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VOGLIO VIVERE COSÌ
di ANSOINO ANDREASSI
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ANSOINO ANDREASSI è stato uno dei protagonisti della lotta al
terrorismo, dalle prime avvisaglie degli anni di piombo alle più
recenti minacce internazionali, al vertice prima degli apparati
della Polizia di Stato e poi dell’Intelligence.
© 2009 Ansoino Andreassi
© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Questo libro è rilasciato con licenza Creative Commons-Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Il testo integrale della licenza è disponibile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/.
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A mia moglie Valeria
e ai nostri figli Guido e Camilla
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A parte gli eventi storici del Novecento e i fatti di cronaca che fanno da sfondo
al racconto, i personaggi e le vicende in esso narrate sono frutto della mia
fantasia. Qualsiasi riferimento ad avvenimenti o persone reali è casuale.
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PREFAZIONE
Questo bel romanzo di Ansoino Andreassi ha molti
protagonisti, uomini e donne le cui storie
variamente si intrecciano fra loro. Il principale
protagonista è, però, il terrorismo degli anni ‘70/80,
che origina, condiziona o accompagna le storie
narrate.
Il terrorismo di sinistra non è un fenomeno
esclusivamente italiano. Alla fine degli anni
Sessanta, gruppi simili alle Brigate rosse (Br) e
Prima linea (Pl) compaiono in altre democrazie
industriali: la Rote Armee Fraktion tedesca, l’Esercito
rosso giapponese, i Weather Underground
statunitensi, la Nouvelle resistence populaire in
Francia. Tutti questi gruppi nascono come “costole”
di movimenti collettivi e ne riprendono alcune
forme d’azione estremizzandole, per stabilire gli
obiettivi da colpire. Ma il percorso imboccato con la
scelta della lotta armata li porterà a un progressivo
allontanamento da tali movimenti: con un graduale
e definitivo abbandono della logica di intervento
politico, cui si sostituiscono forme anche estreme di
militarizzazione del conflitto.
Caratteristica esclusiva del nostro Paese, peraltro, è
l’aver dovuto registrare un terrorismo di sinistra
che ha raggiunto capacità offensive di entità
decisamente maggiore rispetto a ogni altra
situazione e assai più persistenti nel tempo (le
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“prime” Br durano per circa 15 anni), per di più
con tendenza alla riemersione ciclica, quasi che la
violenza terroristica sia un fiume carsico che non
cessa mai di scorrere, neppure quando la storia
sembra chiusa. Ben si comprende, allora, perché la
letteratura sul terrorismo italiano di sinistra, dopo
i primi anni di silenzio imbarazzato o negligente,
vada sempre più arricchendosi, con saggi, inchieste
giornalistiche, interviste, biografie, documentari…
opere nelle quali la riflessione etico-politica
(quando c’è) si intreccia con la ricostruzione delle
vicende delle principali organizzazioni clandestine
e dei loro militanti.
Gli ex terroristi (non si può non ricordarlo anche
in questa sede) dimostrano uno scarso senso del
pudore tutte le volte che tentano di giustificare
quella stagione come un fatto generazionale o –
peggio – come una fase in cui metodi e momenti
sbagliati compromisero giusti obiettivi. È vero: ci
sono sempre diversi punti di vista attraverso cui
raccontare ogni cosa, e talora ci sono anche più
verità. Ma ci sono verità prevalenti che non possono
in alcun modo essere taciute. E la storia del
terrorismo ha una e una sola verità prevalente: il
dolore causato. Il dolore dei “gambizzati” storpiati,
che a trent’anni di distanza camminano a fatica o
sono costretti all’ennesima operazione chirurgica. E
soprattutto il dolore delle famiglie, che ancora oggi
(e il tormento non avrà fine) pagano il terribile
prezzo di lutti insensati. Questa ineliminabile
verità prevalente impone – certo non il silenzio –
ma sicuramente prudenza e onestà intellettuale.
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Il romanzo di Andreassi affronta i temi del
terrorismo politico di sinistra secondo un’ottica
particolare. Delinea i percorsi di vita dei
protagonisti, sia quelli che sceglieranno di
praticare la violenza politica o saranno ad essa
contigui, sia quelli che si troveranno ad operare su
sponde contrapposte.
Speciale attenzione, intrecciata con considerazioni
critiche che sanno dare ai problemi la giusta
dimensione, è riservata – nei dialoghi e
nell’inquadramento delle situazioni – alla
prospettiva, presente in molti giovani di allora, di
porsi con assoluta radicalità nella vita sociale:
prospettiva che per alcuni finirà per essere una
forte componente della propensione alla lotta
armata.
La stessa attenzione Andreassi dimostra nel
delineare (con ampie e tuttavia sempre interessanti
pennellate) le interazioni politiche nelle città in cui
il fenomeno terroristico andrà poi maggiormente
sviluppandosi, partendo dai fermenti (studenteschi
e operai) che puntavano a una società migliore, ma
che subivano anche la tentazione del radicalismo,
spesso fondato sul richiamo a luoghi comuni che
banalizzano l’intelligenza con “evidenze di
comodo”, bloccando in realtà ogni filtro critico fino
a privilegiare l’impazienza e le scorciatoie
criminali. “Fil rouge” dell’intera narrazione è una
tenera quanto complicata storia d’amore,
tratteggiata con grande sensibilità e dolcezza – fra i
due principali soggetti del romanzo, con una
mescolanza di considerazioni e vicende legate sia
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ad aspetti privati sia a impegni “professionali”
diversissimi (sul piano delle scelte e delle
conseguenze), che conferisce al romanzo un fascino
davvero suggestivo.
Gli anni della guerra e della Resistenza democratica
(contrastata dai fascisti repubblichini) costituiscono
il primo scenario di fondo del romanzo, che poi si
apre alla ricostruzione postbellica, con la
progressiva conquista di un benessere quotidiano
diffuso ma ancora segnato in profondo da gravi
disuguaglianze, con tensioni politiche fortissime che
spesso esplodono in manifestazioni di piazza
duramente represse: mentre il fascismo riemerge
“come un fiume carsico” e si annida subdolamente
“dentro i gangli delle istituzioni, dentro la stessa
Democrazia cristiana, un qualcosa di
profondamente radicato nella borghesia e
funzionale ad essa”. E sull’altro fronte “i comunisti,
con il loro mastodontico apparato di partito,
(finiscono per essere) risucchiati dai giochi della
politica e attratti dal miraggio del potere, pronti al
compromesso pur di raggiungere lo scopo”.
Venate di nostalgia per le piccole, semplici cose, ma
ricche di autenticità e freschezza, sono le
rievocazioni di quel buon “tempo antico” che era
fatto anche di “grattachecche” gustate come
primizie da gourmet, di vino mescolato col brodo
per insaporirlo, di giochi coi tappi delle bottigliette
a rappresentare i campioni delle corse in bici, di
berrettini con la visiera di plastica per ripararsi
dal sole e di tante osterie nelle quali ci si poteva
ritrovare fra amici.
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Di speciale interesse (è evidente che l’Autore le
scrive in presa diretta con la sua esperienza sul
campo…) sono le pagine dedicate all’impegno delle
forze dell’ordine sul versante dell’antiterrorismo. Vi
si rievoca innanzitutto la formazione dei primi
nuclei specializzati, che della specializzazione,
appunto, e della centralizzazione dei dati (senza
dispersioni controproducenti) sapranno fare le
carte decisive e vincenti in una guerra che
qualcuno – dal mondo parallelo e cupo della
clandestinità – aveva unilateralmente dichiarato:
stabilendo quali nemici meritassero di essere colpiti
o annientati, e mettendo in pratica questo disegno
in maniera spietata per oltre un decennio, con un
crescendo di violenza che raggiunse livelli tali da
indurre il Ministero dell’Interno a calcolare persino
la cadenza oraria degli attentati! Una rievocazione
che si articola nella descrizione delle attività di
composizione di un puzzle sempre intricato: dalla
identificazione dei terroristi alla localizzazione dei
loro covi, con paziente e analitica ricerca dei
tasselli anche più minuti necessari allo scopo. Da
una traccia poco significante, via via – con
paziente sviluppo – a risultati di grande rilievo,
attraverso pedinamenti, esame di reperti, contributi
di polizia scientifica, confidenze, segnali
apparentemente confusi decifrati e quant’altro
intelligenza e fantasia investigativa fossero capaci
di inventarsi. Con rischi e pericoli gravissimi
sempre cupamente incombenti, tanto da indurre i
poliziotti dell’antiterrorismo a usare nomi di
copertura speculari ai nomi di battaglia con cui i
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terroristi coprivano la loro vera identità. Una
rievocazione cui fanno da costante contrappunto le
azioni delle Brigate rosse, nel libro spesso solo
accennate, ma con tratti sempre precisi e
fortemente incisivi che consentono di riandare con
la memoria alle principali imprese
dell’organizzazione e alla sua progressiva
escalation: danneggiamenti, sequestri di persona,
rapine per autofinanziamento, gambizzazioni e
omicidi; – arresti, fughe dal carcere e conflitti a
fuoco; – e insieme legami torbidi con servizi segreti,
attività “logistiche” di falsificazione di targhe e
documenti, collegamenti internazionali per il
procacciamento di armi, propaganda con i
documenti contrassegnati dalla famigerata stella a
cinque punte, capillarmente diffusi in una stagione
spesso caratterizzata (quando non favorita) da
slogan tipo “compagni che sbagliano” o “né con lo
Stato né con le Br”.
Andreassi non fa sconti, e delinea chiaramente la
possibilità che all’interno delle forze di polizia si
applichino diverse “filosofie”, con immediate e
robuste conseguenze sul piano operativo, a partire
dall’approccio con coloro che sono sospettati di essere
terroristi o vengono arrestati in quanto tali. La scelta
dell’autore (filtrata dalle riflessioni e dai
comportamenti di Guido, poliziotto che ha nel
romanzo un ruolo centrale) è univocamente nel
senso del rispetto – sempre e comunque dovuto – e
per la persona e per le regole democratiche.
Nello stesso tempo Andreassi sottolinea (ed è di
speciale rilievo che lo faccia proprio un poliziotto
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nato e cresciuto, istituzionalmente parlando, per la
repressione dei delitti…) che “bisogna prima di tutto
capire; sì capire anche le cause di questo tipo di
terrorismo… Certo non tocca a noi (poliziotti)
intervenire sulle cause, ma noi possiamo aprire gli
occhi ai nostri politici. Ci vuole una strategia
antiterrorismo a trecentosessanta gradi. L’azione
repressiva può non bastare”. Parole sacrosante
(quanto quelle che ci ricordano come “cercare di
capirne le cause non vuol dire giustificare un
fenomeno”), ma che al tempo stesso pongono
interrogativi piuttosto sconfortanti sulla capacità
della politica italiana di affrontare i problemi del
crimine organizzato (non solo terroristico ma anche
mafioso) senza limitarsi alla solita, comoda delega a
forze dell’ordine e magistratura. Andreassi sa bene
quanta importanza abbia avuto l’intuizione che il
terrorismo andava sconfitto non solo sul piano
investigativo-giudiziario ma anche (se non
soprattutto) sul piano politico. Bisognava isolarlo,
andando nei quartieri, nelle scuole, nei circoli, nelle
sedi di partito e del sindacato, nelle parrocchie e
nelle fabbriche per parlare con la gente, per rendere
la cittadinanza consapevole che il terrorismo era
una minaccia non solo per le possibili vittime, ma
per tutti, in quanto fattore di imbarbarimento della
vita civile e di progressiva involuzione in senso
reazionario del sistema. Bisognava fare chiarezza,
spazzando via tutte quelle incertezze e ambiguità
(anticamera di contiguità e connivenze) che erano
state – agli inizi – presenti soprattutto a sinistra. E lo
si fece con gli strumenti della democrazia (riunioni
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e confronto), dimostrando così la forza delle
istituzioni e riuscendo a tagliare un bel po’ di erba
sotto le gambe dei brigatisti, posto che la rivoluzione
presuppone – per avere qualche probabilità di
successo – il venir meno di ogni fiducia nelle
istituzioni. A Torino, Palazzo d’Inverno di tutti gli
estremismi italiani, in quanto città della Fiat, città
operaia, città comunista per antonomasia, capace
perciò di esercitare una speciale “attrattiva” sui vari
gruppi terroristici autoproclamatisi “partiti
comunisti combattenti”, a Torino il mezzo principale
con cui si conseguirono questi risultati furono le
assemblee. Assemblee cui parteciparono anche, con
ruoli spesso centrali, magistrati e poliziotti e che i
terroristi definivano “di guerra”, quando invece si
ispiravano proprio al quadro complessivo che
Andreassi ben definisce enunziando l’insufficienza
della sola azione repressiva.
Tornando al discorso delle diverse “filosofie” e
soprattutto prassi operative che possono riscontrarsi
anche all’interno dello stesso ufficio di polizia
(diversità di cui il romanzo di Andreassi offre
cospicui esempi), si può ancora dire che il tema si
lega strettamente a quello della democrazia come
antidoto contro la violenza terroristica. Qual era la
teoria dei brigatisti? Era che lo Stato democratico
non esiste, è puramente e semplicemente una
finzione, un paravento, una maschera. Noi brigatisti
– dicevano – un colpo dopo l’altro (cioè un omicidio
dopo l’altro, una gambizzazione dopo l’altra, un
sequestro dopo l’altro) faremo cadere questa
maschera, disveleremo il volto autentico dello Stato,
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reazionario e fascista, di negazione dei diritti, di
ogni possibilità di progresso, in particolare di
crescita del proletariato, delle classi sociali più
bisognose. E quando questo vero volto dello Stato
sarà disvelato, ecco che le masse – avendo finalmente
capito, grazie a noi brigatisti, come stanno davvero
le cose – si ribelleranno e ribellandosi si riuniranno
automaticamente intorno all’avanguardia
organizzata già esistente, che siamo noi delle Br,
innescando la palingenesi rivoluzionaria… È
evidente che semplifico molto, è chiaro che brutalizzo
concetti che persino i brigatisti esponevano a volte in
maniera più sofisticata, ma è per intenderci, per
capire che siamo riusciti a non cadere nella trappola
tesa dai brigatisti. Perché la risposta al terrorismo
brigatista dal punto di vista legislativo ha raschiato –
lo ha detto più volte la Corte Costituzionale – il fondo
del barile della corrispondenza ai principi e precetti
costituzionali, ma non è mai andata oltre. Come ha
saputo non andare oltre i confini stabiliti dalle
regole la stragrande maggioranza delle forze di
polizia giudiziaria impiegate in funzione di
antiterrorismo, così contribuendo a “spiazzare” e
mettere in crisi i terroristi che ben altri
atteggiamenti si sarebbero aspettati.
Per concludere, il bel libro di Andreassi ha
l’indiscutibile merito (fra gli altri) di farci conoscere
un po’ più da vicino – sia pure nell’ottica di un
romanzo - i cosiddetti “anni di piombo”, che meglio
sarebbe chiamare (come hanno deciso alcuni
documentaristi) “anni spietati”. Forse le Br non
finiscono mai e riaffiorano ciclicamente anche
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perché di quegli anni non si discute abbastanza,
soprattutto coi giovani. Col rischio che ci si condanni
a quella che Barbara Spinelli individua come una
patologia tipicamente italiana: una perdita della
memoria che sconfina nell’amnesia; una profonda
sottovalutazione del pericolo che si corre quando si
occulta il passato. Un passato che per quanto
riguarda i brigatisti comporta anche gravi
responsabilità di scelte criminali che hanno offerto il
terribile spettacolo (sul quale Andreassi nel suo libro
spesso si sofferma) di una macabra usurpazione di
legittime istanze di lotta antifascista. Questa
usurpazione ha prodotto danni gravissimi col mito
della “Resistenza tradita” di cui le Br pretendevano
di raccogliere il testimone. Se oggi l’antifascismo
incontra tante difficoltà, se il revisionismo dilaga è
anche perché (Sergio Luzzato lo ha dimostrato) c’è
stata da parte dei terroristi un’appropriazione
indebita, un uso arbitrario della eredità partigiana,
che ha azzoppato la tradizione antifascista,
svalutandone e indebolendone i valori, resi
impresentabili dal ricorso alla violenza criminale in
un sistema democratico, che per affrontare i suoi
problemi non ha certo bisogno che il terrorismo ne
crei altri.
Della “trama” del libro e del suo epilogo ovviamente
non parlo. Perché quello di Andreassi per certi
profili è anche un giallo. E come tutti i gialli
interessanti pretende riservatezza.
Gian Carlo Caselli
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A PIAZZA SAN GIOVANNI
Piazza San Giovanni era stracolma di gente e il cielo di
quell’azzurro profondo e magico del maggio romano: De
Gregori e la Marini cantavano alla folla in estasi “Bella
ciao”, nella versione originale e cioè come era prima che
divenisse il canto dei partigiani: un canto accorato delle
mondine, più che di protesta, di rassegnazione alla fatica
dell’oggi e ai soprusi dei padroni nella speranza di un futuro migliore. Ma forse i partigiani avevano deciso di adottarne l’aria per dare testimonianza della riscossa, facendo di
quel lamento il canto del popolo in armi. O meglio l’avevano scelto proprio perché era tutt’altro che un lamento, ma
una denuncia feroce nella sua apparente mitezza, capace
di evidenziare la brutalità dell’abuso e di suscitare sensi di
rivolta. Come Le mie prigioni di Silvio Pellico, pensò Guido perso davanti al televisore, ma si sentì subito a disagio
come se avesse detto una fesseria in pubblico.
Poi s’accorse che gli stava venendo un nodo in gola come
gli capitava ormai spesso e cercò anche questa volta di
camuffare davanti a Lucilla e ai ragazzi l’incipiente stato
di commozione. “È un segno di vecchiaia!” pensò e gli
venne in mente che qualche giorno prima, nella ricorrenza del 25 aprile, aveva visto una trasmissione televisiva
sulla ritirata di Russia, durante la quale alcuni vecchi reduci della Julia si erano messi a piagnucolare sull’onda
dei ricordi. E lui con loro.
Eppure al tempo della ritirata di Russia, Guido era appena nato e non capiva proprio perché dovesse commuoversi tanto a sentirne parlare, come se l’avesse vissuta
anche lui.
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Allora quel nodo in gola non dipendeva né dall’età né dai
ricordi, anche perché ne soffriva da almeno una decina
d’anni.
Decise perciò di analizzare la situazione e quando il concerto del Primo Maggio stava per concludersi ritenne di
avere, almeno da quel punto di vista, le idee un po’ più
chiare: il “nodo” era causato dalla “Storia”. Sì, dalla storia delle generazioni che avevano costruito il suo Paese,
dalle loro sofferenze che aveva rivissuto attraverso i racconti dei genitori e dei vecchi. Era come se, rievocando
un evento di quella nostra storia, lui venisse travolto da
una cascata di passioni, coinvolto in lotte, tribolazioni,
paure, entusiasmi, dalla vita nella sua pienezza, morte
compresa. E allora vedeva irrompere soldati atterriti dal
fragore delle cannonate o ansimanti come bestie al macello negli assalti alla baionetta e poi folle urlanti, le cariche dei carabinieri a cavallo, i singhiozzi delle donne e
dei bambini, una moltitudine in lotta per appropriarsi
della vita, per rivendicare il diritto di esistere e di inseguire i sogni. O anche l’incedere silenzioso, non violento,
ma nondimeno implacabile, di una folla di proletari, del
“quarto Stato” insomma come nel quadro di Pellizza da
Volpedo. Al punto che se tentava di parlare, quel nodo gli
serrava la gola e le parole uscivano ridicolmente lamentose.
In quella dimensione, storia collettiva e ricordi individuali si fondevano e si completavano. La storia siamo noi,
nessuno si senta escluso; siamo noi padri e figli…
aveva cantato Francesco De Gregori. Esattamente così.
E questo era il patrimonio che gli premeva lasciare ai figli, integro e arricchito del suo vissuto.
Bandiere rosse in piazza, bandiere con il volto di Che Gue16
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vara, “Bella ciao” cantata in coro. Ma quanto restava degli
ideali che originariamente quelle icone contenevano?
Le giovani generazioni guardano al futuro. Questo Guido
lo capiva benissimo, ma sul resto era confuso. Un futuro
migliore – pensava – lo si può costruire solo in continuità con i valori del passato, senza fratture, riconoscendosi nella storia.
L’esigenza del tutto umana e inarrestabile di andare
avanti, di superare una fase storica, rileggendola magari
con maggiore obiettività, non poteva indurre alla rimozione della storia.
Quante cose erano successe in quelle poche decine di
anni! E lui ne aveva vissute intensamente molte. Aveva
gustato gli anni della ricostruzione e della conquista
della sua piccola porzione di benessere quotidiano, si
era scambiato con i genitori tacite occhiate di intima
soddisfazione, quasi di orgoglio, davanti alla prima tavola imbandita come “cristocomanda”, o seduti sui sedili
di seconda classe imbottiti e comodi come quelli di “prima” del direttissimo Roma-Milano, con tanto di posto
prenotato. Aveva potuto pian piano fare sue le cose, un
tempo destinate a rimanere inesorabilmente nelle vetrine. E l’infanzia e la giovinezza erano corse così felicemente che avrebbe voluto riviverle esattamente com’erano state.
Lucilla lo ascoltava pazientemente quando rievocava
certi ricordi. Ma Lucilla era più giovane di lui e Guido
non riusciva a coinvolgerla fino in fondo. Forse non era
solo questione di differenza di età: era lui stesso in fin
dei conti a farsi condizionare dalla paura di risultare noioso, alla quale si aggiungeva spesso una sorta di pudore a scendere nel dettaglio dei sentimenti o a svelare
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aspetti meno pittoreschi o poetici delle ristrettezze di
un tempo, cosicché il racconto risultava quasi sempre
monco e discontinuo, talvolta fino al punto da sembrare inverosimile o banale. I ragazzi poi lo guardavano increduli e divertiti, come se raccontasse storie stravaganti.
Eppure desiderava tanto trasmettere loro le esperienze di
quegli anni, la parte migliore di sé, che era poi sprofondata nelle sabbie fini e insidiose della sua vita di adulto.
Sentiva addosso un disagio strano, un senso come di oppressione. Si guardò intorno in cerca di Lucilla e dei ragazzi. Mai come adesso avvertì che essi lo avevano ripescato da una voragine nella quale era stato risucchiato da
eventi immensamente lontani dai sogni e dai progetti di
un tempo.
Quel senso di oppressione sembrava ora dargli tregua. E
in attesa che Lucilla o i ragazzi ricomparissero nella stanza, si abbandonò ai ricordi, perché ricordare è come rivivere.
Ripensò a quella finestra che si apriva sul Lungotevere e
sentì forte e struggente il desiderio di affacciarcisi ancora come nelle belle mattine di primavera di un tempo,
quando, prima di andare a scuola, lo sguardo cadeva sulle masse vaporose verde chiaro dei platani che bordavano i muraglioni riflettendosi sulle acque del fiume.
Si adagiò nel ricordo di quei momenti e riuscì a tornare
nella casa di un tempo inondata di luce, nella cucina povera eppure beata, dove la madre preparava la colazione
tra i trilli delle rondini e le note di quella canzone che dice Voglio vivere così col sole in fronte, fischiettate
sommariamente dal padre.
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STILE NOVECENTO
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Nell’Emilia più profonda, in quella parte della Bassa che
si estende uniforme al di sotto dell’argine destro del Po,
in una serata di marzo Bicio, detto Folletto, ha lo sguardo
fisso su quei piccoli banchi di legno con i calamai di coccio delle scuole elementari del suo paese. Gli sembra ieri
di aver finito la quinta e di aver lasciato la scuola con rimpianto, perché studiare gli piaceva. Ma anche se era stato
promosso in sesta con buoni voti, papà Zuanin soprannominato “Linguria” aveva detto alla maestra, con gli occhi
bassi e girando il cappello tra le mani, che loro non potevano permettersi il lusso di farlo proseguire. Così era finito anche lui a lavorare nei campi con gli altri fratelli.
Gli sembra ieri e va verso quei banchi con lo stesso passo titubante del primo giorno di scuola.
I militi delle Brigate Nere sono lì a parlottare davanti alla porta e lanciano ogni tanto un’occhiata minacciosa
verso di lui e gli altri compagni catturati durante la notte
e pestati a sangue. Avevano tentato un’azione a sorpresa,
concordata con i capi del Comitato di Liberazione Nazionale del capoluogo: disarmare il presidio della Guardia
Nazionale Repubblicana del paese. Era andata male per
loro cinque, ma gli altri erano riusciti a mettersi in salvo.
Ma nessuno di loro ha parlato e se lo dicono orgogliosamente con gli occhi. Nessuno di loro ha tradito. Si fa coraggio e s’infila nel piccolo banco: è così mingherlino che
riesce ancora ad entrarci nonostante i suoi vent’anni suonati.
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C’è una penna nella scanalatura del ripiano e Folletto la
prende come una reliquia. Si accorge di piangere solo
quando le lacrime gli impediscono di mettere a fuoco il
pennino per controllare se è pulito, come faceva sempre
una volta prima di iniziare a scrivere il dettato con la sua
calligrafia ordinata sui quaderni che sembravano anche
dopo mesi come usciti dalla tabaccheria-emporio del
Canzioel, dove l’odore greve dei sigari toscani si mischiava a quello della carta stipata.
– Vuoi fare testamento? – chiede sghignazzando uno dei
militi, un ragazzo come lui con i tratti del volto stravolti
da una maschera di ferocia che gli serve forse solo a nascondere anche lui la gran voglia di gridare disperatamente basta e ricominciare a vivere.
Segue un conciliabolo tra i repubblichini, uno dei quali si
allontana per ricomparire poco dopo insieme a un tipo
segaligno e spiritato, di età indefinibile; sulla giubba della sua uniforme stazzonata spicca una croce vermiglia. È
il cappellano della brigata, con in mano alcuni foglietti di
carta a quadretti.
– Se volete potete scrivere qualcosa alle vostre famiglie. E
anche confessarvi… – dice in tono forzosamente burbero.
Si interrogano con gli sguardi smarriti e dopo qualche
minuto di esitazione prendono anche loro posto sui banchi in ordine sparso: Giovannino detto Dardo, fornaio;
Sergio detto Boris, muratore; Luigin detto Civetta, contadino; James detto Volpe, meccanico, il più malconcio di
tutti.
– Una bella classe di asini! – sghignazza qualcuno fuori.
Ma nessuno dei suoi commilitoni ride.
E sembrano davvero degli alunni impacciati con i loro testoni chini sul foglietto e con la penna tra le dita legate.
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– Carissimi genitori, perdonatemi per questo dispiacere...
– Cara Brunilde, la tua fotografia la porto con me dentro
la fossa…
– Miei cari tutti e paesani…
Ognuno scrive il suo ultimo messaggio, così come gli viene e come può.
Folletto, con la più bella calligrafia che gli sia mai riuscita, scrive:
Carissimi genitori, fratelli e sorelle, fatevi coraggio
perché io sono sereno, anche se penso al dolore che
proverete per questa brutta notizia. Fate avere l’altro
bigliettino alla Elisa, che volevo sposare a settembre
se Dio avesse voluto. Vi volevamo dire proprio in
questi giorni che lei è in stato interessante. Vi bacio
e abbraccio tutti e verrò da voi in sogno. Muoio da comunista cristiano. State vicini alla Elisa e a mio figlio che nascerà. Vostro affezionatissimo Bicio.
L’altro messaggio gli costa molto di più. Deve nascondersi più volte il viso tra le mani e così si sporca tutto di
inchiostro peggio che da bambino: Elisa mia, chi immaginava che sarebbe andata così quando abbiamo
incominciato. Io ti vorrò bene anche da di là e so
che tu mi risponderai. Il destino non ha voluto che
io vedessi nascere nostro figlio. Chiamalo Libero se
sarà maschio e Libera se femmina. Parlagli di me
appena capisce e speriamo che voi possiate vivere
in un mondo migliore. Elisa perdonami. Ti abbraccio forte forte e per sempre. Tuo Bicio.
