunquistiche di strati ai
margini del grande Movimento Operaio.
Mentre, per contrasto, qualcuno – penso
agli autori di un altro opuscoletto di
quegli anni Uno strano movimento di
strani studenti - si metteva dalla parte di
quelle frange crescenti di studenti già
macinati o risucchiati dal meccanismo,
-
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che oggi è dilagato, del lavoro nero,
interinale, flessibile, ecc. Gli studenti non
erano più soltanto a tempo pieno e non
erano neppure più i classici studentilavoratori delle serali o delle 150 ore.
Oh, mamma, accostarmi ad Asor Rosa!
Orbilius si rendeva troppo vagamente
conto dell’inizio di questo fenomeno e
reagiva in maniera dopotutto un po’
banale. Un po’ mi pento di aver scritto
quelle cose. In effetti erano fenomeni che
ho trascurato.
Non ti chiedo autodafé. Voglio solo
collegare il fenomeno al discorso che
facevamo sull’umanesimo. Se, insomma,
una buona parte degli studenti era ed è
sicuramente dentro i meccanismi del
lavoro precario, nero, interinale, ecc., mi
viene da chiedere: come può uno studente
del genere accedere al piacere della
cultura umanistica?
E perché uno che lavora non può accedere
a questo tipo di cose? Forse perché non
può disporre di tempo, studiare,
impegnarsi?
Beh, il lavoro in genere e il lavoro
precario in particolare a me pare ancora
un
meccanismo
stritolante,
che
aggiungendosi agli ingessati e irrigiditi
curriculum scolastici poco si concilia col
piacere ricavabile dall’umanesimo.
Certo, lavoro nero o precario sono forme
di sfruttamento che vanno combattute.
Evidentemente
non
possiamo
più
combatterle con i metodi tradizionali che
ritiene unico lavoro ammissibile quello
cosiddetto garantito. Non sono un
sociologo del lavoro, ma penso che si
debbano trovare degli strumenti che
permettano di collegare lavori flessibili di
questo tipo con una difesa dei diritti. Ma
fra i diritti che vanno difesi, c’è anche
quello
dell’istruzione
e
non
di
un’istruzione di serie B.
Ma per il momento le figure”ibride” degli
studenti sono tirate in direzioni opposte:
da una parte il richiamo allo studio di
colleghi alla Orbilius e dall’altra le
offerte di guadagno che fanno gola o
integrano reddito familiare.
Per me resta un punto fermo che la scuola
non debba espellere nessuno.
-
-
Un’ultima curiosità. Se dovessi riscrivere
oggi un libretto di satira sulla scuola,
quale figura sceglieresti?
M’interesserebbe molto occuparmi della
realtà dei supposti presidi-manager,
seguire questa contraddizione fra il
modello aziendalistico ed una realtà tutto
sommato non aziendale. Ci dovremmo
pensare.
*
Carlo Oliva (56 anni) ha studiato lettere
classiche e metodologia operativa con
Silvio Ceccato. Dal '67 al '91 ha
insegnato lettere nei licei di Milano e
dintorni, gli ultimi dieci al celebre "Parini"
(che – aggiunge - “non mi sembra meriti
particolarmente questa celebrità”) e ha
lasciato
non
troppo
volentieri
l'insegnamento per motivi di salute.
Di problemi della scuola, degli studenti e
degli insegnanti si è occupato a lungo,
scrivendone, tra l'altro, su "Ombre rosse"
e sui "Quaderni piacentini" (ma anche su
"Linus").
Ha fatto parte di Lotta Continua e della
CGIL scuola (e mentre – aggiunge
ancora - “della prima esperienza non mi
pento affatto, nonostante quello che Sofri
scrive sulla guerra, della seconda un po'
sì”).
Negli anni '80 si è impegnato parecchio
sul garantismo e, in genere, sui problemi
della difesa nei processi politici. Adesso
si occupa soprattutto di ideologia del
linguaggio e di narrativa di genere
(specialmente di libri gialli. Ha pubblicato
molti saggi, traduzioni e qualche
racconto.
Collabora regolarmente a
Radio popolare
e ad "A - rivista
anarchica".
Colognom
CASA DELLA CULTURA? CASA DEI
GIOVANI? UNA PROPOSTA
Lettera aperta dell’Associazione culturale
Ipsilon3
3
Questa Lettera aperta era stata da me proposta al
dibattito in Ipsilon attorno al 21 ottobre 1999 e fu
A tutte le associazioni culturali di Cologno.
Finalmente l’edificio che dovrebbe ospitare la
tanto attesa Casa della cultura è pronto.
Ma sarà davvero Casa della cultura, magari
tradizionale ma ben caratterizzata? E si può
essere soddisfatti del metodo con cui la si è
pensata, progettata e messa in cantiere?
I dubbi sono tanti. E li accresce la discutibile
trasparenza, con cui l’Assessorato alla
Cultura, assieme ad alcuni fidi (e ben pagati)
esperti, coordinati – chissà perché – da uno
psichiatra, il dott. Cirlà, ha preparato il
progetto, che sta trapelando a bocconi e
all’ultimo momento, quando cioè la
disposizione degli spazi, le attrezzature e la
gestione delle attività previste nell’edificio
ristrutturato di via Milano “sembrano”già
cosa fatta.
Su tutta la questione i “si dice” e i “pare che”
aumentano una confusione che poteva essere
evitata e che va superata.
La nostra associazione non è l’ultima
cenerentola della situazione. Opera a Cologno
da 10 anni e ha al suo attivo, quantomeno, una
documentabile attività seminariale su temi di
rilievo:
lavoro,
cultura
di
massa,
immigrazione, storia contemporanea, scuola,
trasformazioni della politica, rapporto
metropoli-periferie, ecc.
Come mai non è stata neppure consultata?
Né pare che lo siano state le altre associazioni
culturali di Cologno. Solo alcune di loro,
infatti, alla fine della fase progettuale e non si
sa con quale criterio selezionate, pare abbiano
avuto un incontro in merito col sig. Colombo.
L’Assessorato ha forse deciso di tenere alla
larga le associazioni culturali non solo dalla
fase progettuale, ma anche dalla gestione
della casa della Cultura? e, al massimo, di
concedere loro (o ad alcune di loro) una
partecipazione gregaria?
E, se nei loro confronti, l’Assessorato sembra
sospettoso e avaro o discriminatorio, che dire
del progetto ormai delineato o in via di
applicazione?
bocciata con varie motivazioni. In sostanza non si
accettava (da parte della maggioranza, devo dire) il
taglio di critica frontale all'A’sessorato alla Cultura.
Ridimensionata a samizdat, penso che abbia ancora
buone ragioni per circolare.
A quanto si sa dai “si dice” e “pare che” di
corridoio, esso prevede al piano terra una
libreria, un bar-sala riunione, una sala
multimediale con videogiochi e postazioni per
Internet da far gestite ad una costituenda
cooperativa. Il primo piano verrebbe
rioccupato da Eta-Beta, l’ufficio comunale
informagiovani; e il secondo andrebbe alle (o
ad alcune?) associazioni culturali.
Salta immediatamente all’occhio che, invece
di una Casa della cultura pare venga fuori
una sorta di Casa dei giovani, nella quale
verranno ammucchiate disomogenee esigenze
commerciali, di svago e intrattenimento
giovanile, di associazionismo, di servizio
pubblico settoriale.
Il progetto ci pare criticabile per molti aspetti.
Ad esempio: è appropriata la palazzina di via
Milano per le diverse esigenze che vi
dovrebbero convivere? quanto si conciliano
gli spazi chiusi di una palazzina con alcune
delle attività e l’afflusso del prevedibile
pubblico? e i giovani (quali? in quanti?),
abituati a scorazzare in spazi aperti, davvero
hanno voglia di recludersi in mini-salette? e
dov’è l’integrazione fra le funzioni della casa
della cultura e quelle di altre istituzioni affini
(scuola, biblioteca civica, ecc.) per evitare
doppioni e sovrapposizioni)? e si è pensato
davvero agli “altri”, quelli che isolati o in
difficoltà si escludono o vengono esclusi dalla
vita culturale?
Si potrebbe continuare. Ma “quale cultura
serve oggi a Cologno?” resta la domanda di
fondo e prioritaria e la risposta praticata di
fatto (e da tempo) e per vie burocratiche
dall’Assessorato ci sembra preoccupante,
anche se alla moda.
Infatti una certa cultura - quella critica,
fondata sulla ricerca, attenta a una mediazione
non al ribasso con i bisogni sociali, che non si
riduca a fare da cinghia di trasmissione alla
cultura-merce (sia essa pessima o abilmente
preconfezionata) – per assessore ed esperti va
seppellita senza tante cerimonie o messa in
qualche loculo (magari ai piani alti, insomma,
o in soffitta, che è tutto dire!).
Quella che va incoraggiata, sostenuta
economicamente e politicamente, anche qui a
Cologno, dovrebbe essere la cultura
“giovanilistica” dell’intrattenimento, dello
svago, dello snobismo di massa. Quindi alè
con il videogiochismo o le ludoteche per
giovanotti “barbari”, con i caffè letterari per
periferici, con la Internet-mania!
