Una piccola premessa, così anch’io posso credermi una grande scrittrice, anche se sono
altre le cose che accrescono gli uomini.
Innanzi tutto devo dire, a mio discapito, che questo è un libro per pochi ma non per ardore
vanesio, ma per l’amore che io ho cercato di infondere alle parole, ad ogni singola
affermazione.
Amore che nasce dalla passione per il cinema, per quella gioia di comprare il biglietto,
scansare le tende, cercare il posto migliore e aspettare che le luci si spengano e che la magia
cominci.
Fin da ragazzina ho divorato con famelico fervore libri e film. Così leggendo e assaporando
il cinema, la mia solitudine culturale si alimentava di tutte le storie del mondo.
Ho scoperto Bernardo mangiando una pizza estiva con gli amici, in televisione passavano
Novecento, fu la folgorazione. Ancora oggi il profumo del tiglio, le risate di Francesca mi
ricordano Attila e Olmo.
Ho rivisto i suoi film, decine di volte, e ogni volta li denudavo, intuivo così un particolare,
un gesto,
un’incertezza, a me sconosciuti fino allora.
Vedevo il grande cineasta per me mito, trasformarsi in uomo e lo sentivo più vicino, reale,
presente.
Ho raccontato umilmente tre grandi opere che mi hanno aiutato a divenire quella che sono.
Un grazie particolare quindi al suo indubbio talento di vedere oltre l’ovvietà dell’essere.
A colazione con Bernardo
“La verità è che la poesia, i dipinti, la musica
sono cose assi belle,
ma la gente non ci si vede abbastanza.
Ha bisogno di qualcosa di più vistoso;
di un’arte si, ma di un’arte contaminata,
il teatro, il cinema, appunto.
Tu vedi e ascolti fantasmi,
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ombre che ti raccontano favole grate;
ma che portano le tue cravatte,
o almeno quelle che vorresti portare”.
“Il momento della perfetta fusione
dell’opera d’arte con l’anima di un popolo
è quando quest’opera riesce
ad oggettivarsi nella materia vivente del popolo:
materia appunto, che crea la sua forma.
Cinema e romanzo sono la forma d’arte
“oggettiva” d’oggi,
e quindi rappresentativa.
Come una volta l’affresco,
l’architettura, il poema eroico.”
Pietro Bianchi.
Caro Bernardo
hai il gusto, l’intuito, la sensibilità giusta per il cinema.
Di talento ne hai molto, il tuo limite semmai, è non saper tenere sotto controllo le
tue doti.
Sei uno tra i pochi registi italiani a lavorare indifferentemente in patria e
all’estero, cioè con il grande capitale hollywoodiano- newyorchese, e hai sempre
suscitato nei tuoi colleghi italiani, e spesso anche tra i critici, un confuso
sentimento d’invidia e ammirazione.
Sei sicuramente un privilegiato, e i privilegiati debbono pur scontare qualche
ostilità, ed è cominciata subito, con l’esordio.
Nell’estate del 1962, avevi vent’anni e vinsi il “Viareggio Opera Prima” per un
libretto di poesie non eccelse, ma di buona scuola, ti fu maestro Pasolini, amico
di tuo padre Attilio, un poeta bravo e importante, e come se non bastasse fosti a
Venezia con un tuo primo film, LA COMMARE SECCA, abile e agile, ma assai
freddo esercizio di stile su sceneggiatura del medesimo Pasolini.
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Solo a Francesco Maselli, figlio dell’ottima borghesia protetto dai migliori registi
del suo tempo, ma anche dall’apparato non indifferente del PCI, era capitato in
sorte un esordio altrettanto assistito.
Ma se tu, avessi avuto un talento pari a quello di Maselli, non sarei qui oggi a
scrivere di te.
Bertolucci di talento ne avevi e ne hai enormemente, e questo neanche i tuoi più
accaniti detrattori possono negarlo.
Io ti considero “UN ANIMALE DA CINEMA”: hai il gusto, l’intuito, la
sensibilità giusta per il cinema; tra te e il cinema, come mezzo d’espressione e
suggestione per immagini, c’è un rapporto di sintonia immediato e istintivo, forte
come in pochi altri registi della tua generazione, che al tuo confronto figurano
come più intellettualistici o più prosastici.
Il tuo limite è semmai quello del controllo su tanto dono, e sei anzi uno dei primi
registi ad aver mostrato una sindrome che si è poi diffusa: quella di artisti di
enormi ambizioni e di enormi qualità, che sembrano però non essere all’altezza
del loro talento, nei quali si avverte una forte discrepanza tra la loro qualità
estetica e la loro qualità etica.
Il caso più recente di artisti siffatti è quello di Kusturica: “UNDERGROUND” è il
film di un cineasta quasi geniale, ma non è sorretto da una chiarezza di visione e
di progetto, da un’adeguata struttura teorica, Kusturika è un regista che non
riesce a diventare grande poeta perché tra istinto e ragione non fa armonia.
La ragione non è all’altezza dell’istinto.
Per questo i tuoi film che hanno più convinto sono quelli nei quali le ambizioni
sembrano più coerenti:
quelli sulle contraddizioni di una formazione borghese e italica, come lo
stendhaliano PRIMA DELLA RIVOLUZIONE come il moraviano IL
CONFORMISTA, come il borgesiano LA STRATEGIA DEL RAGNO, e più
tardi, rovesciata l’attenzione dai figli ai padri, come la TRAGEDIA DI UN
UOMO RIDICOLO, scritto tutto e solo dal te, film esemplare sulle colpe
borghesi, negli anni bui e confusi del terrorismo.
Film italiani cui si aggiungono volentieri pagine, ma solo pagine di
NOVECENTO, e perfino di PARTNER, nel quale, rifacendoti al SOSIA di
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Fedor Dostoevsky, il giovane autore rivendicava una sorta di schizofrenia, più
recitata che reale, tra privato e politico, tra amore dell’arte e sogno di
rivoluzione, tra eredità verdiana e viscontiana, ma più letteraria, meno teatrale e
aspirazione da nouvelle vague.
La contraddizione era in realtà più fittizia che reale.
Tu Bernardo, figlio della Parma post- verdiana, ossessionato nei primi film
dall’analisi del rapporto edipico, lettore e frequentatore di psicoanalisi fino a un
esteriore compiacimento, ti sei sempre trovato piuttosto bene nei tuoi panni
borghesi, e il massimo di rivoluzione è stato il partito comunista dell’ultimo
padre buono della nostra storia politica, Enrico Berlinguer.
Grande amante del cinema, tu, volevi il grande cinema: il superspettacolo,
Hollywood, le Runaway Production ipermiliardarie, gli Oscar, il successo in più
continenti e non solo in più nazioni.
Questo successo tu hai fatto di tutto per ottenerlo, e l’hai raggiunto grazie a un
film di eccezionale risonanza, ULTIMO TANGO A PARIGI, francostatunitense, l’hai confermato con L’ULTIMO IMPERATORE, cinostatunitense, e più di recente con IO BALLO DA SOLA.
Dei tuoi ultimi film il più coerente mi è sembrato il TE’ NEL DESERTO,
visione molto occidentale e statunitense dell’Africa e del deserto e molto
europea della crisi di coppia; mentre i titoli che coinvolgono l’infanzia mi
appaiono molto più pretestuosi e volontaristici, LA LUNA, L’ULTIMO
IMPERATORE, PICCOLO BUDDHA.
Brani stupendi punteggiano tutti questi film, attraverso i quali tu fai fatica a
definirti, a sceglierti, tu sembri prigioniero di suggestioni letterarie,
cinematografiche, sociologiche, filosofiche, le più varie: non ti è servita la
psicoanalisi, e non sembri aver mai affrontato con adeguato rigore un tuo
percorso di conoscenza, diciamo religioso.
Sei, nonostante questo un grande del cinema? Grande lo sei, ma sei un grande
fragile, un grande che non riesce ancora a dare il capolavoro sorretto
dall’intensità di un rapporto tra talento e progetto, tra estetica ed etica, di cui
invece avremmo un enorme bisogno e che io continuo ad augurarti di
raggiungere.
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D’altronde quanti sono in cinema, gli artisti, nei quali questa coerenza oggi si
esprime, che siano paragonabili, per esempio a un Kubrick o a un vecchio
austero alla Bresson.
Non è facile parlare di te Bernardo, soprattutto oggi, c’è qualcosa che agisce
d’impaccio, qualcosa che si oppone ad un accostamento immediato e puntuale.
Forse la colpa è di quegli atteggiamenti un poco plateali che hanno
accompagnato molti degli interventi critici più recenti: ricordiamo l’ammirazione
a tutti i costi per il regista di successo o l’aria di sottile isteria che ha commentato
lo scandalo- presunto di ULTIMO TANGO A PARIGI.
Forse la scelta è di quelle preventive, magari giuste, ma spesso poco motivate,
che uno si sente in qualche modo costretto a compiere: ci si sente obbligati a
scegliere il primo Bertolucci quello che arriva a STRATEGIA DEL RAGNO
tanto per intenderci, destinato a pochi ma fedeli amici, e l’ultimo quello che
parte dal CONFORMISTA, al quale la fortuna assegna una dimensione, più
vasta ma anche più indefinita.
Un’analisi attenta smentirebbe la fondatezza di questa opposizione: ma per
intanto la si dà, almeno mi pare del tutto necessaria.
Forse la colpa, se colpa la si può chiamare, è infine di te stesso, che da parte tua
sembri far di tutto per complicare il gioco: da sempre bisogna pur dire, cioè da
quando alla COMMARE SECCA, film di scuola pasoliniana, a torto certo, ma
questo è un altro problema, hai fatto seguire PRIMA DELLA RIVOLUZIONE,
completamente estraneo per lo stile alla precedente tradizione italiana; o da
quando A PARTNER, film gridato come pochi, hai fatto seguire ULTIMO
TANGO A PARIGI, del tutto deciso, se si accetta il gioco di parole, a portare
avanti temi “incivili”.
Non una mossa sembra replicata, non una battuta ripetuta.
Parlare di te è dunque difficile: parlarne complessivamente, voglio dire.
Forse l’unica maniera è partire da quei temi ricorrenti, frequenti, ma quasi
sempre posti tra parentesi, che si ripresentano da un film all’altro con una loro
identità fissa pur nel cambiamento generale del tono o dell’ossessione narrativa.
Ricordiamone pure qualcuno di questi luoghi topici: il gusto della danza, la
presenza di figure paterne, l’insistenza di certi movimenti di macchina, quali il
carrello o la steady cam e il dolly.
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C’è tuttavia da dire subito una cosa: questi temi ricorrenti o queste passioni
stilistiche, posti nel cuore di un cinema tra i meno ripetitivi che si conosca, (la
coerenza non è più una virtù potrebbe suggerire qualcuno: certo sembrano
lontani i tempi in cui l’autore era pseudonimo di visibili conferme), sono state
lette da certi critici come una sorta di “spia” delle tue ossessioni o dei tuoi
complessi personali; con una psicoanalisi di riporto, cioè si è operata una
giustapposizione un poco gratuita tra biografia del reale e trasformazione
simbolica.
Seguendo questa strada è facile trovare dei disegni coerenti o dei quadri
d’insieme: basti ridurre i film a una trama d’indizi e di sintomi che servono solo
a far luce sui momenti personali e privati e il gioco come si dice, è fatto.
Ma la verità è un’altra molti dei leit-movie del tuo cinema e molti dei dati sulla
tua biografia, pur intersecandosi e quasi ricorrendosi, giocano ciascuno ruoli più
segreti o più cifrati di quello che un semplice combaciarsi lasci supporre.
