SAMIZDAT COLOGNOM Numero 2 giugno 2000 DIARIO -CRONACHETTA Unico sprazzo di gioia pubblica: ho partecipato alla manifestazione contro il Centro di via Corelli a Milano. Poi il lavoro paziente nel deposito della vita quotidiana: accudimento delle faccende di casa, trasloco, corrispondenza e-mail con amici, “covare” dei testi per alcune riviste culturali, esplorazione dall’interno della miseria sociale di un condominio, ascolto dei travagli esistenziali di conoscenti. A mezza strada, l’improvvisa evaporazione dell’Associazione Culturale Ipsilon, proprio quando si stava pensando di “festeggiare il decennale” (L’avevamo fondata nel 1989, l’anno di un’altra evaporazione , del PCI). Non mi resta che riconoscere la divaricazione delle intenzioni dei partecipanti, pochi, pochissimi ma amici da lunga data, e fare, a modo mio, dei dignitosi funerali (Cfr. 10 anni di IPSILON). L’amalgama non è riuscito se non all’inizio e in rare occasioni. I percorsi si distanziano: io continuerò a scrivere ancora da solo Samizdat Colognom, altri hanno fondato Società democratica antiliberista o tacciono, presi dai piccoli vortici (o schermi) quotidiani della professione, della famiglia, della vita, come si dice. “Digerita” la guerra in Kosovo. E Timor Est, la Cecenia? Digeriscono tutto, ma - come il piccolo animale sanguinario della poesia di Fortini – hanno “morso nel veleno” e qualche effetto mortuario (fosse solo elettorale!) si nota. Ma anche nella posizione dell’esodo, l’impotenza (la solitudine) attutisce l’emozione politica. Constato, comunque, anche su di me l’effetto narcotico dei mass media. Se non danno rilievo a certi eventi (ad es. i fatti della Cecenia), l’emozione non scatta. Se davvero andassimo dove ci porta il cuore, staremmo freschi. Saremmo negli stagni delle emozioni quotidiane mai più rimescolati (e anche turbati positivamente) da emozioni civili. Quando si dice colonizzazione dell’inconscio! Quanta “emozione” :nel caso del Kosovo è stata solo debitrice dei mass media! Su QUI. Appunti dal presente, una rivista alla macchia su Internet del mio amico Massimo Parizzi, uno psicanalista ha tenuto un diario durante la guerra in Kosovo (“la guerra di maggio” per qualcuno...). Bene, ad ossessionare i suoi sogni è stata la figura del “cattivo” di Milosevic. E perché non quella di Clinton? – mi sono chiesto. Perché l’inconscio assorbe dalla seconda natura prodotta dai mass media e dall’adesione compiacente ai miti democratici della comunità in cui viviamo. Si deve annaspare con l’intelletto per scovare nella giungla massmediologica la notizia e il commento rivelatore di cui nutrire intelletto e cuore, attrezzandoli agli eventi che ci plasmano nostro malgrado. Anche il fallimento di Ipsilon mi fa pensare alla difficoltà di costruire nuovi luoghi (singoli e/o collettivi) che tengano sveglia la coscienza critica e permettano di bonificare un tantino l’inconscio. Nel frattempo il luogo della solitudine (l’esodo la produce o almeno se la trova addosso) e i luoghi cenacolari o “alternativi” (come i Centri Sociali preferiti dai giovani), che con l’esodo non contrastano poi tanto, sono comunque dei surrogati. Siamo di fatto avvolti nei flussi comunicativi dei mass media, abbiamo poche possibilità di rapporti autonomi e diretti gli eventi-simboli della crisi contemporanea. Vi prevalgono più l’espressione del disagio presente rispetto al falso e imponente Nuovo e la sistemazione o conservazione intelligente del Passato ripulito, di una Storia compiuta (Questo faccio con Stocolognom). Sincerità ci vuole. Possibile che sbagli sempre compagnia? Qualcuno mi potrebbe rimproverare di attardarmi con la sinistra moribonda e di restare nella scia dei loro problemi. Ma questo qualcuno è figura della mia immaginazione per il momento (. Dallo stare qui, a Colognom, non viene lo scatto per mettermi con gli antagonisti dichiarati (quelli del Leoncavallo? Quelli di Derive e Approdi?) I tentativi di approccio reali sono falliti. E’ un caso? Può darsi che anche questi antagonisti del sistema non hanno - per la loro approssimazione e l’autismo narcisistico che spesso caratterizza i loro gesti politici – presa su di me. L’esodo, per chissà quando tempo (poco, perché sono vecchio), me lo devo fare da solo, come i miei samizdat. Nella risposta che ho dato all’Associazione Baldisseri di Siena sul tema della militanza oggi, nella corrispondenza con Luperini e Cataldi e nella rivista Chichibio torna il tema dell’umanesimo. (Il tema della scrittura oggi, proposto dalla Fondazione Bianciardi di Grosseto è affine). Mio scetticismo verso una riproposizione a tutto tondo e magari anche consapevolmente e provocatoriamente (nella situazione d’oggi) conservatrice di questo valore. Maggiore interesse ad affrontare il tema della crisi dell’umanesimo e dei motivi e delle possibili proposte di soluzione. Raccatto spunti. [Patrick Viveret, Una sfida all’umanesimo, Le monde diplomatique il manifesto, febbraio 2000 Parla dal punto di vista della tradizione umanistica progressista contro le tesi della “post-umanità” di Fukuyama (destra conservatrice americana) e Peter Sloterdijk (sinistra radicale tedesca contro Habermas e le tesi della Scuola di Francoforte). All’eugenetica fascistizzante non si può contrapporre solo lo sdegno: “Vi sono due importanti ragioni per sottoporre a un’analisi lucida la crisi dell’umanesimo della modernità. In primo luogo, la sua insufficiente attenzione per la mutazione informatica, così come per la rivoluzione biologica. La seconda ragione... attiene alle carenze del trittico individuo/ragione/progresso, quale era stato costruito a partire dall’Illuminismo”. L’umanesimo è fragile sul piano dell’ecologia: è affascinato dal progresso tecnico e quindi dal “nuovo trittico scienza/tecnica/mercato” e sul piano antropologico: vuole rifondare il legame sociale sul solo individuo ignorando l’inserimento collettivo, facilitando le logiche stataliste. La tesi: per resistere ai fantasmi della post-umanità bisogna tener conto della mutazione indotta dalle tecnologie dell’informazione e dalla rivoluzione del vivente. Il pericolo massimo è quello delineato dalla prospettiva della clonazione, parte emergente di un iceberg e indice di una fantasia infantile di onnipotenza. Bisogna lottare per il divieto generalizzato della clonazione umana. Bisogna, contro il fascino del mito e dell’Indifferenziato (del Medesimo) affermare “un progetto nel quale l’alterità costituisca un’opportunità e non una minaccia”, in una prospettiva di rifondazione dell’umanesimo.] [Cini, Clonazione mercantile, il manifesto 29 febbraio 2000 “Lo scandalo non è la clonazione, ma il brevetto”, col quale si arriva a “colmare l’abisso che separa la materia inerte da quella vivente”. Non potendo intervenire sui laboratori militari segreti che “studiano la guerra genetica come prima studiavano guerra chimica e batteriologica” (D’Eramo), si può rendere pubblica la ricerca civile e affermare qui che “la materia vivente non può essere brevettabile in nessuna forma”, distinguendo fra studio (obiettivo lecito e socialmente apprezzato) e riduzione a merce ( da proibire): ogni scoperta deve essere a disposizione di tutti. E non è vero che senza l’incentivo del profitto, la ricerca verrebbe rallentata. Moltissimi sono gli scienziati appagati dal “godimento intellettuale che provano nel capire come e fatto il mondo” e dei finanziatori privati si potrebbe fare a meno:“basterebbe che gli stati dedicassero alla ricerca un decimo delle lore spese militari”.. Il rischio che la forza del mercato introduca nella biosfera organismi manipolati che possono produrre delle Cernobyl biologiche dalle conseguenze ancora più pericoloe e imprevedibili di quella nucleare” è enorme. CONTATTI/ Nuovi immigrati ISMAIL SAMIR Incontro del 31 ottobre 1999 Abita con la giovane moglie e due bambini, uno di 2 anni e l’altro di 7 mesi, al settimo piano di via Monte Grappa 35. L’appartamentino è minuscolo: una stanzetta con l’angolo cucina, un divano, un tavolinetto lungo col piano apribile e un’altra stanza, di certo la camera da letto, nella quale sulla parete in alto ho intravisto soltanto un televisore che trasmetteva programmi egiziani. C’è un balconcino con una rete alta per evitare al bambino di sporgersi. Anche se la temperatura non è mite - per tutto l’incontro io mi sono tenuto addosso l’impermeabile – la finestra e la porta d’ingresso restano spalancate. Interrogo Ismail, mentre la moglie è seduta ad ascoltare con in braccio il bambino e si alza due volte per prepararci un caffè e, alla fine della chiacchierata, un succo di frutta, che mi offre in una coppa da champagne. Lei l’avevo già vista e in una circostanza drammatica. Mia figlia, che mi ha procurato l’incontro d’oggi, abita allo stesso piano e, un giorno [...] che ero a casa sua, sentimmo all’improvviso urla e rumori sul pianerottolo. Aperta la porta, vedemmo la moglie di Ismail distesa sul pavimento semisvenuta, assistita da una vicina di casa e il bambino di due anni piangente accanto a lei. Pareva che fosse scoppiata la bombola del gas. La donna non parlava italiano. Mia figlia corse a chiamare la moglie del libanese al secondo piano, perché potesse fare da interprete. Corsi nell’appartamento, ma non c’era odore di gas. A scoppiare era stato un accendino di plastica, di cui trovammo i resti. Forse era stato avvicinato imprudentemente alla fiamma del fornello. Ismail è magro e parla veloce, a scatti, in un italiano poco fluente, non imparato a scuola ma – come il francese – nelle occasioni pratiche create dal suo lavoro. E’ nato nel 1960 a El Mehala (Gharbia) – mi faccio scrivere il nome - una città di 2 milioni di abitanti. (Sulla Garzantina di geografia trovo poi solo Al Mahallah...). Ha sei fratelli e due sorelle. Suo padre ha lavorato in una grande azienda statale di filati e tessuti. Mi pare di capire che, prima di andare in pensione, facesse il caporeparto e che la fabbrica a ciclo continuo impiegasse circa 150.000 dipendenti. Un po’ me ne stupisco, ma il tentativo di approfondire la questione fallisce. Ismail è stato a El Mehala fino a 27 anni e ha studiato elettronica [?]. Poi è andato a Parigi e per 6 anni vi ha lavorato come imbianchino. Nel frattempo è venuto una volta, per tre o quattro mesi, a Milano e dal ’92 è a Cologno Monzese. Ha fatto sempre l’imbianchino. In Italia è stato dapprima alle dipendenze della ditta Orlandi di Lecco e ora lavora assieme ad altri due connazionali in una piccola società artigianale indipendete, la Delta snc (società in nome collettivo). Pur trovando più socievole e aperta la vita a Parigi, ha preferito stare in Italia, perché vi ha trovato maggiore possibilità di lavoro e qui ha ottenuto un permesso di soggiorno regolare. Se il lavoro dovesse mancare, tornerebbe in Egitto. Mi fa capire che comunque il governo egiziano garantisce un minimo di reddito di sussistenza ai disoccupati . Dell’Italia, quando era al suo paese, aveva un’immagine generica. Spaghetti, football, pizza: questi erano i simboli del nostro paese che gli erano noti o l’interessavano. Parla dei giovani francesi e italiani e nota che rifiutano il lavoro pesante, ma evita di dare un giudizio negativo esplicito e preferisce mostrarsi comprensivo. In fondo – mi fa capire - tutti i genitori vogliono che i loro figli abbiano condizioni di vita e di lavoro migliori. Approfondisce poco anche la questione del razzismo verso gli stranieri. A lui episodi spiacevoli non sono accaduti. Certo, mentre in Francia nei cantieri la maggioranza dei lavoratori è straniera, qui in Italia sul lavoro più numerosi sono ancora gli italiani. e mi fa intendere che, perciò, è più diffusa la diffidenza e l’ostilità verso i lavoratori stranieri. Ma non mi fa esempi. Il suo lavoro è faticoso. Torna a casa stanco e ha poche occasioni di uscire la sera. A cinema non ci va. Vede la televisione via satellite. E’ islamico “al cento per cento” e, toccatoda una mia domanda, infervorandosi, mi dice che il terrorismo algerino non ha nulla a che fare con l’Islam. Dell’Egitto mi faccio scrivere i nomi di alcuni scrittori a lui noti: Kasem Amen, Nagib Mahfoz, Mostafa Amin. Mi aggiunge che la metropolitana in Egitto è più pulita di quella italiana grazie anche al controllo molto severo della polizia. Certo le strade sono più sporche, ma la causa è da cercare nel caldo, nella polvere e nella scarsità di pioggia. Lui non è mai stato nel sud dell’Egitto dove la povertà è più diffusa. Mi conferma la divaricazione della società fra ricchissimi e poverissimi e mi accenna alla Zakat, che dovrebbe essere la tassa che, secondo il Corano, i ricchi dovrebbero versare a favore dei poveri. ALLOUCHE ABBAS Incontro del 1 novembre 1999 Ha 36 anni. E’ nato nel 1964 a Beirut e vi ha vissuto fino a 17 anni diplomandosi come elettricista. Suo padre faceva l’artigiano (muratore) e aveva sei figli maschi e tre femmine. L’invasione israeliana del Libano nel 1980 (?) costrinse tutta la famiglia ad abbandonare la casa e i terreni di proprietà e a rifugiarsi nella campagna a sud del paese. Scapparono assieme a molte altre famiglie, quando già arrivavano i primi missili su Beirut. Nel 1987, per le difficoltà incontrate nella sua professione di elettricista – spesso non gli pagavano il lavoro finito, i prezzi del materiale elettrico subivano sbalzi speculativi, assenza di qualsiasi controllo statale – decise di partire. La tradizione mercantile del Libano, le sue personali ambizioni di diventare un commerciante e la sua ammirazione per il made in Italy gli fecero scegliere senza esitazioni l’Italia. Non partiva alla disperata. Portava con sé un piccolo capitale (circa 18 milioni) e aveva a Milano un cugino, già commerciante, che abitava a Lambrate e esportava prodotti italiani in Medio Oriente: giocattoli, articoli da regalo, eccetera. Con lui ha aperto un magazzino a Bareggio per esportare soprattutto in Libano e negli Usa scotch e grandi rotoli di carta. Ma gli affari sono andati male. La loro merce non reggeva la concorrenza e non ha trovato spazio sui mercati. E’ rimasto in Italia e fra ‘90 e ’91 ha ripreso il suo mestiere di elettricista, ma come lavoratore dipendente in varie ditte. Ha lavorato così per altri 4 