A rileggerle, quelle poche parole gli sembrano terribilmente misere, rispetto alle mille cose che gli traboccano
dal cuore. Ma a Elisa le parole non servono. Torna con la
mente ai loro momenti felici, ai primi sguardi in piazza la
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domenica, al loro primo ballo durante la festa di san Venerio. Gli pare di avvertire ancora il profumo dei suoi capelli e il tepore del corpo morbido. Come è bella l’Elisa, la
sua morosa! Si perde nel suo sguardo profondo di allora.
Forse prima ha fatto solo un brutto sogno e si assopisce
sperando che lei lo baci.
È confuso quando lo ridestano.
Vengono condotti tutti fuori e in fila s’incamminano verso il vicino cimitero, scortati da un plotone di repubblichini. Sta albeggiando e sotto il nebbione si avverte la
primavera. Arrivano attutiti i rumori del quotidiano risveglio: gli zoccoli di un cavallo e le ruote del carro che avanza sull’acciottolato, qualche colpo di tosse, un camion
rantolante, il cinguettio dei passeri, un gallo.
Mentre gli fanno scavare la fossa, la campana batte le sei e
Folletto guarda verso la chiesa e cerca di scorgerne il campanile dietro la nebbia, ma la nebbia è troppo fitta. Anzi diventa sempre più fitta fino a convincerlo che è solo un
brutto sogno. Quando la scarica del plotone di esecuzione
fa crollare a terra il suo corpo, Folletto è già volato via sopra la nebbia, sottratto per sempre alle miserie degli uomini. Mai si è sentito così bene. Tutto gli è improvvisamente
chiaro e così semplice da lasciarlo stupefatto.
II
È una splendida mattina di settembre e Guido è stato
svegliato dal sole che rimbalza sui frontoni del “Palazzaccio” e irrompe dalle finestre senza tende della nuova casa, tanto più bella di quella di Terra di Lavoro, buia e
scrostata.
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Quando esce con la Annetta per andare a Tor di Nona, c’è
agitazione intorno al tribunale.
– Ma che c’è oggi al Palazzaccio? – chiede la Annetta al
portiere.
– C’è il processo per le Fosse Ardeatine. Oggi sentono il
questore Caruso. È stato lui, dicono, a dare ai tedeschi i
nomi di quelli da mandare al macello.
– O quelli o altri… i tedeschi l’avevano detto che avrebbero ammazzato dieci italiani per ogni tedesco morto, se
non si fossero presentati i responsabili dell’attentato di
via Rasella – fa un avvocatuccio con una borsa malandata sottobraccio.
– Boni pure quelli…
A Roma ci sono ancora gli Alleati, compresi gli scozzesi
con il gonnellino. Guido è felice di scendere, aggrappato
alla borsa a rete della mamma, le scalette che dal Lungotevere portano a Tor di Nona, perché il mercatino lo affascina con i suoi strani personaggi e la sua clandestinità: soldati americani, anche negri, tante donne come falchi a scrutare le bancarelle della borsa nera nel tentativo
di aggiungere qualcosa al misero boccone della tessera
annonaria, le grida dei venditori, le merci. Per lo più si
baratta: pasta in cambio di caffè o di surrogato marca
Moretto; farina, zucchero contro olio d’oliva; sigarette
contro uova fresche e così via. Ci sono anche dei banchetti con mucchi di tabacco da cicche raccolte per la
strada. Non si butta niente. I soldati americani vengono a
vendere le loro razioni in cambio di AM lire da spendere
nei casini di via degli Avignonesi e di via Capo le Case.
La Annetta, fatta scaltra come una faina dalla necessità,
mercanteggia con una vecchia contadina dall’aspetto avido un pacco di cannolicchi che Peppe riceve con una cer23
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ta continuità dall’Opera Nazionale per i Combattenti, per
avere in cambio patate e verdure fresche. Sono da poco
a Roma e si sono sistemati in una casa procurata loro dallo stesso ente al piano sopraelevato di un palazzo umbertino del quartiere Prati.
Vengono dalla Terra di Lavoro, dove Peppe era stato assunto un paio di anni prima, come meccanico, dall’Opera
Nazionale, grazie alla raccomandazione di un gerarca fascista. Avevano raggiunto Roma poco dopo la liberazione
della città, attraverso un viaggio lungo e avventuroso su
un camioncino con le poche carabattole.
Peppe aveva fatto appena in tempo, quando i tedeschi
resistevano ancora a Montecassino, a sfuggire all’arruolamento coatto. Era stato per ore in fila insieme ad altri poveri disgraziati davanti al comando tedesco, con la Annetta incinta attaccata disperatamente a lui ad aspettare
che venisse il suo turno.
In quelle ore si sentono come persi in un labirinto ossessivo, nel quale ogni percorso esplorato porta o verso cunicoli senza uscita o in direzioni assurde, che li separano
per farli ritrovare soli e senza difese nel momento più
bello ma anche più esposto della loro storia. La fila sta
per esaurirsi. È rimasto di guardia solo un soldato della
Wehrmacht, che li guarda con insistenza. Peppino si sente ancora di più confuso e incapace di valutare se il suo
destino sia ormai inesorabilmente segnato o se ci siano
ancora vie di scampo, chissà, magari non subito, ma di lì
a qualche tempo. Ce l’avrebbe fatta la Annetta a tirare
avanti, con un bambino da crescere? Ma sì, ce l’avrebbe
fatta almeno per un po’, anche perché sarebbe venuta a
darle una mano la sorella Nilde. Il lavoro non le era mai
mancato, anche se si trattava ormai solo di rattoppare
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abiti vecchi o di rivoltarli. Poi sarebbe ritornato lui… Ma
sì, Dio provvede. Non è la fine poi! Ma ad Annetta pare
proprio la fine ed è come di pietra, con gli occhi fissi nel
vuoto, aggrappata al suo Peppe, stretto nella giacchetta
lisa.
Il soldato tedesco seguita a fissarli insistentemente. A
guardarlo bene non ha un aspetto cattivo. Sono soli ora,
davanti al comando. Non ci sono occhi indiscreti e i fatti
accadono al di fuori di loro, come al cinema. Il militare ha
uno scatto: tira fuori chissà da dove un fagottello, lo ficca a forza sotto il braccio della Annetta sibilando
Schnell, schnell! e li allontana a spintoni, scomparendo
poi dentro il portoncino del comando. Era accaduto il miracolo!
Annetta e Peppe si allontanano barcollanti come se avessero preso una gran botta, poi si riscuotono e attaccano
a correre verso casa tenendosi per mano. Si fermano ansimanti nel portone guardandosi ancora increduli negli
occhi. Si stringono e scoppiano in un pianto liberatorio.
Annetta scarta il fagottello del tedesco: ci sono un paio di
scarpe ortopediche. Ne aveva proprio bisogno.
Quando finalmente arrivano gli Alleati, la musica cambia
in tutti i sensi, anche in quello letterale. Alle meste e cadenzate note di “Lily Marlene” subentrano quelle meno
romantiche dei boogie-woogie, che schiudono però
squarci di allegria, di benessere e di vitalità mai sperimentati.
Le ragazze si danno da fare con quei ragazzoni simpatici.
Annetta finisce di rattoppare abiti consunti e incomincia
a confezionare per loro audaci vestitini in seta. In casa
arriva l’abbondanza. Le “signorine” non pagano in valuta,
ma in generi alimentari destinati alle truppe: uova in pol25
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vere, latte condensato, farina di piselli, marmellata, cioccolata e altre cose mai viste. Ci sono anche le Camel per
Peppino, che fino ad allora si era potuto concedere cinque “Africa” al giorno.
Peppe e Annetta si erano conosciuti a Littoria grazie alla
bonifica dell’Agro Pontino, provenienti da direzioni diverse: lei a seguito della famiglia del fratello Anselmo,
che aveva deciso di lasciare il paese in Emilia per trovare maggiore fortuna in quella realtà in forte espansione,
come migliaia di altri emiliani, romagnoli e veneti; lui reduce da vari tentativi di sopravvivere con i mestieri più
diversi, con un camion Fiat sbilenco e pochi stracci, desideroso di mettere meglio a frutto quell’unica risorsa
nell’avventuroso sviluppo dell’Agro Pontino.
Non si presentava certo come un principe azzurro Peppe, ma così trasandato, spettinato e con la barba lunga si
inseriva bene nell’ambiente multiforme e pionieristico
della bonifica. Aveva un suo fascino. Annetta aveva capito subito che era suo compito rimetterlo in ordine e una
volta ripulito Peppe non era affatto da buttare e lei aveva un gran bisogno di crearsi una famiglia e di avere una
sua casa, perché era rimasta terribilmente sola, nonostante l’affetto dei molti fratelli e sorelle, da quando i genitori erano morti a pochi anni di distanza l’una dall’altro:
la mamma falciata come migliaia di altri italiani in quel
periodo dall’epidemia di febbre spagnola, quando lei era
ancora una bambinetta. Era toccato allora alla Nilde, la
più grande delle sorelle, accudire le altre, perché la nonna non ce la faceva da sola. E gli anni dell’infanzia erano
passati per loro nel rimpianto struggente delle carezze
della mamma. Il papà, ancora più taciturno da quando
era rimasto vedovo, se ne era andato qualche anno dopo
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in silenzio, stroncato da chissà quale malattia, senza che
nulla, all’infuori della sua tristezza, facesse presagirne la
fine, come spesso accadeva in quei tempi.
Avevano fatto appena in tempo a fabbricare una bella casa alla periferia del paese, con le loro mani, pietra su pietra, rubando, il padre e i nove figli, le ore al riposo e alle
feste comandate. Ma la domenica il papà tornava a casa
con una sporta piena di carne e di ogni ben di Dio per ricompensarli della fatica. E dopo pranzo si sedeva all’ombra del pioppo a leggere l’“Avanti” e a fumarsi il mezzo
toscano.
Annetta, come del resto le sorelle Zoraide, Gianna, Vilma
e Nilde, era proprio una bella ragazza e in diversi al paese le avevano messo gli occhi addosso. Lavorava alla sartoria dell’Artioli al quale il papà l’aveva affidata insieme
alla Zoraide quando erano ancora poco più che bambine,
perché imparassero un mestiere adatto alle donne. In verità la sartoria Artioli confezionava solo abiti da uomo,
ma l’apprendistato e i rudimenti del mestiere erano gli
stessi: ago e filo, mesi e mesi di imbastiture e sopraggitti, poi la macchina da cucire. Diversa era ovviamente nelle sartorie da donna la scuola di taglio. L’Annetta e la Zoraide erano sveglie e intraprendenti. Avrebbero potuto
fare ben altro se la morale corrente e le possibilità offerte dal paese fossero state diverse. In breve tempo divennero le più brave fra le giovani lavoranti. La Annetta poi,
abile a rubare il mestiere e a cogliere al volo le mode,
portò una ventata di vita nella stimata ma ammuffita sartoria dell’Artioli, che incominciò a sfornare non solo i tradizionali abiti della domenica o da cerimonia, ma anche
qualcosa di più allegro e adatto ai giovani.
L’Annetta rivelò per esempio una mano particolarmente
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felice nel confezionare calzoni alla zuava del tipo indossato da Rodolfo Valentino nel film “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”, molto richiesti dai giovani bellimbusti della
zona; e loro, quando venivano per le prove e si chiudevano con un Artioli ringalluzzito nel camerino con lo specchio, ripetevano a voce più alta del necessario che i calzoni dovevano essere pronti entro sabato perché c’era
una festa nel salone della villa comunale dove si sarebbe
ballato il tango. E così dicendo, nell’uscire dal camerino
di prova, lanciavano sguardi ammiccanti alla Annetta e
alla Zoraide.
Quando dunque l’Annetta aveva lasciato il paese al seguito di Anselmo per andare a Littoria, non ne aveva risentito soltanto la sartoria Artioli, ma anche il cuore di più di
qualche danzatore di tango.
Le altre sorelle erano rimaste ancora al paese, Zoraide e
Nilde fermamente decise a restarvi, perché i loro morosi
avevano lì le loro attività; Gianna e Vilma pronte invece a
trasferirsi con i mariti a Littoria non appena Anselmo
avesse individuato per loro una qualche possibilità di lavoro.
Peppe era tanto diverso dai giovani del paese e non portava calzoni alla zuava né sapeva ballare il tango, ma Annetta se ne innamorò lo stesso. Si sposarono con tutta
l’incoscienza e l’approssimazione di due giovani povericristi che il destino ha fatto incontrare, che stanno bene
insieme e vogliono costruirsi una vita senza spaventarsi
di dover partire da zero.
Peppe aveva capito subito che era troppo rischioso contare solo sul suo sciaraballe per mantenere una famiglia
ed era riuscito a farsi assumere dall’Opera Nazionale per
i Combattenti, che aveva condotto in quegli anni “la bat28
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taglia contro la mortifera palude” – così aveva detto il duce inaugurando Pomezia – ma che curava analoghe iniziative rurali sul Volturno. Fu così che Peppino e la Annetta
arrivarono ancora sposi novelli nella Terra di Lavoro.
Intorno al Palazzaccio la folla va aumentando.
La Annetta sta ancora trattando con la contadina, quando si sente provenire da ponte Umberto un vociare minaccioso che sale di intensità, punteggiato da insulti, da
parole terribili, da tonfi, da rumori indistintamente sinistri come se la folla inferocita si stesse abbandonando a
una violenza sconcia.
Tutti corrono verso la vicina spalletta del Tevere e anche
Annetta tenendo forte Guido per mano. Dalla folla si leva un urlo lungo come di appagamento bestiale e Guido,
affacciandosi al muraglione, fa appena in tempo a scorgere un corpo che compare e scompare dalle acque del Tevere in un alone rossastro. Quattro o cinque uomini lo
raggiungono con una barca e uno di essi si alza in piedi e
si affanna a infierire con un remo su quei poveri resti, incitato dalle grida della gente.
– Hanno fatto bene! – esulta qualcuno lì intorno.
– Era proprio un gran figlio di…
– Ma chi era? Che ha fatto?
– Era Carretta, il direttore di Regina Coeli. Ha dato una
mano ai boia delle Ardeatine…
Non era affatto così, ma nessuno avrebbe potuto convincere la folla in quel momento!
Guido aveva già visto i morti nei bombardamenti e da
lontano gli erano sembrati dei fantocci, ma non gli era capitato fino ad allora di vedere degli esseri umani accanirsi su un loro simile ed eccitarsi reciprocamente come un
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branco di lupi all’odore del sangue, fino a farlo a pezzi. Si
strinse con quanta forza aveva alle gambe di Annetta e
affondò la testa nelle sue carni.
III
I due ragazzini sono al chioschetto di legno verde addobbato di limoni e di noci di cocco, all’ombra dei platani del
Lungotevere a gustarsi una grattachecca in quella tarda
mattinata di metà luglio manco a dirlo soffocante. Guido
l’aveva voluta alla menta, Marco all’amarena. La vecchia
cicciona in camice bianco li aveva sì e no degnati di uno
sguardo al momento dell’ordinazione:
– Due grattachecche da dieci.
Poi aveva grattato quasi con fastidio il ghiaccio dalla colonna, servendosi di una specie di pialletta e il ghiaccio
tritato era finito nei bicchieri un po’ per forza di gravità,
un po’ con l’aiuto dell’indice non proprio immacolato della vecchia, che aveva sapientemente rovistato il serbatoio dell’attrezzo. Gli sciroppi adesso: il verde smeraldo
della menta, il rosso cupo dell’amarena. L’operazione era
stata seguita con circospezione dai due ragazzini, perché
la vecchia non godeva di buona fama, al contrario del marito, il sor Giulio, che era molto più generoso nella mescita. Ma questa volta non aveva lesinato poi tanto e aveva
completato l’opera ficcando i cucchiaini dentro le grattachecche, con lo stesso fastidio di prima accompagnato
però da un sospiro liberatorio da fatica superata.
– Ammazza! – fa Guido strabuzzando gli occhi per l’effetto paralizzante del primo boccone di ghiaccio.
– Tienilo un po’ in bocca come faccio io – consiglia Mar30
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co mentre pesta col cucchiaino nel bicchiere – quando
hai succhiato tutto il gusto, poi lo inghiotti.
La “circolare nera” in versione estiva, e cioè senza porte
e con i finestrini aperti, passa pigra, sferragliante e lamentosa sui binari proveniente dal ponte Umberto, diretta verso l’isola Tiberina carica all’inverosimile, con un
grappolo di passeggeri aggrappati alla meglio sul predellino posteriore.
– Che facciamo dopo? – chiede Guido.
– Perché non andiamo dai preti a vedere se c’è qualcuno?
– Andiamo invece a Castel Sant’Angelo, alle acque putride – propone Marco.
– Però lì ci stanno quelli di Borgo…
Pausa. Quelli di Borgo sono ossi duri e non vogliono intrusi alle acque putride. I due si concentrano nella preparazione della goduria finale: l’ultima sorsata dei resti in
gran parte liquefatti della grattachecca.
Er Zella è, come sempre, intento a ficcare pezzetti di carta e porcheriole varie negli interstizi dei muri di Tor di Nona e brontola a bassa voce. Capelli e barba lunghi e sporchi, avvolto in un cappottone militare fermato alla vita con
una corda e lungo fino ai piedi scalzi e sudici. Non ha mai
fatto del male a nessuno e non reagisce nemmeno agli
sberleffi. Dicono che fosse un artista che faceva mosaici
per le lapidi del Verano, diventato pazzo dopo la morte della moglie e dei figli sotto i bombardamenti a San Lorenzo.
– A Zellaaa…!
I due amici si fermano a guardare giù dal ponte Umberto. Sul galleggiante der Tulli c’è gente in costume a
prendere il sole. Altri fanno il bagno nel fiume.
– Perché oggi pomeriggio non andiamo al pidocchietto?
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– fa Marco alludendo a una sala cinematografica a basso
prezzo sulla via Cola di Rienzo.
– Non mi va. Fanno ancora Tarzan. L’ho visto dieci volte
e m’ha stufato.
Camminano in silenzio nelle loro camiciole di taglia sovrabbondante con le Superga di gomma che quasi affondano nell’asfalto liquefatto dal caldo africano, abbagliati
dal sole riflesso dalla facciata di travertino del Palazzaccio.
Mentre i due ragazzini camminano senza meta sul Lungotevere, l’ordinario movimento di mezzi e persone subisce come una repentina accelerazione: corre qualcosa
nell’aria di indefinito e di grave. Non si sa ancora che cosa stia accadendo, ma nelle facce della gente, negli
sguardi che si incrociano per interrogarsi, c’è sgomento
e apprensione. C’è la paura di tornare indietro, di ripiombare nel caos, di perdere quella meravigliosa condizione
di pace e di operosità da poco faticosamente riconquistata.
– Hanno sparato a Togliatti! – grida qualcuno e subito intorno a lui si assiepa gente per chiedere dove, quando, se
è morto, chi è stato. La piccola folla aumenta, aggrega intorno a sé altri passanti, altri gruppi si formano rapidamente nei pressi e si attraggono; come branchi di storni
vagano da un punto all’altro, si frammentano, si ricompongono fino a formare una grande nuvola scura, minacciosa.
– Gli hanno sparato a Montecitorio. Tutti a piazza Colonna! Stavolta non ci ferma nessuno – grida un uomo sulla
quarantina. Nella sua magrezza che fa risaltare gli occhi
spiritati, nell’abituccio misero e consunto si leggono le
privazioni di quei giorni, ma nello sguardo e nei modi ri32
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soluti c’è la smania di uscirne, di afferrare al volo l’occasione giusta per saldare i conti ancora in sospeso. Lo seguono altri come lui: un gruppo ristretto affiatato e determinato. Lo si capisce al volo.
Guido fa in tempo a scorgere che uno di loro nasconde
sotto la giacca una pistola infilata nella cinghia dei pantaloni e dà un’occhiata ammiccante a Marco.
Assiepati di fronte al caffè Ruschena ci sono distinte signore e professionisti del quartiere, per lo più abitato da
avvocati, data la vicinanza del Palazzaccio. Osservano
con artificioso distacco, ma tra di loro si scambiano
sguardi di disapprovazione, disgusto e soprattutto paura
per quella fiumana di popolino che avanza urlando. Qualcuno intona “Bandiera rossa” ed è l’innesco di un coro
possente e rabbioso. I volti dei buoni borghesi del caffè
Ruschena diventano lividi. Che cosa vogliono questi pezzenti? Le hanno buscate alle politiche e si devono solo
rassegnare. Ma Scelba non scherza e vedrai come gli farà abbassare le penne… Le signore sbiancano e sussurrano “gesù mio” pensando, per un bisogno istintivo di
protezione, a un Gesù più prossimo, a un crocifisso in
carne e ossa: si staglia nella loro mente atterrita la figura
ieratica, signorilissima di papa Pacelli con le braccia spalancate e gli occhi rivolti al cielo in segno di infinita pietà, come nella fotografia apparsa sui giornali quando andò a visitare il quartiere di San Lorenzo dopo i bombardamenti. C’è chi dice che la veste candida del Santo Padre si sporcò perfino di sangue. E il re, i Savoia…È proprio una repubblica. Chissà dove andremo a finire!
– Quel Togliatti poi, non se l’è cercata? Se fosse per lui
questa povera Italia sarebbe già finita nelle grinfie di Baffone. E allora addio piano Marshall e aiuti americani. I co33
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munisti, i partigiani sono belve, cercano solo l’occasione
per ricominciare con gli ammazzamenti e le vendette,
per distruggere, per arraffare, per fare i loro comodi, per
sbeffeggiare perfino la nostra fede. Gentaglia che non ha
nulla da perdere.
Il giornale radio dà qualche notizia in più: è ferito gravemente, lo opera Valdoni.
– Pensa tu! Addirittura Valdoni per quel maiale. Quando
gli hanno sparato, vicino a lui c’era la sua amica, quella
Nilde Iotti, la partigiana… peccato che non hanno beccato anche lei.
L’attentatore si è fatto arrestare.
I negozi abbassano le saracinesche, i tram si fermano, si
ferma tutto. Sciopero generale! Tira una brutta aria.
Piazza Colonna è invasa e la folla preme minacciosa su
Palazzo Chigi. Entrano in azione gli “scelbini”, tentano i
caroselli con le jeep regalate dagli americani, ma non c’è
spazio sufficiente per manovrare. Sparano! L’ondata della folla si ritrae come nella risacca. Si incominciano a scavare i sampietrini per fare le barricate sotto la galleria
Colonna.
Anche Guido e Marco si danno da fare e aiutano a portare selci sotto la galleria insieme ad altri ragazzini.
– Bravo maschio! – fa a Guido uno dei dimostranti con la
faccia da duro e la cicca tra le labbra. – Ma adesso andatevene.
Non se ne parla nemmeno. Mica hanno paura. Guido fa
anche lui la faccia da duro mentre incita Marco. Un nugolo di celerini con elmetto e divisa grigio-verde compare all’improvviso non si sa da dove e si avventa sui dimostranti a colpi di manganello. Segue un corpo a corpo furibondo. Manici di piccone contro manganelli. Nonostante gli
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elmetti qualche poliziotto ha la faccia insanguinata per le
mazzate, qualcun altro cade e su di lui infierisce la folla.
Sopraggiunge in soccorso uno squadrone di carabinieri in
divisa cachi, inquadrati e compatti nonostante la confusione, implacabili come una mandria di bufali. A rompersi sono questa volta le teste dei manifestanti, sotto i calci
dei moschetti che si abbattono con durezza contadina.
Volano pietre. Si sentono ancora altri spari. Non è più aria
per i ragazzini. Guido e Marco se la battono infilandosi tra
le gambe dei manifestanti e nonostante la ressa riescono
a raggiungere la vicina piazza San Silvestro, dove c’è meno gente e la situazione sembra più tranquilla. Chiusi i
magazzini de La Rinascente e quelli prospicienti della
Standa, chiuso il caffè Aragno, chiuso tutto.
Vicino casa incontrano alcuni amici del quartiere con rispettive mamme e sorelle accaldate e cariche di sporte,
secchielli e palette. Hanno fatto appena in tempo a tornare da Ostia con il trenino prima che venissero interrotte le corse per lo sciopero generale. Poi però se l’erano
dovuta fare a piedi fin dalla Piramide. Per fortuna che a
ponte Testaccio avevano trovato una bancarella col cocomero fresco.
– Daje ch’è rosso!
Raccontano le loro peripezie, come avevano saputo dell’attentato nello stabilimento balneare Belsito sentendo il
giornale radio dell’una, come tutti in spiaggia si erano
precipitati verso la stazione del trenino per non rimanere bloccati, per ritornare il più presto possibile a casa
preoccupati per i mariti, i padri, i parenti, gli amici.
– Noi stavamo a piazza Colonna. C’è stato un bel casino!
– fa Guido con l’espressione di chi può dire c’ero anch’io,
ma non la può raccontare tutta. Il portiere dello stabile,
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con la giacca della divisa grigia sbottonata e il berretto in
mano per asciugare il sudore, racconta col suo sgraziato
accento marchigiano, di aver saputo da un amico che fa
l’infermiere al San Giacomo che Togliatti non è morto,
anzi ha parlato dopo l’operazione di Valdoni e ha raccomandato la calma. Ha detto proprio state calmi, non fate
sciocchezze. Possibile? Stanno tutti a sentire a bocca
aperta e vorrebbero saperne di più, ma il portiere ammutolisce e si ricompone frettolosamente. Si avvicina al portone a passi decisi per rincasare il generale Leccisi, pensionato, impeccabile nel suo abito chiaro, con tanto di
paglietta e bastone da passeggio. Il portiere saluta in modo ossequioso, accennando a un inchino piuttosto goffo.
Il generale risponde con misurata sufficienza, poi si ferma di colpo, scruta con aria severa quel campionario di
gentucola, rimane per qualche secondo in silenzio con gli
occhi vitrei fissi nel vuoto. Si nota chiaramente tutto il
travaglio del pensiero in formazione. Infine sillaba quasi
in tono minaccioso:
– Il momento è grave. Bisogna tenere la testa sulle spalle
– e s’inoltra impettito nel portone, seguito dagli sguardi
perplessi della combriccola. Appena è scomparso all’orizzonte, alcuni ridacchiano e ad altri viene la tentazione di
fare una pernacchia.
Il portiere, per rimarcare che lui la sa lunga e non è proprio l’ultimo degli ignoranti, se ne esce con:
– Faceva bene Nerone, che li ammazzava tutti a cinquant’anni! – E non soddisfatto prosegue: – Potevamo mai
vincere la guerra co ‘sti campioni. Altro che calma. Non
li ferma più nessuno questi. Manco Togliatti.
In effetti, la tensione cresce in tutto il Paese. La radio
nei suoi scarni comunicati parla di gravi incidenti, an36
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che con morti, a Napoli, Taranto, Livorno, Genova.
L’Italia è paralizzata, spezzata, con i treni fermi e i telefoni in gran parte interrotti. Durante la notte Guido ripensa agli scontri di piazza Colonna. I genitori l’hanno
sgridato e domani di uscire proprio non se ne parla. Sono preoccupati soprattutto per i parenti della mamma
che vivono nell’Emilia rossa, nel paesino della Bassa,
dove la guerra tra partigiani e repubblichini è stata particolarmente cruenta e ha lasciato strascichi di odio.
Loro sono stati sempre molto prudenti, hanno pensato
solo a lavorare e a tirare avanti, ma la Carla, la figlia del
Sarnagòn, aveva conosciuto quel mascalzone, il Russin,
che l’aveva tirata tra i partigiani a fare brutte cose. Un
giorno quella disgraziata si era presentata di notte a casa della Nilde con il suo amico, i mitra sotto al tabarro e
una valigia piena di soldi e di cose d’oro, rubati chissà
dove. La Nilde non la voleva tenere, tremava dalla paura, poverina, ma quella brutta faccia del Russin l’aveva
guardata fissa bisbigliandole in tono minaccioso di non
fare storie e di tenere la bocca chiusa, ché loro sarebbero tornati a riprendersi la valigia entro un paio di giorni. Erano tornati eccome, e se l’erano portata via. Meglio non sapere! E non era stata la svergognata della
Carla a rapare a zero la figlia del farmacista e a trascinarla per tutto il paese con le armi puntate, lei e i suoi
compagni con i fazzoletti rossi al collo, perché andava
con un fascista di Reggio?