Detto questo dovrebbe essere chiaro perché qui si esordisce dando un po’
d’attenzione a tre figure chiave dei tuoi film:
la figura del viaggio legata ad un andare e venire rispetto al luogo d’origine, la
figura dell’ambiguità, legata spesso a un disegno generazionale,
e infine la figura della morte, legata ad un rapporto padre- figlio.
Analizzando queste figure si avrà un duplice guadagno: da una parte troveremo
un punto di
vista unitario, che per ora sottolinei le analogie tra film e film, piuttosto che le
differenze, di queste parleremo in seguito, dall’altra potremmo sondare ciascun
motivo in profondità, vedendo a quali complicità conduce e verso quale senso
diriga: allora al di là della giustapposizione un po’ facile di biografia reale e
biografia immaginaria, scopriremo degli accordi più efficaci, quali ad esempio, il
rapporto tra occasioni narrative e scelte stilistiche, il rapporto tra circostanze
produttive e decisioni di fondo.
Sarà in pratica, scoprire una rete di ragioni, una rete serrata a più tessiture; la tua
rete, appunto.
Il tema del viaggio, innanzi tutto.
I tuoi personaggi viaggiano molto, non abitano stabilmente in un certo posto, vi
si fermano soltanto.
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Nella COMMARE SECCA, l’assassino non è romano, viene dal Veneto: in
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE chi arriva è Gina, la zia di Fabrizio; in LA
VIA DEL PETROLIO è tutto un andare, uno scoprire, un camminare, il
Giacobbe di PARTNER arriva da Parigi e il Marcello Clerici del
CONFORMISTA ci va.
Ora a ben guardare il viaggio si svolge sempre con modalità particolari; l’arrivo,
ad esempio, è causa spesso di uno spostamento che sembra difficile, se non
impossibile superare.
Si pensi alla situazione classica di due estranei come Giacobbe in PARTNER e
Paul in ULTIMO TANGO: il loro disagio non è solo morale, ma anche
geografico, sono infatti lontani dalla loro terra d’origine, di qui il bellissimo
monologo di Paul sulla campagna della propria infanzia, pieno di nostalgia e di
amore.
Se gli arrivi creano imbarazzo, le partenze non sono meno problematiche: tu,
Bernardo sembri restio a mostrarle, le dai sempre come già avvenute, anche se in
cambio attribuisci grande importanza ai motivi che le hanno provocate.
Non viste, ma necessarie, queste partenze chiamano in causa ragioni
essenzialmente private, si pensi ad Athos che va a Tara per ritrovare l’amante
del padre ed è costretto ad indagare sulla morte di costui non per il paese, che sa
già tutto, ma per sé: si pensi al Marcello Clerici, che è partito per Parigi non solo
per una missione “speciale”, ma soprattutto per ritrovare se stesso in un
conformismo e in una normalità duramente conquistate.
Il peso narrativo di queste partenze, come si vede, è sempre cruciale: si parte per
conoscere, per sapere, per trovare, per scoprire.
Si parte soprattutto per ritornare, fisicamente e moralmente, sulle tracce di un io
assai riposto, si parte, anzi si è partiti.
Al passato, e motivata con ragioni private ma vitali, la partenza in questi film
sembra coprire un ruolo quasi di fondamento.
Ecco dunque come nel tuo cinema si dispone la figura del viaggio; ricca di arrivi
traumatici e avara nel mostrare partenze più essenziali.
Sarebbe facile allora risolverla mettendogli contro, come commento e
spiegazione il racconto che tu fai del tuo, quello che ti ha portato a trasferirti, a
undici anni, da Parma a Roma: “…in principio Roma era soltanto intollerabile
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sofferenza…ma tornavamo sempre in campagna per le feste, per le vacanze, e la
casa mi appariva nelle dimensioni dell’infanzia, enorme, stupenda…”
Le difficoltà dell’andare e il desiderio del ritornare sono esplicitamente confessati
in molte tue interviste, così come erano già suggeriti in una delle prime poesie di
IN CERCA DEL MISTERO, la tua raccolta pubblicata nel 1962, che ti valse il
“Viareggio Opera Prima” di quell’anno.
“che voglia di scappare via
da Roma, senza dir niente
in famiglia e alla gente
che mi saluta per via…”
Sarebbe dunque facile risolvere la figura del viaggio con una semplice
giustapposizione, ponendola come trasformazione simbolica di un dato
biografico.
In realtà questo tema ci permette anche delle osservazioni che travalicano un
rapporto così riduttivo; serve anche a suggerirci come funziona il tuo cinema, ad
esempio.
Basti pensare, alla presenza e al ruolo del viaggio in molti generi cinematografici,
ad esempio, nel documentario, nel film di guerra o nel westner, dove esso è
percorso verso o attraverso l’ignoto, mezzo di comunicazione tra la cultura e la
presunta natura, occasione o preparazione diretta del conflitto;
basti pensare a questa presenza e a questo ruolo per confrontarlo con l’uso che
se ne fa qui, per cominciare a capire come non ci siano solo significati magari
personali e profondi, ma anche rimandi precisi, apparenze specifiche.
Voglio affermare che il tuo cinema, pur non essendo in senso stretto, di genere,
mostra di non disdegnare una ripresa e un riutilizzo di elementi narrativi già
collaudati, ora attraverso trapianti formalmente rispettosi, ora attraverso movenze
parodistiche, comunque sempre con la coscienza dell’effetto che ne deriva.
Questo rinvio molto particolare al genere, del resto può essere ulteriormente
precisato, quando si pensa a quanto il tuo cinema ripercorra, sia letteralmente sia
metaforicamente, i modi dell’inchiesta: lo fa ad esempio quando mette in scena
una ricerca, (l’inquisizione della polizia nella COMMARE SECCA, il lavoro di
scoperta del petrolio in LA VIA DEL PETROLIO, la conquista della verità in
STRATEGIA DEL RAGNO), lo fai ancora quando rendi
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percettibile un certo lavoro degli e sugli attori vedi, ULTIMO TANGO, lo fai
infine quando scegli dei movimenti di macchina per così dire in prospettiva, e
cioè carrelli, dolly e panoramiche che indagano la realtà profilmica
progressivamente e inesorabilmente.
A questo punto potrei anche far tornare i conti: l’idea dell’inchiesta è prossima
a quella di un movimento, movimento ora di un soggetto che vuole conoscere,
ora di una macchina da presa che cerca di liberarsi dalla fissità del suo supporto;
dunque viaggio anche quando non è direttamente rappresentativo di un modo
narrativo che suggerisce pur sempre i suoi gesti e i suoi modi.
L’andare è una suggestione irrinunciabile.
Ma il viaggio non entra nel tuo cinema solo come riferimento magari
contraddittorio ai meccanismi del “genere, né solo come rinvio a certe scelte
forse inconsapevoli, la presenza dell’inchiesta potrebbe essere una di queste, se
tu indichi un funzionamento lo fai suggerendo anche una condizione materiale di
esistenza di questo stesso cinema.
Un cinema “emigrante” si potrebbe infatti parodiare; emigrante ai tempi di
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE, il film ignorato in Italia adorato in Francia a
causa di una cifra stilistica che ti poneva , decisamente al di fuori dei tentativi
autocritici di superare le certezze realistiche e neorealiste, emigrante ai tempi di
LA VIA DEL PETROLIO, ed in maniera duplice, sia perché incursione nel
regno del documentario e della televisione, sia perché nato dal trasferimento in
Persia sulle tracce dell’ENI e degli operai italiani che lavorano laggiù; emigrante
anche nello splendore produttivo di ULTIMO TANGO o di NOVECENTO,
nella misura in cui si arriva ad essere un oggetto senza nazionalità o
sovranazionale pur partendo da dati apparentemente settoriali, una vicenda
limite in ULTIMO TANGO, una storia di provincia in NOVECENTO.
Quest’ultima annotazione merita di essere precisata, visto che coinvolge un
problema oggi cruciale.
Ciò che infatti manca in molta parte del cinema contemporaneo è lo scontro tra
un’ipotesi di universalità, del resto si dice che il linguaggio filmico sia collettivo
per eccellenza, ad un’esigenza di maggior circoscrizione.
Ogni film sembra ricercare più un proprio pubblico definito.
Di qui indecisioni, equivoci, ma anche scelte radicali a favore dell’una o
dell’altra soluzione.
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Ora, Bernardo, come dirò, più avanti, imposti il tuo cinema più recente proprio
in modo da restare dentro questa alternativa: tu, in un certo senso, proponi un
percorso tra due poli opposti.
Ecco che il tema del viaggio si riaffaccia, e si dichiara di nuovo essenziale.
Non è un caso infatti che ULTIMO TANGO A PARIGI, tanto per andare ad un
titolo preciso, si costruisca su di un attraversamento di fattori eterogenei, ciascuno
con una sua identità specifica, e dunque in sé limitato ma capace di offrirsi ad
una decifrazione immediata quando collocato nell’insieme, si pensi al gioco
delle diverse culture che i personaggi manifestano, americana, europea
,autodidatta, istruita, vitalistica, riflessiva, si pensi al rapporto tra la generalità
dello schema narrativo proposto e la particolarità della situazione raccontata; si
pensi alla complessità del sistema emozioni che il film propone, dall’Atalante di
Vigo, al cinema- verità in cui Tom si impegna.
Del resto bastano i risultati commerciali di ULTIMO TANGO a confermare
quest’impressione di percorso tra gli opposti: al successo del film, si oppone ad
esempio il fatto che in America esso sia stato programmato nello speciale circuito
porno dei Blue Movies, questo attraversamento dei contrari, dunque, potrebbe
essere il senso ultimo del tuo viaggio che colpirebbe la volontà di non arrestarsi
ad una o all’altra delle tappe, ma il desiderio di ripercorrere in ogni caso i
termini del problema.
Si comprende allora l’esitazione a partire, e lo spossamento all’arrivo.
Il secondo dei tuoi grandi temi è l’ambiguità: un’ambiguità legata, nei
personaggi dei tuoi film , ad un’insicurezza del proprio io, ad un incertezza del
proprio ruolo morale o anche a un’apertura non dichiarata ma sottintesa verso
possibilità poi non percorse, ad un tentativo di fare ciò che poi non si fa, ad
apparizione di gesti solo sognati o solo ricordati.
L’ambiguità è infatti una costante dei tuoi eroi, e pur assumendo facce diverse
anche se non contrastanti, si manifesta il più delle volte secondo una figura tipica,
e cioè attraverso una sorta di squilibrio o di disagio rispetto ai tempi.
Questa precisazione dell’ambiguità in chiave didattico o più generale di
rapporto di delega con il prima e il dopo ci può riportare alla mente alcune tue
dichiarazioni, confermate in più di un’intervista e riguardanti la tua generazione.
Una generazione, tu dici troppo giovane per la resistenza, per il dopoguerra, per
il neorealismo, e troppo vecchia per una cultura teologica o per la grande
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esplosione giovanile del “68; una generazione insomma stretta tra un magistero al
passato ed un apprendistato al futuro; una generazione ambigua per forza.
Ma, di nuovo, non in questa semplice giustapposizione che si esaurisce il senso di
una figura pure costante, forse c’è dell’altro; forse c’è in gioco una biografia
squisitamente cinematografica, altrettanto cifrata di quella reale, con il ricordo e il
peso di un esordio per così dire ambiguo, irrimediabilmente “ post” e
necessariamente “ pre”.
Mi spiego subito.