E’ “culturale” incentivare queste tendenze?
A noi tutto ciò pare un’americanizzazione da
provinciali che va contrastata. Come va
contrastato il corollario economico ferreo che
ne è alla base: siccome si deve spendere il
meno possibile, appaltiamo ad una
volenterosa cooperativa la gestione di una
parte o dell’intera palazzina.
E così si incentiva irresponsabilmente la solita
gara fra imprenditori (più o meno) no profit e
ricomincia la tombola della lottizzazione
interpartitica per designare le “forze sane”
che si sbraneranno nella costituenda
cooperativa!
E le associazioni culturali? Restino nel loro
brodo o sgomitino per spartirsi l’ultima fettina
della misera torta: il secondo piano della
palazzina. (Per farne cosa, visto che molte di
loro hanno già sedi proprie o concesse dal
Comune e spesso inutilizzate?).
La nostra associazione si appella a tutte le
altre associazioni culturali di Cologno.
Promuoviamo un confronto pubblico su quale
idea di cultura debba oggi “abitare” nella
palazzina ristrutturata di via Milano.
Le nostre ipotesi, che vogliamo confrontare
con tutti, sono queste:
- Bisogna costruire una Casa della cultura
(o meglio una Casa delle culture e –
meglio ancora e senza spaventarsi del
termine, per alcuni abusato o sospetto –
una Libera Università) per difendere la
cultura di ricerca, i saperi e i bisogni
conoscitivi meno effimeri e le pratiche
culturali più vivaci e originali, esistenti o
possibili su questo territorio;
- Bisogna respingere l’ipotesi di una Casa
dei giovani, non per ostilità ai giovani ma
al “giovanilismo”. (Perché i bisogni
culturali dei giovani devono essere
settorializzati
o
ghettizzati
istituzionalmente?)
- Bisogna che il progetto di attività per la
Casa della cultura (o Casa delle culture o
Libera università) sia integrato con le
istituzioni culturali già esistenti sul
territorio (scuole, biblioteca civica, ecc.).
Nè deve trascurare – contrastando la
-
logica corporativa del “come stiamo bene
fra noi che già ci capiamo e facciamo
tante cose belle” –i bisogni culturali dei
gruppi sociali o degli individui atomizzati
più distanti o meno raggiunti dalle
istituzioni.
Il rinnovamento della vita culturale
cittadina va pensato e praticato in tutti i
pori istituzionali e sociali;
Bisogna dire con chiarezza esemplare che
l’economia è a sostegno del progetto
culturale, evitando le ormai evidenti
ambiguità delle imprese no profit o dei
mezzi appalti: quindi o piena copertura
economica del Comune della Casa della
cultura (o Casa delle culture o Libera
Università) o una limpida convenzione fra
Comune e costituente delle associazioni
culturali (o, in caso contrario – spartano
ma inevitabile – l’autofinanziamento di
chi ci sta a far crescere una libera
cultura).
Condomìni: off limits per la democrazia?
Lettera aperta al sindaco di Cologno
Monzese4
Gentile signor sindaco,
le vogliamo raccontare
un episodio, che interesserà di sicuro molti
cittadini.
Da diversi mesi nel nostro condominio sono
in corso rilevanti lavori di ristrutturazione
(facciata, tetto, sottotetto) per una spesa
complessiva di £.750 milioni (Iva compresa).
Una ristrutturazione così onerosa è stata
deliberata in una frettolosa assemblea senza
vagliare tutte le possibili offerte da parte delle
aziende costruttrici e sottovalutando le
prevedibili difficoltà economiche di una parte
consistente dei condomini.
4
Anche questa seconda Lettera aperta è stata censurata
e deve circolare in forma samizdat.
Scritta su sollecitazione dello stesso sindaco, che
avevamo incontrato come condomini, ne è stata
rimandata per mesi la promessa pubblicazione su Qui
Cologno e poi è stata cestinata, dichiarando che
“c’erano gli estremi di diffamazione” contro un
cittadino indicato per nome e cognome, senza
accertarsi in alcun modo della consistenza civile e
politica ( e non solo giuridica) della denuncia.
C’era piena fiducia nel nostro amministratore,
rag. Lo Verso, tra l’altro consigliere comunale
di questa città.
Nel corso dei lavori, abbiamo cominciato ad
aprire gli occhi:
Non tutto l’intonaco degli edifici era
deteriorato, ma la spesa non veniva ritoccata a
nostro favore; alcuni lavori, che parevano
inclusi nel capitolato d’appalto, tra cui
persino la massa a terra prevista da una
normativa del 1995, non lo erano più, con
conseguente aggravio della spesa; il
rifacimento dei solai del sottotetto non
rispettava più la pianta originaria e la sua
registrazione catastale e attribuiva ad alcuni
condomini – illecitamente, a nostro parere zone sia pur minime della parte comune,
senza che nessuna assemblea l’avesse
deliberato; il direttore dei lavori, nominato
dall’amministratore,
era
completamente
latitante dal cantiere o vi agiva per interposto
fratello, geometra a servizio della ditta
costruttrice, ecc.
Abbiamo cominciato a chiedere con
insistenza spiegazioni; innanzitutto al nostro
amministratore, un professionista che
paghiamo per fare i nostri interessi, come si
dice.
Apriti cielo!
L’amministratore ci ha “concesso” con molto
ritardo un’assemblea, ha fatto dichiarazioni
fra l’intimidatorio e il paternalistico che non
ha voluto verbalizzare; e ha tirato dritto per la
sua strada senza curarsi delle nostre proteste.
Ci siamo venuti a trovare stretti in una morsa.
Da una parte, un direttore dei lavori latitante o
che, messo alle strette, ricorre al gergo
tecnicistico e copre in pieno l’operato per noi
discutibile della ditta costruttrice. Dall’altra,
un amministratore che gestisce in modo
feudale e personalistico gli interessi dei
condòmini, tenendone disinformati una parte
su dettagli decisivi delle questioni e
privilegiando i suoi “fedelissimi”. E, infine,
da un’altra parte ancora, una minoranza di
condòmini – i “fedelissimi” appunto - che si
fa forza dell’essere maggioranza per
millesimi e che vota compatta la fiducia
all’amministratore, che volevamo destituire,
senza ascoltare ragioni.
Perché ci rivolgiamo a lei?
L’esperienza ci dice che situazioni
condominiali del genere sono diffuse in
questa città più di quanto si pensi. Troppo
spesso condòmini onesti devono soccombere:
per stanchezza, per difficoltà di capire una
legislazione complessa e piena di trabocchetti,
per l’impossibilità di ricorrere ad un avvocato
(che costa!) ad ogni irregolarità o sopruso dei
piccoli Don Rodrigo locali e dei loro “bravi”.
Noi chiediamo un autorevole intervento
– suo, della Giunta o del Consiglio
comunale - affinché almeno le regole
democratiche vigenti per il consiglio
comunale vengano fatte rispettare
anche
nell’amministrazione
dei
condomini.
Come farlo? Se ne discuta apertamente e forse
qualche rimedio verrà trovato.
Firmato: Alcuni condòmini di Vicolo Adda
5/7: Abate, Di Cello, Ferretti, Nava, La Sala,
Poloni, Traficante.
CHE STORIA E’ QUESTA?
Una recensione critica a Giuseppe Severi,
COLOGNO MONZESE dalla sua storia le
radici del 20005
L’articolo6 che segue rappresenta il secondo tentativo
di un cittadino di farsi pubblicare un intervento
d’interesse pubblico (credo) su Qui Cologno.
Il primo, malgrado i solenni inviti rivolti anche tramite
il giornale a segnalare i problemi della città, mi è
stato, dopo varie contorsioni, di fatto censurato e alla
fine cestinato senza vere spiegazioni.
Riuscirà questo a rompere il muro dei diplomatismi e
delle alchimie consiliari?
Lo spero. Se no, che almeno i consiglieri comunali
sappiano.
Grazie
Da ex-coordinatore del defunto gruppo di
lavoro per una Storia metropolitana di
Cologno Monzese vorrei, evitando ripicche o
pettegolezzi, dire la mia opinione sul
6
L’articolo, distribuito in fotocopia ai consiglieri
comunale durante la seduta del 29 maggio 2000, non è
stato pubblicato su Qui Cologno . La “provocazione” è
stata neutralizzata. Assieme alle verità (discutibili
certo) in esso affermate.
volumone di Giuseppe Severi, da poco edito a
cura del Comune di Cologno Monzese.
Pochi mi sembrano i pregi del libro e molti i
limiti.
E’ meritoria la pubblicazione di foto e dati su
vari aspetti della vita cittadina anche recente.
Ma è questa la storia locale che, a ‘900
concluso e in un mondo “globalizzato”,
un’Amministrazione Comunale fa propria e
propone ai suoi cittadini? E si può presentare
come storia di una città una volenterosa
raccolta di dati poco ragionati e soprattutto
parziali o addirittura di parte, molti dei quali
utilizzati già da Severi nella sua precedente
sintesi del 1985?
Certo lo si può fare ed è stato – ahimè! –
“rifatto” con la compiacenza di chi conta, e
supponendo con tracotanza che i lettori siano
tutti di bocca buona o distratti. Ma una
persona seria, anche se “affezionata” a
Cologno, non può che sorridere o indignarsi
di fronte all’eccesso di colognosità, anzi di
parrocchialità di questo libro.