La mattina dopo, mentre Guido sta facendo ancora colazione, Peppino ascolta preoccupato il giornale radio.
Scelba accusa i comunisti di voler scatenare una insurrezione. Ogni tentativo di manifestazione sarebbe però stato represso con la forza. A Genova i manifestanti hanno
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disarmato la polizia e si sono impossessati anche di alcuni autoblindo. C’è veramente aria di rivoluzione.
Ma chi è questo Pallante che ha sparato a Togliatti? Chi lo
ha mandato? Dicono che è un esaltato, uno studente universitario siciliano iscritto al Partito liberale, che ha agito
di testa sua, perché, secondo lui, era stato il Migliore – così Togliatti veniva chiamato dai compagni di partito – a
dare ordine ai partigiani di massacrare tanta gente.
“Ma non venissero a raccontare storie” dicono altri: Ughetto il benzinaio è stato visto parlottare con altri comunisti,
e uno di loro, quello che sta alle Botteghe Oscure, è sicuro che si tratta di un vero e proprio complotto dei servizi
segreti americani in combutta colla mafia per mettere fuori giuoco i comunisti, privandoli della guida del Migliore.
Avevano fatto male i conti però! Togliatti questa volta deve finirla di frenare. Tutti in piazza, e con le armi! È arrivato il momento di svoltare veramente. Se no che l’abbiamo
fatta a fare la Resistenza e la guerra partigiana? Per mettere l’Italia in mano a De Gasperi e al Vaticano?
Guido è riuscito a convincere i genitori a lasciarlo andare almeno “dai preti” insieme a Marco e ad altri ragazzini
del quartiere. La chiesa è così vicina che dalle finestre di
casa Annetta può vederli giocare nel cortile dell’oratorio,
mentre lei fa la sfoglia con le uova delle galline che ha
messo in terrazza.
Sono una decina impegnati in una tappa del Giro di Francia, quella di oggi Cannes-Briançon. La pista, disegnata
col gesso sul pavimento del cortile, è lunga e tortuosa
perché è una tappa di montagna. Ci sono le Alpi. Ognuno fa tre tiri per volta, tre “schicchere” con le dita al tappetto metallico delle bottiglie di birra, cercando di mantenerlo entro il tracciato della pista. Non è facile, specie
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nei punti in cui la pista si riduce a una semplice linea serpentiforme che rappresenta i tratti più duri delle montagne sulle quali i corridori si devono inerpicare.
Guido il suo tappetto, come la maggior parte degli altri
ragazzini, lo ha levigato e zavorrato con un po’ di stucco
da vetraio per farlo scivolare meglio.
Tutti, meno Marco, vorrebbero fare Bartali, anche se è
molto indietro in classifica: settimo a 21 minuti dalla
maglia gialla Louison Bobet. Del resto è l’unico campione in gara per l’Italia, visto che Coppi non se l’è sentita
di partecipare al Tour. Marco non ci tiene perché il padre, che è tipografo dell’“Unità”, fa il tifo per Coppi.
Bartali è sì un campione, però è un “baciapile”. Allora a
Marco tocca fare l’odiato Bobet. Guido è Bartali, il vecchietto che ha già vinto il Tour dieci anni prima e chissà che non ritiri fuori la grinta di una volta. Ma è un sogno. Non ce la può fare con quel distacco. La gara parte e Guido ce la mette tutta. Marco difende la sua maglia gialla, studia attentamente il tracciato della pista, si
sdraia per terra per indirizzare meglio i suoi tiri. È pallido e gracile, visetto distinto, da signorino. I capelli sottili e ondulati, con il ciuffo che si appiccica alla fronte
per il sudore e gli occhi infiammati. Anche se fa caldo,
tossisce spesso.
– Ma che sei tubercolotico? – sbotta il Cacalocchi. Marco
avvampa e per un attimo rimane in silenzio con una
smorfia strana nel visetto, tra la stizza e il pianto. Poi si
riscuote e replica con un – Ma vaffa…–. Tocca a lui e
s’impegna ancora di più. Si va verso la serpentina delle
montagne e la schicchera di Marco è un po’ troppo forte.
È fuori per un pelo.
– Daje Bartali!
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incitano i compagni e Guido col primo tiro riesce a portarsi al bordo esterno di un’ampia curva e col secondo a
tagliare bene il percorso senza uscire di pista. Col terzo è
in testa tra le grida di gioia degli altri corridori. Anche sul
volto di Marco aleggia un sorriso.
Intanto i disordini seguitano a divampare in diverse città.
I morti tra forze dell’ordine e dimostranti sono saliti a
una quindicina o forse anche di più, dicono i ben informati. A Torino la Fiat è in mano agli operai e a Milano si
stanno tutti concentrando in piazza Duomo.
Ma non sono solo i ragazzini a pensare al Giro di Francia.
C’è chi – e sono molti – nonostante la tensione che grava
sul Paese e il rischio di ripiombare nelle violenze, tiene
l’orecchio teso alla radio per sapere che cosa stia succedendo al giro. Ci sono cime impegnative oggi, specie
l’Izoard. Il toscanaccio è forte in salita. È coriaceo, se ne
frega del freddo e della strada bianca tutta buche e breccia. Chissà che non riesca a guadagnare una manciata di
minuti. Poi domani c’è un’altra tappa dura, c’è la scalata
del Galibier e anche lì…
Molti stanno con le orecchie tese, nonostante tutto. Perdio, si avrà pure diritto a un minimo di svago, a seguire
lo sport preferito, questo ciclismo che è rinato; a discuterne con gli amici al bar, a fare il tifo. Si avrà il diritto di
tornare a sorridere, di campare insomma! Invece si rischia di tornare indietro. E pensare che due anni fa, con
la guerra appena finita, avevamo avuto la forza di rifare il
Giro d’Italia. E la gente era tornata ad abbracciarsi, a sorridere, a dimenticare l’odio e gli orrori. Che gioiosa follia
quel giro! C’erano macerie dappertutto, i ponti distrutti
dai bombardamenti, le strade piene di buche, molte non
ancora asfaltate. Non fa niente! Si corre lo stesso, riden40
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do proprio come pazzi, per tornare a vivere, per abbuffarsi di vita, dopo che è stata tanto negata.
Bartali arranca su per i tornanti dell’Izoard. Forza Bartali! Bobet è cotto. Bartali guadagna terreno, lo lascia indietro, uno a uno lascia indietro tutti gli altri. Bartali è
primo sulla cima dell’Izoard! Si grida vicino alla radio serrando i pugni, si piange di gioia come non accadeva da
troppo tempo. Bartali si getta a capofitto nella discesa.
La sua faccia è incrostata di fango e sfigurata dalla fatica
e dal freddo, ma ha staccato tutti. Un urlo: ha forato. Imprecazioni, bestemmie, morsi alle mani. Ma fa presto a
cambiare la ruota. Quanto ha guadagnato finora? Ha recuperato quasi tutto il distacco. Incredibile!
La notizia incomincia ad attraversare la folla, a Milano, a
Torino, a Genova, a Roma, a Napoli, ovunque. Entra nei
palazzi del potere. Il traguardo non è lontano, Bartali è
sempre primo. Bartali vince, Bartali ha vinto! Ha vinto!
È un’esplosione di gioia: nelle piazze sulle quali incombeva una livida atmosfera, i manifestanti e i poliziotti si abbracciano e gridano insieme “Viva Bartali, viva l’Italia”.
Ovunque si esulta: nelle strade, nei cortili delle case popolari, a Montecitorio. Anche Togliatti sorride.
Guido alza le braccia in segno di trionfo. Il pericolo è passato. Domani potrà di nuovo uscire.
IV
Il desiderio di non tralasciare nulla per garantire a Guido
tutte quelle opportunità che loro non avevano avuto, indusse Annetta e Peppe a seguire, come meglio potevano,
l’esempio dei “signori” – come dicevano loro – e a spin41
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gerlo a frequentare i preti e cioè l’oratorio della vicina
parrocchia, dove andavano anche i rampolli delle famiglie
più abbienti del quartiere. Non che fossero convinti che
all’oratorio Guido sarebbe stato in tutto e per tutto equiparato ai coetanei più fortunati, ma pensavano che comunque avrebbe tratto benefici da certe frequentazioni.
Ma anche all’oratorio Guido si ritrovò aggregato ai propri
simili e cioè a figli di portieri, domestici, pizzaioli e piccoli artigiani, che venivano convogliati in massa verso
l’Azione Cattolica e confinati in uno stanzone seminterrato del complesso parrocchiale, dove la risorsa più ambita e contesa era il tavolo da ping-pong.
I figli dei “signori” avevano invece a disposizione, come
appartenenti alla Congregazione, locali ben più accoglienti e godevano della precedenza nell’uso del lungo
cortile interno dove si disputavano partite di “palletta”,
qualcosa di simile all’odierno calcetto.
Una volta, i preti organizzarono una festa di Carnevale,
ma quando Guido si presentò all’ingresso del teatrino
dell’oratorio mascherato da Alì Babà, con il costume che
gli aveva cucito la mamma, un capetto dei “Congreguerci” – così chiamati per disprezzo dagli “aspiranti” dell’Azione Cattolica – non lo fece entrare perché – così disse – la festa era riservata a loro.
Guido era scortato da tre dei più svegli dei suoi coetanei:
Giancarlo, Marco e il “Cacalocchi”, i quali avevano molto
ammirato il costume dell’amico e con una serie di “Ammazza!” ne avevano esaltato la forte somiglianza a quello
di Alì Babà ragazzo nel film in technicolor Alì Babà e i
quaranta ladroni.
– Tu entri lo stesso, non ti preoccupare – lo rassicurò
Giancarlo e se lo trascinarono per una serie di passaggi
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segreti, con scavalcamenti impegnativi di cancellate difese da spuntoni, fino ad arrivare con il costume miracolosamente incolume proprio dietro al palco dove erano già
allineate, per la premiazione, altre mascherine: fate, damine del Settecento, Pecos Bill, Zorro, Corsari Neri etc.
In un attimo anche Guido è tra i concorrenti. C’è qualche
istante di evidente irritazione e di silenzio imbarazzato
sia da parte del prete che fa da presentatore sia da parte
del pubblico di ragazzini perbene e rispettivi familiari.
Poi il prete-presentatore si riprende e saluta con finta affabilità l’intruso: – Che sorpresa! Abbiamo anche Aladino,
che è piovuto certamente qui col suo tappeto volante.
Ah, ah!
C’è un brusio tra il pubblico, seguito dagli applausi e dalle grida dei tre amici di Guido.
– Ma quale Aladino… è Alì Babà, Alì Babà, Alì Babà – tutti quanti in coro.
Ma Alì Babà non vince, manco a dirlo, alcun premio. Bello il costume: turbante, blusa e le ampie braghe alla turca di un bel tessuto celeste lucido, meglio ancora il corpetto in velluto nero con ornamento di lustrini. Le scarpe però proprio non vanno, perché non sono ricamate e
con le punte all’insù come quelle di Alì Babà e anche la
sciaboletta che ha appesa al fianco non ricorda nemmeno lontanamente una scimitarra e anzi appare del tutto
ridicola. Peccato!
Giancarlo si ferma di botto mentre camminano per la strada mogi mogi, con la coda tra le gambe. Smucina con le
mani infilate nelle tasche dei calzoni corti, contempla estasiato un grande manifesto di Silvana Mangano anche lei in
calzoni corti e con le calze scure che lasciano scoperte le
cosce proprio nel punto più interessante. – Ammazza
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quant’è bona! – esclama con tutti i sentimenti. Gli altri approvano e sghignazzano. Riprendono a fare caciara.
Il benessere incomincia a fare capolino anche a casa di
Guido.
Hanno fatto fatica a portarla su per i cinque piani e la Annetta ha trepidato per paura che la rovinassero. Ma ora è
lì a riempire la stanza, elegante e signorile: buffet e controbuffet entrambi con specchio rettangolare di diversa
lunghezza. Al centro il tavolo grande, anch’esso rettangolare, con sei sedie imbottite belle pesanti. È completamente nera lucidata a specchio. Certo non è di legno
massiccio, ma, come si dice, tamburato. Ma adesso massicce non vanno nemmeno più. Annetta e Peppe controllano che non ci siano graffi. Lei passa delicatamente una
mano su un angolo del tavolo osservando in controluce
quella che le sembra una imperfezione. No, è soltanto
l’unto delle mani dei facchini.
Stanno montando il lampadario di cristallo, a sei bracci
che ricadono in giù, intercalati da foglie di acanto.
Quando l’elettricista ha finito di avvitare l’ultima lampadina da venticinque candele, è Peppe che gira la chiavetta dell’interruttore: uno spettacolo, una cascata di
luce che si riflette sullo specchio nero del ripiano del tavolo.
Si guardano soddisfatti.
– Sarai contenta adesso! – fa Peppe alla Annetta che da
tanto tempo lo tampinava e lei fa una smorfia trionfale
sottolineata da un gesto delle mani come per dire “Lo
credo bene. Guarda che roba…!”. Tante privazioni, tante
economie, tanta strada fatta a piedi perfino per risparmiare il biglietto del tram – fino a piazza Vittorio magari
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per risparmiare sulla spesa – tante ore passate a cucire i
vestiti per le servette venete, ma ne è valsa la pena.
– Ma che stile è? – se ne esce il portiere sopraggiunto a
curiosare.
– È stile Novecento – interviene, tra l’altezzoso e lo stizzito, Guido che l’aveva più volte sentito dire dai genitori
quando la sera si sognava tutti insieme aspettando la camera da pranzo.
Littoria è stata ormai ribattezzata Latina e Gianna vi si è
trasferita anche lei con il marito, che però non ha avuto
con l’officina da meccanico auto-moto la fortuna sperata
e ha dovuto adattarsi a fare l’operaio in una fabbrica di
vasche da bagno per sfamare la famiglia in forte crescita.
La Gianna non se ne sta con le mani in mano e sembra
aver trovato il filone giusto per arrotondare il magro bilancio familiare: il plissettato, visto che sono di moda le
gonne con le pieghe a fisarmonica. Tutte le famiglie del
vicinato ricorrono alla Gianna che sa plissettare bene e a
buon prezzo, e anche diversi coloni dei poderi sparsi nelle campagne, ai quali la Gianna fa le consegne a domicilio in bicicletta, ritornando poi a casa con polli e verdure.
Come riesca a fare il plissettato senza i costosi macchinari a vapore usati dagli altri nessuno se lo chiede, visto che
i suoi lavori soddisfano la clientela.
Il metodo è e deve restare segreto. Nessuno, all’infuori di
lei e della figlia maggiore, può entrare nello sgabuzzino
che funge da laboratorio. Il perché è presto detto: non vi
troverebbe altro che sagome di cartone, pezzi di marmo
e un ferro da stiro. E la tecnica è altrettanto elementare:
basta stirare bene il tessuto, inserirlo tra due stampi di
cartone a plissé e lasciarlo un paio di giorni pressato tra
i pezzi di marmo perché prenda bene la piega.
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Alla Gianna l’aveva insegnato per solidarietà fra donne
sul fronte del bisogno un’amica che aveva diversi figli da
sfamare e lo stipendio del marito, anche lui operaio in
fonderia, che non bastava a mettere insieme il pranzo
con la cena.
Finché dura…
V
Ci tornavano spesso al paese perché Annetta aveva sempre una gran voglia di rivedere i parenti e soprattutto di
chiacchierare con Zoraide e Nilde. Era però anche l’occasione per comprare a prezzi convenienti qualche capo di
vestiario, maglieria e l’immancabile pezzo di parmigiano.
Anche Peppe ci si trovava bene, nonostante ironizzasse
spesso sul dialetto emiliano, sul pane di quelle parti che
non aveva la mollica e non si poteva quindi intingere nel
sugo, e sul fatto che l’olio d’oliva non venisse assolutamente preso in considerazione nemmeno per condire
l’insalata.
Guido non vedeva l’ora di tornarci ogni volta, sia d’estate
sia d’inverno.
– Modena, stazione di Modena. Per Carpi, Suzzara, Mantova si cambia.
L’avviso diffuso con l’altoparlante in marcato accento locale gli metteva addosso un grande buonumore e, se era
estate, smanie di corse in bicicletta, di canne e di reti da
pesca, di pesci gatto neri con la pancia gialla, di carpe dorate, di rane, di bambine bionde e dalle buone maniere
paesane nei loro vestitini della festa, che si ritrovavano
nell’ombroso giardino della Villa comunale.
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D’inverno, e cioè durante le vacanze di Natale, le prospettive erano ovviamente diverse ma egualmente attraenti: il fascino della nebbia, qualche volta la neve, i vecchi col tabarro, le grandi tavolate con i parenti nelle cucine grondanti di sapidi vapori. Si ripetevano di anno in
anno i riti della tradizione contadina: tortelli di zucca o di
spinaci affogati nel burro per rispettare il magro la sera
della vigilia, e per il pranzo di Natale cappelletti in brodo
di manzo e cappone, poi zampone e altri bolliti con salsa
verde e mostarda.
Lo zio Dante seguitava, secondo una vecchia usanza che
accordava questo privilegio solo agli uomini, a bev’r in
vin, cioè ad aggiungere un po’ di lambrusco al brodo dei
cappelletti.
Nonostante le insistenze di Dante e la sua alterata delusione di fronte al rifiuto, Peppe e Guido non avevano
avuto mai il coraggio di provare quella variazione per gli
effetti cromatici pessimi che la mistura provocava nel
piatto.
In genere, bisognava aspettare un bel po’ alla stazione di
Modena per il treno locale, ma l’attesa non era noiosa: si
incontrava spesso qualche lontano parente o conoscente
del paese e sempre, d’estate e d’inverno, Egisto, anche
lui un mezzo parente, rotondetto, sorridente e affabile,
con il quale la Annetta si fermava sempre a spettegolare,
perché Egisto era come il gazzettino. Guido non si chiedeva come mai quell’ometto non più giovane, che in paese faceva il sarto, si trovasse sempre a passeggiare in stazione con aria comicamente cospirativa. Gli stava simpatico e tale restò per lui anche quando, divenuto più grandino, capì che Egisto stava sempre lì non perché fosse un
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amante dei treni, ma perché era un “culattone”. Lo era
però in maniera così garbata da non destare scandalo e
da risultare alla fine simpatico a tutti per il suo modo di
fare partecipe e affettuoso, quasi a voler farsi perdonare
quella sua diversità.
Il treno locale o, come lo chiamava da piccolino, il treno
col fumo s’identificava per Guido, come per molti bambini della sua età, con l’avventura del viaggio, ben al di là
dei confini del reale. Sopraggiungeva maestoso, luciferino e sferragliante tra sbuffi di vapore e di fumo nero alla
stazione facendo tremare il marciapiede, fino ad acquietarsi sui binari dopo un lungo cigolio lamentoso accompagnato da qualcosa di simile a un profondo sospiro liberatorio, come di chi conclude una fatica immane. Ma durante la sosta, scandita dal saliscendi dei viaggiatori e
dallo sbattere delle porte, nel suo petto portentoso seguitava a ribollire con un brontolio cupo, una potenza
ignea pronta di nuovo, al trillo del capostazione, a sprigionarsi sulle leve delle grandi ruote di acciaio e a farle
ruotare con quella iniziale maestosa lentezza che è propria dei giganti.
Queste suggestioni raggiungevano il culmine nell’atmosfera invernale allorché la mole possente della locomotiva sgorgava dalla nebbia in una miscellanea di fumi, scintille e rumori, suscitando visioni fiabesche.
D’estate Guido assaporava il silenzio e la languida solitudine del paese, specie quando nei pomeriggi soffocanti
scorreva in bicicletta lo stretto sentiero di sabbia di fiume ai bordi del corso Matteotti.
“Cicli ARTAR”, l’insegna a vernice nera, che spiccava anche se un po’ sbiadita sul muro di una delle case più vecchie del paese gli evocava ingranaggi perfetti, ruote e
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manubri da corsa. Allora, vincendo il rammarico di trovarsi a cavallo della modesta bicicletta della zia, si immaginava su una Bianchi celeste come quella di Coppi, con
il cambio a levetta, i tubolari leggerissimi e i raggi scintillanti e si pavoneggiava con il berrettino con la visiera di
celluloide colorata, mentre pedalava lungo il corso con
studiata lentezza per sottolineare la perfetta padronanza
del mezzo, ormai al centro del paese. Bordeggiava il bar
immerso nel silenzio grave della penombra rotto dallo
stridore delle poltroncine di ferro trascinate sul pavimento; i portoni dei palazzi più vecchi lasciavano intravedere cortili e orti con tralci di vite e galline ruspanti; la
piazza deserta nel primo pomeriggio estivo, inondata di
un sole velato dalla cappa di umidità che emanava dalle
zolle dei campi, dai canali e dal vicino Po. Nessuno sotto
i portici infuocati.
Anche il portone del palazzetto dove abitavano le zie di
Guido si apriva sul corso ed era tanto ampio da far passare un carro sulle larghe strisce parallele in pietra che
intramezzavano l’acciottolato. Tutto gli piaceva lì dentro
forse perché avvertiva nelle luci e nelle ombre, negli odori di muffa e nei suoni di quelle mura vissute serenità,
protezione, premure, intimità; le scale per i due piani superiori, fatte di mattoncini di cotto, come quelli dei pavimenti di casa, irregolari e consunti per l’uso, tirati a lucido con la cera, che ne impreziosiva l’essenza profondamente casalinga. Al di là dell’ampio atrio, il cortile e il
porticato con la pompa del pozzo, la lunga leva da azionare a forza di braccia, il sapore ferroso dell’acqua che
sgorgava a fiotti da una bocca grande e rude anch’essa di
ferro. Poi un localino appartato che fungeva una volta da
ritirata per tutti gli inquilini del caseggiato. A seguire,
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l’orto che beneficiava degli esiti delle sedute nel confinante localino, tali in senso improprio perché la struttura degli arredi imponeva posizioni alla turca. E poi la
campagna, con i campi coltivati a granturco, i lunghi filari di pioppi, le viti a festone, i gelsi, gli alberi da frutto.
Il tratto della campagna confinante con l’orto ospitava un
casolare di quelli col porticato per la rimessa dei carri,
che, costruito a suo tempo a conveniente distanza dal
paese, vi si trovava ora a ridosso.
La famiglia piuttosto numerosa che lo abitava, soprannominata dei Toursàn, sembrava costituire una comunità a
sé stante rispetto alla gente del confinante caseggiato,
che comprendeva oltre ai parenti di Guido, altre due famiglie di piccoli commercianti del paese, quella della
ssciura Diomira con negozio di merceria e quella del
ssciur Orlando, personaggio autorevole, che, tra i diversi commerci, si dedicava anche alla vendita ambulante di
tessuti. Con la buona stagione lo si vedeva infatti, di tanto in tanto, partire la mattina presto in bicicletta, con una
valigia enorme in inverosimile equilibrio sul portapacchi
posteriore e l’altra più piccola ancorata – chissà come –
poco sotto il manubrio, in impeccabile abito marrone
scuro completo di panciotto, papillon, cappello intonato.
La sera ricompariva in paese altrettanto impeccabile, dopo aver percorso chissà quanti chilometri sotto il sole e
su strade polverose per piazzare i suoi articoli tra la
clientela dei casali e nelle frazioni della campagna.
Era gente chiusa i Toursàn, che amava tenere con i vicini i rapporti strettamente indispensabili pur essendo una
delle famiglie più antiche del paese. Nessuno poteva dire
niente sul loro conto: grandi lavoratori, persone oneste,
corrette, specialmente i vecchi. – I figli, però, comunisti
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sfegatati –, dicevano i parenti di Guido alzando le sopracciglia e atteggiando la bocca in una certa smorfia che
sembrava rievocare tragedie passate che era meglio dimenticare.
C’erano anche dei ragazzini nel casolare, che avevano
con i confinanti coetanei rapporti estemporanei, come
quando, nei pomeriggi estivi, si ritrovavano lungo la rete
divisoria a scambiarsi qualche giornalino o a parlare del
film di cow-boy che avevano proiettato al cinema all’aperto.
Guido si univa volentieri alla combriccola, ma aveva dovuto faticare un po’ per farsi accettare specialmente dai
ragazzini del casolare. Anzi all’inizio il loro atteggiamento era stato addirittura ostile come se Guido, per il solo
fatto di vivere nella capitale, fosse uno spaccone intenzionato a far valere la propria superiorità e a mortificarli.
Non tralasciavano allora di deriderlo quando si mostrava
all’oscuro dei piccoli segreti della campagna o impacciato nell’arrampicarsi su un albero, magari a piedi nudi come facevano loro, o ad acchiappare le lucertole e le ranocchie.
Quando si accorsero che era invece Guido a sentirsi in
posizione di inferiorità, si dettero pian piano a coinvolgerlo nei loro giochi e, nello stesso tempo, a sollecitarlo
a raccontare della vita di città. Alla fine Guido diventò
per loro un amico importante e la sua provenienza romana motivo di orgoglio.
In un tardo pomeriggio di fine agosto, i piccoli Toursàn
sono intenti ad arrostire su un improvvisato fuocherello
le pannocchie di granoturco ancora fresco, mentre Guido e gli altri osservano interessati. Ce n’è per tutti. Questa volta però c’è una novità: nel gruppetto compare una
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ragazzina che Guido non aveva mai visto prima, bionda
con le treccine, slanciata e soda, la carnagione temprata
dall’aria aperta e di un bel colorito sano. È accoccolata
vicino alle pannocchie, seduta su una grossa pietra che
ha avuto cura di spolverare prima con la mano, e osserva
con attenzione la cottura con i suoi profondi occhi azzurro scuro quasi bleu, appoggiando il mento sulle ginocchia
e abbracciandosi le gambe avviluppate nella gonnellina
con pudore sapiente.
Guido si sente rimescolare tutto, come mai gli è capitato
finora. Si sente attratto da quella figurina vivace e allo
stesso tempo pensosa. La inattesa comparsa ne accentua
il fascino misterioso e Guido vuole capire, parlarle, farsi
inquadrare da quegli occhi profondi e persi.
– Rina, lo sai che devi andare. Non far aspettare la mamma – le grida in tono cantilenante la vecchia Toursana,
seduta sotto il porticato a fare la treccia con le fettucce
di paglia.
Rina schizza via e Guido la insegue con lo sguardo mentre inforca la bici e si allontana per la strada bianca del
casale lasciando nuvolette di polvere.
Della famiglia dell’Annetta al paese erano rimasti il fratello Dante, sua moglie Tecla e le sorelle Zoraide e Nilde,
entrambe ancora zitelle per diversi destini. La Zoraide,
più giovane, aspettava che la motonave Africa, con cui
Fernando, il suo moroso, era partito da Trieste alla volta
di Mombasa, glielo riportasse a casa. Ma pare che a trattenere Fernando a Mombasa fosse, più che la fortuna negli affari, il famigerato “mal d’Africa” contro il quale Fernando diceva di lottare disperatamente con la certezza di
vincere presto.
La Nilde invece era fidanzata da quasi vent’anni con
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Achille, che aveva una segheria nel vicino paese del mantovano e che incontrava tutte le domeniche e nei giorni
di mercato. Ai ripetuti e corali – Che cosa aspettate a
sposarvi? – rispondevano entrambi con il sorriso di chi la
sa lunga ma non la può raccontare, lasciando a intendere che quello che non era accaduto in tanti anni poteva
accadere in quattro e quattr’otto quando nessuno più se
lo aspettava.