Tu, Bernardo, esordivi, dal punto di vista generazionale, sotto una strana stella:
all’inizio degli anni settanta, per quanto la critica si ostini a leggere ogni cosa
secondo l’ottica del neorealismo, qualcosa stava sensibilmente mutando nel
panorama italiano.
Ecco allora dove possiamo rintracciare altre radici alla figura dell’ambiguità: qui,
in questa tensione di partenza, in questo squilibrio pur attuale, in questo gioco di
“post” e di “pre”, di non più e non ancora, gioco che si rivela del resto in alcuni
elementi tra le righe dei tuoi film, ad esempio nella realtà dei nomi.
Il nome insomma è il sintomo dell’ambiguità della situazione generazionale:
rimanda alla purezza del passato o al corrompimento del presente.
Ma in te il dato cui si è accennato prima ossia quello della transizione, non è
tipico solo dell’esordio, esso, sia pur sotto altra veste, riappare anche negli ultimi
film.
Oggi io posso affermare che il tuo cinema si propone come un cinema “ classico”
nella misura in cui non solo raccoglie la tradizione di una ricchezza di mezzi di
un’alta spettacolarità, di una sostanziale facilità di approccio, ma anche e
soprattutto nella misura in cui è deciso a scontrarsi con l’immaginario di un
pubblico senza confini; esso non è come tanta parte del cinema “moderno”, un
cinema per gruppi o per settori o per mode o per occasioni contingenti, ma è un
cinema che ha la presunzione di assumere per sé una socialità la più ampia
possibile e di diventare elemento marcante di un’epoca.
Dunque commemorazione del passato e futura memoria.
Il terzo dei nuclei tematici presenti nei tuoi film è quello legato alla figura della
morte.
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La morte, infatti, scandisce molte vicende e segna molti destini e molte sono le
circostanze nel tuo cinema in cui gioca un ruolo cruciale e pare avere un peso
particolare, quello che segna il contemporaneo apparire di una figura paterna.
Quindi per quanto l’immagine paterna sia un luogo topico nel tuo cinema, e per
quanto sia sempre introdotta con lo spessore dell’ambivalenza, ciò cui si associa
sistematicamente è la liberazione di pulsioni di morte, letterali o figurate che
siano.
Sarebbe allora facile, e i più lo fanno, commentare questo fatto evocando Edipo
e dandogli una consistenza reale, del resto agli artisti è permesso avere problemi
in famiglia: sarebbe facile trovare la giustapposizione esatta nello straordinario
amore di Attilio per i figli, un amore decisamente possessivo e forse soffocante; si
cita spesso la sua ossessione, che tu bambino ti facessi male in qualche modo, o
sul versante opposto ricordare il tuo esordio come poeta, ad imitazione di tuo
padre e poi l’improvvisa cessazione di ogni attività con la conquista di uno
strumento autonomo, e cioè del cinema, sarebbe facile, ancora, allargare lo
sguardo a certe figure vicarie: “Pier Paolo Pasolini è sempre stato una figura
paterna per me, e così quando mi ha parlato male di ULTIMO TANGO, io ho
avvertito un senso di liberazione.
Più me ne parlava male, più mi si distruggeva come figura paterna…”
Sarebbe facile fare tutto questo, ma non sarebbe giusto o almeno non del tutto
giusto: un tale confronto non può esaurire un’analisi; può servire da esordio non
certo da conclusione.
Il rapporto tra la figura della morte e la presenza paterna può servire invece per
riproporre un problema che ho già accennato, quello di una definizione del tuo
cinema..
Ciò che allora possiamo mettere in gioco è l’atteggiamento verso i “genitori”
filmici: in primo luogo il realismo, ossia il padre effettivo o presunto di tutto il
cinema italiano del dopoguerra.
Quale dunque la tua posizione? Continuando ad usare i sistemi elementari e
banali di parentela, diremo quella di un figlio ribelle ma consapevole.
È ULTIMO TANGO, che ci consegna l’immagine esemplare: l’albergo di Paul,
ospita assieme ai ricordi di un matrimonio conclusosi tragicamente, le figure più
rappresentative di una stagione cinematografica ormai lontana: Massimo Girotti è
diventato un amante vanitoso e in fondo sciocco, Maria Michi una madre
incapace di capire, Giovanna Galletti una prostituta.
Ciò che si compie insomma è una rivisitazione del neorealismo, dissacratoria e
insieme esorcistica.
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Del resto come ho già accennato, tu, Bernardo hai giocato fin dall’esordio su di
un rapporto di ripresa- distanziazione rispetto ai più immediati antecedenti,
ponendoti in un’area stilistica che potremmo chiamare post- realistica.
LA COMMARE SECCA, infatti, se si fa riconoscere per la situazione base del
racconto, sceglie anche moduli espressivi, decisamente “altri”: i quattro episodi di
cui è composto sono costruiti guardando rispettivamente al cinema giapponese,
al cinema fantastico, al cinema verità, e solo l’ultimo, tenero e romantico,
direttamente ad un certo realismo sentimentale e liricheggiante.
Se si volesse trovare l’albero genealogico di PRIMA DELLA RIVOLUZIONE,
poi, si sarebbe costretti a compiere giri sinuosissimi: per quanto la vicenda possa
trarre in inganno, in questo film c’è del neorealismo solo attraverso Rossellini.
Al di là del gioco di parole, ciò che importa è che le parentesi si infittiscono:
anche l’amicizia dei coetanei serve ad allontanare il peso dei genitori.
Il distacco, non solo dal neorealismo ma dal realismo tout-court, diventerà
evidentissimo in PARTNER, dove sono distrutti, letteralmente, tutti i motivi di
verosimiglianza: la finzione si rivela in quanto tale e il cinema dichiara di non
avere in sé la possibilità di esibire il reale.
L’atto di violenza a questo punto è radicale, e si manifesta con una definitiva
messa a morte del padre.
Ma i tuoi padri cinematografici, non sono solo il realismo e il neorealismo, altre
famiglie sono coinvolte.
Il cinema americano classico, ad esempio, certamente amato, e perciò
esorcizzato, PARTNER di nuovo, ci consente il richiamo puntuale: una lunga
sequenza in tram, tra due innamorati, come non ricordare, Aurora di Murnau è
conclusa con l’assassinio della donna invece che con la rappacificazione: il gusto
della battuta evasiva è confermato.
Ma si potrà dire a questo punto che un po’ tutto il cinema classico, quel tuo
cinema, che come si è suggerito, cerca di raccogliere l’eredità riprendendone la
funzione principale, è un po’ tutto il cinema classico, dicevo, che viene rivisitato,
violentato, riproposto, in una tensione incessante di amore folle e di odio
distanziatore.
Cinema – padre per eccellenza, dunque: per virtù intrinseca come non
riconoscere quanto gli dobbiamo?
E’ per ammissione consapevole del figlio che prendendo le distanze per fissarsi
un’identità, ne ricalca intanto fedelmente le orme.
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Se allora vogliamo rincorrere per forza le dichiarazioni d’autore, ecco che in una
delle tue prime interviste il trinomio padre- cinema- violenza è introdotto con
ingenuità solo presunta, mescolando biografia reale e biografia artistica:
“Mio padre mi insegnava a vedere il cinema, a capire il cinema, ad amare il
cinema .
Il mio amore per il cinema dipende quindi in gran parte dal suo amore per il
cinema, come il suo amore per la campagna viene fuori dall’amore di mio
nonno per la campagna.
Io ho avuto la fortuna di poter guardare ad una cultura anche cinematografica,
che esisteva prima di me, di avere delle radici, magari per potermene liberare.
Le cose sono dette chiaramente, mi pare: più che una constatazione, tu qui detti
un programma.
Ma se qualcuno trova il gioco troppo facile, e con ciò non si dichiara persuaso,
pensi allora alla funzione che hanno nei tuoi film le frequentissime citazioni
cinematografiche.
Le citazioni cinematografiche non sono soltanto un vezzo intellettuale, né un
omaggio per partito preso, né una strizzatina d’occhio allo spettatore più
intelligente, ma sono anche e soprattutto indici seminati ad arte per far riflettere,
sono delle riprese nel senso letterale del termine, e dunque il computo di un
eredità o il controllo di un bilancio.
E questo qualunque sia il loro valore apparente: il rimando all’Atalante di Vigo,
ad esempio, ha una portata analoga sia se svolto con affetto, sia se proposto con
ironia.
Citare è mettere il proprio accanto all’altrui; meglio è esercitare una violenza
sorvegliata che permette qualche domanda sull’identità e la confusione dei ruoli:
insomma è un gioco di famiglia un poco aspro che condotto con tatto, si apre e
si chiude con un confronto fra genitori e figli.
I
n questo senso, ciò che fin qui si è cercato di costruire è stata una sorta di mappa
del tuo universo, una rete, si è anche detto, nata dalla decifrazione degli elementi
piuttosto che da semplici constatazioni.
Ma ora si cercherà di cambiare registro alla lettura: nelle prossime pagine,
passando all’esame dei singoli film non si punterà più sull’accumulo dei motivi
ma sull’analisi del principio di costruzione cui ogni opera tende o sembra
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obbedire , non più su relazioni spesso solo metaforiche ma su una letteralità di
certi procedimenti.
Non sarà un tradimento di ciò che fin qui si è fatto, sarà invece la verifica,
condotta da un altro punto di vista, dei dati fin qui rinvenuti .
Passando ai singoli testi, insomma, i fili resteranno gli stessi, anche se cambierà la
forma della matassa.
Ma i rischi ci sono e il più pericoloso , nel ripercorrere film dopo film la tua
carriera cinematografica, è il precipitare inesorabilmente verso lo stereotipo.
La ragione sta in una tradizione critica che raramente è andata oltre l’incontro
occasionale: ci si è quasi sempre accontentati del primo sguardo , o della prima
definizione a botta calda, tra le eccezioni vorrei ricordare l’ottimo quaderno di
Morando Morandini per l’Aiace.
Ora che invece si è programmaticamente costretti alla revisione e alla rilettura,
questi stereotipi possono funzionare più che mai da impaccio; soprattutto nei
confronti di quella tua caratteristica di cui si è detto nelle pagine precedenti, e
cioè del tuo far coesistere indicazioni diverse, della tua apertura a più soluzioni
possibili, del tuo atteggiamento ambivalente verso la tradizione.
Qui ogni riduzione, specie se un po’ violenta, non può che riuscire mortale.
Per cercare dunque di evitare questi passi faremo bene ad esaminare ciascun film
seguendo un duplice binario: da una parte tenteremo una descrizione dei suoi
elementi tipici, dall’altra rischieremo un confronto con le letture che ieri non
sono state date e con la circostanza in cui esso è stato prodotto.
Per quanto possibile sarà questo lo schema dell’opera, che verterà su tre dei tuoi
“grandi” lungometraggi, a mio avviso i più espressivi, o meglio i più emozionanti
e dilanianti ULTIMO TANGO A PARIGI, IL TE’ NEL DESERTO, IO
BALLO DA SOLA. Qui io ho ritrovato la tua essenza.
Grazie.
Ultimo tango a Parigi
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Una situazione blandamente schizofrenica, influenza il lavoro per Ultimo tango a
Parigi, un film di attori e di atmosfere, anzi giocato soprattutto sul volto e sulla
fisicità magnetica di una celebre, immortale star, Marlon Brando.
Questo Brando, invecchiato, bellissimo, con i capelli un po’ lunghi e grigi, e un
cappotto di cammello s’imprime in modo indelebile nell’immaginario della
generazione del sessantotto e di quella immediatamente successiva.