anni. Non si trattava di lavoro nero, ma non tutto è andato sempre liscio. Mentre lavorava per la Telecom in un cantiere di via Washington a Milano, dov’era assunto a tempo indeterminato, si è visto recapitare una lettera di licenziamento: “a causa della crisi in Lombardia non abbiamo più appalti”. Assieme ad altri 15 lavoratori licenziati si sono rivolti alla Camera del Lavoro. La causa intentata è ancora aperta, ma non si sa per quanto tempo si prolungherà. Abbas definisce una “giungla” il mondo del lavoro: “Ti mangiano legalmente”. Dopo il licenziamento si è rassegnato a fare i lavori che gli capitavano. Se li procurava nel giro dei suoi amici libanesi e italiani. Ha fatto il controllore dei biglietti ai concerti e alla sala pattini al Forum di Assago. Ha fatto anche il manovale nell’edilizia. In questo periodo ha vissuto in affitto. Occupava assieme a due studenti italiani un appartamento (un salotto e una camera da letto). Pagavano 800mila lire al mese. E’ stato il momento più difficile per lui. Non poteva mandare soldi ai suoi genitori, a cui è molto legato e ha dovuto chiedere soldi in prestito agli amici. Ma la sua voglia di riuscire nel commercio l’ha di nuovo spinto a fare società con un italo-libanese. Hanno aperto un magazzino per selezionare e poi esportare in Medio Oriente e in Africa indumenti e scarpe usate. Hanno affittato un capannone. Si sono riforniti da un grossista italiano. Ma anche stavolta i buoni guadagni sperati non sono arrivati. Abbas riassume così le difficoltà: “La merce parte, ma il cliente non paga” e mi fa l’esempio di un suo cliente, che aveva scelto la merce di persona, pagando immediatamente la metà del prezzo pattuito, e ha poi contestato l’acquisto all’arrivo a destinazione. Non ci sono leggi che proteggono da queste truffe, mi dice. Chiusa anche quest’attività, è passato a fare l’intermediario nel commercio di scarpe nuove. Lavora con ditte di Padova e Rovigo. Accompagna in fabbrica i grossisti mediorientali con cui entra in contatto e riceve una percentuale sugli acquisti realizzati. Ovviamente il guadagno non è alto ed egli ha deciso di affiancare a quest’attività il suo lavoro di elettricista. A Cologno Monzese è arrivato la prima volta nel 1993. I due studenti, che abitavano con lui nell’appartamento di Milano, avevano finito gli studi ed egli non poteva pagare da solo l’affitto di 800mila lire. Ha conosciuto una persona di Taranto, che a 650mila lire ha affittato a lui e ad un altro un prefabbricato industriale, riscaldato con una stufa elettrica, in via Brunelleschi Ci ha abitato due anni. Accanto al prefabbricato c’erano altri edifici abusivi in pessimo stato, affittati a 500mila lire al mese ad una famiglia calabrese e a un famiglia della Somalia. Lo speculatore metteva e toglieva la corrente elettrica a suo capriccio. Sono arrivati ai ferri corti e assieme agli altri hanno denunciato la situazione ai carabinieri e al Sunia. Dal 1996 è in un piccolo appartamentino di 35 mq. al primo piano di via Monte Grappa 35. Ci abita con sua moglie, Chraim Nahla, libanese, e Alì, il figlioletto di due anni nato in Italia. Hanno un contratto “transitorio”. “Quello per le prostitute”, mi dice polemico Abbas. Paga 800mila lire un appartamentino, che gli è stato affittato come “ammobiliato”, ma che aveva all’inizio solo un tavolo e un armadietto da cucina (anni ’60) e un armadio a muro nella camera da letto. Col proprietario è in urto, perché – mi dice – rifiuta di rifare le tubature e di far riparare dei termosifoni che non funzionano. Mi fa entrare nel bagno per mostrarmi il soffitto scalpellato. Ci sono dei tubi deteriorati e una macchia di umidità su una parete. Da tre mesi ha deciso di non versare più l’affitto, per ripagarsi in qualche modo dei lavori che lui stesso ha dovuto fare nell’appartamento. Sua moglie, dopo aver preparato per noi due il caffè, segue silenziosa il nostro colloquio, guardando la televisione. C’è anche un giovane, loro parente, che poi va via e mi saluta. Alì, il bambino, tenta di farsi notare facendo rimbalzare con forza sul pavimento una piccola pallina di gomma. Abbas ha imparato l’italiano da solo. Ha seguito solo un mese la scuola per stranieri in via Benedetto Marcello; e l’ha insegnato poi alla moglie, senza farla iscrivere alla Scuola d’italiano per stranieri del Comune di Cologno. Credo anche per diffidenza. La sua vita è tutta dedicata al lavoro e alla famiglia. Con la moglie ha fatto dei viaggi per vacanze a Bormio, a Massa Carrara ed in Germania, in visita ad amici libanesi. Di Cologno sa poco. Ha fatto ricorso al Consultorio quando sua moglie era incinta e pensa di mandare il bambino alla scuola materna. Non all’asilo nido. E’ convinto che nei primi anni il bambino debba stare soprattutto con sua madre. Ha fatto la domanda per ottenere una casa popolare. Ha presentato tutti i documenti. Ha mandato spesso la moglie a parlare con l’assistente sociale. Ma sono sei anni che aspetta. E’ sfiduciato e sospetta intrighi e raccomandazioni. Pare, mi dice, che se uno straniero accetta di andare nell’albergo convenzionato col Comune (quello in fondo a via Cavallotti), trova più facilmente casa. Ma lui aveva la moglie incinta e non ha voluto andarci. Sa che la moglie qui è spaesata e passa gran parte del suo tempo in casa col bambino. Sta pensando anche di farla tornare in Libano col bambino. Il problema della casa è per lui davvero il più urgente e essenziale. Se il Comune fosse davvero “sensibile” e non solo alle esigenze degli stranieri ma dei lavoratori dovrebbe fare qualcosa su questa questione. Non è possibile che uno prenda due milioni al mese e debba pagare un milione d’affitto. Gli sembra uno scandalo e se la prende con il “capitalismo sovrano”. Del resto egli rivendica il “diritto alla casa” (proprio come facevamo noi negli anni ’70, mi viene da pensare). Non chiede elemosine. Lui lavora, paga le tasse, paga la Gescal. Perché non dovrebbe ottenere una casa almeno di due locali senza spendere – come gli hanno chiesto - 1 milione e 300mila lire al mese? Si è rivolto anche a don Ernesto, il prete della parrocchia di S. Maria, animatore dell’associazione Una casa per gli amici. Ma le richieste sono tante, gli ha risposto. Sposto il discorso sull’islamismo. Abbas è musulmano e reagisce alla mia “domanda provocatoria” sul fondamentalismo islamico o sulla situazione in Algeria o in Afghanistan, dicendo che l’Islam non ha niente a che fare con quei “fanatici” e con la loro selvatichezza da “animali”. E anche a proposito della recente manifestazione a Torino dichiara la sua disapprovazione. La rivendicazione del diritto delle donne islamiche a portare il velo anche nelle foto segnaletiche non la condivide:“Se ti trovi in un paese e ci sono certe leggi, devi rispettarle. E, allo stesso modo, nessun italiano può imporre a una donna araba di mettersi la minigonna. L’Islam è contro questi fanatici”. Per lui ogni civiltà ha le sue cose belle e brutte. L’Europa suscita la sua ammirazione per le tecnologie. Ma qui “si è persa la base umana e la gente vuole solo far soldi”. Il mondo islamico ha il valore del legame familiare “stretto e forte”. Per Abbas uomo e donna (marito e moglie) hanno nella famiglia ruoli precisi e inconfondibili: l’uomo si deve “fare in tre” per mantenere la famiglia e non mandare la donna a lavorare; la donna è la “padrona della casa”, a cui il marito lavoratore affida la gestione. La donna europea, che lavora e vuole essere emancipata, è per lui “più trascurata” di quella araba, che “non è obbligata a lavorare” e “ha più tempo per i figli e non deve affidarli alla nonna o alla tata”. Se questi ruoli precisi non vengono rispettati, se la donna è costretta (o sceglie) di giocare contemporaneamente due ruoli, quello della casalinga-madre e della lavoratrice, “spacca” la famiglia. La forza di queste tradizioni non può essere annullata dall’immigrazione. Se uno straniero che arriva in Europa, dimentica i suoi legami e i suoi costumi, sbaglia e la colpa è sua: “l’ha voluto lui”, nessuno glielo impone. Abbas sente di avere un legame (“un debito”) coi suoi genitori. Perciò ritorna almeno una volta l’anno in Libano, e non in periodi necessariamente festivi. Sente questo viaggio come un segno di devozione ai genitori e ai parenti, un modo di “saldare” quel debito. Ma è possibile conciliare modernità e tradizione in modo così liscio? C’è sempre il ritorno del migrante-Ulisse alla patria? Gli faccio notare che la modernità ha distrutto o deformato quel mondo tradizionale non solo qui in Europa, ma anche nei paesi arabi o africani (o dovunque). Gli vorrei anche esprimere i miei dubbi su un certo attaccamento alle “radici”, che ha effetti devastanti, e dirgli che la modernità ha svelato anche nuove possibilità sia agli uomini che alle donne, ai singoli. Ma è tardi e non mi va di intaccare a freddo la sua fiducia così ferrea nella possibilità di tenere assieme i valori della modernità e quelli della tradizione: “Devi traballare fra un mondo e l’altro. Io lavoro qui ma torno sempre a casa”. Mi accontento di cogliere in silenzio che l’esperienza ibrida dell’immigrato costringe pure Abbas a contraddirsi: “Oggi non si può più tornare indietro: chi ha l’automobile non può usare l’asino, chi ha la lavastoviglie non può lavare a mano i piatti”. Spunti al margine di questi incontri Illuminati, Il colonialismo delle differenze, il manifesto 1 marzo 2000 (recensione a: Johannes Fabian, Il tempo e gli altri-la politica del tempo in antropologia, ed. L’ancora del mediterraneo, Napoli) E’ la critica (affine a quella di Edward Said per l’orientalismo della cultura otto-novecentesca) dell’antropologia “che fissa altri uomini in un altro tempo, rimuovendoli dal presente del soggetto parlante/scrivente”, comunque basata su un originario modello evoluzionistico, rimasto inalterato nello strutturalismo di Greimas o Levi Strauss o nell’antropologia simbolica1. Quest’antropologia arriva alla “pietrificazione della relazione (entro) gli schemi di una storia a senso unico: progresso, sviluppo, modernità versus immobilità, sottosviluppo, tradizione”. Suoi presupposti: l’idea di tempo storico come secolarizzazione della storia sacra giudaicocristiana; l’idea di scienza come “viaggio di esplorazione e successiva conquista”. Contro la concezione positivistica dell’etnografia, strutturalismo, relativismo culturale e antropologia simbolica possonoessere considerati avanzamenti “nella misura in cui spostano l’asse verso il linguaggio e la comunicazione intersoggettiva”, ma questi strumenti intellettuali non evitano che “il conoscente rivendichi un potere più o meno benevolo sul conosciuto, che ben raramente può a sua volta configurarsi come conoscente, come antropologo dell’Occidente”] LA SCUOLA DA LONTANO La tentazione di Orbilius Intervista2 a Carlo Oliva* - Partiamo dall’inizio. Come nacque Lettera ad una studentessa? Questo libro era nato da un’idea di Luigi Manconi. Lui allora era nella direzione editoriale della Savelli e collaboravamo insieme ad Ombre rosse. Nella collana da lui diretta (“Attualità politica”) uscivano testi politici d’esplorazione, di frontiera. E questo libretto era stato pensato come una parodia. Ci pareva che le argomentazioni allora correnti sulla scuola, sul lavoro dell’insegnante, sullo studente fossero deboli. Ma altrettanto fiacco ci pareva il punto di vista dei tradizionalisti. Insomma non erano convincenti né gli uni né gli altri. Volemmo allora sviluppare per eccesso le posizioni dei tradizionalisti d’allora, per mostrarne appunto la debolezza. Oltretutto in quegli anni – siamo attorno al ‘78-‘79 – il movimento degli insegnanti si trovava su un crinale: stava per rinunciare alle posizioni 1 In quest’ultima si ha “una prevalenza del tratto visuale come stile cognitivo riduttivo, che privilegia gli elementi e i dispositivi tipici della civiltà occidentale” 2 L’intervista risale al gennaio 1999 - - - antiautoritarie e libertarie e volgersi alla riscoperta del proprio ruolo e al recupero della figura tradizionale. Orbilius è dunque una maschera del docente di allora. Sì, sia del vecchio insegnante che non aveva capito niente del ’68 sia di quello che cominciava a stancarsi e ripensava la propria professionalità in termini tutto sommato tradizionali. Il nome classico aveva questo significato. Orbilius è una figura storica, citata in una delle Satire di Orazio, che si lamentava di aver dovuto studiare sotto la sua egida autori per lui arretrati e poco interessanti (e di essere preso a frustate quando non lo faceva). Che effetto ebbe Lettera ad una studentessa sui lettori di quegli anni? Il libretto ebbe più successo del previsto. Ma, con mio disappunto, fu preso terribilmente sul serio. Per la prima volta ho capito che in Italia non bisogna mai fare troppo gli spiritosi. Il libretto, infatti, venne visto come una seria argomentazione a favore del recupero della professionalità scolastica tradizionale. Il pubblico del mio libretto? La collana in cui uscì era di opuscoli politici e quindi la destinazione era quella dei militanti di allora, magari la fascia medio-alta che si occupava di problemi teorici: i lettori di Ombre rosse, di Quaderni Piacentini, ecc. Di recensioni non ne ebbi. Fu un testo da occupazioni, molto usato cioè durante le occupazioni studentesche e anche nei corsi abilitanti degli insegnanti. Ci furono una quantità di articoli ed articoletti in cui il libro veniva – ahimé! - presentato come segnale di una svolta: finalmente gli insegnanti sessantottini si rendono conto che bisogna ricominciare a bocciare gli studenti. Una reazione che mi aveva irritato parecchio e mi aveva fatto giurare che non avrei mai più riprovato a fare della satira di questo tipo. Ti confesso che io pure intesi all’incirca così quel messaggio. Coglievo la forma satirica, ma il corposo contenuto “reazionario” mi pareva che la “sfondasse” e s’imponesse. - - - - - Sì, molti l’hanno preso così. Io non riesco ancora a capire perché, nel senso che il tipo di argomentazioni di Orbilius è fortemente esagerato. Forse la maschera di Orbilius non era affatto esagerata sia per i docenti impermeabili al ’68 sia per quelli stanchi o delusi. L’identificazione “seria” era, malgrado