Il capo famiglia era di fatto la Zoraide, divenuta una sarta affermata nel paese. La Nilde e la Tecla erano al suo
servizio, mentre Dante, il più anziano, amava rivestirsi di
autorità soprattutto per esigere puntualità a pranzo e per
affermare alla sera il proprio diritto, cascasse il mondo,
di andare a giocare a carte nel “bottegone”, la grande e
affumicata osteria dove – nonostante l’ammonimento
L’uomo civile non bestemmia e non sputa in terra
stampato su un cartello in lamierino – i molti avventori
continuavano da sempre imperterriti a fare entrambe le
cose. Nondimeno, per il suo carattere bonario Dante veniva trattato con affetto e rispetto, ma le tre donne sapevano che non gli si poteva chiedere di più che seguitare
a fare con tutta calma il capomastro.
Completava la famiglia il gatto della Zoraide, Mouk, il soriano fumo di Londra dal gran testone, esploratore silenzioso dei tetti circostanti nella buona stagione e ronfatore
instancabile sulla poltrona della Zoraide nei mesi freddi.
La sartoria Zoraide era in un salone piuttosto ampio al
piano sottostante l’abitazione e, oltre alla Zoraide e alla
Nilde, vi lavoravano un paio di ragazzette che nei periodi
di punta potevano raddoppiare.
La sartoria era anche un luogo d’incontro per molte signore del paese, di chiacchiere, di pettegolezzi, di aggior53
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namento reciproco sulle ultime novità, un po’ quello che
era per gli uomini il salone del barbiere.
Guido avrebbe voluto curiosarvi più di quanto gli fosse
consentito, perché si sentiva attratto da quella atmosfera di intimità femminile, fatta di momenti di abbandono,
di seni scoperti e di gambe accavallate in libertà, degli
sguardi furtivi e maliziosi che gli lanciavano le lavoranti,
fra pezze di stoffa, macchine per cucire, spolette, filati,
manichini, forbicioni e ferri da stiro.
La sera, come sempre d’estate, la piazza è un salotto popolatissimo dove la gente torna a ritrovarsi dopo cena,
pulita delle fatiche del giorno, nelle sue migliori sembianze, ognuno a proprio agio: giovani e vecchi, donne e uomini, zanzare e pipistrelli. Saluti, incontri, chiacchiere,
sguardi ammiccanti, sussurri, scoppi di risa, grida di
bambini che si rincorrono, il trillo delle biciclette che cercano di aprirsi un varco tra la gente, fidanzati dolcemente avvinti, vecchietti convenuti lì a commentare tra i rimpianti quel fluire di vitalità e a gustarselo, cullati dal brusio di fondo. Una maggiore concentrazione è a ridosso
del bar Centrale, che raccoglie la clientela più distinta,
seduta con un certo sussiego ai tavolini sotto i portici;
nell’altro lato della piazza, il più popolare e rumoroso bar
dello Sport.
È la riconquista della vita dopo gli anni dell’odio e delle
divisioni, il recupero di una tradizione profondamente
umana e felicemente paesana, dove il privato si trasfonde nel pubblico per ricreare una sorta di familiarità collettiva, nonostante ferite ancora aperte.
Sulle mura antiche della Rocca, alle lapidi che ricordano
i caduti della prima e della seconda guerra mondiale si
sono aggiunte quelle dei caduti della Resistenza. Spicca54
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no i nomi di Giovannino, Sergio, Luigin, James e di Bicio
detto Folletto, preceduti dalla scritta a lettere di bronzo
grandi e in rilievo: CADUTI DELLA LIBERTÀ.
Guido vaga apparentemente senza meta tra la gente, seguito dai figli del ssciur Orlando: la Franchina, bella rubiconda, alla prese con una fetta di anguria e Cesare, che
sfoggia la sua prima cinta di cuoio sui calzoni corti. Sono
stanchi di gironzolare senza meta appresso a Guido, e la
Franchina, finita l’anguria, se ne ritorna dal padre, che,
sempre vestito di tutto punto, parla animatamente di articoli di maglieria con altri commercianti. Cesare cerca di
trascinarlo all’arena a rivedere “Robin Hood”, ma Guido
resiste e seguita a vagare e a guardarsi intorno.
Sta quasi per mollare, ma mentre volge a caso e senza
speranza l’ultimo sguardo sconsolato sente all’improvviso un tuffo al cuore: forse quella ragazzina tra un gruppetto di donne ferme a chiacchierare vicino al bar dello
Sport è lei, è Rina; non ha più le treccine, ma i capelli raccolti all’indietro tenuti da un fermaglio, la camicetta candida, che fa risaltare ancora di più il suo visetto luminoso, il collo e le braccia tornite. Guido va verso di lei con
la paura di essersi sbagliato, ma man mano che si avvicina, l’immagine di Rina diventa più nitida. Rina è a pochi
metri, quasi attaccata alla gonna di una donna giovane,
dall’aspetto grazioso e forte allo stesso tempo, che sta salutando le amiche. Incrocia lo sguardo di Guido e per un
attimo fissa su di lui i suoi occhi profondi e dolci come il
cielo stellato. Un sorriso quasi impercettibile compare
sul visetto pensieroso.
Lo avrà riconosciuto? Rina e la mamma hanno già lasciato il gruppo delle amiche per andare a recuperare lì vicino le loro bici. Si sistemano la gonna e montano in sella.
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Si dirigono pedalando lentamente verso il Borghetto. Rina arriva a stento con la punta del piede a completare la
pedalata sulla sua bicicletta da donna, che ha la sella tutta abbassata. Anche così si muove con grande grazia. Si
volta prima di allontanarsi: Guido è lì, in mezzo alla strada, stordito da quei due occhi dolci e profondi come il
cielo stellato.
Domani mattina riprenderà il treno col fumo per ritornare a Roma.
VI
Per diverso tempo dopo averla conosciuta, a Guido piaceva pensare alla Rina prima di addormentarsi e approfittava del silenzio e della solitudine per rivisitare istante
per istante i momenti dei loro due brevissimi incontri e
ricostruire nella mente la sua figura nei minimi dettagli.
E più ci pensava più sentiva il desiderio di rivederla, di
scoprire chi fosse, dove abitasse e gli altri affascinanti segreti che quella ragazzina sembrava custodire gelosamente dietro ai suoi occhi pensosi.
La cotta si affievolì nei mesi successivi, occupati dagli impegni di scuola, dai compagni, dalla comparsa sulle strade della Vespa e della Lambretta. Ma restò a covare sotto la cenere tanto che, ai primi segnali dell’estate, il desiderio di rivederla si risvegliò imperioso. Quando il treno
col fumo lo riportò al paese, la prima cosa che Guido fece fu di andare giù nell’orto col cuore in agitazione. Fra i
Toursàn Rina però non c’era e Guido non ebbe il coraggio di chiedere subito e apertamente notizie di lei, sperando che qualcuno dei compagni la nominasse o gliene
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desse l’occasione. Oppure che comparisse all’improvviso
come era successo la prima volta.
Così accadde, ma solo dopo qualche giorno di inutili e vaghi tentativi di ricerca per il paese e di speranze disilluse. Rina ricomparve più deliziosa di prima, cresciuta, vellutata come una pesca. Salutò Guido con un ciao quasi
distratto, mentre scendeva dalla bici e andava a sedersi
vicino alla vecchia Toursana intenta come sempre a fare
la treccia.
Quel ciao detto distrattamente e in lontananza con dolce
cadenza emiliana stordì Guido come un diretto al mento.
Replicò con un ciao rantolante avvertendo, con imbarazzo, di essere diventato rosso e si girò per non farlo notare. Ma dentro di sé era al settimo cielo.
Per attirare l’attenzione della Rina incominciò a parlare a
voce alta e a fare un po’ lo spaccone. Ma poi gli sembrò
di esagerare e cambiò stile, col risultato di aggrovigliarsi
sempre di più in atteggiamenti e discorsi assurdi, che finirono per renderlo decisamente ridicolo. Rina seguitava
apparentemente a parlottare con la vecchia e a ignorarlo, fino a quando, di fronte a una sua nuova uscita più
esagerata delle altre, gli lanciò uno sguardo che a Guido
sembrò quasi di compatimento.
Allora si innervosì e non sapendo come uscire da quella
situazione disse di sentirsi male e se la svignò, sperando
in questo modo di offrire alla Rina una giustificazione
delle sue stranezze e nello stesso tempo – perché no – di
farla trepidare per la sua salute. Se ne pentì quasi subito,
ma sarebbe stato indecoroso tornare indietro.
A letto ripensò intensamente alla Rina, quasi detestandola per la sua freddezza. E se fosse stato veramente male?
E se l’avessero ricoverato in ospedale? Allora sì che
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avrebbe voluto vedere la sua faccia, di fronte a lui steso
sul letto con appena una leggera smorfia sulle labbra nonostante dolori atroci, come John Wayne quando gli
estraggono una freccia dalla spalla… Lui pure dopo tutto era rimasto ferito al ginocchio scalando le mura sopra
le acque putride qualche giorno prima. E lei questo non
lo sapeva! Superò i desideri di rivalsa in chiave tribolatoria e si abbandonò alla piacevole prospettiva di rivederla
l’indomani e di parlarle a tu per tu.
Durante la notte sognò di girare per le vie del paese su
una grossa moto, ammirato da tutti. In piazza, davanti al
bar Centrale e sotto gli occhi degli amici, si era fermato
e facendo rombare per un attimo il motore con un colpetto di gas, l’aveva invitata a salire con un cenno del capo e lei era saltata su a cavalcioni e gli si era aggrappata
addosso, anche perché era partito in bruciante accelerazione. Poi si era sentito la sua guancia sulla spalla e voltandosi un pochino per guardarla era finito con il naso
tra i suoi capelli e aveva sentito il profumo delle spighe
che si mettono nella biancheria.
La mattina si era svegliato felice e aveva evitato con cura di toccarsi la testa per non far svanire quel sogno. Era
così rimasto a letto per un bel pezzo a fantasticare e a
guardare le immagini che la luce, penetrando attraverso
uno spazio tra le pesanti imposte di legno, proiettava capovolte sul soffitto, come nella camera oscura di una
macchina fotografica. Vi vedeva scorrere biciclette, carri
e pedoni in una luce magica e provava a riconoscere
qualcuno dei passanti associando quelle immagini sfocate e fugaci ai rumori e alle voci.
– Chi hai visto ieri dei tuoi amici? – gli aveva chiesto la
Nilde. E lui li aveva nominati tutti, la Rina per ultima,
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sforzandosi di apparire indifferente mentre pronunciava
quel nome.
– Com’è carina la Rina, neeh! – era saltata su la Nilde
guardandolo con un’aria furbetta e ammiccante che
l’aveva subito fatto diventare rosso.
– Poverina, lo sai che non ha il papà? Lei non era ancora
nata quando lo hanno fucilato durante la guerra per quelle brutte storie di fascisti e partigiani. C’è una lapide alla
Rocca con il suo nome e quello degli altri partigiani. Io lo
conoscevo, Bicino. Sembrava un putèl svelto come uno
scoiattolo. Pensa che lo chiamavano Folletto. Che coraggio che hanno avuto ad ammazzarlo in quel modo! Non
ha fatto in tempo neppure a sposarsi con la Elisa, la
mamma della Rina. Ne ha dovuti fare di sacrifici lei per
tirare su la bambina. Meno male che stanno tutti insieme
nella casa dei vecchi e uno aiuta l’altro – proseguì la Nilde. – La Elisa vive per la figlia e non le fa mancare niente. La tratta come una principessina. Vedi come è sempre in ordine! Ma anche la Rina è una ragazzina seria.
Studia, è sempre promossa con bei voti…
Non era certo avara di notizie e di chiacchiere la zia Nilde e così Guido apprese che la Elisa faceva l’operaia in
una maglieria di Carpi e che tutte le mattine si doveva
svegliare alle cinque, farsi qualche chilometro in bicicletta per andare in stazione a prendere il treno fino a Carpi,
dove trovava una corriera della fabbrica che portava finalmente lei e gli altri operai, prevalentemente donne,
sul posto di lavoro. Se nevicava o pioveva a dirotto, la Elisa si concedeva il lusso di prendere la corriera da casa fino alla stazione di partenza, risparmiandosi la pedalata
mattutina, ma andando incontro a una piccola spesa –
quella del costo del biglietto – che preferiva evitare a me59
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no che le condizioni del tempo non fossero proprio proibitive.
I vecchi, e cioè i genitori della Elisa, Gaetano detto il
“Suldà” e la moglie Generosa, avevano alla periferia del
paese una osteria, con un grappolo di uva dipinto sull’insegna di lamiera. La mandavano avanti soprattutto con
l’aiuto della sorella minore dell’Elisa e quello saltuario
del marito che lavorava in un caseificio e faceva orari
compatibili.
Anche la Elisa dava una mano quando poteva e abitava
insieme agli altri nelle stanze dei due piani superiori del
fabbricato, che apparteneva per intero alla famiglia.
Gli altri figli erano andati ognuno per la sua strada.
Dietro l’“Osteria del Grappolo” o del “Suldà” c’era un pergolato e poi un bel pezzo di terra con il campo di bocce,
l’orto e il pollaio.
L’osteria si animava la sera, quando al termine di una
giornata di lavoro l’abituale clientela del paese, fatta per
lo più di operai, manovali e contadini, si ritrovava per la
consueta partita a carte o, quando era buona stagione,
per giocare alle bocce. Estate o inverno che fosse, i tavoli degli avventori erano allietati da “pistoni”, ossia bottiglie di lambrusco, che accompagnavano spuntini a base
di gnocco fritto, servito ancora caldo dalla Generosa, e da
salame “casalino”, come diceva lei.
La Generosa era una donna spiccia e gentile nello stesso
tempo, che soltanto a vederla metteva di buon umore.
Quando non era impegnata ai fornelli, la trovavi sotto al
pergolato a fare il bucato ancora nel mastello, con il tocco di sapone Scala e con la cenere del camino per sbiancare ancora meglio le lenzuola.
Le piaceva cucinare e ci riusciva benissimo. Sembrava
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che ci godesse a vedere gli uomini gustare le sue pietanze,
anche se erano rare le occasioni che le permettevano di
esprimere tutte le sue potenzialità culinarie. Si doveva invece adattare più spesso – ma lo faceva volentieri – a cucinare quello che le portavano i clienti per cene improvvisate: rane, pesci gatto, fagiani, lepri, galline faraone.
Gli anni se li portava bene, nonostante avesse incominciato a faticare fin da bambina in campagna. Da ragazza
aveva fatto anche la mondina, come molte altre giovani
della zona, costrette dal bisogno a sobbarcarsi per quasi
due mesi, lontane da casa, la fatica della monda e, peggio
ancora, della messa a dimora delle nuove piantine nelle
risaie, chine per otto ore al giorno con le gambe immerse nell’acqua, fra gli insetti e sotto il sole cocente. Per ritornare al paese trionfanti con il gruzzolo che avevano
guadagnato e con il sacco di riso dato dal padrone a integrazione del salario.
Doveva essere proprio di costituzione robusta se a cinquant’anni suonati stava ancora dritta, sulle sue gambe
forti e sempre belle.
Gaetano l’aveva sposata quando era tornato dalla guerra
fortunatamente sano, anche se sembrava l’ombra del ragazzo prestante che era partito tre anni prima. L’aveva
fatta veramente la guerra e ne aveva di storie da raccontare quando riprese a gestire l’osteria che i suoi gli avevano lasciato.
È davanti all’osteria del Suldà che Guido s’imbatte nella
Rina, mentre vagava in bicicletta pensando a lei:
– Già sei guarito da ieri?
Sono soli, uno di fronte all’altra, come mai era accaduto.
Lui diventa di nuovo rosso mentre mormora una qualche
spiegazione seguita da un: – Che cosa fai qui?
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– Questa è l’osteria dei miei nonni. Io abito qui sopra. Se
vuoi ti faccio vedere i conigli nell’orto.
È frastornato, ma prova un piacere nuovo e pieno accanto alla Rina e quando tutti e due chini con le mani appoggiate alle ginocchia vicino alla gabbia dei conigli s’incontrano con lo sguardo, Guido è sicuro che anche Rina è
contenta di stargli vicina. Rimangono muti per qualche
istante e poi la vede aprirsi per la prima volta in un sorriso e gli occhi stellati acquistano una profondità nella
quale Guido veleggia come un gabbiano. La Rina sta entrando nella sua vita con la grazia e la leggerezza di una
antilope, ma guardinga e pronta a schizzare via con un
balzo al minimo gesto sbagliato. E Guido incomincia a capire.
VII
Guido si sentiva molto più leggero da quando aveva preso la licenza liceale. Per l’Annetta era molto di più che
una fatica superata. Era raggiante e non tralasciava occasione, ben spalleggiata dalla Nilde e dalla Zoraide, per
vantarsi al paese del successo scolastico del figlio con
tutti quelli che incontrava, senza stancarsi mai di ripetere che era stato il migliore della classe, anzi di tutto il liceo Dante Alighieri, uno dei più severi di Roma e che in
prospettiva c’era una borsa di studio per l’università.
Guido si sentiva in imbarazzo di fronte agli altri quando
era presente a questi panegirici, anche perché l’Annetta
esagerava e a lui sembrava che i sorrisi e i complimenti
che gli venivano rivolti fossero spesso altrettanto esagerati e, se provenienti da altre mamme di studenti, anche
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venati da invidia o da velleità di competizione e tutt’altro
che sinceri. Del resto ciò che gratificava di più l’Annetta
era proprio il fatto di essere nelle condizioni di far crepare di invidia le sue amiche, le quali cercavano come potevano di respingere l’attacco decantando a loro volta i
successi e la genialità dei propri figli.
Ma c’era da capirla la Annetta, perché per lei Guido era
tutto, specie da quando Peppe se ne era andato in pochi
giorni per una paresi intestinale. L’avevano quasi dovuto
trascinare a forza in ospedale e quando si era reso conto
che non si trattava di una indigestione, ma che stava per
morire, li aveva fissati e accarezzati a lungo, sussurrando
alla Annetta “Mandalo dai preti” . Poi all’improvviso si era
alzato dal letto per andare incontro al fratello Paolo,
morto qualche anno prima con il torace schiacciato in un
incidente di lavoro, che aveva visto entrare nella stanza.
L’Annetta era così rimasta sola ancora giovane, con un figlio da crescere e con una pensione detta di reversibilità
che sarebbe bastata appena a pagare l’affitto della casa al
piano soprelevato dove avevano fino ad allora abitato.
Era stata allora costretta a malincuore a sistemarsi in un
appartamento più piccolo, di due camere e cucina, che
aveva voluto a tutti i costi in zona, perché si sarebbe sentita morire ad andare in periferia e l’avrebbe vissuta come una seconda disgrazia dopo la morte di Peppe: sarebbe stato come se tutti gli sforzi e i sacrifici che avevano
fatto in quegli anni difficili non fossero serviti a nulla. Sarebbe stato come vanificare i grandi progetti che lei e
Peppe avevano fatto per l’avvenire di Guido. Era assolutamente necessario fargli frequentare una buona scuola
superiore, quella dove sarebbero andati i compagni benestanti.
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In barba ai consigli di parenti e amici di avviare Guido a
un istituto tecnico, cioè verso un diploma che gli offrisse
ben presto possibilità di lavoro, la Annetta non aveva
avuto esitazioni a volere il massimo per lui: il liceo classico, quello dove andavano “i signori” e che apriva le porte all’università. Ci avrebbe pensato lei a mantenerlo agli
studi, a costo di mangiare pane e cipolla e di diventare
orba sui vestiti.
Anche per questo era indispensabile restare lì. Non l’aveva mai lasciato il mestiere e anzi si era fatta una certa
clientela nel quartiere, nonostante Peppe l’avesse più volte invogliata a smettere di fare la sarta, visto che, secondo lui, non ce n’era più la necessità e che gli dava fastidio
vedere tutte quelle donne e quegli stracci per casa.
Per fortuna non l’aveva fatto. Era venuto il momento di
darci dentro. Una delle stanze della nuova casa, quella un
po’ più grandina, avrebbe dunque ospitato la sartoria:
macchina da cucire, tavolo da taglio e da stiro, ometto –
cioè il manichino –, il vecchio armadio con lo specchio,
ma anche un divano letto per far sedere le clienti e per
dormire lei.
Nella seconda stanza, i mobili della camera da pranzo stile Novecento erano entrati a malapena e certamente non
sarebbe stato possibile utilizzarli per la loro funzione,
perché il tavolo era schiacciato tra i due buffet e uno dei
lati lunghi era a ridosso del letto di Guido. Ma avevano un
significato particolare per loro e non se ne erano voluti
privare. Così il bel tavolo nero lucidato a specchio, sul
quale avevano sognato di celebrare i momenti più solenni della loro vita familiare, venne da allora utilizzato da
Guido come scrivania, previe adeguate protezioni.
Tra una versione di greco e una di latino, Guido si adat64
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tava ad aprire la porta alle clienti e a fare consegne a domicilio dei vestiti confezionati dalla Annetta. Gli avanzava il tempo di andare a svagarsi un po’ nell’oratorio e poi
di approfittare delle occasioni che la scuola offriva in fatto di sport, in particolare le corse campestri domenicali,
che non richiedevano se non un paio di calzoncini corti e
le scarpe di gomma.
La sera, la Annetta e Guido si ritrovavano soli soletti a cena a chiacchierare e ascoltare la radio, ma soprattutto a
darsi coraggio l’un l’altra senza bisogno nemmeno di dirlo.
Avevano sofferto tanto a lasciare la vecchia casa piena di
sole e di ricordi, con le finestre che spaziavano su un panorama di Roma che aveva alimentato i loro sogni.
Cascasse il mondo, alla puntata al paese non rinunciavano mai, anche se le permanenze si erano abbastanza accorciate, visto che la Annetta non poteva permettersi il
lusso di stare con le mani in mano troppo a lungo. Anche
per una questione di mancanza di spazio disponibile nell’angusto appartamento, lei non poteva dare alla propria
attività una dimensione maggiore e andare al di là di
quanto riuscisse a fare da sola o con l’aiuto saltuario della signora Irma, una simpatica veneziana abbandonata
dal marito, la quale, con il suo carattere allegro, sapeva
soprattutto farle compagnia e tenerla su di morale.
Le visite al paese servivano alla Annetta anche per scambiare idee e modelli di carta con la Zoraide, la cui sartoria seguitava a marciare bene, nonostante l’abbandono di
campo della Nilde.
Perché, zitta zitta, la Nildina si era sposata col suo Chillìn: era stato un vero e proprio colpo di mano che aveva
lasciato spiazzati tutti, da una parte e dall’altra, e cioè parenti di lei e di lui. Nessuno li avrebbe mai ritenuti capa65
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ci di osare tanto e nessuno era ormai disposto più a credere che Achille, Chillìn, ormai vicino alla sessantina, se
la sarebbe sentita di cambiare vita.
E difatti non la cambiò poi molto, perché la Nilde andò
ad aggiungersi al discreto numero di sorelle, fratelli, cognati e nipoti, che costituivano la famiglia di Achille e che
abitavano un grande e articolato caseggiato, ove l’unico
spazio di intimità riservato alla nuova coppia era una lugubre stanza da letto. Tutto il resto era in comune come
in un kibbutz.
Annesso al caseggiato c’era il capannone di Achille, con
segheria e deposito di legnami. Completava, infine, le
proprietà della famiglia, un bar-tabaccheria-trattoriapensione, così che la piazzetta della stazione ferroviaria
era quasi per intero occupata da loro.
La Nilde, come tutte le altre donne, doveva dare una mano, il che significava non solo stare a turno dietro al banco del bar a iniziare dalle cinque di mattina, ma se necessario, aiutare in cucina, e tenere dietro agli uomini e cioè
lavare e stirare per tutti. E come rifiutare di dare una mano, qualche volta, anche a scaricare il legname insieme
agli altri?
Chillìn era contento della sua donna e non aveva nulla da
rimproverarle, se non che le piaceva un po’ troppo dormire, specie d’inverno quando faceva freddo e per la nebbia non si vedeva neppure l’insegna della stazione.
I primi tempi la Nilde aveva spesso gli occhi lucidi e la
domenica pomeriggio, quando le era riconosciuto il diritto di avere qualche ora solo per sé, andava a piangere
dalla Zoraide.
Dopo un annetto però mostrò di essersi abituata al nuovo
genere di vita e di trovarsi bene in quella casa e guai allo66
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ra a criticare Chillìn o qualcun altro dei suoi. Questa rassegnazione mandava in bestia la Zoraide e ancor di più la
Annetta, che sottoponevano la povera Nilde a bordate di
rimproveri e di commiserazioni, come se fosse ormai diventata una povera scema incapace di farsi rispettare.
Non avevano capito o non potevano capire per differenza
di temperamento che invece la Nilde era veramente felice, perché aveva avuto finalmente l’occasione per liberare la sua vera indole, che era quella di una santa.
Guido andava spesso a trovarla e lei ne era immensamente felice e si prodigava in premure e attenzioni verso di
lui e subito dopo verso i nipoti acquisiti, decantando all’uno i meriti degli altri e viceversa. Le piaceva, in particolare, creargli occasioni di incontro con la Marcella, una
ragazzetta in fase di forte sviluppo, che prometteva senz’altro bene ma che a lui non interessava, perché ogni
volta che rivedeva la Rina ne restava sempre più affascinato.
In quegli anni avevano avuto diverse occasioni di stare
insieme e conoscersi meglio, soprattutto gite in bicicletta
con altri coetanei del paese o come quella volta alla Fiuma a pescare e a fare il bagno o ancora una sera anche
con la mamma della Rina e altri adulti a prendere le rane
con le lampade a carburo e la lenza col granoturco. Erano
andati poi tutti alla trattoria del Suldà a farsele cucinare
fritte dalla Generosa. E Guido cercava in ogni modo di
stare il più possibile vicino alla Rina e rimaneva contrariato quando qualcun altro lo precedeva e la Rina non faceva niente per toglierselo di torno. Allora si indispettiva e
si metteva a ridere e scherzare con qualche altra ragazzina, fosse pure la Franchina che cresceva più in larghezza
che in lunghezza, con la speranza di far ingelosire la Rina
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e siccome lei rimaneva del tutto indifferente si indispettiva ancora di più e la notte stentava a prendere sonno.
“Com’è strana la Rina” pensava Guido. “Non si riesce mai
a capire che cos’ha in testa”. Quando gli sembrava che
tra di loro ci fosse ormai un rapporto diverso che con tutti gli altri, eccola far qualcosa come per far intendere che
non era affatto così. Soprattutto ora che era diventata
proprio una bella ragazza. Eppure…
Guido incominciava a essere sospettoso e geloso.
La notte è calda ma luminosa come di rado accade nella
Bassa e loro si trovano soli mentre il resto della compagnia si è fermato a prendere un gelato. Forse non è capitato per caso. Lo hanno desiderato entrambi. Si incamminano silenziosi verso la parte più buia della villa comunale, dove si notano palpitare delle piccole luci.
– Ma guarda! Ci sono le lucciole laggiù – fa lei prendendolo per la prima volta per mano. Sono avvolti da sciami
di lucciole danzanti e di stelle e del resto della compagnia
rimane soltanto l’eco di parole e di risa lontane. È ancora lei a prendere l’iniziativa: si stringe di più al fianco di
Guido avvolgendogli il braccio con il suo. Lo guarda in
una maniera nuova. Anche nei suoi occhi blu danzano
sciami di lucciole e di stelle. Si ritrovano uno di fronte all’altra e Guido si accorge di tremare quando si decide di
baciarla come si può fare la prima volta.
La Rina non ne aveva voluto sapere di andare ad abitare
nella nuova casa dove la Elisa si era sistemata dopo il matrimonio con un operaio della maglieria di Carpi.
Era rimasta in quella di famiglia sopra l’osteria del Suldà,
ma ora andava sempre più spesso a trovare gli altri nonni, i Toursàn.