Infatti, Ultimo tango, ci parla degli anni dopo la Rivoluzione, anche sessuale,
mediante i caratteri di Jeanne eTom, mentre Paul, terzo polo del classico
triangolo, rappresenta la memoria, la tradizione, il cinema dei padri.
Ma Brando recita anche se stesso, cioè il selvaggio che è stato, l’anticonformista,
il ribelle, il bad guy, la coscienza sporca di un’industria dello spettacolo
edificante e retorica.
La biografia di Paul, narrataci dalla domestica, macchiata dal sangue di Rosa, è
emblematica.
“Un tipo quieto, faceva il pugile, ma gli è andata male, poi è diventato attore, ha
trafficato nel porto di New York, ha fatto il rivoluzionario nell’America del Sud;
giornalista in Giappone, un giorno sbarca a Tahiti, si arrangia, piglia la malaria,
poi arriva a Parigi e qui, qui trova una con un po’ di soldi e la sposa.”
È una biografia anche cinematografica, in cui indirettamente si citano le
interpretazioni di Brando, Fronte del porto, viva Zapata, Sayonara, gli
ammutinati del Baunty.
Ma prima di tutto un’enumerazione epica, la celebrazione di un mito, quello del
viaggiatore condannato ad errare, simile all’olandese volante o al vecchio
marinaio di Coleridge.
Esploratore, intellettuale, artista, petroliere come Draker, baleniere come Achab,
trafficante d’armi come Rimbaud, Maudit e illuminato, tuttavia quasi un
veggente o un profeta.
In seguito Paul, a letto, narra a Jeanne il suo passato, replicando una delle scene
iniziali di Ossessione di Visconti, dove Gino appena dopo aver fatto l’amore con
Giovanna, brevemente racconta i suoi trascorsi e si mitizza.
La tua strategia è proprio quella di imbrigliarci in un caleidoscopio di riferimenti,
soprattutto extratestuali.
C’è poi il set, lo spazio claustrofobico dell’appartamento rosso a cui si accede
subito.
Siamo in piena, divina, celluloide.
Ecco i titoli di testa, disposti prima a sinistra e poi a destra di due dipinti di
Francis Bacon, quello di Un uomo in T-shirt che, plasmato dall’angoscia, occupa
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un divano scarlatto, e quello di una donna dal volto piagato, tumefatto, posta su
una sedia che sembra uno strumento di tortura.
Finiti i titoli, i due quadri, si affiancano e comincia il film, che ripeto ancora è
iniziato da un pezzo.
Anche questo sei tu, cioè l’illusione, l’ammiccare al pubblico tutto, agli
spettatori avvertiti, a quelli d’essai, ai buoni lettori, agli addetti ai lavori.
La citazione colta di Bacon, e aver concepito la scenografia principale di Ultimo
tango secondo i colori e le volumetrie del pittore, significa annunciare a chi
intende, sia le intenzioni della storia, sia la tua poetica.
L’arte di Bacon è legata all’estetica settecentesca del sublime, alle teorizzazioni
di Burke, Kant e Schiller.
Il primo ritiene che il bello sia opposto al sublime e che quest’ultimo nasca dai
sentimenti di paura e di orrore suscitati dall’infinito, dall’abnorme, da tutto ciò
che è terribile e riguarda cose terribili, ad esempio il vuoto, l’oscurità, la
solitudine, il silenzio.
Questo orrore dilettevole, Kant scrive che se il giorno è bello, la notte è sublime,
consente l’inserimento dell’informe e del brutto naturale nell’ambito
dell’educazione estetica.
Perciò Paul e Jeanne di Ultimo Tango si chiudono in una monade baconiana,
invero molto teatrale, dove improvvisano uno psicodramma nello stile del living,
alla ricerca di emozioni sublimi.
Vuoto, oscuro, silente, remoto, l’appartamento è come un utero e come la
caverna di Platone, ma vi campeggia un “mostro”, quei mobili accatastati in un
angolo e ricoperti da un lenzuolo bianco, che evoca appunto la sostanza
baconiana e orrorifica dell’apologo.
Segregati in the box i protagonisti si psicoanalizzano a vicenda e per questo
accantonano l’identità anagrafica, costruendone altre due, enigmatiche, vere e
false allo stesso tempo.
Il senso del tempo viene rimosso programmaticamente, anche se c’è una
scadenza e quell’ora simbolica finisce, come quella dell’analista.
Lì dentro Jeanne e Paul, ne fanno di cotte e di crude, liberano le fantasie, gli
istinti animaleschi, si abbandonano alle perversioni, si accoppiano felici o
mortalmente soli.
All’inizio tu citi ancora la voix humaine di Cocteau e Rossellini, un esempio di
solitudine filmata che evidentemente lo affascina, quando Jeanne risponde al
telefono dell’appartamento e Paul solleva la cornetta nella stanza accanto senza
articolare parola.
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È un edificio strano, ha ammonito la portinaia, come labirintica è la pianta
dell’albergo di Paul e misteriosi i clienti, morbosamente dediti al voyeurismo.
In Ultimo tango, le architetture possiedono mille occhi. Non potrebbe essere
altrimenti, dato che sono scatole baconiane, moduli quadrangolari come il
piccolo schermo televisivo, che invitano
alla professione di voyeur, ma anche luoghi brulicanti d’inconscio come la
pittura surrealistica.
Nel film, assimilato ad un albergo di infinite stanze, a una scatola cranica, a un
teatro per bambini di legno o di tela, tornano le fotografie dell’infanzia, che
Jeanne mostra a Tom, che Gina in Prima della rivoluzione spargeva sul letto,
riguardandole nella solitudine della propria camera.
Corriamo a Rebours verso le forme e i sapori più autentici, al dizionario
Larousse, dove la protagonista ha letto le parole proibite, mestruazione e pene, al
come Mustafà addestrato a riconoscere gli arabi dall’odore, alla giungla a cui
assomigliava il parco della villa, all’immagine tanto amata del colonnello, occhi
verdi e stivali lucidi, così bello nella sua uniforme!
Poi di nuovo avanti nel tempo, al concepimento adolescenziale per i vocaboli
sporchi, al turpiloquio nell’appartamento rosso, e ancora indietro ai brutti ricordi
di Paul, al cane Dutch, che dava la caccia ai conigli, ai genitori alcolisti, allo
sterco di vacca, alla madre che gli insegnò ad amare la natura.
Avanti e indietro, gatto e topo, quasi musicalmente e con simmetria.
In questo concerto inquietante, dove domina il sax solista di Gato Barbieri,
riaffiora in contrappunto con la cinephile funerea del regista e del suo alter ego
nel testo, il cineasta Tom, interpretato da Jean Pierre Léaud.
Questi immediatamente evoca, e non solo per i cinefili, l’ombra di Truffaut, i
Quattrocento colpi, la personalità irritante di Antoine Doinel, le intemperanze e i
candori della Nouvelle Vague, insomma tutto un mondo che significa qualcosa
per te e per noi, sul quale Tom depone una lapide neanche troppo simbolica,
quando imprigiona Jeanne con un salvagente e la chiede in sposa.
Sul salvagente c’è scritto Atalante, titolo del film di Jean Vigo.
Questa non è soltanto una citazione dotta.
Tom getta il salvagente, che affonda, come l’Atalante segna per Vigo, il
passaggio dall’impegno politico, anarchico e antiborghese, al disagio esistenziale
e al furore controllato di chi vive emarginato, ben sapendo di aver fallito nella
pratica, ma non nella teoria, quel salvagente che si inabissa in coincidenza con la
proposta di matrimonio che Tom fa a Jeanne, indica che i due, hanno forse, per
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il momento, accantonano ogni ipotesi di vita alternativa a quella tradizionale
della loro classe, anzi ci scherzano sopra: “A gioventù pop, matrimonio pop”.
Una constatazione di Jeanne “l’amore tuttavia non è pop”, ci fa intendere che
Paul aveva visto giusto definendola una ragazza fuori moda che tenta di essere
alla moda.
Poco prima c’è stata la nota sequenza del burro, sequenza fin troppo discussa.
Paul denuda il fondoschiena di Jeannne, lo lubrifica e annuncia che terrà un
discorso sulla famiglia, “quella santa istituzione inventata per educare i selvaggi
alla virtù”, quindi la sodomizza, invitandola a ripetere le sue parole: “Santa
famiglia sacrario dei buoni cittadini- lei grida di dolore -, dove i bambini vengono
torturati finché non dicono la prima bugia, la volontà è spezzata dalla
repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo.”
C’è ben poco di pop in tutto questo e se ne accorsero ben presto i censori, che
come noto riuscirono nel gennaio 1976 a far condannare in cassazione te e il
film, destinato al rogo.
Siamo arrivati alle vicende giudiziarie di Ultimo Tango, al suo carattere
provocatorio, che occorre ricordarlo, ti danneggiò, eppure ti impose
all’attenzione dell’opinione pubblica, innescando un successo di scandalo che
dura ancora.
Quel signore che segue Jeanne per strada e praticamente la violenta in modo
non per niente politically correct, non è un individuo qualsiasi, bensì Marlon
Brando.
Questo può spiegare ciò che Pauline Kael, scrisse nel 1972 in occasione della
proiezione di Ultimo tango al New York Film Festival, paragonando lo
sconvolgimento suscitato nel pubblico statunitense a quello verificatosi in seguito
alla prima rappresentazione di Le sacre printemps a Parigi nel 1913.
L’opinione della Kael, “ un film che ha mutato il volto di un’arte” non lascia
indifferenti, anche se il paragone con Stravinskiy è azzardato.
Tuttavia di Ultimo tango si parlò molto, sia a favore sia contro, citando Bataille e
Celine.
La polemica si riaccende, quando tu presti la tua copia alla Cooperativa
“Missione impossibile” che, il 25 settembre 1982, la proietta nel corso di una
rassegna dedicata ai principali autori europei.
La polizia sequestra la pellicola, tu e i promotori della manifestazione
dell’iniziativa siete denunciati per spettacolo osceno.
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Il film torna ufficialmente in circolazione, solo dopo il febbraio 1987, quando il
giudice istruttore Paolo Colella archivia il procedimento penale, ritenendo che
Ultimo tango non offenda più il comune senso del pudore.
Gli anni passano, le usanze cambiano e la “ scandalosa sequenza del burro”
riacquista la sua esatta collocazione autoriale.
Recita la sentenza del 1987: “Amore e morte, sesso e distruzione, piacere e crisi,
sono i temi che fanno di Ultimo tango a Parigi, un film con piena dignità di
opera d’arte, soprattutto per il modo in cui questi motivi profondi vengono
affrontati”.
L’opera che resta oggi vietata ai minori di 18 anni, non scuote né arene né
tribunali, può essere vista in cassetta.
Il messaggio quindi si è perduto? Le sue ipotesi progressive sono veramente
datate? Dobbiamo concludere che “ l’Atalante” giace realmente sul fondo, come
un relitto d’altri tempi?
Risposta negativa, per tutti i motivi che ho esposto e per una ragione sostanziale.
A fronte della superficialità di quella coppia di “puer” sventatelli, intenzionati a
chiamare la prole futura, con i nomi di Castro e della Luxemburg, hanno lo
sguardo intenso, il naso romano e la piega classica della bocca di Paul.
Questi è il tipo senza fissa dimora, senza amici e senza figli, un malinconico
anarchico viandante.
La sua giacca nera, la cravatta rossa, gli occhi duri e fatali, sono quelli
dell’eterno Hyde, degli odierni seguaci di Dioniso, dei saltimbanchi di Picasso,
degli iniziati a riti sulfurei e orrorifici, al sabba della storia come alle chimere
dell’immaginazione.