le tue intenzioni, resa possibile dalla situazione di crisi. Io, stando nella scuola da “militante”, sentivo l’aria che tirava, la temevo e ero più sensibile soprattutto all’ideologia lì veicolata. E’ difficilissimo autoriconoscersi in una satira. Io ho sempre pensato che nella scuola ci fosse un eccesso di autostima e ci si desse troppa importanza. Era un residuo del passato, che forse oggi è stato riciclato in senso modernizzante. La satira è un tradizionale strumento di demistificazione, di abbassamento; specie questo tipo di satira, difficile da maneggiare, che è la caricatura, dove si esagerano le caratteristiche che si intendono criticare, sperando di mettere in rilievo contraddizioni e debolezze. Il difetto è che si tende a pensare che unici oggetti di satira siano gli altri. Non è facile vedere se stessi in coloro che sono messi alla berlina. Ti volevo proporre, in proposito, un aspetto più attuale. Anche oggi, più che la critica, sono diffusi lo sberleffo o la squalificazione più o meno sarcastica della figura dell’insegnante, del suo vittimismo, della sua scarsa professionalità, ecc. Umberto Galimberti è uno di questi fustigatori, lo chiamerei un martello degli insegnanti. Era un mio collega insegnante al liceo classico di Monza. Ah, sì? Mi racconterai allora. Ma vorrei sentire cosa pensi della mia ipotesi. Io credo che questa polemica contro i docenti tradizionali o massificati, comunque rimasti nella scuola, fiorisca soprattutto sotto la spinta dei mass media e magari di intellettuali ex-docenti, divenuti firme di successo. Anche nell’interpretazione “caricata” nel senso di un “ritorno all’ordine” del tuo Orbilius - - - - ci vedo soprattutto lo zampino interessato della cultura massmediale. Certo, gli insegnanti come al solito sono in una posizione difficile. Dovrebbero rappresentare il ceto intellettuale. In realtà ne rappresentano il gradino più basso. Hanno perso prestigio sociale, sono malpagati e estranei ancor più che in passato al circuito dei mass media. Di conseguenza si tende a scaricare su di loro gran parte delle colpe del cattivo funzionamento di una istituzione. Si è sempre detto: ah, se gli insegnanti lavorassero di più! Vanno in pensione troppo presto, hanno troppe ferie, lavorano soltanto poche ore, ecc. Ma la difesa della categoria non deve impedire di rendersi conto dei suoi difetti, soprattutto in termini di autocoscienza. Nel mio scrivere sugli insegnanti io avevo già allora questo doppio problema: tener conto delle esigenze che esprimevano, ma al contempo degli attacchi a cui venivano sottoposti. Il livello culturale è però davvero troppo basso. E proprio perché si preoccupano poco di questo livello culturale, dei problemi dell’insegnamento e accettano troppo i modelli proposti dall’istituzione, gli insegnanti si deintellettualizzano ancor più, diventano sempre meno critici e più portatori di verità già confezionate. E’ un circolo vizioso. Ora togliti la maschera di Orbilius. Il giudizio su Lettera ad una professoressa di don Milani, che è nella prefazione firmata da Oliva, è drasticamente negativo tanto da far pensare che l’autore di Lettera ad una studentessa, e non solo il suo personaggio, capovolgesse davvero la visione di don Milani. Ribadisci quel giudizio? Beh, dicevo che era un libro illeggibile, rozzo e manicheo, fondamentalmente non marxista, populista e arcaico. Ma erano esagerazioni polemiche e satiriche. Pur non condividendone l’ideologia di fondo, lo consideravo anch’io quel testo sconvolgente che era e riconoscevo che aveva avuto un effetto straordinario. Che il testo di un prete avesse il coraggio d’indicare il carattere di classe della - - - - selezione a scuola non era poco allora e poteva magari essere anche una premessa alla lettura dei Grundrisse di Marx. Su questo sono assolutamente d’accordo. Quella denuncia della scuola di classe fu di estrema efficacia. La mia polemica contro don Milani è, tutto sommato, semiseria. Insisto che quel mio testo non andava o va preso troppo sul serio. Bocciare o non bocciare? Questo è l’amletico dilemma su cui arrivano alla rottura Orbilius, ex sessantottino e professore democratico e la sua “sessantasettina” studentessa, che “è intelligente ma non studia” e pretende però di essere promossa senza troppe storie, magari con il “sei politico”. Ma la bocciatura non era forse l’ultima arma spuntata, una sorta di inutile vendetta di un professore calato di prestigio, nostalgico della gioventù perduta e costretto ad un amaro elogio della “scuola di merda”? Esattamente. Il tema era quello. La bocciatura era ed è una vendetta. E’ uno strumento della cui logicità e funzionalità didattica io, Carlo Oliva, non sono mai riuscito a convincermi. E ancor più oggi, dopo aver visto tutto lo svolgimento della crisi, tutto il passaggio dal tentativo di cambiare la scuola al suo fallimento e alla riproposizione della scuola tradizionale come sta andando avanti adesso. Non ho nulla in contrario contro la severità o il rigore degli studi, ma non riesco a capire come si concili la bocciatura con la severità o il rigore. Eppure la difesa della bocciatura è stata portata avanti dai vari Orbilius con estremo accanimento. Tant’è vero che tuttora credo che si bocci, e in questi giorni leggevo che ai nuovi esami di maturità ci sarà una percentuale diversa fra promossi e non promossi. E questo va bene a moltissimi, sembra di capire. Quindi Carlo Oliva è sicuramente contro Orbilius. Lo è sicuramente non solo su questo punto ma in tutto il libro. Sono polemiche ormai di vent’anni fa, ma Oliva vedeva in Orbilius uno sviluppo sbagliato di processi vissuti da lui e dai suoi compagni - - - - d’allora; di una tentazione sempre latente anche negli insegnanti coinvolti nei movimenti di rinnovamento della scuola. Essi sentivano la perdita del loro peso sociale e dello stesso ruolo dentro l’istituzione, la crisi del tipo di cultura in cui erano cresciuti (che era poi l’unica su cui fondavano il loro insegnamento) e potevano reagire con questi ritorni al passato scioccamente ammantati di argomenti vagamente progressisti. Ma gli Orbilius ottennero il sostegno di forze politiche potenti proprio perché rappresentavano il lato più oscuro e frenante degli insegnanti “sinceramente democratici” di allora. Sì, gli Orbilius, magari in versione meno tipizzata e ridicola, hanno vinto. Ma non parlerei né di lato oscuro né di cattiveria. La loro era una tentazione che andava capita. Ricordiamoci che gli insegnanti in tutto quel convulso periodo erano stati abbandonati a se stessi. Sia nel movimento degli studenti che in quello politico-generale, il problema del lavoro degli insegnanti (del loro ruolo, di come svolgerlo) se lo ponevano in pochissimi e non ci furono risposte risolutive. Io ero nella schiera dei criticati da Orbilius. Ero fra quelli che si “sprecarono” nel volantinaggio davanti alle fabbriche o nei quartieri periferici o nella “militanza complessiva” nei gruppi extraparlamentari. Ma mi chiedo perché dovevano essere gli studenti e non gli insegnanti stessi i protagonisti di un’eventuale riforma della scuola? Perché gli Orbilius democratici la riforma della scuola se l’aspettavano dalla contestazione degli studenti e non da una propria contestazione? Mi sembra un’obiezione giusta. In realtà gli studenti sono quelli che nella scuola ci stanno meno. Il movimento degli insegnanti in quegli anni non aveva una coscienza del suo ruolo e delle sue funzioni. Da un lato si pensava che bastasse andare dietro agli studenti. Dall’altro, visto che questo accodarsi non portava da nessuna parte per ciò che riguardava la scuola, si aveva un - - - - contraccolpo. Io cercai di illustrare questo momento di contraccolpo. E analizzando il tutto a distanza di tempo? E’ straordinario, a distanza di tempo, vedere quanto poco si sia ottenuto. A te non sembra? Io sfumerei il giudizio. In quell’inquietudine, in quel muoversi fra scuola fabbrica e quartiere, malgrado le astrattezze della militanza “complessiva”, vedo ancora la ricerca positiva di una risposta dei dominati a processi distruttivi profondi, che allora fecero cadere i muri delle istituzioni totali e ora hanno reso quelle zone – scuola compresa – del tutto porose alle esigenze di Das Kapital. Ci trovammo a vivere in un momento in cui la scuola come istituzione a sé, “chiusa”, non poteva più esistere, ma neppure esistevano i canali per un costruttivo collegamento con il “sociale” o il “territorio” (come allora si diceva). E allora si tentò di prepararli. Chi si spese in una sorta di andirivieni, cercando di fare bene sia l’insegnante nella scuola che il militante davanti ai cancelli di una fabbrica o in un gruppetto politico, perse; ma non operò invano. Ci furono eccessi semplificatori, ma la crisi esigeva che si agisse anche fuori dagli ambiti specifici (o che se ne tenesse gran conto), che si spezzassero steccati di privilegio e separatezze umilianti. E fino a che punto anche un’ipotesi di impegno riformistico specifico nella scuola trovava allora fondamento nella realtà? Se un maggior numero di insegnanti avesse concentrato le sue energie esclusivamente sulla scuola avremmo ottenuto di più? Adesso risponderei che non lo so. Anzi, vedendo i processi di lungo periodo, dovrei dire di no. Ma all’epoca era il tipo di scelta che auspicavo io. Allora pensavo che l’impegno specifico dovesse essere quello sul posto di lavoro, nell’istituzione in cui si era inseriti. Era la posizione anche della Torre Rossi, di Fortini. Io e la Torre Rossi, in effetti, andavamo molto d’accordo. Tant’è vero che Carlo Oliva, non Orbilius, era molto impegnato - - - nel sindacato. Certamente sembrava una scelta riduttiva e magari anche un po’ pedante rispetto alle proposte di cambiamento totale delle istituzioni che venivano proclamate dai gruppi politici. A distanza di tempo si deve ammettere che c’era un’astrattezza rivoluzionaria, ma anche un’astrattezza riformista. Mentre poi sia nella scuola che altrove ci sarà stato un lavoro positivo, che si è disperso. Certamente. Io però penso che il lavoro positivo che gli insegnanti hanno fatto nelle scuole è sempre stato un lavoro individuale. Ho l’impressione che sull’istituzione gli effetti non ci siano stati, anche se a volte ci si è provati. Ho in mente almeno due tentativi grossi: quello sindacale e quello istituzionale dei decreti delegati. Io mi sono impegnato in tutti e due, ma ammetto che non sono serviti. Un altro tentativo apprezzabile, che non si muoveva né sul piano sindacale né su quello strettamente istituzionale, fu in quegli anni (fra 1971 e ’77) l’esperienza de L’erba voglio; e tuttora la ricordo come una delle cose giuste fatte nell’ambito della scuola. Si voleva trovare una convalida dell’insegnamento non dall’esterno, ma attraverso la pratica stessa dell’insegnamento, rinunciando a certe strutture burocratiche e autoritarie. E servì molto ad innescare tutto il processo di liberalizzazione nella scuola poi frenata e istituzionalizzata attraverso il sindacato e i decreti delegati. Certo è stato un lavoro che non ha lasciato traccia. Via gli insegnanti, via gli studenti, nella scuola di quel lavoro non resta quasi niente. Ma se penso alla mia azione nella scuola, l’unica cosa che son contento di aver fatto è quel lavoro individuale con gli studenti. Come me, molti insegnanti, finché ce l’hanno fatta, lo hanno svolto con i loro studenti; “al di fuori” o “dentro” l’istituzione, ma in forme sotterranee, magari a prezzo di qualche accomodamento. E’ una forma di testimonianza quasi “artistica”, resa stando dentro una massa di colleghi che non ne vengono - - - scalfiti. E forse non è casuale che chi vi si impegna è poi spinto a fare la satira della categoria. Eppure questo ricorso alla satira per l’impossibilità di riuscire a coinvolgere o almeno a sbriciolare l’esercito degli Orbilius non ti pare un altro segno di sconfitta e magari un’autoconsolazione, un piccolo risarcimento? Sicuramente, Non siamo riusciti ad aprire brecce fra i nostri colleghi. Io adesso non seguo più come prima la situazione nella scuola, ma credo che molti dei problemi su cui ci arrabbattavamo 30-20 anni fa siano ancora lì, irrisolti. Non mi sembra che siano penetrati nella scuola strumenti didattici efficaci e nuovi. La bocciatura in sé resta ancora la sanzione di quel determinato sistema didattico. Per questo aveva un valore emblematico o era vissuta come tale. Gli insegnanti che facevano certe cose non bocciavano gli studenti. Sarà stato giusto o sbagliato? Per me era giusto. Ma si trattava comunque di scelte individuali senza effetto sulla struttura. E oggi? Con i discorsi correnti (scuolaazienda, preside-manager, aggiornamento “a tappe forzate”, ecc.) a me pare che i processi auspicati da Orbilius siano addirittura stati sopravanzati fino a cancellare anche qualche elemento positivo contenuto nel suo atteggiamento. Boh, non era molto il positivo che c’era nei vari Orbilius. Il preside-manager, ti confesso, non ho capito bene in che senso vada inteso e non mi pronuncio. Ma negli anni successivi all’uscita di questo libretto avevo elaborato una teoria. Secondo me una delle cose che teneva in piedi la scuola è fondamentalmente la finzione. La scuola La scuola è stata sempre un’istituzione burocratica, un’istituzione che finge cioè di fare molte cose: di trasmettere una cultura, di agire collettivamente, di discutere, d’imparare e d’insegnare. A me pare che la figura del preside-manager sia un’evoluzione peggiorativa, che va nel senso della finzione più totale. La scuola non sarà mai un’azienda. Non ha senso far finta di essere una realtà di quel tipo. Ma all’epoca non immaginavo sviluppi di - - - - - - questo genere. Il manager viene forse visto come una figura più moderna di quella del burocrate. Secondo me, si assumono senza mediazioni modelli vincenti di comportamento sociale e si ripropongono anche nella scuola, considerata “settore arretrato”. Qualche reazione però comincia a manifestarsi. Ti vorrei chiedere ad esempio, visto che hai dato uno sguardo a Chichibìo, cosa ne pensi? Nel primo numero c’è di tutto, ma l’esigenza di difendere e valorizzare la tradizione umanistica in sé è giusta. Dipende da come la