S. Alfonso Maria de Liguori Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo esposte all'anime divote CAPO I - Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo in generale Quanto Gesù Cristo gradisca che noi ci ricordiamo spesso della sua Passione e della morte obbrobriosa che per noi sofferse, ben si scorge dall'aver egli istituito il SS. Sacramento dell'altare a questo fine, acciocché in noi viva sempre la memoria dell'amore che ci ha portato in sagrificarsi sulla croce per la nostra salute. Sappiamo già che nella notte precedente alla sua morte egli istituì questo Sagramento d'amore, e dopo aver dispensato il suo corpo ai discepoli, disse loro, e per essi a tutti noi, che nel prender la santa comunione ci fossimo ricordati di quanto ha patito per noi: Quotiescumque enim manducabitis panem hunc et calicem bibetis, mortem Domini annuntiabitis (I Cor. XI, 26). Onde la santa Chiesa nella messa, dopo la consagrazione, ordina al celebrante che dica in nome di Gesù Cristo: Haec quotiescumque feceritis, in mei memoriam facietis. E S. Tommaso l'Angelico scrive: Ut autem tanti beneficii iugis in nobis maneret memoria, corpus suum in cibum sumendum dereliquit (op. 57).1 Siegue poi a dire il santo che per tal Sagramento si conserva la memoria dell'amore immenso che Gesù Cristo ci ha dimostrato nella sua Passione: Per quod recolitur memoria illius quam in sua Passione Christus monstravit excellentissimae caritatis (Ibid.).2 2. Se alcuno patisse per un amico ingiurie e ferite, e poi intendesse che l'amico udendo discorrere di tal fatto non ci volesse neppure pensare, e sentendone discorrere dicesse: Parliamo d'altra cosa; qual pena avrebbe in vedere la sconoscenza di quell'ingrato? All'incontro quanto si consolerebbe in sentire che l'amico confessa di conservargli un'eterna obbligazione e che sempre se ne ricorda e ne parla con tenerezza e lagrime? Quindi è che tutti i santi, sapendo il gusto che dà a Gesù Cristo chi si ricorda spesso della di lui Passione, si sono quasi sempre occupati a meditare i dolori e' disprezzi che patì l'amante Redentore in tutta la sua vita e specialmente nella sua morte. Scrisse S. Agostino non esservi applicazione più salutevole alle anime che il meditare ogni giorno la Passione del Signore: nihil tam salutiferum quam quotidie cogitare quanta pro nobis pertulit Deus Homo.3 Fu rivelato da Dio ad un santo anacoreta, che non vi è esercizio più atto ad infiammare i cuori del divino amore, quanto il pensare alla morte di Gesù Cristo.4 Ed a S. Gertrude, come scrive Blosio, fu rivelato che chi guarda con divozione il Crocifisso, quante volte lo guarda, tante è guardato da Gesù con amore.5 Aggiunge Blosio che il considerare o leggere qualunque cosa della Passione apporta più bene che ogni altro esercizio divoto.6 Quindi scrisse S. Bonaventura: O Passio amabilis, quae suum meditatorem reddit divinum (Stim. div. am. p. 1. c. 1)!7 E parlando delle piaghe del Crocifisso, le chiamò piaghe che impiagano i cuori più duri ed infiammano le anime più fredde di divino amore: Vulnera dura corda vulnerantia, et mentes congelatas inflammantia.8 3. Narrasi nella vita del B. Bernardo da Corlione cappuccino, che volendo i suoi religiosi istruirlo a leggere, esso andò a consigliarsi col Crocifisso, e 'l Signore gli rispose: «Che leggere! che libri! il libro tuo voglio essere io crocifisso, in cui leggerai l'amore che ti ho portato.»9 Gesù crocifisso era anche il libro diletto di S. Filippo Benizio, onde in morte domandò il santo che gli dessero il suo libro: gli assistenti non sapeano qual libro desiderasse; ma frà Ubaldo suo confidente gli porse l'immagine del Crocifisso, ed allora il santo disse: «Questo è il libro mio,» e baciando le sagre piaghe spiro l'anima sua benedetta.10 Io nelle mie Operette spirituali ho scritto più volte della Passione di Gesù Cristo; con tutto ciò penso non esser inutile alle anime divote l'aggiunger qui molte altre cose e riflessioni che appresso ho lette in diversi libri o sono state da me pensate; e le ho volute qui scrivere per utile degli altri, ma più per lo profitto mio proprio; poiché ritrovandomi nel tempo che scrivo questo libretto vicino alla morte, in età già di 77 anni, ho voluto stendere queste considerazioni per apparecchiarmi al giorno de' conti. Ed in effetto sulle medesime io fo le mie povere meditazioni leggendone molto spesso qualche parte, affin di ritrovarmi per quando sarà giunta l'ora estrema di mia vita applicato a tenere avanti gli occhi Gesù crocifisso, ch'è tutta la mia speranza; e così spero d'avere allora la sorte di spirare l'anima nelle sue mani. Entriamo ora nelle riflessioni proposte. 4. Pecca Adamo, si ribella da Dio, ed essendo egli il primo uomo progenitore di tutti gli uomini, resta esso perduto con tutto il genere umano. L'ingiuria fu fatta a Dio, onde non poteva né Adamo né gli altri uomini con tutti i sacrifici, anche delle loro vite che avessero offerte, dare una degna soddisfazione alla divina Maestà offesa; per renderla appieno placata, bisognava che una persona divina soddisfacesse la divina giustizia. Ed ecco il Figlio di Dio, che mosso a compassione degli uomini, spinto dalle viscere della sua misericordia, si offerisce a prender carne umana ed a morire per gli uomini, per dare così a Dio una compita soddisfazione per tutti i loro peccati ed ottenere ad essi la divina grazia perduta. 5. Venne già l'amoroso Redentore in questa terra, e volle, col farsi uomo, dar rimedio a tutt'i danni che il peccato avea recati agli uomini. Pertanto volle non solo co' suoi ammaestramenti, ma anche cogli esempi della sua santa vita, indurre gli uomini ad osservare i divini precetti e così acquistarsi essi la vita eterna. A questo fine rinunziò Gesù Cristo a tutti gli onori, le delizie e le ricchezze che potea godere in questa terra e che gli spettavano come Signore del mondo, e si elesse una vita umile, povera e tribulata, sino a morir di dolore su d'una croce. Fu inganno de' Giudei il pensare che il Messia dovea venire in terra a trionfare di tutti i nemici colla forza delle armi, e, dopo averli debellati ed acquistato il dominio di tutta la terra, dovesse rendere opulenti e gloriosi i suoi seguaci. Ma se il Messia fosse stato qual essi Giudei se 'l figuravano, principe trionfante ed onorato da tutti gli uomini qual sovrano di tutta la terra, egli non sarebbe stato quel Redentore da Dio promesso e predetto da' profeti. Ciò ben lo dichiarò esso medesimo, quando rispose a Pilato: Regnum meum non est de hoc mundo (Io. XVIII, 36). Onde scrisse poi S. Fulgenzio, riprendendo Erode perché tanto temesse di esser privato del regno dal Salvatore, ch'era venuto non a vincere i re colla guerra, ma a guadagnarli colla sua morte: Quid est quod sic turbaris, Herodes? Rex iste qui natus est non venit reges pugnando superare sed moriendo mirabiliter subiugare (S. Fulgent. serm. 5 de Epiph.).11 6. Due furono gl'inganni de' Giudei circa il Redentore che aspettavano: il primo fu che quanto predissero i profeti de' beni spirituali ed eterni, de' quali dovea il Messia arricchire il suo popolo, essi vollero intenderlo de' beni terreni e temporali: Et erit fides in temporibus tuis, divitiae salutis, sapientia et scientia, timor Domini, ipse est thesaurus eius (Is. XXXIII, 6). Ecco i beni promessi dal Redentore, la fede, la scienza delle virtù, il santo timore: queste furon le ricchezze della salute promesse. Inoltre egli promise che avrebbe recata la medicina a' penitenti, il perdono a' peccatori e la libertà a' cattivi del demonio: Ad annuntiandum mansuetis misit me, ut mederer contritis corde et praedicarem captivis indulgentiam et clausis apertionem (Is. LXI, 1). 7. L'altro inganno de' Giudei fu che quello ch'era stato predetto da' profeti della seconda venuta del Salvatore, quando egli verrà a giudicare il mondo nella fine de' secoli, vollero intenderlo della prima venuta. Scrisse bensì Davide del futuro Messia, ch'egli dovea vincere i principi della terra ed abbattere la superbia di molti e, colla forza della spada, distrugger tutta la terra: Dominus a dextris tuis: confregit in die irae suae reges. Iudicabit in nationibus... conquassabit capita in terra multorum (Ps. CIX, 5 et 6). E 'l profeta (Gioele II, 11) [leggi Geremia XII, 12] scrisse: filadius Domini devorabit ab extremo terrae usque ad extremum eius. Ma ciò s'intende già della seconda venuta, quando verrà da giudice a condannare i malvagi; ma parlando della prima venuta, nella quale dovea venire a consumare l'opera della Redenzione, troppo chiaramente predissero i profeti che il Redentore dovea fare in questa terra una vita povera e disprezzata. Ecco quel che scrisse il profeta Zaccaria parlando della vita abbietta di Gesù Cristo: Ecce rex tuus venit tibi iustus et salvator: ipse pauper et ascendens super asinam et super pullum filium asinae (Zach. IX, 9). 8. Il che si avverò particolarmente quando entrò egli in Gerusalemme sedendo su d'un asinello e fu ricevuto onorevolmente come il desiderato Messia, secondo scrive S. Giovanni (XII, 14,15): Et invenit Iesus asellum et sedit super eum, sicut scriptum est: Noli timere, filia Sion, ecce rex tuus venit sedens super pullum asinae. Sappiamo già poi ch'egli fu povero fin dalla sua nascita, nascendo in Betlemme luogo ignobile, e dentro una spelonca: Et tu, Bethlehem Ephrata, parvulus es in millibus Iuda; ex te mihi egredietur qui sit dominator in Israel; et egressus eius ab initio, a diebus aeternitatis (Mich. V, 2). E questa profezia sta notata da S. Matteo (II, 6) e da S. Giovanni (VII, 42). Di più il profeta Osea scrisse: Ex Aegypto vocavi filium meum (XI, 1). Il che si avverò quando Gesù Cristo fu portato bambino in Egitto, ove dimorò da sette anni in circa da forestiero, in mezzo a gente barbara, lontano da parenti e da amici, onde necessariamente dovette vivere molto poveramente. E così poi seguì a fare una vita povera ritornato che fu nella Giudea. Egli stesso già predisse per bocca di Davide che in tutta la sua vita doveva esser povero ed afflitto dalle fatiche: Pauper sum ego et in laboribus a iuventute mea (Ps. LXXXVII, 16). 9. Iddio non potea veder pienamente soddisfatta la sua giustizia con tutti i sacrifici che gli avessero offerti gli uomini, anche delle loro vite; onde dispose che il suo medesimo Figlio prendesse corpo umano, e fosse la vittima degna a placarlo cogli uomini, ed ottenere ad essi la salute: Hostiam et oblationem noluisti; corpus autem aptasti mihi (Hebr. X, 5). E l'unigenito Figlio volentieri si offrì a sagrificarsi per noi, e discese in terra affin di compire il sagrificio colla sua morte e così perfezionare l'umana Redenzione: Tunc dixi: Ecce venio: in capite libri scriptum est de me, ut faciam, Deus, voluntatem tuam (Ibid., 7). 10. Disse il Signore parlando a' peccatori: Super quo percutiam vos ultra? (Is. I, 5). Ciò diceva Iddio per farci intendere che, per quanto punisca i suoi oltraggiatori, i loro supplici non giungono mai a riparare il suo onore offeso; e perciò mandò il suo medesimo Figlio a soddisfare per li peccati degli uomini, poiché il solo Figlio potea dar degno compenso alla divina giustizia. Quindi dichiarò per Isaia, parlando di Gesù fatto vittima per espiare le nostre colpe: Propter scelus populi mei percussi eum (Is. LIII, 8).E non si contentò di picciola soddisfazione, ma volle vederlo consumato da' tormenti: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate (Ibid., 10). O Gesù mio, o vittima d'amore consumata da' dolori sulla croce per pagare i miei peccati, vorrei morir di dolore pensando di avervi tante volte disprezzato, dopo che voi m'avete tanto amato. Deh non permettete ch'io viva più ingrato a tanta bontà. Tiratemi tutto a voi, fatelo per li meriti di quel sangue che avete sparso per me. 11. Quando il Verbo divino si offerì a redimere gli uomini, gli si fecero avanti due vie di redimerli, una di gaudio e di gloria, l'altra di pene e di vituperi. Ma egli che colla sua venuta non solo volea liberare l'uomo dalla morte eterna, ma anche tirarsi l'amore di tutti i cuori umani, rifiutò la via del gaudio e della gloria, e si elesse quella delle pene e de' vituperi: Proposito sibi gaudio, sustinuit crucem (Hebr. XII, 2). Affine pertanto di soddisfare per noi la divina giustizia ed insieme per infiammarci del suo santo amore, volle, qual facchino, caricarsi di tutte le nostre colpe; e, morendo su d'una croce, ottenerci la grazia e la vita beata. Ciò appunto volle esprimere Isaia quando disse: Languores nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII, 4). 12. Di ciò vi furono due espresse figure nell'antico Testamento: la prima fu la cerimonia che si usava ogni anno del capro emissario, sul quale il sommo pontefice intendeva d'imporre tutti i peccati del popolo; e così poi tutti, caricandolo di maledizioni, lo cacciavano in una foresta ad esser ivi l'oggetto dell'ira divina (Lev. XVI, 5 et seq.).12 Quel capro figurava il nostro Redentore che volle da sé caricarsi di tutte le maledizioni da noi meritate per le nostre colpe- factus pro nobis maledictum, cioè la stessa maledizione (Gal. III, 13), -affin di ottenere a noi la benedizione divina. Quindi scrisse in altro luogo l'Apostolo: Eum qui non noverat peccatum pro nobis peccatum fecit, ut nos efficeremur iustitia Dei in ipso (II Cor. V, 21). Cioè, come spiegano S. Ambrosio13 e S. Anselmo,14 quegli ch'era la stessa innocenza peccatum fecit, cioè, si presentò a Dio come fosse lo stesso peccato; insomma si vesti da peccatore e volle addossarsi le pene dovute a noi peccatori, per ottenerci il perdono e renderci giusti appresso Dio. - La seconda figura del sagrificio, che Gesù Cristo offerì per noi all'Eterno Padre sulla croce, fu quella del serpente di bronzo affisso ad un legno, a cui guardando gli Ebrei morsicati da' serpi infocati restavano guariti (Num. XXI, 8). Onde poi scrisse S. Giovanni: Sicut Moyses exaltavit serpentem in deserto, ita exaltari oportet Filium hominis, ut omnis qui credit in ipsum non pereat, sed habeat vitam aeternam (Io. III, 14, 15). 13. Bisogna qui riflettere che nella Sapienza al cap. 2, sta ivi chiaramente predetta la morte obbrobriosa di Gesù Cristo.15 Quantunque le parole di questo capo possan riguardare la morte di ogni uomo giusto, nondimeno dicono Tertulliano, S. Cipriano, S. Girolamo e molti altri santi Padri16 che principalmente quadrano alla morte di Cristo. Ivi al vers. 18 si dice: Si enim est verus filius Dei, suscipiet illum et liberabit eum. Queste parole corrispondono in tutto a quel che diceano i Giudei mentre Gesù stava in croce: Confidit in Deo, liberet nunc si vult eum; dixit enim: Quia filius Dei sum (Matth. XXVII, 43). Siegue a dire il Savio: Contumelia et tormento -cioè della croce - interrogemus eum... et probemus patientiam illius; morte turpissima condemnemus eum (Sap. II, 19 et 20). Scelsero i Giudei per Gesù Cristo la morte di croce, ch'è la più vituperosa, a fine che il suo nome restasse infamato per sempre e non più fosse commemorato, secondo l'altro testo di Geremia: Mittamus lignum in panem eius et eradamus eum de terra viventium et nomen eius non memoretur amplius (Ier. XI, 19). Or come posson dire i Giudei oggidì esser falso che Gesù Cristo sia stato il Messia promesso, essendo stato tolto di vita con una morte turpissima, quando gli stessi profeti han predetto ch'egli dovea morire con una turpissima morte? 14. Ma Gesù accettò una tal morte, perché moriva per pagare i nostri peccati, e perciò volle, qual peccatore, esser circonciso, esser riscattato con prezzo quando fu presentato nel tempio, ricevere il battesimo di penitenza dal Battista; finalmente nella sua Passione voll'essere inchiodato nella croce per pagare le nostre malvage licenze: volle colla nudità pagare le nostre avarizie, cogli obbrobri le nostre superbie, colla soggezione a' carnefici le nostre ambizioni di dominare, colle spine i nostri mali pensieri, col fiele le nostre intemperanze e coi dolori del corpo i nostri sensuali piaceri. Quindi dovressimo continuamente con lagrime di tenerezza ringraziar l'Eterno Padre di aver dato il suo Figlio innocente alla morte per liberare noi dalla morte eterna: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum; quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit? (Rom. VIII, 32). Così S. Paolo; e Gesù medesimo disse presso S. Giovanni: Sic... Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16). Onde esclama poi la santa Chiesa nel sabato santo (In lect. Exultet): O mira circa nos tuae pietatis dignatio! O inaestimabilis dilectio caritatis, ut servum redimeres Filium tradidisti! O misericordia infinita! O amore infinito del nostro Dio! O santa fede! Chi ciò crede e confessa, come può vivere senza ardere di santo amore verso questo Dio così amante e così amabile? O Dio eterno, non guardate me così lordo di peccati, guardate il vostro Figlio innocente appeso ad una croce, che vi offerisce tanti dolori e tanti ludibri che soffre, acciocché abbiate di me pietà. O Dio amabilissimo e mio vero amatore, per amore dunque di questo Figlio a voi così diletto, abbiate pietà di me. La pietà che voglio è che mi doniate il vostro santo amore. Deh tiratemi tutto a voi da mezzo al fango delle mie sozzure. Bruciate, o fuoco consumatore, tutto ciò che vedete d'impuro nell'anima mia e le impedisce di esser tutta vostra. 15. Ringraziamo il Padre e ringraziamo egualmente il Figlio che volle assumere la nostra carne ed insieme i nostri peccati per renderne egli, colla sua Passione e morte, a Dio la degna soddisfazione. Pertanto dice l'Apostolo che Gesù Cristo si è fatto nostro fideiussore, cioè si è obbligato a pagare i nostri debiti: Melioris testamenti sponsor factus est Iesus (Hebr. VII, 22). Egli, come mediatore fra Dio e gli uomini, ha stabilito il patto con Dio, col quale si è obbligato a soddisfare per noi la divina giustizia; ed all'incontro ha promesso a noi, per parte di Dio, la vita eterna. Quindi anticipatamente ci avvertì l'Ecclesiastico a non dimenticarci della grazia di questo divin mallevadore, che per ottenerci la salute ha voluto sacrificar la sua vita: Gratiam fideiussoris ne obliviscaris: dedit enim pro te animam suam (Eccli. XXIX, 20). E per meglio assicurarci del perdono, dice S. Paolo che Gesù Cristo cancellò col suo sangue il decreto della nostra condanna, dov'era scritta la sentenza contro di noi della morte eterna, e l'affisse alla croce, sulla quale morendo egli avea soddisfatta per noi la divina giustizia: Delens quod adversus nos erat chirographum decreti, quod erat contrarium nobis... affigens illud cruci (Coloss. II, 14). Deh Gesù mio, per quell'amore che vi fé dare il sangue e la vita sul Calvario per me, fatemi morire a tutti gli affetti di questo mondo; fatemi scordare di tutto, acciocch'io non pensi ad altro che ad amarvi e darvi gusto. O mio Dio degno d'infinito amore, voi senza riserba mi avete amato, senza riserba voglio amarvi ancor io. V'amo, mio sommo bene, v'amo, mio amore, mio tutto. 16. In somma quanto noi possiamo avere di bene, di salute, di speranza, tutto l'abbiamo in Gesù Cristo e ne' suoi meriti, come disse S. Pietro: Et non est in alio aliquo salus; nec enim aliud nomen est sub caelo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV, 12). Sicché per noi non vi è speranza di salute che sovra i meriti di Gesù Cristo; dal che S. Tommaso con tutti i teologi concludono, che dopo la promulgazione del Vangelo noi dobbiam credere esplicitamente per necessità non solo di precetto ma anche di mezzo, che solamente per mezzo del nostro Redentore possiamo salvarci.17 17. Tutto il fondamento pertanto della nostra salute sta nella Redenzione umana dal Verbo divino operata sulla terra. Bisogna poi riflettere che quantunque le azioni di Gesù Cristo esercitate nel mondo, essendo azioni di una persona divina furono di un merito infinito, in modo che la minima di quelle bastava a soddisfare la divina giustizia per tutti i peccati degli uomini, nondimeno la morte di Gesù Cristo è stato il gran sagrificio col quale si è compiuta la nostra Redenzione; che perciò nelle sagre Scritture alla morte da lui sofferta in croce viene principalmente attribuita l'umana Redenzione: Humiliavit semetipsum factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Quindi scrisse l'Apostolo che noi nel prender la Santa Eucaristia dobbiam ricordarci della morte del Signore: Quotiescumque enim manducabitis panem hunc et calicem bibetis, mortem Domini annuntiabitis donec veniat (I Cor. XI, 26). Perché dice della morte e non dell'Incarnazione, della nascita, della risurrezione? Dice della morte, perché questa fu la pena di maggior dolore e maggiore obbrobrio di Gesù Cristo che compì la Redenzione. 18. Onde dicea poi S. Paolo: Non enim iudicavi me scire aliquid inter vos nisi Iesum Christum et hunc crucifixum (I Cor. II, 2). Ben sapeva l'Apostolo che Gesù Cristo era nato in una grotta, che avea per trent'anni abitato in una bottega, ch'era risorto e ch'era asceso al cielo; e perché scrive di non voler sapere altro che Gesù crocifisso? Perché la morte patita da Gesù Cristo in croce era quella che più lo moveva ad amarlo e l'induceva ad esercitar l'ubbidienza a Dio, la carità verso il prossimo e la pazienza nelle avversità, virtù specialmente praticate ed insegnate da Gesù Cristo nella cattedra della croce. Scrisse S. Tommaso l'Angelico (In c. 12. ad Hebr.): In quacumque tentatione invenitur in cruce praesidium: ibi est obedientia ad Deum, ibi caritas ad proximum, ibi patientia in adversis; unde Augustinus: Crux non solum fuit patibulum patientis sed etiam cathedra docentis.18 19. Anime divote, procuriamo intanto d'imitare la Sposa de' Cantici che diceva: Sub umbra illius quem desideraveram sedi (Cant. II, 3). Mettiamoci spesso dinanzi gli occhi, particolarmente ne' giorni di venerdì, Gesù moribondo sulla croce; e fermiamoci ivi con tenerezza a contemplare per qualche tempo i suoi dolori e l'affetto che avea per noi, mentre stava agonizzando su quel letto di dolore. Diciamo ancora noi: Sub umbra illius quem desideraveram sedi. Oh che dolce riposo trovano le anime amanti di Dio ne' tumulti di questo mondo e nelle tentazioni dell'inferno ed anche nei timori de' divini giudizi, in contemplare da solo a solo in silenzio il nostro amoroso Redentore, mentr'egli agonizzava sulla croce ed andava il suo divino sangue gocciolando da tutte le sue membra ferite già ed aperte da' flagelli, dalle spine e da' chiodi! Oh come a vista di Gesù crocifisso partonsi dalle nostre menti tutti i desideri di onori mondani, di ricchezze di terra e di piaceri di senso! Allora spira da quella croce un'aura celeste, che dolcemente ci distacca dagli oggetti terreni ed accende in noi una santa brama di patire e morire per amor di colui, che volle tanto patire e morire per amore di noi. 20. Oh Dio, se Gesù Cristo non fosse stato qual egli è Figlio di Dio e vero Dio, nostro Creatore e supremo Signore, ma un semplice uomo, a chi non farebbe compassione il vedere un giovine di sangue nobile, innocente e santo morire a forza di tormenti su d'un legno infame per pagare delitti non suoi, ma degli stessi suoi nemici, e così liberarli dalla morte loro dovuta? E come poi non si tirerà l'affetto di tutti i cuori un Dio che si vede morire in un mare di disprezzi e di dolori per amor delle sue creature? Come poi queste creature possono amare altra cosa fuori di Dio? come pensare ad altro che ad esser grate a questo loro così amante benefattore? Oh si scires mysterium crucis!19 disse S. Andrea al tiranno che voleva indurlo a rinnegar Gesù Cristo per esser Gesù stato crocifisso qual malfattore; oh se intendessi, tiranno, l'amore che ti ha portato Gesù Cristo in voler morire in croce per soddisfare i tuoi peccati ed ottenerti una felicità eterna, certamente non ti affaticheresti a persuadermi di rinnegarlo; ma tu stesso abbandoneresti quanto hai e speri su questa terra per compiacere e contentare un Dio che ti ha tanto amato. Ah che così han fatto già tanti santi e tanti martiri che han lasciato tutto per Gesù Cristo. O vergogna nostra! Quante tenere verginelle han rinunziate le nozze de' grandi, le ricchezze regali e tutte le delizie terrene, e volentieri han sagrificata la vita per render qualche ricompensa di affetto all'amore dimostrato loro da questo Dio crocifisso! 21. Ma come va poi che a molti Cristiani fa tanto poca impressione la Passione di Gesù Cristo? Ciò avviene, perché poco si fermano a considerare quanto patì Gesù Cristo per nostro amore. Ah mio Redentore, che tra questi ingrati sono stato ancor io! Voi avete sagrificata la vostra vita su d'una croce per non vedermi perduto, ed io tante volte ho voluto perdere voi, bene infinito, perdendo la vostra grazia! Ora il demonio colla memoria de' miei peccati vorrebbe farmi vedere troppo difficile il salvarmi, ma la vista di voi crocifisso, Gesù mio, mi assicura che non mi discaccerete dalla vostra faccia, s'io mi pento d'avervi offeso e voglio amarvi. Si che mi pento e voglio amarvi con tutto il cuore. Detesto quei maledetti piaceri che mi han fatta perdere la vostra grazia. Vi amo, o amabile infinito, e voglio sempre amarvi; e la memoria de' miei peccati mi servirà per più infiammarmi nell'amore di voi, che mi siete venuto appresso quando io vi fuggiva. No, che non voglio più separarmi da voi né lasciar di amarvi, o Gesù mio. O rifugio de' peccatori Maria, voi che tanto partecipaste dei dolori del vostro Figlio nella sua morte, pregatelo che mi perdoni e mi dia la grazia di amarlo. ____________________________ 1 «Ut autem tanti beneficii iugis in nobis maneret memoria, corpus suum in cibum et sanguinem suum in potum sub specie panis et vini sumendum fidelibus dereliquit.» S. THOMAS, Opusculum 57, Officium de festo Corporis Christi. 2 «Suavitatem denique huius sacramenti nullus exprimere sufficit, per quod spiritualis dulcedo in suo fonte fustatur, et recolitur memoria illius, quam in sua Passione Christus monstravit, excellentissimae caritatis.» Ibid. 3 «Nihil enim tam salutiferum nobis est, quam quotidie cogitare quanta pro nobis pertulit Deus et homo.» Inter Opera S. Augustini, Sermones (non genuini) ad fratres in eremo, sermo 32. ML 401293. 4 Questo santo anacoreta, è lo stesso che il divoto solitario, di cui il santo parla antecedentemente nell' Amore delle anime, (pag. 12, nota 4). 5 «Intellexit etiam (Beata Gertrudis) quod, quoties quis devota intentione inspicit imaginem Christi crucifixi, toties respicitur amanter a Dei benignissima misericordia.» Lud. BLOSIUS, Conclave animae fidelis, pars 2 (Monile spirituale) , cap. 2, n. 4. - Delle Rivelazioni di S. Geltrude, cita il Blosio il cap. 45 del lib. 4; questa deve essere stata una distrazione del pio e dotto autore, ritrovandosi la sentenza riferita da lui assai più distintamente espressa nel capitolo 41 del lib. 3: «Cum tractaret imaginem crucifixi Christi cum devota intentione, intellexit quod si quis inspicit imaginem crucis Christi cum devota intentione, ille tam benigna misericordia respicitur a Domino, quod anima ipsius tamquam lucidissimum speculum suscipit in se ex divino amore valde delectabilem imaginem, unde tota caelestis curia dlectatur in eo. Et hoc erit illi gloria aetrna in futuro, quotiescumque fecerit in terris cum affectu et debita devotione. - Alia etiam vice hanc percepit instructionem, quod cum homo dirigit se ad Crucifixum, aestimet in corde suo Dominum Iesum blanda sibi voce dicentem: «Ecce quomodo causa tui amoris pependi in cruce nudus et despectus, et toto corpore vulneratus necnon per singula membra distentus. Et iam tali dulcore caritatis afficitur cor meum erga te, quod si saluti tuae expediret et aliter salvari non posses, iam pro te solo vellem omnia tolerare, quae umquam aestimare posses me tolerasse pro toto mundo.» Unde per talem meditationem excitet homo cor suum ad gratitudinem, quia veraciter numquam sine gratia Dei contingit aliquem Crucifixum videre. Ergo sine culpa esse non potest quod christianus tam sumptuosum salutis suae pretium quasi ingratus vilipendit, quia numquam est sine fructu, quod quis cum intentione inspicit Crucifixum.» S. GERTRUDIS MAGNA, Legatus divinae pietatis, lib. 3, cap. 41. 6 «Utiles sunt quaevis orationes, hymnodiae, gratiarum actiones et meditationes sanctae: utilissimam autem et unice necessariam, humanitatis Christi, et maxime sacratissimae Passionis eius memoriam, omnes asserunt; idque merito.» Lud. BLOSIUS, Instructio vitae asceticae, pars 1 (Speculum monachorum), divisio 4, n. 1. - «Places sane Deo, quando ad honorem eius immoraris bonis cogitationibus ac desideriis. Quotiescumque aliquid pie meditaris aut legis de vita seu Passione Domini Iesu, sanctificaris inde, et ingentem fructum reportas, etiamsi parvo admodum affectu et sine ullo sapore sensibili mediteris ac legas.» IDEM, Sacellum animae fidelis, pars 3 (Dicta Patrum vere aurea), cap. 21, n. 1. - Anche qui il divoto Blosio si fa l' eco di S. Gelrude, a lui tanto familiare. La Santa, infatti, dopo le parole riferite nella nota precedente, soggiunge: «Item alia vice circa Passionem Dominicam mentem gerens occupatam, intellexit quod quando aliquis ruminat orationes vel lectiones de Dominica Passione, infinitum (al. in infinitum) maioris esse virtutis quam de ceteris exercitiis. Quia sicut impossibile est aliquem tractare farinam, et inde pulverem non contrahere; sic esse non potest ut aliquis cum devotione etiam parva Dominicae intendat Passioni, et nullum inde percipiat fructum. Et etiam cum aliquis legit aliquid de Passione, ad minus habilitat animam ad suscipiendum fructum, in tantum quod magis fructuosa est intentio talis hominis qui frequentat memoriam Passionis Christi, quam plures intentiones alterius cui nulla est cura de Dominica Passione. Ergo studeamus frequentius aliqua de Christi Passione ruminare, ut ipsa efficiatur nobis mel in ore, melos in aure, iubilus in corde.» S. GERTRUDIS MAGNA, Legatus divinae pietatis, lib. 3, cap. 41. 7 «O Passio mirabilis, quae suum meditatorem alienat, et non solum reddit angelicum, sed divinum.» Stimulus amoris, pars 1, cap. 1. Inter Opera S. Bonaventurae, VII, Lugduni, 1668, post editiones Vaticanam et Germanicam. - Vedi Appendice, 2, 5°. 8 «O vulnera corda saxea vulneratia, et mentes congelatas infiammantia, et pectora admantina liquefacientia prae amore!» La stessa opera, l. c. 9 «Bernardo, non cercare altro libro, ma ti basti quello delle mie Piaghe ché da esso apprenderai dottrina più profittevole che da qual altro si sia.» GABRIELE DA MODIGLIANA, Vita, lib. 1, cap. 12. 10 «(Devicta ingenti desperationis tentatione, et monstrata sibi pro solatio corona aeterna,) invalescente novis auctibus extasi, oculos primum in caelos figit, mox eosdem anxie varias in partes circumferens, librum suum ingeminat: «Cedo librum meum, date librum, inquiens, quis eum eripuit mihi? Reddatur quantocius. O librum, qui bona omnia mea contines! quaerite illum, Fratres: non enim sine eo diutius vitam trahere possum.» Ad ea anxii Fratres alius alium codicem porrigere: sed frustra: respuente eo quoscumque oblatos... Demum.... a Fratre Ubaldo Adimario, cuius in gremio acquiescebat, intellectus est. Itaque porrigi iubet effigiem Christi e cruce pendentis eburneam, quam vir sanctus manu semper gestare consueverat, et in qua fixo obtutu haerere eum Adimarius animadverterat. Eam.... Philippus pectori apprimit, et... suaviter exosculatus: «Hic est liber meus, inquit, hic est in quo ego innumera beneficia scripta lego Redemptoris mei...» Tum deinde legere ac relegere omnia illa beneficia, et peculiaria praesertim per omnem vitam accepta, et meditari varia vivificae Passionis mysteria institit, ac paulo post, gaudio spiritus velut triumphante, Canticum Benedictus Dominus Deus Israel totum recitavit. Atque hic iam tandem ad ultimam lineam perventum est. Eius minime ignarus... pressa ac debili voce Psalmum 30, In te Domine speravi, pronuntiat, haerensque ad ultimum eius versum, vibratis in Christi crucifixi imaginem oculis, novissimis verbis tacito exsultantis animi iubilo, sibili aurae lenis quam simillimis, dixit: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. Atque in ea voce.... deficiens caelestem animam caelo reddidit.» Cherubinus Maria DALAEUS, Hibernus, Vita, cap. 17 (al. lib. 2, cap. 16), n. 237, 238, inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 23 augusti. 11 «Quid est quod sic turbaris, Herodes? Quoniam natum regem Iudaeorum audisti, turbaris, suspicionibus agitaris, invidiae stimulis infiammaris, et ob hoc natum regem occidere conaris. Inanis est ista turbatio tua, et vana prorsus cogitatio tua. Rex iste qui natus est non venit reges pugnando superare, sed moriendo mirabiliter subiugare... Venit enim, non ut pugnet vivus, sed ut triumphet occisus.» S. FULGENTIUS, Episcopus Ruspensis, De Epiphania, deque Innocentium caede et muneribus Magorum, sermo 4, n. 5. ML 65-734. 12 Suscipietque (Aaron) ab universa multitudine filiorum Israel duos hircos pro peccato, et unum arietem in holocaustum. Cumque obtulerit vitulum, et oraverit pro se et pro domo sua, duos hircos stare faciet coram Domino in ostio tabernaculi testimonii; mittensque super utrumque sortem, unam Domino, et alteram capro emissario; cuius exierit sors Domino, offeret illum pro peccato; cuius autem in caprum emissarium, statuet eum vivum coram Domino, ut fundat preces super eo, et emittat eum in solitudinem. Lev. XVI, 5-10. 13 «Quoniam oblatus est pro peccatis, non immerito peccatum factus dicitur; quia et hostia, in Lege, quae pro peccatis offerebatur, peccatum nuncupabatur.» Commentaria (di autore antico sì, ma incerto, e di dottrina non del tutto sicura) in Epist. II. ad Cor., V, 21 (non già 22, come stampò per errore il Migne; col verso 21 si conchiude il capitolo). Inter Opera S. Ambrosii (a cui, fino ad Erasmo, furono attribuiti questi Commentarii), ML 17-298. 14 «Appellatur nunc Christus peccatum, quia pro peccato est oblatus.» Ven. HERVEI Burgidolensis Commentaria (dai primi editori, attribuiti a S. Anselmo) in Epistolas D. Pauli, in II Cor. V, 21. ML 181-1051. 15 12. Circumveniamus ergo iustum, quoniam inutilis est nobis, et contrarius est operibus nostris, et improperat nobis peccata legis, et diffamat in nos peccata disciplinae nostrae. 13. Promittit se scientiam Dei habere, et filium Dei se nominat. 14. Factus est nobis in traductionem cogitationum nostrarum. 15. Gravis est nobis etiam ad videndum, quoniam dissimilis est aliis vita illius, et immutatae sunt viae eius. 16. Tamquam nugaces aestimati sumus ab illo, et abstinet se a viis nostris, tamquam ab immunditiis, et praefert novissima iustorum, et gloriatur patrem se habere Deum. 17. Videamus ergo si sermones illius veri sint, et tentemus quae ventura sunt illi, et sciemus quae erunt novissima illius. 18. Si enim est verus filius Dei, suscipiet illum, et liberabit eum de manibus contrariorum. 19. Contumelia et tormento interrogemus eum, ut sciamus reverentiam eius, et probemus patientiam illius. 20. Morte turpissima condemnemus eum: erit enim ei respectus ex sermonibus illius. Sap. II, 12-20. 16 TERTULLIANUS, Adversus Marcio nem, lib. 3, cap. 22, versus medium. ML 4-708. - S. CYPRIANUS, Testimoniorum libri tres adversus Iudaeos, lib. 2, cap. 14. - S. HIERONYMUS, Commentarii in Isaiam, lib. 2, (in Is. III, 1). ML 24-57. - S. AUGUSTINUS, De civitate Dei, lib. 17, cap. 20: ML 41-554; Contra Faustum Manichaeum, lib. 12, cap. 44: ML 42-278. - CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata, lib. 5, cap. 14: MG 9-163. - S. CYRILLUS ALEXANDRINUS, In Isaiam (LIX, 4, 5): MG 70-1307. - Ed altri. 17 «Dicitur... (Act. IV, 12): Non est aliud nomen datum hominibus in quo oporteat nos salvos fieri. Et ideo mysterium Incarnationis Christi aliqualiter oportuit omni tempore esse creditum apud omnes... Post tempus autem gratiae revelatae, tam maiores quam minores tenentur habere fidem explicitam de mysteriis Christi.» S. THOMAS, Sum. Theol., II-II, qu. 2, art. 7, c. 18 «In quacumque tribulatione, invenitur eius remedium in cruce. Ibi enim est obedientia ad Deum: Humiliavit semetipsum factus obediens. Item pietatis affectus ad parentes: unde ibi gessit curam de matre sua. Item caritas ad proximum: unde ibi pro transgressoribus oravit....Item fuit ibi patientia in adversis.... Item in omnibus finalis perseverantia; unde usque ad mortem perseveravit: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Unde in cruce invenitur exemplum omnis virtutis. Augustinus: Crux non solum fuit patibulum patientis, sed etiam cathedra docentis.» S. THOMAS, In Epistolam ad Hebraeos, cap. 12, lectio 1. - «Crux illa, schola erat. Ibi docuit Magister latronem. Lignum pendentis, cathedra factum est docentis.» S. AUGUSTINUS, Sermo 234, n. 2. ML 381116. 19 «O si velles scire mysterium crucis!» Presbyterorum et diaconorum Achaiae Epistola de martyrio S. Andreae, MG 2-1122. CAPO II - Riflessioni sulle pene particolari che patì Gesù Cristo nella sua Passione.1 1. Veniamo a considerare le pene particolari che patì Gesù Cristo nella sua Passione, e che già prima da più secoli furon predette da' profeti, e specialmente da Isaia nel capo 53. Questo profeta, come dicono S. Ireneo, S. Giustino, S. Cipriano ed altri,2 parlò così distintamente delle pene del nostro Redentore, che parve essere un altro Vangelista; onde disse poi S. Agostino che le parole d'Isaia spettanti alla Passione di Gesù Cristo han bisogno più delle nostre meditazioni e lagrime che di spiegazione de' sagri interpreti;3 a ed Ugone Grozio (De vera rel. Christ. 1. 5. §. 19) scrive, che gli stessi Ebrei antichi non poteron negare che Isaia parlasse - precisamente nel capo 53 - del Messia da Dio promesso.4 Alcuni han voluto applicare i passi d'Isaia ad altri personaggi nominati nella Scrittura fuori di Gesù Cristo, ma dice Grozio: Quis potest nominari aut regum aut prophetarum in quem haec congruant? Nemo sane.5 Così scrive quest'autore, quantunque più volte abbia egli cercato di stravolgere in persona di altri le profezie che parlano del Messia. 2. Scrive Isaia: Quis credidit auditui nostro? et brachium Domini cui revelatum est? (LIII, 1). Ciò ben si avverò, come dice S. Giovanni, allorché gli Ebrei, non ostante che avessero veduti tanti miracoli operati da Gesù Cristo, che ben lo dimostravano vero Messia mandato da Dio, non vollero crederlo. Cum autem tanta signa fecisset coram eis, non credebant in eum; ut sermo Isaiae prophetae impleretur quem dixit: Domine, quis credidit auditui nostro? et brachium Domini cui revelatum est? (Io. XII, 37 et 38). Chi presterà fede, diceva Isaia, a quanto è stato da noi udito? e chi ha conosciuto il braccio, cioè la potenza del Signore? Colle quali parole predisse Isaia l'ostinazione de' Giudei in non voler credere in Gesù Cristo qual lor Redentore. Figuravansi essi che quel Messia dovea fare su questa terra una gran pompa fra gli uomini della sua grandezza e potenza e, trionfando di tutti i suoi nemici, così riempire di ricchezze e di onori il popolo giudeo; ma no: il profeta soggiunse alle parole riferite di sopra: Ascendet sicut virgultum coram eo, et Sicut radix de terra sitienti (Is. LIII, 2). Pensavano i Giudei che il Salvatore dovea comparire qual superbo cedro del Libano; ma Isaia predisse che sarebbesi fatto vedere come un umile arboscello, o qual radice ch'esce da una terra arida, spogliata d'ogni bellezza e splendore: Non est species ei, neque decor (Ibid.). 3. Siegue indi Isaia a descrivere la Passione del Signore: Et vidimus eum et non erat aspectus, et desideravimus eum (Ibid.). Noi, avendolo mirato, abbiam desiderato di riconoscerlo, ma non abbiam potuto; poiché altro non abbiam ravvisato che un uomo il più disprezzato e vile della terra ed un uomo di dolori: Despectum et novissimum virorum, virum dolorum... unde nec reputavimus eum (Ibid., 3). Adamo, per la superbia in non voler ubbidire al divino precetto, recò la ruina a tutti gli uomini; perciò il Redentore colla sua umiltà volle dar rimedio a tal male, contentandosi di esser trattato come l'ultimo e 'l più abbietto tra gli uomini: novissimum virorum, viene a dire, col ridursi all'estrema bassezza. Quindi esclamò S. Bernardo: O novissimum et altissimum! o humilem et sublimem! o opprobrium hominum et gloriam angelorum! Nemo illo sublimior, nemo humilior (Serm. 37)6 Se dunque, soggiunge poi il santo, il Signore più alto di tutti si è renduto il più basso di tutti, ognuno di noi deve ambire di esser posposto a tutti, e temere di esser preferito ad alcuno: Desiderabis abiici omnibus; et reformidabis praeferri etiam minimo.7 Ma io, Gesù mio, temo d'esser posposto ad alcuno e vorrei esser preferito a tutti! Signore, datemi umiltà. Voi, Gesù mio, con tanto amore abbracciate i disprezzi per insegnarmi ad esser umile, ad amar la vita nascosta ed abbietta; ed io voglio essere stimato da tutti e comparire in tutto? Deh Gesù mio, datemi il vostro amore; egli mi renderà simile a voi. Non mi lasciate vivere più ingrato all'amore che mi avete portato. Voi siete onnipotente, fatemi umile, fatemi santo, fatemi tutto vostro. 4. Virum dolorum, chiamollo anche Isaia, l'uomo de' dolori. A Gesù crocifisso ben gli sta applicato il testo di Geremia: Magna est enim velut mare contritio tua (Thren. II, 13). Come nel mare vanno a scorrere tutte le acque de' fiumi, così in Gesù Cristo si unirono ad affliggerlo tutti i dolori degli infermi, tutte le penitenze degli anacoreti e tutti gli strazi e vilipendi sofferti da' martiri. Fu egli colmato di dolori nell'anima e nel corpo: Et omnes fluctus tuos induxisti super me (Ps. LXXXVII, 8). Padre mio, diceva il nostro Redentore per bocca di Davide, mandaste sovra di me tutte le onde del vostro sdegno; e quindi disse in morte che moriva sommerso in un mar di dolori e d'ignominie: Veni in altitudinem maris et tempestas demersit me (Ps. LXVIII, 3). Scrisse l'Apostolo, che Iddio mandando il Figlio a pagar col suo sangue la pena delle nostre colpe, volle in ciò dimostrare quanto fosse grande la sua giustizia: Quem proposuit Deus propitiationem per fidem in sanguine ipsius ad ostensionem iustitiae suae (Rom. III, 25). Notate, ad ostensionem iustitiae suae. 5. Per far concetto di quanto patì Gesù Cristo nella sua vita e specialmente poi nella sua morte, bisogna considerare quel che dice il medesimo apostolo nella sua lettera a' Romani: Deus Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati, et de peccato damnavit peccatum in carne (Rom. VIII, 3). Gesù Cristo, mandato dal Padre a redimere l'uomo, vestì la carne infetta del peccato di Adamo, e quantunque non avesse contratta la macchia del peccato, nondimeno si addossò le miserie contratte dalla natura umana in pena del peccato, e si offerì all'Eterno Padre a soddisfare colle sue pene la divina giustizia per tutte le colpe degli uomini: Oblatus est quia ipse voluit; e 'l Padre, come scrive Isaia, Posuit... in eo iniquitatem omnium nostrum (Is. LIII, 6). Ecco Gesù pertanto carico di tutte le bestemmie, di tutti i sagrilegi, laidezze, furti, crudeltà e di tutte le sceleraggini che han commesse e commetteranno gli uomini. Eccolo in somma fatto l'oggetto di tutte le maledizioni divine meritate da tutti gli uomini per le loro colpe: Christus nos redemit de maledicto legis, factus pro nobis maledictum (Gal. III, 13). Quindi scrisse S. Tommaso che il dolore cosi interno come esterno di Gesù Cristo superò tutti i dolori che possono patirsi in questa vita: Uterque autem dolor in Christo fuit maximus inter dolores praesentis vitae (S. Thom. III p. q. 46, a. 6).8 6. In quanto al dolore esterno del corpo, basta sapere che a Gesù Cristo fu dal Padre adattato un corpo fatto a posta per patire, ond'egli disse: Corpus... aptasti mihi (Hebr. X, 5). Riflette S. Tommaso che nostro Signore patì dolori e tormenti in tutti i suoi sensi: patì nel tatto, poiché gli furon lacerate tutte le carni: patì nel gusto col fiele ed aceto: patì nell'udito col sentir le bestemmie e le derisioni che gli dissero: patì nella vista col guardar la sua Madre che l'assisté nella sua morte.9 Patì poi in tutti i suoi membri: il capo gli fu tormentato dalle spine, le mani e' piedi da' chiodi, la faccia dagli schiaffi e sputi, e tutto il corpo da' flagelli,10 nel modo appunto che predisse già Isaia, cioè che il Redentore dovea comparire nella sua Passione come un lebbroso, che non ha parte di carne sana e mette orrore a chi lo guarda, in vedere un uomo tutto piaghe da capo a piedi. Basta dire che Pilato con tal vista di Gesù flagellato sperò di ottener da' Giudei di poterlo esimere dalla morte, quando lo dimostrò al popolo dalla loggia, dicendo: Ecce Homo. Dice S. Isidoro che gli altri uomini, quando il dolore è grande e dura, per la stessa grandezza del dolore essi perdono il senso del dolore: Prae doloris magnitudine sensum doloris amittunt.11 Ma in Gesù Cristo non fu così; gli ultimi dolori furono parimente aspri come i primi, ed i primi colpi de' flagelli furon tanto dolorosi quanto gli ultimi; sì, perché la Passione del nostro Redentore non fu opera degli uomini, ma della giustizia di Dio che volle castigare il Figlio con tutto il rigore, che meritavano i peccati di tutti gli uomini. Sicché, Gesù mio, voi colla vostra Passione avete voluto prendervi la pena a me dovuta per li miei peccati! Dunque se io meno vi avessi offeso, meno voi avreste patito nella vostra morte. Ed io, ciò conoscendo, potrò vivere da oggi avanti senza amarvi e senza pianger sempre le offese che vi ho fatte? Gesù mio, mi pento di avervi disprezzato, e v'amo sovra ogni cosa. Deh non mi disprezzate voi, accettatemi ad amarvi, mentre ora io v'amo e non voglio amare altro che voi. Troppo ingrato vi sarei se, dopo tante misericordie che mi avete usate, amassi in avvenire altra cosa fuori di voi. 7. Ecco come tutto fu prenunziato da Isaia: Et nos putavimus eum quasi leprosum, et percussum a Deo, et humiliatum. Ipse autem vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra: disciplina pacis nostrae super eum et livore eius sanati sumus. Omnes nos quasi oves erravimus, unusquisque in viam suam declinavit; et posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum (Is. LIII, 4 ad 6). E Gesù, pieno di carità, volentieri si offerì senza replica ad eseguir la volontà del Padre che volea vederlo straziato da' carnefici a loro voglia: Oblatus est quia ipse voluit, et non aperuit os suum, et quasi agnus coram tondente se obmutuit (Ibid. 7).12 Come un agnello che si fa tosar la lana senza lamentarsi, così l'amoroso nostro Salvatore, nella sua Passione, si fe' tosare, non già la lana ma la pelle, senza aprir la bocca. Qual obbligo aveva egli mai di soddisfare per li nostri peccati? Ma volle da sé caricarsene per liberarci dalla dannazione eterna; onde ciascun di noi dee ringraziarlo e dirgli: Tu autem eruisti animam meam ut non periret: proiecisti post tergum tuum omnia peccata mea (Is. XXXVIII, 17). 8. E così, fattosi Gesù volontario debitore per sua bontà di tutti i nostri debiti, volle tutto per noi sagrificarsi sino a dar la vita tra i dolori della croce, com'egli stesso l'espresse per S. Giovanni: Ego pono animam meam... nemo tollit eam a me, sed ego pono eam a meipso (Io. X, 17 et 18). 9. S. Ambrogio parlando della Passione di nostro Signore, scrisse che Gesù Cristo ne' dolori che per noi patì: Aemulos habet, pares non habet (S. Ambr. in Luc.).13 Han cercato i santi d'imitar Gesù Cristo nel patire per rendersi a lui somiglianti; ma chi mai di loro è giunto ad eguagliarlo ne' suoi patimenti? Egli certamente patì per noi più che non han patito tutti i penitenti, tutti gli anacoreti e tutti i martiri: poiché Dio gli addossò il peso di soddisfare a rigore la sua divina giustizia, per tutti i peccati degli uomini: Et posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum (Is. LIII, 6). E come scrisse San Pietro, Gesù portò sulla croce tutte le nostre colpe, per pagarne la pena nel suo sagrosanto corpo: Peccata nostra ipse pertulit in corpore suo super lignum (I Petr. II, 24). Scrive S. Tommaso che Gesù Cristo nel redimerci non solo attese alla virtù e merito infinito che aveano i suoi dolori, ma volle soffrir un dolore che bastasse a soddisfar pienamente ed a rigore per tutti i peccati del genere umano: Non solum attendit quantam virtutem dolor eius haberet, sed etiam quantum dolor eius sufficeret secundum humanam naturam ad tantam satisfactionem (S. Thom., III p. q. 46, a. 6, ad 6).14 E S. Bonaventura scrisse: Tantum voluit doloris sufferre, quantum si ipse omnia peccata fecisset.15 Dio stesso tanto seppe aggravar le pene di Gesù Cristo ch'elle fossero proporzionate all'intiero pagamento di tutti i nostri debiti; e con ciò avverossi quel che scrisse Isaia nel citato cap. 53, v. 10, che Iddio volle stritolare il suo Figlio coi dolori per la salute del mondo: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate. 10. Per quel che si legge nelle vite de' santi martiri, sembra che alcuni di loro han sofferti dolori più acerbi di Gesù Cristo; ma dice S. Bonaventura che i dolori di niun martire poteron mai eguagliare nella vivacità i dolori del nostro Salvatore, i quali furon più acuti di ogni dolore: Nullus potuit ei aequari vivacitate sensus; dolor illius fuit omnium dolorum acutissimus (S. Bon. de Pass. Christi).16 Similmente scrisse S. Tommaso che il dolore di Cristo fu il dolore più grande che può patirsi di senso nella vita: Dolor Christi sensibilis fuit maximus inter dolores praesentis vitae (III p. q. 46, a. 6).17 Quindi scrisse S. Lorenzo Giustiani (De agon. Chri.) che nostro Signore in ciascun tormento che soffrì per ragion dell'acerbità e dell'intension del dolore venne a soffrire tutti i cruci de' martiri: In singulis tormentis singula martyrum sustinebat supplicia.18 E tutto ciò ben lo predisse in brevi parole il re Davide allorché, parlando in persona di Cristo, scrisse: Super me confirmatus est furor tuus... In me transierunt irae tuae (Ps. LXXXVII, 8 et 17). Sicché tutta l'ira divina. conceputa contra i nostri peccati, andò a scaricarsi sulla persona di Gesù Cristo, e così s'intende quello che di lui dice l'Apostolo: Factus pro nobis maledictum (Galat. III, 13). Gesù diventò la maledizione - come scrive il testo greco, - cioè l'oggetto di tutte le maledizioni meritate da noi peccatori. 11. E sinora non abbiam parlato, se non del solo dolore esterno del corpo di Gesù Cristo, ma chi potrà mai spiegare e comprendere il suo dolore interno dell'anima, che superò mille volte l'esterno? Questa pena interna fu tale che nell'orto di Getsemani gli fe' versare sudore di sangue da tutto il corpo e gli fe' dire che quella bastava a dargli morte: Tristis est anima mea usque ad mortem (Matth. XXVI, 38). E giacche quella mestizia bastava a farlo morire, perché non morì? Risponde S. Tommaso che non morì perché egli stesso impedì la sua morte, volendo conservarsi la vita per darla poi tra poco sul patibolo della croce.19 Quella mestizia poi nell'orto afflisse più sensibilmente Gesù Cristo, del resto egli la patì in tutta la sua vita, giacché sin dal principio che cominciò a vivere, ebbe sempre davanti gli occhi le cause del suo interno dolore: tra le quali cause la più tormentosa gli fu il vedere l'ingratitudine degli uomini all'amore che loro dimostrava nella sua Passione. 