Le foto e i dati selezionati da Severi sono,
infatti, a stragrande maggioranza di parroci,
cardinali in visita e autorità locali che tagliano
nastri (onnipresente l’attuale sindaco). E lo
stile dei commenti è da propaganda fidei. Si
ha perciò la sgradevole impressione di
trovarsi – come nei precedenti lavori di Severi
- di fronte ad una storia parrocchiale di
Cologno, frettolosamente ampliata e ggiornata
agli ultimi anni.
Che senso storico ha dedicare ancora ben 4
capitoli sugli 8 complessivi a vicende di
questo territorio che non superano la soglia
dell’Ottocento e che sono – da un’ottica
culturale ampia e non da quella chiesastica
dell’autore - quasi “insignificanti” rispetto a
quelle che vi accaddero soprattutto nella
seconda metà del ‘900?
Nessuno. Il libro esibisce soltanto la
discutibile attrazione per un idealizzato
mondo
paesano,
parrocchiale-agricolonobiliare, di Severi, dei committenti del suo
lavoro e dei destinatari privilegiati del
volume: i “colognesi doc” appunto, gli unici
che
forse
proveranno
“una
certa
commozione” riconoscendosi in luoghi e
personaggi trapassati. E non si deve essere
immigrati o fanatici dell’attualità per
ammettere che l’“ultimo scorcio di storia” di
questa città non è affatto spiegato – se non per
qualche aspetto planimetrico - dalle “origini
lontane” o dalle “secolari vicende” di questo
Comune (pag.11). Affermare il contrario vuol
dire non capire cos’è stato lo sconvolgimento
della rivoluzione industriale degli anni ‘50’70 (e di quella informatica in corso...), e non
solo per questo territorio. Né bisogna essere
degli “intellettualoni” per chiedere ad una
storia locale di far ragionare e porre problemi
ai lettori.
Ma proprio i problemi sono sorvolati con
ascetica rimozione da Severi o velati
dall’ottimismo
modernizzatore
nella
presentazione del sindaco, che pur dichiara la
necessità di “capire chi siamo e dove
vogliamo andare” (pag.13).
La vera “origine”, il fenomeno fondativo di
questa città, l’immigrazione, è ancora una
volta sottovalutato, edulcorato o rimosso.
Si continua a parlare, infatti, in modi
giustificativi dell’attivismo equivoco delle
varie Amministrazioni comunali e delle
Parrocchie (pag.494), invece di seguire sul
serio almeno le residue tracce del dramma
“biblico” della moltitudine di immigrati
lasciati, in ossequio del boom economico, allo
sbando o nelle grinfie di caporali del lavoro
nero, industrialotti, proprietari fondiari e
speculatori immobiliari.
Alle “coree” sono dedicati pochi righi e
qualche foto (pag. 498); e sembra quasi che il
“caos enorme” di quegli anni sia
da
attribuire agli immigrati (pag. 498) e non ai
governi del tempo.
Degli anni ’70 – gli unici che hanno visto una
reazione organizzata e collettiva a quelle che
Severi
chiama
eufemisticamente
“le
conseguenze dell’immigrazione” - si dice in
modo neutro che furono “quelli della
contestazione giovanile, degli scioperi e delle
imponenti manifestazioni di piazza degli
operai”. (pag. 479). Punto e basta.
Si potrebbe continuare. Ma è meglio chiedersi
prima se la funzione pubblica di un libro di
storia locale può essere quella di far
l’apologia
delle
parrocchie
e
dell’Amministrazione Comunale.
Chi risponderà a questa scomoda domanda?
Severi e i suoi sponsor o ammiratori sono così
intenti a cercare radici paesane per Cologno
Monzese che neppure la sentono. Se poi
dovessero guardare senza veli i problemi
causati dalle radici di plastica (o meglio di
cemento e mattoni) di questa quasi città, gli
verrebbe un colpo.
Cologno Monzese 7 aprile 2000
Lettera aperta
Cari amici di Società Democratica
Antiliberista,
agli amici si è affezionati o ci si abitua.
Ma non ci si può affezionare o abituare
ai vizi dell’ideologia.
Perciò vi dico con schiettezza perché
non condivido la vostra iniziativa, alla
quale concedo un unico merito: quello
di svelare a suo modo il disagio per il
marcio insopportabile della Sinistra.
E’ sempre bene, infatti, che nella
Corporazione dei politici si spezzino
anche moderatamente omertà e
complicità, ma a patto di non portarsi
appresso i vecchi vizi tipici della
Corporazione.
Vi elenco quelli che colgo leggendo il
vostro documento di presentazione:
- Primo vecchio vizio:
Siete elettoralistici o ossessionati dalle
elezioni. La crisi della sinistra è antica.
Non vogliamo risalire al ‘68-’69. Sta
bene. Neppure al compromesso storico.
Sta bene. E neppure al 1989. Okay. Ma
incentrare il discorso sugli ultimi
risultati elettorali e sull’“astensionismo
che aumenta” sembra davvero pochino.
Non è un caso poi – a riprova – che
Società democratica nasca, come il
precedente Comitato di LiberAzione del
1994, solo all’indomani di sconfitte
elettorali della Sinistra. L’unica vera
molla del “risveglio” sembra essere
quella delle elezioni. Il torpore,
successivo ad esse, è per me garantito.
Insomma, perché “rompere il muro del
silenzio. Aprire bocca.. avviare un
percorso fra diversi”, sempre e soltanto
in queste occasioni e non per es.
all’indomani o nel corso della ben più
allarmante e scandalosa partecipazione
dell’Italia alla guerra in Kosovo? Forse
che allora il Liberismo non c’entrava?
- Secondo vecchio vizio:
Non riuscite a pensare le esperienze
altrui, che oggi (ma anche in passato)
stanno o sono andate oltre la Sinistra
senza finire a Destra. Eppure alcuni di
voi
queste
esperienze
l’hanno
attraversate, come si dice; e magari
non se ne pentono, come sempre si usa
dire.
Perciò, vi aggrappate al discorso
accomodante della Sinistra plurale e in
essa ficcate – senza il consenso dei
diretti interessati - di tutto, e cioè
posizioni in teoria e in pratica
inconciliabili fra loro:“I DS, in quanto
partito
maggiore,...quelli
di
Rifondazione, o del Manifesto, di
Cossutta o di Derive e Approdi,
aggiungendovi – quasi a completare un
idealistico ecumenismo di sinistra - i
Verdi e “quei socialisti” che ritenete
buoni perché non craxiani ( oggi!).
- Terzo vecchio vizio:
Temete di passare per utopisti o
estremisti in ossequio al dogma del
moderatismo togliattiano o cattolico
(per cui la Rivoluzione o Dio basta
averli nel cuore).
Volete che la società sia più
democratica, perché questa d’adesso
sarebbe poco democratica. Ma il
Liberismo è democratico o no? E
l’Antiliberismo (in compagnia del Papa
poi, che è – lo dimenticate? - un
monarca
assoluto)
dovrebbe
correggere o oltrepassare il Liberismo
attualmente imperante?
Nel primo caso si avrebbe alternanza
fra Liberisti fanatici (Berlusconi e
Liberisti illuminati (Veltroni). E non
sarebbe un grosso guadagno, a mio
avviso.
Nel secondo caso, che società
auspicate?
Non osate più pensare ad una società
altra da questa (la parola comunismo
non fa più parte del lessico familiare
della Sinistra e mal si tollera che ci sia
ancora un “partito della Rifondazione”,
con sintomatica rimozione ,quando lo
si indica, dell’aggettivo comunista).
Sarebbe – dite - “una società disegnata
o progettata a tavolino”. E sta bene.
Preferite una sorta di società
quotidiana, “costruita nel confronto e
nel conflitto dai diversi attori sociali”?
Ora , scusate, non è quella che già
abbiamo e che appunto perché
quotidiana, a-ideologica ,pluralista
(tranne – di solito - per disoccupati e
immigrati... I gay si salvano forse in
extremis!) permette solo ai forti di
comandare, anche senza “aprire
bocca”?
- Quarto vecchio vizio:
Spennate gli uccelli e poi pretendete
che volino
Fuor di metafora: volete “Rompere il
muro del silenzio. Aprire bocca..
avviare un percorso fra diversi, allestire
un laboratorio culturale e politico al
servizio della città”.
Ma questo laboratorio c’era, da dieci
anni. Si chiamava Ipsilon.
Alcuni degli attuali promotori di
Società Democratica o non si sono mai
visti a discutere in quel laboratorio,
che pur ha affrontato temi non banali e
“abbastanza di sinistra” o l’hanno
boicottato o hanno fatto in modo che
rimanesse all’ombra delle istituzioni
comunali (Biblioteca Civica in primis).
Perché erano politici loro! E non
potevano perdere tempo con “quattro
intellettuali”.
Ora. invece, un tocco intellettuale (solo
un tocco - per carità! - “la Società non
è un Centro Studi”!) va bene.
E perché mai? Perché la presenza in
Società Democratica di vari consiglieri
comunali
garantisce
contro
l’intellettualismo estremo.
