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In palcoscenico
UNA
GIOVENTÙ CONDANNATA IN PARTENZA A VIVERE ALL’ULTIMO
(CORTO)
RESPIRO
Con “X(ics) Racconti crudeli della giovinezza >> X.04 Napoli” i riminesi Motus
ripropongono una convincente linea scenica ‘analitico-concettuale’ aggiornata
alle oggidiane crudeltà metropolitane. I romani Santasangre con l’installazionespettacolo “framerate0_primo esperimento”, producono mero, energetico teatro
post-human. Il Nederlands Dans Theater guidato da Jiří Kylián ha presentato
nella capitale lo sfizioso film video “Car-Men” e la elaborata partitura
coreografica “Last Touch First”. La più recente commedia di Luca Archibugi
“Immobildream” esplora un bislacco côté borghese pariolino in bilico tra
Ionesco e Campanile.
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di Marco Palladini
1 - In questo tempo di turn-over teatrale frenetico, quasi neuro-ossessivo, un gruppo come i
riminesi Motus che esordirono nel 1991 con Stato d’assedio, appare già un ‘classico’ della
scena italica sperimentale, un effettuale padre delle più recenti waves generazionali già
promosse (vedi Muta Imago, Dewey Dell, Pathosformel etc.) a rappresentanti del nuovo
teatro tricolore in esimie rassegne internazionali.
Dunque, a rigore, tornare a vedere la compagnia diretta da Enrico Casagrande e Daniela
Nicolò – incaricati, tra l’altro, di dirigere il Festival di Santarcangelo 2010 – non dovrebbe
costituire un test probante circa le ultime sensibilità del teatro di ricerca nostrano. Io ho però
da ‘lunga pezza’ maturato la convinzione che ben poco di nuovo compaia ormai sui
palcoscenici della penisola. Più che altro si rimasticano, si rimodulano, si riarticolano forme e
linguaggi e visioni che stanno ben dentro il solco di una “tradizione del nuovo” che in questo
paese ha ormai una storia che dura da mezzo secolo (giusto 50 anni fa, ricordo, debuttò
Carmelo Bene con il Caligola di Camus al romano Teatro delle Arti).
Questo per dire che X(ics) Racconti crudeli della giovinezza >> X.04 Napoli, visto al Teatro
India per la rassegna “Le vie dei festival”, mi ha una volta di più confermato che i Motus sono
oggi i più fulgidi esponenti di una linea ‘analitico-concettuale’ (battezzata da Beppe
Bartolucci e Achille Mango oltre 30 anni fa) che partendo da Simone Carella e dai primi
Magazzini Criminali degli anni ’70, si conferma tuttora la più solida barriera artistica contro il
patetismo e il lirismo sentimental-ricattatorio di tanta scena contemporanea. E tanto per non
fare nomi, dichiaro senza mezzi termini che per me i Motus sono gli anti-Pippo Delbono del
‘côté’ teatrico italiota. L’attore-autore genovese ipersoggettivizza in modo vampiresco
qualsiasi tema, iperbolizza il proprio ego (ego-corpo) sofferente proiettandosi, ma pure
sovrapponendosi alle diversità umane che convoca in scena o agli spunti che accendono i suoi
ammorbati, manierati spettacoli. Così, quando Delbono spalma se stesso, retoricamente e
narcisisticamente, pure su una tragedia come quella dei sette operai bruciati alla Thyssen
Krupp di Torino (vedi La menzogna), è difficile non parlare di mera ‘pornografia del dolore’ e
di un lavoro, in sostanza, eticamente indecente.
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Così, tanto più si apprezzano i Motus che si calano in un progetto geo-teatrale in progress, che
qui mira a esplorare la deriva neobarbarica, alienata, anaffettiva, sociopatica della periferia
metropolitana napoletana (la medesima di Gomorra) con fredda distanza, desoggettivando al
massimo, in una chiave espressiva eidetico-concettuale che nulla concede al sociologismo
volgare, come alla rappresentazione oleografica. Il titolo dello spettacolo è letteralmente
‘scippato’ a un magnifico film del 1960 di Nagisa Oshima, ma va bene così: qui la cruauté si
dà per sottrazione, per allusione, per dinamiche tangenti che né demonizzano né epicizzano o
visceralizzano la materia. Dopo avere a lungo e un po’ troppo acriticamente istruito rutilanti
allestimenti innervati di compiaciuto glamour, di seduttive superfici suoni&luci e discotechno, di mercificazione-reificazione del mondo accettata tout-court, i Motus sembrano (a
partire da L’ospite, 2004, ispirato a “Teorema” di Pasolini) essersi dislocati in una frontiera
critica (anche critico-politica) che si dispone per composizione semantica e non per invettiva
contenutistica o esercitazione didascalica.