12. Quantunque poi nell'orto venne un angelo a confortarlo, come scrive S. Luca: Apparuit autem illi angelus de caelo confortans eum (Luc. XXII, 43); scrive nondimeno il Ven. Beda che questo conforto in vece di alleggerirgli la pena gliel'accrebbe: Confortatio dolorem non minuit, sed auxit.20 Poiché l'angelo lo confortò a patire con più costanza per la salute dell'uomo; onde soggiunge Beda che allora Gesù fu confortato a patire col rappresentarglisi la grandezza del frutto della sua Passione, senza diminuirsi punto la grandezza del dolore: Confortatus est ex fructus magnitudine, non subtracta doloris magnitudine. Quindi immediatamente dopo l'apparizione dell'angelo, scrive il Vangelista, che Gesù Cristo fu posto in agonia e sudò sangue in abbondanza sino a bagnarne la terra: Et factus in agonia prolixius orabat; et factus est sudor eius sicut guttae sanguinis decurrentis in terram (Luc. XXII, 43 et 44). 13. Scrive di più S. Bonaventura, che il dolore di Gesù giunse al sommo: dolor fuit in summo;21 in modo che l'afflitto Signore, nel vedere la pena che dovea patire in quello estremo della sua vita, n'ebbe tale spavento che pregò il divin suo Padre che ne lo liberasse: Pater mi, si possibile est transeat a me calix iste (Matth. XXVI, 39). Ma ciò lo disse non già per esser liberato da tal pena, mentr'egli già si era offerto da sé a soffrirla, - oblatus est quia ipse voluit (Is. LIII, 7), - ma per far intendere a noi l'angoscia che provava nel sottoporsi a quella morte così amara, secondo il senso; ma secondo la ragione egli, così per secondare la volontà del Padre come per ottenere a noi la salute che tanto desiderava, subito soggiunse: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu; e seguitò a così pregare e rassegnarsi per tre ore: Et oravit tertio eumdem sermonem dicens (Matth. XXVI, 39 et 44). 14. Ma seguitiamo le predizioni d'Isaia. - Egli predisse gli schiaffi, i pugni, gli sputi ed altri maltrattamenti che patì Gesù Cristo nella notte precedente alla sua morte, per mano de' manigoldi che lo tennero carcerato nel palagio di Caifas per condurlo nella seguente mattina a Pilato e farlo condannare alla croce: Corpus meum dedi percutientibus et genas meas vellentibus, faciem meam non averti ab increpantibus et conspuentibus in me (Is. L, 6). Questi maltrattamenti poi furono descritti da S. Marco, il quale aggiunge che quei ministri, trattando Gesù da falso profeta, affin di schernirlo, gli copriron la faccia con un panno e poi, percotendolo con pugni e schiaffi, l'importunavano a profetizzare chi di essi l'avesse percosso: Et coeperunt quidam conspuere eum et velare faciem eius et colaphis eum caedere et dicere ei: Prophetiza; et ministri alapis eum caedebant (Marc. XIV, 65). 15. Siegue Isaia e parla della morte di Gesù Cristo: Sicut ovis ad occisionem ducetur (cap. LIII, vers. 7). L'eunuco della regina Candace, come si legge negli Atti degli Apostoli (cap. VIII, v. 32), leggendo ciò dimandò a S. Filippo ch'era venuto ad associarlo per divina ispirazione, di chi s'intendessero quelle parole, e 'l santo gli spiegò tutto il misterio della Redenzione operato da Gesù Cristo: onde l'eunuco, illuminato allora da Dio, volle subito esser battezzato. - Siegue indi Isaia a predire il gran frutto che dovea recare al mondo la morte del Salvatore, e che da quella dovean nascere spiritualmente molti santi: Si posuerit pro peccato animam suam, videbit semen longaevum,... in scientia sua iustificabit ipse iustus servus meus multos (Is. LIII, 10 et 11). 16. Davide poi predisse altre circostanze più particolari della Passione di Gesù Cristo; specialmente nel salmo 21 predisse ch'ei doveva essere trafitto da' chiodi nelle mani e ne' piedi, in modo che gli si avrebbon potute numerare tutte le ossa: Foderunt manus meas et pedes meos, dinumeraverunt omnia ossa mea (vers. 17 et 18). Predisse che prima d'esser crocifisso, gli sarebbero state tolte le vesti e divise tra' carnefici: parlando delle vesti esteriori, perché l'interiore ch'era inconsutile, doveva esser posta alla sorte: Diviserunt sibi vestimenta mea et super vestem meam miserunt sortem (vers. 19). Questa profezia sta poi rammemorata da S. Matteo c. XXVII, v. 35, e da S. Giovanni c. XIX, v. 23. In oltre quel che scrisse S. Matteo delle bestemmie e delle derisioni de' Giudei contra Gesù Cristo mentre stava in croce: Praetereuntes autem blasphemabant eum moventes capita sua et dicentes: Vah qui destruis templum Dei et in triduo illud reaedificas, salva temetipsum: si filius Dei es, descende de cruce. Similiter et principes sacerdotum illudentes cum scribis et senioribus dicebant: Alios salvos fecit, seipsum non potest salvum facere; si rex Israel est, descendat nunc de cruce et credimus ei. Confidit in Deo, liberet nunc si vult eum, dixit enim: Quia filius Dei sum (Matth. XXVII, 39 ad 43). Questo che scrisse S. Matteo, quasi tutto in accorcio fu predetto da Davide con quelle parole: Omnes videntes me deriserunt me, locuti sunt labiis et moverunt caput: speravit in Domino, eripiat eum: salvum faciat eum, quoniam vult eum (Ps. XXI, 8 et 9). 17. Predisse ancora Davide la gran pena che dovea patire Gesù nella croce in vedersi abbandonato da tutti ed anche da' suoi discepoli, fuori di S. Giovanni e della SS. Vergine; ma questa amata Madre colla sua assistenza non diminuiva la pena del Figlio, ma più l'accresceva per la compassione ch'egli ne avea in vederla così afflitta per la sua morte. Sicché il povero Signore nelle angosce della sua amara morte non ebbe chi lo consolasse; e ciò ben fu profetizzato da Davide: Et sustinui qui simul contristaretur et non fuit; et qui consolaretur et non inveni (Ps. LXVIII, 21). Ma la pena maggiore dell'amitto nostro Redentore fu quella di vedersi abbandonato anche dall'eterno suo Padre, onde esclamò, secondo predisse Davide: Deus, Deus meus, respice in me, quare me dereliquisti? longe a salute mea verba delictorum meorum (Ps. XXI, 2). Come dicesse: Padre mio, i peccati degli uomini - che chiamo miei, perché di essi mi son caricato -impediscono di liberarmi da questi dolori che mi stanno togliendo la vita, e voi, mio Dio, in tanti miei affanni perché mi avete abbandonato? Quare me dereliquisti? A queste parole di Davide corrispondono quelle che scrive S. Matteo dette da Gesù stando in croce poco prima della sua morte: Eli, Eli, lamma sabacthani? hoc est: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (Matth. XXVII, 46). 18. Da tutto ciò ben si raccoglie, quanto ingiustamente ricusano i Giudei di riconoscere Gesù Cristo come loro Messia e Salvatore, per esser egli morto con una morte così obbrobriosa. Ma non si accorgono che se Gesù Cristo in vece di morir da reo in croce fosse morto con una morte onorata e gloriosa presso gli uomini, non sarebbe già quel Messia promesso da Dio e predetto dai profeti, i quali da tanti secoli prima avean prenunziato che il nostro Redentore dovea morire sazio di vituperi? Dabit percutienti se maxillam, satiabitur opprobriis (Thren. III, 30). Tutte queste umiliazioni e tutti i patimenti di Gesù Cristo già predetti da' profeti non furon conosciuti neppure da' suoi discepoli, se non dopo la sua risurrezione ed ascensione in cielo: Haec non cognoverunt discipuli eius primum: sed quando glorificatus est Iesus, tunc recordati sunt, quia haec erant scripta de eo et haec fecerunt ei (Io. XII, 16). 19. In somma colla Passione di Gesù Cristo sofferta con tanti dolori e con tante ignominie si avverò quel che scrisse Davide: Iustitia et pax osculatae sunt (Ps. LXXXIV, 11). Si baciarono insieme la giustizia e la pace; poiché per li meriti di Gesù Cristo gli uomini ottennero la pace con Dio, ed all'incontro, colla morte del Redentore, restò soprabbondantemente soddisfatta la divina giustizia. Si dice soprabbondantemente, perché a redimerci non era già necessario che Gesù Cristo soffrisse tanti patimenti e tanti obbrobri, bastava -come si disse -una sola sua goccia di sangue, una semplice sua preghiera a salvare tutto il mondo; ma egli, per accrescere le nostre speranze e per maggiormente infiammarci del suo amore, volle che la nostra Redenzione fosse non solo bastante, ma anche soprabbondante, come predisse Davide: Speret Israel in Domino, quia apud Dominum misericordia et copiosa apud eum redemptio (Ps. CXXIX, 6 et 7). 20. E ciò ben anche fu dichiarato da Giobbe, allorché parlando in persona di Cristo disse: Utinam appenderentur peccata mea... et calamitas quam patior in statera! quasi arena maris haec gravior appareret (Iob VI, 2, 3). Qui Gesù anche per bocca di Giobbe chiamò suoi i peccati nostri, mentr'egli erasi obbligato a soddisfare per noi affin di render nostra la giustizia sua. Delicta nostra, scrisse S. Agostino, Christus sua delicta fecit ut iustitiam suam nostram iustitiam faceret (S. Aug. in Ps. XXI).22 Onde poi la glossa sul testo citato di Giobbe così commentò: In statera divinae iustitiae Passio Christi praeponderat peccatis humanae naturae.23 Tutte le vite degli uomini non bastavano già a soddisfare per un solo peccato, ma le pene di Gesù Cristo han pagato per tutte le nostre colpe: Ipse est propitiatio pro peccatis nostris (I Io. II, 2). Quindi S. Lorenzo Giustiniani fa coraggio ad ogni peccatore di vero cuore pentito a sperare certamente il perdono per li meriti di Gesù Cristo, dicendogli: In Christi patientis afflictionibus tua metire delicta.24 Volendo dire con ciò: Peccatore, non misurare già le tue colpe colla tua contrizione, perché tutte l'opere tue non possono ottenerti il perdono: misurale colle pene di Gesù e da queste spera il perdono, poiché il tuo Redentore abbondantemente ha pagato per te. 21. O Salvatore del mondo, nelle vostre lacere carni aperte da' flagelli, dalle spine e da' chiodi, riconosco l'amore che mi avete portato e l'ingratitudine mia in avervi fatte tante ingiurie dopo tanto amore; ma il sangue vostro è la speranza mia, mentre col prezzo di questo sangue mi avete liberato dall'inferno tante volte per quante l'ho meritato. Oh Dio, che ne sarebbe di me per tutta l'eternità, se voi non aveste pensato a salvarmi colla vostra morte? Misero, io già sapeva che perdendo la vostra grazia mi condannava da me stesso a viver per sempre disperato e lontano da voi nell'inferno, e pure ho ardito più volte di voltarvi le spalle! Ma torno a dire, il sangue vostro è la speranza mia. Oh fossi morto e non vi avessi mai offeso! O bontà infinita, io meritava di restar cieco e voi mi avete illuminato con nuova luce! meritava di restar più indurito e voi mi avete intenerito e compunto; onde ora abborrisco più che la morte gli disprezzi che vi ho fatti, e mi sento un gran desiderio di amarvi. Queste grazie che da voi ho ricevute mi assicurano che già mi avete perdonato e mi volete salvo. Ah Gesù mio, e chi potrà lasciare di amarvi in avvenire ed amare altra cosa fuori di voi? Io v'amo, Gesù mio, ed in voi confido; accrescete in me questa confidenza e questo amore, acciocch'io da ogg'innanzi mi scordi di tutto e non pensi ad altro che ad amarvi e darvi gusto. O Maria madre di Dio, ottenetemi l'esser fedele al vostro Figlio e mio Redentore. ________________________ 1 Nelle ediz. del 1774 e 1786 (Remondini, Bassano) si legge: «....nella sua morte», ma nella I (Paci, Napoli, 1773), come nel testo. 2 S. IRENAEUS, Contra haereses, lib. 4, cap. 33, n. 1. MG 7-1072. - S. IUSTINUS, Dialogus cum Tryphone Iudaeo, n. 13 (per totum): MG 6-502, 503. - S. CYPRIANUS, Testimoniorum libri tres adversus Iudaeos, lib. 2, cap. 13. ML 4-707. - Questi Padri interpretano il capo 53 d' Isaia come profezia della Passione di Gesù Cristo. Altri dicono Isaia più Evangelista che profeta: «Hic infirmitates nostras portat, etc. Evangelium est, an prophetia?» S. AUGUSTINUS, Sermo 44, de verbis Isaiae LIII, 2-9, n. 5. ML 38-259. - «De Christo et Ecclesia.... multo plura quam ceteri prophetavit: ita ut a quibusdam evangelista, quam propheta, potius diceretur.» IDEM, De civitate Dei, lib. 18, cap. 29, n. 1. ML 41-585. - «(Isaias) non prophetiam mihi videtur texere, sed evangelium.» S. HIERONYMUS, Epistola 53, ad Paulinum, n. 7. ML 22-547. - «Sicque exponam Isaiam, ut illum non solum prophetam, sed evangelistam et apostolum doceam.» IDEM, Commentariorum in Isaiam Prologus. ML 24-18. - «Mihi videtur beatus propheta Isaias non sola prophetiae gratia plurimum exornatus, sed et decoribus apostoli. Est enim hic propheta simul et apostolus: et in hac scriptione sua hadebit sermones evangelicae praedicationis splendore non carentes.» S. CYRILLUS ALEXANDRINUS, In Isaiam, lib. 1, Proemium. MG 70-14. 3 Dopo citate le profezie d' Isaia su di Cristo e della Chiesa, continua Agostino: «Quid contra hanc evidentiam expressionemque rerum et praedictarum et impletarum dici potest?» S. AUGUSTINUS, De consensu Evangelistarum, lib. 1, cap. 31, putat haec de Christi Passione et Resurrectione vaticinia explicatione non egere: nimirum egent pia meditatione, vivaci sensu et lacrymis.» CORNELIUS A LAPIDE, Comment in Isaiam, cap. 53, Synopsis capitis. 4 «Melius antiqui Hebraeorum fatebantur haec de Messia dici.» HUGO GROTIUS, De veritate religionis christianae, lib. 5, § 19. 5 La stessa opera, l. c. 6 «O novissimum et altissimum! o humilem et sublimem! o opprobrium hominum et gloriam angelorum! Nemo illo sublimior, neque humilior.» S. BERNARDUS, In feria IV Hebdomadae Sanctae, sermo de Passione Domini, n. 3. ML 183-264. 7 «Sumamus et nos de mysterio eius (Christi) moribus nostris exemplum.... Descendamus per viam humilitatis, ponaturque nobis primus gradus, id est primus profectus, nolle dominari; secundus, velle sublici; tertius, in ipsa subiectione quaslibet contumelias et iniurias illatas aequanimiter pati.» S. BERNARDUS, Sermones de diversis, sermo 60, n. 3. ML 183-684. - «Noli te, homo, comparare maioribus, noli minoribus, noli aliuqibus, noli uni... Non mediocrem, non vel penultimum, non ipsum saltem inter novissimos eligere locum nos voluit: sed recumbe, inquit, in novissimo loco (Luc. XIV, 10), ut solus videlicet omnium novissimus sedeas, teque nemini, non dico praeponas, sed nec comparare praesumas.» IDEM, In Cantica, sermo 37, n. 7. ML 183-974. 8 «In Christo patiente fuit verus dolor: et sensibilis, qui causatur ex corporali nocivo, et dolor interior, qui causatur ex apprehensione alicuius nocivi, qui tristitia dicitur. Uterque autem dolor in Christo fuit maximus inter dolores praesentis vitae.» S. THOMAS, Sum. Theol., III, qu. 46, art. 6, c. 9 «Fuit etiam passus secundum omnem sensum corporeum: secundum tactum quidem, flagellatus et clavis confixus; secundum gustum, felle et aceto potatus; secundum olfactum, in loco fetido cadaverum mortuorum, qui dicitur Calvariae, appensus patibulo; secundum auditum, lacessitus vocibus blasphemantium et irridentium; secundum visum, videns matrem et discipulum quem diligebat flentes.» S. THOMAS, Sum. Theol., III, qu. 46, art. 5, c. 10 «Secundum genus, passus est omnem passionem humanam... Tertio potest considerari quantum ad corporis membra. Passus est enim Christus in capite pungentium spinarum coronam; in manibus et pedibus fixionem clavorum; in facie alapas et sputa; et in toto corpore flagella.» Ibidem. 11 Non abbiamo ritrovato questa sentenza presso S. Isidoro. 12 Oblatus est quia ipse voluit, et non aperuit os suum; sicut ovis ad occisionem ducetur, et quasi agnus coram tondente se obmutescet, et non aperiet os suum. Is. LIII, 7. 13 «Passio Domini aemulos habet, pares non habet.» S. AMBROSIUS, Expositio Evangelii secundum Lucam, lib. 10, n. 52 (in cap. XXII, 31), ML 15-1817. 14 «Christus voluit genus humanum a peccatis liberare, non sola potestate, sed etiam iustitia. Et ideo non solum attendit quantam virtutem dolor eius haberet ex divinitate unita, sed etiam quantum dolor eius sufficieret secundum naturam humanam, ad tantam satisfactionem.» S. THOMAS, Sum. Theol., III, qu. 46, a. 6, ad 6. 15 Non abbiamo trovato questa sentenza presso S. Bonaventura. E' vero che egli dice (in IV Sent., dist. 20, art. unicus, qu. 2, ad 1 et 2): «Peccatum nostrum satis punitum fuit, quando Christus pro nobis poenam subiit et suam pro nobis poenam exposuit et nostram fecit.» Ma, oltreché il Santo Dottore non parla espressamente dei singoli peccati, pare che si appoggi più sul valore della soddisfazione di Cristo che sulla intensità della pena subita, la quale avrebbe corrisposto, secondo il testo citato, al numero e alla gravità dei peccati commessi dagli uomini. - Più sicuramente, come abbiamo veduto nella nota precedente, può asserirsi esser questa dottrina di S. Tommaso. Oltre la ragione addotta che è fondamentale e che vale per tutta la Passione di Cristo, S. Tommaso ne addita un' altra, nel corpo del medesimo articolo, la quale ci mostra che i singoli peccati degli uomini, come se fossero stati propri di lui, hanno influito direttamente sul dolore interiore del Redentore nostro, e l' hanno accresciuto secondo il loro numero e la loro gravità, e per conseguenza, secondo tutte le circostanze, di persona o altro, che rendono più grave un qualche peccato. Queste sono le parole dell' Angelico: «Dolor in Christo fuit maximus inter dolores praesentis vitae.... Primo quidem, propter causas doloris.... Doloris autem interioris causa fuit primo quidem omnia peccata humani generis, pro quibus satisfaciebat patiendo, unde ea quasi sibi adscribit dicens in Ps. 21: Verba delictorum meorum.» Il dolore corrisponde all' oggetto, ed all' attitudine del paziente ad essere affetto da quell' oggetto. Ora, come riflette lo stesso S. Tommaso (ibid., ad 4): «Christus doluit pro peccatis omnium aliorum: qui dolor in Christo excessit omnem dolorem cuiuscumque contriti, tum quia ex maiori sapientia et caritate processit, ex quibus dolor contritionis augetur, tum quia pro omnibus peccatis simul doluit, secundum illud Is. LIII: Vere dolores nostros ipse tulit.» Sotto questo riguardo, non già della rigorosa giustizia commutativa, ma dell' oggetto del dolore, non crediamo che contendano con S. Tommaso i discepoli di Scoto. 16 «Si autem consideretur qualitas sive conditio patientis, maxima erat afflictio propter maximam complexionis aequalitatem et propter sensus vivacitatem. Unde quia nullus potuit ei aequari nec in aequalitate complexionis nec in vivacittate sensus, dolor illius omnium dolorum fuit aacutissimus.» S. BONAVENTURA, In lib. III Sententiarum, dist. 16, art. 1, qu. 2. 17 Vedi sopra la nota 8. 18 «Affligebatur itaque pro offenso Dei, pro abiectione sui, non propter se, pro contemptu gratiae, pro futura corporis sui mystici persecutione, et pro plebis Hebraeorum reprobatione. Affliciebatur in singulis, afficiebatur in omnibus. Hoc voluit Propheta sentire cum diceret: Omnes nos quasi oves erravimus, unusquisque in viam suam declinavit, et Dominus posuit in eo iniquitatem omnium nostrum (Is. LIII, 6). Modo igitur quodam indicibili in omnibus electis suis omnia perferebat poenarum genera. Persequebatur in Apostolis, lapidabatur in Stephano, assabatur in Laurentio, sicque in singulis singula martyrum ceterorumque iustorum sustinebat tormenta. Nemo igitur praedestinatus ad vitam, sicut a sanguinis Christi pretio expers est, ita nec ab ipsius maerore alienus.» S. LAURENTIUS IUSTINIANUS, De triumphali agone Mediatoris Christi, cap. 19. Opera, Lugduni, 1628, pag. 329. 19 «Spiritus eius (Christi) habebat potestatem conservandi naturam carnis suae, ne a quocumque laesivo inflicto opprimeretur. Quod quidem habuit anima Christi quia erat Verbo Dei coniuncta in unitate personae. - Naturam corporalem in eius fortitudine conservavit, ut etiam in extremis positus voce mana clamaret... Sicut enim eius voluntate natura corporalis conservata est in suo vigore usque ad extremum, sic etiam, quando voluit, subito cessit nocumento illato.» S. THOMAS, Sum. Theol., III, qu. 47, art. 1, c. et ad 2. - «In Christo autem natura sua et tota alia natura subditur voluntati eius, sicut artificiata voluntati artificis; et ideo secundum voluntatis suae placitum, potuit animam ponere cum voluit.» IDEM, Expositio in Evang. B. Ioannis, cap. 10, lectio 4, n. 5. 20 Anche il MANSI, Bibliotheca moralis praedicabilis, tract. 60, discursus 17, n. 8, riferisce ex Beda in Lucam queste parole, le quali però non si ritrovano nel Commentario di S. Beda in Luc. XXIII, 43: «Confortatus est, sed tali confortatione quae dolorem non minuit, sed magis auxit. Confortatus enim est ex fructus magnitudine, non subtracta doloris amaritudine.» 21 «Dolor Passionis Christi inter ceteros dolores et passiones fuit acerbissimus et acutissimus.» S. BONAVENTURA, In III lib. Sententiarum, dist. 16. art. 1, qu. 2. - Così parla il Dottore Serafico dei dolori di Gesù Cristo nella sua Passione in generale; dell' agonia poi nell' Orto del Getsemani, dice: «Sciens namque Iesus omnia quae super ipsum ventura erant, secundum altissimae dispositionis arcanum, hymno dicto, exiit in Montem olivarum, more solito oraturus ad Patrem. Et tunc praecipue, iam mortis instante agone, cum dispersione ac desolatione ovium, quas pius pastor tenero complexabatur affectu, fuit tam horribilis in natura Christi sensibili imaginatio mortis, ut diceret: Pater, si fieri potest, transeat a me calix iste. Quanta vero fuerit in spiritu Redemptoris pro diversis causis anxietas, testes sunt guttae sanguinis ex toto corpore decurrentis in terram.» IDEM, Lignum vitae, n. 18. Opera, VIII, ad Claras Aquas, 1898, pag. 75. 22 «Longe a salute mea verba delictorum meorum.... Quomodo ergo dicit delictorum meorum, nisi quia pro delictis nostris ipse precatur, et delicta nostra sua delicta fecit, ut iustitiam suam nostram iustitiam faceret?» S. AUGUSTINUS, In Ps. XXI Enarratio 2, n. 3. ML 36-172. 23 NICOLAUS DE LIRA, Ord. Min., Postilla in Iob VI, 2. 24 «Pro tuis itaque facinoribus, o homo, tristare in Christo, atque de ipsius tibi collatis beneficiis laetare in illo. Te agnosce in illo, tua in eius afflictionibus metire delicta, debita tua in Christi lege membranis.... Ipsius attritio, livor, Passio atque interitus nostrae sunt calamitatis indices, et adeptae pacis spirituales testes... Hanc (pacem) itaque non in membranis, non in lapide neque in ligno, sed sanguine proprio in sua carne conscripsit. Librum hunc, ut ab universis legatur, publice exposuit.» S. LAURENTIUS IUSTINIANUS, De triumphali agone Mediatoris Christi, cap. 20. Opera, Lugduni, 1628, pag. 331. CAPO III - Riflessioni sulla Flagellazione, Coronazione di spine e Crocifissione di Gesù Cristo Sulla flagellazione. 1. Scrive S. Paolo di Gesù Cristo: Semetipsum exinanivit formam servi accipiens (Philip. II, 7). Soggiunge poi S. Bernardo su questo testo e dice: Non solum formam servi accipiens ut subesset; sed etiam mali servi ut vapularet.1 Volle il nostro Redentore, ch'è il Signore di tutti, non solo prender la condizione di servo, ma anche di servo cattivo per esser castigato qual malfattore e così soddisfare per le nostre colpe. È certo che la flagellazione fu il tormento più crudele che abbreviò la vita al nostro Redentore; poiché la grande effusione di sangue - da lui già predetta quando disse: Hic est enim sanguis meus novi testamenti, qui pro multis effundetur (Matth. XXVI, 28) - fu la causa principale della sua morte. È vero che questo sangue fu sparso prima nell'orto, fu sparso anche nella coronazione di spine e nell'inchiodazione; ma la massima parte fu sparso nella flagellazione: la quale primieramente fu a Gesù Cristo di gran rossore ed obbrobrio; poiché questa era pena che si dava a' soli schiavi, come si ha dalla L. servorum. ff. de poenis;2 che per ciò i tiranni dopo aver condannati alla morte i santi martiri, gli faceano prima flagellare e poi uccidere; ma nostro Signore fu flagellato prima di esser condannato a morte. Egli già prima in sua vita avea predetta a' suoi discepoli particolarmente questa flagellazione che dovea patire: Tradetur... gentibus et illudetur et flagellabitur (Luc. XVIII, 32). Significando loro il gran dolore che doveva recargli questo tormento. 2. Fu rivelato a S. Brigida che un manigoldo prima comandò a Gesù Cristo che da se stesso si spogliasse delle sue vesti; egli ubbidì e poi abbracciò la colonna, ove fu ligato e flagellato sì crudelmente che il suo corpo restò tutto lacerato. Dice la rivelazione che i flagelli non solo ferivano, ma solcavano le sue carni sagrosante: Iubente lictore, seipsum vestibus exuit, columnam sponte amplectens ligatur et flagellis non evellendo, sed sulcando totum corpus laceratur (Revel. 1. IV, c. 70).3 E fu lacerato in modo che, come si dice nelle stesse rivelazioni (L. I, c. 10), nel petto gli si vedeano le coste scoverte: Ita ut costae viderentur.4 Al che si uniforma quel che scrisse S. Girolamo (In Matth.): Sacratissimum corpus Dei flagella secuerunt,5 e quel che scrisse S. Pier Damiani, dicendo che i carnefici si affaticarono a flagellar nostro Signore sino a venir meno loro le forze, usque ad defatigationem.6 Tutto ciò fu già prenunziato da Isaia con quella parola: Attritus est propter scelera nostra (Is. LIII, 5). Attritus significa lo stesso che stritolato o sia pestato. Eccomi, Gesù mio, io sono uno de' vostri più crudeli carnefici che vi ho flagellato co' miei peccati, abbiate pietà di me. O amabile mio Salvatore, è troppo poco un cuore per amarvi. Io non voglio più vivere a me stesso, voglio vivere solo a voi, mio amore, mio tutto. Onde vi dico con S. Caterina da Genova: O amore, o amore, non più peccati.7 Basta quanto vi ho offeso, ora io spero di esser vostro; e colla vostra grazia voglio esser sempre vostro per tutta l'eternità. ____________________________ 1 «Filius erat et factus est tamquam servus. Non solum formam servi accepit, ut subesset; sed etiam mali servi, ut vapularet; et servi peccati, ut poenam solveret, cum culpam non haberet.» S. BERNARDUS, In feria IV Hebdomadae Sanctae, sermo de Passione Domini, n. 10. ML 183-268. 2 «In servorum persona ita observatur, ut exemplo humiliorum puniantur. (In margine : Humiliorum: .... Subaudi hic: ad minus; quia statim ponit, quod plus servus quam alius humilis.) Ex quibus causis liber fustibus caeditur, ex iis servus flagellis caedi, et domino reddi iubetur. (In margine: Flagella plus dolent: quasi parata ad plus dolendum.) Et ex quibus liber fustibus caesus in opus publicum damnatur, ex iis servus sub poena vinculorum ad eius temporis spatium flagellis caesus domino reddi iubetur. (In margine : Maior poena est stare in vinculis, quam laborare in agro seu opere pubblico.)» DIGESTORUM lib. 48, titulus 19: de poenis, X. 3 «Iubente lictore, seipsum vestibus exuit: columnam sponte amplectens, recte ligatur, et flagellis aculeatis infixis aculeis, et rectractis, non evellendo, sed sulcando, totum corpus eius laceratur.» Revelationes S. BIRGITTAE, a Card. Turrecremata recognitae, lib. 4, cap. 70. 4 «Flagellabant corpus eius ab omni macula et peccato mundum. Ad primum ergo ictum, ego, quae adstabam propinquius, cecidi quasi mortua, et resumpto spiritu, vidi corpus eius verberatum et flagellatum usque ad costas, ita ut costae eius viderentur.» Idem opus, lib. 1, cap. 10, Verba Virginis Mariae. 5 «Sciendum est Romanis eum (Pilatum) legibus ministrasse, quibus sancitum est, ut qui crucifigitur, prius flagellis verberetur. Traditus est itaque Iesus militibus verberandus, et illud sacratissimum corpus, pectusque Dei capax, flagella secuerunt.» S. HIERONYMUS, Commentaria in Evang. Matthaei, lib. 4, in cap. XXVII, 26. ML 26-208. 6 «Porro sex fuisse qui Christum flagellarunt, quidam ex Chrysostomi et Hieronymi doctrina depromunt: nec remisse sed usque ad defatigationem, ut in ea re liceat hominum crudelitatem spectare.» A. SALMERON, S. I., Commentarii in Evangelicam historiam et in Acta Apostol., Tom. X, Coloniae Agrippinae, 1613, tract. XIX, pag. 246. 7 Nel punto della sua conversione, Caterina, «per quei sentimenti d' immenso amore, e delle offensioni fatte al suo dolce Iddio, fu talmente tirata per affetto purgato fuor delle miserie del mondo, che restò quasi fuor di sé; e perciò di dentro gridava con affocato amore: «Non più mondo! non più peccati!» ed in quel punto se ella avesse avuto mille mondi, tutti gli avrebbe gettati via. Partendosi (dalla chiesa di S. Benedetto, dove avvenne la sua conversione) ritornò a casa... ed entrò in una camera più segreta che poté, dove pianse e sospirò molto con gran fuoco... Ma volendo il Signore accendere intrinsecamente più l' amor suo in quest' anima, e il dolore de' suoi peccati, se le mostrò in ispirito con la croce in ispalla, piovendo tutto sangue, per modo che la casa tutta le pareva piena di rivolti di quel sangue, il quale vedeva esser tutto sparso per amore: il che le accese nel cuore tanto fuoco, che ne usciva fuor di sé, e pareva una cosa insensata, per lo tanto amore e dolore che ne sentiva. Questa vista le fu tanto penetrativa, che le pareva sempre di vedere - e con gli occhi corporali - il suo Amore tutto insanguinato, e inchiodato in croce. Vedeva ancor le offese che gli aveva fatto, e però gridava: «O Amore, mai più, mai più peccati.» MARABOTTO e VERNAZZA, Vita, cap. 2, n. 1, 3, 4, 5. Sulla coronazione di spine. 3. La divina Madre rivelò alla stessa S. Brigida che la corona di spine cingea tutta la sagra testa del Figlio sino a mezza fronte, e che le spine furono premute con tal violenza che dalla testa scorreva il sangue a rivi per tutta la faccia, in modo che il volto di Gesù Cristo compariva tutto coverto di sangue: Quae - corona - tam vehementer caput filii mei pupugit, ut ex sanguine affluente replerentur oculi eius; ad medium frontis descendebat, plurimis rivis sanguinis decurrentibus per faciem eius ut quasi nil nisi sanguis totum videretur (Revel. c. 70).8 Scrive Origene che questa corona di spine non fu tolta dal capo del Signore, se non dopo ch'egli fu spirato sulla croce; ecco le sue parole: Corona spinea semel imposita et numquam detracta eruitur.9 Ma essendoché la veste interiore di Cristo era già cucita, ma tessuta da per tutto - e perciò non fu ella divisa tra' soldati come le altre vesti esteriori, ma posta alla sorte, siccome scrive S. Giovanni: Milites ergo cum crucifixissent eum, acceperunt vestimenta eius - et fecerunt quatuor partes, unicuique militi partem - et tunicam; erat autem tunica inconsutilis, desuper contexta per totum. Dixerunt ergo ad invicem: Non scindamus eam, sed sortiamur de illa cuius sit (Io. XIX, 23 et 24) -pertanto, dovendo quella veste cavarsi dalla parte della testa, molto probabilmente scrivono più autori che nell'essere Gesù spogliato di quella gli fu tolta la corona e poi gli fu riposta prima di esser inchiodato alla croce.10 4. Sta scritto nella Genesi: Maledicta terra in opere tuo... spinas et tribulos germinabit tibi (Gen. III, 17 et 18). Questa maledizione fu da Dio fulminata contra Adamo e contra tutta la sua discendenza; mentre ivi per terra non solo s'intende la terra materiale, ma anche la carne umana che, infettata dal peccato di Adamo, non genera che spine di colpe. Or per dar rimedio appunto a questa infezione, dice Tertulliano essere stato necessario che Gesù Cristo offerisse a Dio in sagrificio questo gran tormento della coronazione di spine: Hanc enim oportebat pro omnibus gentibus fieri sacrificium (Tertul. Lib. contr. Hebr.).11 Questo tormento molto doloroso fu di più accompagnato dagli schiaffi, dagli sputi e dalle derisioni de' soldati, come scrivono S. Matteo e S. Giovanni: Et plectentes coronam de spinis posuerunt super caput eius et arundinem in dextera eius: et genu flexo ante eum illudebant ei dicentes: Ave rex Iudaeorum; et exspuentes in eum acceperunt arundinem et percutiebant caput eius (Matth. XXVII, 29 et 30). Et veste purpurea circumdederunt eum: et veniebant ad eum et dicebant: Ave rex Iudaeorum et dabant ei alapas (Io. XIX, 2 et 3). Ah Gesù mio, e quante spine io ho aggiunte a questa corona co' miei mali pensieri acconsentiti! Vorrei morirne di dolore; perdonatemi per li meriti di quel dolore, che allora accettaste appunto per perdonarmi. Ah mio Signore così straziato e vilipeso! Voi vi caricate di tanti dolori e dispregi per muovermi a compassione di voi, acciocché almeno per compassione io v'ami e non vi dia più disgusto. Basta, Gesù mio, cessate di voler più patire; son già persuaso dell'amore che mi portate e v'amo con tutta l'anima mia. Ma già vedo che a voi non basta, non siete sazio di pene, se non dopo che vi vedete morto di dolore sulla croce. O bontà, o carità infinita! misero quel cuore che non v'ama! __________________________ 8 «(Verba Virginis Mariae) Aptaverunt coronam de spinis capiti eius, quae tam vehementer reverendum caput filii mei pupugit, ut ex sanguine fluente replerentur oculi eius, obstruerentur aures, et barba tota decurrente sanguine deturbaretur.» Revelationes S. BIRGITTAE, lib. 1. c. 10. - Parla qui S. Brigida dell' atto crudele - come udì da Maria SS.col quale i ministri, inchiodato che fu Gesù alla croce, prima di elevar questa, gli riadattarono alla testa la corona di spine. Così pure nel passo seguente: «Corona spinea capiti eius arctissime imposita fuit, quae ad medium frontis descendebat, plurimis rivis sanguinis ex aculeis infixis decurrentibus per faiem eius et crines, oculos et barbam replentibus, ut quasi nihil nisi sanguis totum videretur.» Idem opus, lib. 4, cap. 70. 9 «In spinea illa corona suscepit spinas peccatorum nostrorum... Et de chlamyde scriptum est quoniam denuro spoliaverunt eum chlamydem coccineam; de corona autem spinea nihil tale evangelistae scripserunt, propterea quod et nos quaerere voluerunt exitum rei de corona spinea semel imposita et numquam detracta. Ego igitur arbitror quoniam spinea illa corona consumpta est a capite Iesu, ut iam non sint spinae nostrae antiquae, postquam semel eas a nobis abstulit Iesus super venerabile caput suum.» ORIGENES, Commentariorum series in Matthaeum, in Matt. XXVII, 29. MG 13-1775, 1776. 10 «Exuitur itaque Iesus qui caelum stellis, terram floribus vestit: quod fieri non potuit sine spinea corona detracta et iterum apposita; nec rursus vestis detrahi quae vulneribus impacta haerebat.» A. SALMERON, S. I., Commentarii in Evangelicam historiam et in Acta Apostol. Tom. X, Coloniae Agrippinae, 1613, tract. 35, paag. 294. «Dein dextrum pedem crucifixerunt et super hunc sinistrum... quo facto, aptaverunt coronam de spinis capiti eius, quae.... vehementer reverendum caput Filii mei pupugit.» S. BIRGITTA, Revelationes, Coloniae Agrippinae, 1628, lib. I. cap. 10, pag. 14, col. 2. - Cfr. Lib. IV. cap. 70, pag. 229, col. 1; Lib. VII. cap. 15, pag. 456, col. 1. «Et ut quorumdam est opinio, spineam coronam a capite avulsam - eo quod vesti exuendae impedimento erat - rursum incredibili cum tormento sancto eius capiti impresserunt, ut non sit dolor qui huic possit comparari.» Lud. BLOSIUS, Margaritum spirituale, pars III, cap. 14, n. 6. 11 «Hoc lignum sibi et Isaac filius Abrahae ad sacrificium ipse portabat, cum sibi eum Deus hostiam fieri praecepisset (Gen. XXII, 6). Sed quoniam haec fuerant sacramenta quae temporibus Christi perficienda servabantur, et Isaac cum ligno reservatus est, ariete oblato in vepre cornibus haerente, et Christus suis temporibus lignum humeris suis portavit, inhaerens cornibus crucis, corona spinea in capite eius circumdata. Hunc enim oportebat pro omnibus gentibus fieri sacrificium qui tamquam ovis ad victimam ductus est, et velut agnus coram tondente se sine voce, sic non aperuit os suum. (Is. LIII, 7). « TERTULLIANUS, Adversus Iudaeos, cap. 13. ML 2-636. Sulla crocifissione. 5. La croce cominciò a tormentar Gesù Cristo prima ch'egli vi fosse inchiodato; poiché dopo la condanna di Pilato, gli fu data a portare sino al Calvario quella sua croce, in cui dovea morire, ed esso senza ripugnare se la caricò sulle spalle: Et baiulans sibi crucem exivit in eum qui dicitur Calvariae locum (Io. XIX, 17). Parlando di ciò S. Agostino (In Ioan. Tract. 117) scrisse: Si spectetur impietas, grande ludibrium si spectetur pietas, grande mysterium.12 Se si ha riguardo alla crudeltà che si usò con Gesù Cristo in far portare a lui stesso il suo patibolo, fu un grande obbrobrio; ma se riguardasi l'amore col quale Gesù abbracciò la croce, fu un gran misterio; poiché nel portar la croce volle il nostro capitano allora inalberare il vessillo, sotto cui dovessero poi arrollarsi e militare i suoi seguaci in questa terra per esser fatti poi suoi compagni nel regno del cielo. 6. S. Basilio parlando di quel passo d'Isaia (cap. IX, v. 6): Parvulus... natus est nobis et filius datus est nobis; et factus est principatus super humerum eius; dice che i tiranni della terra aggravano i loro sudditi di pesi ingiusti per accrescer la loro potenza; ma Gesù Cristo volle addossarsi il peso della croce e portarla per lasciarvi in quella la vita, affin di ottenere a noi la salute.13 Riflettasi in oltre che i re della terra fondano i loro principati nella forza delle armi e nel cumulo delle ricchezze; ma Gesù Cristo fondò il suo principato nel ludibrio della croce, cioè nell'umiliarsi e nel patire, e perciò volentieri accettò a portarla in quel doloroso viaggio, per dare col suo esempio coraggio a noi di abbracciar con rassegnazione ciascun la sua croce e così seguirlo; onde poi disse a tutti i suoi discepoli: Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam et sequatur me (Matth. XVI, 24). 7. Giova qui notare i belli elogi con cui da S. Giovan Grisostomo è chiamata la croce (Hom. de cruce, tom. 3).14 Ella è chiamata Spes desperatorum: quale speranza mai di salute avrebbero i peccatori, se non vi fosse stata la croce, ov'è morto Gesù Cristo per salvarli? Navigantium gubernator: l'umiliazione che vien dalla croce, cioè dalla tribolazione, è causa a noi di avere in questa vita, come in un mare pieno di pericoli, la grazia di custodir la divina legge e di emendarci se l'abbiam trasgredita, secondo disse il profeta: Bonum mihi, quia humiliasti me ut discam iustificationes tuas (Ps. CXVIII, 71). Iustorum consiliarius: i giusti dalle avversità prendon consiglio e motivo a stringersi più con Dio. Tribulatorum requies: e dove trovano maggior sollievo i tribolati che nel mirar la croce, in cui è morto di dolore, per loro amore, il lor Redentore e Dio? Martyrum gloriatio: questa e stata la gloria de' santi martiri, il poter unire le loro pene e morte colle pene e morte che patì Gesù Cristo nella croce: onde poi dicea S. Paolo: Mihi autem absit gloriari nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi (Gal. VI, 14). Aegrotantium medicus: oh che gran rimedio e la croce per molti che sono infermi di spirito! le tribolazioni gli fan ravvedere e gli staccano dal mondo. Sitientium fons: la croce, cioè il patire per Gesù Cristo, è il desiderio de' santi. S. Teresa diceva: O patire o morire;15 S. Maria Maddalena de' Pazzi passava innanzi dicendo: Patire e non morire,16 come ricusasse di morire e di andare in cielo a godere per restare in questa terra a patire. 8. Del resto universalmente parlando de' giusti e de' peccatori, a ciascuno tocca la sua croce. I giusti quantunque godano la pace di coscienza, tuttavia hanno le loro vicende, ora son consolati dalle divine visite ed ora amitti dalle contrarietà e dalle infermità corporali; e maggiormente dalle desolazioni, dalle oscurità e tedi di spirito, dagli scrupoli, dalle tentazioni e da' timori della propria salute. Molto più grave poi è la croce de' peccatori per gli rimorsi che patiscono della coscienza, per gli spaventi che da quando in quando loro si affacciano de' castighi eterni e per le angosce che soffrono nelle cose contrarie. I santi nelle cose contrarie si rassegnano al divino volere e le soffrono con pace; ma il peccatore come può quietarsi colla volontà di Dio, se egli vive nemico di Dio? Le pene dei nemici di Dio son pure pene, pene senza conforto. Quindi dicea S. Teresa che chi ama Dio abbraccia la croce, e così non la sente: ma chi non ama Dio, strascina a forza la croce, e così non può non sentirla.17 _________________________ 12 «Ibat ergo ad locum ubi erat crucifigendus, portans crucem suam Iesus. Grande spectaculum; sed si spectet impietas, grande ludibrium: si pietas, grande mysterium; si spectet impietas, grande ignominiae documentum; si pietas, grande fidei munimentum; si spectet impietas, ridet regem pro virga regni lignum sui portare supplicii: si pietas, videt regem baiulantem lignum ad semetipsum figendum, quod fixurus fuerat etiam in frontibus regum, in eo spernendus oculis impiorum in quo erant gloriatura corda sanctorum.» S. AUGUSTINUS, In Ioannem, tractatus 117, n. 3. ML 35-1945, 1946. 13 «Quia parvulus natus est nobis, filius et datus est nobis, cuius principatus factus est super humerum eius. Et vocatur nomen eius magni consilii angelus.... Hic (Magni consilii angelus ) ipse est qui magnum consilium a saeculis absconditum, generationibus aliis haud declaratum patefecit. Hic annuntiavit et detexit in gentibus suas ipsius impervestigabiles divitias, ut fierent gentes coheredes et concorporales, videilcet huius ipsius, cuius imperium est super humerum eius; hoc est, regnum et potestas in cruce. In crucem enim exaltatus, omnes ad seipsum traxit.» S. BASILIUS MAGNUS, Commentarius in Isaiam Prophetam, cap. 9, n. 226. MG 30-511. - Che questo Commentario fosse di S. Basilio, dubitò Garnerio, primo editore O. S. B. delle Opere del Santo Dottore (MG 30-117, Monitum ). Ma lo rivendicò per S. Basilio, appoggiandosi su validi argomenti (Vita S. Basilii, cap. 42: MG 29-CLXVI et seq.) D. Prudenzio Marano, il quale, morto il Garnerio, ebbe il compito di condurre a termine l' opera incominciata. 14 Questi elogi della croce sono presi da un' Omilia (Opera, III, Venetiis 1574, De cruce dominica, fol. 306, col. 1, 2; MG 50-819) attribuita a S. Giovanni Grisostomo, ma che non è di lui, né di lui è degna (MG 50-815, Monitum ). Bella però è la litania che vi viene inserita. Né questa discrepanza deve recar maraviglia, essendo che il compilatore, più che autore, dell' Omilia, prese la litania, quasi parola per parola, da S. EFREM Siro: In sanctam Parasceven et in Crucem et Latronem, Opera, VI, Opera graece et latine, III, Romae, 1746, pag. 471. - Vedi Appendice, 8. 15 «Y ansi me parece que nunca me vi en pena después que stoy determinada a servir con todas mis fuerzas a este Senor y consolador mio, que, aunque me dejaba un poco padecer, me consolaba de manera que no hago nada en desear trabajos. Y ansi ahora no me parece hay para qué vivir sino para esto, y lo que màs de voluntad pido a Dios. Digolo algunas veces con toda ella: Senor, u morir u padecer; no os pido otra cosa para mi.» S. TERESA, Libro de la Vida, cap. 40. Obras, I. 16 «Bene spesso soleva dire non desiderar la morte così presto, perché in paradiso non si patisce.» PUCCINI, Vita, Firenze, 1611, parte 1, cap. 47. - «Oltre modo l' affliggeva lo stare continuamente in letto.... Ma perché sapeva di fermo questo esser beneplacito divino, non si può esprimere quanta allegrezza sentisse ne' suoi maggiori travagli.» La stessa opera, parte 1, cap. 72. - Queste medesime cose riferisce il P. PATRIZIO DI S. GIACOMO, O. Carm., Vita, lib. 1, cap. 21, n. 6; e così conchiude: «Nihilominus, de divino certa beneplacito, tripudiabat prae gaudio, ingeminans frequenter: Pati, non mori. « - «Quello che io ricerco ora da Dio - diceva ella ad una Sorella - è che mi conceda un nudo patire, cioé che non sia mescolato con gusto; e.... spero avanti la morte che avrò tal grazia, perché so che queste pregiate vivande.... non si posson gustare nella patria celeste.» PUCCINI, Vita, Firenze, 1611, parte 1, cap. 72. - «Crescevano i suoi travagli.... Volgendo ad ora ad ora gli occhi al cielo, ringraziava Dio che l' avesse preservata in vita sino a quel tempo, perché gustasse a sua voglia il nudo patire per amor suo.» La stessa opera, parte 1, cap. 73. - «Sarebbe stata - diceva ella- in quel nudo patire per volontà di Dio volentieri fin al giorno del giudizio; anzi, per desiderio di più patire, avrebbe voluto che Dio le avesse allungata la vita, e soggiungeva: «In paradiso non si può patire come in questa vita, per amore di Dio: però non bramo di morire.» CEPARI E FOZI, S. I., Vita, cap. 62. 17 «Tengo yo para mi, que la medida del poder llevar gran cruz, u pequena, es la del amor.» Camino de perfecciòn, cap. 32. Obras, III, pag. 153. - «Y no abrazan la cruz, sino llevanda arrastrando, y ansi las lastima, y cansa, y hace pedazos; porque si es amada, es suave de llevar; esto es cierto.» S. TERESA, Conceptos del amor de Dios... sobre algunas palabras de los «Cantares» de Salomon, cap. 2. Obras, IV. Veniamo alla crocifissione. 9. Fu rivelato a S. Brigida che quando il Salvatore si vede posto sulla croce, stese da sé la mano destra a quel luogo, in cui doveva essere inchiodata: Voluntarie extendit brachium et, aperta sua dextera manu, posuit eam in cruce, quam tortores crucifixerunt (Revel. lib. 7, c. 15).18 Indi subito inchiodarono l'altra mano, ed indi i sagri piedi e fu lasciato Gesù Cristo a morire su quel letto di dolore. Dice S. Agostino che il supplicio della croce era un tormento acerbissimo, poiché nella croce, come scrive: Mors ipsa producebatur, ne dolor citius finiretur (S. Aug. in Ioan. tr. 36):19 nella croce si prolungava la stessa morte, acciocché non terminasse così presto il dolore. - Oh Dio, quale stupore dovette recare al cielo il vedere il Figlio dell'Eterno Padre crocifisso in mezzo a due ladri! Tale in verità era già stata la predizione d'Isaia (LIII, 12): Et cum sceleratis reputatus est. Quindi S. Giovan Grisostomo considerando Gesù in croce esclama pien di stupore e di amore: Medium in sancta Triade, medium inter Moysem et Eliam, medium inter latrones!20 Come dicesse: Io guardo il mio Salvatore prima in cielo tra il Padre e lo Spirito santo: lo guardo sul monte Taborre tra due santi Mosè ed Elia: e come poi lo vedo crocifisso nel Calvario tra due ladri? Ma così dovea avvenire, perché, secondo il decreto divino, così doveva egli morire per soddisfare colla sua morte i peccati degli uomini e salvarli, siccome predisse Isaia (LIII, 12): Et cum sceleratis reputatus est, et ipse peccata multorum tulit. 10. Dimanda lo stesso Profeta: Quis est iste qui venit de Edom tinctis vestibus de Bosra? iste formosus in stola sua gradiens in multitudine fortitudinis suae (Is. LXIII, 1). Chi è quest'uomo così bello e forte che viene da Edom colle vesti tinte di color sanguigno? Edom significa il color rosso, ma alquanto oscuro, come sta spiegato nel Genesi (cap. XXV, v. 30) e gli vien risposto: Ego qui loquor iustitiam propugnator sum ad salvandum (Ibid.). Questi che risponde così, come spiegano gl'interpreti, è Gesù Cristo che dice: Io sono il Messia promesso che son venuto a salvare gli uomini col trionfare de' loro nemici. 11. Viene poi di nuovo egli stesso interrogato: Quare ergo rubrum est indumentum tuum et vestimenta tua sicut calcantium in torculari? (Is. LXIII, 2). Perché le tue vesti son rosse e simili a quelle di coloro che pestano le uve nel torchio a tempo della vendemmia? e risponde: Torcular calcavi solus et de gentibus non est vir mecum (Is. LXIII, 3). Tertulliano, S. Cipriano e S. Agostino21 spiegano il torculare per la Passione di Cristo, nella quale la sua veste, cioè la sua carne sagrosanta, fu insanguinata ed impiagata giusta quel che scrisse S. Giovanni: Et vestitus erat veste aspersa sanguine et vocatur nomen eius Verbum Dei (Apoc. XIX, 13). S. Gregorio (Hom. 13 in Ezech.) spiegando quelle parole torcular calcavi solus, scrive: Torcular in quo calcatus est, et calcavit.22 Dice calcavit, perché Gesù Cristo colla sua Passione debello i demoni; dice poi calcatus est, perché nella Passione fu pestato e franto il suo corpo, come vengono frante le uve sotto del torchio, secondo l'altro testo d'Isaia che dice: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate (Is. LIII, 10). 12. Ed ecco quel Signore ch'era il più bello tra gli uomini Speciosus forma prae filiis hominum (Ps. XLIV, 3) - comparisce nel Calvario così difformato da' tormenti che mette orrore a chi lo mira. Ma tal deformità lo fa apparire più bello agli occhi delle anime che l'amano; poiché quelle piaghe, quelle lividure e quelle carni lacerate son tutti segni e pruove dell'amor che ci porta; onde graziosamente canto il Petrucci: Ma se soffri per noi sì reo flagello, Signor, tu sembri agli obbligati cuori Quanto deforme più, tanto più bello.23 Aggiunge S. Agostino: Pendebat in cruce deformis, sed deformitas illius pulchritudo nostra erat (S. Aug. Serm. 22 de Verb. Ap.).24 Sì, perché quella deformità di Gesù crocifisso fu causa della bellezza delle nostre anime, ch'essendo state deformi, lavate poi col suo divino sangue, diventano graziose e belle, giusta quel che scrisse S. Giovanni: Hi qui amicti sunt stolis albis, qui sunt? e sta risposto: Hi sunt qui venerunt de tribulatione magna et laverunt stolas suas et dealbaverunt eas in sanguine Agni (Apoc. VII, 13, 14). Tutti i santi come figli di Adamo, fuori della B. Vergine Maria, sono stati un tempo coverti di una veste sordida e imbrattata della colpa di Adamo e delle proprie; ma lavate poi elleno col sangue dell'Agnello, son divenute candide e grate a Dio. 13. Ben dunque diceste voi, Gesù mio, che quando sareste stato innalzato in croce, avreste tirata a voi ogni cosa: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum. Hoc autem dicebat significans qua morte esset moriturus (Io. XII, 32, 33). Sì, perché non è mancato per voi di tirarvi l'affetto di tutti i cuori. E già moltissime anime felici nel vedervi crocifisso e morto per loro amore, hanno abbandonato tutto, robe, dignità, patria e parenti, sino ad abbracciare i tormenti e la morte per darsi tutte a voi. Poveri quei che resistono alle vostre grazie, che loro avete procurate con tante vostre fatiche e dolori! Oh Dio questo sarà il loro maggior tormento nell'inferno, pensare di aver avuto un Dio che per tirarli al suo amore ha data la vita su d'una croce, e ch'essi spontaneamente han voluto perdersi, e che poi non vi sarà più rimedio alla loro ruina per tutta l'eternità. 14. Ah mio Redentore, in questa ruina io già ho meritato di cadere per le offese che vi ho fatte. Oimè, quante volte ho resistito alla vostra grazia che cercava di tirarmi a voi; e per aderire alle mie inclinazioni ho disprezzato il vostro amore e vi ho voltate le spalle! Oh fossi morto prima di offendervi! oh vi avessi sempre amato! Vi ringrazio, amor mio, che mi avete sofferto con tanta pazienza; e che anzi in vece di abbandonarmi, come io meritava, avete replicate le chiamate ed accresciuti sovra di me i lumi e gli impulsi amorosi. Misericordias Domini in aeternum cantabo (Ps. LXXXVIII, 2). Deh! non lasciate, mio Salvatore e speranza mia, di seguire a tirarmi ed accrescere sovra di me le vostre grazie, acciocché nel cielo io possa amarvi con più fervore pensando a tante misericordie, che mi avete usate dopo tanti disgusti che vi ho dati. Tutto spero da quel sangue prezioso, che per me avete sparso e da quella morte amara che per me avete sofferta. O santa Vergine Maria, proteggetemi, pregate Gesù per me. ________________________ 18 « Non coactus, sed statim voluntarie extendit brachium, et aperta sua dextera manu, posuit eam in cruce, quam illi saevi tortores immaniter crucifixerunt.» Revelationes S. BIRGITTAE, lib. 7, cap. 15. 19 «Illa morte peius nihil fuit inter omnia genera mortium. Denique ubi dolores acerrimi exagitant, cruciatus vocatur, a cruce nominatus. Pendentes enim in ligno crucifixi, clavis ad lignum pedibus manibusque confixi, producta morte necabantur. Non enim crucifigi hoc erat occidi: sed diu vivebatur in cruce; non quia longior vita eligebatur, sed quia mors ipsa producebatur, ne dolor citius finiretur.» S. AUGUSTINUS, In Ioannem, tractatus 36, n. 4. ML 35-1665. 