si vede: se ci si riserva un margine di critica soprattutto rispetto alla sua idealizzazione passata o no. Il problema dell’umanesimo è che ha avuto, per così dire, troppo successo ed è stato per troppo tempo al centro dei processi di educazione tanto da perdere la sua funzione specifica e assumere quella di centro ideologico dell’istituzione. Bisogna riportarlo a quello che è. Ma anche Orbilius era un umanista... Ma era un umanista tradizionale. Cita i classici, Esiodo, Omero, Leopardi. Sono citazioni banali e a cui crede molto. E’ estremamente pomposo... E allora chi rappresenterebbe una tradizione umanistica positiva? Che domanda! E in un afoso pomeriggio d’estate poi! Insisto, perché ho varie perplessità su questo recupero dell’umanesimo, specie per la sua connotazione aristocratica e soprattutto per la versione scolasticoliceale, che poi tutti noi abbiamo subito. Ma anche combattuto! Certo nei licei degli anni ’50 si credeva molto nell’aristocraticità della cultura. Greco e latino dovevano essere materie selettive. Pochi potevano accedervi. Ma quest’elemento della tradizione umanistica spero non interessi più a nessuno. Nella scuola di massa, nella scuola di tutti, però, i valori umanistici cosa potrebbero fornire di importante a questi tutti, se quei valori esclusivi furono - - - - congegnati proprio per una élite? Questo è il mio cruccio... Ho capito. Ma vanno spogliati di questo aspetto aristocratico e offerti al godimento e alla fruizione di tutti. Lo sforzo è quello di mettere la gente nelle condizioni di leggere gli autori. E possono essere letti per arricchimento, per piacere. Io ho inteso sempre l’umanesimo in questo senso. Ma ci vorrebbe un altro tipo di scuola, un altro tempo-scuola a disposizione, altre condizioni di vita insomma. Non è facile, certo. Io ho sempre spiegato ai miei studenti di liceo che dovevano studiare greco e latino perché sono materie molto divertenti e che loro erano dei privilegiati che potevano divertirsi; e di non dar retta a quelli che dicevano che “servivano a qualcosa”. Non è vero. Non è vero che il latino insegni a ragionare. Il latino non serve assolutamente a niente e appunto per questo è molto divertente. Questo è un atteggiamento che si potrebbe usare per tutta la tradizione umanistica. E’ evidente che la scuola va rinnovata, che in essa non c’è spazio per tutto e che il ruolo passato delle Lettere con la maiuscola nell’insegnamento era esorbitante. Ma è anche evidente che bisognerà trovare per loro un nuovo spazio. Passiamo ad un punto del libretto, in cui si parla degli “insegnanti lavoratori” e degli “studenti borghesi”. E’ un paradosso, certo. Ma Orbilius accusa solo gli studenti di cedere ad ogni moda consumistica e si scaglia contro “quei troppi che, frequentando le scuole normali, indulgono, nel tempo libero, a lavoretti precari ed occasionali ai limiti del mercato del lavoro nero”, concludendo la filippica con un “Non si può servire due padroni: non si può essere studenti a mezzo servizio e lavoratori altrettanto a mezzo servizio( indebolendo così, badi bebe, la forza contrattuale del movimento organizzato dei lavoratori seri”. Vorrei approfondire questo passo. A me pareva e pare che gli insegnanti stessi cedevano e cedono alle sirene del consumismo. - - - - D’accordo. Ma il discorso voleva essere appunto paradossale ed esprimere una caratteristica tipica degli insegnanti di allora e forse anche d’oggi. Si tratta di una categoria profondamente vittimistica, che si lamenta di tutti; e anche degli studenti, perché sono giovani, non lavorano, sono privilegiati (specie quelli dei licei classici con cui io ho lavorato). Naturalmente gli insegnanti hanno un’immagine di se stessi e si considerano spesso dei dotti, degli intellettuali e quindi in un certo senso protetti dalla cultura di massa e dalle mode. E’ un’illusione, ovvio. Sono invece completamente speculari ai loro studenti. Ma l’introduzione di dosi massicce di cultura di massa sotto forma di audiovisivi, corsi di libera espressione, ecc. ha prodotto uno “sfondamento culturale” della scuola che fa problema. Orbilius se la sarebbe presa molto. Lui era attaccato ai modelli culturali che pareva dessero sostanza alla sua superiorità rispetto agli altri. Io, invece, credo che nella scuola ci debba essere posto per tutto e sono ancora dell’idea, espressa in un vecchio articolo, che non è male che gli insegnanti sappiano qualcosa di ciò di cui si occupano gli studenti. A me pare che la cultura di massa meriti interesse, non vada disprezzata e può servire anche come punto d’incontro. Disprezzare quello che interessa agli altri è sempre un atteggiamento sbagliato. Bisogna saper usare anche un po’ di trucchi del mestiere. Se, parlando con gli studenti, per fare un esempio di metro anapestico, gli citavo la Alabama song di Jim Morrison, loro ci restavano di stucco. Serviva, insomma, per stabilire un dialogo... e anche per darsi un po’ di arie. Quindi non vedi attrito fra cultura scolastica e cultura di massa? Non vedo tutto questo conflitto. Nel senso che sono tutte esperienze, modi di rapportarsi con il mondo. Dovrebbero avere spazio nella scuola. Ma non credo sia una cosa intelligente dividere la scuola in due settori: al mattino la scuola seria e al pomeriggio il divertimento. Tra l’altro non penso che i giovani abbiano bisogno che gli si organizzi il divertimento. Rock, - - - sport, cinema non si vede perché non possano essere trattati come argomento di studio. A volte però si obietta (obiezione anche mia) che, se giovani già così impregnati di cultura di massa occupano con quella stessa cultura spazio e tempo della scuola, non si fa che rafforzare l’uniformità della loro esperienza e magari il loro pregiudizio antiscolastico. Uno spazio e un tempo che potrebbero essere di decantazione critica vengono soffocati o sottomessi ad una cultura che già domina incontrastata dappertutto. Sì, è vero. La scuola dovrebbe sempre affrontare i problemi in maniera critica, e quindi insegnare a vedere oltre l’apparenza, a non accettare le mode, a non subire passivamente i prodotti della cultura di massa, ma a impararne il funzionamento, in un certo senso vaccinando e vaccinandosi. Ma queste sono osservazioni generiche tratte dal proprio lavoro individuale. Non saprei come trasformarle concretamente in proposte collettive e soprattutto in proposte istituzionali. Resta il fatto che ciascun insegnante deve riorganizzare il proprio mestiere tenendo conto che le materie in sé sono un modo già parecchio artificiale di ritagliare l’esperienza umana e che i confini devono essere aperti, in modo da permettere che certe cose possano facilmente uscire e altre entrare. Torniamo ancora alla contrapposizione insegnanti-studenti. Quando avevo letto Lettera ad una studentessa mi aveva colpito la somiglianza fra le tesi di Orbilius, che bacchetta gli studenti immessi già nel lavoro precario e la teoria di Asor Rosa, che proprio allora parlava di due società e contrapponeva un’etica del lavoro produttivo al rifiuto del lavoro, alle spinte edonistiche e qualunquistiche di strati ai margini del grande Movimento Operaio. Mentre, per contrasto, qualcuno – penso agli autori di un altro opuscoletto di quegli anni Uno strano movimento di strani studenti - si metteva dalla parte di quelle frange crescenti di studenti già macinati o risucchiati dal meccanismo, - - - - - - - che oggi è dilagato, del lavoro nero, interinale, flessibile, ecc. Gli studenti non erano più soltanto a tempo pieno e non erano neppure più i classici studentilavoratori delle serali o delle 150 ore. Oh, mamma, accostarmi ad Asor Rosa! Orbilius si rendeva troppo vagamente conto dell’inizio di questo fenomeno e reagiva in maniera dopotutto un po’ banale. Un po’ mi pento di aver scritto quelle cose. In effetti erano fenomeni che ho trascurato. Non ti chiedo autodafé. Voglio solo collegare il fenomeno al discorso che facevamo sull’umanesimo. Se, insomma, una buona parte degli studenti era ed è sicuramente dentro i meccanismi del lavoro precario, nero, interinale, ecc., mi viene da chiedere: come può uno studente del genere accedere al piacere della cultura umanistica? E perché uno che lavora non può accedere a questo tipo di cose? Forse perché non può disporre di tempo, studiare, impegnarsi? Beh, il lavoro in genere e il lavoro precario in particolare a me pare ancora un meccanismo stritolante, che aggiungendosi agli ingessati e irrigiditi curriculum scolastici poco si concilia col piacere ricavabile dall’umanesimo. Certo, lavoro nero o precario sono forme di sfruttamento che vanno combattute. Evidentemente non possiamo più combatterle con i metodi tradizionali che ritiene unico lavoro ammissibile quello cosiddetto garantito. Non sono un sociologo del lavoro, ma penso che si debbano trovare degli strumenti che permettano di collegare lavori flessibili di questo tipo con una difesa dei diritti. Ma fra i diritti che vanno difesi, c’è anche quello dell’istruzione e non di un’istruzione di serie B. Ma per il momento le figure”ibride” degli studenti sono tirate in direzioni opposte: da una parte il richiamo allo studio di colleghi alla Orbilius e dall’altra le offerte di guadagno che fanno gola o integrano reddito familiare. Per me resta un punto fermo che la scuola non debba espellere nessuno. - - Un’ultima curiosità. Se dovessi riscrivere oggi un libretto di satira sulla scuola, quale figura sceglieresti? M’interesserebbe molto occuparmi della realtà dei supposti presidi-manager, seguire questa contraddizione fra il modello aziendalistico ed una realtà tutto sommato non aziendale. Ci dovremmo pensare. * Carlo Oliva (56 anni) ha studiato lettere classiche e metodologia operativa con Silvio Ceccato. Dal '67 al '91 ha insegnato lettere nei licei di Milano e dintorni, gli ultimi dieci al celebre "Parini" (che – aggiunge - “non mi sembra meriti particolarmente questa celebrità”) e ha lasciato non troppo volentieri l'insegnamento per motivi di salute. Di problemi della scuola, degli studenti e degli insegnanti si è occupato a lungo, scrivendone, tra l'altro, su "Ombre rosse" e sui "Quaderni piacentini" (ma anche su "Linus"). Ha fatto parte di Lotta Continua e della CGIL scuola (e mentre – aggiunge ancora - “della prima esperienza non mi pento affatto, nonostante quello che Sofri scrive sulla guerra, della seconda un po' sì”). Negli anni '80 si è impegnato parecchio sul garantismo e, in genere, sui problemi della difesa nei processi politici. Adesso si occupa soprattutto di ideologia del linguaggio e di narrativa di genere (specialmente di libri gialli. Ha pubblicato molti saggi, traduzioni e qualche racconto. Collabora regolarmente a Radio popolare e ad "A - rivista anarchica". Colognom CASA DELLA CULTURA? CASA DEI GIOVANI? UNA PROPOSTA Lettera aperta dell’Associazione culturale Ipsilon3 3 Questa Lettera aperta era stata da me proposta al dibattito in Ipsilon attorno al 21 ottobre 1999 e fu A tutte le associazioni culturali di Cologno. Finalmente l’edificio che dovrebbe ospitare la tanto attesa Casa della cultura è pronto. Ma sarà davvero Casa della cultura, magari tradizionale ma ben caratterizzata? E si può essere soddisfatti del metodo con cui la si è pensata, progettata e messa in cantiere? I dubbi sono tanti. E li accresce la discutibile trasparenza, con cui l’Assessorato alla Cultura, assieme ad alcuni fidi (e ben pagati) esperti, coordinati – chissà perché – da uno psichiatra, il dott. Cirlà, ha preparato il progetto, che sta trapelando a bocconi e all’ultimo momento, quando cioè la disposizione degli spazi, le attrezzature e la gestione delle attività previste nell’edificio ristrutturato di via Milano “sembrano”già cosa fatta. Su tutta la questione i “si dice” e i “pare che” aumentano una confusione che poteva essere evitata e che va superata. La nostra associazione non è l’ultima cenerentola della situazione. Opera a Cologno da 10 anni e ha al suo attivo, quantomeno, una documentabile attività seminariale su temi di rilievo: lavoro, cultura di massa, immigrazione, storia contemporanea, scuola, trasformazioni della politica, rapporto metropoli-periferie, ecc. Come mai non è stata neppure consultata? Né pare che lo siano state le altre associazioni culturali di Cologno. Solo alcune di loro, infatti, alla fine della fase progettuale e non si sa con quale criterio selezionate, pare abbiano avuto un incontro in merito col sig. Colombo. L’Assessorato ha forse deciso di tenere alla larga le associazioni culturali non solo dalla fase progettuale, ma anche dalla gestione della casa della Cultura? e, al massimo, di concedere loro (o ad alcune di loro) una partecipazione gregaria? E, se nei loro confronti, l’Assessorato sembra sospettoso e avaro o discriminatorio, che dire del progetto ormai delineato o in via di applicazione? bocciata con varie motivazioni. In sostanza non si accettava (da parte della maggioranza, devo dire) il taglio di critica frontale all'A’sessorato alla Cultura. Ridimensionata a samizdat, penso che abbia ancora buone ragioni per circolare. A quanto si sa dai “si dice” e “pare che” di corridoio, esso prevede al piano terra una libreria, un bar-sala riunione, una sala multimediale con videogiochi e postazioni per Internet da far gestite ad una costituenda cooperativa. Il primo piano verrebbe rioccupato da Eta-Beta, l’ufficio comunale informagiovani; e il secondo andrebbe alle (o ad alcune?) associazioni culturali. Salta immediatamente all’occhio che, invece di una Casa della cultura pare venga fuori una sorta di Casa dei giovani, nella quale verranno ammucchiate disomogenee esigenze commerciali, di svago e intrattenimento giovanile, di associazionismo, di servizio pubblico settoriale. Il progetto ci pare criticabile per molti aspetti. Ad esempio: è appropriata la palazzina di via Milano per le diverse esigenze che vi dovrebbero convivere? quanto si conciliano gli spazi chiusi di una palazzina con alcune delle attività e l’afflusso del prevedibile pubblico? e i giovani (quali? in quanti?), abituati a scorazzare in spazi aperti, davvero hanno voglia di recludersi in mini-salette? e dov’è l’integrazione fra le funzioni della casa della cultura e quelle di altre istituzioni