La loro forza è che fanno teatro pensando ad altro: al cinema, per esempio, al video, alle
installazioni artistiche, alla performance situazionistica. In X (ics) il plateale point de repére,
notato da molti, è la bellissima pellicola di Gus Van Sant Paranoid Park. Anche qui uno
sguardo quasi neutro, sottomisura, attonito o documentaristico su uno scorcio periferico
emblematizzato da un marciapiede, una panchina e un muretto, dove figure senza volto
incappucciate nelle felpe d’ordinanza sfidano la morte saltando da un lato all’altro della
strada, mentre sfrecciano i fari delle auto lanciate ‘a tavoletta’. Oppure volteggiano sui pattini
distribuendo i flyers di qualche evento ‘alternativo’, o si incontrano muti, scambiandosi cicche
ed enigmatici segnali, ovvero ascoltando pezzi tra rock e rap schitarrati e scanditi dai
musicisti di “Roca Luce”. Sul fondo scena c’è uno scuro schermo grigliato sopra cui scorre un
flusso di immagini video in bianco&nero che partendo dal quartiere partenopeo di Scampia,
mostra algidi e squallidi panorami suburbani dei ghetti di varie città europee, incrociati con
visioni astratte o optotroniche, siglate dalla ricorrente figurazione di un teschio, banale, ma
veridico simbolo principe di desolanti territori, dove si accumulano indefinitamente
spazzatura e morte fisica e spirituale.
A dispetto del titolo, qui non c’è invero alcun reale racconto, ma soltanto l’esibizione iterativa
di ectoplasmi scenici impegnati a tentare di sopravvivere fino alla prossima chiamata letale.
Nessun compiacimento, ma anche nessun ammicco consolatorio: archiviata l’euforia
scintillante e piaciona della postmodernità, i Motus si calano nella disforia dell’ipermoderno
con sobria arte neocrudele, la giovinezza che ritraggono è quella di un’età stordita, anomica e
anonima, condannata in partenza a vivere all’ultimo (corto) respiro.
2 - Alla (di già) penultima generazione teatrica appartiene l’ensemble capitolino Santasangre
(Diana Arbib, Luca Brinchi, Maria Carmela Milano, Dario Salvagnini, Pasquale Tricoci,
Roberta Zanardo) che dopo l’ottimo risultato conseguito con Seigradi, punto di approdo di
una trilogia simil-apocalittica imperniata sull’acqua come elemento basico della vita, adesso
cambia direzione di ricerca e annuncia una nuova trilogia, stavolta sul tema dell’energia.
Tappa iniziale di questo progetto è l’installazione-spettacolo framerate0_primo esperimento,
presentata al Romaeuropa Festival 2009, negli spazi di Fonderia 900. In un bianco,
penitenziale camerone l’esperimento si avvale del gioco dei fari motorizzati che sventagliano
lame di luce, ora radenti ora abbacinanti ora puntilisticamente esatte. Si susseguono proiezioni
di esplosioni cosmiche o primordiali. Mini big-bang assistiti da correnti sonore elettroniche
continue. Si formano clusters di linee lucibonde irregolari. Un rotante squarcio luminoso
sembra un tanto immaginifico quanto minimale taglio di Lucio Fontana, una nivea ferita
incisa sul muro.