Paul è l’icona e il maestro e la maschera del ciarlatano, eroe e poeta, intimista e
rivoluzionario, manipolatore e strumento.
Paul è il creatore e il lupo di se stesso, quindi Giacobbe e Athos messi insieme.
Il discorso psicoanalitico allora qui è brutale e diretto.
Si esprime nelle fasi e nelle atmosfere di un legame erotico in cui Paul e Jeanne,
oltre a vivere l’analisi come speranza, entro certi limiti la esplicano
riflessivamente.
Credo che un freddo intellettualismo esplori tutta l’opera.
È in un reciproco interrogarsi e psicanalizzarsi dove riaffiorano determinanti
fantasmi del passato.
Paul è un quarantacinquenne senza radici, dopo essersi trascinato attraverso le
più degradanti vicissitudini cosmopolite, approda a Parigi, dove si adatta ad una
convivenza coniugale ardente e ambigua.
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Rosa, la moglie, era tenutaria di un albergo equivoco in cui ospitava Marcel, un
amante del quale Paul sapeva tutto.
Con il suicidio, Rosa, lo sprofonda nel disperato torpore di un uomo straniero e
finito.
Di venticinque anni più giovane, Jeanne è essa pure una sradicata.
Quel mondo borghese di cui il padre simboleggiava i principi reazionari, la
madre, la fatuità, e il tiepido fidanzatino dedito al cinema verità, perché altro non
poteva fare, la sterilità culturale e l’arrivismo carrieristico, non è più il suo.
E lei se n’è distaccata sotto lo stimolo di una bruciante sete vitalistica di
indipendenza: la sua era una bottega di idee e persone ammuffite di cui
proferire, Jeanne è un’anima ansante che reclama nuovi e perversi brividi di
esistenza.
Queste due solitudini si fondono in un'unica furia erotica, ma sotto l’impulso di
due diverse esigenze.
Per Jeanne il sesso diviene sinonimo di libertà, e si lancia nella viziosa curiosità
dell’avventura.
Paul si tuffa nella libidine più sfrenata per ritrovarvi energie di sopravvivenza.
La casualità, l’anonimato, la belluinità sadomasochista, l’isolamento che
contraddistingue i loro tre giorni di passione animalesca, avranno così un senso
diverso.
Jeanne sfoga la sua golosità di ebbrezze inattese e proibite, mentre per Paul sono
condizioni di esclusività e di radicalismo indispensabili per sentirsi qualcuno
mediante il possesso assoluto di una donna cui consegnarsi, una volta
schiavizzata con la vigoria dei sensi.
Ma è un possesso illusorio.
Paul punta troppo alla carne per arrivare al cuore.
In lui l’ardore carnale ha risonanze interiori, perché lo vive con la disperata
serietà del naufrago. Però mentre da alchimista della corruzione distrugge Jeanne
per soggiogarla, di fatto, si autopunisce annientando se stesso.
Per la ragazza, il rapporto è soprattutto un gioco da cui tende a sottrarsi appena
ne subodora le implicazioni più profonde e l’avvizzimento fisico, e quando lui
tenterà di riconquistarla, lei ha già deciso di sposare il buffo cineasta,
chiedendole il nome, estremo atto di violenza e insieme offerta di una relazione
interpersonale di nuova dignità, Jeanne impugnando la pistola d’ordinanza del
padre, lo uccide.
Gesto assassino dalle molteplici valenze: rifiuto della figura paterna, in cui Paul,
nella violenza del sodomizzatore e nella beffa del Kept, si andava identificando,
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disdetta sprezzante per un gioco carnale oramai scontato e in via d’esaurimento,
ripugnanza davanti alla verità miseranda di un eroe romantico che si sfalda in un
clownesco rottame umano, negazione atterrita e infantile di impegnarsi in un
rapporto che Paul gli stava proponendo con spiragli di crescente autenticità,
opzione per una sicurezza borghese alla quale il maître di hotel fallito aveva
ostensibilmente irriso nelle sale dell’ultimo tango.
Il film è dunque un arcano connubio di eros e thanatos che esplode nel folle
amarsi – distruggersi in cui Paul e Jeanne si accaniscono, in un’esasperazione
della bestialità segnata da un progressivo raggelarsi nel terrore funereo
inutilmente sottolineato da quell’imbarazzante, per il tuo talento intendo, topo
morto.
Quel clima di feroce allucinazione proclama, senza perifrasi, l’impotenza dei
sensi a riscattare l’uomo dall’amarezza dell’alienazione e della nevrosi.
Verità e moralità di fondo, secondo me, gravemente penalizzate dal realismo
analitico di qualche episodio.
Il fascino e la tensione di una rievocazione onirica pregna di indecenze
esistenziali, viene infranto da pagine di un cronachismo così insistito da cadere
nella pornografia d’immagini selvagge e insieme glaciali atte a ingenerare
perverse connivenze, oppure a proiettare patologico e cupo disgusto sulla stessa
realtà erotica.
Il ricorso ad un linguaggio essenziale e allusivo come comprova l’esempio di
Ingmar Bergman, che IN SILENZIO espose situazioni analoghe in un contesto
analogicamente “onirico”, avrebbe sempre a mio parere, raggiunto risultati
emotivi più provocatori e sotto certi aspetti forse più conturbanti ma
contrassegnati dal preciso senso e valore derivante dal loro limpido collocarsi
nella coerenza espressiva dei film.
La sodomizzazione della Anna Bergmaniana sotto gli occhi della sorella è, sentita
immediatamente dallo spettatore come un momento essenziale dell’andante
drammatico del film, mentre gli exploits di Paul e Jeanne sono talmente
punteggiati di particolari e di esplicitazioni da figurare come un excursus
all’interno dell’economia dell’ultimo tango, nella quale solo uno sforzo per
sottrarsi al diluirsi aneddotico della rappresentazione consente di riportarlo.
Ultimo tango è quindi costruito in maniera singolare: assomiglia a un puzzle
I cui pezzi vadano disposti secondo diverse direzioni e diversi piani, alcuni
orizzontalmente, per vicinanze, altri verticalmente, per sovrapposizioni, altri
diagonalmente.
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Vediamo subito come la più immediata delle linee lungo cui è possibile seguire il
film è rappresentata dai puri e semplici avvenimenti narrati, dalle vicende
raccontate, che procedono tutte su un duplice binario: da una parte cercando
un’identità propria, una propria autonomia, tra loro non si toccano, dall’altra
invece, grazie ad un gioco complesso di mediazioni, finiscono con l’interagire,
magari con lo sfiorarsi soltanto, ma sempre con conseguenze pesanti.
Ora se ciò avviene, se le diverse storie rimangono indipendenti seguendo
ciascuna il proprio destino, e insieme si incontrano e interferiscono tra loro, ciò si
deve all’anello che chiude la catena, cioè il rapporto Jeanne – Paul.
Quello che conta, infatti, non è che esso costituisca la vicenda centrale del film,
la storia principale, ma che si svolga con particolare modalità, non per nulla
Jeanne e Paul sono vicini, e insieme sono distanti, il rituale dei loro incontri
sottolinea bene questo fatto: fanno l’amore, esplorano il loro corpo, ma non
sanno l’uno il nome dell’altro; non per nulla ciascuno dei due è portatore di
una serie di vicende che l’altro non conosce, ma con cui finisce per scontrarsi;
non per nulla la tragedia nasce quando si vuole sapere ciò che in realtà esiste.
Dunque il racconto di Ultimo tango, che pure a prima vista sembra chiudersi su
una vicenda unica, isolata, in realtà procede in una serie di incastri: accosta, lega,
separa.
È una costellazione, ciò che lo tiene insieme, è un gioco di sguardi.
Su questo impianto narrativo particolare, potrei parlare di una vera e propria
diaspora di nuclei
Di racconto, si innestano altri motivi, elementi che complicano per così dire, la
situazione.
C’è innanzi tutto una precisa organizzazione dello spazio, Ultimo tango, in
questo senso è molto attento.
I luoghi base sono due: un interno, l’appartamento vuoto in Rue Jules Verne, e
un esterno, le strade, la città mito; tra essi, una serie di zone intermedie, la casa di
Jeanne, l’albergo di Paul, la sala del tango, il set di Tom.
Le relazioni tra questi due punti sono complesse: alcune giocano
sull’opposizione dichiarata, altre sull’analogia sotterranea, altre infine giocano
sulla reciprocità.
Ora in questo sistema di spazi ciò che conta è che i personaggi compiano dei
percorsi specifici: ciascuno di essi ha il suo itinerario, per quanto incrociate, le
tappe dell’uno non coincidono con le tappe dell’altro. Paul, ad esempio: il suo
cammino si pone tra due esterni, la strada, luogo in cui lo vediamo camminare
all’inizio, il balcone in faccia alla città su cui muore alla fine, ma passa anche e
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soprattutto attraverso esperienze di chiuso, l’appartamento vuoto, le zone
ambigue dell’albergo, della sala da ballo, della casa di Jeanne.
La sua dunque è una vera e propria risalita all’aperto, è una conquista
progressiva dello spazio, o meglio di uno spazio; lì troverà la sua morte, quando
invece si aspettava la vita: ma il suo errore consisterà proprio nel confondere i
luoghi, nel voler vedere Jeanne fuori dall’appartamento di rue Jules Verne, nel
voler affermare la propria presenza anche dove non la si accetta.
Anche Jeanne, a sua volta, compie un percorso personale: i poli del suo itinerario
sono le zone di ambivalenza, il set del fidanzato e la casa della madre; in mezzo,
c’è l’interno dell’appartamento, vissuto però non come condizione essenziale
per una risalita, ma come zona franca, come luogo circoscritto.
L’esperienza di un esterno totale le è negata: coerentemente con il suo ruolo,
ogni posto in cui essa vive è segnato da regole, da convenzioni, da ricordi; alla
fine, rimarrà al di qua della porta a vetri che dà sul balcone, dentro casa sua.
Gli altri personaggi, infine, non attraversano degli spazi, ma sono come bloccati:
ciascuno di essi occupa una casella, solo ai protagonisti è permesso, e di qui
nasce la loro tragedia, di muoversi sulla scacchiera.
Altro fattore che si innesta sul racconto di base, è una certa linea di segni, o di
indizi, o di simboli, che si avverte in anticipo sulla piega che la storia sta
prendendo e dal senso che essa vuole assumere.
I segni più massicci sono quelli di morte: a cominciare dai titoli di testa, con le
due opere di Bacon, Vita in decomposizione, per finire al centro del film, ossia
alle violenze fisiche che compiono e che accettano sul proprio corpo,
l’esplorazione anale di Jeanne, la sodomizzazione di Paul.
Qui le tracce sono chiare, la disposizione degli elementi non si può ingannare: è
Thanathos che si mostra in Eros; la mitica coppia si ricostruisce.
Comunque è soprattutto Paul che vive questi indizi di morte: basta ricordare,
come il suo albergo è dominato dalla presenza di Rosa appena suicidatasi, come
l’appartamento spoglio e vuoto di rue Jules Verne, in cui egli cerca di perdersi
come unica condizione per un suo prossimo ritrovarsi, per lui può ben essere
una metafora della tomba, come i ballerini di tango che egli incontra sono
truccati con una maschera quasi funeraria.
È soprattutto il destino di Paul che è preparato da lontano.
A questa catena di simboli di morte se ne aggiunge poi un'altra, che agisce in un
certo senso come “rinforzo”: è il discorso che passa attraverso la presenza reale o
parlata degli animali.