E, infatti, il laboratorio si dichiara
antiliberista (ma con l’accortezza di far
sapere che “essere antiliberista non è
un modo di andare contro questa o
quella persona”, ma al massimo contro
“un’idea pubblica, una cultura per
proprietari ricchissimi”), alla parola
società si è appiccicato l’aggettivo
tranquillizzante
democratica;
e,
soprattutto, si è ben sottolineato che
“La Società vuole competere con i
partiti della sinistra, ma in modo
positivo”.
Così, fugato ogni residuo di critica
indipendente che possa turbare il buon
senso degli elettori “di Sinistra”, si
alzano le vele.
Buon viaggio, comunque.
Stocolognom
10 anni di IPSILON7
o dovuti a imbarazzo per le cose
sincere che ho detto. Resta il
problema:
inefficacia
di
tale
sincerità. Viene “incassata”, ma non
7
L’associazione Culturale IPSILON fu costituita nel...
del 1989.
I soci fondatori furono:
produce dialogo (dialettica). Il
“provocatore” viene neutralizzato.
Era l’unica forma d’impegno comune
nella vita di questa città a cui mi
sentivo di partecipare, il luogo in cui
gli eventi “grossi” pareva potessero
trovare una risonanza, un’eco non
necessariamente individuale.
Poteva essere un laboratorio critico,
un filtro selettivo verso gli spunti
culturali, che mi parevano più
promettenti, da afferrare per mezzo
di letture e di contatti extra-locali (a
Milano, a Siena, ecc.) e una spugna
capace
di
assorbire
bisogni,
sofferenza e tensioni al conflitto
dell’oscuro magma sociale che
chiamiamo vicinato, gente, abitanti di
Cologno, cittadini.
Nel... del 1989 Aprimmo a caso il
vocabolario e scegliemmo per l’associazione
culturale che stavamo fondando il nome della
ventesima lettera dell’alfabeto greco, Ipsilon.
Eravamo un gruppo eterogeneo e lo
siamo rimasti fino alla fine...
Vi
confluiva
l’esperienza
di
Laboratorio Samizdat, tentativo di non
far morire nello sfascio degli anni ’80
le forme di pensiero critico presenti
nella ex-nuova Sinistra, ma anche lo
scontento di militanti dell’ancora
esistente PCI8 sottoposti alla “cura
Occhetto” e
interessi meno
8
Se Laboratorio Samizdat può essere considerato il
precedente con radici nell’esperienza da Nuova sinistra
(a Cologno rappresentata dal Gruppo Operai e Studenti
e poi dalla sezione di Avanguardia Operaia), Il
gomitolo rosso va indicato come precedente con radici
nella Sinistra storica (più precisamente nel PCI
berlingueriano del compromesso storico).
dichiaratamente politici, più nettamente
“culturali”..
La figura di Fortini, non a caso scelto
per tenere a battesimo l’Associazione,
sintetizzava bene l’intenzione allora
ancora presente di tenere assieme
Politica e Cultura, secondo l’esempio
della
generazione
intellettuale
resistenziale.
Ma Politica e Cultura erano proprio in
quel decennio sottoposte al grande
processo distruttore che non solo le
separava formalmente ( cosa avvenuta
da tempo...) ma le specializzava in
senso sempre più élitario.
(Quando in Ipsilon parlavamo di
Politica e di Cultura spesso non ci
intendevamo proprio perché ciascuno
aveva vissuto o vedeva operante
attorno a sé pezzi di quel processo
disgregativo e c’era tutto un gioco di
nostalgia, di volontà reattiva, di
approssimative distinzioni dalle forme
della Politica e della Cultura ufficiali.
Con una grossa difficoltà di stabilire il
confine fra il condiviso e il respinto o il
desiderabile e l’indesiderabile...).
Se la tematica, comunque in
disgregazione della Sinistra ancora
“comunista” ci teneva insieme con
l’intento di un confronto a varie voci e
interessi culturali definiti – specie in
letteratura -... lo stesso non poteva dirsi
per la psicoanalisi o per la sociologia o
la storia.
.Difficile era intendersi anche sulla
definizione di intellelttuali di massa
periferici....
(
Ipsilon
se
fosse
misurata
esclusivamente per l’incidenza avuta a
Cologno,
sarebbe
un’esperienza
fallimentare.
Non è riuscita quasi mai a realizzare le
spinte più o meno presenti fra i suoi
partecipanti...
La sua importanza va vista proprio nel
suo lavoro rimasto sotterraneo e
marginale: ciascuno dei partecipanti ha
potuto “usare” i contenuti emersi dal
dibattito nei suoi ambiti professional,
politici culturali....
Certo è discutibile.. Ipsilon non ha mai
avuto poi una sua identità precisa, al di
là delle semplificatorie definizione
degli avversari ( (“gli intellettuali” di
Ipsilon)... ed è rimasta appunto
un’incognita in tutto il suo percorso..
Le spinte in essa presenti hanno
convissuto problematicamente ma non
si sono amalgamate in una forma
nuova.
Qui si può parlare di fallimento o di
difficoltà insormontabile che alla fine –
divenuto sterile il tirammolla fra di esse
– ha fatto preferire la separazione delle
tre componenti... ( Società democratica,
Samizdat Colognom, ....)
Oggi, a ragion veduta, si può dire che c’è stata
corrispondenza fra quel simbolo, che nel linguaggio
matematico indica una variabile o un’incognita, e
l’attività “inconcludente” di Ipsilon.
potuto fare a meno – come si dice – di tenere
l’incognito.10
Tutta l’attività culturale si è svolta
all’insegna della Crisi. Ipsilon è stata
esperienza continuamente in crisi e
fin dagli inizi, come provano i
numerosi documenti interni, che
scandiscono quasi annualmente il
disagio individuale dei partecipanti ,
Mentre la spinta coesiva rimane
meno documentata. La continuità
delle attività ne prova l’esistenza, ma
essa non è mai veramente forte e col
tempo è sempre più surrogata da chi,
nolente o volente, si adatta ad
indossare l’ambiguo abito del leaderfacchino
(Lo dimostra la sempre
faticosa stesura del programma
delle attività annuali) visto che gli altri
si rintanano nel ruolo degli ascoltatori
distratti o......
Ma cosa significa, più precisamente,
che Ipsilon è stata un’associazione
dovuta alla Crisi e che l’ha vissuta
senza poterla oltrepassare?
L’intrico decennale di seminari cenacolari,
iniziative semi-pubbliche, fugaci tentativi
editoriali (i due numeri di SpiegAzioni), prese
di posizioni politiche (Comitato di
LiberAzione, tavola rotonda in occasione
delle amministrative), rare incursioni nel
sociale (nuova immigrazione), collaborazioni
faticose col Comune o la Biblioteca civica (il
libretto su Fortini, il gruppo sulla Storia di
Cologno) dimostra appunto che Ipsilon è
stata un’incognita9 e ha voluto o non ha
La Crisi è stata innanzitutto crisi della
cultura di Sinistra (o delle Sinistre,
come più di recente la si è chiamata).
L’incognita in questo caso si è
presentata sotto forma di scelta
possibile
fra
varie
opzioni::
un’associazione culturale in una quasicittà della periferia milanese deve stare
a sinistra, deve oltrepassare
la
Sinistra (evitando contemporaneamente
la cultura dichiaratamente di destra) o
deve
sfuggire
questo
dilemma
muovendosi nell’impolitico (“Noi
9
10
Dallo Zingarelli: incògnita “Evento, fatto o
situazione che può avere esito e svolgimento diversi,
non sempre prevedibili”.
Sempre dallo Zingarelli: incognito “Condizione o
stato di chi tace e vuole mantenere nascosta la propria
reale identità”.
siamo un’associazione culturale, non
un partito”)?
Le varie opzioni, diverse o contrastanti:
pidiessine,
rifondatrici,
esodiste,
impolitiche sono aleggiate in Ipsilon
ma sono state tenute più o meno in
sordina o praticate episodicamente e
individualmente
dai
partecipanti
dell’Associazione in alcuni momenti di
crisi acuta ( il volantone
dopo
l’elezione di Milan, il convegno della
Biblioteca Civica sulla lettura...,...).
Hanno fatto sentire comunque il loro
peso decisivo.
Rispetto
ai
suoi
inizi
(caratterizzati ancora da una domanda
esplicita almeno da parte di alcuni sulla crisi
del marxismo e da una volontà di critica della
cultura di massa), Ipsilon, col passar degli
anni, ha lasciato quasi cadere ogni discorso
sul comunismo e si è “accucciata” nei discorsi
più correnti sulla crisi della Sinistra,
rimanendo paralizzata.
[La crisi l’ha vissuta innanzitutto dentro di sé.
Non ne ha fatto un oggetto esterno di
riflessione o di teoria.]
Le ipotesi politiche sono però
diventate pubbliche in alcune occasioni.
Sono state quelle “ad ampio raggio”,
“pluraliste” rivolte a “tutta la Sinistra” – ad
es. Comitato di liberAzione, Tavola rotonda
alle ultime amministrative del 1999 – ma
sempre tallonate o diffidate
dalle altre
posizioni presenti in Ipsilon.