Erano stati mesi difficili quelli che avevano preceduto il
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matrimonio e dolorosi per madre e figlia. Ma la Rina non
era stata capace di accettare l’idea che la figura del padre venisse sostituita da un estraneo qualsiasi, senza una
storia, e se aveva ormai l’età sufficiente per capire le esigenze di una donna giovane, bella e piena di vita come la
Elisa, non ne condivideva la scelta. Era per lei un oltraggio alla memoria e alla figura del padre, che era abituata
a sentire esaltata in casa e nelle cerimonie ufficiali.
Questa figura l’aveva accompagnata e sorretta fino ad allora, compensando con l’orgoglio della memoria l’assenza di tutto ciò che l’abbraccio del padre le avrebbe donato. E cercava di immaginarselo, tentando di creare nella
sua fantasia il tepore del contatto fisico con il padre e
l’odore del suo corpo.
Dimostrava sotto questo profilo una sensibilità esasperata, che minacciava di contagiare altri aspetti del suo carattere. Soffriva lei e faceva tribolare forse ancora di più
la Elisa che, dopo aver dato tutta la propria giovinezza a
quella figlia, riteneva di meritare almeno un po’ di comprensione.
Ciò che la addolorava di più era che la Rina si sottraeva
alle sue premure o le subiva con ostentato fastidio, come
se volesse farle capire che ora non aveva più il diritto di
occuparsi di lei. Era come se la Rina fosse caduta in un
vortice che la trascinava sempre di più in un abisso di disprezzo e crudeltà d’intensità pari all’affetto prima riversato sulla madre. Era come se le negasse il diritto di essere ancora sua madre.
Non si confidava con nessuno la Rina e teneva tutto dentro di sé, ma in paese sapevano di questa situazione e
compativano la Elisa, ma provavano anche pena per la
bella Rina che non sorrideva più.
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– Sai qual è il mio vero nome? È Libera; ti piace?
– È un bel nome, ma anche Rina mi piace – risponde Guido.
– Prima di morire, mio padre lasciò scritto di chiamarmi
Libera. Tu sai la storia di mio padre. Era un partigiano.
Venne catturato dai fascisti durante un’azione e poi torturato e fucilato. È medaglia d’oro della Resistenza.
– Sì lo so, me l’hanno raccontato i miei. Ho visto la lapide in piazza…
– Non sarai mica fascista tu? Roma deve essere piena di
fascisti.
– Beh, sì. Cioè, no. Voglio dire io no, ma al liceo ce n’erano molti di “Giovane Italia”. All’università sarà ancora
peggio. Il Fuan è forte – risponde genericamente Guido
sperando che la Rina non tocchi più quel tasto, perché in
realtà a lui quelli della “Giovane Italia” non stavano antipatici. Anzi un paio dei suoi migliori amici erano proprio
dei gruppi giovanili del Movimento Sociale Italiano e insieme a loro aveva partecipato ad alcune manifestazioni,
come quelle contro l’invasione sovietica dell’Ungheria. Li
aveva poi aiutati a organizzare, grazie alle sue entrature
nella parrocchia, una messa in suffragio dei caduti nell’insurrezione ungherese e l’iniziativa aveva riscosso un
certo successo, tanto che ne avevano parlato “Il Tempo”
e “Il Secolo d’Italia”. Degli insegnanti del liceo, ricordava
quasi con affetto il professore di filosofia, che era di destra come il fratello regista cinematografico gradito al regime fascista. Ma c’era di più: era tesserato alla “Società
Sportiva Fiamma”, che faceva indossare ai propri atleti
tute e magliette rigorosamente nere. E lui aveva diverse
fotografie in quei panni. Era assolutamente necessario
che la Rina non venisse a sapere nulla di tutto questo.
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Del resto tale era l’ambiente nel quale era cresciuto: anticomunista. Per i preti della parrocchia, per la gran parte degli insegnanti, per i coetanei delle famiglie perbene
del quartiere il comunismo era il vero pericolo, non i nostalgici del fascismo. E anche i poliziotti e i carabinieri di
servizio alle manifestazioni sembravano guardare con
una certa indulgenza i ragazzi della destra, amanti della
patria e dell’ordine. Ce n’erano di comunisti in giro, anche tra gli insegnanti. Bastava guardarli!
Guido si spaventa all’idea che la Rina possa leggergli nel
pensiero e cerca di cambiare discorso, ma niente.
– Hai visto che cosa è successo a Reggio Emilia qualche
settimana fa? Cinque morti per colpa dei fascisti. Tutti di
queste parti!
Guido aveva seguito durante l’estate le cronache dei disordini che erano successi in varie parti d’Italia, dopo che
il governo Tambroni aveva dato il suo assenso al Movimento Sociale Italiano a tenere il congresso a Genova.
Anche a Roma, a Porta San Paolo, c’erano stati incidenti
e i carabinieri avevano addirittura fatto una carica di cavalleria per disperdere i dimostranti. I suoi amici “fasci”
si erano esaltati per questa prova di forza che finalmente il governo aveva dato. E i “compagni” se l’erano buscate. A Genova e a Reggio Emilia però era stata dura perché molti comunisti – tutti ex partigiani – erano comparsi in piazza armati. Molti erano stati i feriti, anche gravi,
tra le forze dell’ordine. Che cosa avrebbero dovuto fare
allora i poliziotti? Farsi massacrare tutti? Anzi, troppo
bravi erano stati!
– Non mi dici niente tu? Non te ne importa niente di
quello che succede? – incalza la Rina.
– Certo che m’interessa. Dico però che bisogna vedere
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anche come sono andate le cose. Non credo che i poliziotti siano degli assassini… – azzarda Guido senza riuscire più a trattenersi e il visino della Rina avvampa di
colpo.
– Allora per te va bene che i fascisti tornino a comandare. Che quelli che hanno torturato e ucciso mio padre…
– Ma cosa c’entra questo, adesso…
– Lo sapevo! Sei un fascista, o se non sei fascista sei un
asino, anche se hai preso la licenza liceale e andrai all’università – e così dicendo si allontanò quasi correndo.
Di lì a qualche giorno ci sarebbe stata la “Fiera millenaria
di Gonzaga”, un evento importante per quelle zone, che si
celebrava fin dal quindicesimo secolo per iniziativa pare di
Francesco II Gonzaga, il quale caduto malamente da cavallo nei pressi del paese, pensò bene di ringraziare la Madonna per non averci rimesso la pelle dedicando in suo
onore una grande festa per l’otto settembre di ogni anno,
non solo religiosa ma anche di svago per il popolo e di libero commercio senza imposizione di gabelle.
Se nei secoli passati convenivano dunque a Gonzaga per
i primi di settembre contadini, artigiani, commercianti,
allevatori di bestiame con ovini, bovini, suini e animali da
cortile, zingari, saltimbanchi e malandrini, col progredire
dei tempi la fiera aveva assunto sempre di più connotazioni industriali, ma non aveva ancora perso il suo carattere popolare e rurale e gli animali seguitavano ad avere
il loro spazio accanto alle nuove macchine per l’agricoltura e ad altri prodotti della vivace inventiva delle molte
aziende locali.
Per la fiera si mobilitava anche la famiglia di Achille, Nilde compresa, non solo per fare fronte alla numerosa
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clientela che affollava in quei giorni il bar e la trattoria
nel piazzale della stazione, ma anche per condurre fino a
notte inoltrata il chiosco con tabaccheria, che Chillìn era
riuscito ad accaparrarsi nel comprensorio della fiera.
Si mobilitavano anche le donne per dare una mano in cucina nell’immenso tendone dell’“Unità”, dove si poteva
gustare alla sera un piatto di cappelletti in brodo seduti
uno accanto all’altro sulle lunghe panche di legno, al suono di una orchestrina con fisarmonica e sassofono in posizione dominante.
La Generosa del Suldà ci andò come sempre anche quella volta portandosi appresso la Rina e Guido la trovò a
stricar, cioè a confezionare a mano i cappelletti.
Guido si avvicina timoroso al piccolo esercito di donne
indaffarate e con le mani e i grembiuli bianchi di farina.
C’è anche Rina, ma non vociante e sorridente come le altre. È a testa china e si vede che sta inseguendo i suoi
pensieri, quasi imbronciata. Non si sono più visti dopo
quella discussione ed è passata quasi una settimana da
allora. Non si accorge di lui e Guido rimane lì a guardarla e le appare ancora più desiderabile in quella dimensione casalinga. È la Generosa a sciogliere inconsapevolmente la sua situazione di imbarazzo:
– Toh, guarda chi c’è: Guido! Rinaa, hai visto?
Lei spalanca le finestre degli occhi.
– Andate a ballare, voi che siete giovani – li incita quasi
gridando la Generosa con l’approvazione evidente delle
amiche.
Rina si leva il grembiule e si spazza di dosso la farina, ma
quando si avvicina a Guido ancora odora di sfoglia e del
pesto dei cappelletti.
Se ne vanno senza dire niente verso la pista da ballo.
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L’orchestra già ci dà dentro e molte sono le coppie di tutte le età che piroettano sull’onda di una mazurca.
Guido è in imbarazzo. Sa a mala pena fare il ballo della
mattonella, figuriamoci il liscio! Ma la Rina se lo trascina
in pista e lui non si sente di resistere e di sprecare l’occasione di stringerla.
Lei parte in quarta, ma s’accorge subito che Guido è a disagio. Sorride e cerca di guidarlo, ma dopo qualche minuto di sofferenza ecco che l’orchestra conclude la mazurca tranciandola di netto. Seguono istanti di silenzio
durante i quali loro si staccano. Poi parte a sorpresa un
motivo lento e romantico: “Estate”, un successo di Bruno Martino. Il cantante che lo imita marca troppo emiliano, ma va bene lo stesso.
Lui non sperava tanto. Ora se la può stringere come vuole e alla Rina non dispiace, anzi stringe anche lei abbandonando la testa sulla sua spalla. Poi il guancia a guancia
e ritornano tra gli sciami di lucciole e tra le stelle di qualche sera prima.
Quando il cantante esala l’ultima nota, rimangono ancora stretti, confusi tra le altre coppie. Ma l’incanto finisce
con una bordata di liscio e loro lasciano la pista andando
verso il luna-park.
Lei vorrebbe andare sull’autoscontro, ma Guido è invece
attratto da una grande giostra di quelle tradizionali, barocche, piene di figure, con i cavalli ornati di pennacchi
e di specchietti e le carrozze dorate sulla pedana di legno
che rimbomba sotto i piedi. Quel mondo fantastico animato da bambini festanti che gira lentamente al suono di
un valzer e lo affascina da sempre. Chissà perché. Rina lo
asseconda non troppo convinta.
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Guido è seduto sulla panchina di pietra del giardinetto
della stazione in attesa dell’accelerato per Modena. Il treno col fumo è stato sostituito da un trenino con motrice
diesel. La vacanza al paese è finita. Accanto a uno dei capannoni della stazione c’è un merci che sta caricando
barbabietole e l’aria già fresca di qualche temporale lontano è appesantita dal loro odore greve.
Gli giungono le voci della Annetta e della Nilde che si
stanno scambiando i saluti e le ultime raccomandazioni,
animata la prima, remissiva la seconda. Le può scorgere
nel giardino della Nilde tra le lenzuola stese, le rose, i gerani e le petunie dai colori morbidi.
Tornato a casa dovrà decidere che cosa fare, quale facoltà scegliere, ma anche trovarsi un qualche lavoretto, perché non può fare il signorino e gravare ancora sulle spalle della Annetta, anche se lei non esiterebbe a tirare su
l’ago per tutta la vita o a inventarsi qualsiasi cosa per farlo diventare, dice lei, un pezzo grosso, magari un grande
medico, un architetto, un ingegnere. O di mandarlo all’Accademia Navale di Livorno. E se lo sognava cadetto di
marina nella elegante divisa bleu e con lo spadino, imbarcato sulla “Amerigo Vespucci”, come il figlio di quella
vacca della Esilde. Se c’era riuscito lui con quella faccia
da cafone… Mai comunque impiegato o avvocatuccio da
quattro soldi!
Guido non ha affatto le idee chiare, ma non per questo si
sente confuso o impaurito. Gli sembra di poter far tutto,
di avere un tempo illimitato per scegliere e per cambiare, di avere mille possibilità davanti a lui.
La vita gli sorride e gli pare un’avventura meravigliosa,
una regione incantevole da esplorare, sempre nuova e
sconfinata come la grande pianura che ha davanti agli oc75
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chi nella limpida mattinata settembrina, con i casolari
persi tra le vigne e i frutteti, i riquadri verdi di erba medica, i campi ancora lussureggianti di granoturco, la grassa terra smossa per le prossime semine, gli argini del Po
con le file di pioppi, un campanile a cuspide. E lontanissime in direzione di Verona si intravedono le prime colline e la fantasia e la speranza possono galoppare verso
nuovi orizzonti.
L’ama profondamente quella terra, è dentro di lui ancora
più di prima, perché c’è Rina e non poteva essere diversamente.
Gli dispiace come non mai partire. Si scriveranno, ma già
gli sembra di non vederla da un secolo.
Le ha lasciato un portachiavi che ha vinto al tiro a segno
alla fiera di Gonzaga quando erano insieme: uno scoiattolo di gomma che a stringerlo gonfia le gote e squittisce.
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L’ORGANIZZAZIONE
I
È la terza o quarta volta che Guido legge quel foglio malamente ciclostilato con l’emblema della stella a cinque
punte. Vuole capire bene chi sono e che cosa vogliono
questi dell’Organizzazione, ora che è stato assegnato al
nucleo antiterrorismo.
È orgoglioso di essere stato chiamato, nonostante la sua
scarsa anzianità di servizio, a far parte di quell’organismo
di élite e che gli sia stata data la responsabilità della
squadretta investigativa che dovrà occuparsi di eversione e terrorismo di sinistra. La materia lo appassiona.
Due missini assassinati nella sede del partito a Padova.
È la prima volta che l’Organizzazione si sporca le mani di
sangue. C’erano stati fino ad allora attentati e azioni dimostrative che attestavano il livello e la capacità offensiva raggiunte dal gruppo: incendi di autovetture di capetti nei complessi industriali soprattutto del milanese, il
grande rogo del deposito pneumatici, i sequestri lampo
di dirigenti d’azienda, rapiti e sottoposti a rapidi processi popolari, a punizioni esemplari inflitte dalla “giustizia
proletaria”. Poi lasciati alla gogna, magari attaccati a un
palo della luce con un cartello al collo: “Colpiscine uno
per educarne cento”.
Poco tempo prima del duplice omicidio di Padova però,
l’Organizzazione aveva portato a segno a Genova una
azione ben più ardita e complessa di quelle precedenti,
tenendo il governo, le forze di polizia, l’opinione pubblica sulla corda e col fiato sospeso per oltre un mese: il se77
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questro di un magistrato, il quale aveva sostenuto l’accusa in diversi processi a carico di estremisti di sinistra. Per
rilasciarlo avevano chiesto la liberazione di alcuni detenuti di una banda di rapinatori politicizzati. Ma il procuratore generale aveva scelto la linea della fermezza, causando gravi lacerazioni nel mondo politico e fra gli stessi
colleghi del magistrato rapito.
Polizia e carabinieri, nonostante gli sforzi, non erano riusciti a trovare la “prigione del popolo” e si era temuto che
l’Organizzazione facesse fuori l’ostaggio perché le richieste non erano state assecondate.
Il magistrato, invece, era stato inaspettatamente rilasciato quando e dove i suoi carcerieri avevano voluto. Nel volantino finale l’Organizzazione diceva di averlo fatto per
mettere il procuratore generale di fronte a precise responsabilità e poi per far esplodere le contraddizioni che
durante il sequestro si erano manifestate dentro gli apparati dello Stato.
Una bella prova di potenza sotto il profilo operativo e un
lucido e perfido disegno politico da parte dei terroristi.
Un bell’ultimatum al procuratore generale…
Ora questo brutto fatto di Padova. Nel loro volantino i
terroristi fanno chiaramente intendere che l’azione alla
sede del Movimento Sociale doveva essere soltanto dimostrativa e che il duplice omicidio era stato un incidente sul lavoro dovuto alla reazione dei missini presenti nei
locali. C’è da credergli, secondo Guido.
“Portare l’attacco al cuore dello Stato! Lotta armata per
il comunismo!” così si conclude il volantino.
Il salto è fatto e per il futuro c’è da aspettarsi sempre
peggio.
Che cos’è l’Organizzazione? Se lo chiedono tutti. Il Parti78
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to comunista fa intendere che si tratta in sostanza di provocatori.
Ma a Guido tutto questo non sembra del tutto plausibile.
Il discorso dell’Organizzazione gli pare genuino e coerente. Nessuno, secondo lui, sarebbe in grado di simulare
tanto bene, provenendo da esperienze diverse da quelle
della sinistra estrema. Per fare certi progetti, per scrivere certe cose non si può improvvisare. Bisogna avere delle convinzioni profonde, un’esperienza alle spalle, una
cultura comunista.
Che cosa significa comunista dopo tutto? Aveva affrontato l’argomento nei mesi precedenti con un suo compagno
d’infanzia, il Cacalocchi, sì proprio il Cacalocchi che da
bambino frequentava la parrocchia insieme a lui. Era diventato un attivista del Partito comunista e di quelli seri,
destinati a fare carriera. Rivestiva un ruolo importante
dentro la federazione giovanile romana e lui l’aveva incontrato per caso a una manifestazione, dove era stato
comandato di servizio. Avevano discusso ore e ore sull’Organizzazione, Feltrinelli, Lotta Continua, Potere Operaio, Mao, la guerra nel Vietnam, Che Guevara, Fidel Castro…
Il Cacalocchi non credeva neppure lui a una cosa costruita ad arte da abili simulatori di diverso segno. Sia pure
con molta circospezione e tra discorsi complicati, gli aveva fatto capire di sospettare che si trattasse di qualche
compagno impazzito. Era interesse anche del partito
scovarli per evitare che facessero danni, come quegli altri imbecilli dei gruppettari.
– Eppure, caro Sandro, certi discorsi si sono sempre fatti in casa vostra…– aveva detto provocatoriamente Guido, non osando chiamare più col soprannome il suo vec79
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chio amico. In effetti il Cacalocchi aveva assunto un
aspetto ieratico che incuteva soggezione: alto, leggermente curvo, con un testone di capelli irti, occhialini tondi ed espressione mesta che ricordavano Gramsci. E lui
faceva di tutto per accreditare tale somiglianza.
– Ma non dire fesserie! – aveva replicato con il suo tono
professorale. – Fin dai tempi di Togliatti, il nostro partito
ha bandito la violenza dal suo modo di fare politica. La rivoluzione che noi vogliamo è quella che passa attraverso
i meccanismi del confronto democratico. Basta rileggersi un po’ la storia. Già con la svolta di Salerno, Togliatti…
– Infatti! Basta vedere quello che accadde ai tempi del
governo Tambroni – aveva replicato Guido sorvolando
sulla svolta di Salerno che non ricordava bene cosa fosse. – Avete scatenato la piazza allora. Sono ricomparse le
armi!
A questo punto il Cacalocchi aveva assunto una espressione di una durezza inusitata sibilando: – Se vengono
superati certi limiti, il discorso è diverso. E tu sai perfettamente che cosa successe nel Sessanta e che aria tirava. In ogni caso, anche in quella circostanza, il nostro
partito cercò di controllare la situazione.
Poi riconquistata la calma, aveva ripreso in tono pacato
ma meno professorale del solito e quasi confidenziale:
– Noi stessi ci trovammo spiazzati. A fare casino fu una
massa di gente fuori del nostro controllo, gente che si era
staccata dalle organizzazioni politiche tradizionali, un
movimento nuovo fatto di operai e studenti. Accanto a
loro però anche ex partigiani, armati effettivamente. Ma
quali partigiani? I delusi della Resistenza, quelli che lo
stesso Togliatti riusciva a controllare a fatica nel dopoguerra, quelli che avrebbero voluto che la guerra di libe80
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razione si traducesse in guerra di classe per la conquista
del potere. Ma ti pare possibile? Dopo Jalta? Degli illusi
allora, pericolosi, che accusavano e accusano il partito di
tradimento. Ti ricordi l’attentato a Togliatti nel 1948? Anche allora questi illusi speravano che si fosse presentata
l’occasione buona per prendere il potere e istaurare la
dittatura del proletariato. E ricomparvero in piazza armati, ma Togliatti li rimandò a casa!
– Se non mi sbaglio – osservò Guido – anche quella volta
fu Genova a dare certi segnali.
– Ricordi bene. Fu proprio Genova, medaglia d’oro della
Resistenza, da dove viene il tuo ministro. Anche lui è stato partigiano, partigiano bianco. Vedi di quante razze ce
n’erano. Genova è stata anche l’epicentro dei moti del
Sessanta. Del resto l’insulto lo ricevette la città, perché lì
i fascisti avrebbero voluto tenere il loro congresso con la
benedizione di Tambroni. I morti poi ci furono soprattutto a Reggio Emilia e anche questo ha il suo significato.
– Lo so. Lo so bene – disse Guido sentendo stringersi il
cuore.
– Ma mi stai seguendo? Che t’è preso? Ti vedo come assente.
– Mi sono distratto un attimo; mi sono tornate in mente
certe storie mie…
Sandro era troppo infervorato dall’argomento per chiedere spiegazioni a Guido su vicende personali e aveva già
ripreso di buona lena la sua analisi, come spinto dall’esigenza di chiarire anche a se stesso certi passaggi delicati: – Non a caso Reggio Emilia, ti stavo dicendo. L’Emilia
dove più aspro è stato lo scontro durante la Resistenza e
dove qualcuno ha voluto che il mito della rivoluzione di
stampo marxista-leninista passasse in eredità alle giova81
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ni generazioni, mentre noi stavamo coltivando il mito
della riconquista della democrazia e i progetti più concreti della ricostruzione del Paese. Ma anche la Lombardia, il Piemonte, il Veneto, la Liguria, e cioè le regioni dove dentro una classe operaia forte, preparata e vigile ci
sono anche gli esaltati. Non vi siete chiesti come mai proprio a Genova è nata la prima formazione armata, la
“XXII Ottobre”? Avete analizzato le biografie degli arrestati? C’era di tutto là dentro: gruppettari, proletari dei
quartieri più popolari di Genova e anche ex comunisti ed
ex partigiani. Ma perfino gente proveniente dalla sinistra
cattolica. Insomma, uno spaccato dei movimenti degli
anni Sessanta. Avete mai riflettuto su quanto è accaduto
in quella decina d’anni?
– C’è stata la contestazione al sistema. E allora? – replicò
provocatoriamente Guido. – È anche roba vostra. I miti del
Sessantotto non sono Fidel Castro, Che Guevara, Mao?
– Io spero che tu stia scherzando. O sei veramente ottuso e ignorante fino a questo punto? Mi ricordi un tuo collega anziano del commissariato di zona, con cui sono stato in contatto per un certo tempo per le nostre manifestazioni. Andavo insomma da lui per notificarle e per capire che aria tirava. Una brava persona in fondo, ma che
pena! Per lui tutti quelli che scendevano in piazza con
una bandiera rossa erano comunisti e cioè sovversivi:
maoisti, autonomi, Lotta Continua, Partito Comunista,
tutti la stessa cosa. Come si può fare un mestiere come il
vostro senza capire quello che succede dentro la società?
Ecco perché poi vengono fuori i casini! Per fortuna non
siete tutti così. La polizia va smilitarizzata. La democrazia deve entrare anche nelle vostre caserme.
– Ne conosco anch’io qualcuno dei nostri sindacalisti ag82
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ganciato alla confederazione. Tutta gente che si sta facendo egregiamente gli affari suoi. Questo mestiere non
si può fare timbrando il cartellino delle otto ore.
– Guido, posso essere sincero? I tipi come te sono pericolosi. Cerca di ragionare, ché l’intelligenza e la cultura
non ti mancano. Leggi, documentati, rivediti la storia più
recente di questo disgraziato Paese. Chiediti perché ci
sono le stragi, le manovre golpiste. Capirai anche forse
come possa essersi sviluppata la logica della lotta armata, l’idea di far politica con le armi, il partito armato. Io ti
posso aiutare.
Guido rimase in silenzio. Perché tanta disponibilità da
parte del Cacalocchi? Ne sapeva però di cose! E sembrava ben addentro anche alle faccende della polizia. C’era
da fidarsi?
L’amico parve intuire le sue perplessità:
– Se non lo sai, io sono in contatto da tempo con l’Ufficio
Politico della questura. Non lo faccio evidentemente di
mia iniziativa. È il compito che mi è stato assegnato dal
partito. Il terrorismo è un problema anche nostro e vogliamo capire. Rischiamo di diventare anche noi degli obiettivi dell’Organizzazione, oltre che a riceverne danni indiretti. Non vedi che ci accusano sempre più spesso di revisionismo? Ma abbiamo occhi e orecchie dentro le fabbriche, fra i lavoratori, nei quartieri. Possiamo meglio di voi
cogliere dei segnali… Secondo me, noi dobbiamo restare
in contatto perché possiamo fare un buon lavoro insieme.
Non ti aspettare però da noi la spiata di basso livello.
Guido ripensa a quel colloquio, mentre rigira tra le mani
il volantino. Lo rilegge per l’ennesima volta.
Effettivamente ci sono scorie di odio che riportano indietro nel tempo, ma traspare nello stesso tempo la volontà
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di non appiattirsi sull’antifascismo. Sandro il Cacalocchi
ha ragione: c’è un filo rosso, ma il progetto è ampio… Bisogna studiare, capire perché. La mente corre al paese
della Bassa, alle lapidi partigiane. Il papà di Rina però
non aveva impugnato le armi per la presa del potere, ma
per riconquistare la libertà.
Ancora la Rina! Ancora il ricordo di lei.
Si è fatto tardi. Nella caserma che ospita l’antiterrorismo
sono rimasti solo i piantoni. Guido infila la Colt 38 Special nella fondina legata alla caviglia. La moda dei pantaloni a zampa d’elefante facilita questa soluzione stravagante, che consente però di nascondere bene l’arma.
La guardia di pubblica sicurezza che gli fa da autista, nome di battaglia il Fachiro, se la dorme alla grande seduto al posto di guida della Giulia. Si sveglia di soprassalto
quando Guido richiude con un colpo secco la portiera.
Rimane per qualche istante inebetito con lo sguardo perso nel vuoto. Poi realizza, si stropiccia gli occhi, raddrizza lo schienale e mette in moto la macchina.
– M’ero appena appisolato, dotto’. Comandi! Dove andiamo?
– Ma dove cazzo vuoi andare a quest’ora? A casa, no! Però domani mattina mi vieni a prendere alle sei insieme a
Snoopy e al Ruspante. Andiamo a Padova per qualche
giorno.
Cerca di fare meno rumore possibile mentre apre la porta di casa, ma la Annetta è ancora sveglia:
– Ti ho aspettato fino a poco fa – la sente dire con la voce assonnata dalla sua stanza nell’oscurità. – Come mai
così tardi?
– Sempre la storia dei due missini ammazzati ieri a Padova.
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– Avete trovato qualcosa?
– No. Ma pensa a dormire. Io domani mattina, cioè alle
sei, devo partire per Padova.
– Uh, figlio mio! Vai a mangiare subito. Ti ho lasciato tutto sulla tavola. Poi vai a dormire anche tu, sennò domani
non stai in piedi. Metto la sveglia anche io, così ti preparo la colazione.
C’è del roast beef, formaggio e frutta. Anche ai tempi della scuola, quando era sotto esami, la Annetta gli comprava il roast beef, mentre lei mangiava la frittata con le cipolle perché – diceva – le piaceva di più.
II
La Annetta era rimasta fortemente delusa quando Guido
si era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza e ancora di
più quando era entrato in polizia.
Lui però non se l’era sentita di imbarcarsi in studi che, richiedendo una costante presenza alle lezioni, non gli
avrebbero consentito di lavorare e studiare allo stesso
tempo, senza gravare ancora sulle spalle della madre.