20 «Ma chi può vedere quel figliuolo di Dio, che sulle stelle siede in trono fra le divine Persone, quel monarca supremo che sul Taborre comparve pomposamente glorioso in mezzo di Mosé e d' Elia: Medium in sancta Triade: medium paulo ante inter Moysem et Eliam, in decoro suo conspicuum; medium in sinagoga deorum: chi può, dico, vederlo qui ora sul Calvario: medium inter latrones, sprofondato in un abisso di confusione e di obbrobrii, e non ammirare la meravigliosa corrispondenza tra il superbo innalzamento del nostro progenitore e l' estremo avvilimento del nostro Redentore?» Franc. DURAZZO, S. I., La Passione del Figliuol di Dio. Roma, 1719, ed. II, part. 2, tratt. IX, pag. 209. - Il Durazzo per questa citazione rimanda al Grisostomo, homil. 88 in Matth., dove però non si ritrova. 21 «Spiritus enim propheticus (Is. LXIII, 1, 2) velut iam contemplabundus Dominum ad Passionem venientem, carne scilicet vestitum, ut in ea passum, cruentum habitum carnis in vestimentorum rubore designat, conculcatae et expressae vi Passionis, tamquam de foro torcularis, quia exinde quasi cruentati homines de vini rubore descendant.» TERTULLIANUS, Adversus Marcionem, lib. 4, cap. 40. ML 2-461, 462. - «Nec non et apud Esaiam (LXIII, 2) hoc idem Spiritus Sanctus de Domini Passione testatur dicens: Quare rubicunda sunt vestimenta tua, et indumenta tua velut a calcatione torcularis pleni et percalcati?» S. CYPRIANUS, Epistola, 63, ad Caecilium, De Sacramento Dominici calicis, n. 7. ML 4-378. - «(Unigenitus Filius Dei) praecipue in Passione magnus botrus expressus est.» S. AUGUSTINUS, Enarratio in Ps. LXXXIII, n. 1. ML 37-1056. 22 «Solus enim torcular, in quo calcatus est, calcavit, qui sua potentia eam, quam pertulit, Passionem vicit. Nam qui usque ad mortem crucis passus est, de morte cum gloria surrexit.» S. GREGORIUS MAGNUS, Homiliae in Ezechielem, lib. 2, hom. 1, n. 9. ML 76-942. 23 Pier Matteo PETRUCCI, dell' Oratorio di Iesi (poi Cardinale), Poesie sacre e spirituali, nuova edizione, Venezia, 1680. Parte 1, pag. 82: Beltà di Cristo come uomo e sua deformità nella Passione (Sonetto). 24 «Deformitas Christi te format. Ille enim si deformis esse noluisset, tu formam quam perdidisti non recepisses. Pendebat ergo in cruce deformis: sed deformitas illius pulchritudo nostra erat.» S. AUGUSTINUS, Sermo 27, cap. 6. ML 38-181. Gesù in croce. 15. Gesù in croce fu uno spettacolo che riempì di stupore il cielo e la terra. Vedere un Dio onnipotente, Signore del tutto, morire in un patibolo infame, condannato qual malfattore tra due malfattori! Fu questo uno spettacolo di giustizia in veder l'Eterno Padre, il quale, affinché restasse soddisfatta la sua giustizia, punisce i peccati degli uomini nella persona del suo unigenito Figlio da lui amato quanto se stesso. Fu uno spettacolo di misericordia in vedere questo Figlio innocente morire con una morte sì vituperosa ed acerba, per salvare le sue creature dalla pena loro dovuta. Fu spettacolo poi principalmente d'amore in vedere un Dio che offerisce e dà la vita per redimer dalla morte gli schiavi suoi nemici. Questo spettacolo e quello ch'è stato sempre, e sarà l'oggetto più caro della contemplazione de' santi, per cui hanno essi stimato poco spogliarsi di tutti i beni e piaceri terreni, ed abbracciar con desiderio e gaudio le pene e la morte per render qualche gratitudine a un Dio morto per loro amore. 16. Confortati dalla vista di Gesù disprezzato sulla croce, i santi hanno amati i disprezzi più che i mondani non hanno amati tutti gli onori del mondo. Dal vedere Gesù morir nudo in croce han cercato di abbandonare tutti i beni di terra. Dal vederlo tutto impiagato sulla croce, che da tutti i suoi membri gronda sangue, hanno abborriti i piaceri sensuali ed han cercato quanto poteano di affligger la loro carne per accompagnare co' loro dolori i dolori del Crocifisso. Dal vedere l'ubbidienza e l'uniformità tenuta da Gesù Cristo alla volontà del Padre, si sono affaticati a vincere tutti gli appetiti che non eran conformi a' divini voleri; e molti benché occupati in opere di pietà, nondimeno sapendo che il privarsi della propria volontà è il sagrificio più gradito al cuore di Dio, sono andati a vivere in qualche religione per menar vita d'ubbidienza e soggettar la volontà propria a quella degli altri. Dal veder la pazienza di Gesù Cristo, in voler soffrire tante pene ed obbrobri per amor nostro, hanno accettate con pace e con gioia le ingiurie, le infermità, le persecuzioni ed i tormenti de' tiranni. Dal veder finalmente l'amore che ci dimostrò Gesù Cristo in sagrificare a Dio la sua vita sulla croce per noi, han sagrificato a Gesù Cristo tutto quanto aveano, beni, piaceri, onori e vita. 17. Ma come va poi che tanti altri Cristiani, quantunque sanno per fede che Gesù Cristo e morto per loro amore, in vece d'impiegarsi tutti in servirlo ed amarlo, s'impiegano ad offenderlo e disprezzarlo per gusti brevi e miserabili? Da che nasce questa tanta ingratitudine? Nasce dal dimenticarsi della Passione e morte di Gesù Cristo. Ma oh Dio, qual sarà il lor rimorso e rossore nel giorno del giudizio, quando il Signore lor rinfaccerà quanto per essi ha fatto ed ha patito? -Deh, non lasciamo noi, anime divote, di tener sempre innanzi agli occhi Gesù crocifisso, che muore fra tanti dolori ed ignominie per nostro amore. Tutti i santi dalla Passione di Gesù Cristo han ricevute quelle fiamme di carità, che loro han fatto dimenticare di tutti i beni di questo mondo ed anche di essi stessi per attender solo ad amare e compiacere questo divin Salvatore così innamorato degli uomini, che par che non abbia più che fare per esser da essi amato. La croce in somma, cioè la Passione di Gesù Cristo, è quella che ci otterrà la vittoria di tutte le nostre passioni e di tutte le tentazioni, che ci darà l'inferno per separarci da Dio. La croce è la via e la scala per salire in cielo. Beato chi l'abbraccia in vita e non la lascia sino alla morte! Chi muore abbracciando la croce, ha una caparra sicura della vita eterna promessa già a tutti coloro, che sieguono colla loro croce Gesù crocifisso. 18. Gesù mio crocifisso, voi per farvi amare dagli uomini nulla avete risparmiato, siete giunto sino a dare la vita con una morte si penosa; come poi questi uomini che amano i parenti, gli amici ed anche le bestie, da cui ricevono qualche segno d'affetto, con voi sono cosi ingrati che per beni miseri e vani disprezzano la vostra grazia e 'l vostro amore? - Ah miserabile me, io sono uno di quest'ingrati che per cose da nulla ho rinunciata la vostra amicizia e vi ho voltate le spalle! Meriterei che voi mi scacciaste dalla vostra faccia, com'io vi ho scacciato dall'anima mia. Ma sento che voi seguite a domandarmi il mio amore: Diliges Dominum Deum tuum. Sì, Gesù mio, giacché desiderate ch'io v'ami e mi offerite il perdono, io rinunzio a tutte le creature e non voglio amare da ogg'innanzi che voi solo, mio Creatore e Redentore. Voi avete da essere l'unico amore dell'anima mia. O Maria, madre di Dio, o rifugio de' peccatori, pregate per me, ottenetemi la grazia di amare Dio e niente più vi domando. CAPO IV - Riflessioni sugl'improperi fatti a Gesù Cristo mentre stava in Croce 1. La superbia, come dicemmo, è stata la causa del peccato di Adamo e per conseguenza della ruina del genere umano; perciò venne Gesù Cristo e volle riparar questa ruina colla sua umiltà non ripugnando di abbracciar la confusione di tutti gli obbrobri che gli preparavano i suoi nemici; siccome egli predisse per Davide: Quoniam propter te sustinui opprobrium, operuit confusio faciem meam (Ps. LXVIII, 8). Tutta la vita del nostro Redentore fu piena di confusioni e disprezzi che ricevé dagli uomini; ed egli non ricusò di soffrirli sino alla morte, affin di liberarci dalla confusione eterna: Qui proposito sibi gaudio sustinuit crucem, confusione contempta (Hebr. XII, 2). 2. Oh Dio, chi non piangerebbe di tenerezza e non amerebbe Gesù Cristo, se ognuno considerasse quanto egli patì in quelle tre ore che stiè crocifisso ed agonizzando su quella croce! Ogni suo membro stava ferito e addolorato ed uno non potea soccorrere l'altro. L'afflitto Signore in quel letto di dolore non potea muoversi, stando inchiodato nelle mani e ne' piedi; tutte le sue carni sagrosante erano piene di piaghe, ma quelle delle sue mani e de' piedi erano le più dolorose ed elle doveano sostenere tutto il corpo; ond'egli ove si appoggiava in quel patibolo, o sulle mani o su i piedi, ivi cresceva il dolore. Ben può dirsi che Gesù in quelle tre ore di agonia soffrì tante morti, quanti furono i momenti che stette in croce. -o Agnello innocente che tanto patisti per me, abbi pietà di me: Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere mei. 3. E queste erano le sue pene esterne del corpo, le meno acerbe; molto più grandi erano le pene interne dell'anima. L'anima sua benedetta era tutta desolata e priva di ogni stilla di consolazione o sollievo sensibile; tutto era in essa tedio, mestizia ed afflizione. Ciò voll'egli spiegare con quelle parole: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? Ed in questo mar di dolori interni ed esterni quasi affogato volle finir la vita il nostro amabile Salvatore, come avea già predetto per bocca di Davide: Veni in altitudinem maris et tempestas demersit me (Ps. LXVIII, 3). 4. Eccolo che nel tempo stesso in cui stava egli agonizzando sulla croce e si avvicinava alla morte, tutti coloro che gli stavano d'intorno, sacerdoti, scribi, seniori e soldati, si affaticavano a più affliggerlo con improperi e derisioni. Scrive S. Matteo (XXVII, 39): Praetereuntes autem blasphemabant eum moventes capita sua. Ciò fu profetizzato già da Davide, quando scrisse in persona di Cristo: Omnes videntes me deriserunt me, locuti sunt labiis et moverunt caput (Ps. XXI, 8). Quelli poi che gli passavano davanti gli diceano: Vah, qui destruis templum Dei et in triduo illud reaedificas, salva temetipsum; si filius Dei es, descende de cruce (Matth. XXVII, 40). Diceano: Tu ti sei vantato di abbattere il tempio e di rialzarlo in tre giorni. Ma Gesù Cristo non avea detto che poteva abbattere il tempio materiale e rialzarlo in tre giorni, ma avea detto: Solvite templum hoc et in tribus diebus excitabo illud (Io. IL 19). Colle quali parole volle ben anche significar la sua potenza; ma propriamente, come scrivono Eutimio ed altri, parlò allegoricamente, predicendo che i Giudei, con dargli morte, avrebbero un giorno separata l'anima sua dal corpo, ma ch'egli fra tre giorni sarebbe risorto.1 5. Diceano: Salva temetipsum. Uomini ingrati! Se questo gran Figlio di Dio, fatto che fu uomo, volea salvare se stesso, non si avrebbe eletta spontaneamente la morte. Si filius Dei es, descende de cruce; ma se Gesù scendea dalla croce e non compiva la nostra Redenzione colla sua morte, non potevamo noi esser liberati dalla morte eterna. Noluit descendere, dice S. Ambrosio, ne descenderet sibi, sed moreretur mihi (S. Ambros. Lib. 10 in Luc.).2 Scrive Teofilatto che quelli parlavan così per istigazione del demonio, il quale cercava d'impedire la salute che per mezzo della croce dovea Gesù ottenerci: Diabolus incitabat illos ut dicerent: Descendat nunc de cruce, quia cognoscebat quod salus per crucem fieret (Theophil. in c. 15 Marci). E poi soggiunge che il Signore non sarebbe salito in croce, se volea discenderne senza consumare la nostra Redenzione: Si voluisset descendere, neque a principio ascendisset.3 All'incontro S. Gio. Grisostomo dice che i Giudei diceano ciò per farlo morire vituperato qual impostore alla presenza di tutti, con farlo vedere inabile a liberarsi dalla croce dopo essersi vantato che era Figlio di Dio: Volebant enim ut tamquam seductor in conspectu omnium vituperatus descenderet (S. Chrysost. in Matth. XXVII, 42).4 6. Riflette di più lo stesso S. Grisostomo che a torto diceano i Giudei: Si filius Dei es, descende de cruce; poiché se Gesù fosse sceso dalla croce prima di morire, non sarebbe stato quel Figlio di Dio promesso che dovea salvarci colla sua morte. Perciò dunque, dice il santo, egli non discese dalla croce finché non vi morì, perché a questo fine era venuto, di lasciarvi la vita per la nostra salute: Quia filius est ideo non descendit de cruce, nam ideo venit ut crucifigeretur- pro nobis (Ibid.).5 Lo stesso scrive S. Atanasio, dicendo che il nostro Redentore voll'esser riconosciuto per vero Figlio di Dio col non discendere dalla croce, ma col rimanervi sino alla morte: Neque descendendo de cruce voluit filius Dei agnosci, sed ex eo quod in cruce permaneret (S. Athan., Serm. de Pass.).6 Poiché cosi stava già predetto da' profeti che il nostro Redentore dovea morir crocifisso, secondo quel che scrive S. Paolo: Christus nos redemit de maledicto legis factus pro nobis maledictum; quia scriptum est: Maledictus omnis qui pendet in ligno (Gal. III, 13). 7. Siegue S. Matteo a riferire gli altri improperi, che i Giudei diceano a Gesù Cristo: Alios salvos fecit, seipsum non potest salvum facere (Matth. XXVII, 42). Con ciò lo trattavano da impostore a rispetto de' miracoli, ch'erano stati da esso operati col restituire la vita a molti defunti; ed in oltre lo trattavano da impotente a salvarsi la vita propria. Ma risponde loro S. Leone che non era tempo quello conveniente al Salvatore di palesar la sua divina potenza, e che non dovea trascurar la Redenzione umana per impedire le loro bestemmie: Non vestrae caecitatis arbitrio, o stulti scribae, ostendenda erat potentia Salvatoris; nec secundum blasphemantium linguas humani generis redemptio debebat omitti (S. Leo, De Pass., serm. XXVII, c. 2)7 S. Gregorio adduce un altro motivo per cui Gesù non volle scendere dalla croce: Si tunc de cruce descenderet, virtutem patientiae nobis non demonstraret (Hom. XXI in Evang).8 Ben potea Gesù Cristo liberarsi dalla croce e da tali improperi, ma non era quel tempo opportuno di far pompa della sua potenza, ma d'insegnare a noi la pazienza ne' travagli per ubbidire alla divina volontà; e perciò non volle Gesù liberarsi dalla morte prima per adempire il voler di suo Padre, e poi anche per non privar noi di quel grand'esempio di pazienza: Quia patientiam docebat, ideo potentiam differebat (S. Aug. Tr. XXXVII in Io.).9 La pazienza ch'esercitò Gesù Cristo nella croce in soffrir la confusione di tanti improperi a lui fatti e detti da' Giudei, ottenne a noi la grazia di soffrir con pazienza e pace le umiliazioni e persecuzioni del mondo. Quindi S. Paolo, parlando del viaggio che fe' Gesù Cristo al Calvario carico della croce, ci esorta ad accompagnarlo dicendo: Exeamus igitur ad eum extra castra, improperium eius portantes (Hebr. XIII, 13). I santi nel ricevere le ingiurie non han pensato a vendicarsi né se ne son disturbati, anzi se ne son consolati vedendosi disprezzati come fu disprezzato Gesù Cristo. Pertanto non ci vergogniamo noi di abbracciare per amor di Gesù Cristo i disprezzi che ci son fatti, giacche Gesù Cristo ha sofferti tanti disprezzi per amor nostro. - Mio Redentore, per lo passato non ho fatto così; per l'avvenire voglio soffrir tutto per amor vostro, datemi forza di eseguirlo. 8. Non contenti i Giudei delle ingiurie e bestemmie proferite contro di Gesù Cristo, se la presero ancora contro del Padre, dicendo: Confidit in Deo, liberet nunc si vult eum: dixit enim, quia filius Dei sum (Matth. XXVII, 43). Questo sacrilego detto de' Giudei fu già prenunziato da Davide, quando disse in nome di Cristo: Omnes videntes me deriserunt me; locuti sunt labiis et moverunt caput; speravit in Domino eripiat eum: salvum faciat eum, quoniam vult eum (Ps. XXI, 8 et 9). or questi che così parlavano, furon da Davide nello stesso salmo chiamati tori, cani e leoni: Tauri pingues obsederunt me: quoniam circumdederunt me canes multi: salva me ex ore leonis (Ibid. ex vers. 13).10 Sicché dicendo i Giudei: Liberet nunc si vult eum, secondo scrive S. Matteo, ben si manifestarono da se stessi esser eglino i tori, cani e leoni predetti da Davide. Queste medesime bestemmie che un giorno avean da dire essi contro il Salvatore e contra Dio, furono anche anzi più espressamente predette dal Savio: Promittit se scientiam Dei habere et filium Dei se nominat... et gloriatur Patrem se habere Deum... Si enim est verus filius Dei, suscipiet illum, et liberabit eum de manibus contrariorum. Contumelia et tormento interrogemus eum, ut sciamus reverentiam eius et probemus patientiam illius: morte turpissima condemnemus eum (Sap. II, 13 et seq.).11 9. Erano spinti i principi de' sacerdoti dall'invidia e dall'odio contra Gesù Cristo a così vituperarlo. Ma nello stesso tempo non erano esenti dal timore di qualche gran gastigo, non potendo già negare i miracoli fatti dal Signore. Onde tutti i sacerdoti e capi della Sinagoga stavano inquieti e timorosi; e perciò vollero di persona assistere alla di lui morte per liberarsi colla di lui morte da quel timore che gli tormentava. Vedendolo poi affisso già alla croce e che da quella non era liberato da Dio suo Padre, presero a rinfacciargli con maggior audacia la sua impotenza e presunzione di essersi fatto Figlio di Dio. Diceano: Giacch'egli confida in Dio, che chiama suo padre, perché ora Iddio non lo libera, se l'ama come figlio? Confidit in Deo, liberet nunc si vult eum; dixit enim: Quia filius Dei sum. Ma erravano all'ingrosso i maligni, perché Dio amava Gesù Cristo e l'amava come Figlio; e perciò l'amava, perché Gesù stava sagrificando la vita su quella croce per la salute degli uomini, affin di ubbidire al Padre. Ciò lo disse Gesù medesimo: Et animam meam pono pro ovibus meis... Propterea me diligit Pater quia ego pono animam meam (Io. X, 15 et 17). Il Padre l'avea già destinato per vittima di quel gran sagrificio, che dovea recargli una gloria infinita, essendo il sagrificato uomo e Dio, e che apportava la salvazione di tutti gli uomini; ma se il Padre avesse liberato Gesù dalla morte, il sagrificio sarebbe restato imperfetto; e così il Padre sarebbesi privato di quella gloria, e gli uomini all'incontro sarebber rimasti privi della salute. 10. Scrive Tertulliano che tutti gli obbrobri fatti a Gesù Cristo furono un segreto rimedio della nostra superbia; mentre quelle ingiurie, ch'erano ingiuste ed indegne di lui, eran nonperò necessarie alla nostra salute e degne di un Dio che volea tanto patire per salvare l'uomo: Totum denique Dei mei penes vos dedecus, sacramentum est humanae salutis.12 E poi parlando degl'improperi a Gesù fatti soggiunge: Sibi quidem indigna, nobis autem necessaria, et ita Deo digna, quia nihil tam dignum Deo quam salus hominis (Tertul. Lib. II contr. Marcion. c. 27).13 Vergogniamoci intanto noi, che ci vantiamo di esser discepoli di Gesù Cristo, di risentirci con impazienza ne' disprezzi che riceviamo dagli uomini, giacche un Dio fatt'uomo gli soffrisce con tanta pazienza per la nostra salute. E non ci vergogniamo all'incontro d'imitar Gesù Cristo nel perdonare chi ci offende, mentr'egli si protesta che nel giorno del giudizio si vergognerà di coloro che in vita si saran vergognati di lui: Qui me erubuerit et meos sermones, hunc filius hominis erubescet cum venerit in maiestate sua (Luc. IX, 26). 11. Gesù mio, e come posso io dolermi di qualche affronto che ricevo, io che tante volte ho meritato di esser calpestato da' demoni nell'inferno! Deh, per lo merito di tanti disprezzi che voi soffriste nella vostra Passione, datemi la grazia di soffrir con pazienza tutti i disprezzi che mi saran fatti per amore di voi, che ne avete abbracciati tanti per amor mio. Io v'amo sopra ogni cosa e desidero patire per voi che tanto avete patito per me. Tutto spero da voi, che mi avete comprato col vostro sangue. E lo spero anche dalla vostra intercessione, o madre mia Maria. ___________________ 1 «Potentiae suae auctoritatis signum dat eis, puta tertii diei resurrectionem. Nam templum dicit corpus suum: ipsum enim domus est et templum non animae solum, verum etiam divinitatis. Solvite autem dixit, non adhortans eos ad sui interfectionem, sed quia cognovit quod facturi erant, figurativo sermone praedixit.» EUTHYMIUS Zigabenus, Commentaria in Ioannem (in cap. 2, v. 19). MG 129-1158. - Del resto, lo stesso Vangelo soggiunge (Io. II, 21) : Ille autem dicebat de templo corporis sui. 2 «Mihi plane Christus in Passione moriatur, ut post Passionem resurgat. Noluit descendere sibi, ut moreretur mihi.» S. AMBROSIUS, Expositio Evangelii secundum Lucam, lib. 10, n. 116. ML 151833. 3 «Diabolus autem incitabat illos ut dicerent: Descendat nunc de cruce. Quia enim cognoscebat auctor mali quod salus per crucem fieret, iterum tentabat Dominum, ut si descenderet de cruce, certum foret ipsum non esse Filium Dei, et sic periret salus quae per crucem; sed ille et Dei Filius erat vere, et propterea minus descendit. Nam si voluisset descendere, neque principio ascendisset.» THEOPHYLACTUS, Bulgariae Archiepiscopus, Enarratio in Evangelium Marci, cap. XV, v. 2832. MG 123-670. 4 «Non enim solum quae optabant fecerunt (contra Christum), verum etiam, resurrectionem illius formidantes, existimationi suae officere studebant: propterea publice ista iactant, latrones cum eo crucifigunt; et, ut seductor ac mendax videretur, Descende, clamabant, de cruce, qui templum destruis et in tribus ipsum diebus readificas. Nam quoniam scriptam a Pilato causam tollere non potuerunt, quia scriptum erat, Rex Iudaeorum; repugnavit enim ille dicens, quod scripsi scripsi; ideo vituperando nitebantur ostendere, quia rex non esset: ideo tumultuantes dicebant: Si rex Istrael est, descendat nunc de cruce. Et rursus: Alios salvos fecit, seipsum salvare nescit. Ideo etiam signis prioribus hinc detrahere conabantur.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Matthaeum, hom. 87 (al. 88), n. 2: MG 58-771. - Come si vede, S. Alfonso ha abbreviato il testo, volendo egli per massima citazioni brevi, e, per conseguenza, ha dovuto anche «interpretarlo». Lo stesso dicasi del testo seguente, nota 5. 5 «Et rursus (clamabant): Si Dilius Dei est, et si vult eum Deus, salvet nunc eum. O insani scelestique homines! An prophetae non erant prophetae, et iusti, quos occidistis, iusti non erant, quoniam eos Deus a periculis non eripuit? Immo vero erant, etiamsi a vobis iniuria vexabantur... Nam si existimati quod illorum apud vos propter pericula nomen (supple: non) periit, sed erant prophetae, quamvis torquerentur: multo magis non debebatis in hoc scandalizari, qui et rebus semper et verbis falsam hanc repulit opinionem. Nihil tamen, nec in ipso tempore Passionis, aut dicendo aut faciendo adversus existimationem Christi efficere valuerunt. Nam et latro... tunc maxime quando ista dicebantur eum confessus, regni eius fecit mentionem: et plebs ipsum amare flebat. Sed quamvis ea quae flebant, apud ignaros dispensationis, mysterii huius imbecillitatem testari videbantur, veritas tamen etiam per haec contraria floruit.» IDEM, l. c. 6 «At Salvator, qui revera Filius Dei erat, non fugiendo mortem, sed exspectando, atque ita calcando ipsam, voluit dignosci se Filium esse Dei atque veram vitam.» De Passione et cruce Domini, n. 22: inter Opera S. Athanasii dubia. MG 28-223. 7 «Non vestrae caecitatis arbitrio, o stulti scribae et impii sacerdotes, ostendenda erat potentia Salvatoris, nec secundum pravas blasphemantium linguas humani generis redemptio debebat intermitti.» S. LEO MAGNUS, Sermo 68 (al. 66), de Passione Domini, 17, cap. 2. 8 «Qui si de cruce tunc descenderet, nimirum insultantibus cedens, virtutem nobis patientiae non demonstraret. Sed exspectavit paululum, toleravit opprobria, irrisiones sustinuit, servavit patientiam, distulit admirationem; et qui de cruce descendere noluit, de sepulcro surrexit. Plus igitur fuit de sepulcro surgere quam de cruce descendere.» S. GREGORIUS MAGNUS, XL Homiliae in Evangelia, lib. 2, hom. 21, n. 7. ML 76-1173. 9 «Quia patientiam docebat, ideo potentiam differebat. Si enim quasi commotus ad eorum verba descenderet, victus conviciorum dolore putaretur. Prorsus non descendit, fixus permansit, quando vellet abscessurus. Nam quid ei magnum fuit de cruce descendere, qui potuit de sepulcro resurgere? Intelligamus ergo nos quibus hoc ministratum est, potentiam Domini nostri Iesu Christi occultam tunc, manifestam futuram in iudicio.» S. AUGUSTINUS, In Ioannem, tractatus 37, n. 10. ML 351675. 10 Ps. XXI, 13, 17, 22. 11 Sap. II, 13, 16, 18, 19, 20. 12 «Quaecumque exigitis Deo digna habebuntur in Patre invisibili incongressibilique et placido, et ut ita dixerim - philosophorum Deo. QUaecumque autem ut indigna reprehenditis, deputabuntur in Filio, et viso, et audito, et congresso, arbitro Patris et ministro, miscente in semetipso hominem et Deum; in virtutibus, Deum; in pusillitatibus, hominem; ut tantum homini conferat, quantum Deo detrahit: totum denique Dei mei penes vos dedecus, sacramentum est humanae salutis... Qui talem Deum dedignaris, nescio an ex fide credas Deum crucifixum.» TERTULLIANUS, Adversus Marcionem, lib. 2, cap. 27. ML 2-317. 13 «Iam nunc ut et cetera compendio absolvam, quaecumque adhuc ut pusilla et infirma et indigna colligitis ad destructionem Creatoris, simplici et certa ratione proponam: Deum non potuisse humanos congressus inire, nisi humanos et sensus et affectus suscepisset, per quos vim maiestatis suae, intolerabilem utique humanae mediocritati, humilitate temperaret, sibi quidem indigna, homini autem necessaria; et ita iam Deo digna, quia nihil tam dignum Deo, quam salus hominis.» Ibid. ML 2-316. CAPO V - Riflessioni sulle sette parole dette da Gesù Cristo in Croce 1. PAROLA I. Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt (Luc. XXIII, 34). O tenerezza dell'amore di Gesù Cristo verso degli uomini! Dice S. Agostino che il Salvatore nello stesso tempo ch'era ingiurialo da' suoi nemici, cercava per essi il perdono; mentre allora non mirava le ingiurie che da lor ricevea e la morte che gli davano, quanto l'amore che per essi lo facea morire: Illis petebat veniam, a quibus adhuc accipiebat iniuriam; non enim attendebat quod ab ipsis moriebatur, sed quia pro ipsis moriebatur.1 Ma dirà alcuno: E perché Gesù pregò il Padre a perdonarli, potendo egli stesso rimetter loro le ingiurie? Risponde S. Bernardo che pregò il Padre non quia non posset ipse relaxare, sed ut nos pro persequentibus orare doceret.2 Dice poi il santo abate in altro luogo: Mira res! ille clamat: Ignosce; Iudaei: Crucifige! (S. Bern. De Pass. fer. 4).3 Soggiunge Arnoldo Carnotense: Mentre Gesù sforzavasi di salvare i Giudei, essi affaticavansi per dannarsi; ma presso Dio avea più forza la carità del Figlio, che la cecità di quel popolo ingrato: Cum ipse niteretur ut salvarentur, Iudaei ut damnarentur. Plus debet apud Deum posse Filii caritas quam populi caecitas (Arn. Carnot. Tract. de sept. verb.).4 E S. Cipriano scrive: Vivificatur Christi sanguine etiam qui effudit sanguinem Christi (S. Cypr. L. de bono pat.).5 Ebbe tanto desiderio Gesù Cristo morendo di salvar tutti, che non lasciò di far partecipi del suo sangue quegli stessi nemici, che gli estraevano il sangue a forza di tormenti. Guarda, dice S. Agostino, il tuo Dio appeso in croce; senti come prega per li suoi crocifissori, e poi nega la pace al fratello che ti offese.6 2. Scrive S. Leone (Serm. 11), che per tale orazione di Cristo si convertirono poi tante migliaia di Giudei alle prediche fatte da S. Pietro, come si legge negli Atti degli Apostoli;7 mentre, scrive S. Girolamo, Iddio non volle che restasse vana la preghiera di Gesù Cristo; e perciò in quello stesso tempo operò che subito molti Giudei abbracciassero la fede: Imperavit quod petierat Christus, multique statim denIudaeis crediderunt (S. Hier. Ep. ad Elvid. q. 8).8 Ma perché non si convertirono tutti? Si risponde che la preghiera dì Gesù Cristo fu condizionata: purché non fossero quei per cui pregava del numero di coloro a' quali fu detto: Vos Spiritui Sancto resistitis.9 3. In quella preghiera allora Gesù Cristo comprese anche noi peccatori; onde possiamo noi tutti dire a Dio: O Padre Eterno, udite la voce del vostro amato Figlio che vi prega a perdonarci. È vero che noi tal perdono non lo meritiamo, ma lo merita Gesù Cristo che colla sua morte ha soddisfatto con soprabbondanza per li nostri peccati. No, mio Dio, io per me non voglio essere ostinato come i Giudei; mi pento, Padre mio, con tutto il cuore di avervi disprezzato, e, per li meriti di Gesù Cristo, vi cerco il perdono. E voi, Gesù mio, già sapete ch'io sono un povero infermo, anzi perduto per li miei peccati, ma voi apposta siete venuto dal cielo in terra per sanare gl'infermi e salvare i perduti che si pentono di avervi offeso. Di voi disse Isaia (LXI, 1): Venit salvum facere quod perierat.10 E S. Matteo scrisse lo stesso (XVIII, 11): Venit enim Filius hominis salvare quod perierat. 4. PAROLA II. Amen dico tibi: Hodie mecum eris in paradiso (Luc. XXIII, 43). Scrive il medesimo S. Luca, che de' due ladroni crocifissi con Gesù Cristo uno restò ostinato e l'altro si convertì: il quale vedendo che il suo perfido compagno bestemmiava il Signore con dirgli: Si tu es Christus, salvum fac temetipsum et nos (Luc. XXIII, 39) - egli il buon ladrone si volse a riprenderlo, dicendogli ch'essi erano castigati come meritavano, ma Gesù era innocente: Et nos quidem iuste, nam digna factis recipimus; hic vero nihil mali gessit (Luc. XXIII, 41). E poi rivolto a Gesù medesimo, gli disse: Domine, mementonmei cum veneris in regnum tuum (vers. 12). Colle quali parole riconobbelo per suo vero Signore e per Re del cielo; ed allora Gesù gli promise il paradiso per lo stesso giorno: Amen dico tibi, hodie mecum eris in paradiso (vers. 43). Scrive un dotto autore, che per tal promessa il Signore nello stesso giorno immediatamente dopo la sua morte gli si fe' vedere alla svelata e lo rendé felicissimo, benché non gli conferì tutte le delizie del cielo prima di entrarvi.11 5. Arnoldo Carnotense nel suo trattato de Sept. Verb., considera tutte le virtù che il buon ladrone S. Dima esercitò nella sua morte: Ibi credit, poenitet, confitetur, praedicat, amat, confidit et orat.12 Esercitò la fede dicendo: Cum veneris in regnum tuum, credendo che Gesù Cristo dopo la sua morte dovea entrar vittorioso nel regno della sua gloria: Regnaturum credidit, scrive S. Gregorio, quem morientem vidit.13 Esercitò la penitenza colla confessione de' suoi peccati, dicendo: Et nos quidem iuste, nam digna factis recipimus. Riflette S. Agostino ch'egli non ebbe animo di sperare il perdono prima della sua confessione: Non est ausus ante dicere memento mei, quam post confessionem iniquitatis sarcinam peccatorum deponeret (S. August. CXXX de temp.).14 Onde disse S. Atanasio: O beatum latronem, rapuisti regnum ista confessione!15 - Altre belle virtù esercitò allora questo santo penitente. Esercitò la predicazione predicando l'innocenza di Gesù Cristo: Hic vero nihil mali gessit. Esercitò l'amore verso Dio accettando la morte con rassegnazione in pena de' suoi peccati, dicendo: Digna factis recipimus. Onde S. Cipriano, S. Girolamo e S. Agostino16 non dubitano di chiamarlo martire; e riflette il Silveira17 che questo felice ladrone fu vero martire, perché i carnefici in rompergli le gambe fecero quest'officio con più furore per causa ch'egli avea lodata l'innocenza di Gesù, e 'l santo accettò quella pena per amor del suo Signore. 6. Notiamo all'incontro in tal fatto la bontà di Dio che sempre dona più di quello che gli vien richiesto, come dice S. Ambrogio: Semper Dominus plus tribuit quam rogatur; ille rogabat ut memor sui esset, et dixit illi Iesus: Hodie mecum eris in paradiso.18 Riflette in oltre S. Giovanni Grisostomo che niuno meritò la promessa del paradiso prima di questo ladrone: Nullum ante latronem invenies repromissionem paradisi meruisse (Hom. de cruc. et latr.).19 Allora si avverò quel che disse Dio per Ezechiele, che quando il peccatore si pente di vero cuore delle sue colpe, egli lo perdona in tal modo come si dimenticasse delle offese che gli ha fatte: Si autem impius egerit poenitentiam ... omnium iniquitatum eius... non recordabor (Ezech. XVIII, 21, 22). Ed Isaia ci fa sapere che Dio è così inclinato al nostro bene che quando lo preghiamo subito ci esaudisce: Ad vocem clamoris tui statim ut audierit respondebit tibi (Is. XXX, 19). Dice S. Agostino che Dio sta sempre apparecchiato per abbracciare i peccatori pentiti: Paratus in amplexus peccatorum (S. Aug. Man. c. XXIII).20 Ed ecco come la croce dal mal ladrone sofferta con impazienza gli diventò maggior sua rovina per l'inferno; all'incontro la croce sofferta con pazienza dal buon ladrone gli diventò scala per lo paradiso. O felice te, santo ladrone, che avesti la sorte di unir la tua morte colla morte del tuo Salvatore! Gesù mio, io da ora vi sagrifico la mia vita e vi cerco la grazia di poter unire nell'ora della morte mia il sagrificio della mia vita con quello che voi offeriste a Dio sulla croce; e per quello spero di morire in grazia ed amandovi con puro amore spogliato da ogni affetto terreno per seguirvi ad amare con tutte le mie forze in tutta l'eternità. 7. PAROLA III. Mulier, ecce filius tuus; deinde dicit discipulo: Ecce mater tua (Io. XIX, 26 et 27). Si legge poi in S. Marco che nel Calvario vi eran molte donne che guardavano Gesù già crocifisso, ma da lontano: Erant autem et mulieres de longe aspicientes, inter quas erat Maria Magdalene (Marc. XV, 40). Sicché si crede che tra quelle sante donne vi era ancora la divina Madre; ma S. Giovanni dice che la S. Vergine stava non da lontano, ma vicina alla croce insieme con Maria Cleofa e Maria Maddalena: Stabant autem iuxta crucem Iesu mater eius, etc. (Io. XIX, 25). Eutimio cerca di sciogliere questa difficoltà e dice, che la S. Vergine, vedendo che il Figlio già si accostava alla morte, ella più delle altre donne si avvicinò alla croce, vincendo il timore de' soldati che la circondavano e soffrendo con pazienza tutti gl'insulti e respinte ch'ebbe da patire da quei soldati che guardavano i condannati, per poter ella più avvicinarsi all'amato Figlio: Tunc Dei mater propinquius cruci astitit quam aliae mulieres Iudaeorum vincens timorem.21 Così anche dice un dotto autore, che scrive la Vita di Gesù Cristo, dicendo: Vi erano gli amici che l'osservavano da lontano; ma la S. Vergine, la Maddalena ed un'altra Maria stavano presso la croce con Giovanni; onde Gesù, avendo veduta la Madre e Giovanni, disse loro le parole di sopra notate: Mulier ecce etc.22 Scrisse Guerrico abate: Plane mater, quae nec in terrore mortis filium deserebat.23 Fuggono le madri, allorché si trovano a vista de' figli moribondi: l'amore non permette loro di assistere a tale spettacolo, di vederli morire senza poterli soccorrere: ma la S. Madre quanto più il Figlio si avvicinava alla morte, più ella si avvicinava alla croce. 8. Stavasi dunque l'afflitta Madre vicina alla croce, e siccome il Figlio sagrificava la vita, così ella sagrificava il suo dolore per la salute degli uomini, partecipando con somma rassegnazione di tutte le pene ed obbrobri che il Figlio soffriva morendo. - Dice un autore che disonorano la costanza di Maria quei che la fanno dipingere svenuta a piè della croce:24 ella fu la donna forte che non isvenne né pianse, come scrive S. Ambrogio: Stantem lego, flentem non lego (in c. XXIII Luc.).25 Il dolore che provò la S. Vergine nella Passione del Figlio superò tutti i dolori che può patire un cuore umano; ma il dolor di Maria non fu un dolore sterile, com'è quello delle altre madri nel vedere i patimenti de' figli, fu un dolor fruttifero; mentre coi meriti di tal dolore e colla sua carità, al dire di S. Agostino, siccome ella è madre naturale del nostro capo Gesù Cristo, così fecesi allora madre spirituale di noi fedeli membri di lui, cooperando colla sua carità a farci nascere e ad esser figli della Chiesa: Plane mater, dice il santo, membrorum eius quae nos sumus, quia cooperata est caritate ut fideles in Ecclesia nascerentur, quae illius capitis membra sunt (S. Aug. L. de sanct. virginit. c. VI).26 9. Scrive S. Bernardo che sul monte Calvario questi due gran martiri, Gesù e Maria, taceano ambedue, mentre il gran dolore che gli opprimea, toglieva loro il poter parlare: Tacebant ambo illi martyres, et pro nimio dolore loqui non poterant (S. Bern. De lam. Mar.).27 La Madre guardava il Figlio agonizzante sulla croce, e 'l Figlio guardava la Madre agonizzante a piè della croce e macerata dalla compassione che avea delle di lui pene. 10. Stavano già poi Maria e Giovanni più vicini delle altre donne alla croce, in modo che in quel gran tumulto poteano essi più facilmente udir la voce e distinguere gli sguardi di Gesù Cristo. Scrive S. Giovanni: Cum vidisset ergo Iesus matrem et discipulum stantem quem diligebat, dicit Matri suae: Mulier, ecce filius tuus (Io. XIX, 26). - Ma se Maria e Giovanni stavano accompagnati colle altre donne, perché dicesi che Gesù guardasse la Madre e 'l discepolo, come se quelle altre donne non fossero state da lui vedute? Risponde S. Grisostomo che l'amore fa sempre guardare con più distinzione gli oggetti che più si amano: Semper amoris oculus acutius intuetur.28 E S. Ambrogio parimente scrive: Morale est ut quos diligimus, videamus prae ceteris.29 Rivelò la stessa B. Vergine a S. Brigida che Gesù per guardar la Madre che stava accanto alla croce, dové affaticarsi nel comprimere le sue ciglia per togliersi da sovra gli occhi il sangue che gl'impediva la vista: Nec ipse me adstantem cruci videre potuit nisi sanguine expresso per ciliorum compressionem (Rev. lib. lV, cap. 70).30 11. Le disse Gesù: Mulier, ecce filius tuus, accennandole cogli occhi S. Giovanni, che le stava accanto. - Ma perché la chiamò donna e non madre? La chiamò donna, può dirsi, perché stando egli già prossimo alla morte le parlò da lei licenziandosi, come le dicesse: Donna, fra poco io sarò morto, onde tu non avrai altro figlio in questa terra; ti lascio pertanto Giovanni che ti servirà ed amerà da figlio. -E con ciò diè ad intendere che Giuseppe era morto, perché se quegli fosse stato ancor vivo, non l'avrebbe separato dalla sua sposa. Tutta poi l'antichità attesta che S. Giovanni fu sempre vergine e specialmente per tal pregio fu egli sostituito per figlio a Maria, ed onorato ad occupare il luogo di Gesù Cristo; onde canta la S. Chiesa: Huic matrem Virginem virgini commendavit.31 E sin dal punto che morì il Signore, come sta scritto, S. Giovanni ricevé Maria nella propria casa, e l'assisté e servi in tutta la di lei vita, come sua propria madre: Et ex illa hora accepit eam discipulus in sua (Io. XIX, 27). Volle Gesù Cristo che questo suo diletto discepolo fosse testimonio oculare della sua morte per poterla poi egli più fermamente attestare nel suo Vangelo e dire: Qui vidit testimonium perhibuit (Io. XIX, 35) E nella sua lettera: Quod vidimus oculis nostris... et testamur et annuntiamus vobis etc. (I Io. I, 1 et 2). E perciò il Signore, nel tempo in cui gli altri discepoli l'abbandonarono, diè a S. Giovanni la fortezza di assistergli sino alla morte in mezzo a tanti nemici. 12. Ma torniamo alla S. Vergine ed entriamo a scorgere la ragione più intrinseca per cui Gesù chiamò Maria donna e non madre. Con ciò volle significarci essere ella la gran donna predetta nella Genesi che dovea schiacciare la testa del serpente: Inimicitias ponam inter te et mulierem, et semen tuum et semen illius; ipsa conteret caput tuum, et tu insidiaberis calcaneo eius (Gen. III, 15). Da niuno si dubita che questa donna fu la B. Vergine Maria, la quale per mezzo del figliuolo, o pure il figliuolo per mezzo di lei che lo partorì, dovea schiacciare il capo di Lucifero. Ben dovea Maria esser nemica del serpente, poiché Lucifero fu superbo, ingrato e disubbidiente, ma ella fu tutta umile, grata ed ubbidiente. Si dice: Ipsa conteret caput tuum, perché Maria per mezzo del figlio abbatté la superbia di Lucifero, il quale insidiò al tallone di Gesù Cristo -- s'intende per tallone la di lui santa umanità ch'era la parte più vicina alla terra -ma il Salvatore colla sua morte ebbe la gloria di vincerlo e privarlo dell'imperio ch'egli, per causa del peccato, avea ottenuto sul genere umano. 13. Disse Dio al serpente: Inimicitias ponam inter semen tuum et semen mulieris.32 Ciò dinotava che dopo la ruina degli uomini, recata loro dal peccato, con tutta l'opera della Redenzione di Gesù Cristo, pure doveano esservi nel mondo due famiglie e due posterità; per lo seme di Satana vien significata la famiglia de' peccatori suoi figli da esso corrotti; per lo seme di Maria venne significata la famiglia santa, che comprende tutti i giusti col loro capo Gesù Cristo. Onde Maria venne destinata madre così del capo, come de' di lui membri, quali sono i fedeli. Scrisse l'Apostolo: Omnes enim vos unum estis in Christo Iesu; si autem vos Christi, ergo semen Abrahae estis (Gal. III, 28 et 29). Sicché Gesù Cristo coi fedeli sono un sol corpo, mentre il capo non si divide da' suoi membri; e questi membri son tutti figli spirituali di Maria, posto che abbiano lo stesso spirito del suo figlio naturale qual fu Gesù Cristo. Quindi S. Giovanni non fu chiamato Giovanni, ma il discepolo diletto del Signore: Discipulum stantem quem diligebat. - Deinde dicit discipulo: Ecce mater tua, acciocché intendiamo che Maria SS. è madre di ogni buon cristiano ch'è amato da Gesù Cristo, ed in cui vive Gesù Cristo col suo spirito. Ciò volle esprimere Origene quando scrisse: Dixitque Iesus matri: Ecce filius tuus; perinde est ac si dixisset: Ecce hic Iesus quem genuisti; etenim qui perfectus est non amplius vivit ipse, sed in ipso vivit Christus (Orig. In Io. pag. 6).33 14. Scrive il Cartusiano che nella Passione di Gesù Cristo le mammelle di Maria si riempirono del sangue che scorrea dalle di lui piaghe, affinch'ella poi ne alimentasse noi suoi figli.34 Ed aggiunge che questa divina Madre, colle sue preghiere e meriti che acquistò specialmente coll'assistere alla morte di Gesù Cristo, ottenne a noi l'esser fatti partecipi del merito della Passione del Redentore: Promeruit ut per preces eius ac merita meritum Passionis Christi communicetur hominibus (Carthus. L. II De laud. Mar. c. XXIII).35 O Madre addolorata, voi già sapete ch'io mi ho meritato l'inferno; non ho altra speranza di salvarmi se non che mi sian comunicati i meriti della morte di Gesù Cristo; questa grazia voi me l'avete da impetrare, e vi prego ad ottenermela per amore di quel Figlio, che sul monte Calvario vi vedeste innanzi agli occhi chinar la testa e spirare. O regina de' martiri, o avvocata de' peccatori, soccorretemi sempre e specialmente poi nel punto di mia morte. Da ora mi pare di vedere i demoni, che nella mia agonia si affaticheranno a farmi disperare alla vista de' miei peccati; deh non mi abbandonate allora che vedrete l'anima mia così combattuta, aiutatemi colle vostre preghiere, ottenetemi la confidenza e la santa perseveranza. E perché allora, perduta la parola e forse anche i sensi, non potrò invocare il vostro nome e del vostro Figlio, da ora v'invoco e dico: Gesù e Maria, vi raccomando l'anima mia. 15. PAROLA IV. Eli, Eli, lamma sabacthani? hoc est: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (Matth. XXVII, 46). Ma prima di queste parole scrive S. Matteo: Et circa horam nonam clamavit Iesus voce magna dicens: Eli, Eli, etc. Perché mai Gesù Cristo disse queste parole a gran voce? Dice Eutimio che gridò così forte per farci intendere la sua potenza divina, mentre stando prossimo a spirare potea far sentire una voce sì grande: cosa che non posson fare gli agonizzanti per la gran debolezza che allora patiscono. In oltre gridò sì forte, per farc'intendere la gran pena con cui moriva.36 Avrebbe alcuno potuto credere ch'essendo Gesù uomo e Dio, egli colla potenza della sua divinità avesse impedito ai tormenti di recargli dolore; onde, per toglier questo sospetto, volle manifestar con quelle parole che la sua morte fu la più amara che mai alcun uomo avesse sofferta; e che dove i martiri ne' lor tormenti eran consolati dalle divine dolcezze, egli, qual re de' martiri, volea morire abbandonato da ogni conforto, soddisfacendo a tutto rigore la divina giustizia per tutti i peccati degli uomini. E perciò riflette il Silveira che Gesù chiamò il suo Padre, Dio, e non padre, perché allora dovea trattarlo da reo come giudice, e non da figlio come padre: Iesus pendens in cruce erat satisfaciens de toto rigore iustitiae Parenti suo, tamquam iudici pro peccatis generis humani.37 16. Scrive S. Leone che quel grido del Signore non fu lamento, ma dottrina: Vox ista doctrina est, non querela (Serm. XVII de Pass. cap. 13).38 Dottrina, poiché con quella voce volle istruirci ad apprendere quanto sia grande la malizia del peccato, che quasi obbligava Dio ad abbandonare alla pena senza sollievo il suo Figlio diletto, solamente per aversi egli addossato il peso di soddisfare i nostri delitti. Allora Gesù non fu già abbandonato dalla divinità né fu privato della gloria ch'era stata comunicata all'anima sua benedetta sin dal primo istante della sua creazione; ma fu bensì privato d'ogni sollievo sensibile con cui suole Iddio confortare i suoi servi fedeli ne' loro patimenti, e fu lasciato in tenebre, timori ed amarezze, pene tutte meritate da noi. Questo abbandono della sensibil presenza divina l'ebbe Gesù anche nell'orto di Getsemani; ma quello che patì stando in croce fu più grande e più amaro. 17. Ma, o Eterno Padre, qual disgusto mai vi ha dato questo innocente e ubbidientissimo Figlio, che lo punite con una morte così amara? Miratelo come sta su quel legno col capo tormentato dalle spine, come pende da tre uncini di ferro e poggia sulle sue medesime piaghe; tutti l'hanno abbandonato, anche i suoi discepoli, tutti su quel patibolo lo deridono e lo bestemmiano; e perché voi, che tanto l'amate, anche l'avete abbandonato? - Ma bisogna intendere che Gesù erasi caricato di tutti i peccati del mondo, e perciò quantunque egli era in quanto a sé il più santo di tutti gli uomini, anzi la stessa santità, nondimeno in quanto al peso addossatosi di soddisfare per tutti i loro peccati, compariva il peggior peccatore del mondo, e come tale, fattosi reo per tutti, erasi offerto a pagare per tutti. E perché noi meritavamo di essere abbandonati eternamente all'inferno colla disperazione eterna, perciò egli stesso voll'essere abbandonato ad una morte priva d'ogni conforto, per così liberar noi dalla morte eterna. 18. Bestemmiò Calvino nel commentario da lui fatto sopra S. Giovanni, dicendo che Gesù Cristo per placare il Padre cogli uomini dovea sperimentare tutta l'ira che Dio ha contra i peccati, e Sentir tutte le pene de' dannati e specialmente quella della disperazione.39 Bestemmia e sciocchezza! Come potea soddisfare i peccati nostri con un peccato cosi grande qual era quello della disperazione? E come poteva accordarsi questa disperazione, che sogna Calvino, colle altre parole che allora disse Gesù Cristo: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum? (Luc. XXIII, 46). La verità si è, come spiegano S. Girolamo, S. Grisostomo40 ed altri, che il nostro Salvatore espresse quel suo lamento solo per dimostrare non già la sua disperazione, ma l'amarezza che soffriva in fare una morte priva d'ogni sollievo. In oltre la disperazione di Gesù non potea nascere da altro motivo che dal vedersi odiato da Dio; ma come poteva Iddio odiare quel Figlio che, per ubbidire alla di lui volontà, erasi offerto a soddisfarlo per le colpe degli uomini? Questa ubbidienza fu quella poi per la quale anche il Padre lo rispettò e gli concesse la salute del genere umano, secondo scrive l'Apostolo: Qui in diebus carnis suae preces supplicationesque ad eum qui possit illum salvum facere a morte cum clamore valido et lacrymis offerens exauditus est pro sua reverentia (Hebr. V, 7). 19. Del resto questo abbandono di Gesù Cristo fu la pena più tormentosa in tutta la sua Passione, mentre sappiamo che dopo tanti acerbi dolori, sofferti senza mai lagnarsi, di questa sola si lamentò e si lamentò con un grido grande - voce magna - e con molte lagrime e preghiere, come parla S. Paolo. Ma tutti questi suoi gridi e lagrime furon fatti a fine di fare intendere a noi quanto egli pativa per ottenerci la divina misericordia; e per farci comprendere insieme qual pena orrenda sia ad un'anima rea l'esser discacciata da Dio e privata per sempre del suo amore, secondo la minaccia divina: De domo mea eiiciam eos, non addam ut diligam eos (Osee, IX, 15). Dice di più S. Agostino che Gesù Cristo si turbò a vista della sua morte, ma ciò lo fece per consolazione de' suoi servi, acciocché, se mai a vista della loro morte si ritrovan turbati, non si tengano per reprobi e non si abbandonino alla disperazione, perché anch'egli a vista della morte si turbò; ecco le parole del santo: Si imminente morte turbaris, non te existimes reprobum nec desperationi te abiicias; ideo enim Christus turbatus est in conspectu suae mortis (S. Aug. Lib. pronost.).41 20. Frattanto ringraziamo la bontà del nostro Salvatore in aver voluto prender sovra di sé le pene da noi meritate, e così liberarci dall'eterna morte; e procuriamo da ogg'innanzi di esser grati a questo nostro liberatore, scacciando dal cuore ogni affetto che non è per lui. E quando ci vediamo desolati di spirito e privi della sensibil presenza divina, uniamo la nostra desolazione con quella che patì Gesù Cristo nella sua morte. Egli talvolta, all'anime sue più dilette, si nasconde dagli occhi, ma non si parte dal cuore, e loro assiste colla grazia interna. Né si offende che in tale abbandono gli diciamo, come egli disse nell'orto al suo divin Padre: Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste (Matth. XXVI, 39). Ma bisogna poi subito con esso soggiungere: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. E se la desolazione seguita, bisogna seguire a replicar lo stesso atto di uniformità, com'egli lo replicò per tutte quelle tre ore che orò nell'orto: Et oravit tertio, eumdem sermonem dicens (Ibid. 44). Dice S. Francesco di Sales che Gesù tanto è amabile quando si fa vedere che quando si nasconde.42 Del resto a chi si ha meritato l'inferno e se ne vede fuori, altro non tocca che dire: Benedicam Dominum in omni tempore (Ps. XXXIII, 2). Signore, io non merito consolazioni; fate ch'io v'ami colla vostra grazia, e son contento di viver così desolato per quanto vi piace. Ah che se i dannati potessero nelle loro pene così uniformarsi al divino volere, il loro inferno non sarebbe più inferno. 21. Tu autem, Domine, ne elongaveris auxilium tuum a me, ad defensionem meam conspice (Ps. XXI, 20). Deh Gesù mio, per li meriti della vostra morte desolata, non mi private del vostro aiuto in quel gran combattimento che nel punto di mia morte avrò coll'inferno. In quel tempo già tutti della terra mi avranno abbandonato né potranno aiutarmi; non mi abbandonate voi che siete morto per me, e solo potete soccorrermi in quell'estremo. Fatelo per lo merito di quella pena che soffriste nel vostro abbandono, per cui meritaste a noi di non esser abbandonati dalla divina grazia, secondo meritavamo per le nostre colpe. 