Sono fallite o non hanno spostato granché nei
giochi politici locali condotti
su binari
partitici rodati perché Ipslion non era
compatta nel sostenerle?
Può darsi.
Quelle “teorizzate” – ad es. inizialmente la
Rifondazione o poi l’Esodo o, più di recente,
quella del No profit e del pacifismo – non
hanno mai convinto la maggioranza degli
associati e hanno dovuto cercare altre formetutte individuali - d’espressione: l’impegno in
Punto rosso di Milano; i samizdat solitari, la
militanza nel Comitato pace o alla rete del
Commercio equo-solidale.
Si è dimostrato che nessuna delle varie
componenti ha avuto la forza di trascinare
davvero le altre sulla sua ipotesi...
Forse è anche questo uno dei motivi della
convivenza prolungata malgrado l’evidenza fi
ndagli inizi delle differenze...
Anche alcune delle ipotesi più “culturali”
affacciatesi in Ipsilon – la più organica, specie
all’inizio, era quella sull’ecologia della
lettura; l’altra, più tardi, è stata quella di
collegare l’azione dell’Associazione ai
bisogni di aggiornamento culturale della
scuola (elementare in particolare) - hanno
fatto in Ipsilon rapide soste.
E non a caso: avevano infatti strutture
istituzionali economicamente più solide su cui
marciare (Sistema bibliotecario, Scuola) e
Ipsilon avrebbe dovuto assecondare le
impostazioni programmatiche di Assessorati o
Provveditorato,
“aggiustandole”
o
“abbellendole” o “riqualificandole” – come si
dice – dall’interno ( cioè entro le regole da
altri stabilite).
Altre dovevano per forza di cose ( a causa
dell’ostinato rifiuto di autofinanziarsi o di
ricorrere
a
qualche
campagna
di
tesseramento) muoversi entro forme “povere”
(mostre, tentativi di valorizzazione la
scrittura clandestina, Narrare la periferia) o
“tradizionali” (la storia sociale di Cologno).
Anche i tentativi di stabilire collegamenti (da
valutare caso per caso) con associazioni fuori
da Cologno (collaborazioni con il Centro
studi F. Fortini di Siena, Libreria Tikkun di
Milano,
incontri
con
riviste
come
Manocomete o Inoltre) o di - sono rimaste
sulla carta o troppo collaterali.
Quel che ha veramente funzionato
è stato una sorta di lavoro culturale
casalingo, svolto tutto all’interno di Ipsilon.
C’è stato un lavoro seminariale,
cioè un momento di confronto di opinioni,
“teorico”, abbastanza “disimpegnato” e senza
riflessi sul “resto” (la professione, le altre
cerchie di attività degli associati, la sfera
pubblica cittadina, ecc.). organizzato in modi
sufficientemente “gratificanti” per i relatori
che si alternavano nel trattare un tema legato
al proprio gusto o interesse politico o
culturale.
In questi seminari, i cui argomenti
spesso pur sono stati scelti sotto il
condizionamento
dei
flussi
massmediali,
Ipsilon
ha
funzionato
positivamente
da
laboratorio critico.
Si è avuto un confronto fra un
ristretto gruppo di amici sulle
letture
personali
preferite,
funzionando da circolo di lettura
o quasi da piccola università
popolare
di
periferia.
Quest’attività
amicale
e
“salottiera” ha, specie di questi
tempi e a Cologno, un valore
positivo ma ambiguo. Ha finito
per subire o accettare come
inevitabile
una
forma
di
comunicazione ristretta e ha
portato ad un rifiuto (mai
veramente dichiarato) o a tentativi
poco convinti non solo di allargare
la comunicazione su quegli stessi
temi agli altri (pubblico, cittadini,
ignoti) ma ad affrontare un aut-aut
non eludibile: se si vogliono
raggiungere gli altri e si sa quanto
complesso e insidioso è il
meccanismo massmediale che
condiziona la mente e il cuore di
tutti,
bisogna
puntare
ad
un'autonomia o rassegnarsi alla
dipendenza
paraclientelare
rispetto alle Istituzioni che
controllano la vita culturale( dalle
Università, ai giornali, alla Tv, giù
giù, fino agli Assessorati, che
fanno da terminali periferici della
Macchina
che
producedistribuisce Cultura e seleziona
consumatori di Cultura)?
Ma l’attività seminariale
di Ipsilon avrebbe potuto per un
certo periodo restringersi a una
minoranza di amici e poi uscire
dalla forma cenacolare investendo
l’ignota realtà cultural-politica
della città in cui si svolgeva.
Invece essa è rimasta a
mezz’aria. Poteva in fin dei conti
essere fatta a Cologno come a
Canicattì. Prescindeva cioè dalla
realtà locale, anche se veniva
prodotta da chi qui abitava o
svolgeva funzioni professionali.
Ne conseguiva uno stile di lavoro,
una vera abitudine a ritrarsi o a
distrarsi dalla poco attraente realtà
politico-culturale cittadina.
Alcuni degli associati già
se
ne
occupavano
professionalmente e la vedevano
con disincanto. Per altri il fatto di
abitare a Cologno non comportava
automaticamente
radicamento
attivo e volontà d’intervento
critico
per
ottenere
la
soddisfazione di certi bisogni
elementari in loco.
La moda del nomadismo
culturale è stata dunque fortissima
e ha spinto a distanziarsi o a
diffidare delle manifestazioni
culturali veramente esistenti nella
città, che hanno continuato e
continuano a svolgersi ad un
bassissimo livello (a cui le
Istituzioni ben s’adattano).
L’assenza
di
vero
pubblico dalle iniziative di Ipsilon
dipendeva, dunque, sia dalla
struttura seminariale e amicale che
l’attività aveva finito per assumere
e stabilizzare (con opportune
rimozioni sul piano economico e
organizzativo) sia dall’assenza di
una conoscenza ( o inchiesta) su
quale
cultura
circola
effettivamente fra i 40-50mila
abitanti di Cologno monzese.
Un pubblico reale più
largo è rimasto perciò sempre
irraggiungibile da Ipsilon, perché
la forma di laboratorio critico è
restata amicale.
Un rapporto con un
pubblico reale non ha mai
interessato gli associati, perché
cercare di stabilirlo avrebbe
dissolto il clima disimpegnato che
caratterizzava la sua ricerca.
Il
materiale
critico
emerso nei seminari ha morso di
rado le attività cultural-politiche
istituzionali o paraistituzionali,
con le quali gli associati
tendevano a coesiste (magari
snobbando o disinteressandosene).
Il fatto che anche le
iniziative istituzionali avessero
scarso seguito o mobilitassero un
pubblico
reale
comunque
minoritario
è
una
magra
consolazione. Voleva dire che
Ipsilon ne seguiva la deriva
corporativa, anche se a modo suo
( sbuffando o mugugnando a bassa
voce).
La vera sfida alla miopia
cultural-politica delle istituzioni e
allo “snobismo” di Ipsilon sarebbe
stata quella di rimettersi a fare
inchiesta (con tutti i mezzi di cui
si disponeva: scientifici, letterari,
artistici) su COLOGNO per
costruire una precisa identità
culturale locale, cioè non
localistica, non amicale, aperta ad
altri contributi extra-cittadini.
Un tentativo che
a
questo mirava (il gruppo di storia
locale)
fu
interrotto
per
l’indifferenza
non
solo
dell’Assessorato, ma anche degli
associati di Ipsilon, malgrado il
progetto iniziale portasse la firma
dell’Associazione.
Rinunciando
ad
un
pubblico da animare e da cui
essere rianimati, limitandosi a
svolgere per una decina di persone
la funzione di laboratorio di
critica sul materiale che arriva dai
vari centri o agenzie culturali
strutturate (case editrici, giornali,
ecc.), si diventava al massimo
consumatori terminali appena più
critici di altri. Anche a volersi
affacciare ad Internet, non si
sarebbe proposta una realtà locale
(prorio perché in gran parte
ignorata e non indagata), ma al
massimo la rielaborazione interna
all’Associazione di temi o nostre
eventuali ricerche individuali..
Quel poco di comune che si era
costruito fra gli associati, il
risultato del lavoro di lettori
critici, rimaneva poi poco
formalizzato (Anche la proposta
dei quaderni di Ipsilon stentò a
decollare).
***
Inoltre siamo rimasti
privi di buoni collegamenti che
arricchissero e stimolassero la
nostra attività. Rischiamo perciò
di accontentarci di una funzione
divulgativa-pedagogica svolta fra
di noi. E anche se la rivolgessimo
alla popolazione locale o a settori
di essa, il fatto che non sia
misurata o controllata anche da
occhi e menti diversi dai nostri la
renderebbe asfittica.
Abbiamo
varie volte ipotizzato vagamente
vari
possibili
collegamenti:
collegare Ipsilon a Internet
(costruire
sito
di
Ipsilon);
collegare Ipsilon ad altri circoli
culturali
almeno
dell’area
metropolitana. Se praticati, questi
legami ci darebbero visibilità e c
ridurrebbero
il
rischio
di
accartocciamento nel localismo.
Ma finora poco è stato fatto anche
in questa direzione.