Andava di rado all’università, umiliato da quella scelta
necessitata e invidioso dei coetanei che frequentavano le
facoltà scientifiche, i laboratori, le cliniche universitarie,
tutti quei luoghi insomma dove lo studio era scienza, applicazione pratica, sperimentazione e non soltanto teoria. Ma era la sua un’invidia senza risentimento, anzi una
sorta di ammirazione per quanti potevano fare ciò che
anche a lui sarebbe piaciuto e da cui si sentiva al momento, ma solo al momento, escluso. E pur provando imbarazzo come un disabile in mezzo agli atleti, coglieva ogni
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occasione per andarli a vedere nelle aule affollate con le
lunghe lavagne piene di formule e per confondersi fra loro, nascondendo i suoi libri di diritto.
La sua avversione era in particolare proprio verso le materie giuridiche in senso stretto, verso le leggi e i codici e
soltanto gli aspetti storici del diritto suscitavano in lui un
qualche interesse, proprio perché lasciavano il diritto in
secondo piano per far emergere gli eventi.
Si illudeva che quella non fosse la sua scelta definitiva,
che fosse soltanto una fase di passaggio, che avrebbe
avuto poi l’occasione di ricominciare daccapo, che comunque non sarebbe finito dietro a un tavolino a girare
scartoffie.
Sognava sempre di poter fare ancora mille cose, come
quando da ragazzo si sedeva sulla panchina di pietra della stazione del paese e lo sguardo si perdeva all’orizzonte della grande pianura lasciando libera la fantasia di
spingersi oltre la percezione del paesaggio per immaginarlo nei suoi aspetti più segreti e al di fuori dello spazio
e del tempo.
Amava illudersi, senza cadere però nell’inerzia e nell’abbattimento di fronte alle contrarietà, perché le sue illusioni erano fondate sulla inesauribile fiducia in un avvenire migliore, che lo induceva a riguardare le difficoltà
come semplici incidenti di percorso, fastidi passeggeri in
vista di un domani senz’altro luminoso.
Con questo spirito era entrato in polizia, come fosse il
servizio militare, un’esperienza da fare prima del passo
definitivo, la vera scelta di vita.
Del resto con la laurea in legge non poteva aspirare a nulla di più avventuroso e operativo che il lavoro del commissario di polizia, in effetti per nulla monotono o impiegati86
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zio, fortemente calato nella realtà, dinamico e attraente
per chi come lui amava anche una certa dose di rischio.
Mai avrebbe pensato di rimanerne in pochi anni coinvolto al punto da far sbiadire altre prospettive e da incidere
anche sui suoi atteggiamenti, sul modo di rapportarsi agli
altri e alle cose. Sul modo di pensare.
Quanto poi questa mutazione fosse profonda e non solo
esteriore Guido non lo percepiva nitidamente, come forse non lo avvertono certi insetti che oltre alla corazza
cambiano anche la natura.
Ad affascinarlo non era certamente il mestiere dello sbirro in sé per sé, ma i problemi dei quali ora doveva occuparsi a tempo pieno, e cioè il terrorismo rosso: non si
trattava di andare tanto e solamente alla ricerca dell’autore di un delitto o di una serie di reati più o meno gravi,
cioè di fatti singoli, frutto di spinte criminali di singoli individui, ma di cercare di capire il perché di fenomeni
complessi, strettamente collegati alla evoluzione della
società e alla politica attuali. La scoperta dei responsabili di un attentato rimaneva senz’altro importante, ma era
solo la fase finale di un percorso ben più complesso, che
consisteva nell’individuare i componenti di organizzazioni clandestine, portatrici di un progetto politico, di capire bene da dove venivano, come si muovevano e quali
obiettivi intendevano raggiungere.
– Tu hai idee troppo complicate di questi merdaioli – lo
rimproverava non sempre bonariamente il suo diretto superiore Vittorio soprannominato il Bimbo, un quarantenne dalla forte stazza con l’espressione di pupone perennemente imbronciato. – Quasi li giustifichi. Sono soltanto dei vigliacchi e degli assassini. Noi, per fortuna, non
siamo né politici, né sociologi, né psicologi. Il nostro
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compito è quello di buttarli in galera, prima che combinino altri guai.
– Cercare di capirne le cause non vuol dire giustificare
un fenomeno – ribatteva Guido, – né voler fare i sociologi. Certo a noi tocca arrestarli, ma qui non si può procedere con la logica del botta e risposta. I fatti dimostrano
che non funziona! Solo ora è stato creato un organismo
di polizia che si occupa a tempo pieno di questi problemi. Secondo me se non ci organizziamo bene, l’attacco al
cuore dello Stato ce lo fanno veramente. Allora bisogna
prima di tutto capire; sì, capire anche le cause di questo
tipo di terrorismo e chi ne sono i fondatori. Certo, non
tocca a noi intervenire sulle cause, ma noi possiamo aprire gli occhi ai nostri politici… Ci vuole una strategia antiterrorismo a trecentosessanta gradi. L’azione repressiva
può non bastare.
– Adesso mi hai scocciato con questi discorsi in politichese. Chi sono e da dove vengono ce lo dicono loro stessi –
tagliava corto il Bimbo. – Sono comunisti, marxisti-leninisti, che provengono dai vari gruppi della sinistra extraparlamentare: Lotta Continua, Avanguardia Operaia, Potere Operaio. Sono i frutti del Sessantotto, della contestazione al sistema! Ma l’origine è alla lunga la stessa: comunisti.
– Vuoi dire che è colpa del Partito comunista se ci sono i
brigatisti?
– La famiglia è quella…
– Dài! Lo so che lo dici solo per fare polemica e che non
ci credi nemmeno tu. Il partito è incazzatissimo coi gruppettari, perché gli sottraggono consensi tra i giovani. A
maggior ragione con l’Organizzazione, che rischia di sporcare l’immagine che il partito sta cercando di dare di se
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stesso, del comunismo all’italiana che prende sempre più
le distanze dal proprio passato stalinista e anche dall’Unione Sovietica di oggi. Che diversi gruppettari e terroristi possano venire dalle file del partito o del sindacato
non significa proprio nulla, anzi fa risaltare ancora di più
la rottura con il partito e questa rottura risale in effetti,
come dici tu, ai tempi della contestazione, che è stata essenzialmente il rifiuto della politica tradizionale e dei partiti, ma anche di più e cioè il campo scuola delle lotte per
la presa del potere. E mi spiego: le occupazioni delle
scuole e delle università, la neutralizzazione dei loro quadri di comando hanno dimostrato che la rivoluzione è possibile. Del resto in questi anni gli stimoli per le sinistre
estreme di tutto il mondo sono stati molti: la resistenza all’imperialismo americano in Vietnam e nell’America Latina, i personaggi mitici che la rappresentano…
– Allora, invece di fare il filosofo, incomincia a esaminare gli elenchi dei militanti dei gruppi extraparlamentari
soprattutto di Milano, Torino e Genova per vedere chi è
che è sparito, chi si è allontanato da casa per darsi alla
clandestinità…
– Ma sono centinaia e centinaia di nomi!
– Allora trova dentro al Partito comunista qualcuno disposto a spifferare. Loro lo sanno chi sono… – aveva tagliato corto il Bimbo che dava ormai segni di irritazione.
A lui andava molto più a genio un collega di corso di Guido, che era in servizio alla squadra mobile, ma che aveva
avuto già modo di farsi apprezzare per una operazione
contro alcuni esponenti di un collettivo, scaturita fortunosamente da un fermo al termine di una manifestazione
violenta nel quartiere di San Lorenzo e spacciata per
operazione antiterrorismo.
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I suoi stessi collaboratori gli avevano affibbiato il soprannome di conte Dracula per diversi punti di somiglianza
con il vampiro transilvano: il pallore del volto, gli occhi
leggermente iniettati di sangue, i capelli precocemente
grigi, una espressione altezzosa e fredda nella quale si intravedeva crudeltà. C’era in lui la ricerca spasmodica della grande occasione, così che lo si vedeva piombare come
un sinistro volatile ovunque ci fosse casino, non per soccorrere i colleghi ma per acquisire meriti meglio se a loro danno.
Dunque, mentre i disordini ancora divampavano a San
Lorenzo, il conte Dracula si era fiondato sul posto ed era
riuscito ad acciuffare con la sua squadraccia un ragazzo
con un paio di bottiglie Molotov nel tascapane. Subito
perquisizione a casa in stile cileno e nella stanza della
nonna paralitica era saltata fuori una vecchia Beretta militare calibro 9 corto e alcuni vecchi numeri di un giornale clandestino che alla sua prima uscita aveva dato notizia, a suo tempo, della nascita dell’Organizzazione. Anche troppo per incastrare il ragazzo spacciandolo per un
terrorista.
L’odore di gloria aveva eccitato il conte Dracula, il quale aveva subito esteso le perquisizioni a quanti figuravano nell’agendina del ragazzo, sequestrando quella che
nel rapporto alla magistratura veniva definita “documentazione eversiva in corso di esame” e cioè volantini ciclostilati di collettivi studenteschi, copie di “Lotta Continua”, di “Nuova Resistenza” e di scritti di Toni Negri.
Mentre gli altri perquisivano, uno della squadraccia del
conte Dracula era andato poi a “grattare la panza” a una
certa sua conoscenza nella zona, un vecchio ricettatore,
e aveva appreso che i “putrefatti” andavano spesso nella
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vicina officina di Amleto, meccanico di motorini, che doveva essere un putrefatto anche lui.
Il conte Dracula non aveva perso tempo neppure in questo caso ed era volato, ormai in piena notte, a casa di Amleto. Aveva fatto buttare tutto all’aria e tirare giù dal letto pistole alla mano anche la moglie e il pupetto di un paio d’anni che dormiva fra di loro. Ringo, il bastardino di
casa che aveva osato azzannare il polpaccio di uno dei
poliziotti, era stato neutralizzato da un calcio così forte
da lasciarlo mezzo morto a terra alle carezze disperate
del pupetto.
“Niente cerimonie” aveva detto il conte Dracula. “Questi bastardi sono capaci di nascondere un’arma anche tra
le chiappe di un ragazzino”. Poi avevano preso Amleto e
se lo erano portato in officina e sotto il bancone avevano
trovato una decina di fionde di quelle serie con relativo
munizionamento e cioè dadi, bulloni e sfere di acciaio dei
cuscinetti delle macchine. E, dulcis in fundo, qualche barattolo con zolfo, clorato di potassio e altre sostanze “utili al confezionamento di ordigni esplosivi”. Ognuna di
queste scoperte era stata festeggiata con energiche pacche sulla faccia smunta di Amleto.
Tutti in galera per “partecipazione ad associazione sovversiva e banda armata”! C’erano le armi, gli esplosivi, il
vincolo associativo dimostrato dai collegamenti personali degli arrestati e dal possesso di “materiale ideologico”
della stessa area eversiva. Più chiaro di così! Ma quale
banda armata? L’Organizzazione, naturalmente. Non erano state trovate copie di quel giornale?
– Caro Amleto, sei fottuto – gli aveva detto sadicamente
il conte Dracula in presenza della moglie. – Chi nomini
come avvocato? Uno dei vostri, immagino.
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Amleto non aveva risposto. Guardava invece la moglie e
il pupetto e si sforzava di non piangere.
Il Bimbo avrebbe preferito il conte Dracula anziché Guido e una sola ragione lo tratteneva dal sollecitare in tempi brevi un ricambio tra i due commissari: il fatto che il
conte Dracula non era certamente in grado di fare quelle analisi e quelle previsioni sul fenomeno che invece
Guido regolarmente gli forniva, consentendogli di fare
bella figura col grande capo come se fossero farina del
suo sacco.
Guido non se ne rammaricava più di tanto, perché dava
per scontato che tutto ciò facesse parte del gioco, avendo già sperimentato le insidie di quel particolare ambiente di lavoro e la furbizia di alcuni suoi colleghi.
Il nuovo incarico consentiva in effetti a Guido di venire
ogni giorno in possesso di ogni notizia utile a monitorare il
fenomeno in tutt’Italia e a ricavarne spunti investigativi.
Arrivavano infatti sul suo tavolo tutte le segnalazioni provenienti dagli uffici politici delle questure sull’attività dei
gruppi della sinistra extraparlamentare, sulla stampa
d’area, i documenti diffusi clandestinamente, le indagini
avviate su sospetti brigatisti, le informazioni confidenziali.
Arrivò sul tavolo di Guido anche una copia del foglio
clandestino sequestrato dal conte Dracula.
Era un elemento importante per Guido. Si trattava di un
“foglio di lotta” di un collettivo milanese fondato alla fine
degli anni Sessanta da una coppia di studenti che provenivano dall’Università di Trento e da altri personaggi poi
scomparsi per passare molto probabilmente alla clandestinità. Si sospettava fossero loro i fondatori dell’Organizzazione.
Il Bimbo definiva l’Università Negativa di Trento una
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chiavica e la più grossa stronzata che la sinistra democristiana avesse fatto dopo il centrosinistra, aprendo le porte dell’università agli ignoranti – cioè a quanti non venivano dai licei – e ai terroristi. Nell’intento dei fondatori,
l’Istituto di Sociologia di Trento avrebbe dovuto creare
nuove professionalità in un settore che, alquanto arretrato in Italia, si stava rivelando funzionale alla nuova fase di
sviluppo. Ben presto, però, le cose erano andate per altro verso e l’Università di Trento era stata vista come la
grande occasione di riscossa per tanti giovani di famiglie
proletarie che erano stati fino ad allora esclusi dai livelli
superiori dell’istruzione.
Il collettivo milanese era riuscito in poco tempo a inserirsi bene nelle fabbriche e nelle scuole milanesi e a farsi
apprezzare anche da quelli di Potere Operaio e di Lotta
Continua. Si capiva però che erano su posizioni differenti, ma c’era da perdere la testa a capire quali fossero i
punti di divergenza. Vallo a spiegare al Bimbo, che accomunava tutti nella categoria dei merdaioli!
Era stato quel foglio a dare notizia per primo della comparsa sulla scena politica dell’Organizzazione, che si definiva operaia e autonoma, scesa sul terreno della “lotta
armata” da condurre attraverso l’azione partigiana. Si
parlava di nuova resistenza.
Lotta partigiana, nuova resistenza. Guido ha lo sguardo
immobile e perso di chi è alla faticosa ricerca di qualcosa che sa esistere ma che non riesce bene a individuare, di qualcosa che comunque gli appartiene. Il Ruspante vorrebbe fargli sapere l’esito di un suo accertamento, ma preferisce rinviare per non essere mandato
a cagare.
La veste che l’Organizzazione vuole assumere è quella di
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erede della lotta partigiana, pensa Guido. Ma quanti sono
nella sinistra rivoluzionaria a rispolverare gli ideali della
Resistenza! Ognuno a modo suo poi, ma tutti d’accordo
nel sostenere che quella ufficiale, della quale si è appropriata la politica, è una resistenza monca.
Anche i Gap, i Gruppi di azione partigiana di Feltrinelli si
erano richiamati alla Resistenza scimmiottando la sigla
dei Gappisti di via Rasella, autori dell’attentato che causò la rappresaglia tedesca delle Fosse Ardeatine.
Feltrinelli aveva rispolverato quella sigla perché ben si
prestava secondo lui a far risaltare la continuità ideale e
storica della sua guerra di liberazione rispetto alla Resistenza. Il Partito comunista si era stracciato le vesti e
aveva accusato i nuovi gappisti di condurre campagne
avventuristiche che potevano far solo parte della strategia della provocazione.
Quale lotta di liberazione voleva poi fare Feltrinelli?
Quella contro una classe politica che, giovandosi del revisionismo dei comunisti di apparato, praticava secondo
lui la strategia della tensione, anche attraverso le stragi
di Stato, per lasciare spazio a manovre golpiste.
Poi Feltrinelli era morto mentre tentava di far saltare in
aria un traliccio a Segrate, ma intanto era stato il primo
a introdurre nel tessuto italiano il germe della politica
delle armi e a praticare la lotta armata.
I Gap erano acqua passata. Emergeva invece prepotentemente l’Organizzazione. “Finora prevalentemente nel
triangolo industriale dove più solida è stata la tradizione
partigiana” pensa Guido. “Ma ora eccoli comparire pesantemente nel Veneto, all’insegna di un antifascismo becero. Non è questa la direzione nella quale vogliono andare.
Il progetto è molto più ambizioso: l’attacco al cuore dello
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Stato! Si preparano tempi brutti, se non si riesce a beccare nessuno”.
III
Da oltre cinque anni di Rina aveva perso le tracce, ma
Guido non si era ancora rassegnato a considerarla una
esperienza ormai conclusa.
Quel lungo periodo di solitudine lo aveva indotto a riflettere sul loro rapporto e a comprendere, molto di più di
quando si frequentavano, come lei fosse entrata profondamente nella sua vita.
Era stato per lui un processo di innamoramento lento e
proditorio, che lo aveva colto da ragazzino sotto le sembianze della cotta passeggera, ma poi era cresciuto senza che ne avesse quasi coscienza e si era infine manifestato in tutta la sua forza quando la Rina se ne era andata.
Si accorgeva ora di quanto semplice e bella fosse stata la
loro storia, di come fosse stata scandita dalle stagioni
della vita nella maniera più antica eppure più desiderabile del mondo, nell’abbraccio dei prati, degli alberi, delle
acque di quella terra alla quale entrambi si sentivano carnalmente avvinti, nei loro giochi di un tempo, nei segreti
recessi dei fienili odorosi, degli orti, degli angoli più remoti delle case, nell’ombra dei portici del paese. O nei
suoni ovattati e nelle evanescenze delle nebbie che fanno galoppare la fantasia.
Solo ora Guido si rendeva conto con rimpianto di quanto
fosse stato superficiale, di non aver capito le inquietudini e i sogni della Rina, di non essere stato capace di ri95
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spondere alle sue aspettative, forse di non aver inteso le
sue invocazioni di aiuto.
Aveva dato per scontato che la Rina fosse ormai legata a
lui per sempre, che non dovesse fare più nulla per guadagnarne la stima e alimentare i sentimenti che li univano, come se l’amore, una volta nato, fosse simile a una
quercia che cresce senza bisogno di cure.
Mai aveva affrontato sul serio il problema del loro avvenire e ogni volta che l’argomento era stato sfiorato, le sue
risposte erano state vaghe e dilatorie, non perché non
volesse impegnarsi, ma soltanto perché riteneva prematuro definire il loro rapporto.
La Rina invece aveva un grande bisogno di certezze ed
era in una fase molto delicata della sua vita. Non le bastava più incontrarsi ogni tanto con lui per fare all’amore, ma
sentiva forte l’esigenza di parlargli, di confidarsi, di discutere di tutto quanto accadeva intorno a loro, di pianificare il loro futuro, ma non in termini di casa, tendine, salotto, elettrodomestici e Fiat Cinquecento, quanto piuttosto
come scelta di vita.
Anche su questo argomento assolutamente fondamentale Guido si era mostrato sempre sfuggente, finché una
volta, messo alle strette, aveva finito per rivelare idee
molto divergenti rispetto a quelle della Rina.
Lei partiva da una concezione fortemente critica di quella che chiamava la società borghese ed era pervasa dal
desiderio di prodigarsi, di battersi magari, per modificare quella situazione. Il sistema scolastico, la condizione
della donna, quella degli operai, la politica internazionale dell’Italia, gli americani, tutto per lei era impostato sullo sfruttamento e la sopraffazione delle classi più deboli
da parte di una borghesia rapace e imperialista. Aveva
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sempre tra le mani libri e giornali che Guido non aveva
mai visto e che trasudavano solo nei titoli un marxismo
nuovo: “Quaderni Rossi”, “Classe Operaia”, “Nuova Unità”, il Libro Rosso di Mao…
Lui si irritava a sentire certi discorsi. Gli sembrava che finalmente l’Italia stesse conquistando la sua fetta di benessere e che nessuno ne fosse escluso. Bastava saper
cogliere le opportunità, averne le capacità.
– Ma tu lo sai che questo apparente benessere passa attraverso lo sfruttamento della classe operaia? Lo sai che
la Fiat e le altri grandi industrie del nord si ingrassano
sullo sfruttamento di decine di migliaia di meridionali
trapiantati con le famiglie dalla loro terra e mandati alle
catene di montaggio. Lo sai che cosa significa stare otto
ore al giorno in fabbrica e poi tornare stremati a casa, nei
palazzoni miserabili della periferia torinese, per esempio.
Lo sai come li chiamano quei quartieri? Le Coree!
– A casa loro starebbero molto peggio… – replica Guido in
un tono beffardo che fa ancora di più imbufalire la Rina.
– Se il sud rimane povero e arretrato non è colpa di chi
ci vive, ma del governo. Perché non hanno portato le industrie al sud, invece di spostare la mano d’opera? Questo sì che avrebbe potuto favorirne lo sviluppo. Ma tu
pensi solo a te stesso, a prenderti la laurea, magari a un
posto in banca. Non ti sembra misera una prospettiva del
genere?
– Se permetti, io spero di far qualcosa di meglio. Non voglio laurearmi solo per avere un pezzo di carta e un posto sicuro. Non mi interessano tanto i soldi, quanto un lavoro che mi soddisfi. Non so ancora quale, ma certamente non un impiego anonimo, anche se fosse ben pagato.
Non mi sembra di essere egoista!
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– Non sarai venale, ma egoista sì, perché sei concentrato
solo sul tuo avvenire…
– Ma a me gli altri che cosa hanno dato? E a te, che ti preoccupi tanto per loro? Se hai deciso di impegnarti soprattutto per gli altri, perché non ti fai suora, suora missionaria magari… Ti ci vedo: suor Gnocchina! – sghignazza
Guido.
– Ma che stronzo! Non hai capito proprio niente. Io non
voglio fare assistenza o carità, io vorrei che ci fosse più
giustizia sociale e siccome non c’è, vorrei che la gente
prendesse coscienza dei propri diritti e imparasse a conquistarseli.
– Per stare tutti come in Russia! Tu hai la testa piena di
fregnacce. Leggi troppa di quella roba. Io invece ci sto
bene in Italia. Non vedo grosse ingiustizie. Ho potuto studiare senza eccessivi problemi, anche se non sono ricco.
Certo che se potessi permettermi il lusso di stare qualche anno in più senza lavorare, sceglierei una facoltà più
interessante. Ma questo mi sembra abbastanza normale.
Non si può pretendere che tutti abbiano tutto e subito.
Mio padre aveva imparato a leggere e a scrivere da un parente contadino che era scappato dal seminario. Poi,
quando era già grande, riuscì in qualche modo a prendersi il diploma di quinta elementare. La mamma quanto
meno le elementari le ha fatte regolarmente. Io sono all’università. Una società che consente progressi del genere non mi sembra una società ingiusta.
– Ti accontenti di poco. A noi sono riservati gli avanzi della società del benessere. Non te ne accorgi? Di quante cose si sono dovute privare le nostre famiglie per farci studiare? E quei genitori che non l’hanno potuto fare perché
erano appena al limite della sopravvivenza quotidiana?
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Noi siamo stati fortunati per tutta una serie di circostanze favorevoli, io per un verso, tu per un altro, ma nessuna
di queste circostanze è stata la conseguenza delle politiche sociali dei nostri governanti. Se fosse stato per loro,
tu eri destinato a fare l’operaio specializzato o al massimo
l’istituto tecnico. È la scuola dei padroni! È uscito da poco un libro di un prete coraggioso, don Milani, che tratta
di questi problemi. Vive in un paesetto sperduto dell’Appennino toscano e lì ha radunato in una sua scuola, senza
l’aiuto di nessuno, un gruppo di ragazzini di famiglie contadine e operaie che la scuola statale avrebbe emarginato
e alla fine respinto. Il libretto di don Milani è una denuncia delle profonde ingiustizie del sistema scolastico attuale, che si basa su una cultura di classe.
– Cultura di classe! Ma come parli…? Spiegami che cosa
vuol dire, se sei capace.
– Significa quello che hai studiato tu! Un sapere fossilizzato, lontano dai bisogni della gente, utile solo a perpetuare privilegi, a selezionare quelli che non se lo trovano
già in casa, quelli che non hanno avuto l’opportunità di
apprendere dai genitori nemmeno il linguaggio che questo tipo di scuola pretende…
C’erano state molte altre discussioni di questo tipo e ancora più vivaci, specie quando Guido aveva incominciato
a diventare sospettoso. Su certe cose lei rivendicava la
massima libertà e non accettava consigli e ancor meno
critiche.
Come quando aveva deciso di lasciare le supplenze in
una scuola elementare a poco più di mezz’ora di distanza da casa, per andarsene a insegnare in un paese vicino
Trento, visto che si era anche messa in testa di iscriversi
alla facoltà di Sociologia della nuova università.
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Era diventata sempre più chiusa e sfuggente. Quando
tornava in paese, spariva per intere giornate. Dicevano di
averla vista qualche volta in città in compagnia di brutte
facce: ragazzi esaltati che si ritrovavano in un appartamento per parlare ore e ore di Lenin, di lotta di classe, rivoluzione e a fare chissà cosa altro…
La Generosa era disperata a sentire certe chiacchiere sul
conto della nipote e a vederla sempre più distante. Si era
confidata con Guido e l’aveva scongiurato quasi piangendo di far ragionare la Rina, di convincerla, magari a forza
di sberle, a mollare certe compagnie, a togliersi dalla testa la politica. La Dirce, che aveva il marito nella sezione
del Partito comunista, le aveva detto che anche i compagni erano preoccupati dell’aria che tirava in quell’appartamento, perché lì dentro non c’erano solo gli sbarbatelli del movimento studentesco, al massimo capaci di fare
casino in piazza, ma gente ben più decisa…
Non parliamo poi di Trento: altro che università! “È un
bordello”, diceva sempre la Dirce, dove si pensava solo a
fare occupazioni e a ciavar. Pure la figlia Cleonice voleva iscriversi, ma le era bastato dare un’occhiata per capire come stavano le cose e siccome la Cleonice era una ragazza seria e con giudizio l’aveva mollata lì con l’università di Trento e, con il suo diploma di ragioniera, aveva
preferito mettersi subito a lavorare nella fabbrica di vernici che un tedesco aveva avviato vicino al paese.
Quando si rividero davanti al Castello del Buon Consiglio
a Trento, Guido si dovette convincere a malincuore che
la Rina non era più quella di un tempo. Si trascurava anche nel vestire, lei che ci teneva tanto e che aveva una
gran cura delle sue cose. La guardava perplesso, avvolta
in un cappottaccio beige sovrabbondante, il collo stretto
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in una sciarpa rossa di lana ruvida. Sembrava facesse di
tutto per mortificare la sua naturale avvenenza.
Quando si baciarono, Guido non ritrovò in lei l’abbandono dei precedenti incontri. Si sentì improvvisamente a
disagio e ridicolo nel suo tre-quarti blu alla marinara, accanto alla Cinquecento azzurra con il tettuccio apribile,
che fino a poco prima pensava di poter esibire con un
certo orgoglio. Capì che tutto quello che per lui rappresentava una conquista, per la Rina non contava niente,
anche se salendo in macchina aveva detto: “Accidenti! È
nuova nuova. Puzza ancora di fabbrica”.
Era rimasta per un bel po’ in silenzio mentre lui guidava,
assorta nei propri pensieri e Guido, che incominciava a
indispettirsi, le lanciava occhiate furtive e stava sul punto di spararle un incazzato “Si può sapere che hai?”,
quando lei, come riscuotendosi dal sonno, gli si era stretta al fianco con uno slancio improvviso e appassionato
guardandolo intensamente. Nel suo sguardo Guido percepì per la prima volta una sorta di implorazione.
I monti della Val di Non erano già imbiancati di neve, ma
la giornata era tersa e radiosa, mentre si dirigevano verso il santuario.
– Non mi hai ancora detto perché ci tieni tanto ad andare a vedere ‘sto San… come-si-chiama – le aveva domandato Guido ormai rinfrancato.