22. PAROLA V. Sitio. Scrive S. Giovanni: Postea sciens Iesus quia omnia consummata sunt, ut consummaretur Scriptura, dixit: Sitio (Io. XIX, 28). La Scrittura ivi accennata era quella di Davide: Et dederunt in escam meam fel, et in siti mea potaverunt me aceto (Ps. LXVIII, 22). Grande era la sete corporale che provò Gesù Cristo sulla croce per tanto sangue sparso prima nell'orto e poi nel pretorio per la flagellazione e coronazione di spine e finalmente sulla croce, ove dalle piaghe delle mani e de' piedi trafitti, come da quattro fonti, scaturivano quattro rivi di sangue. Ma fu molto più grande la sua sete spirituale, cioè il desiderio ardente ch'egli avea di salvar tutti gli uomini e di più patire per noi, come dice Blosio, affin di dimostrarci il suo amore: Habuit aliam sitim, puta amplius patiendi et evidentius suum nobis demonstrandi amorem.43 Onde poi scrisse S. Lorenzo Giustiniani: Sitis haec de amoris fonte nascitur (De agon. c. 19).44 Ah Gesù mio, voi tanto desiderate di patire per me, ed a me tanto rincresce il patire, che ad ogni patimento divento così impaziente con me stesso e cogli altri, che mi rendo insopportabile! Gesù mio, rendetemi voi, per li meriti della vostra pazienza, paziente e rassegnato nelle infermità e nelle traversie che mi avvengono; fatemi simile a voi prima ch'io muoia. 23. PAROLA VI. Consummatum est. Scrive S. Giovanni: Cum ergo accepisset Iesus acetum, dixit: Consummatum est (Io. XIX, 30). In quel punto Gesù prima di spirare si pose davanti gli occhi tutti i sagrifici dell'antica legge - che tutti eran figure del sagrificio della croce - tutte le preghiere degli antichi Padri, e tutte le profezie già fatte della sua vita e della sua morte, tutti gli strazi e ludibri predetti che dovea patire; e, vedendo che tutto si era adempiuto, disse: Consummatum est. 24. S. Paolo ci fa coraggio a correr generosamente colla pazienza al combattimento, che ci tocca ad avere in questa vita co' nostri nemici per ottener la salute: Per patientiam curramus ad propositum nobis certamen, aspicientes in auctorem fidei et consummatorem Iesum, qui proposito sibi gaudio, sustinuit crucem (Hebr. XII, 1 et 2). Qui ci esorta l'Apostolo a resistere colla pazienza alle tentazioni sino alla fine, ad esempio di Gesù Cristo che non volle scender dalla croce prima di lasciarvi la vita. Perciò S. Agostino (In Ps. 70) scrisse: Quid te docuit pendens qui descendere noluit, nisi ut sis fortis in Deo tuo?45 Gesù volle consumare il suo sagrificio sino alla morte, per renderci persuasi che il premio della gloria non si dona da Dio se non a coloro che perseveran nel bene sino alla fine, come ci fe' sentire per S. Matteo: Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit (Matth. X, 22). Quindi, allorché dalle passioni interne, o dalle tentazioni del demonio, o dalle persecuzioni degli uomini, ci sentiamo molestati e spinti a perder la pazienza ed abbandonarci all'offesa di Dio, diamo un'occhiata a Gesù crocifisso, che sparse tutto il suo sangue per la nostra salute; e pensiamo che noi ancor non abbiamo sparsa ancora una goccia di sangue per suo amore: Nondum enim usque ad sanguinem restitistis, adversus peccatum repugnantes (Hebr. XII, 4). Così ci avverte S. Paolo. 25. Quando dunque ci occorre di dover cedere a qualche punto di stima, di astenerci di qualche risentimento, di privarci di qualche soddisfazione, di qualche curiosità o di altra cosa che non giova all'anima, vergogniamoci di negarlo a Gesù Cristo: egli è andato con noi senza riserba, ci ha data la sua vita, tutto il suo sangue, vergogniamoci di andare con riserba con esso. Facciamo noi a' nostri nemici tutta la resistenza che dobbiamo lor fare; ma la vittoria poi speriamola sempre solo da' meriti di Gesù Cristo per mezzo de' quali solamente i santi e specialmente i santi martiri han superati i tormenti e la morte: Sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos (Rom. VIII, 37). Onde quando il demonio ci rappresenta nella mente alcuni incontri che ci sembrano molto difficili a superarsi dalla nostra debolezza, volgiamo gli occhi a Gesù crocifisso e, fidati tutti nel suo aiuto e ne' suoi meriti, diciamo coll'Apostolo: Omnia possum in eo qui me confortat (Philip. IV, 13): Io per me non posso nulla, ma coll'aiuto di Gesù potrò tutto. 26. Trattanto animiamoci a soffrire le tribulazioni della vita presente colla vista delle pene di Gesù crocifisso. Guarda, dice il Signore da quella croce, guarda la moltitudine de' dolori e delle villanie che patisco io per te su questo patibolo: il mio corpo pende da tre chiodi e non posa che sovra le stesse mie piaghe; la gente che mi circonda non fa altro che bestemmiarmi ed affliggermi: il mio spirito poi è internamente assai più amitto che il corpo. Tutto patisco per tuo amore; vedi l'affetto che ti porto, ed amami e non ti rincresca di patire qualche cosa per me che per te ho fatta una vita sì afflitta, ed ora sto morendo con una morte sì amara. 27. Ah Gesù mio, voi mi avete posto al mondo per servirvi ed amarvi; mi avete donati tanti lumi e grazie per esservi fedele; ma io ingrato quante volte, per non privarmi delle mie soddisfazioni, ho voluto perdere più tosto la vostra grazia col voltarvi le spalle! Deh, per quella morte desolata che accettaste di fare per me, datemi forza di esservi grato nella vita che mi resta, mentre propongo da ogg'innanzi di scacciare dal cuore ogni affetto che non è per voi, mio Dio, mio amore, e mio tutto. Madre mia Maria, soccorretemi voi ad esser fedele al vostro Figlio, che mi ha tanto amato. 28. PAROLA VII. Clamans voce magna Iesus ait: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum (Luc. XXIII, 46). Scrive Eutichio che Gesù proferì queste parole a gran voce per far intendere a tutti ch'egli era vero Figlio di Dio chiamando Dio suo padre: Clamavit voce magna ut omnes scirent quod patrem Deum appellaret.46 Ma S. Gio. Grisostomo scrive ch'egli gridò a gran voce per fare intendere che non moriva per necessità, ma di propria volontà, facendo sentire una voce sì vigorosa nel punto che stava prossimo a finir la vita: Ut ostendat haec sua potestate fieri,47 son le parole del santo. Il che si uniforma a ciò che Gesù avea detto in vita, ch'egli volontariamente sagrificava la vita per noi sue pecorelle, e non già per volontà e malizia de' suoi nemici: Et animam meam pono pro ovibus meis... Nemo tollit eam a me, sed ego pono eam a meipso (Io. X, 15 et 18). 29. Aggiunge S. Atanasio che allora Gesù Cristo, raccomandando al Padre se stesso, gli raccomandò insieme tutti i fedeli, che per suo mezzo dovean ricever la salute; poiché il capo colle sue membra formano un solo corpo: In eo homines apud Patrem commendat per ipsum vivificandos, membra enim sumus, et membra unum corpus sunt... Omnes ergo in se Deo commendat.48 Onde dice il santo che Gesù allora intese replicar la preghiera fatta prima: Pater sancte, serva eos in nomine tuo, ut sint unum sicut et nos49 (Io. XVII, 11); e poi soggiunse: Pater, quos dedisti mihi, volo ut ubi sum ego et illi sint mecum (Vers. 24).50 30. Ciò facea dire poi a S. Paolo: Scio enim cui credidi; et certus sum quia potens est depositum meum servare in illum diem (II Tim. I, 12). Così scrivea l'Apostolo, mentre stava nelle carceri patendo per Gesù Cristo, in mano di cui egli confidava il deposito de' suoi patimenti e di tutte le sue speranze, sapendo quanto egli è grato e fedele con coloro che patiscono per suo amore. Davide riponeva tutta la sua speranza nel Redentore futuro, dicendo: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis (Ps. XXX, 6). Quanto più noi dobbiam confidare in Gesù Cristo, che ha compiuta già la nostra Redenzione? Diciamogli dunque con animo grande: Redemisti me, Domine; in manus tuas commendo spiritum meum. 31. Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Gran conforto apportano queste parole a' moribondi in punto di morte contra le tentazioni dell'inferno e nei timori de' peccati fatti. Ma io non voglio, Gesù mio Redentore, aspettare la morte per raccomandarvi l'anima mia; da ora ve la raccomando: non permettete che ella abbia di nuovo a voltarvi le spalle. Vedo che la mia vita passata non mi ha servito che per disonorarvi; non permettete che ne' giorni che mi restano a vivere, io seguiti a disgustarvi. O Agnello di Dio sagrificato sulla croce e morto per me qual vittima d'amore e consumato da' dolori, fate che per li meriti della vostra morte io v'ami con tutto il cuore e sia tutto vostro nella vita che mi rimane. E quando giungerà il termine de' miei giorni, fatemi morire ardendo del vostro amore. Voi siete morto per amor mio, io voglio morire per amor vostro. Voi tutto vi siete a me donato, io tutto a voi mi dono. In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis. Voi avete sparso tutto il vostro sangue, avete data la vita per salvarmi, non permettete che per mia colpa il tutto sia perduto per me. Gesù mio, io v'amo e spero ai meriti vostri di amarvi in eterno. In te, Domine, speravi non confundar in aeternum (Ps. XXX, 2). O Maria madre di Dio, alle vostre preghiere io confido; pregate ch'io viva e muoia fedele al vostro Figlio. A voi anche dirò con S. Bonaventura: In te, Domina, speravi non confundar in aeternum.51 _________________________________ 1 S. AUGUSTINUS, In Ioannem, tractatus 31, n. 9. ML 35-1640. 2 Queste parole, S. TOMMASO (Catena aurea, in Lucae Evangelium, cap. 23, n. 6) le attribuisce a San Giovanni Grisostomo: «Chrysostomus. Quia Dominus dixerat (Matt. VI): Orate pro persequentibus vos, hoc etiam crucem ascendens fecit: unde sequitur: Iesus autem dicebat: Pater, dimitte illis: non quia non posset ipse relaxare; sed ut nos pro persequentibus orare doceret, non solum verbo, sed et opere.» - Difatti, S. GIO. GRISOSTOMO (In illud: Pater, si possibile est, transeat, etc., n. 4: MG 51-39) dice: «Pro inimicis orare praecepit: rursus hoc etiam operibus docet: cum enim in crucem ascendisset, dixit: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt (Luc. XXIII, 34). Ut igitur praecepit ut oraremus, sic et orat ipse, teque docet orare, cum nec ipse dimittendi sit potestate destitutus.» 3 «O quam multus es ad ignoscendum!.... o quam firmata est etiam super impios misericordia tua! Mira res! Ille clamat: Ignosce; Iudaei: Crucifige (Io. XIX, 15). Molliti sunt sermones eius super oleum, et isti sunt iacula. O caritas patiens, sed et compatiens!» S. BERNARDUS, In feria IV Hebdomadae Sanctae, Sermo de Passione Domini, n. 9. ML 183-267. 4 «In hoc omne consilium eorum volvebatur, et ad hanc definitionem omnia perfidiae argumenta convenerant, ut sanctum et iustum... de medio tollerent... Haec erat caecitas.... quam dimitti Christi caritas postulat, beneficium praestans ingratis.... Cum dare posset quod petebat... supplicantis tamen pro tempore personam exhibuit, ut ex affectu caritas, et ex subiectione humilitas innotesceret... Nullus omnino severitati locus ibi esse poterat, ubi vulneratus Christus proprii mercedem sanguinis exigebat.» ARNOLDUS CARNOTENSIS, (idem qui Ernaldus, abbas Bonaevallis). De septem verbis Domini in cruce, tractatus 5. ML 189-1707, 1708. 5 «Quid potest patientius, quid benignius dici? Vivificatur Christi sanguine etiam qui fudit sanguinem Christi.» S. CYPRIANUS, De bono patientiae, n. 8. ML 4-628. 6 «Pro te pependit in ligno, et nondum est vindicatus. Quid vis vindicari?.... Vide pendentem Dominum tuum.... Vide pendentem, audi precantem: Pater, ignosce illis, quia nesciunt quid faciunt (Luc. XXIII. 34). « S. AUGUSTINUS, Sermo 49, cap. 8. ML 38-525. 7 «De cuius utique orationis potentia fuit, ut praedicatio Petri apostoli, ex iis qui dixerunt: Sanguis eius super nos et super filios nostros (Matth. XXVII, 25), multorum ad paenitentiam corda converteret, et uno die baptizarentur tria fere millia Iudaeorum.» S. LEO MAGNUS, Sermo 62, De Passione Domini 11, cap. 3. ML 54-351. 8 «Impetravit quoud petierat, multaque statim de Iudaeis millia crediderunt.» S. HIERONYMUS, Epistola 20, ad Hedibiam de quaestionibus XII, cap. 8, n. 2. ML 22-293. 9 Vos semper Spiritui Sancto resistitis. Act. VII, 51. 10 Venit enim Filius hominis quaerere et salvum facere quod perierat, Luc. XIX, 10. - Il testo è di S. Luca, ed appare evidente l' errore materiale di attribuirlo a Isaia. Però quel che dice di se stesso Gesù (Luc. XIX, 10), lo predisse Isaia (LXI, 1) Spiritus Domini super me, eo quod unxerit Dominus me; ad annuntiandum mansuetis misit me, ut mederer contritis corde, et praedicarem captivis indulgentiam et clausis apertionem. Può credersi che S. Alfonso abbia preso di mira tanto Isaia quanto S. Luca, la profezia e il suo avveramento. 11 «Promittit ergo Iesus latroni, mox a peracto supplicio, requiem felicemque refocillationem: promittit quod amplius est vitam beatitudinemque aeternam eo die inchoandam in paradiso, id est eo in loco in quo iusti omnes a morte requiescunt, quem alio nomine Iudaei vocabant sinum Abrahae (Luc. XVI, 22).... Porro quod promisit Iesus latroni, hoc et praestitit: postquam enim prior ipse eo die mortuus, descendisset ad inferos, in sinum inquam Abrahae et limbum patrum; latronis posterius eodem die mortui animam, iussam eo per angelos deportari, excepit: qui locus eo tempore paradisi nomen tanto iustius merebatur, quanto magis praesentia Iesu illustrabatur, ornabatur, exhilarabatur, beatificabatur; quamquam brevi Iesus inferum eum locum mutaturus esset latroni ceterisque omnibus iustis secum in superum adeoque in supremum caelum, perpetuo Dei conspectu beatum, quem iustius etiam paradisum vocant hodie Chrstiani cum apostolo Paulo (II Cor. XII, 4).» Francisc. LUGAS BRUGENSIS, Commentarius in Evangelia, Antverpiae, 1712, ed. 2, tom. III, pag. 349: in h. I. 12 «Ibi orat, ibi adorat, multa simul pietatis officia complectitur. Credit, timet, compungitur et paenitet, confitetur et praedicat, amat, confidit et orat.» ARNOLDUS CARNOTENSIS (seu Ernaldus ), Abbas Bonaevallis, De VII Verbis Domini in cruce, tractatus 2. ML 189-1691. 13 «Regnaturum Dominum credidit, quem secum pariter morientem vidit.» S. GREGORIUS MAGNUS, Moralia in Job, lib. 18, cap. 40 (al. 25, al. 23. ML 76-74. 14 «Non est ausus ante dicere: Memento mei, Deus, quam per confessionem iniquitatis praeteritae sarcinam peccatorum deponeret.» Inter Opera S. Augustini, Sermo (inter supposititios) 155, n. 8. ML 39-2050. - E' invece parola di S. Gio. GRISOSTOMO Homilia I in Crucem et in Latronem, n. 3. MG 49-403): Nemo coegit illum, nemo vim ipsi fecit, sed ipse semetipsum protulit dicens: Et nos quidem iuste, nam digna factis patimur; hic vero nihil mali fecit (Luc. XXIII, 41, 42): additque postea: Memento mei, Domine, in regno tuo. Non prius ausus est dicere, Memento mei in regno tuo, quam, per confessionem, peccatorum sarcinam deposuisset. Viden quanta res sit confessio? Confessus est, et paradisum aperuit: confessus est, et tantam accepit fiduciam, ut a latrocinio regnum peteret.» 15 «O felicem latronem! in mundo rapuit latrocinando, regnum caelorum rapuit confitendo.» Inter Opera S. Athanasii, Sermo (supposititius) contra omnes haereses, n. 2. MG 28-506. 16 S. CYPRIANUS, Epistola ad Iubaianum, n. 22. ML 3-1124, 1125. - S. HIERONYMUS, Epistola 58, ad Paulinum, n. 1. ML 22-580. - S. AUGUSTINUS, De anima et eius origine, lib. 1, cap. 9, n. 11. ML 44-480. - Vedi Appendice, 9, A. 17 Ioannes da SYLVEIRA, Ord. Carm., Commentaria in textum evangelicum, V, lib. 8, cap. 16, qu. 12, n. 90. - Vedi Appendice, 9, B. 18 «Semper enim Dominus plus tribuit quam rogatur. Ille enim rogabat ut memor esset sui Dominus, cum venisset in regnum suum: Dominus autem ait illi: Amen amen dico tibi: Hodie mecum eris in paradiso.» S. AMBROSIUS, Expositio Evangelii secundum Lucam, lib. 10. n. 121. ML 15-1834. 19 «Vis discere aliud eius (crucis) insigne opus? Paradisum a quinquies mille et amplius annis clausum, hodie nobis aperuit. Hoc quippe die, hac ipsa hora, latronem eo introduxit Deus, duo praeclara designans opera: unum, quod paradisum aperuerit; aliud, quod latronem introduxerit... Ne latronem hunc, quaeso, praetercurramus, neque nos pudeat eum doctorem accipere, quem Dominus noster non erubuit primum inducere in paradisum.» S. IO. CHRYSOSTOMUS, De cruce et latrone, hom. 1, n. 2. MG 49-401, 402. - «Paradisum clausum (crux) aperuit hodie: hodie enim latronem in illum introduxit. Duo praeclarissima facinora: paradisum reseravit, et latronem introduxit... Ne pudeat nos magistrum accipere latronem, cuius Dominum nostrum non puduit quominus primum in paradisum induceret: ne erubescamus magistrum habere hominem illum qui, ante totum humanum genus, dignus est habitus conversatione paradisi.» IDEM, De cruce et latrone, hom. 2, n. 2. MG 49409, 410. 20 Manuale, cap. 23: inter Opera S. Augustini, ML 40-961. - Queste parole, il compilatore del Manuale le ha prese da UGONE DI S. VITTORE, De anima, lib. 4, cap. 10. ML 177-182. 21 Erant autem ibi mulieres multae a longe, quae secutae erant Iesum a Galilaea, ministrantes ei. Matt. XXVII, 55.- Inter quas erat Maria Magdalene, et Maria Iacobi, et Ioseph mater, et mater filiorum Zebedaei, Ibid. 56.- EUTHYMIUS ZIGABENUS, In Matthaeum, in v. 55 (MG 129-738): «Chorus enim erat discipularum apud Dei Matrem coniunctarum, et expensas de suis facultatibus suppeditantium.» - Idem, in v. 56 (ibid., col. 739): Si fa maraviglia che non venga nominata, tra queste sante donne, la Madre di Gesù; e scioglie così la difficoltà su questo silenzio del Vangelo: «Verisimile est tunc Dei Matrem propinquius cruci adstitisse quam ceteras mulieres: idque viscerum infiammatione (i. e. acerrimo dolore) vincente timorem: fortassis vero etiam circumisse, cum propter naturae aculeos (i. e. propter vehementiam materni affectus) in eodem loco manere non posset: postmodum autem apud monumentum manisse et singula conspexisse. - Quod si hoc recipimus, quaerendum est quomodo ipsius non meminerint Evangelistae? Quia de ea notum erat quod adfuerit, et quae matrum sunt demonstraverit. Ideoque neque planctum eius scripserunt: abunde enim satisfecerunt pronuntiantes quod filium docentem sequebatur. Oportet autem et hoc et illud scire, quodque naturae conformius est suscipere.» 22 Molto probabilmente il «dotto autore» citato da S. Alfonso è l' anonimo, che stampò nel 1705 in Venezia la Istoria della Vita e dottrina di Gesù Cristo, di cui riportiamo il tratto seguente: «Fra il gran numero di persone, che erano intorno alla croce, vi erano molte donne di quelle che erano venute da Galilea con Gesù, e che gli assistevano co' loro beni. Vi erano anche tutti quelli che lo conoscevano ed osservavano da lungi ciò che accadeva. Ma la beatissima Vergine, Maria Maddalena e un' altra Maria stavano vicine alla croce, e Giovanni figliuolo di Zebedeo stava vicino alla beatissima Vergine. Il Salvatore avendo dunque veduta sua Madre e vicino a lei il discepolo: Ecco vostra madre.» Istoria della vita e dottrina di Gesù Cristo estratta dai Santi Evangeli, Roma, 1754, nuova ed., pag. 379, 380. 23 «Plane Mater, quae nec in terrore mortis Filium deserebat.... Plane iuxta crucem Iesu stabat, cuius mentem dolor crucis simul cruci figebat, suamque ipsius animam tam multiplex pertransibat gladius, quantis confossum corpus Filii cernebat vulneribus.» GUERRICUS Abbas, In Assumptione B. M. V. sermo 4, n. 1. ML 185-197, 198. 24 «Si avviliscono ordinariamente o si soffocano tutte queste verità con pitture, le quali non rappresentano che un dolore umano; od anche si disonora con una debolezza e con uno svenimento una pazienza ed una fede che dee d' esempio servire a tutti i secoli.» DUGUET, Gesù Crocifisso ossia Spiegazione del mistero della Passione di Gesù Cristo - Trad. dal francese del Proposto Gius. Cornaro. Bergamo, 1767, pag. 133. - E' fuor di dubbio che il santo alluda al Duguet: nel gennaio 1772 scriveva al suo fidato stampatore di Venezia, il Remondini: «Veda di comprarmi Duguet sulla Passione di Gesù Cristo ossia sul Crocifisso.» Nel 31 maggio dello stesso anno notificava al medesimo: «Mi è venuto da Venezia un bel libretto intitolato Gesù Crocifisso ossia Spiegazione del mistero della Passione, del Sig. Cornaro, stampato in Bergamo...» Lettere, parte II, pag. 397 e 409, ediz. Desclée. 25 «Stantem illam lego, flentem non lego.» S. AMBROSIUS, De obitu Valentiniani Consolatio, n. 39. ML 16-1371. - Vedi Appendice, 10. 26 «Plane mater membrorum eius (Christi), quod nos sumus; quia cooperata est caritate ut fideles in Ecclesia nascerentur, quae illius capitis membra sunt.» S. AUGUSTINUS, Liber de sancta virginitate, cap. 6, n. 6. ML 40-399. 27 «Dum haec pauca (Christus) diceret, illi duo dilecti (Maria et Ioannes) lacrimas fundere non cessabant. Tacebant ambo illi martyres, et prae nimio dolore loqui non poterant.» tractatus de lamentatione Virginis Mariae: inter Opera S. Bernardi, Basileae, 1552, col. 2537; inter Opera S. Bernardi, cura Iac. Merloni Horstii (il quale segna questo opuscolo come spurio, ed è tale veramente, né degno di S. Bernardo), V, pag. 382. 28 Non già il Grisostomo, ma il Crisologo. «Discipulus autem ille qui diligebatur a Iesu, ait: Dominus est. Primus qui diligitur videt, quia semper amoris oculus acutius intuetur, et semper vivacius qui diligit videt.» S. PETRUS CHRYSOLOGUS, sermo 78, De semptim Christi manifestatione facta discipulis ad mare Tiberiadis. ML 52-421. 29 «Respiciens autem oculis (Ioseph,) vidit Bieniamin fratrem suum ex eadem matre (Gen. XLIII, 29). Morale est, ut quos diligimus, eos videamus prae ceteris; et quos animi intentio tenet priores, eos obtutus offendat oculorum. Siquidem plerumque circa alia mentis occupatione districti, quos habemus ante oculos, non videmus; ita duce animo dirigitur noster adspectus.» S. AMBROSIUS, Liber de Ioseph Patriarcha, cap. 10, n. 56. ML 14-664? 30 Revelationes S. BIRGITTAE, lib. 4, c. 70, Coloniae Agrippinae, 1628, pag. 229. 31 «Cui Christus in cruce matrem virginem virgini commendavit.» In festo S. Ioannis, ad Matutinum, Resp. 1. 32 Inimicitias ponam inter... semen tuum et semen illius. Gen. III, 15. 33 «Audeamus igitur dicere primitias Scripturarum omnium Evangelium esse; Evangeliuorum vero primitias, Evangelium o Ioanne traditum; cuius sensum percipere nemo potest, nisi qui supra pectus Iesu recubuerit, vel acceperit a Iesu Mariam, quae etiam ipsius mater fiat: adeo talem tantumque esse necesse est, qui Ioannes alius sit futurus, ut, quemadmodum Ioannes, itidem etiam et iste a Iesu Iesus exsistere ostendatur. Nam si nullus est Mariae filius, iudicio eorum qui de ipsa sane senserunt, praeterquam Iesus, dicitque Iesus matri: Ecce hic est Iesus quem genuisti. Etenim quisquis perfectus est, non amplius vivit ipse, sed in ipso vivit Christus. Cumque in ipso vivat Christus, dicitur de eo Mariae: Ecce filius tuus Christus.» ORIGENES, Commentaria in Evangelium Ioannis, I, Praefatio. n. 6. MG 14-31. 34 «Effectus meritorum illorum (Passionis Christi) collegit, participavit, reposuit tam gratiose, quod omnibus nobis inde communicat. Ideo sponsus subdit ad eam: Et erunt ubera tua sicut botri vineae (Cant. VII, 8). Gloriosissima namque Genitrix Salvatoris, ex consideratione, imitatione, compassione Passionis Filii sui, tantam consecuta est affluentiam gratiae, tam ineffabilem in omni caritate, sapientia, pietate profectum, quod haec ipsa spiritualia eius ubera redundantissima fuerunt ac sunt ad reficiendum nos omnes vino et oleo, quae Samaritanus infudit vulneribus a latronibus vulnerati.» D. DIONYSIUS CARTUSIANUS, Enarratio in Canticum Canticorum, art. 23 (in Cant. VII, 8). Opera, VII, Monstrolii, 1898. 35 «Amantissima Dei Virgo Christifera dici potest mundi salvatrix propter eminentiam, virtuositatem et meritum suae compassionis, qua patienti Filio fidelissime ac acerbissime condolendo, excellenter promeruit ut per ipsam, hoc est per preces eius ac merita, virtus ac meritum passionis Christi communicetur hominibus.» IDEM, De dignitate et laudibus B. V. Mariae, lib. 2, art. 23. Opera, XXXVI, Opera minora, IV, Tornaci, 1908. 36 «Iesus autem iterum clamans voce magna, emisit spiritum (Matt. XXVII, 50). Quae autem fuerit vox, significavit Lucas, videlicet: Pater, in manus tuas commendabo spiritum meum. Clamavit autem voce magna, ut omnes audirent, omnesque scirent quod ad extremum usque spiritum Patrem Deum appellaret, universa in eo reponeret, nec esset ei contrarius; utque discerent quod sua potestate quando voluit mortuus est. Cum enim dixit: Pater, in manus tuas commendabo spiritum meum, tunc demum morti permisit ut ad se accederet.» EUTHYMIUS Zigabenus, Comment. in Matt., cap. 67. MG 129-734. - Spiegando il verso 46 di S. Matteo, lo stesso Eutimio avea detto (ibid., col. 731): «Clavorum ergo doloribus depressus, ait: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? hoc est propter quid me dimisisti ut sustinerem dolores? Hoc autem dixit, confirmans quod, sicut in veritate humanam assumpsit naturam, ita quoque vere crucifixus est, et non phantastice prout multi haeretici delirarunt. Neque enim nisi dolens ita clamasset.» - Come si vede, Eutimio principalmente si ferma sul senso delle parole proferite da Gesù, ed appena accenna alla forza materiale del grido. Più si adatta il suo testo sul verso 46 alla seconda ragione qui addotta dal nostro Santo Dottore. - Per la prima, valga la sentenza di SAN TOMMASO (Sum. Theol., III, qu. 47, art. 1, ad 2) altrove citata da S. Alfonso: «Ut Christus ostenderet quod Passio illata per violentiam eius animam non eripiebat, naturam corporalem in eius fortitudine conservavit, ut etiam in extremis positus, voce magna clamaret. Quod inter alia miracula mortis eius computatur.» E nella sua « In Matthaeum Evangelistam expositio» (in Matt. XXVII, 50), dice: «Et voluit mori cum magna voce, ad signandum quod ex potestate, et non necessitate moriebatur: unde animam suam posuit cum voluit. Unde facilius fuit Christo ponere animam et recipere, quam alicui dormire et excitari.» E come da questo potrebbe alcuno argomentare che i Giudei non siano responsabili della morte di Cristo, aggiunge S. Tommaso: «Sed quare imputatum est eis? Quia fecerunt quod in eis fuit.» Cf. Sum. Theol., III, qu. 47, art. 1, c.: «Persecutores Christi eum occiderunt, quia sufficientem causam mortis ei intulerunt, cum intentione occidenti ipsum, et effectu subsequente;» quantunque Cristo avrebbe potuto, volendolo, impedire tanto la causa quanto l' effetto. 37 «Quare non appellat Patrem, sed Deum? Iesus pendens in cruce erat satisfaciens de toto rigore iustitiae suo Aeterno Parenti, tamquam supremo Domino ac Iudici, pro peccatis generis humani.... Cum ergo Aeternus Pater personam ageret supremi Domini ac Iudicis.... inde eum non Patrem, sed Deum dicit, ut nobis innotescat quod ille qui personam iudicis tenet, nullus in eo debet apparere affectus amoris ac consanguinitatis: unde Aeternus Pater, cum iudicis vices repraesentaret erga dilectissimum suum Filium, non se ostendit tamquam Patrem, sed tamquam Deum: inde a Filio non Pater, sed Deus appellatur.» Ioannes da SYLVEIRA, carmelita, Commentaria in textum evangelicum, lib. 8, cap. 18, qu. 3, Quaero quarto. 38 «Vox ista, dilectissimi, doctrina est, non querela.» S. LEO MAGNUS, Sermo 67 (al. 65), De Passione Domini 16, cap. 7. ML 54-372. - Gli insegnamenti che i due Santi Dottori cavano dal medesimo testo sono assai diversi, ma son veri ambedue, e tanto basta. 39 Su questa «bestemmia» di Calvino, vedasi Appendice, 11. 40 «Ne mireris verborum humilitatem et querimonias derelicti, cum, formam servi sciens, scandalum crucis videas.» S. HERONYMUS, Commentaria in Evangelium Matthaei, lib. 4, (in Matt. XXVII, 46). ML 26-212. - «Dicit: Eli, Eli, lamma sabacthani, ut viderent eum usque ad extremum halitum honorare Patrem, neque esse Deo adversarium... perque omnia ostendit suam cum Genitore concordiam.» S. IO. CHRYSOSTOMUS, In Matthaeum, hom. 88 (al. 89), n. 1. MG 58-776. 41 L' opera citata non è di S. Agostino, ma di S. Giuliano di Toledo. «Quid est ergo quod ille (Christus) turbatus est, nisi quia infirmos in suo corpore, hoc est, in sua Ecclesia, suae infirmitatis similitudine consolatus est? ut si qui suorum adhuc morte imminente turbantur, ipsum intueantur, nec hoc ipso se putent reprobos, et peiore desperationis morte absorbeantur.» S. IULIANUS, Toletanus episcopus, Prognosticon futuri saeculi libri tres, lib. 1, cap. 16. ML 96-472. 42 «Outre ce que nous avons dit de cette générosité, il faut encore dire ceci, qui est que l' âme qui la possède reçoit également les sécheresses et les tendresses des consolations, les ennuis intérieurs, les tristesses, les accblements d' esprit, comme les ferveurs et les prospérités d' un esprit bien plein de paix et de tranquillité. Et cela parce qu' elle considère que Celui qui lui a donné les consolations est celui-là même qui lui envoie les unes et les autres, poussé du même amour.» S. FRANCOIS DE SALES, Les vrais entretiens spirituels, V. (Euvres, VI, Annecy, 1895, pag. 83. - «Si vous vous gouverniez par la raison, ne verriez-vous pas que s' il était bon de servir Dieu hier (dans la consolation), qu' il est encore trés bon de le servir aujourd' hui (en sécheresse), et qu' il sera très bon de le servir demain? car c' est toujours le même Dieu, aussi digne d' étre aimé quand vous êtes en sécheresse que quand vous êtes en consolation.» Même ouvrage, III, (Euvres, VI, pag. 36. - Cf. Traité de l' amour de Dieu, liv. 9, ch. 2. Oeuvres, V. 43 Ludovicus BLOSIUS, Margaritum spirituale, pars 3 (sive Dominicae Passionis explicatio ), cap. 18, n. 7. 44 «Sitiebat nos, et dare se nobis desiderabat. Sitit, inquam, nos, in suum nos vult mysticum traiicere corpus. Sitis haec de ardore dilectionis, de amoris fonte, de latitudine nascitur caritatis.» S. LAURENTIUS IUSTINIANUS, De triumphali agone Mediatoris Christi, cap. 19. 45 «Quid te docuit pendens, qui descendere noluit, nisi patientiam inter insultante, nisi ut sis fortis in Deo tuo?» S. AUGUSTINUS, Enarratio in Ps. LXX, sermo 1, n. 11. ML 36-882. 46 «Clamavit autem voce magna ut omnes audirent omnesque scirent quod ad extremum usque spiritum Patrem Deum appallaret, universa in eo reponeret, nec esset ei contrarius.» EUTHYMIUS Zigabenus, Commentaria in Matthaeum, cap. 67 (in Matt. XXVII, 50). MG 129-734. - Aggiunge pure Eutimio, nello stesso senso che il Grisostomo: «utque discerent quod sua potestate quando voluit mortuus est.» 47 «Ideo voce exclamavit, ut ostenderet ex potestate sua rem fieri. Marcus vero dicit (XV, 44, 39) miratum fuisse Pilatum si iam mortuus esset, ac centurionem ideo maxime credidisse, quia cum potestatis signo mortuus esset.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Matthaeum, hom. 88 (al. 89), n. 1. MG 58-776. 48 «Cum in cruce ait: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum, Patri per seipsum commendat omnes homines, qui in ipso vivificantur. Membra enim eius sunt, et multa membra unum corpus sunt, quod est Ecclesia: quemadmodum beatus Paulus ad Galatas (III, 28) scribit: Omnes enim vos unum estis in Christo Iesu. Omnes igitur in seipso commendat.» S. ATHANASIUS, Achiepiscopus Alexandrinus, De Incarnatione Dei Verbi et contra Arianos, n. 5. MG 26-991. 49 Pater sancte, serva eos in nomine tuo, quos dedisti mihi: ut sint unum sicut et nos. Io. XVII, 11. 50 Se non son proprio queste le parole di S. Atanasio, è però il suo pensiero manifesto; e può considerarsi questa citazione come una conclusione della precedente (nota 48) ed una adattazione del testo che la precede, l. c. Ivi, Atanasio prova che quanto acquistò Cristo, Verbo Incarnato, per virtù della sua intenzione e donazione, è nostro, e fonte di tutti i beni che riceviamo: «Passio enim eius nostra est impassibilitas; mors eius, nostra immortalitas; lacrimae eius, nostrum gaudium; sepultura eius, nostra resurrectio, etc.» giacché: «Non ut seipsum salvum faceret venit Deus qui est immortalis; sed ut nos qui mortui eramus liberaret; neque pro se passus est, sed pro nobis; ita ut ideo nostram vilitatem inopiamque susceperit, ut nobis divitias largiretur suas.» Quindi avverte il Santo Dottore che Cristo, quando pregava per sé, per noi anche pregava: «Unde propter nos gloriam petit his verbis: Glorifica me tu, Pater, gloria quam habui, prius quam mundus esset, apud te (Io. XVII, 5). Nos enim sumus qui in illo glorificamur.» Di tutto ciò, la ragione si è che siamo una stessa cosa con Cristo, mentre egli è il nostro capo, e noi siamo le sue membra. Ed è retta conclusione esser mente ed intento di Atanasio d' insegnare che Cristo, col raccomandar noi seco al Padre, rinnovava le preghiere già per noi fatte, cioé: Pater sacte, serva eos, etc. e: Pater, quos dedisti mihi, volo, etc. Sostituisce S. Alfonso questi due testi più chiari, cioé di senso più ovvio, a quell' altro più profondo: Glorifica me tu, Pater, etc. 51 Psalterium B. Mariae V., Ps. 30, 1. Inter Opera S. Bonaventurae, VI, Lugduni, 1668, pag. 480. Vedi Appendice, 2, 8°. Riflessioni sulla morte di Gesù Cristo e nostra. 32. Scrive S. Giovanni che il nostro Redentore prima di spirare chinò la testa: Et inclinato capite tradidit spiritum (Io. XIX, 30). Chinò la testa in segno di accettar la morte con piena sommissione dalle mani del Padre, mentre allora compiva la sua umile ubbidienza: Humiliavit semetipsum, factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Gesù, stando in croce, colle mani e piedi in quella inchiodato, non avea libertà di muovere altra parte del corpo fuori del capo. Dice S. Atanasio che la morte non ardiva di accostarsi a toglier la vita all'autor della vita, onde bisognò che egli stesso col chinare il capo - che solamente allora potea muovere - chiamasse la morte che venisse ad ucciderlo: Mors ad ipsum non audebat accedere, Christus inclinato capite eam vocavit (S. Athan. Qu. 6. Antioch.).52 A tal proposito riflette S. Ambrogio che S. Matteo parlando della morte di Gesù scrisse: Iesus autem iterum clamans voce magna emisit spiritum (Matth. XXVII, 50). Dice S. Ambrogio che il Vangelista scrisse emisit per dinotare che Gesù non morì per necessità o per violenza de' carnefici, ma perché volle spontaneamente morire: Emisit, quia non invitus amisit; quod enim emittitur, voluntarium est: quod amittitur, necessarium (S. Ambr. in Luc. l. 10, c. 24).53 Volle spontaneamente morire per salvare l'uomo dalla morte eterna, a cui l'uomo stava condannato. 33. Ciò fu già predetto dal profeta Osea con quelle parole: De manu mortis liberabo eos, de morte redimam eos. Ero mors tua, o mors; morsus tuus ero, inferne (Osee, XIII, 14). Questo testo i santi Padri S. Girolamo, S. Agostino, S. Gregorio,54 e lo stesso S. Paolo, come tra poco vedremo, l'applicano letteralmente a Gesù Cristo, che colla sua morte ci liberò dalle mani della morte, cioè dall'inferno ove si prova una eterna morte: e propriamente, come spiegano gl'interpreti, nel testo ebreo in vece della parola mortis vi sta la voce sceol, la quale significa inferno.55 Come va poi che Gesù Cristo fu la morte della morte? Ero mors tua, o mors? Sì, perché il nostro Salvatore colla sua morte vinse e distrusse la morte a noi recata dal peccato. Quindi scrisse l'Apostolo: Absorpta est mors in victoria. Ubi est mors victoria tua? Ubi est mors stimulus tuus? stimulus autem mortis peccatum est (I Cor. XV, 54 ad 56).56 L'Agnello divino Gesù colla sua morte distrusse il peccato che era la cagione della nostra morte; e questa fu la vittoria di Gesù, poich'egli morendo tolse dal mondo il peccato e, per conseguenza, ci liberò dalla morte eterna, a cui prima soggiacea tutto il genere umano. A ciò corrisponde quell'altro testo dell'Apostolo: Ut per mortem destrueret eum qui habebat mortis imperium, id est diabolum (Hebr. II, 14). Gesù distrusse il demonio, cioè distrusse la potenza del demonio, il quale per cagion del peccato avea l'imperio della morte, viene a dire avea la potestà di dar la morte temporale ed eterna a tutti i figli di Adamo infetti del peccato. E questa fu la vittoria della croce, dove morendo Gesù ch'è l'autor della vita, colla sua morte recò a noi la vita; onde canta poi la Chiesa: Qua vita mortem pertulit, Et morte vitam protulit.57 E tutta fu opera dell'amor divino, che qual sacerdote sagrificò all'Eterno Padre la vita del suo unigenito Figlio, per la salute degli uomini; pertanto canta la stessa Chiesa: Almique membra corporis Amor sacerdos immolat.58 E quindi esclama S. Francesco di Sales: «Consideriamo questo divin Salvatore disteso sulla croce, come sovra il suo altare di amore, dove muore d'amore per noi. Ah perché non ci gettiamo dunque in ispirito sovra di esso, per morire sulla croce con colui, che ha voluto morirvi per amore di noi?»59 Sì, dolce mio Redentore, io mi abbraccio alla vostra croce, ed a questa abbracciato voglio vivere e morire, baciando sempre con amore i vostri piedi impiagati e trafitti per me. 34. Ma prima di passare avanti, fermiamoci a contemplare il nostro Redentore già morto sulla croce. - Parliamo prima al suo Padre divino: Eterno Padre, respice in faciem Christi tui (Ps. LXXXIII, 10), guardate qui il vostro unico Figlio, che per compiacere la vostra volontà, di salvare l'uomo perduto, è venuto in terra, ha presa carne umana, e colla carne ha assunte sopra di sé tutte le nostre miserie, fuor dei peccato. Egli in somma si è fatto uomo, ed ha voluto vivere per tutta la sua vita fra gli uomini, ma il più povero, il più disprezzato e 'l più tribolato di tutti; finalmente si è ridotto a morire, come lo vedete, dopo che gli stessi uomini gli han lacerate le carni co' flagelli, ferita la testa colle spine e trafitte le mani e' piedi co' chiodi nella croce; ond'egli poi è morto su quel legno di puro dolore, disprezzato qual uomo più vile del mondo, deriso qual falso profeta, bestemmiato qual sacrilego impostore per aver detto ch'era vostro figlio, trattato in somma e condannato a morir giustiziato come uno de' malfattori il più malvagio. Voi stesso poi gli avete renduta la morte così dura e desolata, avendolo privato d'ogni sollievo. Diteci, qual mancanza mai vi ha commessa questo vostro Figlio diletto, che si abbia meritato un gastigo sì orrendo? Voi già sapete la sua innocenza, la sua santità, perché l'avete trattato così? Ma ben vi sento rispondere e dire: Propter scelus populi mei percussi eum (Is. LIII, 8). No che non meritava egli né poteva meritare alcun gastigo, essendo la stessa innocenza e santità: il gastigo era dovuto a voi per le vostre colpe, per cui meritavate la morte eterna; ed io per non veder voi, amate mie creature, perdute in eterno, per liberarvi da tanta ruina, ho abbandonato questo mio Figlio ad una vita così tribulata e ad una morte così acerba. Pensate, o uomini, sino a qual segno io vi ho amati; Sic enim Deus, così ci fa sapere S. Giovanni, dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16). 35. Lasciate ora ch'io mi rivolga a voi, Gesù mio Redentore. Io vi miro su questa croce pallido e abbandonato, che più non parlate e non più respirate, perché non avete più vita; e non avete neppure più sangue, poiché tutto l'avete già sparso, come avevate prima della vostra morte già predetto: Hic est sanguis meus novi testamenti qui pro multis effundetur (Marc. XIV, 24). Non avete più vita, perché l'avete data per dar vita all'anima mia, ch'era già morta per li suoi peccati. Non avete più sangue, perché l'avete sparso per lavare i peccati miei. Ma perché perdere voi la vita e dare tutto il sangue per noi miseri peccatori? Ecco S. Paolo ci fa sapere il perché: Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. V, 2). 36. Cosi questo divin Sacerdote, che fu insieme il sacerdote e la vittima, sagrificando la sua vita per la salute degli uomini che amava, compi il gran sagrificio della croce, e perfezionò l'opera dell'umana Redenzione. Gesù Cristo colla sua morte ha tolto l'orrore alla nostra morte; dinanzi ella non era che un supplicio di ribelli, ma per la grazia e meriti del nostro Salvatore è divenuta un sagrificio si caro a Dio che, unendolo noi con quello della morte di Gesù, ci rende degni di godere la stessa gloria che gode Iddio. e di sentirci dire un giorno, come speriamo: Intra in gaudium Domini tui. 37. Sicché la morte da un oggetto qual ella è di dolore e di spavento, Gesù morendo la mutò in un passaggio dal pericolo di una ruina eterna alla sicurezza di una eterna felicità, e dalle miserie di questa vita alle delizie immense del paradiso. Onde i santi han guardata la morte, non già con timore, ma con gioia e desiderio.- Dice S. Agostino che gli amanti del Crocifisso patienter vivunt, delectabiliter moriuntur:60 soffrono con pazienza la vita e muoiono con diletto. E come l'ordinaria sperienza ci fa vedere, quelle persone dabbene che in vita sono state più tribulate dalle persecuzioni, dalle tentazioni, dagli scrupoli o da altri avvenimenti molesti, in morte poi sono state dal Crocifisso più consolate, superando con gran pace tutti i timori e le angustie della morte. Che se poi talvolta è avvenuto che alcuni santi, come si legge nelle loro vite, sono morti con gran timor della morte, il Signore l'ha fatto per loro maggior merito: poiché il lor sagrificio, quanto più è riuscito lor duro, tanto più è divenuto grato a Dio e ad essi più profittevole per la vita eterna. 38. Oh quanto era più dura la morte degli antichi fedeli, prima della morte di Gesù Cristo! Allora che il Salvatore non era ancora comparso, si sospirava la sua venuta, si aspettava secondo la sua promessa, ma non si sapeva il quando; il demonio avea gran dominio sulla terra, il cielo era per gli uomini affatto chiuso. Ma dopo la morte del Redentore, l'inferno è restato vinto, la divina grazia si è dispensata alle anime, Iddio si e riconciliato cogli uomini, e si è aperta la patria del paradiso a tutti coloro che muoiono innocenti o che hanno espiate le loro colpe colla penitenza. Che se alcuni poi, benché muoiono in grazia, non entrano subito in cielo, ciò avviene per i loro difetti non ancora purgati; del resto la morte altro non fa che rompere i loro lacci, affinché liberi possano andare ad unirsi perfettamente con Dio, da cui sono quaggiù lontani in questa terra di esilio. 39. Procuriamo dunque, anime cristiane, stando in questo esilio, di guardar la morte non come sciagura, ma come fine del nostro pellegrinaggio così pieno di angoscie e di pericoli e come principio della nostra felicità eterna, che speriamo ottenere un giorno per li meriti di Gesù Cristo. E con questo pensiero del cielo distacchiamoci quanto possiamo dagli oggetti terreni, che possono farci perdere il cielo e mandarci alle pene eterne. Offeriamoci a Dio, protestandoci di voler morire quando a lui piace, con accettar la morte in quel modo ed in quel tempo ch'egli ha destinato; pregandolo sempre che, per li meriti della morte di Gesù Cristo, ci faccia uscir da questa vita in grazia sua. 40. Gesù mio e mio Salvatore, che per ottenere a me una buona morte vi avete eletta una morte sì penosa e desolata, io mi abbandono tutto nelle braccia della vostra misericordia. Da più anni io dovrei stare all'inferno per le offese che vi ho fatte, separato da voi per sempre; voi in vece di castigarmi come io meritava, mi avete chiamato a penitenza e spero che mi avete a quest'ora già perdonato; ma se non mi avete perdonato ancora per mio difetto, perdonatemi ora che addolorato a' piedi vostri vi cerco pietà; vorrei, Gesù mio, morir di dolore pensando alle ingiurie che vi ho fatte. O sanguis innocentis, lava culpas poenitentis. Perdonatemi e datemi l'aiuto di amarvi con tutte le forze sino alla morte; e quando giungerà il fine della mia vita, fatemi morire ardendo per voi d'amore, per seguire ad amarvi in eterno. Da ora unisco la morte mia alla vostra santa morte, per la quale spero di salvarmi. In te, Domine, speravi non confundar in aeternum. O gran Madre di Dio, voi dopo Gesù siete la speranza mia: In te, Domina, speravi non confundar in aeternum. _______________________ 52 «Omnes Scripturas Christus adimpleverat... Omnibus impletis quae pati debuerat, sola mors restabat adhuc. Atque haec quidem sibi meutens, appropinquare non audebat: ideo Christus inclinato capite vocavit ipsam.» Dicta et interpretationes parabolarum Evangelii, seu Quaestiones in Novum Testamentum, qu. 41. Inter Opera S. Athanasii, MG 28-726. - Però queste «Questioni» non sono di S. Atanasio, ma vennero cavate da varii autori. 53 « Et hoc dicto, tradidit spiritum. Et bene tradidit, qui non invitus spiritum amisit. Denique Matthaeus (XXVII, 50) ait: Emisit spiritum: quod enim emittitur, voluntarium est: quod amittitur, necessarium.» S. AMBROSIUS, Expositio Evangelii secundum Lucam, lib. 10, n. 127. ML 151835. - In qualche antica edizione (Chevallon, Parisiis, 1539) si legge: «Et bene tradidit, qui non invitus amisit.» Certamente, questa lezione si accorda meglio col contesto: «Quod amittitur, necessarium.» Oltreché, poco sopra (n. 126), S. Ambrogio aveva detto: «In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. Et bene commendatur spiritus, qui reservatur: quod enim commendatur, utique non amittitur.» 54 «Liberavit autem omnes Dominus et redemit in passione crucis et effusione sanguinis sui, quando anima eius descendit in infernum, et caro eius non vidit corruptionem, et ad ipsam mortem atque infernum locutus est: Ero mors tua, o mors: idcirco enim mortuus sum, ut tu mea morte moriaris: Ero morsus tuus, inferne, qui omnes tuis faucibus devorabas.» S. HIERONYMUS, In Osee, lib. 3 (in cap. XIII, v. 14). ML 25-937. «Ad descensum itaque caelestis Domini profundum inferi panditur, peregrinum sibi lumen inferni nox aeterna miratur. Expavit ergo nox subito non suum mortuum, imo expavit mortem suam. Aderat enim ille, qui dudum per prophetam suum dixerat: O mors, ero mors tua: ero morsus tuus, inferne (Osee XIII, 14).» Inter Opera S. Augustini, Sermo 161, in Appendice (olim sermo 156 de Tempore), n. 1. ML 39-2062. -Però, questo Sermone non è di S. Agostino. Si sospetta esser del semipelagiano Fausto, vescovo di Riez, per la somiglianza di stile con altri Sermoni, in cui la sua dottrina lo tradisce. «Neque etenim infideles quosque, et pro suis criminibus aeternis suppliciis deditos, ad veniam Dominus resurgendo reparavit; sed illos ex inferni claustris rapuit, quos suos in fide et actibus recognovit. Unde recte etiam per Osee (XIII, 14) dicit: Ero mors tua, o mors: ero morsus tuus, inferne. Id namque quod occidimus, agimus ut penitus non sit. Ex eo etenim quod mordemus, partem abstrahimus, partemque relinquimus. Quia ergo in electis suis funditus occidit mortem, mors mortis exstitit. Quia vero ex inferno partem abstulit et partem reliquit, non occidit funditus, sed momordit infernum.» S. GREGORIUS MAGNUS, XL Homiliae in Evangelia, lib. 2, hom. 22, n. 6. ML 76-1177. 55 «Pro mortis hebraice est sceol, id est inferni, ut vertit Syrus, sed eodem res redit: quia haec duo tunc erant coniuncta. Nam ante resurrectionem Christi, qui ibant in mortem, ibant pariter in infernum.» CORNELIUS A LAPIDE, Commentaria in Osee (in XIII, 14: De manu mortis liberabo eos ). 56 Tunc fiet sermo qui scriptus est: Absorpta est mors... I Cor. XV, 54, 55, 56. 57 In off. de Dominica Passionis, hymnus ad utrasque Vesperas. 58 Dominica in Albis et tempore paschali, hymnus ad Vesperas. 59 «Voyons-le, Théotime, ce divin Rédempteur, étendu sur la croix, comme sur son bûcher d' honneur où il meurt d' amour pour nous... Hé, que ne nous jetons-nous en esprit sur lui, pour mourir sur la croix avec lui, qui, pour l' amour de nous, a bien voulu mourir!» S. FRANCOIS DE SALES, Traité de l' amour de Dieu, liv. 7, ch. 8. (Euvres, v, Annecy, 1894. 60 «Iam cum coeperit desiderare venientem Christum casta anima, quae desiderat amplexus sponsi.... non contra se pugnat quando orat, et dicit: Adveniat regnum tuum (Matt. VI, 10). Qui enim timet ne veniat regnum Dei, timet ne exaudiatur... Qui autem orat cum fiducia caritatis, optat iam ut veniat. De ipso desiderio dicebat quidam in Psalmo (VI, 4, 5): Et tu, Domine, usquequo? Convertere, Domine, et erue animam meam. Gemebat se differri. Sunt enim homines qui eum patientia moriuntur; sunt autem quidam perfecti qui cum patientia vivunt. Quid dixi? Qui adhuc desiderat istam vitam, quando illi venerit dies mortis, patienter tolerat mortem: luctatur adversum se, ut sequatur voluntatem Dei, et hoc potius agit animo, quod eligit Deus, non quod eligit voluntas humana; et ex desiderio vitae praesentis, fit lucta cum morte; et adhibet patientiam et fortitudinem, ut aequo animo moriatur: iste patienter moritur. Qui autem desiderat, sicut dicit Apostolus, dissolvi et esse cum Christo, non patienter moritur: sed patienter vivit, delctabiliter moritur. Vide Apostolum patienter viventem, id est, cum patientia hic non amare vitam, sed tolerare. Dissolvi, inquit, et esse cum Christo multo magis optimum: manere autem in carne necessarium propter vos (Philipp., I, 23, 24). Ergo, fratres, date operam, intus agite vobiscum, ut desideretis diem iudicii.» S. AUGUSTINUS, In Epist. Ioannis ad Parthos (in I Io.), Tractatus 9, n. 2. ML 35-2046, 2047. CAPO VI - Riflessioni sui prodigi avvenuti nella morte di Gesù Cristo 1. Si porta, come scrive Cornelio a Lapide in S. Matteo (c. XXVII, v. 45),1 che S. Dionigi Areopagita stando in Eliopoli di Egitto disse un giorno nel tempo della morte di Gesù Cristo: Aut Deus naturae auctor patitur, aut mundi machina dissolvitur. Ma altri, come Michele Sincello2 ed il Suida,3 portano ciò altrimenti: dicono aver detto: Deus ignotus in carne patitur, ideoque universum hisce tenebris obscuratur. Ed Eusebio (Praepar. evang. lib. V, cap. 9) scrive da Plutarco,4 che nell'isola di Praxas s'intese una voce che disse: Magnus Pan mortuus est. Ed in seguito a tal voce, si udì un grido di molti che piangeano. Eusebio interpretò la parola Pan per Lucifero che per la morte di Cristo restava quasi morto in vedersi spogliato dell'imperio che tenea sovra degli uomini; ma il Barrada l'intende per la stessa persona di Cristo, mentre nel greco la voce Pan e lo stesso che il tutto, qual'è appunto Gesù Cristo Figlio di Dio: il tutto, cioè ogni bene. 2. Quel che abbiamo dal Vangelo è che nel giorno della morte del Salvatore, dall'ora di sesta sino a nona, tutta la terra fu coverta di tenebre: A sexta autem hora tenebrae factae sunt super universam terram usque ad horam nonam (Matth. XXVII, 45). E nel punto che Gesù spirò, squarciossi per mezzo il velo del tempio, e sopravvenne un tremuoto universale che fracassò più montagne: Et ecce velum templi scissum est in duas partes a summo usque deorsum; et terra mota est et petrae scissae sunt (Matth. XXVII, 51). 