Ora, secondo me, la
trascuratezza verso la nostra
immagine pubblica si spiega con
l’insicurezza su quello che
abbiamo fatto politicamente e
culturalmente in questo decennio.
Dubitiamo che il nostro lavoro
regga il confronto con altre
posizioni più agguerrite? Siamo
sfiduciati sulla possibilità di aver
seguito a livello locale e
territoriale? Siamo
frenati da
legami e aspettative verso altre
istituzioni già più visibili e più
potenti
economicamente
e
politicamente? Non lo so. So che
non
operiamo
neppure
cooperativamente, come vera
associazione;ma, all’interno del
contenitore formale e poco curato
di Ipsilon, ciascuno per conto suo,
sulle cose che contano per lui/lei.
Operiamo assieme solo nel
momento, che diventa allora
compensativo o dopolavoristico,
della comunicazione seminariale.
Ciascuno non fa da sponda al
lavoro o alla ricerca dell’altro,
anche perché di quel lavoro e di
quella ricerca in Ipsilon non si
parla (I tentativi fatti agli inizi di
far confluire in Ipsilon le proprie
produzioni “private” o degli amici
non ebbero seguito).
Così il
lavoro che dovrebbe essere in
comune
prescinde
dalle
individualità
e
rischia
il
doverismo.
Così non può durare.
Questa è la mia opinione.
Sul che fare che nasce da
tali considerazioni, preferisco
parlare a voce.
Nel gruppo confluiva tutta la ricerca
elaborata da Luca Ferrieri. Emergevano
anche obiezioni (politiche? didattiche?
Comuniste?)
alla
sua
impostazione
prevalentemente anarchica e barthesiana
Estate 1991
*Ipsilon. Bozza documento.
di Ennio Abate
No ad un’associazione maschera di partiti
politici. No alla rimozione della critica della
Parlavo di esodo già nel ‘91
ALCUNE RIFLESSIONI DI CARATTERE
POLITICO CULTURALE
di Riccardo Messineo
Spinta collaterale di Ipsilon?
11 marzo 92 Si ammette che c’è una
rimozione del “minimo organizzativo vitale”
per un’associazione culturale.
92 :scelta invece della paralisi) di un
gemellaggio Ipsilon-Punto Rosso.
Malgrado la chiarezza della diagnosi si
continuava a restare assieme.....Separarsi per
sviluppare le varie esigenze (politica,
ecologia,
psicoanalisi,
convivialità,
programma) portate in Ipsilon, ma
paralizzatesi o troppo diplomaticamente
conviventi.
Cronaca e documenti11
dibattito di IPSILON]
del
30 maggio1989
Inaugurazione delle attività di
Ipsilon con la partecipazione di
Franco Fortini.
11
I documenti di seguito citati non sono tutti riassunti.
Quelli inediti ma circolati in modi informali all’interno
di Ipsilon sono contrassegnati con *.
Quelli collaterali con **
Introduzione di Ennio Abate
Le radici di Ipsilon vengono
indicate
nell’esperienza
dell’immigrazione
e
dell’acculturazione di massa. Si
propongono 5 seminari: ecologia
della
lettura,
emarginazione,
trasformazioni
del
lavoro,
marxismo in crisi, memoria
storica. Fortini viene scelto come
maestro: per la sua attenzione
sempre critica all’“antica Causa”
del Comunismo e la sua
elaborazione su una parte dei temi
affrontati nei seminari (in
particolare per aver fornito sul
problema degli intellettuali due
immagini
illuminanti
della
generazione post-sessantottina: i
“fratelli
amorevoli”
e
gli
intellettuali di massa ( e
periferici).
CONTRO LO SNOBISMO DI
MASSA
Intervento orale di Franco Fortini
(poi
trascritto
e
riveduto
dall’autore,
in
Laboratorio
Samizdat, n.7, novembre 1989)
Iniziative 1989-1990
- Sull’ecologia
della
lettura
(Interventi di L. Ferrieri, F.
Fortini, G. Majorino)
- Emarginazione (Interventi di
don Colmegna e F. Rotelli)
- Il marxismo in crisi (Intervento
di C. Preve)
21 giugno 1989
- Chi è il lettore? S’identifica col
cittadino?
*Una riunione del Gruppo lettura.
Introduzione di Luca Ferrieri.
Temi trattati:
Fenomenologia della lettura.
Motivazioni, modalità, rapporto
col testo, lettura e immagini
(diversa modalità delle due
fruizioni), contenuti della lettura,
generi di lettura, rapporto fra
lettura solitaria e lettura in
pubblico,
clandestinità
dell’iniziazione alla lettura, libro
oggetto e libro come prodotto
editoriale, uso feticistico del libro,
collezionismo librario, paratesto
(Genette):
predominanza
di
recensioni, etc. Rispetto al testo,
industria
culturale,
ansia
d’aggiornamento, pratica della
rilettura, il tempo come fattore
influenzante della lettura.
Problemi:
- Difficoltà di lettura e di
comprensione da parte di una
larga fascia di lettori di massa;
- Puntare (sì/no?) ad una
pedagogia
politica
della
lettura;
- Che uso si fa di quel che si
legge nella pratica sociale
(conversazioni, ecc.).
Che
azione produce la lettura;
- Quali suggerimenti dare per
cambiare l’attuale pratica di
lettura;
- Esiste un’etica della lettura?
-
Ognuno vota come gli pare, ognuno legge
come gli pare?
- Pro o contro la lettura “d’evasione” (Libri
d’Harmony)? Obiezione: “perché alcuni
devono spaziare dalla lettura di Kant a
quella dei romanzi di Harmony ed altri
devono essere confinati solo alla lettura di
Harmony?”
- Dobbiamo o no parlare dei/per i lettori
assenti (del terzo mondo della lettura)?
- Lettura come autodifesa dall’industria
culturale
- Proibire alcuni tipi di letture?
- Leggere ad ogni costo? (“Se non leggi
proprio niente, allora leggiti almeno
questo!”)
Ecologia politica della lettura, ecologia
domestica della lettura.
22 giugno 1989
*Una riunione del Gruppo emarginazione.
30 luglio 1989
*Una riunione del Gruppo lettura
26 settembre 1989
Una riunione sull’ecologia della cultura
28 novembre 1989
Una richiesta all’assessorato Cultura e sport
per usufruire della Sala riunioni di via Milano
3.
12 dicembre 1990 [?]
Presentazione con gli autori di LAVORARE
IN FIAT DI Marco Revelli e di OPERAI di
Gad Lerner
Introduzione scritta di Ennio Abate.
Lettura recitata di brani dei due libri.
25 marzo 1991?
Cleared by Ipsilon
Parole immagini e musiche contro la guerra.
Voci recitanti: U. Tabarelli e D. Torcoli
Liuto e chitarra: C. Tumeo
Soprano: S. De Tuglie
Immagini: G. Maggioni, R. Fabbri
22 maggio 1991
Riunione Sulla pace.
Contest
Introduzione di Mina De Tuglie su
RIFLESSIONI A DUE SULLA SORTE
DEL MONDO. Carteggio Freud-Einstein.
Estate 1991
*Ipsilon. Bozza documento.
di Ennio Abate
No ad un’associazione maschera di partiti
politici. No alla rimozione della critica della
politica fatta dal movimento del ’68. No alla
subordinazione della cultura alla politica, ma
anche al “partito dell’industria culturale”.
Problema della secessione e dell’esodo (Cfr.
rivista Luogo Comune). Al ghetto non ci si
strappa mediante una dialettica più accorta col
Potere (“Il rapporto con le istituzioni esistenti
logora chi investe in esse tutto quel che
possiede”). Non cedere al localismo (gestione
cilentelare della marginalità culturale paraistituzionale). Una buona associazione deve
svolgere “una critica della politica, del
localismo, del culturalismo e del settorialismo
profesionalizzante”. Ipsilon non deve
diventare
“totalizzante,
doveristica,
antiecologica”, ma non può ridursi a “spazio
di dibattito intelligente su temi intelligenti”.
Inevitabile oscillazione fra una concezione
“neopartitica” di Ipsilon ed una come
“agenzia di servizio”.
Anche per Ipsilon deve valere il principio
marxiano che dice “il libero sviluppo di
ciascuno è la condizione per il libero sviluppo
di tutti”.
Ipsilon deve far fronte al crollo della cultura
di sinistra italiana e non farsi seppellire da
esso.
Settembre 1991
TRACCIA/QUESTIONARIO
PER
UNA
DISCUSSIONE SU URSS E DINTORNI.
APPUNTI
PER
SULL’URSS
di Marcello Guerra?
LA
?
**RIFLESSIONI SULL’ESPERIENZA DEL
CORSO DI ITALIANO PER STRANIERI
di Roberto Fabbri ?
?
ALCUNE RIFLESSIONI DI CARATTERE
POLITICO CULTURALE
di Riccardo Messineo
Spinta collaterale di Ipsilon?
14 novembre 1992?
IMMAGINI E POESIE PER LA PALESTINA
Letture poetiche, diapositive e commenti in
collaborazione con l’Associazione per la pace
di Milano
11 marzo 1992
*RIUNIONE
LIBERAMENTE
VERBALIZZATA
di Luca Ferrieri
Gestione
delle
differenze
interne
(culturale/politico;
individuale/collettivo;
interno/esterno) a Ipsilon.