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Poi il punto di attenzione si sposta su una grande vasca quadrangolare dai bordi bassi, ai cui
angoli penzolano quattro grosse, ferrigne catene, sormontate da un massiccio gancio da
argano di cantiere. Una grande ombra circolare oscilla minacciosa sulla parete, come la palla
nera gigante del film di Fellini Prova d’orchestra, quella che buttava giù il muro e
preannunciava la restaurazione dell’ordine dopo la stagione di follia ed anarchia. Qui più
sottilmente dà l’avvio al movimento delle catene che prendono a sollevare il massiccio blocco
di ghiaccio contenuto nella vasca frigorifera, che levandosi in aria prende copiosamente a
sgocciolare, di tra varie smitragliate di luminosità pulsanti e tourbillon policromi. Il blocco di
ghiaccio viene manovrato fino a posizionarlo verticalmente, così che diventa una cortina
gelida semitrasparente e trafitta da altri plurimi giochi di luci e ombre, mentre prosegue a
scolare nella vasca, infine forse simboleggiando il fatale disfacimento di qualsiasi ‘Wall’
divisorio o di separazione.
Anche i Santasangre si disoccupano di teatro, per fare altro, ossia nella fattispecie per
confezionare con sicura e lodevole perizia tecnico-tecnologica una performance visivasinestetica che molto mi ha ricordato le prime suggestive prove dei Krypton di Giancarlo
Cauteruccio (penso a Corpo, ambient-video-laser del 1982 o Angeli di luce del 1985). Se
questo è teatro è mero teatro post-human. Per certi versi, forse, persino preferibile a quello
‘human’.
3 - Il 62enne praghese Jiří Kylián è da tempo uno dei maestri del teatrodanza europeo,
trapiantato ad Amsterdam da oltre tre decenni guida il Nederlands Dans Theater, una delle
compagnie di punta della coreografia contemporanea. Lo scorso ottobre al Valle di Roma,
Kylián è stato ospitato e omaggiato presentando in serata unica un suo singolare dittico
creativo.
La prima parte del programma prevedeva la proiezione del film video Car-Men (2006) diretto
da Kylián assieme a Boris Pavel Cohen. Uno sfizioso lavoro di rilettura e decostruzione della
Carmen di Bizet in guisa di filmica ‘comica finale’ girata in un b/n d’antan. Vincente è,
innanzitutto, il set del film in una landa mineraria desertica della Cekia, che mi fatto subito
pensare alle desolate locations dei ‘nude trash-movies’ di Russ Meyer o di Un paese per
vecchi dei fratelli Coen. E poi sempre irresistibile è la tecnica delle gags accelerate, in puro
stile ‘slapstick comedy’. Car-Men ovvero macchina e uomini o uomini-macchina, gettati in
un paesaggio allucinato, post-atomico, dove gli eponimi personaggi dell’opera – la femme
fatale Carmen, il sergente spasimante Don José, il toreador sciupafemmine Escamillo e la
provvida contadina Micaela – diventano quattro balzane figurette da cinema muto, un
quartetto di spiritati burattini, di scavallanti misirizzi, non di rado impegnati in miseri
dispettucci e giochetti scimuniti tra brulle collinette di terra e cimiteri di rottami d’auto. Si
susseguono inseguimenti e siparietti demenziali come pura parodia del libretto di Meilhac e
Halévy, nonché manipolazioni digitali ambientate in frenetiche gare automobilistiche anni
’20-’30. Scena o scenetta madre è una sorta di notturna corrida che si svolge tra una lugubre
macchina nera con i fari minacciosamente puntati (macroscopica citazione di Christine, la
macchina infernale, l’horror-movie del 1983 di John Carpenter, derivato dal romanzo di
Stephen King) e che muggisce come un grande scalpitante toro di metallo e una Carmenmatador (o matadora) che fa volteggiare lo scialle-muleta in un’arena lunare da puro
‘nightmare in Sevilla’, riuscendo infine a placare-sedurre la lucida bestia a quattroruote.
Interessante è che questa Carmen (Sabine Kupferberg, danzatrice topica di Kylián) è una
donna matura e, più che avvenente, direi sconveniente e indisponente, una mezza arpia
ingenerosa e malignazza, talora volgarotta e sguaiata come una drag-queen. Del pari, assai
depassé e snervato o sgualcito è Don José, mentre Escamillo e Micaela sembrano trafelate
sagome sortite o sgorbiate fuori da un circo di mostri-freaks alla Tod Browning. Insomma,
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Kylián qui si diverte e ci diverte a sputtanare la Carmen con le sue habanere e seguidille,
trapassando il teatrodanza in comicità clownesca tra Ridolini e Charlot.