affini (scuola, biblioteca civica, ecc.) per evitare doppioni e sovrapposizioni)? e si è pensato davvero agli “altri”, quelli che isolati o in difficoltà si escludono o vengono esclusi dalla vita culturale? Si potrebbe continuare. Ma “quale cultura serve oggi a Cologno?” resta la domanda di fondo e prioritaria e la risposta praticata di fatto (e da tempo) e per vie burocratiche dall’Assessorato ci sembra preoccupante, anche se alla moda. Infatti una certa cultura - quella critica, fondata sulla ricerca, attenta a una mediazione non al ribasso con i bisogni sociali, che non si riduca a fare da cinghia di trasmissione alla cultura-merce (sia essa pessima o abilmente preconfezionata) – per assessore ed esperti va seppellita senza tante cerimonie o messa in qualche loculo (magari ai piani alti, insomma, o in soffitta, che è tutto dire!). Quella che va incoraggiata, sostenuta economicamente e politicamente, anche qui a Cologno, dovrebbe essere la cultura “giovanilistica” dell’intrattenimento, dello svago, dello snobismo di massa. Quindi alè con il videogiochismo o le ludoteche per giovanotti “barbari”, con i caffè letterari per periferici, con la Internet-mania! E’ “culturale” incentivare queste tendenze? A noi tutto ciò pare un’americanizzazione da provinciali che va contrastata. Come va contrastato il corollario economico ferreo che ne è alla base: siccome si deve spendere il meno possibile, appaltiamo ad una volenterosa cooperativa la gestione di una parte o dell’intera palazzina. E così si incentiva irresponsabilmente la solita gara fra imprenditori (più o meno) no profit e ricomincia la tombola della lottizzazione interpartitica per designare le “forze sane” che si sbraneranno nella costituenda cooperativa! E le associazioni culturali? Restino nel loro brodo o sgomitino per spartirsi l’ultima fettina della misera torta: il secondo piano della palazzina. (Per farne cosa, visto che molte di loro hanno già sedi proprie o concesse dal Comune e spesso inutilizzate?). La nostra associazione si appella a tutte le altre associazioni culturali di Cologno. Promuoviamo un confronto pubblico su quale idea di cultura debba oggi “abitare” nella palazzina ristrutturata di via Milano. Le nostre ipotesi, che vogliamo confrontare con tutti, sono queste: - Bisogna costruire una Casa della cultura (o meglio una Casa delle culture e – meglio ancora e senza spaventarsi del termine, per alcuni abusato o sospetto – una Libera Università) per difendere la cultura di ricerca, i saperi e i bisogni conoscitivi meno effimeri e le pratiche culturali più vivaci e originali, esistenti o possibili su questo territorio; - Bisogna respingere l’ipotesi di una Casa dei giovani, non per ostilità ai giovani ma al “giovanilismo”. (Perché i bisogni culturali dei giovani devono essere settorializzati o ghettizzati istituzionalmente?) - Bisogna che il progetto di attività per la Casa della cultura (o Casa delle culture o Libera università) sia integrato con le istituzioni culturali già esistenti sul territorio (scuole, biblioteca civica, ecc.). Nè deve trascurare – contrastando la - logica corporativa del “come stiamo bene fra noi che già ci capiamo e facciamo tante cose belle” –i bisogni culturali dei gruppi sociali o degli individui atomizzati più distanti o meno raggiunti dalle istituzioni. Il rinnovamento della vita culturale cittadina va pensato e praticato in tutti i pori istituzionali e sociali; Bisogna dire con chiarezza esemplare che l’economia è a sostegno del progetto culturale, evitando le ormai evidenti ambiguità delle imprese no profit o dei mezzi appalti: quindi o piena copertura economica del Comune della Casa della cultura (o Casa delle culture o Libera Università) o una limpida convenzione fra Comune e costituente delle associazioni culturali (o, in caso contrario – spartano ma inevitabile – l’autofinanziamento di chi ci sta a far crescere una libera cultura). Condomìni: off limits per la democrazia? Lettera aperta al sindaco di Cologno Monzese4 Gentile signor sindaco, le vogliamo raccontare un episodio, che interesserà di sicuro molti cittadini. Da diversi mesi nel nostro condominio sono in corso rilevanti lavori di ristrutturazione (facciata, tetto, sottotetto) per una spesa complessiva di £.750 milioni (Iva compresa). Una ristrutturazione così onerosa è stata deliberata in una frettolosa assemblea senza vagliare tutte le possibili offerte da parte delle aziende costruttrici e sottovalutando le prevedibili difficoltà economiche di una parte consistente dei condomini. 4 Anche questa seconda Lettera aperta è stata censurata e deve circolare in forma samizdat. Scritta su sollecitazione dello stesso sindaco, che avevamo incontrato come condomini, ne è stata rimandata per mesi la promessa pubblicazione su Qui Cologno e poi è stata cestinata, dichiarando che “c’erano gli estremi di diffamazione” contro un cittadino indicato per nome e cognome, senza accertarsi in alcun modo della consistenza civile e politica ( e non solo giuridica) della denuncia. C’era piena fiducia nel nostro amministratore, rag. Lo Verso, tra l’altro consigliere comunale di questa città. Nel corso dei lavori, abbiamo cominciato ad aprire gli occhi: Non tutto l’intonaco degli edifici era deteriorato, ma la spesa non veniva ritoccata a nostro favore; alcuni lavori, che parevano inclusi nel capitolato d’appalto, tra cui persino la massa a terra prevista da una normativa del 1995, non lo erano più, con conseguente aggravio della spesa; il rifacimento dei solai del sottotetto non rispettava più la pianta originaria e la sua registrazione catastale e attribuiva ad alcuni condomini – illecitamente, a nostro parere zone sia pur minime della parte comune, senza che nessuna assemblea l’avesse deliberato; il direttore dei lavori, nominato dall’amministratore, era completamente latitante dal cantiere o vi agiva per interposto fratello, geometra a servizio della ditta costruttrice, ecc. Abbiamo cominciato a chiedere con insistenza spiegazioni; innanzitutto al nostro amministratore, un professionista che paghiamo per fare i nostri interessi, come si dice. Apriti cielo! L’amministratore ci ha “concesso” con molto ritardo un’assemblea, ha fatto dichiarazioni fra l’intimidatorio e il paternalistico che non ha voluto verbalizzare; e ha tirato dritto per la sua strada senza curarsi delle nostre proteste. Ci siamo venuti a trovare stretti in una morsa. Da una parte, un direttore dei lavori latitante o che, messo alle strette, ricorre al gergo tecnicistico e copre in pieno l’operato per noi discutibile della ditta costruttrice. Dall’altra, un amministratore che gestisce in modo feudale e personalistico gli interessi dei condòmini, tenendone disinformati una parte su dettagli decisivi delle questioni e privilegiando i suoi “fedelissimi”. E, infine, da un’altra parte ancora, una minoranza di condòmini – i “fedelissimi” appunto - che si fa forza dell’essere maggioranza per millesimi e che vota compatta la fiducia all’amministratore, che volevamo destituire, senza ascoltare ragioni. Perché ci rivolgiamo a lei? L’esperienza ci dice che situazioni condominiali del genere sono diffuse in questa città più di quanto si pensi. Troppo spesso condòmini onesti devono soccombere: per stanchezza, per difficoltà di capire una legislazione complessa e piena di trabocchetti, per l’impossibilità di ricorrere ad un avvocato (che costa!) ad ogni irregolarità o sopruso dei piccoli Don Rodrigo locali e dei loro “bravi”. Noi chiediamo un autorevole intervento – suo, della Giunta o del Consiglio comunale - affinché almeno le regole democratiche vigenti per il consiglio comunale vengano fatte rispettare anche nell’amministrazione dei condomini. Come farlo? Se ne discuta apertamente e forse qualche rimedio verrà trovato. Firmato: Alcuni condòmini di Vicolo Adda 5/7: Abate, Di Cello, Ferretti, Nava, La Sala, Poloni, Traficante. CHE STORIA E’ QUESTA? Una recensione critica a Giuseppe Severi, COLOGNO MONZESE dalla sua storia le radici del 20005 L’articolo6 che segue rappresenta il secondo tentativo di un cittadino di farsi pubblicare un intervento d’interesse pubblico (credo) su Qui Cologno. Il primo, malgrado i solenni inviti rivolti anche tramite il giornale a segnalare i problemi della città, mi è stato, dopo varie contorsioni, di fatto censurato e alla fine cestinato senza vere spiegazioni. Riuscirà questo a rompere il muro dei diplomatismi e delle alchimie consiliari? Lo spero. Se no, che almeno i consiglieri comunali sappiano. Grazie Da ex-coordinatore del defunto gruppo di lavoro per una Storia metropolitana di Cologno Monzese vorrei, evitando ripicche o pettegolezzi, dire la mia opinione sul 6 L’articolo, distribuito in fotocopia ai consiglieri comunale durante la seduta del 29 maggio 2000, non è stato pubblicato su Qui Cologno . La “provocazione” è stata neutralizzata. Assieme alle verità (discutibili certo) in esso affermate. volumone di Giuseppe Severi, da poco edito a cura del Comune di Cologno Monzese. Pochi mi sembrano i pregi del libro e molti i limiti. E’ meritoria la pubblicazione di foto e dati su vari aspetti della vita cittadina anche recente. Ma è questa la storia locale che, a ‘900 concluso e in un mondo “globalizzato”, un’Amministrazione Comunale fa propria e propone ai suoi cittadini? E si può presentare come storia di una città una volenterosa raccolta di dati poco ragionati e soprattutto parziali o addirittura di parte, molti dei quali utilizzati già da Severi nella sua precedente sintesi del 1985? Certo lo si può fare ed è stato – ahimè! – “rifatto” con la compiacenza di chi conta, e supponendo con tracotanza che i lettori siano tutti di bocca buona o distratti. Ma una persona seria, anche se “affezionata” a Cologno, non può che sorridere o indignarsi di fronte all’eccesso di colognosità, anzi di parrocchialità di questo libro. Le foto e i dati selezionati da Severi sono, infatti, a stragrande maggioranza di parroci, cardinali in visita e autorità locali che tagliano nastri (onnipresente l’attuale sindaco). E lo stile dei commenti è da propaganda fidei. Si ha perciò la sgradevole impressione di trovarsi – come nei precedenti lavori di Severi - di fronte ad una storia parrocchiale di Cologno, frettolosamente ampliata e ggiornata agli ultimi anni. Che senso storico ha dedicare ancora ben 4 capitoli sugli 8 complessivi a vicende di questo territorio che non superano la soglia dell’Ottocento e che sono – da un’ottica culturale ampia e non da quella chiesastica dell’autore - quasi “insignificanti” rispetto a quelle che vi accaddero soprattutto nella seconda metà del ‘900? Nessuno. Il libro esibisce soltanto la discutibile attrazione per un idealizzato mondo paesano, parrocchiale-agricolonobiliare, di Severi, dei committenti del suo lavoro e dei destinatari privilegiati del volume: i “colognesi doc” appunto, gli unici che forse proveranno “una certa commozione” riconoscendosi in luoghi e personaggi trapassati. E non si deve essere immigrati o fanatici dell’attualità per ammettere che l’“ultimo scorcio di storia” di questa città non è affatto spiegato – se non per qualche aspetto planimetrico - dalle “origini lontane” o dalle “secolari vicende” di questo Comune (pag.11). Affermare il contrario vuol dire non capire cos’è stato lo sconvolgimento della rivoluzione industriale degli anni ‘50’70 (e di quella informatica in corso...), e non solo per questo territorio. Né bisogna essere degli “intellettualoni” per chiedere ad una storia locale di far ragionare e porre problemi ai lettori. Ma proprio i problemi sono sorvolati con ascetica rimozione da Severi o velati dall’ottimismo modernizzatore nella presentazione del sindaco, che pur dichiara la necessità di “capire chi siamo e dove vogliamo andare” (pag.13). La vera “origine”, il fenomeno fondativo di questa città, l’immigrazione, è ancora una volta sottovalutato, edulcorato o rimosso. Si continua a parlare, infatti, in modi giustificativi dell’attivismo equivoco delle varie Amministrazioni comunali e delle Parrocchie (pag.494), invece di seguire sul serio almeno le residue tracce del dramma “biblico” della moltitudine di immigrati lasciati, in ossequio del boom economico, allo sbando o nelle grinfie di caporali del lavoro nero, industrialotti, proprietari fondiari e speculatori immobiliari. Alle “coree” sono dedicati pochi righi e qualche foto (pag. 498); e sembra quasi che il “caos enorme” di quegli anni sia da attribuire agli immigrati (pag. 498) e non ai governi del tempo. Degli anni ’70 – gli unici che hanno visto una reazione organizzata e collettiva a quelle che Severi chiama eufemisticamente “le conseguenze dell’immigrazione” - si dice in modo neutro che furono “quelli della contestazione giovanile, degli scioperi e delle imponenti manifestazioni di piazza degli operai”. (pag. 479). Punto e basta. Si potrebbe continuare. Ma è meglio chiedersi prima se la funzione pubblica di un libro di storia locale può essere quella di far l’apologia delle parrocchie e dell’Amministrazione Comunale. Chi risponderà a questa scomoda domanda? Severi e i suoi sponsor o ammiratori sono così intenti a cercare radici paesane per Cologno Monzese che neppure la sentono. Se poi dovessero guardare senza veli i problemi causati dalle radici di plastica (o meglio di cemento e mattoni) di questa quasi città, gli verrebbe un colpo. Cologno Monzese 7 aprile 2000 Lettera aperta Cari amici di Società Democratica Antiliberista, agli amici si è affezionati o ci si abitua. Ma non ci si può affezionare o abituare ai vizi dell’ideologia. Perciò vi dico con schiettezza perché non condivido la vostra iniziativa, alla quale concedo un unico merito: quello di svelare a suo modo il disagio per il marcio insopportabile della Sinistra. E’ sempre bene, infatti, che nella Corporazione dei politici si spezzino anche moderatamente omertà e complicità, ma a patto di non portarsi appresso i vecchi vizi tipici della Corporazione. Vi elenco quelli che colgo leggendo il vostro documento di presentazione: - Primo vecchio vizio: Siete elettoralistici o ossessionati dalle elezioni. La crisi della sinistra è antica. Non vogliamo risalire al ‘68-’69. Sta bene. Neppure al compromesso storico. Sta