3. Parlando delle tenebre, riflette S. Girolamo (In cap. 8, Amos) che questa oscurità ben fu prenunziata dal riferito profeta con quelle parole: Erit in die illa, dicit Dominus Deus: Occidet sol in meridie et tenebrescere faciam terram in die luminis (Amos VIII, 9).5 Onde S. Girolamo così poi commentò questo testo, dicendo che allora sembrò avere il sole ritirata la sua luce, affinché non ne godessero i nemici di Gesù Cristo: Videtur sol retraxisse radios suos, ne impii sua luce fruerentur.6 Aggiunge nello stesso luogo che il sole si nascose, come non ardisse di mirare il Signore appeso in croce: Retraxit radios suos, pendentem in crucem Dominum spectare non ausus.7 Ma più propriamente scrive S. Leone che allora vollero tutte le creature dimostrare a lor modo il loro dolore nella morte del comun Creatore: Pendente in patibulo Creatore, universa creatura congemuit (S. Leo, De Pass.).8 All'istesso sentimento si unisce Tertulliano che, parlando specialmente delle tenebre, dice che il mondo con quell'oscurità volle quasi celebrare l'esequie del nostro Redentore: A sexta ora contenebratus orbis lugubre Domino fecit officium (Tert., De ieiun. c. 3).9 4. Avvertono S. Atanasio, S. Grisostomo e S. Tommaso10 che questa oscurità fu tutta prodigiosa, poiché in quel giorno non poteva accadere per l'ecclisse della luna interposta tra la terra ed il sole: mentre questo ecclisse, come parlano gli astronomi, doveva accadere nel novilunio, non già nel plenilunio qual era in quel giorno. Di più essendo il sole molto più grande della luna, non potea la luna occupar la luce del sole; ma, come dice il vangelo, le tenebre furono sparse allora per tutta la terra. In oltre, ancorché la luna avesse potuto occupare la luce del sole, noi sappiamo che il corso del sole è molto veloce, onde l'oscurità appena sarebbe durata pochi minuti; ma afferma il Vangelo che l'oscurità durò per tre ore continue dalla sesta sino alla nona. Questo prodigio delle tenebre espose appunto Tertulliano nella sua Apologia (al capo 21) a' gentili, dicendo loro che negli stessi loro archivi stava notato questo gran prodigio dell'oscuramento del sole: Eodem momento (in cui Cristo spirò) diei, medium orbem signante sole, lux subducta est. Eum mundi casum relatum in archiviis vestris habetis (Tert. Apol. capo 21).11 Eusebio, in conferma di ciò, nella sua cronaca riferisce le parole di Flegonte, liberto di Augusto,12 autore di quel tempo, il quale avea scritto in questo modo: Quarto anno Olympiadis 202 factum est deliquium solis, omnibus cognitis maius, et nox facta est hora diei sexta, ita ut stellae in caelo conspicerentur.13 5. Dicesi di più nel Vangelo di S. Matteo: Et ecce velum templi scissum est in duas partes a summo usque deorsum (Matth. XXVII, 51). Scrive poi l'Apostolo14 che così nel tabernacolo come nel tempio, vi era il Sancta Sanctorum, dov'era l'arca del Testamento che contenea la manna, la verga di Aronne, e le tavole del testamento; e quest'arca era il propiziatorio. Nel primo tabernacolo, che stava davanti del Sancta Sanctorum ed era coverto dal primo velo, entravano i soli sacerdoti a fare i loro sacrifici, e 'l sacerdote che ivi sagrificava, intingendo il dito nel sangue della vittima offerta, ne spruzzava sette volte il velo.15 Ma nel secondo tabernacolo del Sancta Sanctorum, che stava sempre chiuso e coverto dal secondo velo, entrava solamente il sommo sacerdote e vi entrava una sola volta l'anno, portando del sangue della vittima che per se stesso offeriva.16 Tutto era misterio: il santuario sempre chiuso dinotava la separazione degli uomini dalla divina grazia, che non avrebbero mai ricevuta se non per mezzo del gran sagrificio che Gesù Cristo doveva un giorno offerir di se stesso, figurato già in tutti gli antichi sagrifici e perciò chiamato da S. Paolo pontefice de' beni futuri, che per un tabernacolo più perfetto, cioè per lo suo corpo sagrosanto assunto, doveva entrar nel Sancta Sanctorum del cospetto divino qual mediatore fra Dio e gli uomini, offerendo il sangue, non già degl'irci e de' vitelli, ma il suo proprio sangue, col quale doveva consumar l'opera dell'umana Redenzione e così aprire a noi l'ingresso nel cielo. 6. Ma udiamo le proprie parole dell'Apostolo: Christus autem assistens pontifex futurorum bonorum per amplius et perfectius tabernaculum, non manufactum id est non huius creationis, neque per sanguinem hircorum aut vitulorum, sed per proprium sanguinem introivit semel in sancta, aeterna redemptione inventa (Hebr. IX, 11). Si dice ivi, pontifex futurorum bonorum, a differenza de' pontefici di Aronne che impetravano beni presenti e terreni; ma Gesù Cristo avea da ottenerci i beni futuri che sono celesti ed eterni. Dicesi per amplius et perfectius tabernaculum, quale fu la santa umanità del Salvatore, che fu già tabernacolo del Verbo divino; non manufactum, perché il corpo di Gesù non fu formato per opera d'uomo, ma dello Spirito Santo. Dicesi, neque per sanguinem hircorum aut vitulorum, sed per proprium sanguinem, poiché il sangue degl'irci e de' vitelli ottenea solamente la purificazione della carne, ma il sangue di Gesù Cristo ottiene la purificazione dell'anima colla remissione de' peccati. Dicesi, introivit semel in sancta, aeterna redemptione inventa. Questa parola inventa dinota che tal Redenzione non poteva essere da noi né pretesa né aspettata prima delle divine promesse, ma solamente fu ritrovata dalla divina bontà; e dicesi aeterna, perché il sommo sacerdote degli Ebrei una sola volta l'anno entrava nel Sancta, ma Gesù Cristo, consumando una sola volta il sagrificio colla sua morte, ha meritata a noi una Redenzione eterna che basterà per sempre, ad espiare tutti i nostri peccati, come scrive lo stesso Apostolo: Una enim oblatione consummavit in sempiternum sanctificatos (Hebr. X, 14). 7. Soggiunge l'Apostolo: Et ideo novi testamenti mediator est (Hebr. IX, 15). Mosè fu mediatore dell'antico Testamento, cioè dell'antica alleanza, la quale non avea virtù di ottenere agli uomini la riconciliazione con Dio e la salute: poiché, come spiega S. Paolo in altro luogo, la vecchia legge nihil... ad perfectum adduxit (Hebr. VII, 19): ma Gesù Cristo, nella nuova alleanza, pienamente soddisfacendo la divina giustizia per li peccati degli uomini, ottenne loro per li suoi meriti il perdono e la divina grazia. Si offendeano i Giudei in sentire che il Messia con una morte così obbrobriosa avesse operata l'umana Redenzione; dicendo aver imparato dalla legge che il Messia non dovea morire, ma sempre vivere: Audivimus ex lege, quia Christus manet in aeternum (Io. XII, 34). Ma affatto erravano, poiché la morte fu il mezzo per cui Gesù Cristo si rendé mediatore e salvatore degli uomini; giacché per la morte di Gesù Cristo fu fatta la promessa dell'eterna eredità a coloro che vi son chiamati: Et ideo novi testamenti mediator est, ut morte intercedente in redemptionem earum praevaricationum quae erant sub priori testamento, repromissionem accipiant, qui vocati sunt, aeternae haereditatis (Hebr. IX, 15). Quindi S. Paolo ci anima a riporre tutte le nostre speranze nei meriti della morte di Gesù Cristo: Habentes itaque, fratres, fiduciam in introitu sanctorum in sanguine Christi, quam initiavit nobis viam novam et viventem per velamen, id est carnem suam ( Hebr. X, 19, 20). Noi, dice, abbiamo un gran fondamento di sperare la vita eterna nel sangue di Gesù Cristo, che ci ha aperta la via nuova del paradiso. Si dice nuova, perché prima da niun altro era stata calcata; ma Gesù calcandola l'ha aperta a noi per mezzo della sua carne sagrificata nella croce, della quale fu figura il velo: perché, siccome scrive S. Gio. Grisostomo, col velo scisso nella Passione del Signore restò aperto il Sancta Sanctorum, così la carne di Cristo, squarciata nella Passione, aprì a noi il cielo che stava chiuso.17 Ci esorta pertanto lo stesso Apostolo ad andare con confidenza al trono della grazia a ricever la divina misericordia: Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericordiam consequamur et gratiam inveniamus in auxilio opportuno (Hebr. IV, 16). Questo trono di grazie è appunto Gesù Cristo, a cui ricorrendo noi miseri peccatori in mezzo a tanti pericoli ne' quali stiamo di perderci, ritroveremo quella misericordia che noi non meritiamo. 8. Ritorniamo al testo citato di S. Matteo (cap. XXVII, 50 et 51): Iesus autem iterum clamans voce magna emisit spiritum; et ecce velum. templi scissum est in duas partes, a summo usque deorsum. Or questo intiero squarciamento dall'alto sino al basso, avvenuto nel momento della morte di Gesù Cristo, che fu noto a tutti i sacerdoti ed al popolo, non poté avvenire senza un prodigio soprannaturale; poiché il velo non avrebbe potuto senza prodigio, per lo solo tremuoto, squarciarsi intieramente dall'alto al basso. Ma ciò avvenne per significare che Dio non volea più questo santuario chiuso, ordinato dalla legge: ma ch'egli stesso d'allora innanzi voleva essere il santuario aperto a tutti per mezzo di Gesù Cristo. Scrive S. Leone (Serm. X, de Pass. cap. 5) che il Signore con tale squarciamento dimostrò chiaramente che finiva l'antico sacerdozio e cominciava il sacerdozio eterno di Gesù Cristo: e che restavano aboliti i sagrifici antichi e costituita una nuova legge, secondo quel che scrisse l'Apostolo: Translato enim sacerdotio, necesse est ut et legis translatio fiat (Hebr. VII, 12).18 E con ciò noi siamo stati fatti certi che Gesù Cristo è il fondatore cosi della prima, che della seconda legge; e che la legge antica, il tabernacolo, il sacerdozio e gli antichi sagrifici, non miravano che il sagrificio della croce che dovea operare la Redenzione umana. E cosi tutto quel che prima nella legge, ne' sagrifici, nelle feste e nelle promesse, era oscuro e misterioso, divenne chiaro nella morte del Salvatore. In somma dice Eutimio che il velo diviso dinotò esser già tolto il muro che frapponeasi tra il cielo e la terra, sicché restava aperta agli uomini la via per andare al cielo senza impedimento: Scissum velum significavit divisum iam esse parietem inter caelum et terram, qui inter Deum erat et homines, et factum esse hominibus caelum pervium.19 9. Dicesi inoltre nel Vangelo: Et terra mota est et petrae scissae sunt (Matth. XXVII, 51). È fama che nella morte di Gesù Cristo vi fu un tremuoto grande ed universale, in modo che fu scosso tutto il globo della terra, come scrive Orosio (Lib. VII, cap. 4).20 E Didimo (Catena graec. in Iob, c. 9) scrive che la terra fu allora smossa fin dal suo centro.21 Di più Flegonte, liberto di Adriano imperatore, citato da Origene e da Eusebio all'anno di Cristo 33, scrive che con questo tremuoto accadde una gran ruina di edifici in Nicea di Bitinia.22 Di più Plinio (Lib. III, cap. 84)23 che visse al tempo di Tiberio, sotto cui morì Cristo, e Svetonio (In Tiber. cap. 84) attestano che nell'Asia in questo tempo, per lo gran tremuoto che vi fu, caddero dodici città; e con ciò vogliono gli eruditi che si adempisse la profezia di Aggeo: Adhuc unum modicum est, et ego commovebo caelum et terram (Aggaei, II, 7). Onde scrisse poi S. Paolino che Gesù Cristo, benché trafitto in croce, per dimostrare qual egli era, anche dalla croce atterrì il mondo: In cruce fixus, e cruce terruit orbem.24 10. Agricomio poi (In descript. Ierus., n. 152) porta che di questo tremuoto sino ad oggi vedonsi i segni nello stesso monte Calvario,25 dalla parte sinistra, scorgendosi ivi una fissura larga quanto può capire un corpo umano, e così profonda, che non si è potuto investigarne il fondo. Il Baronio all'anno di Cristo 34 (Num. 107)26 narra che in molte altre parti, per lo stesso tremuoto, si videro aperti i monti: specialmente nel promontorio di Gaeta vedesi oggidì una montagna di pietra viva, della quale è fama che nella morte del Signore ella si aprì per mezzo dalla cima sino al fondo, ed apparisce chiaramente che l'apertura fu prodigiosa; poiché quest'apertura è sì grande che vi passa il mare per mezzo, e quel che si vede mancante in una parte, vedesi a proporzione cresciuto nell'altra. La stessa tradizione vi è per lo monte Colombo vicino a Rieti, per lo Monserrato in Ispagna, e per più altri monti aperti in Sardegna dintorno alla città di Cagliari; ma più ammirabile è quel che si vede nel monte Alvernia in Toscana, dove S. Francesco ricevé il dono delle sagre stimmate, e dove si mirano molti massi smisurati di pietra rovinati l'un sopra l'altro: e si scrive essere stato rivelato a S. Francesco da un angelo che appunto fu quello uno de' monti che caddero nella morte di Gesù Cristo, come porta il Vaddingo (Annal. Minor., an. 1215, n. 15).27 Scrisse S. Ambrogio (Lib. X in Luc.): O duriora saxis pectora Iudaeorum! finduntur petrae, sed horum corda durantur!28 11. Seguita S. Matteo a descrivere i prodigi accaduti nella morte di Cristo, e dice: Et monumenta aperta sunt, et multa corpora sanctorum qui dormierant surrexerunt; et exeuntes de monumentis post resurrectionem eius venerunt in sanctam civitatem, et apparuerunt multis (Matth. XXVII, 52 et 53). Scrive su di ciò S. Ambrogio (L. X in Luc.): Monumentorum reseratio quid aliud, nisi, claustris mortis effractis, resurrectionem significat mortuorum?29 Sicché l'apertura de' sepolcri significò la sconfitta data alla morte e la vita restituita agli uomini col lor risorgimento. Avvertono poi S. Girolamo, il Ven. Beda e S. Tommaso30 che quantunque nella morte di Cristo si aprissero i sepolcri, nondimeno i morti non risorsero se non dopo la risurrezione del Signore, come specialmente scrive S. Girolamo: Tamen cum monumenta aperta sunt, non antea resurrexerunt, quam Dominus resurgeret, ut esset primogenitus resurrectionis ex mortuis.31 E ciò è secondo quel che dice l'Apostolo (Coloss. I, 18), dove Gesù Cristo è chiamato primogenito de' morti e 'l primo de' risorgenti: Principium, primogenitus ex mortuis, ut sit in omnibus ipse primatum tenens (Loc. cit.): poiché non era conveniente che altr'uomo risorgesse prima di colui che avea trionfato della morte. 12. Dicesi in S. Matteo che molti santi risorsero allora ed, uscendo da' sepolcri, apparvero a molti. Questi risorti furon già quei giusti che avean creduto e sperato in Gesù Cristo; e Dio volle così onorargli in premio della loro fede e confidenza nel futuro Messia, secondo la predizione di Zaccaria, nella quale il profeta parlando al futuro Messia disse: Tu quoque in sanguine testamenti tui emisisti vinctos tuos de lacu in quo non est aqua (Zach. IX, 11). Cioè: tu ancora, o Messia, per lo merito del tuo sangue scendesti nella carcere e liberasti quei santi carcerati da quel lago sotteraneo - cioè dal limbo de' padri in cui non vi era acqua di gaudio - e li portasti nella gloria eterna. 13. Siegue poi a dire S. Matteo che il centurione e gli altri soldati suoi sudditi, che furono i ministri della morte del Salvatore, non ostante che i Giudei seguissero ostinatamente ad approvar la morte ingiusta a lui data, essi nondimeno, mossi da quei prodigi delle tenebre e del tremuoto, lo riconobbero per vero Figlio di Dio: Centurio autem et qui cum eo erant custodientes Iesum, viso terrae motu et his quae fiebant, timuerunt valde dicentes: Vere Filius Dei erat iste (Matth. XXVII, 54). Questi soldati furon già le felici primizie de' gentili che abbracciaron la fede di Gesù Cristo dopo la di lui morte; mentre per li di lui meriti ebber la sorte di riconoscere il lor peccato e di sperarne il perdono. 14. Soggiunge S. Luca che tutti gli altri che si trovarono alla morte di Gesù Cristo ed ai prodigi narrati, se ne tornarono percotendosi il petto in segno del loro pentimento di aver cooperato o almeno applaudito alla morte del Salvatore: Et omnis turba eorum qui simul aderant ad spectaculum istud et videbant quae fiebant, percutientes pectora sua revertebantur (Luc. XXIII, 48). Ed indi, come abbiamo dagli Atti Apostolici, anche molti de' Giudei, essendosi compunti alle prediche di S. Pietro, gli dimandarono che cosa dovesser fare per salvarsi; e S. Pietro rispose loro che facessero penitenza e si battezzassero; il che già eseguirono sino al numero di tre mila persone: Qui ergo receperunt sermonem eius baptizati sunt, et appositae sunt in die illa animae circiter tria millia (Act. II, 41). 15. Vennero poi i soldati, e ruppero le gambe de' due ladroni; ma essendo venuti a Gesù e vedendolo già morto, si astennero di fargli lo stesso; ma uno di essi colla lancia gli aprì il costato, da cui subito uscì sangue ed acqua: Sed unus militum lancea latus eius aperuit, et continuo exivit sanguis et aqua (Io. XIX, 34). Scrisse S. Cipriano che la lancia andò direttamente a ferire il Cuore di Gesù Cristo.32 E ciò fu anche rivelato a S. Brigida (Rev. l. 2. cap. 21): Lancea attigit costam, et ambae partes cordis fuerunt in lancea.33 Quindi si crede che intanto col sangue uscisse anche l'acqua dal lato del Signore, in quanto la lancia giungendo a ferire il Cuore di Cristo, dové prima rompere il pericardio che stava posto davanti il Cuore. Scrive di più S. Agostino (Serm. CXX, in Io.) che S. Giovanni intanto disse aperuit, perché allora si aprì nel Cuore del Signore la porta della vita, dalla quale uscirono i sagramenti, per mezzo dei quali si entra alla vita eterna: Ut illic quodammodo vitae ostium panderetur, unde sacramenta Ecclesiae manaverunt, sine quibus ad vitam non intratur.34 Pertanto dicesi poi che il sangue ed acqua usciti dal costato di Gesù Cristo furon figura de' sagramenti, perché l'acqua è simbolo del battesimo, ch'è il primo de' sagramenti, e 'l sangue si contiene nell'Eucaristia ch'è il massimo de' sagramenti. In oltre dice S. Bernardo che Gesù Cristo, con quella ferita visibile che accettò, volle farci intendere la ferita invisibile d'amore, del quale egli teneva il Cuore impiagato per noi: Propterea vulneratum est, ut per vulnus visibile, vulnus amoris invisibile videamus: carnale ergo vulnus, vulnus spirituale ostendit.35 E poi conchiude: Quis illud Cor tam vulneratum non diligat? (S. Bern.Serm. 3 de Pass.).36 S. Agostino, parlando dell'Eucaristia, dice che il santo sagrificio della Messa oggi non è meno efficace davanti a Dio, di quel che furono il sangue e acqua che uscirono in quel giorno dal costato ferito di Gesù Cristo: Non minus hodie in conspectu Patris oblatio illa est efficax, quam die qua de saucio latere sanguis et aqua exivit (S. Aug. in Ps. 85).37 16. Terminiamo questo capo con far qualche riflessione sopra la sepoltura di Gesù Cristo. Gesù venne al mondo non solo per redimerci, ma anche per insegnarci col suo esempio tutte le virtù, e specialmente l'umiltà e la santa povertà, compagna indivisibile dell'umiltà. E perciò volle nascer povero in una grotta, viver povero in una bottega per trent'anni, e finalmente volle morir povero e nudo su d'una croce, sino a vedersi dividere sotto gli occhi propri tra' soldati le sue proprie vesti prima di spirare; e dopo che fu morto, gli fu di bisogno ricever da altri un lenzuolo di limosina per esser seppellito. Si consolino i poveri mirando Gesù Cristo, re del cielo e della terra, vivere e morir così povero per render noi ricchi de' suoi meriti e de' suoi beni, come scrive l'Apostolo: Quoniam propter vos egenus factus est, cum esset dives, ut illius inopia vos divites essetis (II Cor. VIII, 9). A questo fine i santi, per rendersi simili a Gesù povero, han disprezzate tutte le ricchezze ed onori terreni, affin di andare un giorno a godere con Gesù Cristo le ricchezze e gli onori celesti apparecchiati da Dio a coloro che l'amano: de' quali beni parlando l'Apostolo scrisse: Quod oculus non vidit, nec auris audivit, nec in cor hominis ascendit quae praeparavit Deus iis qui diligunt illum (I Cor. II, 9). 17. Risorse poi Gesù Cristo colla gloria di possedere, non solo come Dio, ma anche come uomo, ogni potenza nel cielo e nella terra; onde tutti gli angeli ed uomini sono suoi sudditi. Rallegriamoci noi intanto in veder così glorificato il nostro Salvatore, il nostro padre e 'l nostro migliore amico che abbiamo. E rallegriamoci con noi stessi, mentre la risurrezione di Gesù Cristo è per noi un pegno sicuro della risurrezione nostra e della gloria che speriamo un giorno di avere nel cielo, così nell'anima come nel corpo. Questa speranza diè vigore ai santi martiri di soffrir con allegrezza tutti i mali di questa terra ed i tormenti più crudeli de' tiranni. Ma bisogna persuadersi che non godrà con Gesù Cristo chi non vuol patire quaggiù con Gesù Cristo: né otterrà la corona chi non combatte come dee combattere: Et qui certat in agone non coronatur nisi legitime certaverit (II Tim. II, 5). Ma stiam persuasi ancora di quel che dice lo stesso Apostolo, che tutti i patimenti di questa vita son molto brevi e leggeri a rispetto de' beni immensi ed eterni che speriamo godere in paradiso: Quod in praesenti est momentaneum et leve tribulationis nostrae... aeternum gloriae pondus operatur in nobis (II Cor. IV, 17).38 Attendiamo pertanto a star sempre in grazia di Dio ed a chiedergli continuamente la perseveranza nella sua grazia: altrimenti, senza la preghiera e perseverante preghiera, non otterremo questa perseveranza, e senza la perseveranza non conseguiremo la salute. 18. O dolce, o amabile mio Gesù, come avete potuto tanto amare gli uomini, che per dimostrare ad essi il vostro amore non avete ricusato di morire svenato e svergognato sovra d'un legno infame? Oh Dio, e come poi son tanto pochi tra gli uomini quei che v'amano di cuore? Ah caro mio Redentore, tra questi pochi voglio essere anch'io. Misero, per lo passato mi sono scordato del vostro amore, ed ho cambiata la vostra grazia per miseri diletti! Conosco il male che ho fatto; me ne dolgo con tutto il cuore; vorrei morirne di dolore. Ora, amato mio Redentore, io v'amo più di me stesso, e son pronto a morir mille volte, prima che perdere la vostra amicizia. Vi ringrazio della luce che mi date; Gesù mio, speranza mia, non mi lasciate in mano mia, seguite ad aiutarmi sino alla morte. O Maria madre di Dio, pregate Gesù per me. ______________________- 1 «S. Dionysius ait se ectypsin hanc vidisse Heliopoli in Aegypto, ideoque fertur exclamasse: «Aut Deus naturae, auctor mundi, patitur, aut mundi machina dissolvitur.» CORNELIUS A LAPIDE, Commentaria in Matthaeum, (in Matt. XXVII, 45). 2 «Talis igitur historia longa temporum serie, quasi a patre filiis tradita, ad nos usque pervenit. Cum magnus iste Dionysius, tempore quo Servator supplicio est affectus, quando terra concussa est, atque sol non ferens opificem universorum.... ligno carne suffligi, suos ipsius radios in meridie occultasset, prae tam admirabili facto vehementer stupefactus... fatcum illud perpendens,»Deus, inquit, ignotus (?) carne patitur, cuius causa orbis universus tenebris offusus, et turbatione confusus est.» MICHAEL SYNGELOS (Syncellus, presbyter Hierosolymitanus, («pervetustus auctor», asserisce il Suida), Encomium Beati Dionysii Areopagitae. MG 4-626, 627. 3 «Hic Areopagita sub Tiberio Caesare, fiorente aetate in Aegyptum abiit, sapientes eius loci aditurus, unaque cum eo fuit Apollophanes rhetor.... Ac tempore salutaris Passionis ambo fuerunt una Heliopoli in Aegypto; cumque defectus solis contra naturam accidisset - neque enim interlunii tempus erat, sed admirabiliter luna in solem inciderat - ab hora sexta usque ad vesperam, in solis oppositum supra naturam eadem fuerat restituta... Quae res novae, naturaeque captum superantes, Apollophanem impulerunt ut quasi vaticinans diceret: «O praeclare Dionysi, vices sunt rerum divinarum.» Cui Dionysius respondet: «Aut Deus patitur, aut vicem patientis dolet.» SUIDAS, Historica, inerprete Hier. Wolfio, Basileae, 1564, verbo Dionysius. 4 PLUTARCHUS, De oraculum defectu. - EUSEBIUS Caesariensis, Praeparationis evangelicae lib. 5, cap. 17. MG 21-358. - Seb. BARRADAS, S. I., Commentariorum in concordiam et historiam IV Evangelistarum, lib. 7, cap. 21. - Vedi Appendice, 12. 5 «Possumus hunc locum (Amos VIII, 9) et in Domini intelligere Passione, quando sol hora sexta retraxit radios suos, et pendentem in cruce Dominum suum spectare non ausus est.» S. HIERONYMUS, Comment. in Amos (VIII, 9, 10), lib. 3. ML 25-1082. 6 «A sexta autem hora, tenebrae factae sunt super universam terram usque ad horam nonam (Matt. XXVII, 45).... Hoc factum reor ut compleretur prophetia dicens: Occumbet sol meridie, et contenebrabitur super terram in die lux (Amos, VIII, 9): et in alio loco: Occubuit sol cum adhuc media esset dies (Ier. XV, 9). Videturque mihi clarissimum lumen mundi, hoc est, luminare maius, retraxisse radios suos, ne aut pendentem videret Dominum, aut impii blasphemantes sua luce fruerentur.» S. HIERONYMUS, Comment. in Evang. Matthaei (in cap. XXVII, 45). ML 26-212. 7 Questo è quello che abbiam veduto nella nota precedente: «ne aut pendentem videret Dominum»; e più espressamente nella nota 5: «et pendentem in cruce Dominum suum spectare non ausus est.» Questa parola «nello stesso luogo» deve dunque intendersi del Commentario, non già sul Vangelo di S. Matteo, ma sulla Profezia di Amos. 8 «Exaltatum autem Iesum ad se traxisse omnia, non solum nostrae substantiae passione, sed etiam totius mundi commotione monstratum est. Pendente enim in patibulo Creatore, universa creatura congemuit, et crucis clavos omnia simul elementa senseerunt.» S. LEO MAGNUS, Sermo 57 (al. 55), de Passione Domini 6, cap. 4. ML 54-330. 9 «Itaque in eam usque horam celebranda pressura est, in qua a sexta contenebratus orbis defuncto Domino lugubre fecit officium, ut tunc et nos revertamur ad iucunditatem, cum et mundus recepit claritatem.» TERTULLIANUS, Liber de ieiuniis, cap. 10. ML 2-967. 10 «Quid autem habent (falsi dei aut gentiles) quod aliis eius (Christi) divinitatis miraculis opponant? Quonam homine moriente sol obscuratus est et concussa est terra? Certe ad hoc usque tempus moriuntur homines olimque mortui sunt: quibusnam igitur tale quid umquam contigit prodigium?» S. ATHANASIUS, Oratio de humana natura a Verbo assumpta, et de eius per corpus ad nos adventu, n. 49. MG 25-183. «Multo.... mirabilius fuit haec accidisse cum ipse cruci affixus esset, quam si in terra tunc ambulasset. Neque in hoc solum res stupenda erat, sed signum illus, quod quaerebant, de caelo factum est, et in universa terra.... Et animadverte quandonam haec fiant. In meridie, ut omnes per orbem discerent... Quod utique ad illos convertendos sufficiebat, non magnitudine solum miraculi, sed quod haec opportune acciderent. Nam post illa omnia quae insane fecerant.... id accidit, quando furor remiserat.... quando iactis dicteriis exsatiati erant, et omnia pro lubito dixerant; tunc tenebras exhibuit, ut vel sic ira sedata, ex miraculo aliquid lucrarentur. Res enim tantas in cruce agere mirabilius erat, quam si de cruce descendisset. Nam sive illum haec fecisse putarent, credere oportebat et timere: sive non illum, sed Patrem, hinc etiam compungi par erat: nam tenebrae illae ex ira de facinoribus illis concepta proficiscebantur. Quod enim non esset eclypsis, sed ira et indignatio, non hinc solum manifestum erat, sed etiam a tempore: tribus enim horis permansit; eclypsis vero in momento temporis fit: quod non ignorant qui viderunt: nam nostra etiam aetate eclypsis contigit.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Matthaeum, hom. 88 (al. 89), n. 1. MG. 58-775. «Non fuit haec eclypsis naturalis, sed miraculosa... Consideraverunt (Dionysius Areopagita et socius eius Apollonius) quatuor miracula. Primum ex tempore, quia... luna erat quintadecima, ubi luna est in oppositione ad solem; sed naturalis eclypsis fit ex coniunctione lunae ad solem. Secundum miraculum fuit, quod quando sol in occidente est, luna debet esse in oriente; sed hic mutatus est cursus lunae. Item tertium signum est quod semper obscuratio incipit a parte occidentis.... Luna.... cum venit ad corpus solis, venit ab occidente; sed sic non fuit hic, quia ab oriente venit. Quartum miraculum fuit, quia ab eadem parte incipit obscuratio et redit ililuminatio: sed hoc tunc non fuit, quia illam partem quam primo occupavit, ultimo dimisit, quia luna ab oriente venit usque ad corpus solis, et tunc retrocessit, unde illa pars primo fuit illuminata. - Quintum miraculum, quod est maius.... est quod quando naturalis eclypsis est, parum durat: non enim sol patitur, sed fit obscuratio per interpositionem lunae; sed corpus lunae non est maius quam solis, ideo moram non habet; sed istud duravit tribus horis, ideo magnum fuit miraculum.» S. THOMAS, In Matthaeum (in cap. XXVII, 45). - Cf. Sum. Theol., III, qu. 44, art. 2, ad 2. 11 «Eodem momento dies, medium orbem signante sole, subducta est. Deliquium utique putaverunt, qui id quoque super Christo praedicatum non scierunt; et tamen eum mundi casum in arcanis (al. archivis) vestris habetis.» TERTULLIANUS, Apologeticus adversus Gentes pro Christianis, cap. 21. ML 1-401. 12 Flegonte di Tralles, liberto dell' imperatore Adriano, autore di una cronaca, Olimpiadi, in cui erano prese a base le Olimpiadi sino al 140 d. C. - S. Alfonso qui lo dice liberto di Augusto, ma poco dopo, al n. 9 di questo stesso capo, lo dice più esattamente «liberto di Adriano imperatore.» 13 «Iesus Christus secundum prophetias... ad Passionem venit anno Tiberii XVIII: quo tempore etiam in aliis ethnicorum commentariis haec ad verbum scripta reperimus: solis facta defectio: Bithynia terraemotu concussa, et in urbe Nicaena aedes plurimae corruerunt. Quae omnia his congruunt quae in Passione Domini acciderunt. Scribit vero super his et Phlegon, qui olympiadum egregius supputtor est, in tertio decimo libro ita dicens: Quarto autem anno CCII olympiadis, magna et excellens inter omnes, quae ante eam acciderant, defectio solis est facta: dies, hora sexta, ita in tenebrosam noctem versus, ut stellae in caelo visae sint: terraeque motus in Bithynia Nicenae urbis multas aedes subvertit. Haec supradictus vir. Argumentum autem huius rei quod Salvator isto anno passus sit, affert Evangelium Ioannis, in quo scribitur post XV annum Tiberii Caesaris tribus annis Dominum praedicasse.» EUSEBIUS CAESARIENSIS Chronicorum lib. 2, anno Christi 33, MG 19-535, 536. 14 Habuit quidem et prius (testamentum) iustificationes culturae et Sanctum saeculare. Tabernaculum enim factum est primum, in quo erant candelabra, et mensa, et propositio panum, quae dicitur Sancta. Post velamentum autem secundum, tabernaculum, quod dicitur Sancta sanctorum: aureum habens thuribulum, et arcam testamenti circumtectam ex omni parte auro, in qua urna aurea habens manna, et virga Aaron, quae fronduerat, et tabulae testamenti, superque eam erant Cherubin gloriae obumbrantia propitiatorium: de quibus non est modo dicendum per singula. His vero ita compositis: in priori quidem tabernaculo semper introibant sacerdotes, sacrificiorum officia consummantes: in secundo autem semel in anno solus pontifex non sine sanguine, quem offert pro sua et populi ignorantia: hoc significante Spiritu Sancto nondum propalatam esse sanctorum viam, adhuc priore tabernaculo habente statum. Hebr. IX, 1-8. 15 Hauriet quoque de sanguine vituli, inferens illum in tabernaculum testimonii. Cumque intinxerit digitum in sanguine, asperget eo septies coram Domino contra velum Sanctuarii. Levit. IV, 5, 6. 16 Et deprecabitur Aaron super cornua eius semel per annum... Sanctum sanctorum erit Domino. Exod. XXX, 10. - Loquere ad Aaron fratrem tuum, ne omni tempore ingrediatur Sanctuarium, quod est intra velum coram propitiatoria quo tegitur arca, ut non moriatur.... Offeret vitulum et rogans pro se e pro domo sua, immolabit eum: assumptoque thuribulo.... ultra velum intrabit in Sancta; ut positis super ignem aromatibus, nebula eorum et vapor operiat oraculum, quod est supra testimonium, et non moriatur. Tollet quoque de sanguine vituli, et asperget digito septies contra propitiatorium ad orientem. Levit. XVI, 2, 11, 12, 13, 14. 17 «Viam novam et viventem.... Novam, inquit. Contendit ostendere nos omnia habuisse maiora, siquidem nunc apertae sunt portae caelorum, quod nec Abrahami quidem tempore contigit. Et recte dicit, Viam novam et viventem: nam prima via erat mortis, ducens ad inferos, haec autem vitae. Et non dixit, Vitae, sed eam appellavit viventem, hoc est manentem. Per velamen, inquit, per carnem suam. Ipsa enim caro ei prima illam viam secuit, quam etiam initiasse dicit, quod et ipse dignaretur per illam ingredi. Velamen autem merito carnem vocavit: quando enim sublatus fuit in altum, tunc apparuerunt ea quae sunt in caelis.» S. IO. CHRYSOSTOMUS, In Epist. ad Hebraeos, hom. 19, n. 1. MG 63-139. 18 «(Vos, principes Iudaeorum Legisque doctores...), saltem quod in templo actum est, scienter advertite. Velum, cuius obiectu intercludebantur Sancta sanctorum, a summo usque ad ima diruptum est, et sacrum illud mysticumque secretum quo solus summus pontifex iussus fuerat intrare, reseratum est, ut nihil iam esset discretionis, ubi nihil resederat sanctitatis. Repudiatos itaque vos debuistis agnoscere, et omne ius sacerdotii perdidisse.» S. LEO MAGNUS, Sermo 61 (al. 59), De Passione Domini 10, cap. 5. ML 54-348, 349. 19 «Scisso autem velo, ostendit Deus, quod a templo divina avolasset gratia, quodque interiora, puta Sancta sanctorum, omnibus pervia ac conspicua constituenda essent: quod etiam postmodum ingradientibus Romanis factum est. - Quod autem mihi magis placet accipe. Quia interiora veli figura erant caeli, exteriora vero terram figurabant, scissum iam velum significavit divisum iam esse medium parietem inter caelum et terram - puta inimicitiam - qui inter Deum erat et homines; et factum esse caelum hominibus pervium, soluto iam per Christum obstaculo medio, talique nobis ascensu innovato.» EUTHYMIUS Zigabenus, Comment, in Matthaeum, cap. 67 (in Matt. XXVII, 51). MG 129-735. 20 «Anno eiusdem (Tiberii Caesaris) decimo septimo, cum Dominus Iesus Christus voluntarie quidem se tradidit Passioni, sed impie a Iudaeis apprehensus et patibulo suffixus est, maximo terraemotu per orbem facto, saxa in montibus scissa sunt maximarumque urbium plurimae partes plus solita concussione ceciderunt.» Paulus OROSIUS, Historiarum libri VII, lib. 7, cap. 4. ML 311068, 1069. 21 «Terrae motus saepe in terra exstiterunt; verum et qui ante et qui post Christum contigerunt, partem tantum aliquam terrae concusserunt; tempore autem Domini mei Iesu Christi, pars aliquam terrae mota non fuit, sed tota terra ab ipso centro conquassata est.» DIDYMUS, Fragmenta in Iob. (in Iob IX, 6). MG 35-1143. 22 «De solis autem defectione quae accidit sub Tiberio Caesare, quo imperante motibus queis tunc terra succussa est, Phlegontem opinor in tertio decimo vel decimo quarto Chronicorum libro iniecisse mentionem.» ORIGENS, Contra Celsum, lib. 2, n. 33. MG 11-854. - «Figmentum etiam esse putat (Celsus) terrae motum et tenebras. Sed a hoc iam pro viribus respondimus in superioribus, ubi diximus hos eventus a Phlegonte consignatos fuisse tempore quo passus Iesus fuit.» IDEM, ibid., n. 59, col. 890. «Scribit vero super is et Phlegon, qui olympiadum egregius supputator est, in tertio decimo libro ita dicens: «Quarto autem anno CCII olympiadis.... terrae motus in Bithynia Nicenae urbis multas aedes subvertit.» EUSEBIUS Caesariensis, Chronicorum lib. 2, anno Christi 33. 23 «Maximus terrae, memoria mortalium, exstitit motus, Tiberii Caesaris principatu, XII urbibus Asiae una nocte prostratis.» Caius PLINTUS Secundus (Senior), Historia naturalis, lib. 2, n. 86 (al. 84). «Ne provincias quidem (Tiberius) ulla liberalitate sublevavit; excepta Asia, disiectis terrae motu civitatibus.» C. SUETONIUS Tranquillus, Tiberius, n. 42. Bisogna avvertire che queste testimonianze di Plinio e di Svetonio diventano, la prima del tutto inefficace allo scopo, la seconda per lo meno dubbiamente efficace, essendo cosa evidente per Plinio, ed assai probabile per Svetonio, che questi autori non parlano di altro terremoto che di quello riferito da TACITO (Annalium lib. 2, n. 47): «Eodem anno, duodecim celebres Asiae urbes collapsae nocturno motu terrae.» Eodem anno, cioé nell' anno terzo di Tiberio Cesare, «C. Caelio (al. Caecilio) et L. Pompeio (al. Pomponio) Flacco consulibus». Non vengono però indebolite le testimonianze riferite nella nota 22, considerate le precisioni date da Flegonte, «Olympiadum egregius supputator», riferite da Eusebio, anch' egli «egregius temporum supputator». 24 «In cruce fixus homo est, Deus e cruce terruit orbem.» S. PAULINUS Nolanus, De obitu Celsi pueri panegyricus, v. 125. ML 61-768. 25 Christianus ADRICHOMIUS, Theatrum Terrae Sanctae, n. 252. - Vedi Appendice, 13. 26 «Non Hierosolymis tantum, sed et in plerisque aliis orbis terrarum partibus, scissos montes eodem terrae motu, incolae firma traditione testantur, nempe in Etruria montem Alverniae dictum, et prope littus Campanum Caietae promontorium.» Caesaar BARONIUS, Annales Ecclesiastici, an. Christi 34? n. 128. 27 «Lustravit interim (Franciscus) undique montem (Alvernae): vidensque magnas petrarum scissuras.... hiantesque ingentes lapides, suspensas immensas montis moles, quae primo aspectu terrebant, oravit Deum ut sibi revelare dignaretur an concussi montis haec fuerit commotio, an aliunde hae rupturae, vel naturales, vel monti coavae. Apparuit in oratione Angelus, qui in Passione Christi scissum hunc montem referret, unumque ex iis esse de quibus Evangelista, terrae commotionem in morte Creatoris referens, dixit: Et scissae sunt petrae. Maior deinde sancti Hominis devotio in montem hunc, quod etiam suo more senserit Christi mortem.... Neque aliquando ad has respiciebat scissiones, quin statim veniret in mentem Christi Passio, seque scindi, vulnerari et cruciari vellet, ut particeps fieret Crucifixi dolorum, quos sibi obiici videbat in lapide inanimato. Ita sane mirabili Dei providentia fieri decuit ut mons ille in Christi Passione scinderetur, in quo eadem Christi Passio et vulnera novissimis temporibus renovarentur.» WADDINGUS, Annales Minorum, anno 1215, n. 15. 28 S. AMBROSIUS, Expositio Evangelii secundum Lucam, lib. 10, n. 128 (in Luc. XXIII, 44-47). ML 15-1836. 29 «Monumentorum autem reseratio (Matt. XXVII, 52) quid aliud, nisi, claustris mortis effractis, resurrectionem significat mortuorum? Quorum in aspectu fides, in processu typus, quod in sanctam prodeundo civitatem, praesentium specie declarabant in illa Hierusalem quae in caelo est, futurum perenne diversorium resurgentium?» IDEM, ibid. 30 «Et multa corpora sanctorum, etc. (Matt. XXVII, 53). Quomodo Lazarus mortuus resurrexit , sic et multa corpora sanctorum resurrexerunt, ut Dominum ostenderent resurgentem. Et tamen cum monumenta aperta sint, non antea resurrexerunt quam Dom nus resurgeret, ut esset primogenitus resurrectionis ex mortuis.» S. HIERONYMUS, Commentar, in Evang. Matthaei, lib. 4, (in Matt. XXVII, 53). ML 26-213. « Et multa corpora sanctorum, etc. Sanctorum corpora surrexerunt, ut Dominum ostenderent resurgentem; et tantum (lege: tamen) cum monumenta aperta sunt, non ante surrexerunt quam Dominus, ut esset primogenitus ex mortuis.» S. BEDA Venerabilis, In Matthaei Evangelicum expositio, lib. 4 (in Matt. XXVII, 52, 53). ML 92-125. «Et exeuntes de monumentis post resurrectionem eius, etc. Et notandum quod licet istud dictum sit in morte Christi, tamen intelligendum est per anticipationem esse dictum, quia post resurrectionem actum est; quia Christus primogenitus mortuorum (Apoc. I, 5).» S. THOMAS, In Matthaeum Evangelistam expositio, cap. XXVII, 53. 31 Vedi la nota precedente. 32 Viene probabilmente citato un' altra volta quel trattato «De Passione Domini» che già abbiam detto non ritrovarsi tra le Opere, anche non genuine, di quel Santo Padre, almeno nelle edizioni da noi riscontrate. - Però nel trattato De duplici martyrio, ad Fortunatum, (incerti auctoris, certe recentioris, inter Opera supposititia S. Cypriani) VI, ML 4-885, si legge: «Erat et illud praeter naturae cursum quod e latere exanimati corporis sanguis et aqua profluit.... Quidquid erat humoris aquei reliquum, expressit....: quidquid resederat in corde sanguinis, emisit.» - Anche da altri viene citato, come di S. Cipriano, un trattato de Passione: per esempio, dal Siniscalchi, Il martirio del Cuore di Maria Addolorata, Considerazione 29. 33 «In corde punctus erat tam amare et immisericorditer, quod pungens non destitit donec lancea attigit costam et ambae partes cordis essent in lancea.» Revelationes S. BIRGITTAE, lib. 2, cap. 21: Verba Virginis gloriosae. 34 «Vigilanti verbo Evangelista usus est, ut non diceret: Latus eius percussit, aut vulneravit, aut quid aliud; sed aperuit: ut illic quodammodo vitae ostium panderetur, unde sacramenta Ecclesiae manaverunt, sine quibus ad vitam, quae vera vita est, non intratur.» S. AUGUSTINUS, In Ioannis Evangelium, tractatus 120, n. 2 (in Io. XIX, 34). ML 35-1953. 35 «Propterea vulneratum est ut per vulnus visibile vulnus amoris invisibile videamus. Quomodo hic ardor melius ostendi potest, nisi quod non solum corpus, verum etiam ipsum cor lancea vulnerari permisit? Carnale ergo vulnus vulnus spirituale ostendit.» Vitis mystica, seu Tractatus de Passione Domini, cap. 3, n. 10: inter Opera S. Bernardi, ML 184-643: tra quelle opere però che l' illustre editore Mabillon non riconosce come genuine. - Invece, gli ultimi editori di S. Bonaventura rivendicano questa opera per il Dottore Serafico. Così leggono il testo citato: «Propterea vulneratum est, ut per vulnus visibile vulnus amoris invisibile videamus. Qui enim ardenter amat, amore vulneratus est. Quomodi hic ardor melius posset ostendi, nisi quod non solum corpus, verum etiam ipsum cor lancea vulnerari permisist? Carnale ergo vulnus vulnus spirituale ostendit.» Vitis mystica, cap. 3, n. 5. Opera S. BONAVENTURAE, VIII, ad Claras Aquas, 1898. - La nota di S. Alfonso deve leggersi: Cap. 3 de Passione. - Vedi Appendice, 2, 9°. 36 Idem opus. Inter Opera S. Bernardi, cap. 3, n. 11: ML 184-643. Opera S. BONAVENTURAE, cap. 3, n. 6. - Vedi Appendice, 2, 9°. 37 Nota di S. Alfonso: In Ps. 85. Ora ivi si legge soltanto questo: «Orat pro nobis ut sacerdos noster.» S. AUGUSTINUS, Enarratio in Ps. 85, n. 1: ML 37-1081. - Se le parole riferite siano di S. Agostino in altro luogo, non lo sappiamo. Però, è sentenza del Santo Dottore e domma della Chiesa, che il sacrificio di Cristo, il quale solo fu efficace per cancellare i peccati e procurar la nostra salute, si rinnova e celebra perpetuamente ed efficacemente nella Chiesa. Scegliamo, tra molti, alcuni testi: «Omnia (sacrificia pro peccatis) figurae fuerunt carnis Christi, quod est verum et unicum sacrificium pro peccatis, non solum his quae universa in baptismate diluunur, verum etiam his quae postea huius vitae infirmitate subrepunt; propter quae quotidie universa in oratione ad Deum clamat Ecclesia: Dimitte nobis debita nostra; et dimittuntur nobis per singulare sacrificium pro peccatis.» Contra duas epistolas Pelagianorum, lib. 3, cap. 6, n. 16. ML 44-600. - «Verus ille Mediator.... in forma servi sacarificium maluit esse quam sumere.... Per hoc et sacerdos est, ipse offerens, ipse et oblatio. Cuius rei sacramentum quotidianum esse voluit Ecclesiae sacrificium.» De civitate Dei, lib. 10, cap. 20. ML 41-298. - «Non sitis viles vobis, quos cunctorum Creator et vester tam caros aestimat, ut vobis quotidie Unigeniti sui pretiosissimum sanguinem fundat.» Sermo 216, Ad competentes, cap. 3. ML 38-1078. - «Quid, de ipso corpore et sanguine Domini, unico sacrificio pro salute nostra....? « Contra Cresconium, lib. 1, cap. 25, n. 30. ML 43-462. - Quanto al nesso tra il perpetuo sacrificio Eucaristico, che si celebra nella Chiesa, e l' effusione del sangue e dell' acqua dal lato aperto, vien dichiarato da S. Agostino nel celebre passo del Trattato 120, n. 2, in Ioannem, ML 35-1953: «Vigilanti verbo Evangelista usus est.... aperuit: ut illic quodammodo vitae ostium panderetur, unde Sacramenta Ecclesiae manaverunt, sine quibus ad vitam.... non intratur. Ille sanguis in remissionem fusus est peccatorum, aqua illa salutare temperat poculum; haec et lavacrum praestat et potum.» 38 Id enim quod in praesenti est momentaneum et leve tribulationis nostrae, supra modum in sublimitate aeternum gloriae pondus operatur in nobis. II Cor. IV, 17. CAPO VII - Dell'amore a noi dimostrato da Gesù Cristo nella sua Passione 1. S. Francesco di Sales chiama il monte Calvario il monte degli amanti, e dice che l'amore che non nasce dalla Passione è debole;1 volendo con ciò farc'intendere che la Passione di Gesù Cristo è l'incentivo più forte che dee muoverci ed infiammarci ad amare il nostro Salvatore. Per poter noi comprendere qualche parte - perché tutto e impossibile - del grande amore che Iddio ci ha dimostrato nella Passione di Gesù Cristo, basta dare un'occhiata a quel che ne dicono le divine Scritture, delle quali esporrò qui le più principali che parlano di quest'amore. Né in ciò alcuno abbia in fastidio ch'io qui ripeta quei testi che, parlando della Passione in altre mie Operette, ho ripetuti più volte. Certi scrittori di libri perniciosi che trattano di laidezze, spesso ripetono le loro impudiche facezie per maggiormente accendere la concupiscenza de' loro incauti lettori; e non sarà poi a me permesso il ripeter quelle Scritture sante, che più infiammano l'anime del divino amore? 2. Parlando di quest'amore Gesù medesimo disse: Sic... Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16). La parola sic molto significa: ella ci fa intendere che Iddio, avendoci dato il suo unigenito Figlio, ci ha dimostrato un amore che noi non potremo mai giungere a comprenderlo. Per causa del peccato noi tutti eravamo morti, avendo perduta la vita della grazia; ma l'Eterno Padre, per far nota al mondo la sua bontà e far sapere a noi quanto ci amava, ha voluto mandare in terra il suo Figlio, acciocch'egli colla sua morte ci restituisse la vita perduta: In hoc apparuit caritas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum (I Io. IV, 9). Dunque per perdonare a noi, Iddio non ha voluto perdonare al suo medesimo Figlio, volendo ch'egli si assumesse il peso di soddisfare la divina giustizia per tutte le nostre colpe: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum (Rom. VIII, 32). Si dice tradidit, mentre lo diè in mano de' carnefici che aveano a caricarlo d'ignominie e di dolori, sino a farlo morir di dolore in un patibolo di obbrobrio. Sicché prima lo caricò di tutti i nostri peccati: Et posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum (Is. LIII, 6), e poi volle vederlo consumato dagli strazi e dalle afflizioni più acerbe esterne ed interne: Propter scelus populi mei percussi eum... Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate (Ibid. vers. 8 et 10). 3. S. Paolo, considerando questo amore di Dio, giunse a dire: Propter nimiam caritatem suam qua dilexit nos, et cum essemus mortui peccatis convivificavit nos in Christo (Ephes. II, 4 et 5). Disse l'Apostolo: Propter nimiam caritatem: per lo troppo amore con cui Gi ha amati. Come! in Dio può darsi eccesso? Sì; disse per lo troppo amore, per farc'intendere che Iddio per l'uomo ha fatte cose, che, se la fede non ce ne accertasse, chi mai potrebbe crederle? E perciò la S. Chiesa esclama per lo stupore: O mira circa nos tuae pietatis dignatio! o inaestimabilis dilectio caritatis! ut servum redimeres filium tradidisti! (Lect. in sab. s. Exultet etc.). Si noti quella espressione della Chiesa, dilectio caritatis, amore dell'amore, viene a dire amore a Dio più caro di tutti gli amori portati alle altre creature. Essendo Iddio la stessa carità, lo stesso amore - come scrive S. Giovanni: Deus caritas est (I Io. IV, 8) - egli ama tutte le sue creature: Diligis enim omnia quae sunt, et nihil odisti eorum quae fecisti (Sap. XI, 25); ma l'amore che porta all'uomo par che gli sia più caro e diletto, sembrando di aver preferito l'uomo nell'amore anche agli angeli, giacché ha voluto morire per gli uomini e non per gli angeli perduti. 4. Parlando poi dell'amore che il Figliuolo di Dio serba verso dell'uomo, sappiamo che vedendo egli da una parte l'uomo perduto per lo peccato e dall'altra la divina giustizia che richiedea l'intiera soddisfazione per l'offesa dall'uomo ricevuta, che non era atto a dare questa piena soddisfazione, si offerì spontaneamente a soddisfare per l'uomo: Oblatus est quia ipse voluit (Is. LIII, 7). E qual umile agnello si sottopose ai manigoldi permettendo loro che gli lacerassero le carni e lo conducessero alla morte, senza lamentarsi né aprir la bocca, siccome stava predetto: Sicut ovis ad occisionem ducetur, et quasi agnus coram tondente se obmutescet et non aperiet os suum (Is. ibid.). Scrive S. Paolo che Gesù Cristo per ubbidire al Padre accettò la morte di croce: Factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Ma non si pensi che il Redentore di poca sua voglia e solo per ubbidire al Padre volle morir crocifisso; egli spontaneamente, come abbiamo detto, si offerì a questa morte e, per sua propria volontà, volle morire per l'uomo, spinto dall'amore che gli portava, come lo dichiarò esso stesso per S. Giovanni: Ego pono animam meam... Nemo tollit eam a me, sed ego pono eam a meipso (Io. X, 17, 18). E disse che questo era l'officio di un buon pastore, il dar la vita per le sue pecorelle: Ego sum pastor bonus, bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis (Io. X, 11). E perché volle morire per le sue pecorelle? Qual obbligo avea, come pastore, di dar la vita per le sue pecorelle? Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. V, 2): Volle morire per l'amore che loro portava, e così liberarle dalla potestà di Lucifero. 5. Ciò ben lo dichiaro l'amante nostro Redentore quando disse: Et ego si exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum (Io. XII, 32). E con quelle parole, si exaltatus fuero a terra, volle già dinotare la morte che avea da fare sulla croce, come soggiunse lo stesso Vangelista: Hoc autem dicebat significans qua morte esset moriturus (Ibid. vers. 33). Commenta poi S. Gio. Grisostomo le parole riferite, omnia traham ad meipsum, e dice: Quasi a tyranno detenta.2 Dice che il Signore colla voce traham volle farc'intendere ch'egli colla sua morte ci avrebbe quasi strappati a forza dalle mani di Lucifero, che da tiranno ci teneva incatenati come suoi schiavi, per tormentarci poi dopo la nostra morte per sempre nell'inferno. Miseri noi, se Gesù Cristo per noi non fosse morto! Tutti dovremmo esser confinati all'inferno. È un gran motivo per noi di amar Gesù Cristo, dico per noi che ci abbiamo meritato l'inferno, il pensare ch'egli colla sua morte da quest'inferno ci ha liberati collo sborso del suo sangue. 6. Diamo dunque di passaggio qui un'occhiata alle pene dell'inferno, ove al presente già vi sono tanti infelici che le stanno soffrendo. Miseri! Ivi si trovano immersi in un mare di fuoco, dove patiscono una continua agonia, mentre in questo fuoco provano ogni sorta di dolori. Ivi son dati in mano de' demoni, che pieni di furore non attendono ad altro che a tormentare quei poveri condannati. Ivi più che dal fuoco e da tutti gli altri cruci son tormentati dal rimorso della coscienza per la memoria dei peccati fatti in vita, che sono stati la causa della loro dannazione. Ivi mirano chiusa per sempre ogni via di poter uscir da quella fossa di tormenti. Ivi si vedono banditi per sempre dalla compagnia de' santi e dalla patria del cielo, per cui erano stati creati. Ma quello che più gli affligge e fa il loro inferno è il vedersi abbandonati da Dio e condannati a non poterlo più amare né mirare se non con odio e rabbia. Da quest'inferno ci ha liberati Gesù Cristo redimendoci non con oro o altri beni terreni, come dice S. Lorenzo Giustiniani, ma con dare il suo sangue e la vita sulla croce: Non dedit pro te, scrive S. Lorenzo, aurum, non praedia, sed proprium sanguinem, moriendo in patibulo crucis (De contemptu mundi, cap. 7).3 I re della terra mandano i loro vassalli a morir nelle guerre per conservar la propria salute; Gesù Cristo volle esso morire per ottener la salute a noi sue creature. 7. Ed eccolo perciò presentato dagli scribi e sacerdoti a Pilato qual malfattore, per farlo da Pilato giudicare e condannare alla morte di croce; come già poi ne conseguirono l'intento con vederlo condannato e morto crocifisso. -Oh maraviglia, esclama S. Agostino, vedere il giudice giudicato! veder la giustizia condannata! veder la vita morire! Ut iudex iudicaretur, iustitia damnaretur, vita moreretur (S. Aug. Serm. de nat. Dom.).4 E tutti questi prodigi di qual causa furono effetti, se non dell'amore che Gesù Cristo portava agli uomini? Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. V, 2). Oh ci fosse sempre davanti gli occhi questo testo di S. Paolo! che certamente ci uscirebbe dal cuore ogni affetto ai beni di questa terra e non penseremmo ad altro che ad amare il nostro Redentore, pensando che l'amore lo ridusse a spargere tutto il sangue per farne a noi un bagno di salute: Qui dilexit nos, et lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo (Apoc. I, 5). E dice S. Bernardino da Siena che Gesù Cristo dalla croce guardò particolarmente ogni particolar peccato di ognuno di noi: Ad quamlibet singularem culpam habuit aspectum;5 e per ciascun nostro peccato offerì il suo sangue. In somma l'amore lo ridusse da signore di tutti a comparire in questa terra il più vile, il più basso di tutti. O amoris vim, scrive S. Bernardo, itane summus omnium imus factus est omnium! E poi conclude: Quis hoc fecit? amor dignitatis nescius, affectu potens... Triumphat de Deo amor:6 Chi ha fatto ciò? l'ha fatto l'amore, che per farsi conoscere all'oggetto amato fa che l'amante metta da parte la sua dignità, e badi solo a fare quel che giova e piace all'amato: quindi dice S. Bernardo che Dio, il quale da niuno può esser vinto, si fé vincere dall'amore che portava all'uomo. 8. In oltre bisogna riflettere che quanto ha patito Gesù Cristo nella sua Passione l'ha patito per ciascuno di noi in particolare, e perciò disse S. Paolo: In fide vivo Filii Dei qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (Gal. II, 20). E quel che disse l'Apostolo dee dirlo ognuno di noi. Quindi scrisse S. Agostino che l'uomo fu redento con tanto prezzo che sembra valere quanto vale Dio: Tam pretioso munere redemptio agitur, ut homo Deum valere videatur (S. Aug. De dilig. Deo).7 Anzi più aggiunge il santo e dice: Signore, voi mi avete amato non come voi stesso, ma più di voi stesso; mentre per liberare me dalla morte, voi avete voluto morire per me: Dilexisti me plus quam te, Domine, quia voluisti mori pro me (S. Aug. Soliloq. cap. 13).8 9. Ma perché, potendo Gesù Cristo salvarci con una sola goccia di sangue, ha voluto spargerlo tutto a forza di tormenti sino a spirar di puro dolore su d'una croce? Sì, dice S. Bernardo: Quod potuit gutta voluit unda;9 volle spargerlo tutto per dimostrarci l'amore eccessivo che ci portava. Dico eccessivo, perché appunto i santi Mosè ed Elia nel monte Taborre chiamaron la Passione del Redentore un eccesso, eccesso di misericordia e di amore: Et dicebant excessum eius quem completurus erat in Ierusalem (Luc. IX, 31). Parlando S. Anselmo della Passione del Signore, dice che la misericordia sopravanzò il debito de' nostri peccati: Misericordiam debitum transcendentem reperimus (Lib. Cur Deus etc.);10 poiché il valore della morte di Gesù Cristo, essendo infinito, superò infinitamente la soddisfazione dovuta da noi alla divina giustizia per le nostre colpe. Avea ragione dunque di dire l'Apostolo: Mihi autem absit gloriari, nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi (Gal. VI, 14). E questo che dicea S. Paolo, anche può dirlo ognuno di noi; onde ben possiamo dire: E qual gloria maggiore poteva io nel mondo avere o sperare, che vedere un Dio morto per amor mio! 10. Eterno mio Dio, io vi ho disonorato co' miei peccati; ma Gesù colla sua morte, soddisfacendo per me, vi ha soprabbondantemente restituito l'onore; per amore dunque di Gesù morto per me, abbiate di me pietà. E voi, mio Redentore, che avete voluto per me morire affin d'obbligarmi ad amarvi, fate ch'io v'ami. Io per aver disprezzata la vostra grazia e 'l vostro amore, meriterei d'esser condannato a non potervi più amare; ma no, Gesù mio, datemi ogni gastigo, e non questo. E perciò vi prego, non mi mandate all'inferno, perché nell'inferno non vi posso amare. Fate ch'io v'ami e poi castigatemi come volete. Privatemi di tutto, ma non di voi. Accetto ogni infermità, tutte le ignominie, tutti i dolori che volete farmi soffrire, mi basta che v'ami. Ora conosco per la luce che mi date, che troppo amabile voi siete e troppo mi avete amato; non mi fido più di vivere senz'amarvi. Per lo passato ho amato le creature ed ho voltato le spalle a voi, bene infinito: ma ora vi dico che voi solo voglio amare e niente più. Deh amato mio Salvatore, se vedete che in avvenire io avessi da lasciarvi d'amare, vi prego a farmi ora morire; ed anche mi contento esser distrutto prima che abbia a vedermi separato da voi. O Vergine santa, o Madre di Dio Maria, aiutatemi colle vostre preghiere, ottenetemi ch'io non lasci più di amare Gesù mio, morto per me, e voi, regina mia, che tante misericordie m'avete impetrate sinora. ______________________ 1 «Théotime, le mont Calvaire est le mont des amants. Tout amour qui ne prend son origine de la Passion du Sauver est frivole et périlleux.» S. FRANCOIS DE SALES, Traité de l' amour de Dieu, liv. 12, ch. 13. 2 «Omnes traham ad meipsum.... Traham, inquit, quasi a tyranno detentos, qui non possint per se accedere, et eius, utpote obsistentis, manus effugere.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Ioannem, hom. 67 (al. 66), n. 3. MG 59-373. 3 «Non enim pro te dedit aurum, non gemmas, non praedia, non mundum, neque caelum, sed proprium cruorem, in crucis moriendo patibulo.» S. LAURENTIUS IUSTINIANUS, De contemptu mundi, cap. 7. Opera, Lugduni, 1628, pag. 509. 4 «Homo factus, hominis Factor: ut surgeret ubrea, regens sidera; ut esuriret Panis, ut sitiret Fons, dormiret Lux, ab itinere Via fatigaretur, falsis testibus Veritas accusaretur, Iudex vivorum et mortuorum a iudice mortali iudicaretur, ab iniustis Iustitia damnaretur, flagellis Disciplina caederetur, spinis Botrus coronaretur, in ligno Fundamentum suspenderetur, Virtus infirmaretur, Salus vulneraretur, Vita moreretur.» S. AUGUSTINUS, Sermo 191 (in Natali Domini, 8), cap. 1, n. 1. ML 38-1010. 5 «Ad quamlibet quidem singularem culpam, seu iniuriam, seu contumeliam Summi Patris, habuit singularem adspectum.» S. BERNARDINUS SENENSIS, Quadragesimale de Evangelio aeterno, sermo 56, in Parasceve, de Passione Domini, art. 1, cap. 1. Opera, II, Venetiis, 1745. 6 «O suavitatem! o gratiam! o amoris vim! Summus omnium imus factus est omnium. Quis hoc fecit? Amor, dignitatis nescius, dignatione dives, affectu potens, suasu efficax. Quid violentius? Triumphat de Deo amor.» Tractatus de caritate, cap. 6, n. 29. ML 184-599, inter Opera S. Bernardi. - L' autore, o meglio compilatore, di questo Trattato non è S. Bernardo; ma i capitoli 5-9 altro non sono che un tessuto di testi di S. Bernardo, principalmente dei suoi Commentari sulla Cantica. Il testo di S. Bernardo è questo: «O suavitatem! o gratiam! o amoris vim! Itane summus omnium unus factus est omnium? Quis hoc fecit? Amor, dignitatis nescius, dignatione dives, affectu potens, suasu efficax. Quid violentius? Triumphat de Deo amor. Quid tamen tam non violentum? Amor est.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 64, n. 10. ML 183-1088. - Parla ivi S. Bernardo della familiarità del divino Sposo, il quale, invece di dire: Capite mihi, dice: Capite nobis vulpes parvulas (Cant. II, 15), considerandosi come uno di noi. S. Alfonso sembra abbia preso il testo dai Sermoni sulla Cantica, giacché restituisce Itane, soppresso dal compilatore. Però, conoscendo i due testi, gli piacque quella sostituzione di imus a unus, facendo meglio per l' intento suo, ed accordandosi col pensiero di S. Bernardo, quando parla altrove delle umiliazioni ed obbrobri di Gesù Cristo. 7 «Tam copioso munere ipsa redemptio agitur, ut homo Deum valere videatur.» Liber de diligendo Deo, cap. 6. ML 40-853, inter Opera S. Augustini. Questo libro non è di s. Agostino: il compilatore, pio e non poco erudito, sembra che sia Alcherio, Monaco di Cistercio. 8 «Dilexisti me plus quam te, quia mori voluisti pro me.» Soliloquia animae ad Deum, cap. 13. ML 40-874, inter Opera S. Augustini. Anche questa operetta, cavata da S. Agostino e da altri, par che sia di Alcherio, citato nella nota precedente. 9 Vedi Appendice, 14. 10 «Misericordiam vero Dei, quae tibi perire videbatur cum iustitiam Dei et peccatum hominis considerabamus, tam magnam tamque concordem iustitiae invenimus, ut nec maior nec iustior cogitari possit. Nempe quid misericordius intelligi valet, quam cum peccatori tormentis aeternis damnato, et unde se redimat non habenti, Deus Pater dicit: Accipe Unigenitum meum, et da pro te; et ipse Filius: Tolle me, et redime te?... Quid etiam iustius quam ut ille cui datur pretium maius omni debito, si debito datur affectu, dimittat omne debitum? « S. ANSELMUS, Cur Deus homo, lib. 2, cap. 21. ML 158-430. CAPO VIII - Della gratitudine che dobbiamo a Gesù Cristo per la sua Passione 1. Dice S. Agostino che essendo stato Gesù Cristo il primo a dar la vita per noi, egli ci ha obbligati a dar la vita per lui: Debitores nos fecit qui primus exhibuit (S. Aug. Tr. 46. in Io.). Onde poi scrive il santo: Mensa quae sit, nostis, ubi est corpus et sanguis Christi; qui accedit talem mensam praeparet.1 E vuol dire che quando noi andiamo alla mensa eucaristica per comunicarci, andando noi a cibarci ivi del corpo e sangue di Gesù Cristo, noi parimente per gratitudine dobbiamo preparargli l'offerta del nostro sangue e della nostra vita, se bisognasse dar l'uno e l'altra per la sua gloria. Troppo tenere son le parole di S. Francesco di Sales su quel testo di S. Paolo: Caritas enim Christi urget nos (II Cor. V, 14): L'amore di Gesù Cristo ci forza: a che ci forza? ci forza ad amarlo. Ma udiamo quel che dice S. Francesco: «Il saper noi, che Gesù ci ha amati sino alla morte e morte di croce, non è questo un sentire i nostri cuori stringere per una violenza che tanto è più forte, quanto è più amabile?»2 E poi soggiunge:»Il mio Gesù si dà tutto a me, ed io mi do tutto a lui; io viverò e morirò sopra il suo petto, né la morte né la vita da lui mai mi separeranno».3 2. S. Pietro, affinché noi ci ricordiamo di esser grati al nostro Salvatore, ci ricorda che non con oro o argento siamo stati riscattati dalla schiavitù dell'inferno, ma col sangue prezioso di Gesù Cristo, il quale si sacrificò per noi come un agnello innocente sull'altare della croce: Scientes quod non corruptibilibus auro vel argento redempti estis... sed pretioso sanguine quasi agni immaculati Christi (I Petr. I, 18 et 19). Grande pertanto sarà il castigo degl'ingrati a tanto beneficio, se non corrispondono. È vero che Gesù venne a salvar tutti gli uomini che stavano perduti: Venit enim filius hominis quaerere et salvum facere quod perierat (Luc. XIX, 10); ma è vero ancora quel che disse il santo vecchio Simeone, allorché da Maria fu presentato Gesù bambino nel tempio: Ecce positus est hic in ruinam et in resurrectionem multorum in Israel; et in signum cui contradicetur (Luc. II, 34). Con quelle parole, in resurrectionem multorum, dinotò la salute che dovean ricevere da Gesù Cristo tutti i credenti, i quali per la fede avean da risorgere dalla morte alla vita della grazia. Ma prima colle parole, positus est hic in ruinam, predisse che molti doveano cadere in maggior ruina per la loro ingratitudine al Figlio di Dio, ch'era venuto in terra a rendersi il bersaglio de' suoi nemici, come spiegano le parole seguenti, et in signum cui contradicetur; il che avvenne appunto in Gesù Cristo posto come il segno, a cui miravano tutte le calunnie, ingiurie e strazi che gli tramarono i Giudei. Questo segno poi- ch'è Gesù Cristo - non è contraddetto solo da' Giudei presenti che lo negano per Messia, ma anche da' Cristiani che ingrati contraccambiano il di lui amore con offese e disprezzi de' suoi precetti. 3. Il nostro Redentore, dice S. Paolo, è giunto sino a dar la vita per noi, affin di rendersi assoluto signore di tutti i nostri cuori per mezzo del suo amore dimostratoci col morire per noi: In hoc enim Christus mortuus est et resurrexit, ut et mortuorum et vivorum dominetur (Rom. XIV, 9). No, scrive l'Apostolo, noi non siamo più nostri dopo essere stati ricomprati col sangue di Gesù Cristo: Sive ergo vivimus, sive morimur, Domini sumus (Ibid., vers. 8). Onde, se non l'amiamo e non osserviamo i suoi precetti, tra' quali il primo è di amarlo, non solo siamo ingrati, ma ingiusti e meritiamo doppio gastigo. L'obbligo d'uno schiavo riscattato da Gesù Cristo dalle mani del demonio è d'impiegarsi tutto in amarlo e servirlo, o vivo o morto che sia. S. Gio. Grisostomo sul citato luogo di S. Paolo fa una bella riflessione, e dice che Iddio ha più pensiero di noi che noi non abbiamo di noi stessi, e perciò reputa come sua ricchezza la nostra vita e qual suo danno la nostra morte; onde se noi muoiamo, non solo a noi, ma anche a Dio muoiamo. Ecco le belle parole del santo: Maiorem nostri habet curam Deus, quam nos ipsi, et quod vitam nostram divitias suas et mortem damnum aestimat; non enim nobis ipsis tantum morimur, sed si morimur, Domino morimur.4 Oh qual gloria è la nostra, mentre viviamo in questa valle di lagrime in mezzo a tanti nemici e tanti pericoli di perderci, il poter dire: Domini sumus, siamo di Gesù Cristo; e se siamo cosa sua, egli avrà cura di conservarci in sua grazia in questa vita, e di tenerci seco in eterno nella vita futura. 4. Gesù Cristo dunque è morto per ciascuno di noi, acciocché ciascuno di noi viva solo a quel suo Redentore, ché morto per di lui amore: Et pro omnibus mortuus est Christus, ut et qui vivunt iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est et resurrexit (II Cor. V, 15). Chi vive a se stesso, a sé dirige tutti i suoi desideri, timori, dolori, e mette in sé la sua felicità. Ma di chi vive a Gesù Cristo, tutti i suoi desideri non sono che di amarlo e dargli gusto; tutte le sue gioie sono in compiacerlo, e tutti i suoi timori non sono che di disgustarlo. Non si affligge che in vedere il suo Gesù disprezzato, e non gode che in vederlo dagli altri amato. Questo è vivere a Gesù Cristo e questo egli giustamente pretende da ognuno di noi. A questo effetto egli ha procurato di guadagnarsi con tante pene da lui sofferte tutto il nostro amore. 5. Forse pretende troppo? No, dice S. Gregorio: troppo giustamente lo pretende, dopo che ci ha dati tali segni del suo amore che sembra essere impazzito per nostro amore: Stultum visum est, scrive S. Gregorio (Hom. VI), ut pro ho minibus auctor vitae moreretur.5 Egli senza riserba si è dato tutto a noi: ha ragion di pretendere che noi ci diamo tutti a lui, ed a lui applichiamo tutto il nostro amore; e se gliene togliamo parte, con amare altra cosa fuori di lui o non per lui, ha ragione di lamentarsi di noi. Minus te amat, scrive S. Agostino, qui tecum aliquid amat quod non propter te amat.6 6. E che altro possiamo noi amare fuori di Gesù Cristo, che le creature? ed a fronte di Gesù Cristo, che altro sono le creature che vermi di terra, fango, fumo e vanità? A S. Clemente papa fu offerto dal tiranno un mucchio di argento, di oro e di gemme, purché avesse rinunziato a Gesù Cristo; allora il santo gittò un sospiro e poi esclamò: «Ah Gesù mio, bene infinito, come sopporti di venire stimato dagli uomini meno del loto della terra?»7 No, dice S. Bernardo, che ne' martiri non già la temerità o la mancanza di mente li faceva andare incontro agli eculei, alle lamine infocate ed alle morti più crudeli, ma l'amore a Gesù Cristo, vedendolo morto in croce per loro amore: Neque hoc facit stupor, sed amor (S. Bern. Serm. LXII, in Cant.).8 Vaglia per tutti l'esempio di S. Marco e S. Marcelliano, che stando inchiodati colle mani e coi piedi, erano rimproverati dal tiranno come stolti in voler patire un tormento sì crudo per non rinnegar Gesù Cristo; ma essi risposero che non aveano mai provate delizie più grandi di quelle che allora gustavano nello stare trafitti da quei chiodi: Numquam tam iucunde epulati sumus, quam cum hic fixi esse coepimus.9 E tutti i santi per dar gusto a Gesù Cristo, così straziato e disprezzato per noi, con allegrezza abbracciarono la povertà, le persecuzioni, i disprezzi, le infermità, i dolori e la morte. Le anime sposate a Gesù Cristo sulla croce, non hanno cosa per loro più gloriosa che aver seco le insegne del Crocifisso quali sono i patimenti. 7. Udiamo quel che dice S. Agostino: Vobis parum amare non licet: totus vobis fixus sit in corde qui pro vobis fixus est in cruce (S. Aug. De s. virginit. c. 55).10 A noi che crediamo per fede un Dio morto in croce per nostro amore, non è lecito amarlo poco; non deve esserci fisso nel cuore altro amore, se non quello che dobbiamo a colui il quale per nostro amore ha voluto morire trafitto in croce. Uniamoci dunque tutti con S. Paolo e con esso diciamo: Christo confixus sum cruci. Vivo autem iam non ego, vivit vero in me Christus... qui dilexit me et tradidit semetipsum pro me (Gal. II, 19 et 20). Commentando S. Bernardo queste parole: Vivo autem iam non ego, vivit vero in me Christus, soggiunge S. Bernardo: Ac si diceret: Ad alia quidem omnia mortuus sum, non sentio, non attendo; si quae vero sunt Christi, haec vivum me inveniunt et paratum (S. Bern. Serm. 7 in quadrag.).11 Io, dicea l'Apostolo - e così dee dire ognuno che ama il Crocifisso - ho lasciato di vivere a me stesso dopo che Gesù Cristo ha voluto morire per me, prendendo sopra di sé quella morte che a me toccava; e perciò io son morto a tutte le cose del mondo; quelle che non sono per Gesù Cristo, io, come fossi morto, non le sento né vi attendo; ma quelle poi che riguardano il suo gusto e la sua gloria, elle mi trovano vivo ed apparecchiato ad abbracciarle, siano sudori, disprezzi, dolori ed anche la morte. Quindi dicea S. Paolo: Mihi... vivere Christus est (Philip. I, 21); volendo dire con queste brevi parole: Gesù Cristo è il mio vivere, mentr'egli è tutto il mio pensiero, tutto il mio intento, tutta la mia speranza, tutto il mio desiderio, perché egli è tutto il mio amore. 8. Fidelis sermo: nam si commortui sumus et convivemus: si sustinebimus et conregnabimus: si negaverimus et ille negabit nos (II Tim. II, 11, 12). È certa la promessa: se noi muoiamo con Cristo, || viveremo eternamente con Cristo: |12 se soffriremo con pazienza i patimenti con Cristo, regneremo con Cristo. I re della terra dopo la vittoria de' nemici fan parte dei beni acquistati a coloro che seco han combattuto; così farà Gesù Cristo nel giorno del giudizio: farà parte dei beni celesti a tutti coloro che han faticato e patito per la sua gloria. -Dice l'Apostolo: Si commortui sumus et convivemus. Il morire con Cristo importa il negare noi stessi, cioè negare a noi quelle soddisfazioni che se non ce le neghiamo, veniamo a negar Gesù Cristo, il quale giustamente poi nel giorno de' conti negherà noi, et ille negabit nos, cioè ci rifiuterà per suoi. E qui bisogna intendere che non solo neghiamo Gesù Cristo, quando neghiamo la fede, ma ancora quando neghiamo di ubbidirlo in quel che vuole da noi, come nel rimetter per amor suo al prossimo qualche affronto ricevuto; in cedere a quel punto di vano onore; in rompere quell'amicizia che ci mette a pericolo di perder l'amicizia di Gesù Cristo; e in disprezzare quel timore di esser tenuti per ingrati: giacché la prima gratitudine la dobbiamo a Gesù Cristo, che ha dato il sangue e la vita per noi, cosa che niuna creatura per noi l'ha fatta. O amore divino, e come puoi esser così disprezzato dagli uomini! O uomini, mirate su quella croce il Figlio di Dio che quale agnello innocente si sta sagrificando colla morte per pagare i vostri peccati e cosi guadagnarsi il vostro amore. Guardatelo, guardatelo ed amatelo. Gesù mio, o amabile infinito, non mi fate più vivere ingrato a tanta bontà. Per lo passato io son vivuto scordato del vostro amore e di quanto avete patito per me: ma da ogg'innanzi non voglio pensare ad altro che ad amarvi. O piaghe di Gesù, impiagatemi di amore; o sangue di Gesù inebbriatemi di amore; o morte di Gesù, fatemi morire ad ogni amore che non è amor di Gesù. V'amo, Gesù mio, sovra ogni cosa; v'amo con tutta l'anima mia; v'amo più di me stesso. Io v'amo e, perché v'amo, vorrei morir di dolore pensando che per lo passato tante volte vi ho voltate le spalle ed ho disprezzata la vostra grazia. Deh per li meriti vostri, mio Salvatore crocifisso, datemi il vostro amore e rendetemi tutto vostro. O Maria speranza mia, fatemi amar Gesù Cristo, e niente più vi domando. ___________________ 1 «(Apostolus Ioannes) in Epistola sua dixit: Sicut Christus pro nobis animam suam posuit, sic et nos debemus animas pro fratribus ponere (I Io. III, 16). Debemus, dixit: debitores nos fecit qui primus exhibuit. Ideo quodam loco scriptum est: Si sederis caenare ad mensam potentis, sapienter intellige quae apponuntur tibi; et mitte manum tuam, sciens quia talia te oportet praeparare (Prov. XXIII, 1, 2, secundum LXX). Mensa potentis quae sit, nostis; ibi est corpus et sanguis Christi: qui accedit ad talem mensam, praeparet talia. Et quid est, praeparet talia? Quomodo ipse pro nobis animam suam posuit, sic et nos debemus, ad aedificandam plebem et asserendam fidem, animas pro fratribus ponere.» S. AUGUSTINUS, In Ioannem, tractatus 47, n. 2. ML 35-1733. 2 «Et maintenant, je vous prie, sachant que Jésus-Christ, vrai Dieu éternel, tout-puissant, nous a aimés jusques à vouloir souffrir pour nous la mort, et la mort de la croix (Philipp. II, 8), ô mon cher Théotime, n' est-ce pas cela avoir nos coeurs sous le pressoir et les sentir presser de force, et en exprimer de l' amour par une violence et contrainte qui est d' autant plus violente qu' elle est toute aimable et amiable?» S. FRANCOIS DE SALES, - Traité de l' amour de Dieu, liv. 17, ch. 8. 3 «Mon Jésus est tout mien et je suis toute sienne (Cant. II, 16), je vivrae et mourrai sur sa poitrine, ni la mort ni la vie ne me séparera jamais de lui.» Méme ouvrage, liv. 7, ch. 8. 4 «Quid ergo illud est, Nemo nostrum sibi vivit? Liberi non sumus, Dominum habemus qui vult nos vivere, et non vult nos mori: et haec ambo magis ad illum spectant quam ad nos. His enim ostendit ipsum magis nos curare, quam nos ipsi curemus, et divitias suas vitam nostram putare, mortemque nostram damnum suum. Non enim nobis ipsis morimur tantum, sed Domino, si quidem moriamur. Mortem vero hic eam quae ex fide est dicit. Satis quidem illud est ad persuadendum quod Deus curam nostri gerat, quod et ei vivamus et ei moriamur: verum, non hoc contentus, aliud subiungit, dicens: Sive ergo vivimus, sive morimur, Domini sumus. Et ab illa morte ad naturalem transiens, ne videatur asperiorem facere sermonem, aliud signum, illudque maximum, providentiae suae dat. Quale est illud? In hoc enim Christus et mortuus est et resurrexit et revixit, ut et mortuorum et vivorum dominetur. Itaque et hoc tibi persuadeat ipsum semper curare salutem et emendationem nostram. Nisi enim tantam erga nos providentiam habuisset, quae necessitas erat (Encomiae seu Incarnationis? Qui ergo tantam curam gerit ut nos sui efficiamur, ut etiam formam servi acceperit et mortuus sit, ipse postquam sui facti sumus, nos contemnet? Non est hoc, non utique est; nollet enim tantum negotii proiicere: In hoc enim, inquit, et mortuus est; quasi quis dicat: Ille servum suum contemnere non possit: suum enim curat marsupium. Neque ita nos pecunias amamus, ut ille salutem nostram. Ideo non pecunias, sed sanguinem suum pro nobis effudit: et ideo numquam eos abiicere possit, pro quibus tantum pretium solvit.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Epist. ad Romanos, hom. 25, n. 3. MG 60-631. 5 «Stultum quippe hominibus visum est ut pro hominibus auctor vitae moreretur.» S. GREGORIUS MAGNUS, XL Homiliae in Evangelia, lib. 1, hom. 6, n. 1. ML 76-1096. 6 «Da quod iubes, et iube quod vis. Imperas nobis continentiam.... Per continentiam quippe colligimur in unum, a quo in multa defluximus. Minus enim te amat qui tecum aliquid amat quod non propter te amat. O amor qui semper ardes et numquam exstingueris! Caritas Deus meus, accende me. Continentiam iubes: da quod iubes, et iube quod vis.» S. AUGUSTINUS, Confessiones, lib. 10, cap. 29, n. 40. ML 32-796. 7 «Comprehensus Sanctus (Clemens) adductus est ad Vicarium... Beatus Martyr ait: «Sapientia nostra et prudentia Christus est Dei Filius....» Ad haec Vicarius: «...Accede ad beatos in perpetuum deos, eos contemnentium poenas tecum recogitans, at venerantium honores animo versans....» Risit magnanimus ille.... et ait: «....Nec.... divitiis nec minis abducturum nos putes a Veritate.... Solum autem caeleste regnum quaero, quod nullo fine terminabitur.» Acta S. Clementis, Ancyrani episcopi, n. 8 (inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 23 ianuarii.) - «Iussit (Imperator Diocletianus) coram proferri auri et argenti plurimum, codicillos dignitatum et praefecturarum, vestes pretiosas et splendidas, et quaecumque ornatus avidi homines expetere solent: ex adverso vero poenarum instrumenta, manus ferreas, scalpra, lectos ferreos, sartagines, prunas, lebetes, cassides, subulas, rotas, et graves catenas aliaque poenarum et doloris instrumenta et genere varia et numero prope infinita. Tum.... protensa ad propositas opes manu: «Ista, inquit, dii tibi offerunt, si eos agnoveris et colueris.» Avertit faciem Martyr, veluti a rebus vilibus, foedis et aspectu indinis, dixitque cum gemitu: «Ea sint cum ipsis in perditionem!.... Aurum et argentum terra sunt infructuosa.... splendidae vestes, vermium opus, esca tinearum, aut irrationalibus animantibus vi avulsa lana, aut in inutilibus oceani conchis reposita.... Optimi vero Dei nostri bona, genuina et immutabilia sunt.... quae neque tempus alterat, neque tinea corrumpit, neque omnino aeternitas vetustate valebit conficere.» Ibid., n. 14. - Cf. Acta eiusdem martyrus, auctore Simeone Metaphraste (inter Acta Sanctorum Bollandiana), n. 15, 26, 27. 8 « Stat martyr tripudians et triumphans, toto licet lacero corpore.... Ubi ergo tunc anima martyris? Nempe in tuto, nempe in petra (Columba mea in foraminibus petrae: Cant. II, 14), nempe in visceribus Iesu, vulneribus nimirum patentibus ad introendum. Si in suis esset visceribus, scrutans ea ferrum profecto sentiret; dolorem non ferret, succumberet, et negaret. Nunc autem in petra habitans, quid mirum si in modum petrae duruerit? Sed neque hoc mirum, si exsul a corpore dolores non sentiat corporis. Neque hoc facit stupor, sed amor. Submittitur enim sensus, non amittitur. Nec deest dolor, sed superatur, sed contemnitur.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 61, n. 8. ML 183-1074. 9 «Tenentur post haec Marcellianus et Marcus, et ambo ligati ad stipitem clavos in pedibus acutos acceperunt.... Dicit eis Fabianus (praefectus): «Infelices et miseri, deponite amentiam vestram, et liberate vosmetipsos a cruciatibus imminentibus super vos.» Cui respondentes ambo dixerunt: «Numquam tam bene epulati sumus; modo coepimus esse fixi in amore Christi.» Acta S. Sebastiani ( inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 20 ianuarii), cap. 22, n. 84. 10 «Si ergo magnum amorem coniugibus deberetis, eum propter quem coniuges habere noluistis, quantum amare debetis? Toto vobis figatur in corde, qui pro vobis est fixus in cruce: totum teneat in animo vestro, quidquid noluistis occupari connubio. Parum vobis amare non licet, propter quem non amastis et quod liceret.» S. AUGUSTINUS, Liber de sancta virginitate, cap. 55, n. 56. ML 40-428. 11 «Necesse est ut qui non vivit in se, vivat Christus in illo. Hoc est enim quod ait Apostolus: Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus (Galat. II, 20). Ac si diceret: Ad alia quidem omnia mortuus sum, non sentio, non attendo, non curo: si qua vero sint Christi, haec me vivum inveniunt et paratum. Nam si non aliud possum, saltem sentio: placet quod ad eius honorem fieri video, displicent quae aliter fiunt. Magnus omnino gradus est iste.» S. BERNARDUS, Sermo VII in Quadragesima, De peregrino, mortuo et crucifixo, n. 2. ML 183-184. 12 Le parole «viveremo eternamente con Cristo» mancano nell' edizione Veneta (Remondini, 1786). CAPO IX - Tutte le nostre speranze dobbiamo riporle né meriti di Gesù Cristo 1. Non est in alio aliquo salus (Act. IV, 12). Dice S. Pietro che tutta la nostra salute sta in Gesù Cristo, il quale per mezzo della croce, ove sagrificò per noi la sua vita, ci aprì la via a sperare da Dio ogni bene se siamo fedeli a' suoi precetti. -Udiamo quel che dice della croce S. Giovan Grisostomo: Crux spes Christianorum, claudorum baculus, consolatio pauperum, destructio superborum, contra daemones triumphus, adoloscentium paedagogus, navigantium gubernator, periclitantium portus, iustorum consiliarius, tribulatorum requies, aegrotantium medicus, martyrum gloriatio (S. Chrysost. Hom. de cruce, tom. III).1 La croce dunque, dice il santo, cioè Gesù crocifisso, è la speranza de' fedeli, perché se non avessimo Gesù Cristo, non vi sarebbe per noi la speranza di salute. È il bastone de' zoppi: tutti siamo zoppi nel presente stato di corruzione, altra forza non abbiamo di camminare nella via della salute che solamente quella che ci comunica la grazia di Gesù Cristo. È la consolazione de' poveri, quali siamo tutti, poiché quanto abbiamo, tutto l'abbiamo da Gesù Cristo. È la distruzione de' superbi, poiché i seguaci del Crocifisso non sanno esser superbi, vedendolo morto qual malfattore sulla croce. È il trionfo de' demoni, mentre il solo segno della croce basta a discacciarli. È il maestro de' principianti: quanti belli insegnamenti dà la croce a quei che cominciano a camminare nella via di Dio! È il nocchiero de' naviganti: oh come ben ci guida la croce nelle tempeste della presente vita! È porto de' pericolanti: quei che stanno in pericolo di perdersi per le tentazioni o forti passioni, trovano un porto sicuro ricorrendo alla croce. È consigliera dei giusti: quanti santi consigli ci dà la croce, cioè la tribulazione nel tempo della vita! È riposo degli afflitti: e dove gli afflitti provano maggiore sollievo che nel mirar la croce ove patisce un Dio per loro amore? È medico degl'infermi: gl'infermi che si abbracciano colla croce, restan guariti da tutte le piaghe dell'anima. È la gloria de' martiri: questa è la maggior gloria che hanno i martiri, di esser fatti simili a Gesù Cristo re de' martiri. 2. In somma tutte le nostre speranze son poste ne' meriti di Gesù Cristo. Dicea l'Apostolo: Scio et humiliari, scio et abundare (ubique et in omnibus institutus sum); et satiari et esurire; et abundare et penuriam pati. Omnia possum in eo qui me confortat (Philip. IV, 12 et 13). Sicché S. Paolo, ammaestrato dal Signore, come dichiarò, dicea: Io so come deggio portarmi; quando Dio mi umilia, io so rassegnarmi al suo volere; e quando m'innalza, so renderne a lui tutto l'onore; quando il Signore mi fa godere l'abbondanza, io so ringraziarlo; quando mi fa patir la penuria, anche lo benedico; ma tutto ciò non lo fo per mia virtù, ma per la forza della grazia che Dio mi dona: Omnia possum in eo qui me confortat. Nel testo greco in vece delle parole in eo qui me confortat, sta, in corroborante me Christo:2 chi diffida di sé e confida in Gesù Cristo, vien da esso avvalorato con una forza invincibile.- Il Signore, dicea S. Bernardo, rende onnipotenti tutti coloro che in esso pongono la lor confidenza: Omnipotentes facit omnes qui in se sperant (Serm. LXXXV in Cant.). Soggiungeva il santo che un'anima che non presume delle sue forze, ma e confortata da Gesù Cristo, ella potrà esser talmente padrona di se stessa, che non lascerà farsi dominare da alcun peccato: Ita animus si non praesumat de se sed confortetur a Verbo, poterit dominari sui, ut non dominetur ei omnis iniquitas. E poi concludea che per colui che si appoggia a Gesù non vi è né forza né frode né piacere che possa abbatterlo: Ita Verbo innixum nulla vis, nulla fraus, nulla illecebra poterit stantem deiicere.3 3. L'Apostolo pregò tre volte Iddio che lo liberasse da un solletico impuro che lo molestava, e gli fu risposto: Sufficit tibi gratia mea; nam virtus in infirmitate perficitur (II Cor. XII, 9). Come va che la virtù si perfeziona nella debolezza? Spiega S. Tommaso col Grisostomo: Quanto è maggiore la nostra debolezza e l'inclinazione al male, tanto maggior forza comunica Dio a chi confida in lui.4 Quindi soggiungea S. Paolo nel luogo citato: Libenter igitur gloriabor in infirmitatibus meis, ut inhabitet in me virtus Christi. Ben dunque, dicea, io mi glorierò nelle mie debolezze, mentre così meglio in me si stabilirà la virtù di Gesù Cristo. Siegue poi a dire: Propter quod placeo mihi in infirmitatibus meis, in contumeliis, in necessitatibus, in persecutionibus, in angustiis pro Christo; cum enim infirmor. tunc potens sum (Ibid. vers. 10). Perciò, dicea, io mi compiaccio di vedermi così debole nel soffrire per Gesù Cristo le ingiurie, la povertà, le persecuzioni e le angustie, perché allora, quanto più mi vedo infermo, tanto più confido in lui, e così divento più forte. 4. Verbum enim crucis pereuntibus quidem stultitia est; iis autem qui salvi fiunt, id est nobis Dei virtus est (I Cor. I, 18). Qui S. Paolo ci avverte a non seguire i mondani che metton la loro confidenza nelle ricchezze o ne' loro parenti ed amici del mondo, e stimano pazzi i santi che disprezzano questi appoggi terreni; ma gli uomini dabbene ripongono tutte le loro speranze nell'amor della croce, cioè di Gesù crocifisso che ottiene ogni bene a chi in esso confida. Bisogna non però avvertire insieme che la potenza e fortezza del mondo è tutta diversa da quella di Dio: quella si acquista colle ricchezze e cogli onori mondani; ma questa si acquista coll'umiltà e tolleranza; onde scrisse S. Agostino che la fortezza nostra è nel conoscerci deboli e confessarci con umiltà miseri quali siamo: Fortitudo nostra est infirmitatis in veritate cognitio, et in humilitate confessio (S. Aug. Lib. de grat. Chr. c. 12).5 E S. Girolamo disse che tutta la perfezione della vita presente è nel conoscerci imperfetti: Haec una praesentis vitae perfectio est ut te imperfectum agnoscas (Epist. ad Ctesiphont.).6 Sì, perché quando noi ci riconosciamo per quegl'imperfetti che siamo, allora, diffidando delle nostre forze, ci abbandoniamo in Dio il quale protegge e salva coloro che in lui confidano: Protector est omnium sperantium in se (Ps. XVII, 31). Qui salvos facis sperantes in te (Ps. XVI, 7). Aggiunge Davide che chi confida nel Signore diventa forte come un monte, che non sarà smosso da tutti gli sforzi 'de suoi nemici: Qui confidit in Domino, sicut mons Sion, non commovebitur in aeternum (Ps. CXXIV, 1).7 Quindi S. Agostino ci ammonisce che ne' pericoli di peccare, quando siamo tentati, dobbiamo ricorrere ed abbandonarci in Gesù Cristo, il quale non si ritirerà per lasciarci cadere, ma ci abbraccerà per sostenerci, e così rimedierà alla nostra debolezza: Proiice te in eum, non se subtrahet ut cadas; excipiet te et sanabit te.8 5. Gesù Cristo colle debolezze assunte sovra di sé della nostra umanità, ci ha meritata una forza che supera la debolezza nostra. Dice S. Paolo: In eo enim in quo passus est ipse et tentatus, potens est et eis qui tentantur auxiliari (Hebr. II, 18). Come va questo che il Salvatore per essere stato anch'egli tentato può avvalorarci nelle nostre tentazioni? S'intende perché Gesù Cristo con essere stato amitto dalle tentazioni, si è renduto più proclive a compatirci e darci aiuto quando noi siamo tentati. Al che corrisponde quell'altro testo che spiega lo stesso Apostolo: Non enim habemus Pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris; tentatum autem per omnia pro similitudine absque peccato (Hebr. IV, 15). Quindi ci esorta l'Apostolo a ricorrere con confidenza al trono della grazia, qual'è la croce, acciocché riceviamo dal Crocifisso la grazia che desideriamo: Adeamus ergo cum fiducia ad thronum gratiae, ut misericordiam consequamur et gratiam inveniamus in auxilio opportuno (Ibid. vers. 16). 6. Gesù col sottoporsi a patire timori, tedi e mestizie, siccome ci attestano i Vangelisti parlando delle afflizioni ch'egli specialmente patì nell'orto di Getsemani nella notte precedente alla sua morte: Coepit pavere, taedere, contristari et maestus esse (Marc. XIV, 33, et Matth. XXVI, 37),9 ci ha meritato il coraggio di resistere alle minacce di coloro che vogliono pervertirci; il vigore di superare il tedio che proviamo nell'orazione, nelle mortificazioni ed in altri esercizi divoti; e la forza di soffrire con pace la mestizia che ci affanna nelle avversità. Sappiamo in oltre ch'egli nell'orto, a vista di tanti dolori e della morte desolata che l'aspettava, volle patire tal debolezza nell'umanità, che disse: Spiritus quidem promptus est, caro autem infirma (Matth. XXVI, 41). E giunse a pregare il suo divino Padre che se era possibile, ne l'avesse liberato: Pater mi, si possibile est, transeat a me calix iste (Matth. XXVI, 39). Ma poi subito soggiunse: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu (Ibid.). E per tutto quel tempo che seguì ad orare nell'orto, replicò sempre la stessa preghiera: Fiat voluntas tua... Et oravit tertio eumdem sermonem dicens (Ibid. vers. 44). Gesù Cristo con quel fiat allora meritò ed ottenne a noi la rassegnazione in tutte le cose avverse, ed impetrò a' martiri e suoi confessori la fortezza di resistere a tutte le persecuzioni e tormenti de' tiranni: Haec vox " fiat " omnes confessores accendit, omnes martyres coronavit: così scrisse San Leone (De Pass. serm. 7, cap. 5).10 Così parimente coll'abborrimento de' nostri peccati che gli fecero patire nell'orto un'aspra agonia - factus in agonia prolixius orabat (Luc. XXII, 43) - merito a noi la contrizione delle nostre colpe. Coll'abbandono del Padre che soffrì nella croce, ci meritò il vigore di non perderci d'animo nelle desolazioni ed oscurità di spirito. Col chinare la testa spirando su quel patibolo per ubbidire alla volontà del Padre - factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8), - ci meritò tutte le vittorie che otteniamo contra le passioni e le tentazioni, e la pazienza nei dolori della vita e particolarmente nelle amarezze - ed angustie che si soffrono nella morte. 7. Insomma scrive S. Leone che Gesù Cristo venne a prendersi le nostre infermità ed affanni per comunicarci la sua virtù e costanza: Venit nostra accipiens, et sua retribuens (Serm. III, Cap. 4).11 Dice S. Paolo: Et quidem cum esset Filius Dei, didicit ex iis quae passus est obedientiam (Hebr. V, 8): Imparò da tutto quel che patì, ad ubbidire. Ciò non s'intende già che Gesù nella sua Passione avesse appresa la virtù dell'ubbidienza che prima ignorava, ma s'intende, come spiega S. Anselmo, ch'egli nella sua Passione imparò, oltre la scienza che ne aveva, anche colla sperienza, quanto fosse dura la morte che patì per ubbidire al Padre.12 Ed insieme allora sperimentò quanto è grande il merito dell'ubbidienza; mentre con quella ottenne per sé il sommo grado della gloria, quale fu quello di sedere alla destra del Padre, ed ottenne per noi l'eterna salute. Quindi soggiunse l'Apostolo: Et consummatus factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae (Ibid. vers. 9). Dice consummatus, poiché avendo perfettamente adempita l'ubbidienza, con soffrire pazientemente quanto patì nella sua Passione, si è fatto causa dell'eterna salute a tutti coloro che gli sono ubbidienti in soffrire con pazienza i travagli della vita presente. 8. Da questa pazienza di Gesù Cristo sono stati poi animati ed avvalorati i santi martiri ad abbracciare con pazienza i più fieri tormenti che la crudeltà de' tiranni ha saputo inventare, e non solo con pazienza, ma con gioia e desiderio di più patire per amore di Gesù Cristo. Leggasi la celebre lettera che S. Ignazio martire, già condannato alle bestie, scrisse a' Romani prima di giungere al luogo del suo martirio: «Lasciate, disse, figliuoli miei, ch'io sia macinato da' denti delle fiere, acciocché sia ritrovato frumento del mio Redentore. Io non cerco altro che colui il quale è morto per me. Egli ch'è l'unico oggetto del mio amore, è stato per me crocifisso; e l'amore che gli porto fa ch'io desideri di esser crocifisso per lui.»13 S. Leone scrive del martire S. Lorenzo, che mentre stava sulla craticola era meno cocente il fuoco che bruciavalo di fuori, di quello che gli ardea di dentro.14 Scrivono Eusebio e Palladio15 di S. Potamiena, vergine di Alessandria, ch'essendo ella condannata ad essere gittata in una caldaia di pece bollente, la santa, affin di più patire per amore del suo sposo crocifisso, pregò il tiranno che ve l'avessero fatta entrare a poco a poco, acciocché la morte le fosse riuscita più tormentosa; ed ebbe l'intento, poiché cominciarono a calarla nella pece dai piedi, in modo ch'ella stiè tre ore in quel tormento, e non morì se non quando la pece arrivò al collo. Ecco la pazienza e la fortezza che riceverono i martiri dalla Passione di Gesù Cristo. 9. Or questo coraggio che il Crocifisso infonde a chi l'ama, facea poi dire a S. Paolo: Quis ergo nos separabit a caritate Christi? tribulatio? an angustia? an fames? an nuditas? an periculum? an persecutio? an gladius? (Rom. VIII, 35). Ma nello stesso tempo dicea ch'egli sperava di superar tutto in virtù e per amore di Gesù Cristo: Sed in his omnibus superamus propter eum qui dilexit nos (Ibid. vers. 37). L'amore de' martiri verso Gesù Cristo era invincibile, perché ricevea la forza dall'Invincibile che gli confortava a patire. E non pensiamo già che ne' martiri i tormenti per miracolo perdessero la forza di tormentare o pure che le consolazioni celesti assorbissero il dolore de' tormenti; ciò forse avvenne tal volta, ma ordinariamente i tormentati ben sentivano i dolori, e molti per debolezza cedeano agli strazi; onde per coloro ch'eran costanti a soffrirli, la loro pazienza era tutto dono di Dio, che somministrava loro il vigore. 10. L'oggetto primario della nostra speranza è la beatitudine eterna, cioè il godimento di Dio, fruitio Dei, come insegna S. Tommaso.16 Tutti gli altri mezzi poi per conseguire la salute che consiste in godere Dio, come sono il perdono de' peccati, la perseveranza finale nella divina grazia e la buona morte, tutti dobbiamo sperarli non dalle nostre forze né da' nostri buoni propositi; ma solo da' meriti e dalla grazia di Gesù Cristo. - Acciocché dunque sia ferma la nostra confidenza, bisogna credere con certezza infallibile che l'adempimento di tutti questi mezzi della nostra salute, solo dobbiamo noi sperarlo da' meriti di Gesù Cristo. __________________ 1 Vedi Appendice, 8. 2 Così in alcuni manoscritti ed edizioni; nella maggior parte però si legge soltanto: in corroborante me. 3 «Quantae fiduiae vox: Omnia possum in eo qui me confortat (Philipp. IV, 13)! Nil omnipotentiam Verbi clariorem reddit, quam quod omnipotentes facit omnes qui in se sperant. Denique omnia possibilia sunt credenti (Marc. IX, 22). Annon omnipotens, cui omnia possibilia sunt? Ita animus, si non praesumat de se, sed si confortetur a Verbo, poterit utique dominari sui, ut non dominetur ei omnis iniustitia. Ita, inquam, Verbo innixum, et indutum virtute ex alto, nulla vis, nulla fraus, nulla iam illecebra poterit vel stantem deiicere, vel subiicere dominantem.» S. BERNARDUS, In Cantica, Sermo 85, n. 5. ML 183-1190. 4 «Dicit ergo (Paulus): Ego rogavi, sed Dominus dixit mihi: Sufficit tibi, etc.; quasi dicat: Non est tibi necessarium quod infirmitas corporis recedat a te.... quia non duceris ad impatientiam, cum gratia mea confortet te; nec infirmitas concupiscentiae, quia non pertrahet te ad peccatum, quia gratia mea proteget te.... Et licet non exaudierit eum (Deus) quantum ad voluntatem, exaudivit tamen eum, et exaudit sanctos suos, quantum ad eius utilitatem..... - Rationem.... subdit consequenter, cum dicit: Nam virtus, etc. Mirus modus loquendi: Virtus in infirmitate perficitur. Ignis in aqua crescit. Intelligi vero potest hoc quod dicitur, Virtus perficitur in infirmitate, dupliciter, scillicet materialiter et occasionaliter. Si accipiatur materialiter, tunc est sensus: Virtus in infirmitate perficitur, id est, infirmitas est materia exercendae virtutis. Et primo humilitatis.... secundo patientiae.... tertio temperantiae, quia ex infirmitate debilitatur fomes, et temperatus efficitur quis. Si vero accipiatur occasionaliter, tum virtus in infirmitate perficitur, id est, occasio perveniendi ad perfectam virtutem, quia homo sciens se infirmum, magis sollicitatur ad resistendum, et ex hoc quod magis resistit et pugnat, efficitur exercitatior, et per consequens fortior. Et ideo Levit. Legitur et Iudicum cap. 3, quod Dominus noluit destruere omnes habitatores terrae; sed aliquos reservavit, ut scilicet filii Israel exercitarentur pugnando cum eis. Sic etiam Scipio nolebat destructionem civitatis Carhaginensis, ut scilicet dum Romani haberent hostes exterius, non sentirent hostes interiores, contra quos durius bellum est, ut ipse dicebat.» S. THOMAS, Super II Epistolam ad Cor. expositio, cap. 12, lectio 3 (in II Cor. XII, 9). «Et dixit mihi: Sufficit tibi gratia mea: virtus enim mea in infirmitate perficitur.... Ne mihi hoc imbecillitati adscribatur, quod multi sint qui tibi insidias adstruant, teque caedant et exagitent ac flagris conscindant: nam hoc potius meam potentiam indicat.... cum videlicet vos persecutionem patientes, eos qui vos persequuntur superatis; cum vexati, de iis qu vos vexant palmam refertis; cum vinculis adstricti, eos qui vos vinciunt convertitis. Quocirca supervacanea ne poscas. Vides qoumodo ipse aliam causam afferat, aliam Deus? Ipse enim ait: Ne extollar, datus est mihi stimulus carnis: Deum vero dixisse ait, se istud idcirco permittere, ut potentiam suam ostendat. Non igitur supervacaneam dumtaxat rem postulas, sed etiam quae potentiae meae gloriae tenebras offundat... Postquam igitur haec audivi, inquit, libentissime in infirmitatibus meis gloriabor.... Ostendit se ptopterea (propter persecutiones) illustriorem fieri, Deique potentiam hac ratione magis elucessere.... Unde etiam subiungit: Ut inhabitet in me virtus Christi. Hoc loco aliud quiddam tacite significat, quod quanto magis tentationes augebantur, tanto eiam magis gratia crescebat, ac permanebat.... Ac deinde aliam quoque causam ponit: Cum enim infirmor, tunc potens sum. Quid miraris, si Dei potentia tunc ostendatur? ipse quoque tunc potens sum, siquidem tunc maxime graia accedebat... Nam tunc etiam anima purgatur, cum propter Deum premitur: tunc maiori auxilio fruitur, atque ampliori gratia digna exsistit, cum maiore subsidio opus habet.» S. Io. CHRYSOSTOMUS, In Epist. II ad Cor., hom. 26, n. 3. MG 61-578, 579. - Come si vede, e più chiaramente viene espresso un poco sopra e nei passi che abbiamo omessi, il Grisostomo intende, col nome di stimolo della carne, gli avversari dell' apostolato di Paolo. Ma la stessa ragione vale per la lotta contro i nemici della nostra salute. 5 S. AUGUSTINUS, Liber de gratia Christi, cap. 12, n. 13. ML 44-367. - Vedi Appendice, 15. 6 «Haec hominibus sola perfectio, si imperfectos esse se noverint.» S. HIERONYMUS, Epistola 133 (al. 43), ad Ctesiphontem, adversus Pelagium, n. 6. ML 22-1154. 7 Qui confidunt in Domino, sicut mons Sion: Non commorebitur in aeternum qui habitat in Ierusalem. Ps. CXXIV, 1, 2. 8 «Proiice te in eum; noli metuere, non se subtrahet ut cadas: proiice te securus, excipiet et sanabit te.» S. AUGUSTINUS, Confessiones, lib. 8, cap. 11, n. 27. ML 32-761. 9 Coepit pavere et taedere. Marc. XIV, 33. - Coepit contristari et maestus esse. Matt. XXVI, 37. 10 «Haec vox capitis salus est totius corporis; haec vox omnes fideles instruxit, omnes confessores accendit, omnes martyres coronavit. Nam quis mundi odia, quis tentationum turbines, quis posset persecutorum superare terrores, nisi Christus in omnibus et pro omnibus diceret Patri: Fiat voluntas tua?» S. LEO MAGNUS, Sermo 58, de Passione Domini 7, cap. 5. ML 54-336. 11 «Venerat enim in hunc mundum dives atque misericors negotiator e caelis, et commutatione mirabili inierat commercium salutare, nostra accipiens et sua tribuens: pro contumeliis honorem, pro doloribus salutem, pro morte dans vitam.» S. LEO MAGNUS, Sermo 54, de Passione Domini, 3, cap. 4. ML 54-321. 12 «Didicit ex his quae passus est obedientiam, id est quousque debeat servari obedientia. Verbum autem quod positum est, didicit, duobus modis intelligi potest. Aut enim didicit ditum est pro «alios fecit discere»; aut quia, quod per scientiam non ignorabat, experimento didicit.» S. ANSELMUS, Cur Deus Homo, lib. 1, cap. 9. ML 158-371. - «Didicit obedientiam ecundum quod homo est, id est non solum preces et supplicationes obtulit, sed obedire didicit in Passione, idest expertus est in seipso laborem obedientiae. Non enim scire potest afflictorum labores qui afflictionis experimentum non habuit. Sed Christus, secundum quod homo est, didicit obedientiam, quia omnes labores obedientiae sustinuit et sensibiliter pertulit: ex his quae passus est, id est ex acerbitate tormentorum quae pertulit, didicit obedientiam , id est experimento cognovit laborem obedientiae.» HERVEUS Burgidolensis, Commentaria in Epist. ad Hebraeos, cap. 5. ML 181-1567. - Questi Commentari su tutte le Epistole di S. Paolo vennero, dai primi editori, attribuiti a S. Anselmo, e sotto il nome di S. Anselmo più volte li cita S. Alfonso. 13 «Obsecro vos ne intempestivam mihi benevolentiam exhibeatis. Sinite me ferarum cibum esse, per quas Deum consequi licet. Frumentum sum Dei, et per ferarum dentes molar, ut purus panis Christi inveniar. Feris potius blandimini, ut mihi sepulcrum fiant... Illum quaero, qui pro nobis mortuus est... Neque, si ego praesens vos orarem, credatis mihi; his potius, quae vobis scribo, credatis. Vivens enim scribo vobis, mori desiderans. Amor meus scribo vobis, mori desiderans. Amor meus crucifixus est, nec est in me ignis materiae amans; sed vivens et loquens aqua in me, mihi interius dicens: Veni ad Patrem.» S. IGNATIUS Antiochenus, martyr, Epistola ad Romanos, n. 4, 6, 7. MG 5-690, 691, 694. 14 «Segnior fuit ignis qui foris ussit, quam qui intus accendit.» S. LEO MAGNUS, Sermo 85, in Natali S. Laurentii martyris, cap. 4. ML 54-437. 15 EUSEBIUS Caesariensis, Historia ecclesiastica, lib. 6, cap. 5. MG 20-534. - PALLADIUS, Historia Lausiaca, cap. 3. MG 34-1014; ML 73-1094. - Due sono le vergini martiri Alessandrine, per nome Potamiena: dell' una parla Eusebio, dell' altra Palladio. - Vedi Appendice, 16. 16 «Bonum quod proprie et principaliter a Deo sperare debemus est bonum infinitum... Hoc autem bonum est vita aeterna, quae in fruitione ipsius Dei consistit.... Et ideo proprium et principale obiectum spei est beatitudo aeterna.» S. THOMAS, Sum. Theol., II-II, qu. 17, art. 2, c. § 1 - Della speranza che abbiamo in Gesù Cristo del perdono de' peccati 11. E parlando per 1. della remission dei peccati, sappiamo che il nostro Redentore a questo fine è venuto in terra a perdonare i peccatori: Venit enim filius hominis salvare quod perierat (Matth. XVIII, 11). Quindi il Battista, allorché dimostrò a' Giudei il loro Messia già venuto, disse: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccatum mundi (Io. I, 29). La voce agnus secondo l'idioma greco significa propriamente quello agnello, come avesse detto il Battista: Ecco quell'agnello divino predetto da Isaia: Et quasi agnus coram tondente se obmutescet (Is. LIII, 7); ed anche da Geremia: Et ego quasi agnus... qui portatur ad victimam (Ier. XI, 19);17 e prima prefigurato da Mosè nell'agnello pasquale e nel sagrificio col quale, giusta la legge, ogni mattina sagrificavasi a Dio un agnello, ed in più altri che faceansi la sera per li peccati.18 Ma tutti quegli agnelli non valeano ad abolire un solo peccato; solo servivano a rappresentar il sagrificio dell'Agnello divino Gesù Cristo, che avea col suo sangue a lavare le anime nostre e liberarle così dalla macchia della colpa come dalla pena eterna meritata per la colpa - ciò importa la parola tollit, - assumendo sopra di sé il debito di soddisfare per noi colla sua morte la divina giustizia, secondo quel che scrisse Isaia (cap. LIII, v. 6): Posuit Dominus in eo iniquitatem omnium nostrum. Onde poi disse S. Cirillo: Unus pro omnibus occiditur, ut omne genus hominum Deo Patri lucrifaciat:19 Volle Gesù farsi uccidere per guadagnare a Dio tutti gli uomini che eran perduti. -Oh quanto è grande l'obbligo che abbiamo a Gesù Cristo! Se ad un reo già condannato a morte, mentre va alla forca col laccio già posto alla gola, venisse un amico e gli togliesse il laccio e l'applicasse a se stesso e, morendo in quel supplicio, ne liberasse il reo, quanto costui resterebbe obbligato ad amarlo? Ciò appunto ha fatto Gesù Cristo: egli ha voluto morire in croce per liberar noi dalla morte eterna. 