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La figura dell’animale, in Ultimo tango, non solo commenta il processo di
regressione ad uno stadio quasi biologico che i protagonisti vorrebbero tentare,
ma anche e soprattutto serve come metafora della violenza e della morte.
Ricordiamo il topo che Paul, scherzo atroce, fa trovare a Jeanne nel letto per
provocarle ribrezzo; ma ricordiamo soprattutto le parole, tutte centrate
sull’immagine di un porco, con cui Paul accompagna la propria sodomizzazione,
gli insulti a Jeanne dopo che questa ha mostrato un fugace attimo di affetto.
“ È un angelo, un uomo delizioso e un artista immenso, lo adoro!”
Parlando di Marlon, tu, Bernardo, sei quasi commosso, ti ridono gli occhi,
sembri un ragazzino di fronte al suo primo gelato.
Non soltanto perché gli devi gran parte del successo del film, ma anche perché
senti la fierezza di aver restituito al pubblico l’immagine più autentica della
grandezza di Brando, costretto dal PADRINO nei limiti di un pur superbo
caratterista.
Lavorare con lui, tu dici, è stata una gioia, tu non sai niente del Brando
piantagrane e megalomane di cui altri hanno parlato.
Sul set è stato dolcissimo e affettuoso come un padre con Maria, la giovanissima
attrice dal musetto di scugnizza araba venuta al mondo proprio quando Brando
mieteva allori per QUEL TRAM CHIAMATO DESIDERIO.
Che il rapporto tra Marlon e Maria sia stato teneramente domestico, è credibile
soltanto da quanti conoscono il fossato che divide la realtà della vita, dalla
finzione del cinema.
Il grande fascino del film con cui tu ti consacri autore di rilevanza mondiale e
domatore di mostri sacri consiste, infatti, nel clima sconcertante e misterioso,
persino con spunti gialli, che circonda la relazione fra i due protagonisti,
contrappunta dall’inquietante ricordo d’una donna che si è tagliata le vene e
illeggiadrita dall’ironico balletto d’una troupe televisiva.
Ora non resta che far cantare a Brando divenuto per l’occasione Violetta Valery,
“follie follie, delirio vano e questo
povera donna, sola
abbandonata in questo
popoloso deserto
che appellano Parigi
che spero or più? Che far degg’io? Gioire
di voluttà nei portici perire.
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Alla fine del film, comunque Brando ti ha detto
“non farò mai più un altro film come questo.
Non mi piace fare l’attore, ma questa volta è stato peggio.
Mi sono sentito violentato dall’inizio alla fine, ogni giorno, ogni momento. Ho
sentito che tutta la mia vita, le mie cose più intime, i miei figli, tutto mi è stato
strappato fuori.”
Poche settimane dopo la fine delle riprese Marlon, aveva riguadagnato i dieci
chili che tu gli avevi fatto perdere.
Tu non sei neanche sicuro che lui abbia visto il film finito, perché tu eri libero di
andare contro il personaggio della pagina scritta.
Potevi proporre gesti, potevi spingere le situazioni, potevi approfondire certi lati
oscuri di quel “mostro”. Infatti, la scena in cui Brando gioca con Maria al lupo e
Cappuccetto Rosso era prevista dal copione, ma tu l’hai spinta molto più
lontano.
I cinquantenni americani quando vedevano il film ci ritrovavano tutta una
fraseologia oscena degli anni ’50 che appartiene a loro e a Brando.
Mentre giravi parlavi a malapena l’inglese.
Ma Brando è uno dei pochi attori con cui tu hai lavorato che non ti ha mai
chiesto che cosa significassero i gesti, i movimenti, le azioni che gli chiedevi di
eseguire.
Esistono altri attori che hanno bisogno di capire quello che gli si domanda.
Tu sei sempre pronto, in questi casi, a inventare delle spiegazioni, in perfetta
malafede, che hanno la funzione di tranquillizzarli.
Naturalmente le spiegazioni che proponi sono riduttive, come succede sempre
quando si passa dalla cosa in sé alla sua interpretazione.
Ci sono registi che fanno pensare agli irrequieti maestri d’orchestra.
Altri si comportano come fossero comandanti di vascello.
Il tuo modo di lavorare con gli attori, invece, per un lungo periodo, era simile a
quello di uno psicanalista selvaggio.
Si tratta essenzialmente di stabilire un transfert, di creare una situazione di
conforto oppure di disagio, di stabilire e indirizzare certe tensioni.
Ultimo tango è, infatti, la storia di una crudele educazione, sentimentale,
maschile.
Brando all’inizio è un personaggio brutale e aggressivo, che subisce lentamente
un processo di devirilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza.
Così mettere in scena è “mettere in culo”.
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Brando precipita indietro fino alla morte, a una morte che è una nascita
paradossale.
Quando giace morto sul balcone, la sua posizione è quella di un feto.
E la macchina da presa si muove come un musical hollywoodiano degli anni
’50.
Accanto al ricordo di Henry Miller che si trascinava per Montparnasse alla
ricerca dei soldi per mangiare, c’è la nostalgia del ballerino che rovescia in
coreografia il proprio vagabondaggio.
Quando Brando, tutto fradicio di pioggia, entra nell’ascensore, improvvisa dei
passi di tip-tap per far uscire l’acqua dalle scarpe come Gene Kelly.
Il te’ nel deserto
Gli occhi del protagonista, rivolti al soffitto, innescano i flashback.
In città Kit scende dal taxi, passa davanti al cinema Alcazar, entra nello stesso
bar da cui aveva iniziato il viaggio, ode la stessa musica, ritrova il narratore.
Tratto da un’opera dello scrittore Paul Bowles, Il tè nel deserto, si rivela ancor
più letterario de L’ULTIMO IMPERATORE.
I titoli di testa sono accompagnati da immagini documentarie di New York negli
anni Quaranta, in viraggio seppia.
Sappiamo che Bowles, innamoratosi del Marocco durante un viaggio compiuto
nel 1931, vi si stabilì nel ’47 con la moglie Jane, scrittrice.
Quindi la sua presenza nel film ti ha consentito il recupero di una doppia
memoria: storica e autobiografica.
Appena scesa sul molo di Tangeri, Kit rimprovera il loro fatuo compagno
d’avventura: “Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori” e quando George
domanda che differenza ci sia tra gli uni e gli altri Port risponde: “ un turista e
quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva.”
Frase completata dalla moglie “ laddove un viaggiatore può anche non tornare
affatto”.
Allora si intuiscono subito lo schema triangolare della storia e il suo motivo
conduttore, sottolineato dal primo intervento del narratore, che osserva in
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silenzio i protagonisti mentre la sua voce fuori campo esordisce “poiché né Kit né
Port avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano entrambi
compiuto il fatale errore di considerare confusionalmente il tempo come
inesistente. Un anno era come un altro, alla fine tutto sarebbe potuto accadere.”
Spazio, tempo, azione, anzi confusione e smarrimento: queste le coordinate
canoniche di un testo che al solito illustra un momento di latitanza dalla realtà e
la conseguente vocazione a perdersi di Kit e Port.
La coppia ha raggiunto il Marocco via mare e si muove verso i monti
dell’Atlante.
Questo nome e il fatto che il dramma si svolga in una colonia francese fanno
venire in mente Ultimo tango a Parigi e Vigo con il suo famoso Atalante.
Tu sempre pronto accogli il suggerimento inserendo all’inizio e alla fine de Il tè
nel deserto una canzone famosa di Charles Trenet, je chante, che innesca una
colonna sonora suggestiva e simbolica.
Tutto questo per dire che la tua strategia da regista cinefilo crea intorno alla
vicenda, invero piuttosto banale, della coppia in crisi, un duplice alone di
citazione filmica e musicale.
La nostalgia nasce proprio da lì e viene sommersa, come il salvagente
dell’Atalante, dal fluido pittoresco delle immagini.
Parafrasando i personaggi, potremmo chiederci: tu sei un cineasta turista o un
regista viaggiatore?
Ti sposti meditando di tornare a Parma, Parigi, o ti abbandoni al mistero di
nuovi orizzonti, come fa Kit, perdendo la strada di casa?
Perdersi, anzi smarrirsi è indubbiamente una delle tue costanti, la più sentita, la
più efficace.
Tanto forte è questa tensione nei protagonisti dei tuoi film da farci pensare a
un’aspirazione altrettanto intensa del tuo animo, infatti, tu segui la direzione del
melodramma raggelato e cerebrale di Antonioni, dove tuttavia le deflagrazioni
emozionali sussistono, anzi segnano di passione, di giallo, rosso, arancione, la
consistenza plumbea della tela, ad esempio PROFESSIONE REPORTER.
L’aggressione mistica dei luoghi della coppia Moresby ricorda inoltre quello che
accade ai coniugi Joyce, britannici e molto self-controlled, nell’intenso
VIAGGIO IN ITALIA di Rossellini.
L’enigma dell’animus mediterraneo, torrido, sensuale, panico, ma gentile e
liricamente liberatorio, triste, ingenuo e felice come ci appare nel Decameron e
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nel fiore delle Mille e una notte di Pasolini, scuote le già labili certezze dei due
americani.
Dioniso è dietro l’angolo, occhieggia a Kit e Port, li segue da un’oasi all’altra
accompagnato dal suo corteo barbaro di percussioni e di flauti.
Tali sono le maledizioni e le nemesi dei protagonisti, questa è la febbre di cui
muore Port, questa è la malattia dello spirito da cui la moglie rinasce a nuova
vita.
La trama quindi ci riporta all’inizio: che cosa intravede Kit oltre l’icona del
narratore? Che cosa hanno scorto le pupille dilatate del marito? Probabilmente
ciò che tormenta il nonno Berlinghieri e lo spinge al suicidio: il sentimento del
tempo, la verità della morte.
Così l’anziano Bowles, nel finale chiede a Kit se si è perduta e, ottenuta
conferma, sentenzia: “Poiché, non sappiamo quando moriremo, siamo portati a
credere che la vita sia un pozzo inesauribile.
Però tutto accade
Solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte.
Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un
pomeriggio che è così profondamente parte di voi che, senza, neanche riuscireste
a concepire la vostra vita? Forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno.
Quante altre volte guarderete levarsi la luna? Forse venti, eppure tutto sembra
senza limiti.”
Il romanziere Paul Bowles e la scrittrice Katherine Moresby ci appaiono, quindi
legittimamente, come padre e figlia, maestro e allieva con ciò replicando il
rapporto fra Caterina Silvestri e il suo anziano insegnante di canto de LA LUNA,
ma anche come autore e personaggio.
La valenza prismatica del tuo cinema impone continui specchiamenti, rimandi e
allusioni.
L’altro notturno che risplende sommesso nel deserto, altrimenti rosso e
abbacinante, suggerisce il volto della madre, sempre in LA LUNA, quindi
l’infanzia, la memoria, il rimpianto proustiano del passato, e insieme, l’ombra
della morte, il completamento oscuro di noi tutti.
Eppure la convincente essenza lirico-nostalgica dell’opera, sembra appannata da
una sorta di eclissi promozionale turistica.
Le dune solcate dai cammelli, il bel tenebroso Belqassim, il corteggiamento
scherzoso presso il fuoco, il candido sorriso di un piccolo cavaliere e la
magniloquente colonna sonora, sono coronati da alcune notti di sesso robusto e
autentico con il buon selvaggio
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Sorge il sospetto di assistere allo spot di un’agenzia di viaggi, che promette tutto
questo relax più l’assoluta certezza dell’igiene e del corretto comportamento dei
nativi.