bene. E neppure al 1989. Okay. Ma incentrare il discorso sugli ultimi risultati elettorali e sull’“astensionismo che aumenta” sembra davvero pochino. Non è un caso poi – a riprova – che Società democratica nasca, come il precedente Comitato di LiberAzione del 1994, solo all’indomani di sconfitte elettorali della Sinistra. L’unica vera molla del “risveglio” sembra essere quella delle elezioni. Il torpore, successivo ad esse, è per me garantito. Insomma, perché “rompere il muro del silenzio. Aprire bocca.. avviare un percorso fra diversi”, sempre e soltanto in queste occasioni e non per es. all’indomani o nel corso della ben più allarmante e scandalosa partecipazione dell’Italia alla guerra in Kosovo? Forse che allora il Liberismo non c’entrava? - Secondo vecchio vizio: Non riuscite a pensare le esperienze altrui, che oggi (ma anche in passato) stanno o sono andate oltre la Sinistra senza finire a Destra. Eppure alcuni di voi queste esperienze l’hanno attraversate, come si dice; e magari non se ne pentono, come sempre si usa dire. Perciò, vi aggrappate al discorso accomodante della Sinistra plurale e in essa ficcate – senza il consenso dei diretti interessati - di tutto, e cioè posizioni in teoria e in pratica inconciliabili fra loro:“I DS, in quanto partito maggiore,...quelli di Rifondazione, o del Manifesto, di Cossutta o di Derive e Approdi, aggiungendovi – quasi a completare un idealistico ecumenismo di sinistra - i Verdi e “quei socialisti” che ritenete buoni perché non craxiani ( oggi!). - Terzo vecchio vizio: Temete di passare per utopisti o estremisti in ossequio al dogma del moderatismo togliattiano o cattolico (per cui la Rivoluzione o Dio basta averli nel cuore). Volete che la società sia più democratica, perché questa d’adesso sarebbe poco democratica. Ma il Liberismo è democratico o no? E l’Antiliberismo (in compagnia del Papa poi, che è – lo dimenticate? - un monarca assoluto) dovrebbe correggere o oltrepassare il Liberismo attualmente imperante? Nel primo caso si avrebbe alternanza fra Liberisti fanatici (Berlusconi e Liberisti illuminati (Veltroni). E non sarebbe un grosso guadagno, a mio avviso. Nel secondo caso, che società auspicate? Non osate più pensare ad una società altra da questa (la parola comunismo non fa più parte del lessico familiare della Sinistra e mal si tollera che ci sia ancora un “partito della Rifondazione”, con sintomatica rimozione ,quando lo si indica, dell’aggettivo comunista). Sarebbe – dite - “una società disegnata o progettata a tavolino”. E sta bene. Preferite una sorta di società quotidiana, “costruita nel confronto e nel conflitto dai diversi attori sociali”? Ora , scusate, non è quella che già abbiamo e che appunto perché quotidiana, a-ideologica ,pluralista (tranne – di solito - per disoccupati e immigrati... I gay si salvano forse in extremis!) permette solo ai forti di comandare, anche senza “aprire bocca”? - Quarto vecchio vizio: Spennate gli uccelli e poi pretendete che volino Fuor di metafora: volete “Rompere il muro del silenzio. Aprire bocca.. avviare un percorso fra diversi, allestire un laboratorio culturale e politico al servizio della città”. Ma questo laboratorio c’era, da dieci anni. Si chiamava Ipsilon. Alcuni degli attuali promotori di Società Democratica o non si sono mai visti a discutere in quel laboratorio, che pur ha affrontato temi non banali e “abbastanza di sinistra” o l’hanno boicottato o hanno fatto in modo che rimanesse all’ombra delle istituzioni comunali (Biblioteca Civica in primis). Perché erano politici loro! E non potevano perdere tempo con “quattro intellettuali”. Ora. invece, un tocco intellettuale (solo un tocco - per carità! - “la Società non è un Centro Studi”!) va bene. E perché mai? Perché la presenza in Società Democratica di vari consiglieri comunali garantisce contro l’intellettualismo estremo. E, infatti, il laboratorio si dichiara antiliberista (ma con l’accortezza di far sapere che “essere antiliberista non è un modo di andare contro questa o quella persona”, ma al massimo contro “un’idea pubblica, una cultura per proprietari ricchissimi”), alla parola società si è appiccicato l’aggettivo tranquillizzante democratica; e, soprattutto, si è ben sottolineato che “La Società vuole competere con i partiti della sinistra, ma in modo positivo”. Così, fugato ogni residuo di critica indipendente che possa turbare il buon senso degli elettori “di Sinistra”, si alzano le vele. Buon viaggio, comunque. Stocolognom 10 anni di IPSILON7 o dovuti a imbarazzo per le cose sincere che ho detto. Resta il problema: inefficacia di tale sincerità. Viene “incassata”, ma non 7 L’associazione Culturale IPSILON fu costituita nel... del 1989. I soci fondatori furono: produce dialogo (dialettica). Il “provocatore” viene neutralizzato. Era l’unica forma d’impegno comune nella vita di questa città a cui mi sentivo di partecipare, il luogo in cui gli eventi “grossi” pareva potessero trovare una risonanza, un’eco non necessariamente individuale. Poteva essere un laboratorio critico, un filtro selettivo verso gli spunti culturali, che mi parevano più promettenti, da afferrare per mezzo di letture e di contatti extra-locali (a Milano, a Siena, ecc.) e una spugna capace di assorbire bisogni, sofferenza e tensioni al conflitto dell’oscuro magma sociale che chiamiamo vicinato, gente, abitanti di Cologno, cittadini. Nel... del 1989 Aprimmo a caso il vocabolario e scegliemmo per l’associazione culturale che stavamo fondando il nome della ventesima lettera dell’alfabeto greco, Ipsilon. Eravamo un gruppo eterogeneo e lo siamo rimasti fino alla fine... Vi confluiva l’esperienza di Laboratorio Samizdat, tentativo di non far morire nello sfascio degli anni ’80 le forme di pensiero critico presenti nella ex-nuova Sinistra, ma anche lo scontento di militanti dell’ancora esistente PCI8 sottoposti alla “cura Occhetto” e interessi meno 8 Se Laboratorio Samizdat può essere considerato il precedente con radici nell’esperienza da Nuova sinistra (a Cologno rappresentata dal Gruppo Operai e Studenti e poi dalla sezione di Avanguardia Operaia), Il gomitolo rosso va indicato come precedente con radici nella Sinistra storica (più precisamente nel PCI berlingueriano del compromesso storico). dichiaratamente politici, più nettamente “culturali”.. La figura di Fortini, non a caso scelto per tenere a battesimo l’Associazione, sintetizzava bene l’intenzione allora ancora presente di tenere assieme Politica e Cultura, secondo l’esempio della generazione intellettuale resistenziale. Ma Politica e Cultura erano proprio in quel decennio sottoposte al grande processo distruttore che non solo le separava formalmente ( cosa avvenuta da tempo...) ma le specializzava in senso sempre più élitario. (Quando in Ipsilon parlavamo di Politica e di Cultura spesso non ci intendevamo proprio perché ciascuno aveva vissuto o vedeva operante attorno a sé pezzi di quel processo disgregativo e c’era tutto un gioco di nostalgia, di volontà reattiva, di approssimative distinzioni dalle forme della Politica e della Cultura ufficiali. Con una grossa difficoltà di stabilire il confine fra il condiviso e il respinto o il desiderabile e l’indesiderabile...). Se la tematica, comunque in disgregazione della Sinistra ancora “comunista” ci teneva insieme con l’intento di un confronto a varie voci e interessi culturali definiti – specie in letteratura -... lo stesso non poteva dirsi per la psicoanalisi o per la sociologia o la storia. .Difficile era intendersi anche sulla definizione di intellelttuali di massa periferici.... ( Ipsilon se fosse misurata esclusivamente per l’incidenza avuta a Cologno, sarebbe un’esperienza fallimentare. Non è riuscita quasi mai a realizzare le spinte più o meno presenti fra i suoi partecipanti... La sua importanza va vista proprio nel suo lavoro rimasto sotterraneo e marginale: ciascuno dei partecipanti ha potuto “usare” i contenuti emersi dal dibattito nei suoi ambiti professional, politici culturali.... Certo è discutibile.. Ipsilon non ha mai avuto poi una sua identità precisa, al di là delle semplificatorie definizione degli avversari ( (“gli intellettuali” di Ipsilon)... ed è rimasta appunto un’incognita in tutto il suo percorso.. Le spinte in essa presenti hanno convissuto problematicamente ma non si sono amalgamate in una forma nuova. Qui si può parlare di fallimento o di difficoltà insormontabile che alla fine – divenuto sterile il tirammolla fra di esse – ha fatto preferire la separazione delle tre componenti... ( Società democratica, Samizdat Colognom, ....) Oggi, a ragion veduta, si può dire che c’è stata corrispondenza fra quel simbolo, che nel linguaggio matematico indica una variabile o un’incognita, e l’attività “inconcludente” di Ipsilon. potuto fare a meno – come si dice – di tenere l’incognito.10 Tutta l’attività culturale si è svolta all’insegna della Crisi. Ipsilon è stata esperienza continuamente in crisi e fin dagli inizi, come provano i numerosi documenti interni, che scandiscono quasi annualmente il disagio individuale dei partecipanti , Mentre la spinta coesiva rimane meno documentata. La continuità delle attività ne prova l’esistenza, ma essa non è mai veramente forte e col tempo è sempre più surrogata da chi, nolente o volente, si adatta ad indossare l’ambiguo abito del leaderfacchino (Lo dimostra la sempre faticosa stesura del programma delle attività annuali) visto che gli altri si rintanano nel ruolo degli ascoltatori distratti o...... Ma cosa significa, più precisamente, che Ipsilon è stata un’associazione dovuta alla Crisi e che l’ha vissuta senza poterla oltrepassare? L’intrico decennale di seminari cenacolari, iniziative semi-pubbliche, fugaci tentativi editoriali (i due numeri di SpiegAzioni), prese di posizioni politiche (Comitato di LiberAzione, tavola rotonda in occasione delle amministrative), rare incursioni nel sociale (nuova immigrazione), collaborazioni faticose col Comune o la Biblioteca civica (il libretto su Fortini, il gruppo sulla Storia di Cologno) dimostra appunto che Ipsilon è stata un’incognita9 e ha voluto o non ha La Crisi è stata innanzitutto crisi della cultura di Sinistra (o delle Sinistre, come più di recente la si è chiamata). L’incognita in questo caso si è presentata sotto forma di scelta possibile fra varie opzioni:: un’associazione culturale in una quasicittà della periferia milanese deve stare a sinistra, deve oltrepassare la Sinistra (evitando contemporaneamente la cultura dichiaratamente di destra) o deve sfuggire questo dilemma muovendosi nell’impolitico (“Noi 9 10 Dallo Zingarelli: incògnita “Evento, fatto o situazione che può avere esito e svolgimento diversi, non sempre prevedibili”. Sempre dallo Zingarelli: incognito “Condizione o stato di chi tace e vuole mantenere nascosta la propria reale identità”. siamo un’associazione culturale, non un partito”)? Le varie opzioni, diverse o contrastanti: pidiessine, rifondatrici, esodiste, impolitiche sono aleggiate in Ipsilon ma sono state tenute più o meno in sordina o praticate episodicamente e individualmente dai partecipanti dell’Associazione in alcuni momenti di crisi acuta ( il volantone dopo l’elezione di Milan, il convegno della Biblioteca Civica sulla lettura...,...). Hanno fatto sentire comunque il loro peso decisivo. Rispetto ai suoi inizi (caratterizzati ancora da una domanda esplicita almeno da parte di alcuni sulla crisi del marxismo e da una volontà di critica della cultura di massa), Ipsilon, col passar degli anni, ha lasciato quasi cadere ogni discorso sul comunismo e si è “accucciata” nei discorsi più correnti sulla crisi della Sinistra, rimanendo paralizzata. [La crisi l’ha vissuta innanzitutto dentro di sé. Non ne ha fatto un oggetto esterno di riflessione o di teoria.] Le ipotesi politiche sono però diventate pubbliche in alcune occasioni. Sono state quelle “ad ampio raggio”, “pluraliste” rivolte a “tutta la Sinistra” – ad es. Comitato di liberAzione, Tavola rotonda alle ultime amministrative del 1999 – ma sempre tallonate o diffidate dalle altre posizioni presenti in Ipsilon. Sono fallite o non hanno spostato granché nei giochi politici locali condotti su binari partitici rodati perché Ipslion non era compatta nel sostenerle? Può darsi. Quelle “teorizzate” – ad es. inizialmente la Rifondazione o poi l’Esodo o, più di recente, quella del No profit e del pacifismo – non hanno mai convinto la maggioranza degli associati e hanno dovuto cercare altre formetutte individuali - d’espressione: l’impegno in Punto rosso di Milano; i samizdat solitari, la militanza nel Comitato pace o alla rete del Commercio equo-solidale. Si è dimostrato che nessuna delle varie componenti ha avuto la forza di trascinare davvero le altre sulla sua ipotesi... Forse è anche questo uno dei motivi della convivenza prolungata malgrado l’evidenza fi ndagli inizi delle differenze... Anche alcune delle ipotesi più “culturali” affacciatesi in Ipsilon – la più organica, specie all’inizio, era quella sull’ecologia della lettura; l’altra, più tardi, è stata quella di collegare l’azione dell’Associazione ai bisogni di aggiornamento culturale della scuola (elementare in particolare) - hanno fatto in Ipsilon rapide soste. E non a caso: avevano infatti strutture istituzionali economicamente più solide su cui marciare (Sistema bibliotecario, Scuola) e Ipsilon avrebbe dovuto assecondare le impostazioni programmatiche di Assessorati o Provveditorato, “aggiustandole” o “abbellendole” o “riqualificandole” – come si dice – dall’interno ( cioè entro le regole da altri stabilite). Altre dovevano per forza di cose ( a causa dell’ostinato rifiuto di autofinanziarsi o di ricorrere a qualche campagna di tesseramento) muoversi entro forme “povere” (mostre, tentativi di valorizzazione la scrittura clandestina, Narrare la periferia) o “tradizionali” (la storia sociale di Cologno). Anche i tentativi di stabilire collegamenti (da valutare caso per caso) con associazioni fuori da Cologno (collaborazioni con il Centro studi F. Fortini di Siena, Libreria Tikkun di Milano, incontri con riviste come Manocomete o Inoltre) o di - sono rimaste sulla carta o troppo collaterali. Quel che ha veramente funzionato è