– Ci si è sposata una ragazza che ho conosciuto all’università, una ragazza in gamba. Me lo ha descritto con tanto entusiasmo che mi è venuta voglia di visitarlo.
– Allora non è vero che tutti gli apprendisti sociologi dell’Università di Trento sono marxisti atei. C’è pure qualche bigotta!
– Tu hai il vizio della dissacrazione. Qui non è questione
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di essere bigotti. È qualcosa di molto più serio e complesso. Si tratta di dare un senso alla propria vita.
Guido dovette ammettere che era valsa la pena di arrivare fin lì. Aggrappato sulla sommità di una roccia ardita, il
santuario riportava alla purezza di una fede monastica
alimentata dall’incanto dei luoghi e da quell’intimità del
rapporto tra l’uomo e il creato che induce ad alzare lo
sguardo verso il cielo.
Salirono la lunga scalinata che conduce fino al piccolo
balcone che si apre sulla punta estrema dello sperone di
roccia, a strapiombo sulla valle verdeggiante di abeti. Salirono in silenzio, ma in un silenzio che riempiva il cuore,
perché mai come allora erano riusciti a comunicare tra
loro più intensamente senza bisogno di parlare.
Si strinsero teneramente mentre sostavano lì sopra assaporando qualche briciola di infinito.
– Portami via – sussurrò la Rina, ma Guido rimase confuso e la sua risposta fu come al solito incerta e dilatoria.
IV
A Padova gli investigatori sembravano proprio “brancolare nel buio”, come dicevano le cronache de “Il Gazzettino”: insignificanti le scarse testimonianze, la gente traumatizzata da un fatto spropositato, enorme per una collettività dominata ancora da una cultura di tipo tradizionale se non addirittura contadina, ad onta dei fermenti
rivoluzionari del mondo studentesco.
Anzi, le assemblee, le occupazioni di istituti scolastici e
universitari, le bandiere rosse sulla “Fusinato”, la casa
dello studente, stavano provocando nei padovani ben102
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pensanti una sorta di chiusura a riccio, un rifiuto a voler
prendere coscienza di quanto stava accadendo e a tentare di capire per rifugiarsi ancora di più nella difesa dei
propri interessi e delle posizioni conquistate grazie a una
operosità caparbia e volpina.
– Non gliene frega niente di capire, anzi non vogliono,
perché questo significherebbe riconoscere le proprie colpe, ammettere di aver costruito una società fondata sull’egoismo, sulla ricerca delle scorciatoie verso il benessere. Di merda, insomma. Chi è più furbo va avanti e i fessi restano indietro, come nelle file al botteghino. Se questi sono i princìpi sui quali i padri hanno impostato la
propria vita, che cosa possono fare i figli? Chi ci è tagliato fa il galoppino come i genitori, gli altri sono destinati a
rimanere ai margini e allora può capirsi la ribellione, il rifiuto di quel sistema, la rabbia. Sì, la rabbia di essere stati traditi!
– È vero, – seguitava a riflettere Guido – la stagione degli
ideali è durata poco – e si accorse di rimpiangere come
un vecchio quei tempi, quasi appartenessero a un lontano passato. Avevano già per lui il sapore dei ricordi, accompagnati dal rimpianto di giorni felici che non sono
più, quando ti svegliavi con il sole che ti inondava gli occhi e uscivi in strada con l’entusiasmo di vivere, di vedere gli altri che ti sorridevano, di aspettare dal fornaio che
uscisse la pizza salata ancora bella unta di olio per addentarla con avidità insieme agli amici, mentre in strada
gli operai che ribattevano i “sampietrini” con le pesanti
mazze si fermavano per bere dai fiaschi e addentare anche loro la ciriola gravida di frittata o di cicoria. La giornata ti si prospettava sempre con mille motivi di interesse, con tante occasioni da cogliere, con tante cose da fa103
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re e la fiducia nell’avvenire. Ti sentivi leggero perché avevi il petto gonfio di felicità e in tasca solo dieci lire di carta e il fazzoletto. Potevi goderti la gioventù e sperare nel
futuro. Ora invece…
La gente camminava guardinga lungo la Riviera Paleocapa lanciando occhiate furtive verso la questura. Dinnanzi al portone bivaccavano numerosi giornalisti tenuti a
bada da un panciuto appuntato, in attesa di sgraffignare
qualche notizia su quella brutta storia.
Correva voce che in quelle ore i carabinieri fossero riusciti a beccare in Piemonte due pezzi da novanta dell’Organizzazione. Erano andati a finire in bocca ai carabinieri dell’antiterrorismo come due polli. Chiaramente una
soffiata.
I due si erano dichiarati subito prigionieri politici e dopo
di ciò non avevano aperto più bocca.
Ma figurarsi se i “formiconi” – così il Ruspante chiamava
i carabinieri – non avrebbero trovato ora qualche spunto
per andare avanti. Avranno avuto pure addosso un’agendina o qualche altro pezzo di carta! Certo non c’era da
aspettarsi che i numeri di telefono fossero scritti in chiaro, ma decrittarli non era un’impresa impossibile. E anche loro, alla fine, non erano infallibili…
Il Ruspante aveva anche saputo dalla stessa fonte – un
magistrato amico – che i carabinieri erano riusciti a infiltrare qualcuno dentro le BR, forse un frate, vero o falso
non si sa, con trascorsi guerriglieri in America Latina.
– Un frate? Ma che cazzo dici? – reagisce Guido, provocando un goffo e risentito – Eppure… – da parte del Ruspante.
In ogni caso, tanto di cappello! Ora avevano in mano il
bandolo della matassa e se sapevano tenere la notizia per
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qualche giorno avrebbero potuto anche arrivare al covo.
– Certo che li hanno arrestati, – risponde in tono seccato il Bimbo dall’altro capo del telefono – lo dicono gli
stessi terroristi! Non hai letto il volantino che hanno fatto trovare a Torino qualche ora fa? – prosegue con aria di
rimprovero.
– E chi me lo dà a me il volantino se sono per la strada e
nessuno mi avverte che l’hanno diffuso? – risponde polemicamente Guido.
– Spero che tutte queste passeggiate che fai servano a
qualcosa… Se sei vicino alla questura te lo posso mandare con quel nuovo sistema, come si chiama, il telecopier.
Intanto ti dico che parlano di un’imboscata tesa dal servizio segreto, attraverso quello che loro chiamano un
provocatore. Adesso stiamo a posto, pure il servizio segreto! Questa dell’infiltrato è una storia che avevamo
sentito dire. Sul volantino ne fanno anche il nome. Però
ci tengono a precisare che la cattura – e ora ti leggo testualmente – “non è avvenuta nel modo più assoluto in
seguito alla delazione o defezione di membri della nostra
organizzazione, né quantomeno per opera di infiltrati”,
cioè vogliono far capire che frate Leone non è riuscito a
penetrare nell’Organizzazione e che la sua azione si è
esaurita con la spiata sui movimenti dei due arrestati.
Probabilmente quando i due terroristi sono stati arrestati stavano andando a incontrare proprio il chiavico di
prete.
Il telegiornale della sera aveva aperto in tono trionfalistico con gli arresti dei terroristi, quasi senza dare alla sigla
di apertura il tempo di arrivare alle ultime note.
Guido, il Ruspante e Snoopy si scambiano occhiate eloquenti. Era un bel colpo, ma finiva lì.
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Quando la notizia degli arresti occupa ancora la prima pagina dei giornali, una giovane coppia lascia alla chetichella l’appartamento ammobiliato che occupava da qualche
mese in una palazzina della periferia della industriosa cittadina veneta, caricando quattro pesanti valigioni su una
Fiat 128 bianca.
A una vicina curiosa avevano detto di dover correre a Milano per una disgrazia in famiglia per tornare di lì a qualche giorno. Ma dopo un mesetto di assenza e di silenzio, il
proprietario dell’appartamento aveva pensato bene di avvertire il suo amico maresciallo. Non si sa mai, coi tempi
che corrono! E i carabinieri si erano messi subito in agitazione e avevano fatto una serie di domande anche ai vicini, ottenendo risposte tranquillizzanti sul conto della coppia. Ma i carabinieri non si erano tranquillizzati affatto e
avevano fatto forzare la porta: erano rimasti solo i mobili e
pochi generi alimentari in cucina e nel frigorifero.
Gli sposini, i Sartori, non avevano mai fatto sospettare di
nulla. Nessuno degli abitanti della palazzina aveva notato alcunché di strano o aveva qualcosa da ridire sul loro
conto. Tutto normale all’apparenza: lui, un milanese sulla trentina, dall’aspetto del bravo ragazzo un po’ anonimo, che diceva di essere produttore di una fabbrica di
mobili per ufficio; lei, forse più giovane, un’insegnante alle prime armi. Lei pure milanese o giù di lì. Modesta e di
poche pretese anche nel vestire. E dire che così carina
com’era avrebbe potuto mettersi ben in mostra mentre
invece pareva fare di tutto per passare inosservata. Partivano ogni giorno alla mattina sul presto per tornare la
sera, lei un paio d’ore prima del marito. Visite pochissime: due o tre coppie dello stesso genere, che in quell’anno scarso che loro avevano abitato nella palazzina si era106
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no viste rarissime volte. Gente tranquilla, come gli altri
inquilini dello stabile; buongiorno e buonasera, cordiali
con tutti, educati, ma anche un pochino chiusi, come se
volessero difendere la propria intimità.
Una volta, l’inquilino del piano di sopra, il geometra Toffoletto, aveva avuto problemi con la lavatrice e avrebbe
voluto costatare i danni provocati ai Sartori dalla infiltrazione d’acqua, ma loro avevano detto subito, lì sulla porta, che si trattava di una fesseria e non era necessario
che lui si incomodasse. Eppure non doveva essere proprio così, ma il geometra Toffoletto era stato ben felice di
cavarsela in quel modo. Magari fossero tutti così accomodanti!
Sì, è vero, di sera si sentiva spesso il ticchettio della macchina da scrivere. E allora, che cosa c’era di strano? Si
vede che i Sartori lavoravano anche a casa.
I carabinieri seguitavano a tempestare di domande gli inquilini. Sul posto erano piombati quelli del reparto operativo e anche Guido, accompagnato dal Ruspante e da
Snoopy.
Guido capì che era inutile cercare di farsi dire qualcosa
in più dai cugini.
– Ma quale brigatisti… – cantilenava il giovane capitano
dell’antiterrorismo con aria di sufficienza e con ammiccamenti tipicamente siculi, “truffatori sono!”. Ma chi voleva
prendere per il culo? Guido decise di tentare altre strade
e se ne andò alla ricerca del Ruspante e di Snoopy. Non
tardò a trovarli nel bar-trattoria più vicino alla stazione
dei carabinieri. Erano a parlottare col maresciallo. Lo videro avvicinarsi e si affrettarono a trangugiare l’ultimo
“stuzzichino” di salame e uovo sodo e a scolare il vino.
Salutarono affabilmente il maresciallo, che, mentre i due
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poliziotti si allontanavano, si volse in maniera eloquente
verso Guido portandosi con rispetto la mano alla visiera.
Questa volta la breccia era stata aperta da Snoopy: il maresciallo era sardo come lui, oltretutto della stessa provincia. Il vino aveva contribuito molto, ma a spingere il
maresciallo ad aprirsi era stato il desiderio di fottere in
qualche modo quello stronzetto del capitano dell’antiterrorismo che l’aveva abbondantemente cazziato, movendogli tutta una sfilza di rilievi. – La cosa non finisce qui,
maresciallo. Voi avevate a poche centinaia di metri dalla
caserma una base terroristica e non vi siete accorti di
niente. Voi dormite in piedi! – C’era poco da replicare,
purtroppo. Comandi, signor capitano!
Sì, il proprietario dell’appartamento aveva dato preziose
indicazioni: il contratto di affitto era stato stipulato dalla
donna e lui aveva diligentemente trascritto oltre alle generalità anche gli estremi della carta d’identità, che non
risultava né rubata, né smarrita. Si chiamava Boni Oriele,
nativa e abitante a Pavia, insegnante. Figurava ancora
nubile sul documento perché – aveva detto – se l’era fatto rilasciare prima del matrimonio e loro si erano sposati
da poco.
Il marito o sedicente tale, il ragionier Sartori, aveva lasciato un’unica traccia: gli estremi della targa della sua
Fiat 128 bianca, che erano stati annotati dall’amministratore del piccolo condominio. I carabinieri avevano però
già accertato al Pubblico Registro Automobilistico che
quei dati corrispondevano alla targa di un autobus delle
linee urbane milanesi.
Bisognava fare presto, andare subito a Pavia a vedere chi
abitava a quell’indirizzo o incaricare i colleghi della questura locale di fare loro l’accertamento. Guido, dopo es108
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sersi consultato col Bimbo, optò per questa seconda soluzione per guadagnare tempo rispetto all’Arma, anche
se non c’era da farsi illusioni: se Oriele Boni faceva parte
dell’Organizzazione, di certo non la trovavi a casa sua, ma
lì comunque occorreva andare subito per incominciare a
capire.
Guido si attaccò al primo telefono pubblico e chiamò il
collega dell’Ufficio Politico della questura per informarlo
succintamente della situazione, pregandolo di volare all’indirizzo della Boni e di fargli sapere subito chi vi abitava. Attenzione però, non si sa mai.
– Asti-Trento 09 da Quarto Pavia 21 – gracchiò di lì a una
mezz’ora la radio della Giulia di Guido. Era la centrale
della questura del luogo che rimbalzava evidentemente
la chiamata della consorella lombarda. Dopo vari “passo”,
“interrogativo, passo” (per fare le domande), si arrivò al
“ricevuto, chiudo”: il collega chiedeva a Guido di chiamarlo per telefono.
Il Fachiro che era al volante dovette sorbirsi la sua razione di improperi per non essere stato capace di trovare all’istante una cabina telefonica. A un’altra sfuriata di volgarità assortite dovette assistere il Ruspante per il fatto che
la gettoniera della cabina sembrava non avere nessuna intenzione di vomitare i gettoni in cambio delle monete da
cento lire che aveva ricevuto. La situazione venne risolta
con una bestemmia di Guido e due cazzotti assestati dal
Ruspante che provocarono un rumore quasi bronchiale
nella gettoniera e la convinsero a stare ai patti.
All’indirizzo indicato abitava in effetti la famiglia Boni:
due coniugi di mezza età, che gestivano da sempre un
negozio di generi alimentari nella zona. Avevano una figlia – Oriele appunto – maestra, nubile, che da qualche
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anno si era trasferita in una località vicino Trento per insegnare alla scuola elementare.
Quando dall’altro capo del filo fu scandito in stridente accento calabro il nome del paesetto trentino e quello della scuola, cadde il silenzio.
– Guido, mi hai sentito? Sei sempre in linea? Pronto…
pronto?
– Sì, pronto; che cazzo gridi! Ho capito.
– Scusa, non ti sentivo più… Allora, a me i vecchi sembrano gente per bene…
– Anche la figlia, ci puoi giurare, – aggiunse Guido dopo
una nuova pausa di silenzio – hai chiesto da quanto tempo non la vedono? – Il suo tono era cambiato. Sembrava
assente.
– Certo che gliel’ho chiesto! Da poco più di un mese.
Spesso viene lei, qualche volta vanno loro. Si sentono
due o tre volte a settimana per telefono. Sono molto attaccati.
– È fidanzata?
– Dicono che c’è un collega che le fa la corte.
– Hai chiesto se ha mai perso la carta d’identità o se gliel’hanno mai rubata?
– Guido, ma mi prendi proprio per un minchione. No, né
smarrita, né rubata, per quanto risulta ai genitori. Che
pensi tu? Fa la doppia vita questa Oriele?
– Non credo proprio.
– Che cosa vuoi dire? Che c’è una brigatista che si spaccia per Oriele Boni e che ne ha preso le generalità? Ma
come è venuta in possesso dei suoi dati?
– Bravo! Bisogna capire come hanno fatto quelli dell’Organizzazione a impossessarsi dei dati della Boni, compresi gli estremi della sua carta di identità. Forse questo ci
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aiuterà a risalire alla terrorista. Vado a fare quattro chiacchiere con la professoressa Boni e spero di arrivare prima dei cugini, come siamo riusciti a fare con i genitori.
Le acque abbondanti del Sile scorrevano quiete tra gli argini verdeggianti. La pianura, spogliata delle piantagioni
rigogliose di mais, era punteggiata da ciuffi di fiori gialli,
come grandi margherite. Di tanto in tanto un casolare
contornato da alberi. Più avanti il fiume si allargava fino a
formare un piccolo lago da cui si diramavano corsi d’acqua minori forse comunicanti con la laguna. Tra i pioppi e
i salici rigogliosi si intravedeva un ponte di legno di quelli che si aprono per far passare le imbarcazioni più grandi. Gli ricordava un quadro di un impressionista francese.
Ancorati alle rive alcuni barchini da pesca dal fondo piatto. Gli umori umidi dell’imminente autunno erano attraversati da bagliori smaglianti. Guido ricordò di aver sognato quel punto del fiume: era un’alba estiva dalla luce
ancora incerta, meravigliosamente serena, di quelle dominate da vapori e fruscii che la ripresa del giorno cancella.
Ormeggiata alla riva una bella imbarcazione a vela, di
quelle a due alberi, col vasto ponte e le murate di legno
lucido. Loro due erano seduti insieme ad altri su una comoda panca, in attesa di partire per un viaggio incantevole. Ma era già tanto bello trovarsi là in attesa, cullati dai
sussurri della natura che si risveglia, dallo sciabordio delle acque, come tutti gli innamorati l’uno perso negli occhi
dell’altra.
Si soffermò sulle immagini di quel sogno fino a provare
pena. Si sentiva spossato e ritornare nel paese dalle casette di fata e dai balconi fioriti gli evocava immagini
struggenti squarciate da saette di rabbia, di ribellione al
corso degli eventi. Sopravvenne per qualche attimo la
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speranza assurda che si trattasse di un equivoco; quante
volte era accaduto che per una serie incredibile di coincidenze era sembrato che non ci potesse essere una spiegazione diversa di un fatto e poi invece…
La Giulia procedeva ormai veloce sull’autostrada del
Brennero. La vista della valle incassata tra le pareti dei
monti e attraversata dall’Adige gelido, vorticoso, azzurrino – o verde dove un’ansa più ampia concedeva una sosta alle acque – un tempo gli gonfiava il petto di benessere e l’ansia di godere appieno di quanto si offriva alla vista si accompagnava al timore di non riuscire a ingozzarsene fino in fondo: i prati, i frutteti, le guglie dei campanili, i castelli fiabeschi e i conventi su in alto, il fascino
dell’incontro di culture diverse eppure così complementari che emanava dalle opere dell’uomo.
V
Oriele Boni li aspettava in ansia. I genitori l’avevano informata della visita della polizia e delle strane domande
sul suo conto. Anche lei non riusciva a comprenderne la
ragione.
L’appartamento era minuscolo ma accogliente; l’arredamento in stile locale studiato al millimetro: il tavolo del
piccolo soggiorno con la panchetta ad angolo, le mensole con i fiori secchi, la madia, la cassapanca, tutto odorava di pino ed era di un caldo color miele.
Oriele Boni era quello che si dice una brava ragazza, dalla figura piacevole e dai tratti dolci e un po’ banali che ne
facevano lo stereotipo della maestra coscienziosa e della
brava donna di casa. Precocemente matura, era pronta
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per il matrimonio con un ragazzo bravo e tranquillo come
lei.
Guido preferì darle subito una spiegazione esauriente:
qualcuno le aveva sottratto le generalità e ne aveva duplicato la carta d’identità. Insomma in giro c’era una donna grosso modo della sua stessa età e delle sue stesse fattezze che si spacciava per l’incensurata Oriele Boni.
– Oh signour! – esclamò lei – ma chi può essere? E che
cosa ha fatto?
– Che cosa ha fatto non sappiamo ancora bene. Lei può aiutarci a capire chi è – la incoraggiò Guido vedendola in un
certo senso più tranquilla una volta compresi i motivi che
avevano portato la polizia a interessarsi di lei. – Immagini
di dover raccontare a un’amica la sua esperienza in questo
paese da quando è arrivata, le persone che qui ha conosciuto e incontrato, l’ambiente di lavoro, il tempo libero…
Guido avrebbe potuto arrivare subito al sodo, ma preferì
che la cosa venisse fuori da sola. Avrebbe potuto tagliare
corto e farle quella domanda a bruciapelo per avere la risposta che già conosceva.
Non dovette aspettare molto. La Rina entrò in scena presto: sì, la Boni aveva legato con la Rina, anche se all’inizio quella collega emiliana, che aveva fatto un periodo
piuttosto lungo di supplenze, le aveva dato l’impressione
di essere troppo introversa, troppo chiusa, quasi scontrosa. Poi però, quando erano entrate più in confidenza ne
era rimasta affascinata. L’aveva anche ospitata per un
breve periodo. Ne parlava con affetto e ammirazione: la
Rina era dotata di grande sensibilità, altruista, impegnata seriamente e non solo per moda come molti. Diverse
volte erano state insieme all’Università di Trento non solo perché anche lei voleva iscriversi a Sociologia, ma per
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curiosità. Per Rina però non era solo curiosità, lei si accalorava, ci soffriva, credeva che fosse necessario fare qualcosa contro le ingiustizie e le disuguaglianze. Qualche volta era anche intervenuta nei dibattiti, si era fatta notare.
Parlava di argomenti difficili, di politica e di società, con
molta competenza. Leggeva molto, soprattutto giornali e
pubblicazioni di estrema sinistra, gli scritti del Che, di
Marcuse, di Mao. Allo stesso tempo però diceva che
avrebbe voluto impegnarsi anche nel volontariato cattolico con “Mani tese”. L’importante per lei era non farsi omologare – così era solita dire – dalla società borghese, reagire, dare il proprio contributo per un mondo più giusto.
Era profondamente convinta, calata in quella dimensione.
– La ammiravo e le volevo bene, ma in certi momenti mi
faceva paura. La vedevo troppo infatuata.
Nei giorni che seguirono gli incidenti di Avola, dove la polizia sparò sui braccianti e ne uccise due, la Rina era furiosa e volle partecipare alle infuocate assemblee all’università. Per la Boni il clima si stava troppo riscaldando.
Aveva deciso di staccarsi lentamente dall’ambiente di Sociologia e specie da certi soggetti con i quali la Rina invece si fermava a discutere per ore. Le aveva parlato negli
ultimi tempi con ammirazione di una certa Mara, anche
lei divisa tra volontariato cattolico e impegno rivoluzionario. Aveva sposato uno dei leader del movimento studentesco. Il matrimonio era stato dei più tradizionali: come due giovani piccolo-borghesi si erano sposati in chiesa, in un santuario in montagna, ma la cerimonia era stata di tipo tutt’altro che borghese, così semplice invece da
riportare al candore francescano. Valli a capire!
Che fine aveva fatto la Rina? Aveva lasciato la scuola e il
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paese da un paio d’anni per trasferirsi forse in provincia
di Venezia, dove diceva di aver trovato un lavoro in
un’azienda privata. Nonostante le promesse, non si era
più fatta sentire.
– Aveva un ragazzo questa Rina? – chiese a bruciapelo il
Ruspante e Guido lo guardò con odio profondo.
– Sì, lo aveva, ma non amava parlarne anche se fra noi
c’era abbastanza confidenza. Mi disse che viveva a Roma.
Si vedevano raramente. Un paio di volte deve essere venuto anche a Trento, ma io non l’ho mai visto.
Il Ruspante incalzava: secondo la Boni non era soltanto
questione di riservatezza. Il rapporto con il suo ragazzo
doveva essere tormentato. Certo non era facile per tipi
impegnati come la Rina trovare il compagno giusto. Eppure, dietro quel rigore e le tendenze missionarie, la Rina aveva, secondo la Boni, un grande bisogno di affetto.
Se avesse trovato l’uomo giusto avrebbe forse mollato
certe idee. La Boni si fermò come se si fosse pentita di
essersi lasciata andare su argomenti che riguardavano la
vita intima di un’amica alla quale era ancora affezionata.
– Sa mica come si chiama questo ragazzo? – proseguì il
Ruspante con la bava alla bocca.
– La signorina Boni ha già detto che la sua amica non
amava parlarne. Non hai sentito? Figurati se le ha dato le
generalità! Non è vero, signorina?
– Si conoscevano fin da bambini… il suo primo e unico
ragazzo.
– Ma capo, se permette io insisterei… mi sembra importante – azzardò il Ruspante non riuscendo a capacitarsi
di come il commissario sorvolasse su un particolare che
poteva essere determinante per dare un volto e un nome
a due terroristi.
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– Lascia stare! – ringhiò Guido cercando di contenersi
di fronte alla Boni, che appariva ora disorientata e perplessa.
– Perché mi fate tutte queste domande sulla Rina? –
chiese con ansia e non ottenendo risposta – Oddio, non
sarà mica lei...?
– E perché mai? – la interruppe Guido cercando di controllare la sua agitazione. – Mi sembra che stiamo perdendo troppo tempo su questa Rina. Mi parli invece delle altre sue colleghe, di ragazze che ha conosciuto in paese e a Trento.
Non ce n’era nessuna che, come invece la Rina, avesse
avuto l’opportunità di ricopiare i dati della carta d’identità della Boni; nessuna che come la Rina fosse scomparsa
senza farsi più viva.
Mentre la salutava, sembrò a Guido di aver fugato i sospetti della Boni sulla Rina, di averla convinta che i suoi
dati potevano essere stati forniti all’Organizzazione da un
impiegato infedele dell’anagrafe o del provveditorato agli
studi.
Rimasero muti per diversi minuti mentre si allontanavano dall’abitazione della Boni alla ricerca di un locale qualsiasi dove cenare alla meglio. Poi il Ruspante non ce la
fece più:
– Scusi capo, io non ho capito ancora perché non abbiamo chiesto qualche notizia in più sul ganzo della Rina…
– Perché già so chi è.
– Allora lei sa anche chi è la Rina, cioè sa già qualcosa in
più del nome e del cognome. Vuol dire che è una già
schedata…
– No, non è schedata. E neppure lui, ma li conosco lo
stesso.
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Il Ruspante lo fissò con i suoi occhi da cinghiale che
esprimevano, più del solito, diffidenza e ombrosità. Ma
che significava questa storia? Forse che il capo li aveva
conosciuti casualmente prima che diventassero terroristi?
– Se ce lo dice anche a noi chi sono, visto che lavoriamo
insieme…
– Pensiamo a mangiare adesso! – tagliò corto Guido entrando nella “stube” invasa dal fumo. L’atmosfera era accogliente, ma a loro sembrò di essere entrati in casa d’altri. La cameriera era bionda e con il grembiule. Li accolse con un cortese ma distaccato “prego?”, tra l’austriaco
e il veneto.
Guido fu sopraffatto da un’ondata di tristezza. Pensava ai
momenti felici trascorsi in quei luoghi con la Rina. Gli
sembrava impossibile che lei si fosse persa fino a quel
punto. O era lui a essersi perso?
A parte la morte del padre che l’aveva colpito ancora ragazzino, per la prima volta nella sua vita da adulto sentiva di trovarsi di fronte a un fatto inesorabilmente concluso. Fino ad allora nulla gli era accaduto che non fosse riproponibile o rimediabile.
Gli sembrò che non solo quella storia particolare fosse un
capitolo ormai chiuso, ma che si fosse chiusa una stagione della vita del suo Paese. Oppure tutto questo era già
avvenuto da tempo e lui ne prendeva coscienza solo
adesso?
La gente era uscita dal tunnel della guerra e aveva riconquistato la libertà a prezzo di lotte fratricide. Poi si era
ubriacata di quella libertà e la vita aveva preso a scorrere come un fiume impetuoso e la smania di tornare a realizzarsi l’aveva avuta vinta anche sulle profonde ferite
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che il fascismo, la guerra e la lotta di liberazione avevano
lasciato nelle coscienze. Quanti avevano perso un familiare o avevano comunque sperimentato sulla propria
pelle gli orrori di quegli anni – ed erano centinaia di migliaia – erano stati travolti, ancora storditi dal dolore, dalla più ampia moltitudine che reclamava il diritto di campare, con quella forza che può avere soltanto chi abbia visto in faccia la morte. E questo, bene o male, era capitato quasi a tutti.