Di tutt’altro segno la seconda parte della serata che prevedeva lo spettacolo, in prima
nazionale italiana, Last Touch First. Si alza il sipario e ci troviamo in un essenziale, elegante
salone da maison di campagna ottocentesca in cui si potrebbe svolgere un dramma di Cechov
o di Ibsen ovvero un racconto di Tolstoj o di Gogol. Qui si dispone un tableau vivant di sei
figure (tre donne e tre uomini) come figés, glassati in un ambiente segnato da poltrone, sedie
da soggiorno e sedie a dondolo, un tavolo con tovaglia e candeliere acceso, una porta, una
finestra, una grande specchiera e un candido telo-tappeto increspato. Le tre coppie stanno
sospese nell’assoluta immobilità, poi si muovono impercettibilmente. Gesti lentissimi: chi
legge, chi si versa del vino in un bicchiere, chi gioca a carte, chi attende al lavoro domestico.
Sei bradipi umani investiti acusticamente dalla colonna sonora di Dirk Haubrich che ha un
andamento insinuante, avvolgente, con picchi e strappi rumoristici da ‘musica concreta’ che
rompono l’atmosfera idilliaca, paciosa, ma forse anche mortuaria che si respira nel villone
agreste. È evidente che Kylián ha assegnato alla partitura musicale una precisa e determinante
funzione di drammaturgia scenica. Forse è questo “l’ultimo primo tocco” che induce nel
sestetto dei danzattori degli scatti improvvisi, dei movimenti isolati, delle ratte torsioni
cinetiche. L’esasperato ‘ralenti’ iniziale via via che scorrono i 55 minuti complessivi della
messinscena, dà luogo a una calibratissima progressione dinamica in cui si sviluppano
tangenti trame di vita quotidiana, di relazioni interpersonali, e poi anche traiettorie
sentimentali e cripto-sessuali plurime per input successivi che accelerano e tengono in
tensione i corpi dei protagonisti.
Mano mano è chiaro che l’ordine casalingo e della facciata social-borghese va a farsi
benedire: irrompe il disordine delle pulsioni emotive, dei sensi e poi, pure, delle menti: un
uomo in bilico sul vano della finestra sembra proprio voler fare un salto suicida; la specchiera
delle ‘loro brame’ si tramuta in un’arma riflettente che rimbalza le luci accecanti dei
proiettori, sventagliandole sul palco e pure in platea; il telo al suolo viene rigonfiato o stirato
secondo un mortifero sudario. Come nell’operazione filmica, anche qui Kylián, in tutt’altri
stile e maniera, sembra voler decostruire e parodizzare tutta una drammaturgia ottocentesca
(ai già citati Cechov e Ibsen, potremmo aggiungere Strindberg) che mirava a disvelare quali
abissi e inferni psico-comportamentali e coniugali e familiari si celassero dietro le forme
composte e i paludati modi di autorappresentanza e le ipocrite ritualità della classe borghese
dominante.
Ma se il disegno è chiaro, la confezione teatrale impeccabile e l’esecuzione degli interpreti in
tutto lodevole, nondimeno l’impressione terminale è, appunto, quella di un esercizio di stile
fin troppo compiuto (e magari autocompiaciuto). Kylián sembra correre sul crinale di un
ipermanierismo coreografico ‘alto’ e nobile, ma privo di reali prospettive sceniche, se non
quelle di replicarsi secondo un mero tautologismo accademico. Allora, tutto sommato, molto
meglio buttarla nella maniera comico-parodica alla Stanlio e Ollio, dove il riso risulta sempre
liberatorio.
4 - Da parecchi anni le tivù e le radio locali della capitale sono martellate da un immobiliarista
indigeno che ha tramutato il nome della sua impresa in un tormentone pubblicitario: “Immobil
Dream non vende sogni, ma solide realtà”.
Immobildream, la più recente pièce di Luca Archibugi (vista all’Atelier Meta-Teatro), sembra
invece voler vendere, ossia darci a vedere, la solida irrealtà ovvero pure il ‘sogno immobile’
di quattro personaggi che sono, probabilmente, l’uno il doppio dell’altro. Autore da un quarto
di secolo di commedie socio-sentimentali, lievi e ironiche, anche leggermente svitate e
sversate sul côté borghese pariolino-romano che conosce come le sue tasche, Archibugi arriva
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oggi a 50 anni a un’ulteriore dislocazione drammaturgica, pur in assoluta coerenza con la sua
visione teatrale. Immobildream è un copione ameno e piacevole, perfettamente in bilico tra
Ionesco e Achille Campanile, ossia tra una poetica dell’“Assurdo” particolarmente imperniata
su bisticci e qui pro quo e lapsus semio-linguistici, e una situazione farsesca, para-demenziale,
ma giocata in punta di dialogo da un quartetto di figurette psichicamente derealizzanti (quanto
irrealizzate).