stato una sorta di lavoro culturale casalingo, svolto tutto all’interno di Ipsilon. C’è stato un lavoro seminariale, cioè un momento di confronto di opinioni, “teorico”, abbastanza “disimpegnato” e senza riflessi sul “resto” (la professione, le altre cerchie di attività degli associati, la sfera pubblica cittadina, ecc.). organizzato in modi sufficientemente “gratificanti” per i relatori che si alternavano nel trattare un tema legato al proprio gusto o interesse politico o culturale. In questi seminari, i cui argomenti spesso pur sono stati scelti sotto il condizionamento dei flussi massmediali, Ipsilon ha funzionato positivamente da laboratorio critico. Si è avuto un confronto fra un ristretto gruppo di amici sulle letture personali preferite, funzionando da circolo di lettura o quasi da piccola università popolare di periferia. Quest’attività amicale e “salottiera” ha, specie di questi tempi e a Cologno, un valore positivo ma ambiguo. Ha finito per subire o accettare come inevitabile una forma di comunicazione ristretta e ha portato ad un rifiuto (mai veramente dichiarato) o a tentativi poco convinti non solo di allargare la comunicazione su quegli stessi temi agli altri (pubblico, cittadini, ignoti) ma ad affrontare un aut-aut non eludibile: se si vogliono raggiungere gli altri e si sa quanto complesso e insidioso è il meccanismo massmediale che condiziona la mente e il cuore di tutti, bisogna puntare ad un'autonomia o rassegnarsi alla dipendenza paraclientelare rispetto alle Istituzioni che controllano la vita culturale( dalle Università, ai giornali, alla Tv, giù giù, fino agli Assessorati, che fanno da terminali periferici della Macchina che producedistribuisce Cultura e seleziona consumatori di Cultura)? Ma l’attività seminariale di Ipsilon avrebbe potuto per un certo periodo restringersi a una minoranza di amici e poi uscire dalla forma cenacolare investendo l’ignota realtà cultural-politica della città in cui si svolgeva. Invece essa è rimasta a mezz’aria. Poteva in fin dei conti essere fatta a Cologno come a Canicattì. Prescindeva cioè dalla realtà locale, anche se veniva prodotta da chi qui abitava o svolgeva funzioni professionali. Ne conseguiva uno stile di lavoro, una vera abitudine a ritrarsi o a distrarsi dalla poco attraente realtà politico-culturale cittadina. Alcuni degli associati già se ne occupavano professionalmente e la vedevano con disincanto. Per altri il fatto di abitare a Cologno non comportava automaticamente radicamento attivo e volontà d’intervento critico per ottenere la soddisfazione di certi bisogni elementari in loco. La moda del nomadismo culturale è stata dunque fortissima e ha spinto a distanziarsi o a diffidare delle manifestazioni culturali veramente esistenti nella città, che hanno continuato e continuano a svolgersi ad un bassissimo livello (a cui le Istituzioni ben s’adattano). L’assenza di vero pubblico dalle iniziative di Ipsilon dipendeva, dunque, sia dalla struttura seminariale e amicale che l’attività aveva finito per assumere e stabilizzare (con opportune rimozioni sul piano economico e organizzativo) sia dall’assenza di una conoscenza ( o inchiesta) su quale cultura circola effettivamente fra i 40-50mila abitanti di Cologno monzese. Un pubblico reale più largo è rimasto perciò sempre irraggiungibile da Ipsilon, perché la forma di laboratorio critico è restata amicale. Un rapporto con un pubblico reale non ha mai interessato gli associati, perché cercare di stabilirlo avrebbe dissolto il clima disimpegnato che caratterizzava la sua ricerca. Il materiale critico emerso nei seminari ha morso di rado le attività cultural-politiche istituzionali o paraistituzionali, con le quali gli associati tendevano a coesiste (magari snobbando o disinteressandosene). Il fatto che anche le iniziative istituzionali avessero scarso seguito o mobilitassero un pubblico reale comunque minoritario è una magra consolazione. Voleva dire che Ipsilon ne seguiva la deriva corporativa, anche se a modo suo ( sbuffando o mugugnando a bassa voce). La vera sfida alla miopia cultural-politica delle istituzioni e allo “snobismo” di Ipsilon sarebbe stata quella di rimettersi a fare inchiesta (con tutti i mezzi di cui si disponeva: scientifici, letterari, artistici) su COLOGNO per costruire una precisa identità culturale locale, cioè non localistica, non amicale, aperta ad altri contributi extra-cittadini. Un tentativo che a questo mirava (il gruppo di storia locale) fu interrotto per l’indifferenza non solo dell’Assessorato, ma anche degli associati di Ipsilon, malgrado il progetto iniziale portasse la firma dell’Associazione. Rinunciando ad un pubblico da animare e da cui essere rianimati, limitandosi a svolgere per una decina di persone la funzione di laboratorio di critica sul materiale che arriva dai vari centri o agenzie culturali strutturate (case editrici, giornali, ecc.), si diventava al massimo consumatori terminali appena più critici di altri. Anche a volersi affacciare ad Internet, non si sarebbe proposta una realtà locale (prorio perché in gran parte ignorata e non indagata), ma al massimo la rielaborazione interna all’Associazione di temi o nostre eventuali ricerche individuali.. Quel poco di comune che si era costruito fra gli associati, il risultato del lavoro di lettori critici, rimaneva poi poco formalizzato (Anche la proposta dei quaderni di Ipsilon stentò a decollare). *** Inoltre siamo rimasti privi di buoni collegamenti che arricchissero e stimolassero la nostra attività. Rischiamo perciò di accontentarci di una funzione divulgativa-pedagogica svolta fra di noi. E anche se la rivolgessimo alla popolazione locale o a settori di essa, il fatto che non sia misurata o controllata anche da occhi e menti diversi dai nostri la renderebbe asfittica. Abbiamo varie volte ipotizzato vagamente vari possibili collegamenti: collegare Ipsilon a Internet (costruire sito di Ipsilon); collegare Ipsilon ad altri circoli culturali almeno dell’area metropolitana. Se praticati, questi legami ci darebbero visibilità e c ridurrebbero il rischio di accartocciamento nel localismo. Ma finora poco è stato fatto anche in questa direzione. Ora, secondo me, la trascuratezza verso la nostra immagine pubblica si spiega con l’insicurezza su quello che abbiamo fatto politicamente e culturalmente in questo decennio. Dubitiamo che il nostro lavoro regga il confronto con altre posizioni più agguerrite? Siamo sfiduciati sulla possibilità di aver seguito a livello locale e territoriale? Siamo frenati da legami e aspettative verso altre istituzioni già più visibili e più potenti economicamente e politicamente? Non lo so. So che non operiamo neppure cooperativamente, come vera associazione;ma, all’interno del contenitore formale e poco curato di Ipsilon, ciascuno per conto suo, sulle cose che contano per lui/lei. Operiamo assieme solo nel momento, che diventa allora compensativo o dopolavoristico, della comunicazione seminariale. Ciascuno non fa da sponda al lavoro o alla ricerca dell’altro, anche perché di quel lavoro e di quella ricerca in Ipsilon non si parla (I tentativi fatti agli inizi di far confluire in Ipsilon le proprie produzioni “private” o degli amici non ebbero seguito). Così il lavoro che dovrebbe essere in comune prescinde dalle individualità e rischia il doverismo. Così non può durare. Questa è la mia opinione. Sul che fare che nasce da tali considerazioni, preferisco parlare a voce. Nel gruppo confluiva tutta la ricerca elaborata da Luca Ferrieri. Emergevano anche obiezioni (politiche? didattiche? Comuniste?) alla sua impostazione prevalentemente anarchica e barthesiana Estate 1991 *Ipsilon. Bozza documento. di Ennio Abate No ad un’associazione maschera di partiti politici. No alla rimozione della critica della Parlavo di esodo già nel ‘91 ALCUNE RIFLESSIONI DI CARATTERE POLITICO CULTURALE di Riccardo Messineo Spinta collaterale di Ipsilon? 11 marzo 92 Si ammette che c’è una rimozione del “minimo organizzativo vitale” per un’associazione culturale. 92 :scelta invece della paralisi) di un gemellaggio Ipsilon-Punto Rosso. Malgrado la chiarezza della diagnosi si continuava a restare assieme.....Separarsi per sviluppare le varie esigenze (politica, ecologia, psicoanalisi, convivialità, programma) portate in Ipsilon, ma paralizzatesi o troppo diplomaticamente conviventi. Cronaca e documenti11 dibattito di IPSILON] del 30 maggio1989 Inaugurazione delle attività di Ipsilon con la partecipazione di Franco Fortini. 11 I documenti di seguito citati non sono tutti riassunti. Quelli inediti ma circolati in modi informali all’interno di Ipsilon sono contrassegnati con *. Quelli collaterali con ** Introduzione di Ennio Abate Le radici di Ipsilon vengono indicate nell’esperienza dell’immigrazione e dell’acculturazione di massa. Si propongono 5 seminari: ecologia della lettura, emarginazione, trasformazioni del lavoro, marxismo in crisi, memoria storica. Fortini viene scelto come maestro: per la sua attenzione sempre critica all’“antica Causa” del Comunismo e la sua elaborazione su una parte dei temi affrontati nei seminari (in particolare per aver fornito sul problema degli intellettuali due immagini illuminanti della generazione post-sessantottina: i “fratelli amorevoli” e gli intellettuali di massa ( e periferici). CONTRO LO SNOBISMO DI MASSA Intervento orale di Franco Fortini (poi trascritto e riveduto dall’autore, in Laboratorio Samizdat, n.7, novembre 1989) Iniziative 1989-1990 - Sull’ecologia della lettura (Interventi di L. Ferrieri, F. Fortini, G. Majorino) - Emarginazione (Interventi di don Colmegna e F. Rotelli) - Il marxismo in crisi (Intervento di C. Preve) 21 giugno 1989 - Chi è il lettore? S’identifica col cittadino? *Una riunione del Gruppo lettura. Introduzione di Luca Ferrieri. Temi trattati: Fenomenologia della lettura. Motivazioni, modalità, rapporto col testo, lettura e immagini (diversa modalità delle due fruizioni), contenuti della lettura, generi di lettura, rapporto fra lettura solitaria e lettura in pubblico, clandestinità dell’iniziazione alla lettura, libro oggetto e libro come prodotto editoriale, uso feticistico del libro, collezionismo librario, paratesto (Genette): predominanza di recensioni, etc. Rispetto al testo, industria culturale, ansia d’aggiornamento, pratica della rilettura, il tempo come fattore influenzante della lettura. Problemi: - Difficoltà di lettura e di comprensione da parte di una larga fascia di lettori di massa; - Puntare (sì/no?) ad una pedagogia politica della lettura; - Che uso si fa di quel che si legge nella pratica sociale (conversazioni, ecc.). Che azione produce la lettura; - Quali suggerimenti dare per cambiare l’attuale pratica di lettura; - Esiste un’etica della lettura? - Ognuno vota come gli pare, ognuno legge come gli pare? - Pro o contro la lettura “d’evasione” (Libri d’Harmony)? Obiezione: “perché alcuni devono spaziare dalla lettura di Kant a quella dei romanzi di Harmony ed altri devono essere confinati solo alla lettura di Harmony?” - Dobbiamo o no parlare dei/per i lettori assenti (del terzo mondo della lettura)? - Lettura come autodifesa dall’industria culturale - Proibire alcuni tipi di letture? - Leggere ad ogni costo? (“Se non leggi proprio niente, allora leggiti almeno questo!”) Ecologia politica della lettura, ecologia domestica della lettura. 22 giugno 1989 *Una riunione del Gruppo emarginazione. 30 luglio 1989 *Una riunione del Gruppo lettura 26 settembre 1989 Una riunione sull’ecologia della cultura 28 novembre 1989 Una richiesta all’assessorato Cultura e sport per usufruire della Sala riunioni di via Milano 3. 12 dicembre 1990 [?] Presentazione con gli autori di LAVORARE IN FIAT DI Marco Revelli e di OPERAI di Gad Lerner Introduzione scritta di Ennio Abate. Lettura recitata di brani dei due libri. 25 marzo 1991? Cleared by Ipsilon Parole immagini e musiche contro la guerra. Voci recitanti: U. Tabarelli e D. Torcoli Liuto e chitarra: C. Tumeo Soprano: S. De Tuglie Immagini: G. Maggioni, R. Fabbri 22 maggio 1991 Riunione Sulla pace. Contest Introduzione di Mina De Tuglie su RIFLESSIONI A DUE SULLA SORTE DEL MONDO. Carteggio Freud-Einstein. Estate 1991 *Ipsilon. Bozza documento. di Ennio Abate No ad un’associazione maschera di partiti politici. No alla rimozione della critica della politica fatta dal movimento del ’68. No alla subordinazione della cultura alla politica, ma anche al “partito dell’industria culturale”. Problema della secessione e dell’esodo (Cfr. rivista Luogo Comune). Al ghetto non ci si strappa mediante una dialettica più accorta col Potere (“Il rapporto con le istituzioni esistenti logora chi investe in esse tutto quel che possiede”). Non cedere al localismo (gestione cilentelare della marginalità culturale paraistituzionale). Una buona associazione deve svolgere “una critica della politica, del localismo, del culturalismo e del settorialismo profesionalizzante”. Ipsilon non deve diventare “totalizzante, doveristica, antiecologica”, ma non può ridursi a “spazio di dibattito intelligente su temi intelligenti”. Inevitabile oscillazione fra una concezione “neopartitica” di Ipsilon ed una come “agenzia di servizio”. Anche per Ipsilon deve valere il principio marxiano che dice “il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”. Ipsilon deve far fronte al crollo della cultura di sinistra italiana e non farsi seppellire da esso. Settembre 1991 TRACCIA/QUESTIONARIO PER UNA DISCUSSIONE SU URSS E DINTORNI. APPUNTI PER SULL’URSS di Marcello Guerra? LA ? **RIFLESSIONI SULL’ESPERIENZA DEL CORSO DI ITALIANO PER STRANIERI di Roberto Fabbri ? ? ALCUNE RIFLESSIONI DI CARATTERE POLITICO CULTURALE di Riccardo Messineo Spinta collaterale di Ipsilon? 14 novembre 1992? IMMAGINI E POESIE PER LA PALESTINA Letture poetiche, diapositive e commenti in collaborazione con l’Associazione per la pace di Milano 11 marzo 1992 *RIUNIONE LIBERAMENTE VERBALIZZATA di Luca Ferrieri Gestione delle differenze interne (culturale/politico; individuale/collettivo; interno/esterno) a Ipsilon. Messa a fuoco del concetto di ecologia della cultura di massa-laboratorio di cultura critica. Ipsilon come “strumento di battaglia e di servizio verso la città”? Si ammette che c’è una rimozione del “minimo organizzativo vitale” per un’associazione culturale. 