12. Qui peccata nostra, scrisse S. Pietro, ipse pertulit in corpore suo super lignum, ut peccatis mortui, iustitiae vivamus, cuius livore sanati sumus (Epist. I Petr. II, 24). Gesù dunque si caricò di tutti i nostri peccati, e li portò sopra la croce, per pagarne esso la pena colla sua morte ed ottenerne a noi il perdono e così restituire a noi già morti la vita perduta. Quid mirabilius, scrive S. Bonaventura, quam vulnera sanent, mors vivificet! (Stim. part. I cap. 1):20 Qual cosa più ammirabile poteva vedersi, che le piaghe guariscano le piaghe degli altri, e la morte di uno dia la vita a tutti gli uomini ch'erano morti! Scrive S. Paolo che Dio da peccatori che noi eravamo, odiati ed abbominevoli, ci ha renduti in Gesù Cristo grati ed amabili agli occhi suoi; poiché per li meriti del suo sangue ci ha rimessi i peccati, e ci ha donate con soprabbondanza le ricchezze della sua grazia: Gratificavit nos in dilecto Filio suo, in quo habemus redemptionem per sanguinem eius, remissionem peccatorum secundum divitias gratiae eius, quae superabundavit in nobis (Ephes. I, 6 ad 8). E ciò è avvenuto per lo patto fatto da Gesù Cristo col suo divino Padre, di perdonare a noi le colpe e riceverci nella sua amicizia, a riguardo della Passione e morte di esso suo Figlio. 13. Ed in questo senso l'Apostolo chiamò Gesù Cristo mediatore del nuovo testamento.Nelle Scritture sagre la voce testamento si prende in due sensi, per patto o sia accordo fra due parti che stanno in discordia; e per promessa o sia disposizione di ultima volontà, per cui il testatore lascia la sua eredità agli eredi, ma tal disposizione non si rende stabile se non colla morte del testatore. -Del testamento come promessa si parlerà nel § III; nel presente § I parliamo del testamento come patto, secondo la quale significazione parlò già l'Apostolo, quando scrisse di Gesù Cristo: Et ideo novi testamenti mediator est (Hebr. IX, 15). Era l'uomo, per cagion del peccato, debitore alla divina giustizia e nemico di Dio; venne in terra il Figliuolo di Dio ed assunse carne umana; e nello stesso tempo, essendo già egli Dio uomo, si fece mediatore fra l'uomo e Dio, facendo le parti dell'uno e dell'altro; ed affin di conciliar la pace fra di loro ed ottenere all'uomo la divina grazia, si offerì esso a pagare col suo sangue e colla sua morte il debito dell'uomo. Or questa riconciliazione fu già prefigurata nel vecchio testamento in tutti i sagrifici che allora si faceano ed in tutti i simboli ordinali da Dio, come erano il tabernacolo, l'altare, il velo, il candeliere, il turibolo e l'arca, ove serbavasi la verga e le tavole della legge. Tutti questi istrumenti eran segni e figure della Redenzione promessa; e perché tale Redenzione dovea compirsi col sangue di Gesù Cristo, perciò Iddio ordinò che i sagrifici si facessero coll'effusione del sangue degli animali, che era figura del sangue dell'Agnello divino, e che tutti i mentovati simboli fossero del loro sangue aspersi: Unde nec primum quidem (testamentum) sine sanguine dedicatum est (Hebr. IX, 18). 14. Dice S. Paolo che il primo testamento, cioè la prima alleanza, patto o mediazione, che si fece nell'antica legge e che figurava la mediazione di Gesù Cristo nelle legge nuova, si celebro col sangue de' vitelli e degl'irci, e di questo sangue venivano aspersi il libro, il popolo, il tabernacolo e tutti i vasi sacri: Lecto enim omni mandato legis a Moyse universo populo, accipiens sanguinem vitulorum et hircorum cum aqua et lana coccinea - la lana tinta rossa anche significava Gesù Cristo: siccome la lana di sua natura è bianca e poi si fa rossa col colore del quale vien tinta, così Gesù, candido per la sua innocenza e natura, comparve poi sulla croce rosseggiante di sangue, giustiziato qual malfattore; e così avverossi di lui quel che ne disse la Sposa de' cantici: Dilectus meus candidus et rubicundus (Cant. V, 10) et hyssopo - anche l'issopo, erba umile, significava l'umiltà di Gesù Cristo - ipsum quoque librum et omnem populum aspersit dicens: Hic sanguis testamenti quod mandavit ad vos Deus; etiam tabernaculum et omnia vasa ministerii sanguine similiter aspersit; et omnia pene in sanguine secundum legem mundantur, et sine sanguinis effusione non fit remissio (Hebr. IX, 19 ad 22). Volle ripetere l'Apostolo più volte la voce di sangue, per imprimere nei cuori de' Giudei e di tutti, che senza il sangue di Gesù Cristo non vi era speranza di perdono alle nostre colpe. Siccome poi nella vecchia legge per lo sangue delle vittime veniva agli Ebrei tolta la macchia esterna de' peccati che commetteano contro la legge ed era loro perdonata la pena temporale dalla legge imposta così il sangue di Gesù Cristo nella legge nuova ci lava dalla macchia interna delle colpe, secondo quel che scrisse S. Giovanni: Dilexit nos et lavit nos... in sanguine suo (Apoc. I, 5): e ci libera dalla pena eterna dell'inferno. 15. Ecco come tutto lo spiega S. Paolo nel medesimo capo: Christus autem assistens pontifex futurorum bonorum per amplius et perfectius tabernaculum non manufactum, id est non huius creationis, neque per sanguinem hircorum,... sed per proprium sanguinem introivit semel in sancta, aeterna redemptione inventa (Hebr. IX, 11 et 12). Il pontefice entrava allora per lo tabernacolo nel sancta sanctorum e, coll'aspersione del sangue degli animali, purgava i delinquenti dalla macchia esterna contratta e dalla pena temporale; poiché per la remission della colpa e per la liberazione della pena eterna, era assolutamente necessaria agii Ebrei la contrizione colla fede e speranza nel Messia venturo, che dovea morire per ottener loro il perdono. Gesù Cristo all'incontro, per mezzo del suo corpo questo è il tabernacolo più ampio e più perfetto indicato dall'Apostolo sagrificato colla morte sovra la croce, è entrato nel sancta sanctorum del cielo ch'era a noi chiuso, e ce l'ha aperto per mezzo della Redenzione. - Quindi S. Paolo, per animarci a sperare il perdono di tutte le nostre colpe confidando nel sangue di Gesù Cristo, siegue a dire: Si enim sanguis hircorum et taurorum et cinis vitulae aspersus inquinatos sanctificat ad emundationem carnis; quanto magis sanguis Christi, qui per Spiritum Sanctum semetipsum obtulit immaculatum Deo, emundabit conscientiam nostram ab operibus mortuis ad serviendum Deo viventi? (Hebr. IX, 13 et 14). Dice: Quanto magis sanguis Christi, qui per Spiritum Sanctum semetipsum obtulit immaculatum Deo; Gesù offerì se stesso a Dio, immacolato, senza ombra di colpa; altrimenti non sarebbe stato degno mediatore atto a riconciliare Dio coll'uomo peccatore; né il suo sangue avrebbe avuta la virtù di purgare le nostre coscienze ab operibus mortuis, cioè da' peccati, opere morte senza merito ed opere di morte degne di pene eterne; ad serviendum Deo viventi: Iddio non ci perdona ad altro fine se non perché la vita che ci resta, la impieghiamo tutta a servirlo ed amarlo. - Conclude finalmente l'Apostolo: Et ideo novi testamenti mediator est (Ibid. vers. 15). Perciò il nostro Redentore, per l'immenso amore che ci portava, volle col prezzo del suo sangue riscattarci dalla morte eterna; quindi ci ottenne da Dio il perdono, la grazia ed anche l'eterna felicita, se noi siamo fedeli a servirlo sino alla morte. Questa fu la mediazione o sia patto passato fra Gesù Cristo e Dio, in vigor di cui fu promesso a noi il perdono e la salute. 16. Questa promessa poi del perdono de' peccati per li meriti del sangue di Gesù Cristo, ci fu confermata da Gesù stesso nel giorno precedente alla sua morte, allorché, lasciandoci il sagramento dell'Eucaristia, disse: Hic est enim sanguis meus novi testamenti qui pro multis effundetur in remissionem peccatorum (Matth. XXVI, 28). Disse effundetur, mentre era prossimo il sagrificio nel quale dovea spargere non parte ma tutto il suo sangue, per soddisfare i nostri peccati ed ottenerci il perdono. Indi volle che questo sagrificio si rinnovasse ogni giorno in ogni Messa che si celebra, acciocché il suo sangue continuamente perorasse a nostro favore. E perciò Gesù Cristo fu chiamato sacerdote secondo l'ordine di Melchisedech: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech (Ps. CIX, 4). Aronne offerì sagrifici di animali; ma il sagrificio di Melchisedech fu di pane e vino, il quale fu figura del sagrificio dell'altare, in cui il nostro Salvatore, sotto le specie di pane e di vino, offerì nella cena a Dio il suo corpo e sangue, che dovea nel giorno seguente sagrificargli nella sua Passione, e che siegue ogni giorno ad offerirgli per mano de' sacerdoti, rinnovando per essi il sagrificio della croce. -Perché poi Davide abbia chiamato Gesù Cristo sacerdote eterno, lo spiega S. Paolo (Hebr. VII, 24 et seq.) dicendo: Hic autem eo quod maneat in aeternum, sempiternum habet sacerdotium. I sacerdoti antichi avean fine colla loro morte; ma Gesù, perché è eterno, eterno ancora è il suo sacerdozio. Ma come egli in cielo siegue ad esercitare questo suo sacerdozio? Anche lo spiega l'Apostolo soggiungendo: Unde et salvare in perpetuum potest accedentes per semetipsum ad Deum, semper vivens ad interpellandum pro nobis (Ibid. vers. 25). Il gran sagrificio della croce rappresentato già in quello dell'altare ha virtù di salvare per sempre tutti coloro che per mezzo di Gesù Cristo, ben disposti colla fede e colle buone opere, si accostano a Dio; e questo sagrificio, come scrivono S. Ambrogio e S. Agostino,21 continua Gesù come uomo ad offerirlo al Padre a nostro beneficio, seguendo ivi a fare, come faceva in terra, l'officio di nostro avvocato e mediatore ed anche di sacerdote, ch'è di pregare per noi, siccome esprimono le parole, semper vivens ad interpellandum pro nobis. 17. Dice S. Giovan Grisostomo che tutte le piaghe di Gesù Cristo sono tante bocche che continuamente implorano da Dio a noi peccatori il perdono delle colpe: Tot vulnera, tot ora.22 Oh quanto meglio, scrive S. Paolo, perora per noi e c'impetra la divina misericordia il sangue di Gesù Cristo, che non implorava la divina vendetta il sangue di Abele contra Caino! Accessistis ad... mediatorem Iesum, et sanguinis aspersionem melius loquentem quam Abel (Hebr. XII, 22 ad 24). Onde sta scritto tra le rivelazioni fatte a S. Maria Maddalena de' Pazzi che un giorno le disse Iddio queste parole: «La mia giustizia si è cangiata in clemenza colla vendetta presa sovra le carni innocenti di Gesù Cristo. Il sangue di questo mio Figlio non cerca da me vendetta, come il sangue di Abele, ma solo cerca misericordia; ed a questa voce non può la mia giustizia non restar placata. Questo sangue le lega le mani, sì che non può muoversi a prender quella vendetta de' peccati che prima si prendeva».23 18. Scrive S. Agostino che Iddio ci ha promessa la remission de' peccati e la vita eterna; ma è più quel che ha fatto per noi di quello che ci ha promesso: Plus fecit quam promisit.24 Il donarci il perdono e 'l paradiso niente costava a Gesù Cristo; ma il redimerci gli è costato il sangue e la vita. L'apostolo S. Giovanni ci esorta a fuggire il peccato; ma affinché non diffidiamo del perdono di tutte le colpe commesse, se abbiamo ferma risoluzione di più non commetterle, ci dà coraggio a sperare il perdono, dicendo che abbiamo che fare con Gesù Cristo, il quale non solo è morto per perdonarci, ma di più, dopo la morte, si è fatto nostro avvocato appresso il suo divin Padre: Filioli mei, haec scribo vobis, ut non peccetis; sed et si quis peccaverit, advocatum habemus apud Patrem, Iesum Christum iustum (I Io. II, 1). - A' nostri peccati spetta per giustizia la divina disgrazia e la dannazione eterna; ma la Passione del Salvatore esige a favor nostro la grazia e l'eterna salute, e l'esige per giustizia, mentre l'Eterno Padre, a riguardo de suoi meriti, gli ha promesso di perdonarci e salvarci, sempre che noi siamo disposti a poter ricevere la sua divina grazia, e vogliamo ubbidire a' suoi precetti, come scrive S. Paolo: Et consummatus, factus est omnibus obtemperantibus sibi causa salutis aeternae (Hebr. V, 9). Sicché Gesù Cristo col morir consumato da' dolori, ha ottenuta l'eterna salute a tutti coloro che osservano la sua legge. Quindi ci esorta l'Apostolo: Per patientiam curramus ad propositum nobis certamen, aspicientes in auctorem fidei et consummatorem Iesum, qui proposito sibi gaudio sustinuit crucem, confusione contempta (Hebr. XII, 1 et 2). Andiamo, anzi corriamo con animo. grande, armati di pazienza a combattere coi nemici della nostra salute, tenendo sempre gli occhi fissi a Gesù crocifisso che, rinunziando ad una vita di gaudio su questa terra, ha voluto eleggersi una vita di pene ed una morte piena di dolori e di obbrobri, e così ha voluto compiere la nostra Redenzione. 19. O sangue prezioso, tu sei la speranza mia! O sanguis innocentis, lava sordes poenitentis. Gesù mio, i miei nemici, dopo avermi tirato ad offendervi, ora mi dicono che non vi è da sperare in voi più salute per me: Multi dicunt animae meae: Non est salus ipsi in Deo eius (Ps. III, 3). Ma io, fidato nel sangue che avete sparso per me, vi dirò con Davide: Tu autem, Domine, susceptor meus es (Ibid. vers. 4). I nemici mi atterriscono dicendo che dopo tanti peccati, s'io ricorro a voi, voi mi discacciate; ma io leggo in S. Giovanni la vostra promessa di non ributtare alcuno che a voi ricorre: Eum qui venit ad me non eiiciam foras (Io. VI, 37). A voi dunque ricorro pieno di confidenza: Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti.25 Voi, mio Salvatore, che avete sparso tutto il vostro sangue con tanto vostro dolore e con tanto amore per non vedermi perduto, abbiate pietà di me, e perdonatemi e salvatemi. ____________________ 17 Et ego quasi agnus mansuetus qui portatur ad victimam. Ier. XI, 19. 18 Hoc est quod facies in altari: Agnos anniculos duos per singulos dies iugiter, unum agnum mane, et alterum vespere, decimam partem similae conspersae oleo tuso, quod habeat mensuram quartam partem hin. et vinum ad libandum eiusdem mensurae in agno uno. Alterum vero agnum offeres ad vesperam iuxta ritum matutinae oblationis, et iuxta ea quae diximus, in odorem suavitatis. Sacrificium est Domino, oblatione perpetua in generationes vestras. Exod. XXIX, 38-42. - Praecipe Aaron et filiis eius: Haec est lex holocausti: Cremabitur in altari tota nocta usque mane; ignis ex eodem altari erit. Vestietur tunica sacerdos et feminalibus lineis: tolletque cineres, quos vorans ignis exussit; et ponens iuxta altare, spoliabitur prioribus vestimentis, indutusque aliis, efferet eos extra castra, et in loco mundissimo usque ad favillam consumi faciet. Ignis autem in altari semper ardebit, quem nutriet sacerdos subiiciens ligna mane per singulos dies, et imposito holocausto, desuper adolebit adipes pacificorum. Ignis est iste perpetuus, qui numquam deficiet in altari. Levit. VI, 9-13. 19 «Unus enim mortuus est agnus pro omnibus, omnem hominum gregem servans Deo ac Patri: unus pro omnibus, ut omnes Deo subiiciat; unus pro omnibus, ut omnes lucrifaciat; ut omnes denique iam non sibi vivant, sed ei qui pro ipsis mortuus est et resurrexit.» S. CYRILLUS ALEXANDRINUS, In Ioannis Evangelium, lib. 2. (in Io. I, 29: Et ait: Ecce Agnus Dei). MG 73191. 20 «Quid mirabilius quam quod mors vivificet, vulnera sanent?» Stimulus amoris, pars 1, cap. 1. Inter Opera S. Bonaventurae, VII, Lugduni, 1668. - Vedi Appendice, 2, 5°. 21 «Quid enim tam proprium Christi, quam advocatum apud Patrem adstare populorum, mortem suam offerre pro cunctis, repellere necem, vitam reformareperituris?» S. AMBROSIUS, Enarratio in Ps. 39, n. 8. ML 14-1060. «Cum esset Deus, factus est propter nos homo, solus verus agnus immaculatus et sacerdos sine vitio... Tunc (sub antiquo Testamento) sacerdos solus intrabat in Sancta sanctorum, populus autem stabat foris: sicut nunc ille sacerdos (Christus) post resurrectionem suam intravit in secreta caelorum, ut ad dexteram Patris interpellet pro nobis. Populus autem cuius ille sacerdos est, adhuc foris gemit. Nam cum episcopus solus intus est, populus et orat cum illo, et quasi subscibens ad eius verba respondet, Amen.» S. AUGUSTINUS, Contra epistolam Parmeniani, lib. 2, cap. 7, n. 14. ML 43-59. 22 Adatta qui S. Alfonso un testo, non già del Grisostomo, ma del Crisologo, il quale, parlando di Lazaro, dice: «Itemque Deus, quia obduratis auribus unius oris nil erat vox clamantis, ad aperiendum cor divitis, totum corpus pauperis vulneribus aperit, ut in admonendo divite tot essent pauperis ora quot vulnera.» S. PETRUS CHRYSOLOGUS, Sermo 121. ML 52-532. 23 (La Santa in estasi parla in nome del Padre Eterno): «Gran potenza operò questo mio Verbo, abbassandosi sino ad esser cadavere, che fu arrivare al maggior segno d' umiltà, al qual poteva per voi giungere il mio Verbo nella carne mortale, e facendo, in un modo di dire costaggiù a voi, addormentare la mia divina giustizia, la quale placata e soddisfatta pei peccati del mondo con la vendetta presa sopra la carne innocentissima di lui, e sopra il sangue purissimo sparso per soddisfazione delle colpe dell' uomo, ora la giustizia mia par che sia cangiata in clemenza. - E sappi, o figliuola, che quel sangue sparso non grida come il sangue d' Abello, o come quelle anime sante, come riferisce l' innamorato del mio Verbo Giovanni nella sua Apocalisse: Vindica sanguinem nostrum: ma solo grida misericordia e pietà, ed a questa voce non può la mia giustizia non restar placata e soddisfatta. E ti vuò dir di più, che questo sangue lega, per dir così, le mani della mia giustizia, che ella non si può muovere, per così dire, a prendere quella vendetta dei peccati, che prima nel mondo prendeva, quando non udiva la voce di questo sangue non ancora sparso; perché ora con diluvii, ora con fuochi ed incendii, ora con aprirsi la terra ed ingoiare i peccatori, puniva la mia giustizia i scellerati; e sai quel che ella fece colle acque del diluvio, coi fuochi nelle città infami, e con altri gastighi nel deserto ed altrove, talché ella mi mostrava Dio delle vendette; ma ora che ella sembra di non sapersi muovere a gastigare, come soddisfatta nel rigoroso gastigo preso per voi nel mio Verbo, o se pur si muove è piuttosto correzione d' amorevol madre coi figliuoli scredenti, che di severo giudice coi malfattori e colpevoli, e adesso s' adempie quel che fu scritto: Cum iratus fueris, misericordiae recordaberis. mercé di questa voce del sangue sparso del Verbo.» PUCCINI, Vita, Firenze, 1611, Parte 6, cap. 3, pag. 541. 24 «Quid tibi promisit Deus, o homo mortalis? Quia victurus es in aeternum. Non credis? Crede, crede. Plus est iam quod fecit quam quod promisit. Quid fecit? Mortuus est pro te. Quid promisit? Ut vivas cum illo. Incredibilius est quod mortuus est aeternus, quam ut in aeternum vivat mortalis.» S. AUGUSTINUS, Enarratio in Ps. 148, n. 8. ML 37-1942. 25 Hymnus Te Deum. §2 - Della speranza che abbiamo in Gesù Cristo della perseveranza finale 20. Per ottener la perseveranza nel bene, non dobbiamo noi confidare ne' nostri propositi e promesse fatte a Dio; se noi fidiamo alle nostre forze, siamo perduti. Tutta la nostra speranza di conservarci in grazia di Dio abbiamo da collocarla ne' meriti di Gesù Cristo; e così, confidando sull'aiuto di lui, persevereremo sino alla morte, ancorché fossimo combattuti da tutti i nemici della terra e dell'inferno. Alle volte ci troveremo talmente abbattuti di animo ed assaliti dalle tentazioni che ci sembrerà di esser quasi perduti: non perdiamo allora il coraggio né ci abbandoniamo alla diffidenza; ricorriamo al Crocifisso, ed egli ci sosterrà a non cadere. Permette il Signore che anche i santi si trovino talvolta in simili tempeste e timori. S. Paolo scrive che le afflizioni e spaventi, ch'egli patì nell'Asia, furon tali che gli faceano venire in tedio la vita: Supra modum gravati sumus supra virtutem, ita ut taederet nos etiam vivere (II Cor. I, 8). Con ciò l'Apostolo dichiarò qual egli era secondo le sue proprie forze, affin d'istruirci che Iddio da quando in quando ci lascia nella desolazione, acciocché conosciamo la nostra miseria e, diffidati di noi stessi, ricorriamo con umiltà alla sua pietà ed impetriamo da esso la forza di non cadere: Ut non simus fidentes in nobis, sed in Deo qui suscitat mortuos (Ibid. vers. 9). Più chiaramente S. Paolo ciò l'espresse in altro luogo, scrivendo: Aporiamur, sed non destituimur;... deiicimur, sed non perimus (II Cor. IV, 8, 9):26 Ci vediamo oppressi dalla mestizia e dalle passioni, ma non ci abbandoniamo alla disperazione; siamo come gittati nel lago, ma non restiamo sommersi, poiché 'l Signore colla sua grazia ci dà forza di resistere a' nemici. Ma sempre ci avverte l'Apostolo a tenere avanti gli occhi che noi siamo fragili e facili a perdere il tesoro della divina grazia, e che tutta la virtù di conservarla ci viene non da noi, ma da Dio: Habemus autem thesaurum istum in vasis fictilibus, ut sublimitas sit virtutis Dei et non ex nobis (II Cor. IV, 7). 21. Restiamo dunque fermamente persuasi che in questa vita dobbiamo sempre guardarci di mettere alcuna confidenza nelle nostre operazioni. La nostra più forte arma, colla quale riporteremo sempre vittoria negli assalti dell'inferno, è la santa preghiera: questa è l'armatura di Dio, della quale parla S. Paolo: lnduite vos armaturam Dei ut possitis stare adversus insidias diaboli (Ephes. VI, 11). Poiché, soggiunge, non dobbiamo già combattere con uomini di carne, ma co' principi e potestà dell'inferno: Quoniam non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates (Ibid. vers. 12). Siegue indi a dire: State succincti lumbos vestros in veritate et induti loricam iustitiae, et calceati pedes in praeparatione evangelii pacis; in omnibus sumentes scutum fidei, in quo possitis omnia tela nequissimi ignea exstinguere; et galeam salutis assumite et gladium spiritus, quod est verbum Dei, per omnem orationem et obsecrationem etc. (Ibid. vers. 14 ad 18). Fermiamoci a ben intendere le riferite parole. State succincti lumbos vestros in veritate; qui allude l'Apostolo al cingolo militare, con cui si cingeano i soldati in segno della fedeltà che giuravano al lor sovrano. Il cingolo che dee cingere il cristiano, ha da esser la verità della dottrina di Gesù Cristo, secondo la quale dobbiam reprimere tutti i moti disordinati e specialmente gl'impudici che sono i più pericolosi. - Et induti loricam iustitiae; la corazza del cristiano dev'esser la buona vita, altrimenti avrà poca forza di resistere agli insulti de' nemici. -Et calceati pedes in praeparatione evangelii pacis; le scarpe militari che deve usare il cristiano affin di gire speditamente ove bisogna, a differenza di chi va a piedi nudi che lentamente cammina, han da essere l'animo apparecchiato ad abbracciar colla pratica ed insinuare anche agli altri coll'esempio le massime sante del Vangelo. -In omnibus sumentes scutum fidei, in quo possitis omnia tela nequissimi ignea exstinguere; lo scudo poi, col quale ha da difendersi il soldato di Cristo contra i dardi infuocati, cioè penetranti come fuoco, del nemico, ha da essere la fede costante, avvalorata dalla santa speranza e principalmente dalla divina carità. -Et galeam salutis assumite et gladium spiritus quod est verbum Dei; la celata, come intende S. Anselmo,27 sia la speranza dell'eterna salute; e finalmente la spada dello spirito o sia la nostra spada spirituale dev'esser la divina parola, per la quale Iddio replicatamente ci promette di esaudir chi lo prega: Petite et dabitur vobis (Matth. VII, 7); Omnis enim qui petit accipit (Ibid. vers. 8); Clama ad me et exaudiam te (Ier. XXXIII, 3); Invoca me et eruam te (Ps. XLIX, 15).28 22. Onde conchiude l'Apostolo: Per omnem orationem et obsecrationem, orantes omni tempore in spiritu et in ipso vigilantes in omni instantia et obsecratione pro omnibus sanctis (Ephes. VI, 18). Sicché la preghiera è l'arma fortissima, per cui il Signore ci dà la vittoria contra tutte le passioni malvage e tentazioni dell'inferno; ma questa preghiera dev'esser fatta in spiritu, cioè non solo colla bocca, ma anche col cuore. Di più dev'essere continua in ogni tempo della nostra vita, orantes omni tempore: siccome son continue le battaglie, così deve esser continua la nostra orazione. Continua e replicata, in omni instantia et obsecratione: se la tentazione non cessa alla prima preghiera, bisogna replicar la seconda, la terza, la quarta; e se dura tuttavia la tentazione, bisogna aggiungere i gemiti, le lagrime, l'importunità, la veemenza, come volessimo far forza a Dio a concederci la grazia della vittoria; ciò significano le parole in omni instantia et obsecratione. Aggiunge l'Apostolo: Pro omnibus sanctis; il che importa il pregare non solo per noi, ma per la perseveranza di tutti i fedeli che stanno in grazia di Dio e specialmente de' sacerdoti, acciocché si affatichino per la conversione degl'infedeli e di tutti i peccatori, replicando nelle nostre orazioni la preghiera di S. Zaccaria: Illuminare his, aui in tenebris et in umbra mortis sedent (Luc. I, 79). 23. Molto giova poi per resistere a' nemici ne' combattimenti spirituali, il prevenirli nelle nostre meditazioni con prepararci a far tutta la violenza, che possiamo in quei casi che possono avvenirci all'improvviso. Così poi si son veduti i santi rispondere con tanta mansuetudine o pure non dir parola e non turbarsi in tempo di ricevere una gravissima ingiuria, una gran persecuzione, un gran dolore del corpo o dell'anima, la perdita di una roba di gran valore, la morte di un parente molto amato. Tali vittorie ordinariamente non si ottengono senza l'aiuto di una vita molto aggiustata, senza la frequenza de' sagramenti, e senza un continuo esercizio di meditazioni, lezioni spirituali e preghiere. Onde queste vittorie difficilmente si ottengono da coloro che non sono molto cautelati a fuggir le occasioni pericolose o stanno attaccati alle vanità e piaceri del mondo, e poco praticano la mortificazione de' sensi: da coloro in somma che fanno una vita molle. Scrive S. Agostino che nella vita spirituale, primo vincendae delectationes, postea dolores (Serm. CXXXV).29 Viene a dire, che uno il quale sta dedito a cercar piaceri sensuali, difficilmente resisterà ad una gran passione o veemente tentazione che l'assalta: uno che troppo ama la stima del mondo, difficilmente soffrirà un affronto grave, senza perdervi la grazia di Dio. 24. È vero che tutta la forza per viver senza peccato e fare opere buone dobbiamo sperarla non da noi, ma dalla grazia di Gesù Cristo; ma dobbiamo noi aver gran cura di non renderci, per nostra colpa, più deboli di quelli che siamo. Certi difetti, de' quali non facciamo conto, saran cagione che ci mancherà la luce divina e che il demonio diventi contro di noi più forte. Per esempio, quel volere far comparsa nel mondo di dottrina o di nobiltà, quella vanità nel vestire, quel cercare certe comodità superflue, quel risentirsi ad ogni parola o atto di poca attenzione, quel voler piacere a tutti con discapito del profitto spirituale, quel tralasciare le opere di pietà per rispetto umano, quelle piccole disubbidienze a' superiori, piccole mormorazioni, piccole avversioni conservate nel cuore, quelle leggiere bugie, leggiere derisioni del prossimo, quei perdimenti di tempo in ciarle o curiosità inutili; in somma ogni attacco alle cose terrene ed ogni atto di amor proprio disordinato, può servire al nemico per tirarci in qualche precipizio; o almeno quel difetto deliberatamente voluto ci priverà di quel soccorso divino abbondante, senza cui ci troveremo caduti in qualche ruina. 25. Noi ci lamentiamo in ritrovarci così aridi e svogliati nell'orazione, nelle comunioni ed in tutti gli esercizi divoti; ma come Dio vuol farci godere la sua presenza e le sue visite amorose, mentre noi siamo così scarsi e disattenti con esso? Qui parce seminat, parce et metet (II Cor. IX, 6). 26. Se gli diamo tanti disgusti, come vogliamo raccogliere le sue consolazioni celesti? Se non ci distacchiamo in tutto dalla terra, non saremo mai tutti di Gesù Cristo; e chi sa dove andremo a parare. Gesù colla sua umiltà ci ha meritata la grazia di vincer la superbia; colla sua povertà la forza di disprezzare i beni terreni; e colla sua pazienza la costanza di vincere i disprezzi e le ingiurie: Quae superbia, scrive S. Agostino, sanari potest, si humilitate Filii Dei non sanatur? quae avaritia, quae paupertate Christi non sanatur? quae iracundia, si patientia Salvatoris non sanatur?30 Ma se noi ci raffreddiamo nell'amore di Gesù Cristo e trascuriamo di continuamente pregarlo che ci soccorra, ed all'incontro nutriamo nel cuore qualche affetto di terra, difficilmente saremo perseveranti nella buona vita. Preghiamo, preghiamo sempre: col pregare otterremo tutto. 27. O Salvatore del mondo, o mia unica speranza, deh per li meriti della vostra Passione, liberatemi da ogni affetto impuro che può essere ostacolo all'amore che vi debbo. Fate ch'io viva spogliato da tutt'i desideri che sanno di mondo; fate che l'unico oggetto de' miei desideri siate voi solo, che siete il sommo bene e l'unico bene degno d'esser amato. Per le vostre sagrosante piaghe, sanate le mie infermità e datemi la grazia di tener lontano dal cuore ogni amore che non è per voi, che meritate tutto il mio amore. Gesù amor mio, voi siete la speranza mia. Oh dolci parole, oh dolce conforto! Gesù amor mio, voi siete la speranza mia. __________________ 26 In omnibus tribulationibus patimur, sed non angustiamur; aporiamur, sed non destituimur; persecutionem patimur, sed non derelinquimur; deiicimur, sed non perimus. II Cor. IV, 8, 9. 27 «Galeam quoque salutis assumite, id est spem quae salutem aeternam exspectat; quae ideo galea dicitur, quia, sicut galea est in superiori parte armaturae, scilicet in capite, ita spes altior est omnibus aliis virtutibus (intellige: moralibus), et semper respicit ad superiora, spirans ad caelestia.» Ven. HERVEUS, Burgidolensis monachus, Commentaria in Epistolas B. Pauli, in Epist. ad Ephesios VI, 17. ML 181-1277. - Gli scopritori ed i primi editori di questi Commentarii li attribuirono a S. Anselmo. 28 Invoca me in die tribulationis: eruam te. Ps. XLIX, 15. 29 «Si iusti in Domino laetantur, iniusti non noverunt laetari nisi in saeculo. Sed ipsa est prima acies debellada: primo vincendae sunt delectationes, et postea dolores. Quomodo potest superare mundum saevientem, qui non potest superare blandientem?» S. AUGUSTINUS, Sermo 335 (al. de Sanctis 50), in Natali Martyrum, cap. 1, n. 1. ML 38-1470. 30 «Filius Dei hominem assumpsit, et in illo humana perpessus est. Haec medicina hominum tanta est quanta non potest cogitari. Nam quae superbia sanari potest, si humilitate Filii Dei non sanatur? Quae avaritia sanari potest, si paupertate Filii Dei non sanatur? Quae iracundia sanari potest, si patientia Filii Dei non sanatur? Postremo quae timiditas sanari potest, si resurrectione corporis Christi Domini non sanatur? Erigat spem suam genus humanum, et recognoscat naturam suam; videat quantum locum habeat in operibus Dei. Nolite vos ipsos contemnere, viri: Filius Dei virum suscepit. Nolite vos ipsas contemnere, feminae: Filius Dei natus ex femina est. Nolite tamen amare carnalia, quia in Filio Dei nec masculus nec femina sumus. Nolite amare temporalia, quia, si bene amarentur, amaret ea homo quem suscepit Filius Dei. Nolite timere contumelias et cruces et mortem, quia, si nocerent homini, non ea pateretur homo quem suscepit Filius Dei. Haec omnis hortatio, quae iam ubique praedicatur, ubique veneratur, quae omnem obedientem animam sanat, non esset in rebus humanis, si non essent facta illa omnia quae stultissimis displicent.» S. AUGUSTINUS, Liber de agone christiano, cap. 11, n. 12. ML 40-297, 298. § 3 - Della speranza che abbiamo in Gesù Cristo di giungere un giorno alla beatitudine del paradiso 28. Et ideo novi testamenti mediator est ut morte intercedente... repromissionem accipiant, qui vocati sunt, aeternae haereditatis (Hebr. IX, 15). Qui S. Paolo parla del nuovo testamento non come patto, ma come promessa o sia disposizione di ultima volontà, per cui Gesù Cristo ci lasciò eredi del regno del cielo. E perché il testamento non è valido se non dopo la morte del testatore, perciò fu necessario che Gesù Cristo morisse, acciocché noi potessimo, come suoi eredi, entrare nel possesso del paradiso. Onde soggiunge l'Apostolo: Ubi enim testamentum est, mors necesse est intercedat testatoris; testamentum enim in mortuis confirmatum est, alioquin nondum valet, dum vivit qui testatus est (Hebr. Ibid. 16 et 17). 29. Noi, per li meriti di Gesù Cristo nostro mediatore, abbiamo ricevuta la grazia col battesimo di esser fatti figli di Dio: a differenza degli Ebrei che nell'antico testamento, quantunque fossero il popolo eletto, nondimeno tutti erano servi. Onde scrisse l'Apostolo: Haec enim sunt duo testamenta, unum quidem in monte Sina in servitutem generans (Gal. IV, 24). Nel monte Sina da Mosè fu fatta la prima mediazione, allorché Iddio per mezzo di Mosè promise agli Ebrei l'abbondanza de' beni temporali, se avessero osservata la legge che loro diede; ma questa mediazione, dice S. Paolo, non generava che servi, a differenza della mediazione operata da Gesù Cristo che genera figli: Nos autem, fratres, secundum Isaac promissionis filii sumus (Ibid. vers. 28). Se dunque noi Cristiani siamo figli di Dio, per conseguenza, dice lo stesso Apostolo, siamo anche eredi; a tutti i figli spetta la porzione dell'eredità paterna, e questa è l'eredità della gloria eterna del paradiso che Gesù Cristo ci ha meritata colla sua morte: si filii et heredes; heredes quidem Dei, coheredes autem Christi (Rom. VIII, 17). 30. Soggiunge nonperò S. Paolo nello stesso luogo e dice: Si tamen compatimur, ut et conglorificemur (vers. cit. 17). È vero che noi, per la figliuolanza di Dio che Gesù Cristo ci ha ottenuta colla sua morte, abbiamo acquistato diritto al paradiso, ma ciò s'intende, se noi siamo fedeli colle buone opere e specialmente colla santa pazienza a corrispondere alla divina grazia. Quindi dice l'Apostolo che noi per ottener la gloria eterna, come l'ha ottenuta Gesù Cristo, dobbiamo patire su questa terra come ha patito Gesù Cristo. Egli va innanzi qual capitano colla croce; sotto questa bandiera dobbiamo noi seguirlo, ciascuno portando la sua croce, come ci ammonì il medesimo Signore quando disse: Qui vult post me venire, abneget semetipsum, et tollat crucem suam et sequatur me (Matth. XVI, 24). 31. Siegue poi S. Paolo ad animarci a patire con fortezza, avvalorati dalla speranza del paradiso, avvisandoci che la gloria che ci sarà donata nell'altra vita sarà immensamente più grande del merito di tutti i nostri patimenti, se li soffriremo quaggiù di buona voglia per adempire la divina volontà: Existimo enim, quod non sunt condignae passiones huius temporis ad futuram gloriam quae revelabitur in nobis (Rom. VIII, 18). Qual povero sarebbe così stolto che non darebbe allegramente tutte le sue straccie che possiede per guadagnarsi un gran regno? Questa gloria al presente non la godiamo, perché non siamo ancora salvi, non avendo ancora terminata la vita in grazia di Dio; ma la speranza nei meriti di Gesù Cristo, dice S. Paolo, e quella che ci rende salvi: Spe enim salvi facti sumus (Ibid. vers. 24). Giacch'egli non lascerà di darci tutto l'aiuto a salvarci, se noi gli saremo fedeli e saremo perseveranti a pregarlo, attesa la promessa di Gesù Cristo di esaudire ognun che lo prega: Omnis... qui petit accipit (Matth. VII, X). Ma dirà alcuno: Io temo non di Dio che neghi di esaudirmi se io lo prego, ma temo di me che non saprò pregarlo come si dee. No, dice S. Paolo, neppur temere di ciò, perché quando noi preghiamo, Dio stesso aiuta la nostra debolezza e ci fa pregare in modo che siamo esauditi: Spiritus adiuvat infirmitatem nostram et postulat pro nobis (Rom. VIII, 26).31 Postulat, id est, spiega S. Agostino, postulare facit.32 32. Aggiunge l'Apostolo per aumentarci la confidenza, e dice: Scimus autem quoniam diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum (Ibid. vers. 28). Con ciò vuol farc'intendere che non sono già disgrazie, come stimano gli uomini del mondo, le infamie, i morbi, la povertà, le persecuzioni; poiché Dio tutte le convertirà in bene e gloria di coloro che le soffriranno con pazienza. Conclude finalmente l'Apostolo con dire: Nam quos praescivit, et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui (Ibid. vers. 29). Colle quali parole vuole persuaderci che se ci vogliamo salvare, bisogna che ci risolviamo a patire ogni cosa per non perdere la divina grazia; perché niuno può essere ammesso alla gloria de' beati, se nel giorno del suo giudizio la vita sua non si trova conforme alla vita di Gesù Cristo. 33. Ma acciocché poi i peccatori per questa sentenza non si abbandonino alla disperazione per ragion delle colpe commesse, S. Paolo dà loro animo a sperare il perdono, soggiungendo che l'Eterno Padre a questo fine non ha voluto perdonare al proprio Figlio, che si era offerto a soddisfare per li nostri peccati, e l'ha dato alla morte, per poter perdonare noi peccatori: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum (Ibid. vers. 32). Aggiunge di più, per accrescere la speranza del perdono a' peccatori pentiti, e dice: Quis est qui condemnet? Christus Iesus qui mortuus est. Come dicesse: Peccatori, voi che detestate i peccati commessi, perché temete di esser condannati all'inferno? Ditemi, chi è il vostro giudice che ha da condannarvi? non è Gesù Cristo? e come potete temere che abbia a condannarvi alla morte eterna quel Redentore amoroso, che per non condannarvi ha voluto condannare se stesso a morir giustiziato sull'infame patibolo della croce? Ma ben s'intende ciò di quei peccatori che contriti han lavate le anime loro nel sangue dell'Agnello, secondo quel che scrive S. Giovanni: Hi sunt, qui... laverunt stolas suas et dealbaverunt eas in sanguine agni (Apoc. VII, 14). 34. Gesù mio, se io guardo i miei peccati mi vergogno di cercarvi il paradiso, dopo che tante volte ve l'ho rinunziato in faccia per gusti brevi e miserabili; ma guardando voi appeso a questa croce, non posso lasciar di sperare il paradiso, sapendo che voi avete voluto morire su questo legno, per pagare i miei peccati ed ottenermi questo paradiso da me disprezzato. Ah mio dolce Redentore, io spero ai meriti della vostra morte che già m'abbiate perdonate le offese che vi ho fatte, delle quali già mi son pentito ed ora vorrei morirne di dolore; ma oh Dio, penso che quantunque voi m'abbiate perdonato, sempre sarà vero ch'io ingrato ho avuto l'animo di dar tanti disgusti gravi a voi che tanto mi avete amato. Ma il fatto e fatto; almeno, Signor mio, per questo tempo che mi resta di vita, io voglio amarvi con tutte le mie forze, voglio vivere solo a voi, voglio esser tutto vostro, tutto, tutto, tutto. E ciò voi l'avete da fare. Staccatemi da ogni cosa di terra, e datemi luce e forza di non cercare altro che voi, unico mio bene, mio amore, mio tutto. O Maria, o speranza de' peccatori, voi mi avete da aiutare colle vostre preghiere. Pregate, pregate per me, e non lasciate di pregare, se non mi vedete tutto di Dio. _________________31 Spiritus adiuvat infirmitatem nostram: nam quid oremus, sicut oportet, nescimus: sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus. Rom. VIII, 26. 32 «Quid enim oremus, ait Doctor gentium, sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus interpellat pro nobis gemitibus inenarrabilibus. Quid est autem, interpellat, nisi, interpellare nos facit? Indigentis enim certissimum indicium est interpellare gemitibus. Nullius autem rei esse indigentem fas est credere Spiritum Sanctum. Sed ita dictum est, interpellat, quia interpellare nos facit, nobisque interpellandi et gemendi inspirat affectum; sicut illud in Evangelio: Non enim vos estis qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri qui loquitur in vobis (Matt. X, 20). Neque enim et hoc ita fit de nobis tamquam nihil facientibus nobis. Adiutorium igitur Spiritus Sancti sic expressum est, ut ipse facere diceretur quod ut faciamus facit.» S. AUGUSTINUS, Epistola, 194 (al. 105), ad Sixtum Romanum presbyterum (et postea Pontificem), cap. 4, n. 16. ML 33-879, 880. CAPO X - Della pazienza che dobbiamo esercitare in compagnia di Gesù Cristo per acquistar la salute eterna 1. Il parlar di pazienza e di patire è un linguaggio che non si pratica e neppur s'intende dagli uomini amanti del mondo; s'intende solo e si usa dalle anime amanti di Dio. Signore, dicea S. Giovanni della Croce a Gesù Cristo, altro non ti domando che patire ed esser disprezzato per te.1 S. Teresa esclamava sovente: Gesù mio, o patire o morire.2 S. Maria Maddalena de' Pazzi dicea: Patire e non morire.3 Ecco come parlano i santi innamorati di Dio; parlan così perché ben intendono che non può un'anima dar pruova a Dio più certa del suo amore, che col patire volentieri per dargli gusto. 2. Questa è la pruova più grande che Gesù Cristo ha data a noi dell'amor che ci porta. Egli come Dio ci ha amato nel crearci, nel provvederci di tanti beni, nel chiamarci a godere la stessa gloria ch'esso gode; ma in niun'altra cosa ci ha meglio dimostrato quanto ci ama, che nel farsi uomo, ed abbracciare una vita penosa ed una morte piena di dolori ed ignominie per nostro amore. - E come noi dimostreremo poi il nostro amore a Gesù Cristo? forse col menare una vita piena di piaceri e delizie terrene? Non pensiamo già che Iddio goda del nostro patire, non è il Signore di genio cosi crudele che si compiaccia in veder patire e gemere noi sue creature. Egli è un Dio di bontà infinita, tutto inclinato a vederci appieno contenti e felici, ond'è tutto pieno di dolcezza, affabilità e compassione verso tutti coloro che a lui ricorrono: Quoniam tu, Domine, suavis et mitis et multae misericordiae omnibus invocantibus te (Ps. LXXXV, 5). Ma la condizione del nostro presente infelice stato di peccatori e la gratitudine che dobbiamo all'amore di Gesù Cristo, esigono che noi rinunziamo per amor suo ai diletti di questa terra ed abbracciamo con affetto la croce ch'egli ci dà a portare in questa vita, appresso di lui, che ci va innanzi con una croce molto più pesante delle nostre; e tutto a fine di condurci a godere dopo la nostra morte una vita beata, che non avrà più fine. Non ha dunque Iddio genio di vederci patire; ma, essendo egli somma giustizia, non può lasciare impunite le nostre colpe; onde, acciocché le colpe restino punite, e noi giungiamo un giorno all'eterna felicità, vuole che colla pazienza purghiamo le colpe, e cosi meritiamo di essere in eterno felici. Come poteva essere più bello e soave quest'ordine della divina provvidenza, per vedere nello stesso tempo la giustizia soddisfatta, e noi salvati e felici? 3. Tutte le nostre speranze dunque dobbiamo riporle ne' meriti di Gesù Cristo, e da lui sperare tutti gli aiuti per vivere santamente e salvarci; e non possiamo dubitare che questo è il suo desiderio, di vederci santi: Haec est... voluntas Dei, sanctificatio vestra (I Thess. IV, 3). Tutto è vero, ma non dobbiamo noi trascurare di metter la nostra parte per soddisfare a Dio le ingiurie che gli abbiamo fatte e per conseguire colle buone opere la vita eterna. Ciò dinotò l'Apostolo, quando disse: Adimpleo ea quae desunt passionum Christi in carne mea (Coloss. I, 24): Adempio quel che manca alla Passione di Cristo. Dunque la Passione di Cristo non fu piena e non bastò ella sola a salvarci? No, ella fu pienissima in quanto al suo valore, e sufficientissima a salvar tutti gli uomini; nulladimeno, affinché i meriti della Passione sieno applicati a noi, dice S. Tommaso, noi dobbiamo adempir la nostra parte e soffrir con pazienza le croci che Dio ci manda, per uniformarci al nostro capo Gesù Cristo, secondo quel che scrisse lo stesso Apostolo a' Romani: Nam quos praescivit et praedestinavit conformes fieri imaginis Filii sui, ut sit ipse primogenitus in multis fratribus (Rom. VIII, 29).4 Sempre nonperò avvertendo, come avverte lo stesso Angelico dottore, che tutta la virtù che hanno le nostre opere, soddisfazioni e penitenze viene loro comunicata dalla soddisfazione di Gesù Cristo: Hominis satisfactio efficaciam habet a satisfactione Christi.5 E così si risponde a' protestanti che chiamano le nostre penitenze ingiuriose alla Passione di Gesù Cristo, come se ella non fosse stata bastante a soddisfare per le nostre colpe. 4. Ma noi diciamo che a fine di poter esser partecipi de' meriti di Gesù Cristo, è necessario che ci affatichiamo per adempire i divini precetti, ben anche con farci violenza per non cedere alle tentazioni dell'inferno. E questo ci significò il Signore, allorché disse: Regnum caelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud (Matth. XI, 12). Bisogna, quando occorre, che ci facciamo forza colla continenza, colla negazione de' pravi appetiti e colla mortificazione de' sensi, per non restar vinti da' nemici. E se ci troviamo rei per le colpe commesse, dice S. Ambrogio, noi dobbiamo far forza al Signore colle lagrime per ottenerne il perdono: Vim facimus Domino non compellendo, sed lacrymis exorando (S. Amb., Serm. 5). E poi soggiunge il santo per consolarci: O beata violentia, quae non indignatione percutitur, sed misericordia condonatur! O felice violenza, che non vien punita con ira da Dio, ma gradita e rimunerata con misericordia! Siegue a dire che chi fa maggior violenza di questa sorta a Gesù Cristo, egli lo terrà più caro: Quisquis enim violentior Christo fuerit, religiosior habebitur a Christo. E poi conclude: Prius enim ipsi regnare debemus in nobis, ut regnum possimus diripere Salvatoris: Prima dobbiam regnare in noi con vincer le passioni, acciocché possiamo un giorno rapire il cielo che ci ha meritato il nostro Salvatore.6 E perciò bisogna farsi violenza per soffrire le traversie e le persecuzioni, e per vincere le tentazioni e le passioni, le quali senza violenza non si vincono. 5. Il Signore ci fa sapere che noi per non perdere l'anima, quando bisogna, dobbiamo stare apparecchiati a patire agonie di morte ed anche a morire; ma nello stesso tempo ci dice che per colui che sta a ciò preparato, egli combatterà ed abbatterà i suoi nemici: Pro iustitia agonizare pro anima tua et usque ad mortem certa pro iustitia; et Deus expugnabit pro te inimicos tuos (Eccli. IV, 33). S. Giovanni vide avanti al trono di Dio una gran moltitudine di santi vestiti di vesti bianche, perché nel cielo non vi entra cosa macchiata, e vide che ognuno di essi teneva in mano la palma, segno de' martiri: Post haec vidi turbam magnam... stantes ante thronum et in conspectu Agni, amicti stolis albis et palmae in manibus eorum (Apoc. VII, 9). Come? tutti i santi son martiri? Sì signore, tutti gli adulti che si salvano, o hanno da esser martiri di sangue o martiri di pazienza in vincer gli assalti dell'inferno e gli appetiti disordinati della carne. I piaceri carnali mandano innumerevoli anime all'inferno, e pertanto bisogna risolversi a disprezzarli con fortezza. Persuadiamoci che o l'anima si ha da mettere sotto i piedi il corpo o il corpo si metterà sotto i piedi l'anima. 6. Bisogna dunque, replico, farsi forza per salvarsi. Ma questa forza è quella, dirà alcuno, che non posso farmi io, se Dio non me la dona per sua grazia. A costui risponde S. Ambrogio: Si te respicis nihil poteris; sed si in Domino confidis, dabitur tibi fortitudo.7 Dice bene, se guardi le tue forze, tu non puoi niente, ma se confidi in Dio e lo preghi a darti aiuto, egli ti darà la forza di resistere a tutti i nemici del mondo e dell'inferno. Ma in far ciò bisogna patire, non v'è rimedio: se vogliamo entrare nella gloria de' beati, dice la Scrittura, bisogna prima soffrir con pazienza molte tribulazioni: Per multas tribulationes oportet nos intrare in regnum Dei (Act. XIV, 21). Onde S. Giovanni, guardando in cielo la gloria de' santi, intese dirsi: Hi sunt qui venerunt de tribulatione magna et laverunt stolas suas, et dealbaverunt eas in sanguine Agni (Apoc. VII, 14). È vero ch'essi erano in cielo per essere stati lavati nel sangue dell'Agnello, ma tutti eran venuti dopo aver sofferta una gran tribulazione. 7. Stiate sicuri, scrivea S. Paolo a' suoi discepoli, che Dio non permetterà mai che voi siate tentati sopra le vostre forze: Fidelis... Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis (I Cor. X, 13). Iddio è fedele, dicea l'Apostolo, egli ha promesso di darci il suo aiuto bastante a vincere ogni tentazione, se noi glie lo domandiamo: Petite et dabitur vobis: quaerite et invenietis (Matth. VII, 7). Onde non può mancare alla sua promessa. È un errore marcio degli eretici il dire che Iddio comanda cose impossibili ad osservarsi da noi; no, Deus impossibilia non iubet, sed iubendo monet et facere quod possis et petere quod non possis et adiuvat ut possis: così parla il sacro concilio di Trento (Sess. VI, c. 11).8 Dio non comanda cose impossibili, quando comanda ci ammonisce a fare quel che possiamo, e quel che non possiamo a domandar l'aiuto per farlo, ed egli ci aiuta ad eseguirlo. Scrive S. Efrem che se gli uomini non usano la crudeltà coi loro giumenti d'imporre loro maggior peso di quel che possono portare, tanto meno Iddio che molto ama gli uomini permetterà che soffrano tali tentazioni che non possano a quelle resistere: Si homines suis iumentis non plus oneris imponunt quam ferre possint, multo minus hominibus plus tentationum imponet Deus quam ferre queant (S. Ephraem, Tract. de patientia).9 8. Scrive il de Kempis: Crux ubique te exspectat, necesse est te ubique tenere patientiam, si vis habere pacem. Si libenter crucem portas, ipsa portabit te ad desideratum finem.10 Ciascuno in questo mondo va trovando la pace e vorrebbe trovarla senza patire; ma ciò non è possibile nello stato presente: bisogna patire, le croci ci aspettano in ogni luogo ove ci portiamo. Ma come abbiamo da trovare la pace in mezzo a queste croci? Colla pazienza, con abbracciar la croce che ci si presenta. Dice S. Teresa che sente il peso della croce, ancorché sia picciola, chi la strascina di mala voglia: ma chi l'abbraccia volentieri, ancorché sia quella più grande, non la sente.11 E soggiunge il de Kempis che chi porta la croce con rassegnazione, la stessa croce lo condurrà al fine desiderato che deve avere ogni cristiano, di dar gusto a Dio in questa vita e di amarlo eternamente nell'altra: Si libenter crucem portas, ipsa portabit te ad desideratum finem.12 9. Siegue a dire lo stesso autore Quis sanctorum sine cruce? Tota vita Christi crux fuit et martyrium, et tu quaeris gaudium?13 Qual santo è stato ammesso in cielo senza l'insegna della croce? Ma come poteano i santi entrar nel cielo senza croce, se la vita di Gesù Cristo nostro capo e Redentore è stata una continua croce e martirio? Gesù dunque innocente, santo, Figlio di Dio, ha voluto patire in tutta la sua vita, e noi andiamo cercando piaceri e sollazzi? E per dare a noi esempio di pazienza ha voluto eleggersi una vita piena d'ignominie e di dolori esterni ed interni, e noi vogliamo salvarci senza patire o patendo senza pazienza: il che è doppio patire, ma senza frutto e coll'aggiunta del gastigo. Ma come possiamo pensare di essere amanti di Gesù Cristo, se non vogliamo patire per amore di Gesù Cristo che ha tanto patito per nostro amore? Come potrà gloriarsi di esser seguace del Crocifisso chi rifiuta o riceve di mala voglia i frutti della croce, quali sono i patimenti, i disprezzi, la povertà, i dolori, le infermità e tutte le cose contrarie al nostro amor proprio? 