Per cui una pallida e stressata signora del New England o una virago
californiana, dopo il film, potrebbero facilmente credere alle lusinghe del testo,
per di più letterarie, sentimentali e d’autore. Sebbene la prostituta Mahrnia,
racconti, nel romanzo di Bowles, in originale intitolato Il cielo che protegge,
come tre ragazze recatesi a bere il tè nel deserto v’incontrino la morte,
simboleggiata dalla sabbia nei bicchieri.
Tu, Bernardo ami il grande cinema: porti la macchina da presa e la tua idea nei
grandi spazi.
La Cina de L’ULTIMO IMPERATORE dava una grande emozione visiva,
come PICCOLO BUDDHA.
Qui siamo nella grande dimensione del silenzio dove le relazioni umane, le
emozioni ritornano centro incontaminato dell’esistenza.
Siamo in un luogo lontano dalla grande America, che i due protagonisti, Port e
Kit, hanno lasciato per cercare di ritrovarsi.
Cominciano un lungo doloroso viaggio attraverso il deserto, in una specie di easy
rider.
Sembrano alla ricerca di qualcosa che restituisca ragione ai loro sentimenti
comuni.
Ma sembrano contemporaneamente alla ricerca di qualcosa che hanno dentro,
che hanno perduto nel rapporto di coppia.
Il film è attraversato da una sensazione di febbre e di morte. Il punto più alto
della narrazione, come d’altra parte nel romanzo di Bowles, è l’agonia, il
viaggio verso la morte di Port.
I due attori sono assolutamente straordinari.
Come lo è, da sempre, la fotografia, immaginata da quel genio che è Vittorio
Storaro.
“ non è sull’impossibilità dell’amore,
ma sull’impossibilità di essere felici
in amore.
Kit e Port si guardano negli occhi
e dicono
“chi sono? Chi sei?”
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Io ballo da sola
Il tema è la prima volta della bellissima e casta Lucy.
Un inno alle ragioni del cuore sullo sfondo del Chiantishire popolato da
intellettuali ex libertari
Una critica radicale del consumismo sessuale.
E nel conflitto generazionale si consuma l’addio ai miti del ’68.
Sotto una quercia secolare, in un intenso tramonto nel cielo del Chianti, Lucy e
Osvaldo, a diciannove anni, perdono la verginità.
Per amore!
Gli studiosi avranno già riconosciuto una tua scena madre.
Ma IO BALLO DA SOLA è qualcosa di più che una storia raccontata con la
pellicola.
Lucy è destinata a diventare l’immagine simbolo della rivoluzione sessuale,
neoromantica di fine secolo.
Siamo agli antipodi di ULTIMO TANGO, Jeanne era una tipica figlia degli anni
settanta, per lei la sessualità era un territorio da esplorare, in tutti i suoi aspetti,
con insaziabile avidità e furore ideologico.
E tu, Bernardo racconti: “I giovani della mia generazione volevano spaccare
tutto, la sessualità veniva vissuta come sventramento, brutalità, quella brutalità
oggettivamente rivoluzionaria che ho raccontato in Ultimo tango, in Io ballo da
sola invece, la protagonista Lucy ha 19 anni, è bellissima ed è vergine per scelta
culturale.
Ma non è vittima di un’educazione bacchettona, nessuno le ha mai detto, che
fare l’amore è peccato, né che il sesso e una cosa “sporca”.
Sua madre, morta suicida, era una poetessa libertaria, un ex figlia dei fiori.
Eppure, Lucy, caso insolito di Lolita casta e pura, aspetta di innamorarsi per
farlo, finalmente, con gioia e tenerezza.
Per lei la prima volta non è più, come per la generazione di sua madre, una
conquista da sbandierare, ma un evento da vivere soprattutto con il cuore.
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Grazie a questo film, tu sei di nuovo tornato a girare in Italia, l’azione si svolge
tutta in un casale a Brolio, nel Chianti e hai scelto una storia apparentemente
piccola e sentimentale: una giovane studentessa americana, orfana di madre,
trascorre una vacanza consolatoria in Toscana, a casa di amici, sperando di
incontrare l’amore.
In realtà il film è di ben ampio respiro e propone un argomento che certo farà
discutere, anche al di là dell’ambito cinematografico, il neoromanticismo e la
sua estrema espressione, cioè la castità, come scelta controcorrente, forse
rivoluzionaria.
Se poi si pensa che ad averla proposta era un regista oramai sessantenne, che ha
fatto della trasgressione un tema forte della sua filmografia, di NOVECENTO è
stata da poco proibita la visione in una scuola americana, è ancor più
provocatorio.
A un certo punto di IO BALLO DA SOLA, un personaggio spiega la poca
disinvoltura sessuale di Lucy e dei giovani in generale con la paura dell’AIDS.
Tutto qui?
Tu, Bernardo affermi che non è affatto riducibile a questo.
Il terrore delle malattie è la metafora di una paura più generale, anzi di un rifiuto
di stare alle regole, imposte da questa società dell’opulenza consumistica, che ci
bombarda continuamente di immagini di sessualità.
La scelta neoromantica è una scelta contro tutto questo.
I ragazzi come scaturisce dalle tue affermazioni sono cauti, la scelta di fare sesso
o no, è meditata, così come quella del partner.
Forse in questo comportamento c’è anche il desiderio di essere all’opposto del
modello dei padri.
Non solo Lucy è il tipico esempio di vittima de quella che gli psicologi
definiscono “famiglia allargata” disfunzionale, figli che nel bene e nel male sono
costretti a fare i conti con l’esistenza della sessualità dei loro genitori.
Una questione che alle generazioni cresciute in età predivorzista non si era posta.
La diversità di Lucy, emerge ancor di più, nel film, proprio dal confronto con i
personaggi delle generazioni precedenti: quaranta-cinquantenni raffinati, colti,
leggermente trasgressivi,
come tu li chiami, con un buffo neologismo, ”frivoluzionari” a metà strada tra la
voglia di frivolezza e intenzioni Gauchiste.
Gli ospiti di Lucy sono lo scultore Ian e sua moglie Diana, inglesi che hanno
scelto le colline del Chianti per costruire un loro mondo ideale, un parnaso
immerso nella bellezza assoluta dell’arte e della natura.
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Loro vicino di casa è Alex, scrittore, malato terminale che diventa il confidente
di Lucy perché assorbe la giovinezza e la bellezza della ragazza come se fossero
salvifiche medicine.
Intorno ai personaggi centrali si agita il coro, un mercante d’arte anziano e un
po’ matto, un ex corrispondente di guerra,
la disegnatrice di gioielli Miranda con il suo amante, una giornalista italiana che
risponde alla posta del cuore e altra varia umanità che popola un microcosmo
abbastanza tipico di quello che viene chiamato con ironia “chiantishire”, ovvero
l’ambiente degli stranieri, per lo più artisti o intellettuali, espatriati in Toscana.
…Anni fa era stata loro ospite una ragazza su cui tutti avevano fantasticato. Un
po’.
Lo spunto è stato quel ricordo, ma nessun personaggio è direttamente ispirato a
persone vere.
Con Susan Minot abbiamo lavorato in forma “work in progress”; molte soluzioni
sono nate dal contatto con gli attori prima tra tutti Liv Tyler, che ha un senso del
cinema non comune.
Infatti interpreta perfettamente la psicologia di Lucy, una ragazza che passa molto
tempo da sola scrivendo poesie che poi butta via.
…l’impagabile privilegio, di sciupare tipico dei giovani, che si sentono immortali.
Lucy, può anche posare a seno nudo per lo scultore, ma in piscina indossa solo
costumi interi, e reagisce con risolini d’imbarazzo di fronte agli adulti ex libertari
che prendono il sole integrale.
La purezza di Lucy e d’altri suoi coetanei, non è solo fisica.
In IO BALLO DA SOLA, tu presenti i giovani, come portatori di energie e
valori nuovi, forse migliori di quelli degli adulti del film, esponenti di un mondo
cechoviano, in decadenza.
Questi stranieri che hanno deciso di vivere nel Chianti per rubare la bellezza
dell’arte e del paesaggio italiano, capiscono, proprio attraverso il confronto con
la bellezza autentica di Lucy, ben più carnale di quella di un affresco, che il loro
mondo perfettamente armonico è giunto a Capolinea.
È come se tu debuttante nel ’62 avessi bevuto un filtro di giovinezza artistica.
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Ma non si può dire che tu sei rinato, piuttosto è nato un nuovo Bernardo.
…il contatto con questa storia di ragazzi mi ha aperto nuove prospettive.
Prima nutrivo dei sospetti nei confronti dei giovani, ma quando me li sono trovati
lì, davanti, alla macchina da presa, ho scoperto, che sono molto più interessanti
di quanto credessi.
…ci sono film, destinati a materializzare le fantasie di onnipotenza del regista.
La storia del cinema è piena di film che cercano di assomigliare alla vita
Novecento è uno di questi, come lo sono stati certi film di Eric Von Stroheim o
Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.
Io ballo da sola, più che cercare di somigliare alla vita, pare un’operazione
horror, destinata a prosciugarla, attraverso una vampirizzazione della giovinezza,
splendidamente interpretata da una ninfa aristocratica alla quale tutti i personaggi
del film tentano di rubarne la bellezza.
Bernardo con questo film sei finalmente ritornato, sei stato per oltre dieci anni
esule volontario in giro, nel mondo, dalla Cina al Marocco, al Nepal per una
trilogia esotica, che ha segnato la tua definitiva consacrazione, grazie anche ai
nove premi oscar, raccolti con L’ULTIMO IMPERATORE.
Ma oramai avevi voglia di tornare a casa, di rimisurarti con un film leggero, che
non pesa che qualche grammo, come tu stesso lo definisci.
E poco lontano dalla natia Emilia, in Toscana, luogo perfetto per una vacanza
dello spirito, in mezzo alle dolci colline del Chianti, hai trovato il set ideale, per
una storia semplice, intima, a tal punto di sfiorare la confessione impudica di un
cineasta accortosi di non essere più giovane.
Reduce da PICCOLO BUDDHA, ennesimo successo mondiale, tu hai
manifestato l’intenzione di rientrare in una dimensione più famigliare.
Anche se parallelamente svelavi il desiderio di portare a compimento uno dei
grandi sogni della tua carriera Novecento, con un atto terzo e ultimo a coprire gli
anni dal ’46 ai giorni nostri.
…un progetto ambizioso e stimolante perché siamo a fine millennio, ma rinviato
a data da destinarsi, perché oggi del mio paese capisco poco.
Riemerge subito quindi, la voglia di tornare a modelli meno ingombranti, come
nel 1982 con LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO, girato sui luoghi di
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Novecento, poco lontano dalla contrada dell’infanzia e dell’anziano padre
Attilio.
Per cambiare rotta rispetto a un itinerario che pareva segnato sulle orme del
kolossal, tu, avevi bisogno di alcuni distacchi.
Ecco spiegata la temporanea separazione dal direttore della fotografia di sempre
Vittorio Storaro.
Una pausa è stata concessa anche allo sceneggiatore- cognato Mark People, con
cui avevi scritto i copioni degli ultimi dieci anni; al suo posto Susan Minot,
scrittrice americana, unica presenza femminile nella corrente letteraria del
minimalismo, rivelatasi in Italia con il romanzo Scimmie e Incantesimo, libro
romantico tipico di formazione e iniziazione.
Perfetta quindi per le tue nuove esigenze.
Per la scelta della protagonista tu avevi messo un annuncio sui giornali:
“cercasi attrice in grado di esprimere la purezza interiore e non, di
un’immacolata fanciulla.