Messa a fuoco del concetto di ecologia della
cultura di massa-laboratorio di cultura critica.
Ipsilon come “strumento di battaglia e di
servizio verso la città”?
Si ammette che c’è una rimozione del
“minimo
organizzativo
vitale”
per
un’associazione culturale.
11 marzo 1992
*PROMEMORIA PER LA DISCUSSIONE
di Marcello Guerra?
Esigenza di “un po’ di organizzazione”.
Fornire “un servizio”. Capire “quanto tempo
di noi può assorbire”. Dubbi sugli scopi di
Ipsilon: “trappola per ingenui”? “mettere
insieme la sinistra orfana o sbandata”? Ipsilon
deve essere un’organizzazione di lotta
politica?
DISCUSSIONE
**30 ottobre 1991 ?
PER
UN
“COORDINAMENTO
MULTIETNICO” A COLOGNO MONZESE.
Lettera aperta ai cittadini, alle associazioni,
alle istituzioni locali.
13 maggio 1992
*PROPOSTA PER L’INDIVIDUAZIONE
DEL
TERRENO
“CENTRALE”
DI
ATTIVITA’ NEI PROSSIMI MESI
di Luca Ferrieri?
27 maggio 1992
APPUNTI SU “FUORI DALL’OCCIDENTE”
DI A.ASOR ROSA
di Ennio Abate
[Forse per Lab Sam?
NEGLI SCANTINATI E NEI LABIRINTI
di Marcello Guerra]
6 novembre 1992
*X CHIAMA...IPSILON NON RISPONDE
di Ennio Abate
Fallimento di Ipsilon: qualcosa di “vitale” o di
“più importante” per ciascuno (nominato
come
“psicoanalisi”,
“politica”,
“convivialità”, “ecologia della lettura”,
“programma”) non trova accoglienza in
Ipsilon
e
viene
cercato
altrove.
Condizionamento
degli
specialismi
e
attrazione verso la corrente dominante del
spare a cui si fa riferimento.
11 novembre 1992
*DA IPSILON A PUNTO ROSSO. LETTERA
APERTISSIMA AGLI AMICI DI IPSILON.
di Ennio Abate
Ipsilon ha avuto il merito di affrontare “il
problema
dello
sfascio
politico
e
antropologico della sinistra”. Ragioni del
“decesso” di Ipsilon: una partecipazione per
inerzia; incapacità di accogliere “qualcosa” di
più profondo e vitale per gli individui
partecipanti; diplomatismo e arretramento
prudente di fronte alla necessaria gestione del
conflitto delle differenze culturali interne;
incapacità o impossibilità di gestire “la
frammentazione specialistica dei saperi di
riferimento”. Proposta (“forzatura necessaria”
in direzione della politica; scelta invece della
paralisi) di un gemellaggio Ipsilon-Punto
Rosso.
13 NOVEMBRE 1992
*IPSILON? PUNTO ROSSO? ALTRO?
di Ennio Abate
4 esigenze reali alla base di Ipsilon:contrastare
isolamento
e
sofferenza
individuale; - orientarsi nella trasformazione
culturale in corso; distanziarsi dalla
fallimentare politica della sinistra senza
perdere la dimensione politica; - intervenire
nella dimensione sociale cittadina.
Separarsi per sviluppare le varie esigenze
(politica, ecologia, psicoanalisi, convivialità,
programma) portate in Ipsilon, ma
paralizzatesi o troppo diplomaticamente
conviventi.
*GUERRA E PACE. Proposte di attività
Ipsilon 1993
di Luca Ferrieri
*IL BARBONE TEDESCO E I SUOI
DINTORNI. MARX E’ SEDUTO CON NOI.
Gruppo di lavoro sul marxismo.
di Roberto Mapelli
13 gennaio 1993
*IPSILON. SEZIONE
RICERCHE IN LOCO
di Ennio Abate
RACCOLTA
DI
21 aprile 1993
**NUOVA IMMIGRAZIONE E RISVOLTI
CULTURALI. Orientamenti e proposte.
di Ennio Abate
SpiegAzioni
Bollettone di Ipsilon
Numero O giugno 1993
Collaboratori: E.
Abate, R. Fabbri, L. Ferrieri, R. Mapelli, P.
Mondelli, D. Salzarulo.
Ideazione grafica: C. Carlotta
SpiegAzioni
Bollettone di Ipsilon
Numero 1 novembre 1993 Collaboratori: E.
Abate, F. Arminio, A. Cirona, N.
D’Ambrosio, M. De Tuglie, R. Fabbri, L.
Ferrieri, M. Guerra, R. Mapelli, P. Mondelli,
D. Salzarulo, Samizdat.
Ideazione grafica: C. Carlotta
28 Gennaio 1994
**PER UNA STORIA METROPOLITANA DI
COLOGNO MONZESE
di E. Abate dell’Ass. Culturale Ipsilon
Comitato scientifico: G. Petrillo, G.
Severi, C. Tartari
Coordinatore: E Abate
Segretaria: M. G. Targa
Collaboratori: M. R. Archinti Feliciani, A.
Bellotto, O. Bertolazzi, D. Carissimo, M.
Casati, A. Defendenti, F. di Marco, L. Lana,
P. Mattiazzo, M. L. Nardon, B. Narici, S.
Pinazzi, G. Serra, A. Saladini, C. Salzarulo,
D. Salzarulo, R. Tonelli
Febbraio 1994
Mostra dello scultore Antonio Perniciaro
In villa Casati
15 giugno 1994
**PER UN COMITATO DI LiberAzione a
Cologno Monzese
- E. Abate, Appunti sulla “Costruzione di un
Comitato di LiberAzione” e Proposte di temi
“Per nuovi saperi e nuove pratiche a sinistra e
dintorni”
- D. Salzarulo, Per la costruzione di un
Comitato di LiberAzione
- V. Ballabio, Dieci considerazioni in
margine a sette anni di esperienza
amministrativa a Cologno M.
- M. Guerra, LiberAzione da chi, da dove,
perché?
Appello
di:
E.
Abate,
G.
Alessandrello, S. Alpino, V. Ballabio, V.
Beretta, V. Brusa, A. Cairoli, C. Carlotta, D.
Carissimo, A. Casula, G. Cocciro, M. De
Tuglie, M. Diaco, R. Fabbri, G. Facchi, M.
Felisari, G. Galardi, R. Grossi, M. Guerra, R.
Guzzo, L. Lana, A. Lorenzo, M. Madella, R.
Mapelli, N. Martinazzi, B. Narici, D.
Palumbo, L. Paccagna, C. Piazza, E. Picozzi,
E. Radaelli, C. Rosini, D. Salzarulo, A.
Tagliaferri, R. Turi.
Adesioni: PDS, Sinistra giovanile, Circolo
Pertini, Ass. Culturale Ipsilon
7/17 ottobre 1994
** E. Abate, Avete paura,
liberazione?
Lettera aperta a Roberto Mapelli
eh,
della
7 aprile 1995
** Samizdat Colognom, Eventi locali: suicidi
e omicidi politici a sinistra
Primavera 1995
Ladri di ciliegie
Esplorazioni e studi sulle opere di Franco
Fortini
Interventi di:
D. Salzarulo, Composita solvantur
E. Abate, Il ladro di ciliegie
L. Ferrieri, Fortini leggere e scrivere
A. Meani, Questo muro
M. Guerra, Extrema ratio
C. Carlotta e R. Fabbri, Fortini autore di testi
per canzoni
E. Partesana, Verifica dei poteri
31 maggio 1995
Romano Luperini e i Ladri di ciliegie
Incontro conclusivo del gruppo di lettura su
Franco Fortini con la partecipazione di R.
Luperini
23 ottobre 1995
Lettera
all’assessore
alla
Cultura.
Presentazione del calendario 1995-’96,
Richiesta di contributo e di uso dei locali
della Biblioteca civica per gli incontri
pubblici.
Iniziative 1995-1996
Trasformazioni del lavoro
- Il dibattito su disoccupazione e bisogni
sociali in Italia
Iniziative 1995-1996
Storia italiana
- La Resistenza senza mitologia
- Padri, figli e nipotini della Repubblica
italiana
Esodo
- Un ripensamento delle categorie politiche
e della “nuda vita”
- Esodi antichi e esodi contemporanei
Un secolo alla fine
- Le lotte e le tragedie del ‘900
- In quanti ci siamo illusi nel ‘900?
Tra metropoli e periferie
- Immaginario metropolitano e strutture
economiche postfordiste
- Luoghi ideali di una volta e città d’oggi
senza luoghi e tanti desideri
- Modernità: dalla Parigi di Baudelaire al
Bronx
Altre iniziative
- Scuola: da “le vestali della classe media”
alla “scuola azienda”?
- Incoscio e matematica
- Uomini e donne: una fratellanza inquieta
- Una provocazione all’anno: macht
Tamaro/Nietsche e/o contestualizziamo
“Va’ dove ti porta il cuore” (non
realizzato)
Relatori: E. Abate, C. Carlotta, R. Fabbri, M.