10. Non ci perdiamo d'animo, guardiamo sempre le piaghe del Crocifisso, perché da quelle trarremo la forza di soffrire i mali di questa vita, non solo con pazienza, ma ben anche con gaudio ed allegrezza, come han fatto i santi: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (Is. XII, 3). Commenta san Bonaventura: De fontibus Salvatoris, hoc est de vulneribus Iesu Christi.14 Quindi ci esorta il santo a tener sempre fissi gli occhi a Gesù moribondo sulla croce, se vogliamo vivere sempre uniti con Dio: Semper oculis cordis sui Christum in cruce morientem videat qui devotionem in se vult conservare.15 La divozione consiste, come spiega S. Tommaso, nell'esser pronti ad eseguire in noi tutto quel che Dio da noi domanda.16 11. Ecco la bella istruzione che ci dà S. Paolo per vivere sempre uniti con Dio, e sopportar con pazienza le tribulazioni di questa vita: Recogitate enim eum qui talem sustinuit a peccatoribus adversum semetipsum contradictionem ut ne fatigemini, animis vestris deficientes (Hebr. XII, 3). Dice recogitate: per soffrir con rassegnazione e pace le pene presenti, non basta pensare alla sfuggita e poche volte l'anno alla Passione di Gesù Cristo, bisogna pensarci spesso, anzi ogni giorno dare un'occhiata alle pene che patì il Signore per nostro amore. E quali pene patì? Dice l'apostolo: Talem sustinuit contradictionem, fu tale la contraddizione ch'ebbe Gesù Cristo da' suoi nemici che lo fecero diventare, quale appunto avealo predetto il profeta, l'uomo più vile di tutti e l'uomo de' dolori: Novissimum virorum, virum dolorum; sino a farlo morire di puro dolore e sazio di obbrobri, sovra di un patibolo destinato ai più scellerati. E perché volle Gesù Cristo abbracciare questo fascio di dolori e vituperi? Ne fatigemini, animis vestris deficientes, acciocché noi, vedendo quanto un Dio ha voluto patire per darci esempio di pazienza, non ci perdiamo d'animo, ma soffriamo tutto per liberarci da' peccati. 12. Quindi l'Apostolo seguita ad animarci dicendo: Nondum enim usque ad sanguinem restitistis adversus peccatum repugnantes (Hebr. XII, 4). Pensate, dice, che Cristo ha sparso per voi tutto il suo sangue nella sua Passione a forza di tormenti, e che i santi martiri, ad esempio del loro re, han sofferte con fortezza le piastre di fuoco, le unghie di ferro che hanno lacerate loro anche le viscere; ma voi per Gesù Cristo non avete ancora sparsa una goccia di sangue; quando che noi dobbiamo stare apparecchiati anche a dar la vita per non offendere Dio, come dicea S. Edmondo: Malo insilire in rogum ardentem, quam peccatum admittere in Deum meum.17 E come diceva S. Anselmo, vescovo di Cantuaria: «Se io dovessi patire tutti i dolori corporali dell'inferno o commettere un peccato, più presto che commetterlo, eleggerei l'inferno».18 13. Il leone infernale non lascia in tutta la nostra vita di andarci attorno per divorarci; perciò dice S. Pietro: Noi col pensiero della Passione di Cristo dobbiamo armarci contra i suoi assalti: Christo igitur passo in carne et vos eadem cogitatione armamini (I Petr. IV, 1). S. Tommaso dice che la sola memoria della Passione è una gran difesa contra tutte le tentazioni dell'inferno: Armamini, quia memoria Passionis contra tentationes munit et roborat.19 E S. Ambrogio o altro santo, scrive: Si aliquid melius saluti hominum quam pati fuisset, Christus utique verbo et exemplo ostendisset.20 Se il Signore avesse conosciuto che per noi vi fosse altra via migliore per salvarci, fuori di quella del patire, ben ce l'avrebbe fatta sapere; ma andandoci esso avanti colla croce sulle spalle, ci ha dimostrato che non vi è mezzo più atto a procurarci la salute che 'l patire con pazienza e rassegnazione, ed ha voluto darcene egli stesso l'esempio nella sua persona. 14. Dice S. Bernardo che guardando noi le grandi afflizioni del Crocifisso, ci diverranno leggiere le nostre: Videntes angustias Domini levius vestras portabitis (Serm. XLIII, in Cant.).21 Ed in altro luogo scrive: Quid tibi durum esse poterit, cum tibi collegeris amaritudines Domini tui? (Serm. de quadr. deb.).22 S. Eleazaro interrogato un giorno dalla buona sposa Delfina, come soffriva tante ingiurie con animo così tranquillo; rispose: «Quand'io mi vedo ingiuriato, penso alle ingiurie del mio Salvator crocifisso, e non lascio di vista tal pensiero, se non mi vedo affatto rasserenato».23 Grata ignominia crucis ei qui Crucifixo ingratus non est, dice S. Bernardo (Serm. XXV, in Cant.).24 All'anime che vogliono esser grate a Gesù Cristo, non sono dispiacenti ma graditi i disprezzi che ricevono. Chi non abbraccerà con gradimento gli obbrobri ed i maltrattamenti, considerando i soli maltrattamenti che patì Gesù ne' principi della Passione, quando nella casa di Caifas fu in quella notte percosso con pugni e schiaffi, sputato in faccia e con un panno postogli davanti gli occhi deriso da falso profeta, come narra S. Matteo (c. XXVI, v. 67, 68): Tunc exspuerunt in faciem eius et colaphis eum ceciderunt, alii autem palmas in faciem eius dederunt, dicentes: Prophetiza nobis, Christe, quis est qui te percussit? 15. E come mai avveniva che i martiri soffrivano con tanta pazienza i tormenti de' carnefici? Erano essi lacerati con ferri, eran bruciati sulle craticole; forse non erano di carne o avevano perduti i sensi? No; ma dice Pietro Blessense che non attendeano essi a mirar le loro piaghe, ma le piaghe del Redentore, e così poco sentivano i propri dolori; i tormenti non lasciavano di affliggerli, ma essi, per amore di Gesù Cristo, li disprezzavano: Martyr videns sanguinem suum, non sua, sed Redemptoris vulnera attendit, dolores non sentit; nec deest dolor sed pro Christo contemnitur.25 Non vi è dolor così grande, siegue a dire, che volentieri non si sopporti, a vista di Gesù morto in croce: Nihil enim tam amarum ad mortem est quod morte Christi non sanetur.26 Scrive l'Apostolo che noi per li meriti di Gesù Cristo siamo stati fatti ricchi di ogni bene: In omnibus divites facti estis in illo (I Cor. I, 5). Ma vuole Gesù Cristo che per ottenere tutte le grazie che desideriamo, sempre ricorriamo a Dio colla preghiera, e lo preghiamo che per li meriti del Figlio ci esaudisca; e Gesù stesso ci promette che, facendo così, il Padre ci darà quanto gli domandiamo: Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XVI, 23). Così faceano i martiri quando il dolore de' tormenti era molto acerbo ed acuto, ricorreano a Dio e Dio somministrava loro la pazienza di soffrirlo. Il martire S. Teodoto, fra tante crudeltà che gli usarono, sentendo una volta un gran dolore nel tormento datogli dal tiranno in fargli metter più cocci infocati di creta rotta sulle piaghe che gli avevano fatte, pregò Gesù che gli desse forza di soffrirlo, e così restò vincitore, terminando la vita ne' tormenti.27 16. Non ci spaventino dunque tutti i combattimenti che dovremo soffrire dal mondo e dall'inferno; se saremo attenti a ricorrere sempre a Gesù Cristo colle preghiere, egli ci otterrà ogni bene, egli ci otterrà la pazienza in tutti i travagli, egli ci darà la perseveranza, egli finalmente ci darà una buona morte. Grandi sono le amarezze che si patiscono in punto di morte: solo Gesù Cristo può donarci la costanza in soffrirle con pazienza e con merito. Grandi specialmente sono allora le tentazioni dell'inferno che maggiormente in quel tempo si affatica a farci perdere, vedendoci prossimi al nostro fine. Narra il Rinaldo che S. Eleazaro in punto di morte patì orribili battaglie da' demoni dopo aver menata una vita sì santa, talmente che poi disse: Grandi sono le tentazioni infernali in quel punto; ma Gesù Cristo col merito della sua Passione abbatte le loro forze.28 Perciò S. Francesco volle che in morte gli fosse letta la Passione;29 e parimente S. Carlo Borromeo, vedendosi vicino alla morte, si fé collocare dintorno più immagini della Passione ed, a vista di quelle, spirar volle l'anima sua benedetta.30 17. Scrive S. Paolo che Gesù Cristo volle patir la morte: Ut per mortem destrueret eum qui habebat mortis imperium, id est diabolum, et liberaret eos qui timore mortis per totam vitam obnoxii erant servituti (Hebr. II, 14, 15). Sicché Gesù volle morire per distrugger, colla sua morte, le forze del demonio che prima avea l'imperio della morte, e così liberarci dalla servitù di Lucifero, e per conseguenza dal timore della morte eterna. E soggiunge: Unde debuit per omnia fratribus similari ut misericors fieret... In eo enim in quo passus est ipse et tentatus, potens est et eis qui tentantur auxiliari (Ibid. 17 et 18). Volle pertanto prender tutte le condizioni e le passioni della natura umana, fuori nonperò dell'ignoranza, della concupiscenza e del peccato; ed a qual fine? ut misericors fieret, acciocché, sperimentando sovra di sé le nostre miserie, si rendesse verso di noi più compassionevole; giacché molto più si conoscono le miserie col provarle che col solo considerarle; e così poi divenisse più facile a soccorrerci, quando siamo tentati in vita e specialmente in punto di morte. Al che allude quella sentenza di S. Agostino, addotta già nel c. VII [leggi cap. Vi che dice: Si imminente morte turbaris, non te existimes reprobum, nec desperationi te abiicias, ideo enim Christus turbatus est in conspectu suae mortis (Lib. pronost.).31 Dice che Gesù Cristo, approssimandosi alla morte, volle sentir la pena di esserne turbato, affinché noi, se mai in morte ci troviamo turbati, non ci abbandoniamo alla diffidenza, giacch'egli ancora si turbò a vista della sua morte. 18. L'inferno dunque nella nostra morte porrà tutte le sue industrie per farci diffidare della divina misericordia, con metterci dinanzi agli occhi tutti i peccati della vita; ma la memoria della morte di Gesù Cristo ci darà animo a confidare ne' suoi meriti ed a non temere la morte. Scrive S. Tommaso sovra il testo di San Paolo (Hebr. II, 14) e dice: Christus per mortem suam abstulit timorem mortis; quando enim considerat homo quod Filius Dei mori voluit, non timet mori.32 Quando consideriamo che 'l Figlio di Dio ha voluto soffrir la morte per ottenerci il perdono de' peccati, allora fugge, il timore e ci viene il desiderio di morire. La morte per li gentili è l'oggetto di maggiore spavento, pensando che colla morte per essi finisce ogni bene; ma la morte di Gesù Cristo ci dà una ferma speranza che, morendo noi in grazia di Dio, passeremo dalla morte alla vita eterna. Di questa speranza S. Paolo ci dà un argomento sicuro, dicendo che l'Eterno Padre ha dato per tutti noi il proprio Figlio alla morte, per farci ricchi d'ogni bene: Proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum; quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit? (Rom. VIII, 32). Dice: omnia nobis donavit; dunque donandoci Gesù Cristo ci dona il perdono, la perseveranza finale, il suo amore, la buona morte, la vita eterna ed ogni bene. 19. Sicché quando il demonio ci spaventa in vita o in morte, con rappresentarci i peccati della nostra gioventù, rispondiamogli con S. Bernardo: Quod ex me mihi deest, usurpo mihi ex visceribus Domini mei (Serm. 61 in Cant.).33 Quel merito che manca a me per entrare nel paradiso, io me l'usurpo da' meriti di Gesù Cristo, il quale ha voluto patire e morire appunto per acquistarmi quella gloria eterna ch'io non meritata. Scrive S. Paolo: Deus est qui iustificat, quis est qui condemnet? Christus Iesus qui mortuus est, immo qui et resurrexit, qui est ad dexteram Dei, qui etiam interpellat pro nobis (Rom. VIII, 33 et 34).34 Son di molta consolazione per noi peccatori queste parole dell'Apostolo: Deus est, egli dice, qui iustificat, quis est qui condemnet? Iddio è quegli che perdona noi peccatori e ci giustifica colla sua grazia; or se Dio ci rende giusti, chi potrà condannarci come rei? Quis est qui condemnet? Christus Iesus qui mortuus est, etc. Forse ci ha da condannar Gesù Cristo il quale, per non condannarci, dedit semetipsum pro peccatis nostris ut eriperet nos de praesenti saeculo nequam? (Gal. I, 4). 20. Egli si è caricato de' nostri peccati ed ha dato se stesso alla morte per liberarci da questo mondo maligno e condurci seco nel suo regno dove, come siegue a dire S. Paolo, fa anche l'officio di avvocato ed intercede per noi presso del Padre: Qui etiam interpellat pro nobis. Spiega S. Tommaso queste parole, e dice che in cielo Gesù Cristo intercede per noi presentando al Padre le sue piaghe per nostro amore sofferte.35 E S. Gregorio non fa difficoltà di asserire, contra quel che taluno teme di concedere, che 'l Redentore come uomo propriamente, anche dopo la sua morte, prega per la Chiesa militante che siamo noi fedeli: Quotidie orat Christus pro ecclesia (In ps. poen. 5).36 E lo stesso disse prima il Nazianzeno: Interpellat, id est pro nobis mediationis ratione supplicat (Orat. 4 de theol.).37 E lo stesso scrisse S. Agostino nel salmo 29,38 dicendo che Gesù prega per noi in cielo, non già in quanto impetri ivi a noi qualche altra grazia, poich'egli in sua vita impetrò tutto ciò che poteva per noi impetrare, ma prega in quanto esige dal Padre, per li suoi meriti, la nostra salute già impetrata e promessa. E sebbene a Cristo fu dal Padre conferita tutta la potestà, nondimeno questa potestà egli, come uomo, non la tiene se non dipendentemente da Dio. Del resto la Chiesa non usa di pregarlo ad intercedere per noi, mentre riconosce in esso quel ch'è più degno, cioè la divinità, e perciò lo prega a dare come Dio ciò che gli domanda. 21. Ma ritorniamo al punto della confidenza che dobbiamo avere in Gesù Cristo per la nostra salute. S. Agostino seguita ad animarci dicendo che quel Signore il quale ci ha liberati dalla morte, collo sborso di tutto il suo sangue, non vuole che ci perdiamo; e che se le nostre colpe ci separano da Dio e ci rendon meritevoli di esser disprezzati, il nostro Salvatore all'incontro non sa disprezzare il prezzo del sangue ch'egli ha sparso per noi: Qui nos tanto pretio redemit, non vult perire quos emit... Si peccata nostra separant nos, pretium suum non contemnit (S. Aug. Serm. 30 de temp.).39 Seguiamo dunque con fiducia il consiglio di S. Paolo che dice: Per patientiam curramus ad propositum nobis certamen, aspicientes in auctorem fidei et consummatorem Iesum, qui proposito sibi gaudio, sustinuit crucem, confusione contempta (Hebr. XII, 1 et 2). Dice per patientiam curramus ad propositum nobis certamen: poco ci gioverebbe il cominciare, se non seguiamo a combattere sino alla fine; perciò dice per patientiam curramus: la pazienza nel soffrire il travaglio del combattere, ci otterrà la vittoria e la corona promessa a chi vince. 22. Questa pazienza ben anche sarà la corazza che ci difenderà dalle spade de' nemici; ma come otterremo questa pazienza? Aspicientes, dice l'Apostolo, in auctorem fidei et consummatorem Iesum: l'otterremo col tenere gli occhi sempre fissi, nel tempo della nostra pugna, a Gesù crocifisso il quale, come scrive S. Agostino: Omnia bona terrena contempsit Christus, ut contemnenda esse monstraret; omnia terrena mala sustinuit, quae sustinenda praecipiebat, ut neque in illis quaereretur felicitas, neque in istis infelicitas timeretur (S. Aug. De catech. rud.).40 Dice il santo ché Gesù disprezzò tutti i beni di terra, per insegnarci a disprezzargli ed a non cercare in essi la nostra felicità; ed all'incontro volle patire tutti i mali terreni, per insegnarci a non temere le calamità di quaggiù, col sottoporsi egli stesso alle nostre miserie, alla povertà, alla fame, alla sete, alle debolezze, alle ignominie, ai dolori ed alla morte di croce. Indi, colla sua gloriosa risurrezione, volle animarci a non temere la morte, poiché se noi gli saremo fedeli sino alla morte, dopo quella otterremo la vita eterna, ch'è libera da ogni male e piena di ogni bene. Ciò significano quelle parole dell'Apostolo nel testo citato, auctorem fidei et consummatorem Iesum: mentre Gesù Cristo, siccome a noi è autor della fede coll'insegnarci quel che dobbiamo credere, e con darci insieme la grazia di crederlo; così anche egli è il consumator della fede col prometterci di farci godere un giorno quella vita beata che ora c'insegna a credere. Ed acciocché noi siamo sicuri dell'amor che ci porta questo nostro Salvatore e della volontà che ha di salvarci, soggiunge S. Paolo: Qui proposito sibi gaudio, sustinuit crucem. Spiega S. Giovanni Grisostomo queste parole, e dice che Gesù potea salvarci con fare una vita di gaudio in questa terra; ma egli, per renderci più certi dell'affetto che per noi conserva, si elesse una vita di pene ed una morte di confusione, morendo condannato qual malfattore su d'una croce.41 23. Attendiamo dunque, o anime amanti del Crocifisso nella vita che ci resta, ad amare quanto possiamo questo nostro amabil Redentore ed a patire per lui, giacch'egli tanto ha voluto patire per nostro amore; e non cessiamo di pregarlo continuamente che ci conceda il dono del suo santo amore Beati noi se giungeremo ad avere un grande amore a Gesù Cristo! Il Ven. P. Vincenzo Carafa, gran servo di Dio, in una lettera che mandò ad alcuni giovani studiosi e divoti, scrisse così: «Per riformarci in tutta la vita, bisogna mettere tutto lo studio nell'esercizio del divino amore; la sola carità di Dio, quando entra in un cuore ed ottiene di possederlo, lo purifica da ogni amor disordinato e lo rende subito ubbidiente e puro. Dice S. Agostino: Cor purum est cor vacuum omni cupiditate. Il cuore vuoto di ogni affetto terreno egli è puro. E S. Bernardo scrisse: Qui amat, amat et aliud cupit nihil; volendo dire che chi ama Dio non desidera altro che amarlo e discaccia dal cuore ogni cosa che non è Dio. E quindi è che il cuore vacuo si rende anche cuor pieno, cioè pieno di Dio, il quale porta seco ogni bene; ed allora i beni terreni, non trovando luogo in quel cuore non han forza di tirarlo. Qual forza possono avere in noi i piaceri di terra, se godiamo le consolazioni divine? Qual forza l'ambizione de' vani onori e il desiderio delle ricchezze terrene, se abbiamo l'onore di essere amati da Dio e cominciamo a possedere in parte le ricchezze del paradiso? Per misurare dunque il profitto che abbiam fatto nella via di Dio, osserviamo qual profitto abbiam fatto in amarlo, se facciamo spesso nel giorno atti di amore verso Dio, se spesso parliamo del divino amore, se procuriamo d'insinuarlo agli altri, se le nostre divozioni le facciamo solo per dar gusto a Dio, se soffriamo con piena rassegnazione, per dar gusto a Dio, tutte le avversità, le infermità, i dolori, la povertà, i disprezzi e le persecuzioni. Dicono i santi che un'anima che veramente ama Dio non dee meno amare che respirare; mentre la vita dell'anima, così nel tempo come nell'eternità, in ciò consiste, nell'amare il nostro sommo bene ch'è Dio.»42 24. Ma stiam persuasi che non mai giungeremo ad acquistare un grande amore verso Dio, se non per mezzo di Gesù Cristo e se non abbiamo una particolar divozione verso la sua Passione, colla quale egli ci ha procurata la divina grazia. Scrive l'Apostolo: Quoniam per ipsum habemus accessum... ad Patrem (Ephes. II, 18).43 Per noi peccatori sarebbe chiusa la via a domandargli grazie, se non fosse per Gesù Cristo; egli ci apre la porta, egli c'introduce al Padre, ed egli, per li meriti della sua Passione, ci ottiene dal Padre il perdono de' peccati e tutte le grazie che riceviamo da Dio. Miseri noi se non avessimo Gesù Cristo! E chi mai potrà abbastanza lodare e ringraziare l'amore e la bontà che questo buon Redentore ha avuta per noi, poveri peccatori, in voler morire per liberarci dalla morte eterna? Vix enim, dice l'Apostolo, pro iusto quis moritur: nam pro bono forsitan quis audeat mori (Rom. V, 7)? Appena si trova chi voglia morire per un uomo giusto; ma Gesù Cristo, siegue a dire S. Paolo, ha voluto dar la vita per noi nello stesso tempo ch'eravamo iniqui: Cum adhuc peccatores essemus, secundum tempus, Christus pro nobis mortuus est (Vers. 8 et 9). 25. Quindi c'insinua l'Apostolo che se noi siam risoluti di volere amar Gesù Cristo ad ogni costo, dobbiamo sperarne ogni aiuto e favore; ed argomenta così: Si enim cum inimici essemus, reconciliati sumus Deo per mortem Filii eius, multo magis reconciliati, salvi erimus in vita ipsius (Rom. V,10 ). Avvertano dunque coloro i quali amano Gesù Cristo ch'essi fanno ingiuria all'amore che ci porta questo buon nostro Salvatore se temono ch'egli abbia loro a negare tutte le grazie necessarie per salvarli e farli santi. Ed affinché i nostri peccati non ci faccian mancare di confidenza, siegue S. Paolo a dire: Sed non sicut delictum, ita et donum; si enim unius delicto multi mortui sunt, multo magis gratia Dei et donum, in gratia unius hominis Iesu Christi, in plures abundavit (Ibid. vers. 15). Con ciò vuol farci intendere che il dono della grazia acquistataci dal Redentore colla sua Passione ci reca maggior bene di quel che ci ha recato di danno il peccato di Adamo; poiché han più valore i meriti di Cristo a farci amare da Dio, che non valse il peccato di Adamo a farci odiare da Dio. Ampliora, scrive S. Leone, adepti per ineffabilem Christi gratiam, quam per diaboli amiseramus invidiam (S. Leo, Serm. 1 de Ascens.).44 In somma per la grazia di Gesù Cristo abbiamo acquistati più beni di quelli che avevamo perduti per malizia del demonio. 26. Terminiamo.- Anime divote, amiamo Gesù Cristo, amiamo questo Redentore, che troppo merita di esser amato e troppo ci ha amati e par che non gli resti che fare per guadagnarsi il nostro amore; basta sapere ch'egli per nostro amore ha voluto morir consumato da' dolori su d'una croce; e, di ciò non contento, ci ha lasciato se medesimo nel sagramento dell'Eucaristia, dove ci dona in cibo lo stesso suo corpo che per noi sagrificò; e ci dà a bere lo stesso suo sangue, che per noi sparse nella sua Passione. Troppo ingrati gli siamo, non solo se l'offendiamo, ma anche se l'amiamo poco e non gli consagriamo tutto il nostro amore. 27. Oh potessi, Gesù mio, consumarmi tutto per voi, come voi vi siete consumato tutto per me. Ma giacché tanto mi avete amato ed obbligato ad amarvi, aiutatemi ora a non esservi ingrato; e troppo ingrato vi sarei se amassi altra cosa fuori di voi. Voi senza riserba mi avete amato, senza riserba voglio amarvi ancor io. Io lascio tutto, rinunzio a tutto, per darmi tutto a voi e per non aver nel mio cuore altro amore che 'l vostro. Accettatemi, amor mio, per pietà, senza aver conto di tanti disgusti che vi ho dati per lo passato. Guardate ch'io sono una di quelle pecorelle per cui avete sparso il sangue: Te ergo quaesumus, tuis famulis subveni quos pretioso sanguine redemisti.45 Scordatevi, caro mio Salvatore, di quante offese vi ho fatte. Castigatemi come volete, liberatemi solo dal gastigo di non potervi amare, e poi fate di me quel che vi piace. Privatemi di tutto, Gesù mio, ma non mi private di voi unico mio bene. Fatemi intendere quel che da me volete, ch'io, colla grazia vostra, voglio tutto adempirlo. Fatemi dimenticare di ogni cosa, acciocch'io mi ricordi solo di voi e delle tante pene che avete patite per me. Fate ch'io non pensi ad altro che a darvi gusto ed amarvi. Deh guardatemi con quell'affetto con cui mi guardaste nel Calvario agonizzando per me sulla croce, ed esauditemi. Io ripongo in voi tutte le mie speranze. Iesus meus, Deus meus et omnia.46 O Vergine santa, o madre e speranza mia Maria, raccomandatemi al vostro Figlio ed ottenetemi la fedeltà in amarlo sino alla morte. _________________ 1 «Stavasi il Santo di notte.... orando dinanzi una immagine di pittura... rappresentante Cristo con la croce sulle spalle.... quando sentì da essa uscire una voce che pronunziò: «Giovanni, qual premio vuoi per quel che hai fatto e patito?».... Non vi rispose.... indi a poco sentì per la seconda volta quella medesima proposta.... Replicando però in tuono più chiaro ed alto la terza.... soddisfece a Gesù in questi accenti: «Non voglio, Signore, altro premio che patire ed essere disprezzato per voi.» MARCO DI S. FRANCESCO, Vita, lib. 3, cap. 1, n. 10. Opere del Santo, III, Venezia, 1747. 2 Y ansi me parece que nunca me vi en pena después que estoy determinada a servir con todas mis fuerzas a este Senor y consolador mio, que, aunque me dejaba un poco padecer, no me consolaba de manera que no hago nada en desear trabajos. Y ansi ahora no me parece hay para qué vivir sino para esto, y lo que màs de voluntad pido a Dios. Digolo algunas veces con toda ella: Senor, u morir u padecer; no os pido otra cosa para mi.» S. TERESA, Libro de la Vida, cap. 40. Obras, I. 3 «Quanto più questa benedetta Madre s' avvicinava al fine della sua vita.... tanto più si mostrava ardente ed assetata del patire per amor di Sua Divina Maestà. Soleva ella dire che desiderava di vivere solo per patire per amor di Dio, poiché nell' altra vita non v' era luogo a questo glorioso patire.» PUCCINI, Vita, Venezia, 1671, cap. 139. - «Sarebbe stata, dicea ella, in quel nudo patire per volontà di Dio volentieri fin al giorno del giudizio; anzi, per desiderio di più patire, avrebbe voluto che Dio le avesse allungata la vita.» CEPARI E FOZI, S. I., Vita, cap. 62. - «Alius decubuam conficiebat dolor, quod lecto incessanter affixa, ab omni exteriori prohiberetur opere.... dicere solita non potuisse graviorem aliam sibi a Domino umquam infligi poenam, in qua maiorem experta fuisset repugnantiam. Nihilominus, de divino certa beneplacito, tripudiabat prae gaudio, ingeminans frequenter: Pati non mori.» PATRITIUS A S. IACOBO, Ord. Carm., Vita, Francofurti, 1670, lib. 1, cap. 21, n. 6. 4 «Ad hoc quod consequamur effectum Passionis Christi, oportet nos ei configurari. Configuramur autem ei in baptismo sacramentaliter.... Non potest homo secundario configurari morti Christi per sacramentum baptismi. Unde oportet quod illi qui post baptismum peccant, configurentur Christo patienti per aliquid poenalitatis vel passionis quam in seipsis sustineant. Quae tamen multo minor sufficit quam esset condigna peccato, cooperante satisfactione Christi.» S. THOMAS, Summa Theol. III, qu. 49, art. 3, ad 2. - «Satisfactio Christi habet effectum in nobis inquantum incorporamur ei ut membra capiti.... Membra autem oportet capiti esse conformia. Et ideo, sicut Christus primo quidem habuit gratiam in anima cum passibilitate corporis, et per Passionem ad gloriam immortalitatis pervenit; ita et nos, qui sumus membra eius, liberamur quidem a reatu cuiuslibet poenae, ita tamen quod primo recipimus in anima Spiritum adoptionis filiorum (Rom. VIII, 15), quo adscribimur ad hereditatem gloriae immortalitatis, adhuc corpus passibile et mortale habentes; postmodum vero, configurati passionibus et morti Christi (Philip. III, 10), in gloriam immortalem perducimur; secundum illud Apostoli (Rom. VIII, 17): Si filii Dei, et heredes, heredes quidem Dei, coheredes autem Christi: si tamen compatimur, ut simul glorificemur.» IDEM, ibid., ad 3. - «Haec verba (quae desunt passionum Christi) secundum superficiem malum possunt habere intellectum, scilicet quod Christi Passio non esset sufficiens ad redemptionem, sed additae sunt, ad complendum, passiones sanctorum. Sed hoc est haereticum, quia sanguis Christi est sufficiens ad redemptionem etiam multorum mundorum. Ipse est propitiatio pro peccatis nostris, etc. (I Ioan. II, 2): sed intelligendum est quod Christus et Ecclesia est una persona mystica, cuius caput est Christus, corpus omnes iusti: quilibet autem iustus est quasi membrum huius capitis: Et membra de membro (I Cor. XII, 27). Deus autem ordinavit in sua praedestinatione quantum meritorum debet esse per totam ecclesiam, tam in capite quam in membris, sicut et praedestinavit numerum electorum. Et inter haec merita praecipue sunt passiones sanctorum martyrum. Christi, scilicet capitis, merita sunt infinita, quilibet vero sanctus exhibet aliqua merita secundum mensuram suam. Et ideo dicit: Adimpleo ea quae desunt passionum Christi, id est, totius Ecclesiae, cuius caput est Christus. Adimpleo, id est, addo mensuram meam. Et hoc in carne, id est, ego ipse patiens. Vel quae passiones desunt in carne mea. Hoc enim deerat, quod, sicut Christus passus erat in corpore suo, ita pateretur in Paulo membro suo, et similiter in aliis.» IDEM, Expositio super Epistolam S. Pauli Ap. ad Coloss., in caput I, lectio 6. 5 «Aliqua satisfactio potest dici sufficiens dupliciter. Uno modo, perfecte: quia est condigna per quamdam adaequationem ad recompensationem commissae culpae. Et sic hominis puri satisfactio sufficiens esse non potuit.... Alio modo, potest dici satisfactio sufficiens imperfecte: scilicet secundum acceptationem eius qui est ea contentus, quamvis non sit condigna. Et hoc modo satisfactio puri hominis est sufficiens. Et quia omne imperfectum praesupponit aliquid perfectum a quo sustentetur, inde est quod omnis puri hominis satisfactio efficaciam habet a satisfactione Christi.» S. THOMAS, Sum. Theol., III, qu. 1., art. 2, ad 2. 6 «Cogimus ergo regnum caelorum, et vim quodammodo facimus, sicut ait evangelica lectio: Et vim facientes diripiunt illud (Matt. XI, 12). Vim, inquam, facimus Domino, non compellendo, sed fiendo; non provocando iniuriis, sed lacrimis exorando; non blasphemando per superbiam, sed per humilitatem maerendo. O beata violentia! quae non indignatione percutitur, sed misericordia condonatur; beata, inquam, violentia, quae vim patienti bonitatem elicit, et utilitatem tribuit inferenti; mala res admittitur, et de iniuria nemo causatur; vis admittitur, et religio propagatur. Quisquis enim violentior Christo fuerit, religiosior habebitur a Christo. Aggredimur ergo in itinere Dominum, si quidem ipse est via (Io. XIV, 6), et more latronum bonis eum suis exspoliare nitimur, cupimus illi auferre regnum, thesauros, et vitam: sed ille tam dives et largus est, ut non abnuat, non resistat; et cum omnia dederit, nihilominus omnia ipse possideat. Aggredimur, inquam, illum non ferro, non fuste, non saxo; sed mansuetudine, ac bonis operibus, et castitate. - Haec sunt arma fidei nostrae, quibus in congressione certamus. Ut autem his armis uti in vi inferenda possimus, ante corporibus nostris vim quodammodo faciamus: expugnemus membrorum vitia, ut virtutum praemia consequamur; prius enim ipsi regnare debemus in nobis, ut regnum possimus diripere Salvatoris.» Inter Opera S. Ambrosii, Sermones hactenus S. Ambrosio adscripti, Sermo 2, De Natali Domini veniente, n. 3. ML 17-906, 907. - S. MAXIMUS Taurinensis episcopus (+ 465?), Sermones de tempore, Sermo 1, Ante Natale Domini, ML 57-532. - A San Massimo deve attribuirsi questo Sermone, non già a S. Ambrogio. 7 Che questo pensiero non si trovi presso S. Ambrogio, non lo possiamo affermare. Però sospettiamo che, al nome di S. Ambrogio, debba sostituirsi quello di S. Agostino. «Quando quisque cognoscit quia in seipso nihil est, et adiutorium de se nullum habet, arma in illo confracta sunt, bella sedata sunt.... Remaneas inermis, non habens ullum adiutorium tuum: et quanto magis infirmus es, nulla tua arma habens, tanto magis te suscipit, de quo dictum est: Susceptor noster Deus Iacob. Valebas enim quasi per te: conturbaris in te. Perde arma quibus praesumebas: audi Dominum dicentem: Sufficit tibi gratia mea. Dic et tu: Quando infirmor, tunc potens sum. Apostoli vox est. Omnia arma sua perdiderat tamquam fortitudinis suae, qui dicebat: Ego autem non gloriabor nisi in infirmitatibus meis (II Cor. XII, 9, 10)... Quando autem nos Dominus suscipit, numquid inermes dimittit? Armat nos, sed aliis armis, evangelicis, veritatis, continentiae, salutis, spei, fidei et caritatis. Haec arma habebimus, sed non a nobis. Qui potens in te esse cupiebas, infirmum te fecit Deus, ut fortem te faceret de se, quia infirmabaris de te.» S. AUGUSTINUS, Enarratio in Ps. XLV, Sermo ad plebem, n. 13. ML 36-523, 524. 8 CONCILIUM TRIDENTINUM, Sessio 6, Decretum de iustificatione, cap. 11. 9 «Si enim homines exiguo intellectu ac mente praediti, probare et discernere norunt quantum pondus atque onus singula ferre queant animalia, veluti mulus aut camelus, tantumque addunt oneris quantum vires animalis tolerent: et figulus vasa formans, nisi in fornacem ea immiserit ut, igne probata, solida ac dura reddantur, humanis usibus servire nequeunt: novit autem quanto ea tempore oporteat in igne relinquere donec utilia efficiantur, neque, contra, ultra quam sit opus ea in fornace relinquit, ne adusta corrumpantur, neque vicissim ea minus in fornace relinquit, ne adusta corrumpantur, neque vicissim ea minus in fornace relinquit quam necesse sit, ne dissolvantur nullique sint usui; si, inquam, in rebus corruptibilibus et apparentibus, tanta consideratione atque cognitione praediti sunt homines: quanto magis Deus, qui incomprehensibilis est, et ineffabilis scientia et intellectu, totusque sapientia plenus, novit quantis probationibus atque tribulationibus tentationibusque indigeant animae ipsi placere volentes vitamque aeternam consequi desiderantes, sicque fortiter prompteque omnem in spe tribulationem perferentes ad finem usque; tuncque probati et apti regno caelorum redduntur.» S. EPHRAEM Syrus, De patientia. Opera: Opera graece et latine, II, Romae, 1743, pag. 328, 329. 10 «Crux ergo semper parata est, et ubique te exspectat. Non potes effugere, quocunque cucurreris, quia, quocumque iveris, teipsum tecum portas et semper teipsum invenies. Converte te supra, converte te infra, converte te extra, converte te intra, et in his omnibus invenies crucem, et necesse est te ubique tenere patientiam, si internam vis habere pacem et perpetuam promereri coronam. Si libenter crucem portas, portabit te, et ducet te ad desideratum finem, ubi scilicet finis patiendi erit, quamvis hic non erit.» THOMAS A KEMPIS, De Imitatione Christi, lib. 2, cap. 12, n. 4, 5. 11 «Tengo yo para mi, que la medida del poder llevar gran cruz, u pequena, es la del amor.» S. TERESA, Camino de perfecciòn, cap. 32. Obras, III. - «Y no abrazan la cruz, sino llévanda arrastrando, y ansi las lastima, y causa, y hace pedazos; porque si es amada, es suave de llevar; esto es cierto.» Conceptos del amor de Dios, cap. 2. Obras, IV. 12 «Si libenter crucem portas, portabit te, et ducet te ad desideratum finem, ubi scilicet finis patiendi erit, quamvis hic non erit.» THOMAS A KEMPIS, De Imitatione Christi, lib. 2, cap. 12, n. 5. 13 «Credis tu evadere quod nullus mortalium potuit praeterire? Quis sanctorum in mundo sine cruce et tribulatione fuit? Nec enim Iesus Christus Dominus noster una hora sine dolore Passionis fuit, quamdiu vixit. Oportebat, ait, Christum pati, et resurgere a mortuis, et ita intrare in gloriam suam. Et quomodo tu aliam viam quaeris quam hanc regiam viam, quae est via sanctae crucis? Tota vita Christi crux fuit et martyrium, et tu tibi quaeris requiem et gaudium? « IDEM, ibid., n. 6. 14 «Dicit Isaias Propheta: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris; ac si diceret: quicumque desiderat a Deo aquas gratiarum, aquas devotionis, aquas lacrimarum, ille hauriat de fontibus Salvatoris, id est de quinque vulneribus Christi.» S. BONAVENTURA, De perfectione vitae, ad Sorores, cap. 6, n. 1. Opera, VIII, ad Claras Aquas, 1898. 15 «Quoniam devotionis fervor per frequentem Christi Passionis memoriam nutritur et conservatur in homine, ideo necesse est ut frequenter, ut semper oculis cordis sui Christum in cruce tamquam morientem videat qui devotioinem in se vult inexstinguibilem conservare.» IDEM, ibid. 16 «Devotio nihil aliud esse videtur quam voluntas quaedam prompte tradendi se ad ea quae pertinent ad Dei famulatum.» S. THOMAS, Sum. Theol., II-II, qu. 82, art. 1, c. 17 «Multa ei molesta tum a rege, tum a regni proceribus illata sunt.... Ipsum Cantuariense collegium.... ei... se opposuit. Interim ille etiam eos, quos explorate noverat suos esse hostes et persecutores, ad oscula pacis et ad suam familiaritatem passim admisit, ita ut etiam.... amicorum officiis.... illorum..... iniurias praeferre videretur. Qua in re cum a suis reprehenderetur, ille respondebat: «Profecto si mihi utrumque amputent brachium, vel e capite oculos evellant, nihilo mihi cariores erunt. Nolo ego propter eos peccare in Dominum, neque ex culpis alienis mihi damna constare: imo vero malim insilire in rogum ardentissimum quam peccatum ullum sciens admittere in Deum meum.» SURIUS, De probatis Sanctorum historiis, die 16 Novembris: Vita S. Edmundi, Archiepiscopi Cantuariensis, cap. 19. 18 Si hinc, inquit Anselmus, peccati pudorem, et illinc cernerem inferni horrorem, et necessario uni illorum haberem immergi, prius me in infernum mergerem quam peccatum in me immitterem. Mallem enim purus a peccato et innocens gehennam intrare quam peccati sorde pollutus caelorum regna tenere, cum constet solos malos in inferno torqueri, et solos bonos in caelesti beatitudine foveri.» EADMERUS, Cantuariensis monachus, Liber de Sancti Anselmi similitudinibus, cap. 191. ML 159-701. 19 «Praeparatum est homini remedium ex Passione Christi, quo se potest tueri contra hostis impugnationes, ne deducatur in interitum mortis aeternae. Et quicumque ante Passionem Christi diabolo resistebant, per fidem Passionis Christi hoc facere poterant... Semper.... per Passionem Christi est paratum ho minibus remedium se tuendi contra nequitias daemonum, etiam tempore Antichristi.» S. THOMAS, Sum. Theol., qu. 49, art 2, ad 2 et 3. 20 S. AUGUSTINUS, LIber de agone christiano, cap. 11, n. 12. ML 40-297, 298. - S. IO. CHRYSOSTOMUS, In Epist. ad Hebr., hom. 28, n. 3. MG 63-195, 196. - Vedi Appendice, 17. 21 S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 43, ML 183-995. - Vedi Appendice, 18. 22 «Quid tibi dirum vel durum esse poterit, cum recordatus fueris quia ille, in forma Dei, in die aeternitatis suae, in splendoribus sanctorum ante luciferum genitus, splendor et figura substantiae Dei, venit ad carcerem tuum, ad lumum tuum, infixus, ut dicitur, usque ad cubitos in limo profundit? Quid non suave tibi, cum tibi collegeris omnes amaritudines Domini tui? « S. BERNARDUS, Sermones de diversis, Sermo 22, De quadruplici debito, n. 5. ML 183-597. 23 «Ecquid vero, Delphina, prodest irasci? Nihil profecto. Attamen explicabo ego tibi arcanum pectoris mei. Noveris me interdum sentire aliquam in animo adversus infestantes me indignationem; sed illico me converto ad cogitandas iniurias Christo illatas, eumque imitari cupiens, dico mihi ipsi: Etiamsi famuli tui barbam tuam convellerent et colaphos tibi infringerent, nihil esset ad Dominum tuum, qui maiora perpessus est. Certumque habeas, Delphina, me numquam cessare a commemorandis iniuriis Salvatoris mei, donec animus meus plane sit tranquillatus. Atque hanc fateor me a Domino habere peculiarem gratiam, ut eos qui mihi iniuriosi sunt, vel aeque ut ante, vel plus etiam amem, et pro eis specialiter orem: agnoscamque et confitear me maioribus et atrocioribus iniuriis dignum esse.» WADDINGUS, Annales Minorum, anno 1319, n. 5. 24 «Grata ignominia crucis ei qui Crucifixo ingratus non est. Nigredo est, sed forma et similitudo Domini.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 25, n. 8. ML 183-902. 25 «Ille (martyr Laurentius) memor passionum Christi, et eius passionibus condelectans, suorum dolorum obliviscitur, propriique corporis cruciatum non curat, quia peregrinatur a corpore. Nec attribuendum est hoc stupori, sed amori; nec insensibilitati, sed caritati; nec enim sensus doloris amittitur, sed submittitur, et quidquid potest humana malitia, pro Christi amore, contemnitur.» PETRUS BLENSENSIS, Sermo 32, in festo S. Laurentii. ML 207-659. - «O virtus Dei! o constantia martyrum! Ubi erat cor apostoli (Bartholomaei), quando has angustias tolerabat? Certe in Christo, in cruce Christi et in doloribus eius. Memoria Passionis Christi ipsum propriae passionis immemorem faciebat.» IDEM, Sermo 37, de S. Barholomaeo. ML 207-672. - «Ipsius (Reginaldi) gutturi gladium tyrannus infixit. Christi nomen, quod semper in corde et ore, illius gladius intercepit; nullam sui corporis partem movit egregius Christi martyr, carpebat de crucis arbore fructum vitae; ei namque cruciatum in delicias convertebat memoria crucis Christi.» IDEM Passio Reginaldi, Principis olim Antiocheni. ML 207-973. - «Si forte ictus tribulationis difficilis est tibi sustineri, respice Christum, qui pro te vulneratus erat in latere, et tunc facilius sustinebis. Sicut bonus miles, quando videt vulnera domini sui, non sentit sua.» IDEM, De duodecim utilitatibus tribulationis. ML 207-999. 26 «Nihil adeo, fratres, ad mortem est, quod mors Christi non sanet.» PETRUS BLESENSIS, Sermones, Sermo 17, in Quadragesima, De obedientia, cruce et Passione Christi. ML 207-610. 27 «Videns ergo Praeses (Theotecnus) se frustra laborare et fatigatos tortores deficere, depositum de ligno (Theodotum) iussit supra ignitas testulas collocari: quibus etiam interiora corporis penetrantibus, gravissimum dolorem sentiens Theodotus, oravit dicens: «Domine Iesu Christe, spes desperatorum, exaudi orationem meam et cruciatum hunc mitiga, quia propter nomen sanctum tuum ista patior.» Sensit ergo Theotecnus etiam testularum experimentum ad suam voluntatem nihil prodesse; rursumque mandavit in equuleo appendi sublatum ac denuo priores plagas sulcari. Sed nullum corporis sui sensum ostendebat Martyr.... Tandem.... Theotecnus tulit in eum sententiam... Orare coepit Martyr.... Cumque orationem finiens adiunxisset, Amen, conversus vidit Fratres flentes et dixit: «Nolite lugere, Fratres, sed glorificate Dominum nostrum Iesum Christum, qui fecit ut perficerem cursum meum et inimicum superarem: deinceps enim in caelis cum fiducia pro vobis Deum deprecabor.» Et hoc dicto, gaudens excepit gladium.» Martyrium S. Theodoti Ancyrani (cauponis), auctore NILO teste oculato, cap. 4, n. 30 et 31: inter Acta Sanctorum Bollandiana, die 18 maii. 28 «Ad extremum, iam in agone positus, vultum prae se tulit valde terribilem, unde colligi liceret eum in magno versari labore ob quaedam illi obiecta; atque sub eiusmodi conflictu exclamavit: «Magna est daemonum vis; sed eam penitus enervarunt virtus et merita sacrosanctae Incarnationis et Passionis Iesu Christi.» Et post paululum rursus exclamans: «Plane, inquit, vici.» Post aliquantum temporis spatium, cum ingenti clamore dixit: «Totum me divino iudicio committo»; atque his dictis reparatus est vultus eius, et quodam rubore atque splendore multaque elegantia perfusus; atque ita reddidit spiritum; nec fuit vel tenuiter mutatus vultus eius, sed permansit serenus et pulcher.» Odoricus RAYNALDUS (Rinaldi), Annales Ecclesiastici, anno 1323, n. 69. - Cf. WADDINGUS, Annales Minorum, anno 1323, n. 38. 29 «Iussit vir Deo carissimus Evangeliorum sibi codicem apportari, et Evangelium secundum Ioannem, quod incipit ab eo loco: Ante diem festum Paschae (Ioan. XIII, 1), sibi legi poposcit.» S. BONAVENTURA, Legenda S. Francisci, cap. 14, n. 5. Opera, tom. 8, ad Claras Aquas, 1898, pag. 547, col. 1. 30 «Fece accomodare un altare ivi in camera dirimpetto al letto.... sopra il (quale) altare fece porre un quadro della sepoltura di nostro Signore, e un altro simile.... fece mettere sopra il suo letto, e un altro ai piedi dell' istesso letto, nel quale era similmente nostro Signore orando nell' Orto, per potere, da ogni parte che si volgeva, fissare gli occhi ne' misteri sacrati di questa santissima Passione.... Risguardando il Padre (Panigarola) tante pitture con qualche maraviglia, gli disse il Santo, di ciò accorgendosi: «Io ricevo grandissimo conforto e consolazione, in occasione d' infermità, dalla contemplazione dei misteri della Passione di Nostro Signore, e specialmente della sua agonia nell' Orto e della sua sepoltura, principio e fine della santissima Passione.» G. P. GIUSSANO, Vita, libro 7, cap. 12. 31 «Quid est ergo quod ille (Christus) turbatus est, nisi quia infirmos in suo corpore, hoc est, in sua Ecclesia, suae infirmitatis similitudine consolatus est? ut si qui suorum adhuc morte imminente turbantur, ipsum intueantur, nec hoc ipso se putent reprobos, et peiore desperationis morte absorbeantur.» (Non già S. Agostino, ma) S. IULIANUS, Toletanus episcopus, Prognosticon futuri saeculi libri III, lib. 1, cap. 16. ML 96-472. 32 «Si homo timorem istum (timorem mortis) superat, superat omnes; et hoc superato, superatur omnis amor mundi inordinatus. Et ideo Christus per mortem suam fregit hoc ligamen, quia abstulit timorem mortis, et per consequens amorem vitae praesentis. Quando enim considerat homo quod Filius Dei, Dominus mortis, mori voluit, non timet mori.» S. THOMAS, Expositio super Epistolam S. Pauli Ap. ad Hebr., cap. 2 (v. 15), lectio 4. 33 «Ergo vero fidenter quod ex me mihi deest usurpo mihi ex visceribus Domini, quoniam misericordia affluunt; nec desunt foramina per quae effuant; foderunt manus eius et pedes latusque lancea foraverunt.» S. BERNARDUS, In Cantica, sermo 61, n. 4. ML 183-1072. 34 Quis accusabit adversus electos Dei? Deus qui iustificat. Quis est qui condemnet? Christus Iesus, qui mortuus est, immo qui et resurrexit, qui est ad dexteram Dei, qui etiam interpellat pro nobis. Rom. VIII, 33, 34. 35 «Dicitur autem pro nobis interpellare dupliciter. Uno modo pro nobis orando... Alio modo interpellat pro nobis, humanitatem pro nobis assumptam et mysteria in ea celebrata conspectui paterno repraesentando.» S. THOMAS, Expositio in Epist. ad Rom., cap. 8 (in VIII, 34), lect. 7. 36 «Nec mirandum si ea quae nobis solummodo congruunt, quasi sint sua Christus pronuntiat. Unum quippe corpus est tota sancta universalis Ecclesia, sub Christo Iesu, suo videlicet capite, constituta.... Pro membris itaque orat caput in hoc psalmo, ut corporis sui orationem Deus Pater exaudiat, et ut eius clamor ad divinae maiestatis aures ascendat. Quotidie enim orat Christus pro Ecclesia.» S. GREGORIUS MAGNUS, Expositio quinti Psalmi poenitentialis, n. 1. ML 79-602. 37 «Interpellatio... idem significat quod pro nobis, mediationis ratione, supplicare.... Unus enim Deus, unus etiam mediator Dei et hominum, homo Iesus Christus (I Tim. II. 5). Intercedit enim nunc quoque, ut homo, pro mea salute - quoniam cum eo corpore est, quod assumpsit - donec me, asusmptae humanitatis virtute, Deum effecerit; tametsi non iam secundum carnem cognoscatur, hoc est, secundum carnales affectiones, ac, citra peccatum, nostras.» S. GREGORIUS NAZIANZENUS, Oratio 30, Oratio theologica 4, n. 14. MG 36-122. 38 «Ex quo enim homo (Christus est), ex hoc et infirmus; ex quo infirmus, ex hoc et orans.... Si divinitatem Domini nostri Iesu Christi consideres, quis orat? ad quem orat? quare orat? orat Deus? orat ad aequalem? Causam autem orandi quam habet semper beatus, semper omnipotens, semper incommutabilis, aeternus et Patri coaeternus? Intuentes ergo quod per Ioannem, quasi per quamdam nubem suam, ipse intonuit, dicens: In principio erat Verbum etc..... et tenebrae eam non comprehenderunt (Ioan. I, 1-5), huc usque dicentes, non invenimus orationem, nec causam orandi, nec locum orandi, nec affectum orandi. Sed quoniam, paulo post, dicit: Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis (Ibid., 14), habes maiestatem ad quam ores, habes humanitatem quae pro te oret. Nam hoc dictum est ab Apostolo, etiam post resurrectionem Domini nostri Iesu Christi: Qui sedet, inquit, ad dexteram Dei, qui etiam interpellat pro nobis (Rom. VIII, 34). Quare interpellat pro nobis? Quia mediator esse dignatus est. Quid est mediatorem esse inter Deum et homines (I Tim. II, 5)? Non inter Patrem et homines. Quid est Deus? Pater et Filius et Spiritus Sanctus. Quid sunt homines? Peccatores, impii, mortales. Inter illam Trinitatem et hominum infirmitatem et iniquitatem, mediator factus est homo, non iniquus, sed tamen infirmus; ut ex eo quod non iniquus, iungeret te Deo; ex eo quod infirmus, propinquaret tibi, atque ita, ut inter hominem et Deum mediator exsisteret, Verbum caro factum est, id est, Verbum homo factum est.» S. AUGUSTINUS, In Ps. 29, Enarratio 2, n. 1. ML 36-216, 217. 39 «Est autem misericordia Dei abundantissima, et larga eius benevolentia, qui nos sanguine Filii sui redemit, cum propter peccata nostra nihil essemus.... quia nos nihil fieri voluimus peccando.... Placuit tamen illi per misericordiam suam redimere nos tanto pretio; dedit pro nobis sanguinem Unici sui innocenter nati, innocenter viventis, innocenter mortui. Qui nos tanto pretio redemit, non vult perdere quos emit. Non emit quos perdat: sed emit quos vivificet. Si peccata nostra superant nos, pretium suum non contemnit Deus. Pretium magnum dedit.» S. AUGUSTINUS, Sermo 22 (al. de Tempore 109), cap. 9, n. 9. ML 38-153, 154. 40 «Carnalis populus.... exceptis paucis.... carnaliter vivens carnalia praemia desiderabat a Domino Deo.... Omnia ergo bona terrena contempsit homo factus Dominus Christus, ut contemmenda monstraret; et omnia terrena sustinuit mala, quae sustinenda praecipiebat: ut neque in illis quaeretur felicitas, neque in istis infelicitas timeretur.» S. AUGUSTINUS, Liber de catechizandis rudibus, cap. 22, n. 40. ML 40-339. 41 «Qui proposito sibi gaudio sustinuit crucem, confusione contempta (Hebr. XII, 2). Hoc est, licebat ei nihil pati, si voluisset: neque enim peccatum fecit, neque inventus est dolus in ore eius (Is. LIII, 9).... Erat ergo ei promptum, si voluisset, non venire ad crucem.... Si ergo qui minime necesse habebat crucifigi, propter nos fuit crucifixus: quanto magis par est ut nos omnia fortiter feramus? Qui, proposito, inquit, sibi gaudio, sustinuit crucem, confusione contempta. Quid est, Confusione contempta? Probrosam, inquit, elegit mortem. Esto enim, inquit, est mortuus: cur ignominiose? Non propter aliud quam nos docens ut gloriam quae ab hominibus datur nihili ducamus. Propterea cum non esset peccato subiectus, eam elegit, erudiens nos ut adversus eam simus audaces, et eam nihili faciamus.» S. IO. CHRYSOSTOMUS, In Epistolam ad Hebraeos (XII, 2), hom. 28, n. 2. MG 63193, 194. 42 BARTOLI, Vita, lib. 2, cap. 9. - Vedi Appendice, 19. 43 Quoniam per ipsum habemus accessum ambo in uno Spiritu ad Patrem. Ephes. II, 18. 44 «Christi ascensio, nostra provectio est....Hodie enim non solum paradisi possessores firmati sumus, sed etiam caelorum in Christo superna penetravimus: ampliora adepti per ineffabilem Christi gratiam quam per diaboli amiseramus invidiam. Nam quos virulentus inimicus primi habitaculi felicitate deiecit, eos sibi concorporatos Dei Filius ad dexteram Patris collocavit.» S. LEO MAGNUS, Sermo 73 (al. 71), De Ascensione Domini, 1, cap. 4. ML 54-396. 45 Hymnus Te Deum. 46 «Deus meus et omnia.» Oratio quotidiana B. P. FRANCISCI. Opuscula, Pedeponti, 1739, tom. 1, pag. 20.