La scelta è caduta su Liv, figlia di Steve Tyler, rockstar degli Aerosmith.
Un’acerba commediante che aveva debuttato in Silent Fall di Bruce Berensford,
nel ruolo di testimone di un brutale assassinio, e che Woody Allen, per il suo
nuovo film, il musical Anna Oz, aveva richiesto.
Ma già donna malgrado l’età, a causa della scandalosa giovinezza regalatale dal
padre, amico delle droghe e dell’alcool e lontano da lei per anni.
Nemmeno tu, all’inizio, conoscevi bene i richiami del tuo inconscio, spaventato
dal tempo che passa.
Ma Liv sul set ha portato una ventata di leggerezza, diradando le ombre e
mettendo in ordine i tuoi confusi pensieri.
Vestita con abiti a fiori, sottili e trasparenti, occhi magnetici e cuffiette per
ascoltare le canzoni preferite, quelle di D.J. Harvey, emblema di una leggerezza
del vivere, del muoversi, del ballare, trasformava l’atmosfera con la sua
presenza.
…io ballo da sola, mi aiuterà a ristabilire un equilibrio, perché io che non ho figli,
che potrei essere il padre di Liv e del suo personaggio Lucy, nella storia di
questa ragazza pronta a diventare donna, lasciandosi andare alle fantasie, cerco
di catturare le affinità che possono legare tra loro persone diverse, come Gustave
Flaubert con Madame Bovary, sto probabilmente praticando un transfert.
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Il tema centrale di Io ballo da sola è appunto capire a che punto è la notte,
rapinando giovinezza e naturalezza.
…ho compiuto 18 anni sul set, …questo film mi ha aiutato a crescere, in quella
casa dai muri antichi dove abbiamo girato, e che Bernardo, paragonava alla
leggerezza della musica di Mozart, …la mia Lucy ascolta sempre musica rock, la
stessa che piace a me.
Due culture che nella vicenda si incontrano: un’esperienza che ho provato
anch’io in Toscana, una terra meravigliosa. Questo film, ha mutato il mio
sguardo verso gli altri.
Altrettanto dolci sono le confessioni di Jean Marais e Stefania Sandrelli… sono un
voyeur della bellezza, Liv- Lucy è così incantevole da spingermi a pensare che il
film abbia davvero un’anima mozartiana, fatta di grazia e dolore insieme.
E Stefania Sandrelli…vedendo Lucy mi è capitato di ripensare al mio primo
personaggio adolescenziale di SEDOTTA E ABBANDONATA, film di Pietro
Germi del 1964 in cui avevo 18 anni e una carica di vitalità ancora tutta da
consumare.
La scelta degli attori allora evidenzia lo scontro generazionale che si manifesta
via, via, che il viaggio psicologico si sviluppa, tuttavia si tratta di una raffinata
selezione internazionale dall’intenso e asciutto Jeremy Irons, un sofferente
drammaturgo di scuola inglese, a Marias l’esperto d’arte antica, un pezzo del
cinema e del teatro francese degli ultimi sessanta anni, dalla figlia dell’attore
irlandese Cyril Cusak, Sinead, che interpreta Diana.
E poi Stefania Sandrelli, che come Zeffirelli, gli hai offerto la scena più
eroticamente sorprendente.
E poi il gigionesco Carlo Cecchi, Joseph Fiennes e Roberto Zibetti, giovane
rivelazione nel ruolo di Niccolò.
…antiche passioni e scoperte recenti per un cast meraviglioso. Hai affermato.
Raccontare una vicenda che ruota attorno alla giovinezza, quella perduta di
alcuni e quella sfrontata di altri, ti ha ridato la carica…la voglia di parlare di una
generazione che non è più la mia, mi è venuta per reagire al centenario del
cinema, che era roba vecchia, funerea.
Ho ritrovato la libertà che avevo negli anni sessanta, l’atmosfera lieve del film mi
ha permesso di girare con la steady-cam una macchina da presa che sembra
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volare. Tutto bene, tranne il titolo, il lato tormentato di un film di grande
serenità: Dancing by mysel, non piaceva ai produttori perché troppo triste e
Ladri di bellezza in Italia era troppo scontato.
Adesso Io ballo da sola non mi dispiace: quel affermativo perentorio definisce
bene il percorso d’iniziazione di Lucy.
Il film Io ballo da sola potrebbe essere letto anche sfogliando le poesie di
Giacomo Leopardi, dai primi versi dell’Ultimo canto di Saffo.
“placida notte, e verecondo raggio,
della cadente luna; e tu che spunti
tra la tacita selva in su la rupe
nunzio del giorno”
…alle rime del Passero Solitario
“ tu penoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi
canti e così trapassi
dell’anno e di tua vita il più bel fiore”
…alla silente melanconia dell’Infinito.
“sempre caro mi fu quell’ermo colle”.
…ad altri astri e dolci paesaggi che innescano la meditazione lirica in Alla luna e
La sera del dì di festa.
Ermo il colle dei Grayson lo è di certo.
Scabro ed essenziale come l’arte del duecento.
Tu hai dichiarato di guardare la Toscana come se fosse il Bhutan, come se si
trattasse di un’esperienza nuova, attraverso gli occhi di Lucy, una turista
proveniente da un paese lontano, che sta affrontando il viaggio, che la porterà a
trasformarsi da ragazza a donna. Il paesaggio riflette la forza e la fragilità di
questo passaggio.
Matrice conflittuale, psicologico-estetica.
Di tale matrice conflittuale, tu, ci informi fin dall’inizio, quando in un viraggio
seppia scorrono davanti i nostri occhi alcuni frammenti di cinema verità, come se
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fossero reperti di pittura vascolare greca: parti del corpo di Lucy seduta in aereo,
la guida tascabile, un dipinto senese, una miniatura indiana.
Il tutto colto con voluta apparente casualità, in campo medio, con gusto da
entomologo sadico.
Un taglio di ripresa che sicuramente proviene dal talento morboso e neogotico
del tuo nuovo direttore della fotografia.
È un universo primordiale questo, dove, ogni meriggiare pallido e assorto
nasconde cruda violenza, sanguinose cerimonie pagane, deflorazioni acuminate.
Potremmo dire che l’etrusco ha colpito ancora, e non saremmo lontani dal vero.
C’è, infatti, un mostro alla radice di Lucy, quel demone senza volto che l’ha
generata sotto il sole, tra i filari, stuprando Sarah, come la dea madre terra,
replicando un rituale propiziatorio per il raccolto.
Vino e sangue, rosse crete di Siena: la toscana di Io ballo da sola non è tanto
rinascimentale, cortese e ridente, quanto cupa, profonda enigmatica, mortale.
Forza e fragilità, hai spiegato, presiedono il destino di Lucy.
La protagonista n’è circondata, perché nette, robuste e remote, inafferrabili
come una tela, come un soggetto di Brancusi, come la statuaria etrusca ci
appaiono le creazioni dello scultore Ian, che sono in realtà opera dell’artista
Matthew Spender, tuo amico e figlio del poeta Sir Stephan Spender.
…avevo visto molti attori, ma non li ritenevo credibili nelle vesti di un artista o
troppo belli o troppo artisti, secondo un cliché.
Poi ho visto Donald Mccann a teatro e mio ha fatto pensare a un ergastolano.
Avevo trovato l’uomo giusto: misterioso, emanava un costante senso di pericolo.
Fuori del mondo e ritorno.
A una domanda apparentemente semplice e scabrosa, tu offri una risposta
sapiente, astuta, sincera.
Come nei romanzi inglesi di conversazione tra intellettuali con rendita di grande
tradizione, Io ballo da sola racchiude fuori dal mondo, un piccolo mondo, a
confrontarsi con verità minime e con verità eterne.
Generazioni, caratteri, stili di vita.
La vita e la morte, il privilegio e l’arroganza, il dovere e il piacere, il lasciarsi
vivere o la scelta di come vivere.
Il film è un piccolo romanzo di formazione, è una riflessione molto mossa e
matura che si pone in apparenza domande semplici, cui dare risposte altrettanto
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semplici o banali, e che affronta lo scabroso e gravoso, il presuntuoso ma
ineludibile compito, per un autore, di dire cosa si è capito o cosa si vuole che si
capisca dei massimi problemi.
Tanti anni fa Roman Polanski, in un film oggi dimenticato, accompagnò una
ragazzina americana, molto sciocca dentro, un corrotto piccolo universo di ricchi,
in una villa sulla costiera amalfitana.
Il film si chiamava “Che?” e rifaceva comicamente Candide.
Ma la tua Lucy non è né candida, né sciocca, è assolutamente normale.
Cresce in un mondo di brutture, tra insicurezze, in agguato, tra padri e madri
molto imperfetti ed evasivi, e deve districarsi nel piccolo labirinto delle proposte,
dei modelli dei valori possibili.
Tu, infine, chiudi la sua esperienza tra titoli di testa che vedono Lucy seguita
dalla macchina a mano dentro un aereo; e titoli di coda che mostrano Siena
dall’alto in una ripresa aerea.
Alla città si torna, è obbligatorio tornarci.
Il passaggio dalla comunità fuori dalla città, è servito a una comprensione e a una
maturazione.
Il banale traliccio di Susan Minot, serve a te, per un film astuto, sincero.
…si le cose tornano. La perdita della verginità come illuminazione. In questo film
c’è una serenità che non conoscevo prima, gli altri miei film grondano dolore,
disperazione, angoscia.
Invece questa volta volevo trattare con delicatezza e lievità temi profondi, sfiorarli
appena.
Fino a raccontare il momento della perdita di verginità rompendo il cliché legato
alla mia generazione, di una specie di violenza necessaria.
Questo stato di leggerezza l’ho sempre sognato, ma non me lo ero mai potuto
permettere.
Volevo identificarmi con una vergine.
Bello riconquistare delle verginità nella vita anche quando si è avanti negli anni.
In realtà ho cercato di rappresentare la familiarità che si può avere con la
bellezza, l’arte, la poesia, un’idea che ho ereditato da mio padre Attilio.
…mio padre Attilio ha visto il film, è venuto verso di me, mi ha sorriso e ha
detto: bene, bravo hai fatto, la tua opera prima.
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Il tuo papà poeta non aveva sbagliato paradosso.
Io ballo da sola segna visibilmente una svolta nel tuo percorso.
…le parole di papà, mi hanno confermato un mio sospetto, quello di essere
davvero entrato in una fase diversa. Forse è stato il fatto di ritornare a piazzare la
macchina da presa in Italia o l’argomento del film, la verginità.
La cosa di cui vado più orgoglioso, comunque, è di essere riuscito a
rappresentare un gruppetto di teen-ager d’oggi, senza le resistenze e i diaframmi
che temevo.
I ragazzi non vivono in modo gioioso, sono schiacciati dalla sottocultura
generalizzata.
Si presentano da un lato in modo arrogante e per altri aspetti completamente
disarmati.
Se proprio devo trovare un senso finale al mio film, beh, sicuramente è la ricerca
di un rinnovamento personale.
Lucy cerca se stessa.
Io ho cominciato.
Un ringraziamento doveroso al poeta Attilio senza il suo amore per il cinema
Bernardo, non sarebbe stato così colto, e io non avrei vissuto le passioni dei suoi
film.
Come tu dici queste passioni, anche le più sfrenate vanno vissute, fino in fondo.
Quello cui si deve rinunciare è il proprio ego. Troppa autocelebrazione.
Il mio sguardo, ora, grazie alla tua sensibilità, come Lucy si impadronisce del
futuro, con gioia.
Non è cosa da poco.
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Una piccola premessa, così anch`io posso credermi una grande