Guerra, R. Mapelli, G. Petrillo, D. Salzarulo,
A. Villa
16 novembre 1995
SCHEDA SU “IL LAVORO DI DIONISO. Per
la critica dello Stato postmoderno” di Negri e
Hardt.
A cura di Ennio Abate
Gennaio 1996
Scheda su “ALLE ORIGINI
REPUBBLICA” DI Claudio Pavone
a cura di Ennio Abate
Grandinetti, M. Guerra, U. Lacatena, L.
Lenzini, F. Leonetti, R. Luperini, C. Preve, F.
Romanò, D. Salzarulo, F. Sarcinelli, G.
Stocchi, P. Zamboni, D. Zazzi.
IPSILON 1997. PROPOSTE.
di Ennio Abate
Iniziative 1997
L’identità
Testi di riferimento:
- Contro l’identità di F. Remotti
- Passing: dissolvere l’identità
Camaiti
di
A.
Città-periferia
- Tutti in taxi di G. Viale
- Il maiale e il grattacielo di M. D’Eramo
SCUOLA insegnamento-apprendimento
- Attesi imprevisti di P. Perticari
DELLA
Aprile 1996
Narratorio inferiore di tabea
nineo e poliscritture amiche
Mostra alla libreria
CELES di E. Abate e libretto
con testi di: P. Andujar, P.
Del Giudice, P. Del Punta, L.
Ferrieri, R. Mapelli, F.
Romanò, D. Salzarulo
Dicembra 1996
“Se tu vorrai sapere...”
Testimonianze per Franco Fortini
In collaborazione con Comune di Cologno
Monzese, Assessorato alla cultura, Biblioteca
civica Testimonianze in libretto di:
E. Abate, L. Amodio, R. Birolli, S. Bologna,
G. Bouchard, L. Calvi, P. Cataldi, I. Della
Mea, L. Della Mea, A. De Lotto, A. Grazia
D’Oria, R. Fabbri, F. Gianoli Grandinetti, E.
Le previsioni della poesia
- Meteo di A. Zanzotto
Elogio della lettura
- il piacere della lettura
Relatori: E. Abate, R. Bertola, M. D’Eramo,
R. Fabbri, L. Ferrieri, A. Meani, P. Perticari,
D. Salzarulo,
Novembre 1997
**SAMIZDAT COLOGNOM
n.1, novembre 1997
foglio semiclandestino di critiche solitarie e
stonate
SAMIZDAT E IL LETTORE FELICE
Dialogo in margine al non convegno “Cari
lettori, parliamone...” -21-22 novembre
1997
Novembre 1997
**FLOP
CARI LETTORI: CONTRO E PRO
Atto primo: Samizdat e il lettore felice
di Ennio Abate
Atto secondo: Il lettore felice e Samizdat
di Luca Ferrieri
**Novembre 1997
“La nota poetessa napoletana di origine
italiana...”
di Angela Villa
Iniziative 1998
PSICO laboratorio scuola
Discutiamo i libri:
- La costruzione dell’identità e La
psicanalisi come esercizio critico di G.
Jervis
- La consultazione psicologica nella scuola
di Masoni
- “La Ginestra”, rivista di psicanalisi
Politica mente
- Le trasformazioni del lavoro
- La questione temporale
- Le tre sinistre o le due destre?
Miti
- Mitizzare/Demitizzare
- Miti d’oggi: dal che a Lady D
Memoria Storia
- Il revisionismo storico
- Secolo breve, secolo lungo
Lavori in corso
- Lettura cantata delle poesie di Raffaele
Viviani
- Franco Fortini: poesie per la scuola
3 giugno 1998
Polemica di Ipsilon: Lettera aperta
all’assessore alla cultura e al direttore della
Biblioteca civica
Settembre 1998
Promemoria di Ennio Abate per i
QUADERNI DI IPSILON
Scrap-book
Ceto medio
Sandro Mezzadra, L’impiegato senza
qualità, il manifesto 3 marzo 2000
( Recensione a Mariuccia Salvati,
Da Berlino a New York. Crisi
della classe media e futuro delle
demcorazie nelle scienze sociali
degli
anni
trenta,
Bruno
Mondadori)
1. “...sospesa tra una dolorosa e
mediocre quotidianità e la
sperimentazione di nuovi stili
di vita nella Germania
weimairiana, la classe media
parve giocare il ruolo
preponderante nei grandi
smottamenti che condussero
Hitler al potere; protagonista e
simbolo dei nuovi modelli di
consumo e benessere che si
diffusero nel dopoguerra,
sembrò incarnare la concreta
utopia
di
una
società
finalmente integrata al di là
dei contrasti di classe...”
2. Nel dibattito statunitense
degli anni Trenta “la classe
media si avviava a divenire il
centro di un’economia morale
fondata sul carattere “privato”
del sacrificio compiuto da una
moltitudine di individui per
appropriarsi di saperi e
competenze
“socialmente
utili”. E’ proprio questa
funzione di centro di una
nuova “economia morale”
l’elemento
che
sembra
accomunare i destini della
classe media nel “secolo
breve””
3. “Il riferimento alla centralità
della classe media significa
legittimare come sacrific reali
solo quelli che avvengono al
centro della segmentazione
sociale...
Gli
spazi
di
autonomia che si manifestano
nei nuovi stili di vita e di
consumo
risultano
così
coniugati con la persistenza di
una ferrea etica del lavoro.
Trattandosi
poi
di
un’autonomia privata prima
che individuale, essa si
accompagna
con
una
ricomposizione familiare delle
mansioni sia produttive che
riproduttive, di modo che
viene
comunque
salvaguardata la “naturale”
gerarchia
tra
i
sessi.
All’ombra
di
questa
“economia morale” middle
class.. il lavoro operaio senza
qualità e senza virtù viene
progressivamente espulso dall
ospazio pubblico così come la
discriminazione
che
continuano a subire gli afroamericani”
Scuola pubblica/privata?
Anna Pizzo (il manifesto 1 marzo
2000)
Sulle posizioni di Revelli (e Carta): la
sc
\uola “uno dei pochi luoghi della
modernità in grado di produrre legame
sociale” (“A condizione di essere
capace
di
mescolare
[!?]
ipermodernità e arcaismi”.
Parla
almeno
di
“inutile
contrapposizione tra scuola statale
scuola privata”: lo stato di per sé non
è in grado di garantire né maggiore
libertà né eguali diritti.
Se è indifendibile la “scuola dello stato
in quanto pubblica”, la proposta
(pluralista) dovrebbe essere quella di
“una scuola modellata sul territorio e
in grado di produrre socialità” [ Ma
allora facciamo dei centri sociali e
sbarazziamoci della scuola...!], una
scuola “svincolata da burocrazie
centralistiche.. in grado di elaborare
culture e saperi dentro dimensioni
piccole, ma non localistiche... dotata
della lente [quale?] per guardare alle
somiglianze tra il proprio territorio e
quello che si trova dall’altra parte del
mondo”[ genericità del legame, ben
più complicato e conflittuale, fra
particolare e universale o particolare
e globale
Rossanda ( il manifesto 2 marzo
2000)
Ancora in difesa della scuola statale
contro la privata e contro la proposta di
Revelli ( Carta) di scuole nate nel
territorio e con solo referente il
territorio. Sarebbe la frantumazione in
un miriade di “comunitarismi, di
interessi sociali, culturali, religosi, o
dio non voglia, etnici”, ben poco
pubblici ( cioè “universalmente aperti”)
e, per il finanziamento, “finiremmo con
l’avere scuole non solo differenti ma
inuguali”. Prosegue la sua polemica
contro la sinistra sociale o antagonista
che inviterebbe a “disertare il terreno
della politica lasciandone il dominio
alle destre.. cioè al capitale e alle
chiese che sono oggi [assi? portanti
della globalizzazione”. Deride poi
giustamente l’idea che “i saperi siano
localmente elaborabili o contestabili,
senza un orizzonte almeno nazionale o
sovranazionale, senza una visibilità
dichiarata delle ideologie in conflitto
che li sottendono”.[Evita però il punto
cruciale: lo Stato che scuola pubblica
offre? ]Indice
Cronachetta
Contatti/ Nuovi immigrati
- Ismail Samir
- Allouche Abbas
La scuola da lontano
La tentazione di Orbilius Intervista a
Carlo Oliva
Colognom
- Casa della Cultura? Casa dei
giovani? Una proposta bocciata
- Condomini: off limits per la
democrazia?
Lettera aperta al
Sindaco di Cologno Monzese
Appendice: Il normale quotidiano di
un condominio
- Che storia è questa? Una
recensione critica a Giuseppe
Severi, COLOGNO MONZESE
dalla sua storia le radici del 2000
- Cari amici di Società Democratica
Antiliberista. Lettera aperta.
Incursioni
Da Colognom a Grosseto. Per una
scrittura in clandestinità. Intervento al
seminario della Fondazione Bianciardi
Stocolognom
-
!0 anni di IPSILON
Cronaca e documenti del dibattito di
IPSILON
Scrap-book N.2
Clara Gallini su Lourdes
Carta Sottovaluto?
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SAMIZDAT COLOGNOM n.2 - giugno 2000