11 marzo 1992 *PROMEMORIA PER LA DISCUSSIONE di Marcello Guerra? Esigenza di “un po’ di organizzazione”. Fornire “un servizio”. Capire “quanto tempo di noi può assorbire”. Dubbi sugli scopi di Ipsilon: “trappola per ingenui”? “mettere insieme la sinistra orfana o sbandata”? Ipsilon deve essere un’organizzazione di lotta politica? DISCUSSIONE **30 ottobre 1991 ? PER UN “COORDINAMENTO MULTIETNICO” A COLOGNO MONZESE. Lettera aperta ai cittadini, alle associazioni, alle istituzioni locali. 13 maggio 1992 *PROPOSTA PER L’INDIVIDUAZIONE DEL TERRENO “CENTRALE” DI ATTIVITA’ NEI PROSSIMI MESI di Luca Ferrieri? 27 maggio 1992 APPUNTI SU “FUORI DALL’OCCIDENTE” DI A.ASOR ROSA di Ennio Abate [Forse per Lab Sam? NEGLI SCANTINATI E NEI LABIRINTI di Marcello Guerra] 6 novembre 1992 *X CHIAMA...IPSILON NON RISPONDE di Ennio Abate Fallimento di Ipsilon: qualcosa di “vitale” o di “più importante” per ciascuno (nominato come “psicoanalisi”, “politica”, “convivialità”, “ecologia della lettura”, “programma”) non trova accoglienza in Ipsilon e viene cercato altrove. Condizionamento degli specialismi e attrazione verso la corrente dominante del spare a cui si fa riferimento. 11 novembre 1992 *DA IPSILON A PUNTO ROSSO. LETTERA APERTISSIMA AGLI AMICI DI IPSILON. di Ennio Abate Ipsilon ha avuto il merito di affrontare “il problema dello sfascio politico e antropologico della sinistra”. Ragioni del “decesso” di Ipsilon: una partecipazione per inerzia; incapacità di accogliere “qualcosa” di più profondo e vitale per gli individui partecipanti; diplomatismo e arretramento prudente di fronte alla necessaria gestione del conflitto delle differenze culturali interne; incapacità o impossibilità di gestire “la frammentazione specialistica dei saperi di riferimento”. Proposta (“forzatura necessaria” in direzione della politica; scelta invece della paralisi) di un gemellaggio Ipsilon-Punto Rosso. 13 NOVEMBRE 1992 *IPSILON? PUNTO ROSSO? ALTRO? di Ennio Abate 4 esigenze reali alla base di Ipsilon:contrastare isolamento e sofferenza individuale; - orientarsi nella trasformazione culturale in corso; distanziarsi dalla fallimentare politica della sinistra senza perdere la dimensione politica; - intervenire nella dimensione sociale cittadina. Separarsi per sviluppare le varie esigenze (politica, ecologia, psicoanalisi, convivialità, programma) portate in Ipsilon, ma paralizzatesi o troppo diplomaticamente conviventi. *GUERRA E PACE. Proposte di attività Ipsilon 1993 di Luca Ferrieri *IL BARBONE TEDESCO E I SUOI DINTORNI. MARX E’ SEDUTO CON NOI. Gruppo di lavoro sul marxismo. di Roberto Mapelli 13 gennaio 1993 *IPSILON. SEZIONE RICERCHE IN LOCO di Ennio Abate RACCOLTA DI 21 aprile 1993 **NUOVA IMMIGRAZIONE E RISVOLTI CULTURALI. Orientamenti e proposte. di Ennio Abate SpiegAzioni Bollettone di Ipsilon Numero O giugno 1993 Collaboratori: E. Abate, R. Fabbri, L. Ferrieri, R. Mapelli, P. Mondelli, D. Salzarulo. Ideazione grafica: C. Carlotta SpiegAzioni Bollettone di Ipsilon Numero 1 novembre 1993 Collaboratori: E. Abate, F. Arminio, A. Cirona, N. D’Ambrosio, M. De Tuglie, R. Fabbri, L. Ferrieri, M. Guerra, R. Mapelli, P. Mondelli, D. Salzarulo, Samizdat. Ideazione grafica: C. Carlotta 28 Gennaio 1994 **PER UNA STORIA METROPOLITANA DI COLOGNO MONZESE di E. Abate dell’Ass. Culturale Ipsilon Comitato scientifico: G. Petrillo, G. Severi, C. Tartari Coordinatore: E Abate Segretaria: M. G. Targa Collaboratori: M. R. Archinti Feliciani, A. Bellotto, O. Bertolazzi, D. Carissimo, M. Casati, A. Defendenti, F. di Marco, L. Lana, P. Mattiazzo, M. L. Nardon, B. Narici, S. Pinazzi, G. Serra, A. Saladini, C. Salzarulo, D. Salzarulo, R. Tonelli Febbraio 1994 Mostra dello scultore Antonio Perniciaro In villa Casati 15 giugno 1994 **PER UN COMITATO DI LiberAzione a Cologno Monzese - E. Abate, Appunti sulla “Costruzione di un Comitato di LiberAzione” e Proposte di temi “Per nuovi saperi e nuove pratiche a sinistra e dintorni” - D. Salzarulo, Per la costruzione di un Comitato di LiberAzione - V. Ballabio, Dieci considerazioni in margine a sette anni di esperienza amministrativa a Cologno M. - M. Guerra, LiberAzione da chi, da dove, perché? Appello di: E. Abate, G. Alessandrello, S. Alpino, V. Ballabio, V. Beretta, V. Brusa, A. Cairoli, C. Carlotta, D. Carissimo, A. Casula, G. Cocciro, M. De Tuglie, M. Diaco, R. Fabbri, G. Facchi, M. Felisari, G. Galardi, R. Grossi, M. Guerra, R. Guzzo, L. Lana, A. Lorenzo, M. Madella, R. Mapelli, N. Martinazzi, B. Narici, D. Palumbo, L. Paccagna, C. Piazza, E. Picozzi, E. Radaelli, C. Rosini, D. Salzarulo, A. Tagliaferri, R. Turi. Adesioni: PDS, Sinistra giovanile, Circolo Pertini, Ass. Culturale Ipsilon 7/17 ottobre 1994 ** E. Abate, Avete paura, liberazione? Lettera aperta a Roberto Mapelli eh, della 7 aprile 1995 ** Samizdat Colognom, Eventi locali: suicidi e omicidi politici a sinistra Primavera 1995 Ladri di ciliegie Esplorazioni e studi sulle opere di Franco Fortini Interventi di: D. Salzarulo, Composita solvantur E. Abate, Il ladro di ciliegie L. Ferrieri, Fortini leggere e scrivere A. Meani, Questo muro M. Guerra, Extrema ratio C. Carlotta e R. Fabbri, Fortini autore di testi per canzoni E. Partesana, Verifica dei poteri 31 maggio 1995 Romano Luperini e i Ladri di ciliegie Incontro conclusivo del gruppo di lettura su Franco Fortini con la partecipazione di R. Luperini 23 ottobre 1995 Lettera all’assessore alla Cultura. Presentazione del calendario 1995-’96, Richiesta di contributo e di uso dei locali della Biblioteca civica per gli incontri pubblici. Iniziative 1995-1996 Trasformazioni del lavoro - Il dibattito su disoccupazione e bisogni sociali in Italia Iniziative 1995-1996 Storia italiana - La Resistenza senza mitologia - Padri, figli e nipotini della Repubblica italiana Esodo - Un ripensamento delle categorie politiche e della “nuda vita” - Esodi antichi e esodi contemporanei Un secolo alla fine - Le lotte e le tragedie del ‘900 - In quanti ci siamo illusi nel ‘900? Tra metropoli e periferie - Immaginario metropolitano e strutture economiche postfordiste - Luoghi ideali di una volta e città d’oggi senza luoghi e tanti desideri - Modernità: dalla Parigi di Baudelaire al Bronx Altre iniziative - Scuola: da “le vestali della classe media” alla “scuola azienda”? - Incoscio e matematica - Uomini e donne: una fratellanza inquieta - Una provocazione all’anno: macht Tamaro/Nietsche e/o contestualizziamo “Va’ dove ti porta il cuore” (non realizzato) Relatori: E. Abate, C. Carlotta, R. Fabbri, M. Guerra, R. Mapelli, G. Petrillo, D. Salzarulo, A. Villa 16 novembre 1995 SCHEDA SU “IL LAVORO DI DIONISO. Per la critica dello Stato postmoderno” di Negri e Hardt. A cura di Ennio Abate Gennaio 1996 Scheda su “ALLE ORIGINI REPUBBLICA” DI Claudio Pavone a cura di Ennio Abate Grandinetti, M. Guerra, U. Lacatena, L. Lenzini, F. Leonetti, R. Luperini, C. Preve, F. Romanò, D. Salzarulo, F. Sarcinelli, G. Stocchi, P. Zamboni, D. Zazzi. IPSILON 1997. PROPOSTE. di Ennio Abate Iniziative 1997 L’identità Testi di riferimento: - Contro l’identità di F. Remotti - Passing: dissolvere l’identità Camaiti di A. Città-periferia - Tutti in taxi di G. Viale - Il maiale e il grattacielo di M. D’Eramo SCUOLA insegnamento-apprendimento - Attesi imprevisti di P. Perticari DELLA Aprile 1996 Narratorio inferiore di tabea nineo e poliscritture amiche Mostra alla libreria CELES di E. Abate e libretto con testi di: P. Andujar, P. Del Giudice, P. Del Punta, L. Ferrieri, R. Mapelli, F. Romanò, D. Salzarulo Dicembra 1996 “Se tu vorrai sapere...” Testimonianze per Franco Fortini In collaborazione con Comune di Cologno Monzese, Assessorato alla cultura, Biblioteca civica Testimonianze in libretto di: E. Abate, L. Amodio, R. Birolli, S. Bologna, G. Bouchard, L. Calvi, P. Cataldi, I. Della Mea, L. Della Mea, A. De Lotto, A. Grazia D’Oria, R. Fabbri, F. Gianoli Grandinetti, E. Le previsioni della poesia - Meteo di A. Zanzotto Elogio della lettura - il piacere della lettura Relatori: E. Abate, R. Bertola, M. D’Eramo, R. Fabbri, L. Ferrieri, A. Meani, P. Perticari, D. Salzarulo, Novembre 1997 **SAMIZDAT COLOGNOM n.1, novembre 1997 foglio semiclandestino di critiche solitarie e stonate SAMIZDAT E IL LETTORE FELICE Dialogo in margine al non convegno “Cari lettori, parliamone...” -21-22 novembre 1997 Novembre 1997 **FLOP CARI LETTORI: CONTRO E PRO Atto primo: Samizdat e il lettore felice di Ennio Abate Atto secondo: Il lettore felice e Samizdat di Luca Ferrieri **Novembre 1997 “La nota poetessa napoletana di origine italiana...” di Angela Villa Iniziative 1998 PSICO laboratorio scuola Discutiamo i libri: - La costruzione dell’identità e La psicanalisi come esercizio critico di G. Jervis - La consultazione psicologica nella scuola di Masoni - “La Ginestra”, rivista di psicanalisi Politica mente - Le trasformazioni del lavoro - La questione temporale - Le tre sinistre o le due destre? Miti - Mitizzare/Demitizzare - Miti d’oggi: dal che a Lady D Memoria Storia - Il revisionismo storico - Secolo breve, secolo lungo Lavori in corso - Lettura cantata delle poesie di Raffaele Viviani - Franco Fortini: poesie per la scuola 3 giugno 1998 Polemica di Ipsilon: Lettera aperta all’assessore alla cultura e al direttore della Biblioteca civica Settembre 1998 Promemoria di Ennio Abate per i QUADERNI DI IPSILON Scrap-book Ceto medio Sandro Mezzadra, L’impiegato senza qualità, il manifesto 3 marzo 2000 ( Recensione a Mariuccia Salvati, Da Berlino a New York. Crisi della classe media e futuro delle demcorazie nelle scienze sociali degli anni trenta, Bruno Mondadori) 1. “...sospesa tra una dolorosa e mediocre quotidianità e la sperimentazione di nuovi stili di vita nella Germania weimairiana, la classe media parve giocare il ruolo preponderante nei grandi smottamenti che condussero Hitler al potere; protagonista e simbolo dei nuovi modelli di consumo e benessere che si diffusero nel dopoguerra, sembrò incarnare la concreta utopia di una società finalmente integrata al di là dei contrasti di classe...” 2. Nel dibattito statunitense degli anni Trenta “la classe media si avviava a divenire il centro di un’economia morale fondata sul carattere “privato” del sacrificio compiuto da una moltitudine di individui per appropriarsi di saperi e competenze “socialmente utili”. E’ proprio questa funzione di centro di una nuova “economia morale” l’elemento che sembra accomunare i destini della classe media nel “secolo breve”” 3. “Il riferimento alla centralità della classe media significa legittimare come sacrific reali solo quelli che avvengono al centro della segmentazione sociale... Gli spazi di autonomia che si manifestano nei nuovi stili di vita e di consumo risultano così coniugati con la persistenza di una ferrea etica del lavoro. Trattandosi poi di un’autonomia privata prima che individuale, essa si accompagna con una ricomposizione familiare delle mansioni sia produttive che riproduttive, di modo che viene comunque salvaguardata la “naturale” gerarchia tra i sessi. All’ombra di questa “economia morale” middle class.. il lavoro operaio senza qualità e senza virtù viene progressivamente espulso dall ospazio pubblico così come la discriminazione che continuano a subire gli afroamericani” Scuola pubblica/privata? Anna Pizzo (il manifesto 1 marzo 2000) Sulle posizioni di Revelli (e Carta): la sc \uola “uno dei pochi luoghi della modernità in grado di produrre legame sociale” (“A condizione di essere capace di mescolare [!?] ipermodernità e arcaismi”. Parla almeno di “inutile contrapposizione tra scuola statale scuola privata”: lo stato di per sé non è in grado di garantire né maggiore libertà né eguali diritti. Se è indifendibile la “scuola dello stato in quanto pubblica”, la proposta (pluralista) dovrebbe essere quella di “una scuola modellata sul territorio e in grado di produrre socialità” [ Ma allora facciamo dei centri sociali e sbarazziamoci della scuola...!], una scuola “svincolata da burocrazie centralistiche.. in grado di elaborare culture e saperi dentro dimensioni piccole, ma non localistiche... dotata della lente [quale?] per guardare alle somiglianze tra il proprio territorio e quello che si trova dall’altra parte del mondo”[ genericità del legame, ben più complicato e conflittuale, fra particolare e universale o particolare e globale Rossanda ( il manifesto 2 marzo 2000) Ancora in difesa della scuola statale contro la privata e contro la proposta di Revelli ( Carta) di scuole nate nel territorio e con solo referente il territorio. Sarebbe la frantumazione in un miriade di “comunitarismi, di interessi sociali, culturali, religosi, o dio non voglia, etnici”, ben poco pubblici ( cioè “universalmente aperti”) e, per il finanziamento, “finiremmo con l’avere scuole non solo differenti ma inuguali”. Prosegue la sua polemica contro la sinistra sociale o antagonista che inviterebbe a “disertare il terreno della politica lasciandone il dominio alle destre.. cioè al capitale e alle chiese che sono oggi [assi? portanti della globalizzazione”. Deride poi giustamente l’idea che “i saperi siano localmente elaborabili o contestabili, senza un orizzonte almeno nazionale o sovranazionale, senza una visibilità dichiarata delle ideologie in conflitto che li sottendono”.[Evita però il punto cruciale: lo Stato che scuola pubblica offre? ]Indice Cronachetta Contatti/ Nuovi immigrati - Ismail Samir - Allouche Abbas La scuola da lontano La tentazione di Orbilius Intervista a Carlo Oliva Colognom - Casa della Cultura? Casa dei giovani? Una proposta bocciata - Condomini: off limits per la democrazia? Lettera aperta al Sindaco di Cologno Monzese Appendice: Il normale quotidiano di un condominio - Che storia è questa? Una recensione critica a Giuseppe Severi, COLOGNO MONZESE dalla sua storia le radici del 2000 - Cari amici di Società Democratica Antiliberista. Lettera aperta. Incursioni Da Colognom a Grosseto. Per una scrittura in clandestinità. Intervento al seminario della Fondazione Bianciardi Stocolognom - !0 anni di IPSILON Cronaca e documenti del dibattito di IPSILON Scrap-book N.2 Clara Gallini su Lourdes Carta Sottovaluto?