Da una parte, c’è una coppia ‘uscente’. Vale a dire i coniugi Carlo e Sara (Almerica Schiavo e
Antonio Mastellone) che, caduti in disgrazia economica, vengono sfrattati dal proprio
signorile appartamento. Dall’altro, c’è una coppia ‘entrante’. Ossia Giulio e Irene (Mariano
Aprea e Elisa Veronica Zucchi) che hanno acquistato la casa a prezzo vantaggioso e ci vanno
sollecitamente ad abitare. Ma non hanno fatto i conti con i precedenti, irriducibili, tignosi
proprietari che sono rimasti nei paraggi e provano (e trovano) tutti i modi per rientrare nella
agognata maison. Si crea, così, un forzato connubio in cui si scopre che i mariti fanno la
stessa professione, che le rispettive nonne avevano il medesimo nome, che le due mogli hanno
in comune persino il medico che le tiene in cura – Sara ha disturbi, come dire, psico-motori e
vagola senza costrutto; Irene confonde parole, pensieri e cose a un dipresso come L’uomo che
scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks. Il medico, peraltro, si chiama
Scardanelli e qui Archibugi si permette la citazione raffinata: essendo Scardanelli il nome con
cui Friedrich Hölderlin, ammattito, invecchiato e rinchiuso nella ‘torre’ sul fiume Neckar,
prese a firmare le sue ultime poesie. La citazione eteronimica non è solo uno sfoggio di
cultura, ma mi pare il preciso indizio che in questa abitazione da tipico generone borghese
capitolino avviene che, per slittamenti progressivi del disessere, le due bislacche coppie si
riconoscano in sostanza intercambiabili, complementari, finendo per instaurare una sorta di
implausibile, ma in fondo funzionale e speculare ménage à quatre in cui, in modi traslati e
‘abbassati’, si riproduce la convivenza schizo-poetica di Hölderlin con l’ombra del suo
nominale doppio.
Bisogna dire che di questo non c’è traccia nella regia, pure incisiva, di Alberto Di Stasio, il
quale ha premuto invece il pedale del mero divertissement, della comedy ridevole, preferendo
ornare lo spettacolo con citazioni para-cinefile. Almerica Schiavo drappeggiata in
attillatissimo abito rossofiamma con spacco sexy non può non richiamare Marilyn Monroe in
Niagara. Mastellone si sbrodola nelle sue stesse, lagnose chiacchiere e quindi si mostra in
candida canotta, ma più che a un Marlon Brando dei poveri (do you remember Un tram che si
chiama desiderio?), fa pensare a Umberto Bossi in tenuta burina in Costa Smeralda.
La debuttante Veronica Zucchi, bionda e diafana come la Eva Marie Saint di North by
Northwest di Hitchcock, ora in malizioso déshabillé domestico, ora in tenuta da fitness,
appare sciroccata e mentalmente svampita come Sydne Rome in Che? di Polanski o Evan
Rachel Wood nel più recente Woody Allen (Basta che funzioni). Il più concreto o meno
svanito appare il niveocrinito Mariano Aprea che, secondo un Peter Falk d’antan e d’annata,
cerca di tenere i piedi piantati per terra, di opporre ragionamenti razionali o, appena, di buon
senso ai comportamenti e alle situazioni paradossali e derealizzanti che gli si propongono,
finendo, regolarmente, per capitolare.
Di Stasio, come detto, sostiene e sorveglia con cura la recitazione degli attori e gli dà un ritmo
svelto e gradevole, soltanto il finale dello spettacolo, soffuso e sibillino, appare un po’ debole.
Archibugi conferma la sua tempra di autore umorista borghese, con lampi surreali, che ne
fanno un po’ un tardo epigono di Ennio Flaiano. Il quale, però, sinceramente, graffiava di più.
Talora a sangue.
novembre 2009
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