Vedove, figli, genitori di soldati morti o dispersi, di vittime di bombardamenti, di partigiani torturati e trucidati,
di fascisti impiccati, di ebrei sterminati nei campi di concentramento, gli stessi sopravvissuti all’Olocausto, erano
stati risucchiati con tutto il loro sordo dolore nel vortice
della ricostruzione e della corsa al benessere.
La convinzione che per questo fossero morti i propri cari e che l’antifascismo e la conquista della democrazia
rappresentassero valori sacri, su cui per sempre si sarebbe retto il Paese, rendeva loro meno disdicevole il farsi
distogliere dal dolore e rimettersi in cammino trascinati
dagli altri.
Sabatello era tornato dietro al banco della merceria ed
esibiva ai clienti il numero che gli avevano impresso sul
braccio nel campo di concentramento di Treblinga e si
vedeva che pure lui, nonostante tutto, aveva ancora voglia di vivere e lo consolava l’idea che anche la moglie e i
figli dal mondo di là fossero contenti di vederlo ancora
dietro al banco e qualche volta scherzava con Guido,
quando la Annetta lo mandava a comprare le spolette di
filo e i bottoni.
Il tenente Bartolini era tornato dalla guerra con la faccia
sfigurata da una scheggia e senza una mano. Guido lo in118
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contrava spesso dal barbiere che lo radeva quasi tutti i
giorni superando il disgusto, perché come grande invalido Bartolini aveva diritto all’accompagnatore e il barbiere entrava allo stadio gratis insieme a lui.
Il padre di Mirella era stato comandante partigiano ed
era diventato un pezzo grosso del Partito comunista, ma
mandava la figlia in parrocchia. Andava a comprare le
Nazionali Esportazione nella tabaccheria di Goffredo che
era stato repubblichino. Si guardavano di traverso, ma
ognuno si faceva i fatti suoi.
Il macellaio si era fatto la Studebaker, quella con gli alettoni e il cambio al volante che era lunga tre Topolino.
Il garzone del panettiere, che portava la merce ai clienti
con il triciclo a pedali, la domenica si pavoneggiava sul
Rumi. Molti ormai avevano il frigorifero e la televisione in
casa.
Abebe Bikila aveva trionfato nella maratona alle Olimpiadi di Roma correndo scalzo come era abituato a fare sugli
altopiani etiopici. Tutto il mondo l’aveva visto attraversare una città solare e gioiosa: la periferia con le gru e la terra smossa dalle scavatrici, l’architettura agile e geniale
degli impianti sportivi, gli antichi monumenti del centro,
fino all’arco di Costantino, dove, nell’atmosfera incantata
della sera illuminata dalle fiaccole, l’etiope aveva concluso la sua immane fatica con falcate ampie e lievi da airone. Un povero accolto da migliaia di poveri, come lui generosi fino a farsi scoppiare il cuore per riscattarsi. Erano
festanti perché la sua era anche la loro vittoria.
Che cos’era successo poi? In pochi anni quel gioioso dinamismo era diventato una corsa sfrenata e senza regole: le gru delle periferie, apparse come manifestazione di
una industriosità sana e portatrici di un benessere equo,
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erano diventate emblema di speculazione, scempio ed
emarginazione.
Gli venne in mente il film di Anna Magnani, “L’onorevole
Angelina”, dove lei, popolana coraggiosa, si mette alla testa di un gruppo di senzatetto di Pietralata e li guida all’occupazione di un casermone costruito per speculazione da un palazzinaro sostenuto da politici corrotti. La notorietà rischia di far cadere Angelina nelle lusinghe della
politica, ma alla fine saranno la sua genuinità e la solidarietà delle sue compagne di lotta ad avere il sopravvento
e Angelina rifiuta ogni compromesso e torna a combattere la sua quotidiana battaglia di madre di famiglia nella
borgata.
Nonostante le macchine, l’autostrada del Sole e gli elettrodomestici, la democrazia aveva progredito ben poco.
Il potere era rimasto nelle mani di pochi e la democrazia
come ingabbiata e costretta entro canali prefissati ed era
difficile saltare da un canale all’altro: se facevi l’operaio
potevi al massimo sperare che tuo figlio diventasse perito tecnico.
Guido ripensò alle discussioni con la Rina e dovette riconoscere che per certe cose aveva ragione lei: anche la
cultura rimaneva di classe. Il fascismo era riemerso come
un fiume carsico e i fatti del ‘60 lo avevano dimostrato.
Ma aldilà delle manifestazioni più plateali, esisteva un fascismo più subdolo annidato dentro i gangli delle istituzioni, dentro la stessa Democrazia Cristiana, un qualcosa
di profondamente radicato nella borghesia e funzionale a
essa. I comunisti, con il loro mastodontico apparato di
partito, sembravano ormai inesorabilmente risucchiati
dai giochi della politica e attratti dal miraggio del potere,
pronti al compromesso pur di raggiungere lo scopo e so120
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lo una minoranza dei vecchi militanti soffriva per il tradimento degli ideali.
Ma al di fuori dei partiti una moltitudine di giovani si era
sentita tradita e si era organizzata nei movimenti: contro
il tradizionalismo deteriore e i falsi valori su cui si reggeva la società, dicevano loro. E perciò contro la famiglia
tradizionale, la scuola, la condizione della donna, il servizio militare, la chiesa anch’essa incapace di rinnovarsi
nonostante i don Milani, i preti operai, papa Giovanni…
Se il fascismo aveva rialzato la testa nella indifferenza generale, era normale che rinascesse un antifascismo militante e non di maniera e che il senso di ribellione suscitato dalla disillusione si traducesse in una protesta violenta e nello stesso tempo accorata contro i “padri”: se
borghesi, arroccati in quello spazio nel quale il fascismo
si perpetuava; se “compagni”, ingessati nelle posizioni
imposte dai calcoli di partito; se operai, emarginati e
schiacciati da un consumismo fondato sullo sfruttamento del loro lavoro.
Aldo Moro aveva detto in un discorso memorabile che la
Democrazia Cristiana non era un partito di classe, ma un
partito di popolo. Ma quale popolo rappresentavano i democristiani? E le classi non erano dopo tutto un’invenzione vetero-marxista, ma una realtà che potevi toccare ancora con mano – pensava Guido – sui tram, sui treni dei
pendolari, davanti ai cancelli delle fabbriche, nei cantieri, nei palazzoni squallidi delle periferie; gente dalla faccia rassegnata, stanca, vestita di indumenti di poco prezzo. Ovvero, dall’altra parte, gli industriali, gli imprenditori senza scrupoli, una classe politica corrotta e trasversale agli affari, con tutti i suoi privilegi.
Di che cosa meravigliarsi se i giovani si erano dati alla
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protesta e alla contestazione del sistema? Dopo anni e
anni di esaltazione della Resistenza e dell’antifascismo,
quei valori non sembravano ora così essenziali a garantire la permanenza della democrazia nel Paese.
Come si era passati poi dalla contestazione al terrorismo?
Che cosa significava strategia della tensione? Era la conseguenza degli opposti estremismi o qualcosa di molto
più complesso e mostruoso? E le stragi: piazza Fontana,
piazza della Loggia a Brescia e per ultima quella di agosto sul treno Italicus tra Firenze e Bologna? Si parlava di
trame, di servizi segreti deviati…
Che cosa stava succedendo nel Paese?
Su queste cose rifletteva Guido, tenendo tra le mani il
giornale con gli identikit della misteriosa coppia, che i carabinieri avevano diffuso. Due volti insignificanti: lui
avrebbe potuto essere uno dei tanti trentenni che incontri per la strada, lei altrettanto anonima, nonostante una
certa durezza d’espressione (ma qui il disegnatore dei
carabinieri poteva essersi fatto prendere la mano e averci messo qualcosa di suo). Proprio nulla a che fare con la
Rina, per fortuna. Vatti a fidare degli identikit!
Leggeva l’articolo e scuoteva la testa, mormorando “Cazzate, ma quante cazzate!” e il Ruspante lo fissava con i
suoi occhietti porcini e sospettosi.
VI
– Ciao Guido, che sorpresa! – esclama la Generosa dopo
qualche attimo di esitazione con gli occhi fatti subito lucidi dalla commozione, – da quanto tempo, da quanto
tempo… Quasi non ti riconoscevo…
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L’osteria del Suldà non esiste più. Al suo posto c’è il bartabaccheria Brennero. Si chiama così perché l’autostrada
Modena-Brennero passa proprio lì vicino e il paese ne è
diventato un casello importante con tanto di segnaletica
e di tabelloni verdi, dove il nome spicca come quello di
una città e nei mesi invernali non c’è notiziario radio sulla viabilità che non lo nomini, tanto che ormai tutti lo conoscono, sia pure per la nebbia.
L’hanno dovuto lasciare il locale; il Suldà è da qualche anno sulla sedia a rotelle e la Generosa ha il suo daffare a
tenergli dietro. Sono rimasti ad abitare lì sopra però, nella casa di sempre.
I nuovi gestori sono gente del paese, lontani parenti del
Suldà e l’insegna in ferro battuto l’hanno lasciata al suo
posto per rispetto dei vecchi, accanto al neon azzurro,
ma il grappolo d’uva è diventato poco più che una macchia nera scolorita dal tempo.
I vecchi si sono tenuti anche il pezzetto di terra dietro la
casa, con la pergola, il pollaio e la pista delle bocce, invasa ormai dall’erba e con le sponde di legno fradice.
La Generosa ha come sempre le mani che profumano di
sfoglia, perché l’impegno del marito non le basta e a stare senza far niente le vengono tanti brutti pensieri e le
sale su il magone. Così tutti i giorni prepara lo gnocco
fritto per il bar e ogni tanto scende giù a fare due chiacchiere, la mattina sul tardi quando non c’è gente.
Ma i suoi occhi sono velati di tristezza e ha dei momenti
di assenza. Si è curvata e come raggrumata. L’Elisa la viene a trovare spesso con Omar, che è ormai un bel ragazzino.
La Rina, chi la vede più? Fino all’anno scorso si faceva almeno sentire ogni tanto, racconta la Generosa tirando un
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respiro profondo come se le mancasse l’aria. Poi anche le
telefonate erano finite. Prima di sparire aveva detto di voler andare a lavorare fuori, all’estero. Ma chissà se è vero?
– L’ultima volta, un paio di mesi fa, si è fatta viva con una
lettera che non veniva però da fuori.
– Ce l’hai ancora la lettera? – chiede ansioso Guido.
– Ma certo che ce l’ho. Vieni, che l’andiamo a prendere
nella sua stanza.
Il letto, addossato al muro, ha la spalliera di legno, la trapunta a fiori e i cuscini a colori. Sul tavolino che fa da
scrittoio, una cornice con una fotografia piccola e sbiadita di un ragazzo mingherlino a cavallo di una moto scheletrica, dalle ruote grandi, ma con le gomme ridicolmente magre. È in posa su quel trabiccolo, chinato in avanti
come fanno i corridori, con lo sguardo ingenuo che sprizza gioia e orgoglio. È Folletto, il papà della Rina e l’immagine ingiallita lascia più intuire che intravedere una vaga
rassomiglianza tra i due.
Sulle pareti un poster dei Nomadi e uno dei Corvi, un gruppo beat emiliano; ma il posto d’onore è riservato al Che.
È la stanza di una ragazzetta del popolo, come tante nei
paesi e nei quartieri di periferia delle grandi città, con
mobili da poco, ma tirati a lucido, tenuti con grande cura, pateticamente inghirlandati dei cuscini, merletti e
tendine della nonna. Nello scaffale dell’armadio il mangiadischi di plastica colorata, con accanto i trentatré giri
ancora nelle custodie di carta.
Tutto riporta a una Rina adolescente, come le singolari
bamboline poggiate su una mensola, fatte con materiali
ricavati dalle pannocchie di granoturco: la testa e il corpo con i torsi, i capelli con le barbe, i vestiti in parte con
le foglie secche del cartoccio, in parte con avanzi di stof124
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fa. Le bambole di un tempo, quelle che i figli dei contadini si industriavano a mettere insieme per giocarci. La Rina aveva imparato a farle dalla Generosa e anche da
grande si divertiva a confezionarle con grande fantasia
per regalarle alle amiche.
Quando la Generosa tira fuori dal comodino la lettera,
Guido si riscuote e l’afferra quasi con rapacità. È la grafia di una persona diversa da chi ha abitato quella stanza, che stride con le cose che vi sono custodite e con le
memorie che evocano. È la grafia nervosa di una donna
tormentata.
“Cari nonni, anche se non mi sentite più spesso, io vi voglio bene come prima. Non state in pena per me. Va tutto bene. Io sono soddisfatta perché finalmente posso fare quello in cui credo. Vi abbraccio forte forte. Pensate a
voi e curatevi”. Era firmata “Gnegnola”, il soprannome
che i nonni le avevano dato da bambina; il timbro di partenza “Mestre Ferrovia”.
La Generosa ha gli occhi umidi e si torce le mani.
– Vedi, abbiamo lasciato tutto com’era. È stata sempre
così gelosa delle sue cose… Tu che cosa pensi, Guido?
Ritornerà prima che ce ne andiamo all’altro mondo io e
Gaetano? Hai visto come è ridotto, pover’uomo?
– Non avete altri suoi scritti? – chiede Guido eludendo le
domande.
– No, lo sai che scriveva molto, ma ha portato tutto via.
Ha lasciato solo quei libri lì.
È solo qualche romanzo in edizione economica, nulla che
richiami l’impegno politico.
– Dimmi la verità, Guido. È successo qualcosa? Perché
sei qui dopo tanto tempo? Tu sei nella polizia…
– No, non è successo niente… almeno per ora. Se doves125
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se chiamarvi per telefono, dille… dille che sono venuto a
cercarla. Sì, proprio così: è venuto Guido a cercarti.
– Mi fai capire che è nei guai…
– È inutile che ti racconti storie. Avevi ragione tu quando ti preoccupavi perché frequentava brutte compagnie.
Ho mancato io. Sono stato uno stupido.
– E adesso che cosa si può fare?
– Non lo so ancora… Sono per caso già venuti i carabinieri a chiedervi qualcosa?
– No, ma se mi dici così significa che è ricercata.
La Generosa respira sempre più affannosamente e ha
l’aria disperata.
– No, non lo è, ma… Senti, nonna, è una storia difficile da
raccontare. Abbi fiducia in me. Io farò di tutto per tentare di tirarla fuori e tu mi puoi aiutare. E allora stai bene
attenta a quello che ti dico: non ti devi mostrare preoccupata in giro. Vi dovete comportare come se andasse
tutto bene e la Rina avesse trovato un lavoro in Inghilterra. Anche quando parlate per telefono non dite mai che
la Rina frequentava gente strana e che da diverso tempo
non dà più notizie. Se dovessero venire i carabinieri fate
lo stesso. La lettera la prendo io e se ne arrivano altre,
dopo averle lette, chiudetele in una busta e mandatemele subito all’indirizzo che vi lascio scritto. E… e fate sparire il manifesto di Che Guevara.
Non si sono accorti che il Suldà si era spinto con la sedia
a rotelle fin sulla porta e stava lì ad ascoltare.
Guarda Guido con sguardo implorante.
– Io lo sapevo, lo sapevo che andava a finire così, che
questi malnati la rovinavano. Che gli venisse un canchero! Se potessi ci andrei io a prenderli per il collo, ma vedi come sono ridotto, dio c…
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La Generosa tenta di calmarlo, ma lui si stizzisce ancora
di più e la manda via, perché vuole parlare da solo a solo
con Guido.
– So che sei una persona perbene e che mi posso fidare
di te, anche se sei diventato un poliziotto. Io tenevo nascosta dentro la vecchia stufa di ghisa che è nel magazzeno una pistola tedesca, una Walther, sai, quelle dell’ultima guerra. Quella pistola ha una storia. Era di Folletto
e lui l’aveva affidata alla Elisa poco prima che i fascisti lo
prendessero. L’ho sempre tenuta come una reliquia. La
Rina lo sapeva ma io non avevo mai detto a lei, a nessuno – nemmeno a mia moglie – dove la tenevo nascosta.
Però un giorno la Rina mi vide mentre la tiravo fuori dalla stufa per ingrassarla e volle che gliela facessi toccare.
La teneva in mano e la fissava come a volerci trovare un
segno, una traccia del padre. Guido, sono stato una bestia! Ho fatto male a tenerla e soprattutto a rimetterla lì.
– È sparita!
– Sì, è sparita e c’è dell’altro. Quando la Rina faceva la
maestra vicino Trento, ogni tanto tornava a casa per
cambiare i vestiti e sistemare le sue cose. Una volta, la
Generosa andò a rovistare nel suo borsone, mentre lei
era in bagno, per vedere se c’era roba da lavare e trovò…
trovò dei fogli con la stella dei terroristi, come quelli che
si vedono ogni tanto sui giornali…
– E voi che cosa avete fatto? Le avete detto qualcosa?
– Sì, le abbiamo chiesto spiegazioni e lei ha risposto che
li aveva trovati all’università, che ce n’erano tanti in giro.
Poi quando le abbiamo raccomandato di far bene e di stare attenta ha incominciato a spazientirsi. Dopo qualche
giorno è sparita. Guido, se tu le stavi vicino questo non
succedeva!
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VII
La direzione strategica aveva deciso che la compagna
Greta cambiasse aria. Le sarebbe servito anche per crescere sotto il profilo politico e militare. Aveva infatti dimostrato di essere in possesso di tutte le doti necessarie
per azioni di maggiore spessore: fede rivoluzionaria, sangue freddo, riflessi pronti, determinazione, dimestichezza con le armi. E lo aveva dimostrato sul campo, partecipando prima a qualche azione dimostrativa a Milano.
Aveva incominciato facendo da palo, mentre i compagni
incendiavano con la benzina la macchina di un capetto
di una grande azienda. La seconda volta aveva partecipato direttamente all’azione senza mostrare alcuna agitazione.
Valeva la pena metterla alla prova con qualcosa di più serio e molto importante per l’Organizzazione in quella fase: cioè un esproprio proletario, ossia una rapina.
Si era deciso di puntare sulle piccole banche dei paesotti della pianura veneta vicini alle località balneari, adagiati nel torpore della stagione morta, quando riemerge
l’origine contadina e paciosa di molti degli albergatori e
piccoli imprenditori locali e la vita scorre sonnolenta tra
le nebbie e i vapori del Cabernet che fermenta nelle cantine.
Ma una rapina è pur sempre una rapina. Nonostante i sopralluoghi e le osservazioni accurate fatti nelle settimane
precedenti per preparare il colpo, tu non puoi mai sapere se la pattuglia di carabinieri che hai visto transitare lì
solo nei giorni del prelievo del contante da parte delle
guardie giurate col furgone portavalori, non compaia di128
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sgraziatamente anche in altri momenti, per un accidente
qualsiasi. Sono per lo più anziani e troppo satolli per rappresentare una reale minaccia, ma non si sa mai. Meglio
evitare rischi.
I quattro o cinque clienti e i tre impiegati rimangono paralizzati dalla paura di fronte alle pistole spianate e alzano istintivamente le mani, prima ancora che i due rapinatori con i passamontagna glielo chiedano. Uno tiene a bada i clienti, l’altro salta con agilità dietro il bancone e ingiunge al cassiere di vuotare dentro una specie di sporta
della spesa i contanti che sono in cassa e di aprire poi la
cassaforte, contenente diverse mazzette di banconote.
Uno degli impiegati fa per abbassare le mani e il bandito
che controlla la situazione gli punta la pistola ingiungendo in tono freddo e deciso: – Su le mani, ho detto.
Sorpresa: la voce è quella di una donna e a guardarla bene, sotto il giaccone e i comodi pantaloni, s’intuiscono le
fattezze femminili di un corpo snello e vigoroso. “Aveva
uno sguardo deciso, ma… ma non da delinquente” dirà
uno dei testimoni.
Fuori li aspetta un complice su una Giulia bianca col motore acceso, berretto di lana fino agli occhi e occhiali scuri, come un quarto individuo rimasto fuori a fare da palo,
che salta a bordo quando le ruote già stridono, dopo essersi voltato puntando verso eventuali inseguitori una
mitraglietta che teneva nascosta sotto l’impermeabile.
A distanza di qualche chilometro c’è, su un bivio lontano
dal centro abitato, un casolare abbandonato con una tettoia fatiscente. I rapinatori, lontani da occhi indiscreti,
abbandonano la Giulia e si sbarazzano dei passamontagna, dei guanti e dei soprabiti usati durante il colpo; poi
lei, la compagna Greta, sale su una Ritmo verdina portan129
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dosi appresso la sporta con il bottino, che ricopre di ortaggi, e si allontana da sola. Gli altri vanno in direzione
opposta.
L’esproprio frutta appena una decina di milioni; non è un
granché, ma meglio non rischiare di più e seguitare a battere le piccole banche venete ed emiliane.
L’Organizzazione ha bisogno di soldi per pagare i fitti
delle basi, per procurarsi le armi e gli strumenti necessari alla propaganda, per sostenere i compagni detenuti, per assicurare la sopravvivenza ai militanti regolari,
cioè a quanti erano entrati in clandestinità e avevano lasciato famiglie e lavoro o per necessità, in quanto ricercati dalla polizia, o per scelta e cioè per dedicarsi completamente alla causa.
È questo il caso di Greta. Per lei era diventato sempre
più difficile coniugare lavoro e quotidianità con il crescente impegno nell’Organizzazione. C’era poi l’eventualità, neppure troppo remota, che il suo nome comparisse
negli archivi della questura: gli sbirri dell’ufficio politico
non avevano di certo mancato di schedare tutti i frequentatori del collettivo dove lei aveva iniziato il suo percorso rivoluzionario. È anche vero che migliaia di giovani come lei erano passati attraverso analoghe esperienze,
ma quel collettivo non era una delle tante congreghe che
servivano solo per fare casino a scuola o in piazza. Alcuni dei suoi militanti erano passati nel partito armato, sicché ormai l’antiguerriglia lo considerava come una delle
matrici del terrorismo rosso. Se gli sbirri non c’erano arrivati, ci avevano pensato i revisionisti del Partito comunista a metterli sulla buona strada.
Meglio evitare rischi, aveva pensato Greta ed era passata
in clandestinità, assumendo una nuova identità e, all’in130
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terno dell’Organizzazione, quel nome di battaglia: Greta
per i compagni.
Era stata la direzione strategica a decidere quale dovesse essere la sua nuova identità e quale altro militante la
dovesse affiancare per svolgere il suo ruolo senza destare sospetti. Le norme di comportamento prescrivevano
che il combattente rivoluzionario dovesse confondersi
tra la gente, diluirsi nel brodo della ordinarietà, trasformarsi in uno dei tanti uomini o donne della strada, con le
sue abitudini piccolo-borghesi, il tran-tran quotidiano di
una esistenza grigia, che non attira curiosità o invidie, ma
neppure interesse per simpatia. L’anonimato allo stato
puro, insomma.
Greta non era certo abituata al lusso e non desiderava la
vita brillante. Non le costava quindi nulla vivere in quella dimensione. L’inizio era stato però duro per altri motivi: le dava fastidio, anzi la irritava molto, l’idea di dover
vivere a fianco del compagno Dante, un compagno ammirevole quanto a cultura rivoluzionaria e a capacità organizzative, con il quale non sentiva però di condividere
nulla se non la militanza nel partito armato e la fede incrollabile nella vittoria del proletariato.
Le era costato molto lasciare il suo ragazzo, anche se il
loro non era stato un rapporto né continuativo, né profondo. O almeno così le sembrava mentre erano ancora
insieme.
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Anche se l’identikit non assomigliava affatto alla Rina,
Guido seguitava a temere che fosse lei la misteriosa si131
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gnora Sartori. Si sa che a una donna basta cambiare pettinatura e trucco per cambiare aspetto. Troppi erano gli
elementi che portavano a lei: le idee più volte manifestate, il suo percorso politico, la scomparsa da casa, la frequentazione a Trento di altri estremisti passati al terrorismo e, infine, l’opportunità che aveva avuto di impossessarsi dei dati della carta di identità della Boni. E poi quella pistola scomparsa…
Non potevano essere coincidenze. Non c’era da farsi illusioni.
Solo lui sapeva e aveva il quadro completo di tutti gli indizi, ma c’era il rischio che anche altri investigatori riuscissero a intuire o a fare qualche collegamento. Per
quanto riguardava la polizia non c’erano problemi. Era in
grado di percepire per tempo segnali in questo senso.
Con i carabinieri la questione era più complessa, ma doveva sapere a ogni costo quali elementi avessero in mano. Prima che fosse troppo tardi.
Qualche volta gli sembrava soltanto un brutto sogno. E
la storia aveva per molti versi tutte le caratteristiche
dell’inverosimile: lui portato dai casi della vita dentro gli
apparati antiterrorismo della polizia, in chi va a imbattersi attraverso una serie incredibile di circostanze e di
incastri degni di un romanzo? In Rina, che pur lontana
da anni e inafferrabile, rientrava così nella sua vita. E lui
la inseguiva disperatamente in un labirinto assurdo, dove si smarriva e si sentiva impotente come in quegli incubi nei quali i problemi che non hai risolto si ripresentano subdolamente nel sonno sotto forma di vicende diverse ma egualmente tormentose, di percorsi irti di
ostacoli e di equivoci, dove la soluzione diventa sempre
più lontana nonostante i tuoi sforzi. E ti svegli per la sof132
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ferenza che l’incubo ti provoca, sudato e ansimante, per
niente contento che si sia trattato solo di un sogno, perché quel sogno ti riporta a un problema reale che ti angustia.
Ancora più spiacevole, anche se con sentimenti diversi,
era per Guido pensare al ragionier Sartori. Nonostante
si fosse vantato col Ruspante, chissà perché, di conoscere anche lui, in realtà non aveva idea di chi potesse
essere e si tormentava nell’immaginarselo in anima e
corpo, nell’ipotizzare i suoi rapporti con la Rina. C’era
tra loro anche un rapporto sentimentale? Comunque
sia, vivevano insieme come marito e moglie e se era così… Si sentì ridicolmente geloso.
Com’era possibile che l’esigenza di una maggiore giustizia sociale potesse aver spinto la Rina a unirsi a dei terroristi che già si erano sporcati le mani di sangue? E a
buttare all’ammasso la sua vita affettiva? Con quali compiti poi? Sperava ardentemente fossero solo di supporto,
ma anche in questo caso lei si sarebbe comunque assunta la responsabilità di tutto il resto, dal punto di vista morale e penale.
Il Bimbo lo pressava. Voleva risultati, perché nel frattempo i carabinieri avevano arrestato sempre in Piemonte un
altro brigatista molto importante. C’era stato uno scontro
a fuoco e un maresciallo ci aveva lasciato la vita.
Guido rabbrividiva al pensiero che anche la Rina potesse
essere coinvolta in una sparatoria. Non riusciva a evitare
che gli balenassero frequentemente nella mente immagini terribili: Rina con la Walther in pugno che viene abbattuta da una raffica di mitra mentre cerca di scappare.
Nessuno sa chi sia quella bella ragazza riversa ai bordi
della strada. Lui arriva quando già è ricoperta da un telo
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bianco macchiato di sangue; rimane scoperta soltanto la
mano calda ancora di vita. La sagoma del suo corpo è già
stata tracciata col gesso sull’asfalto, la pistola è a breve
distanza e tutt’intorno cartellini di plastica con le lettere
dell’alfabeto e i cerchietti che indicano la posizione dei
bossoli per le esigenze del sopralluogo. Si china e alza un
lembo del lenzuolo. L’hanno colpita alla testa: c’è un grumo di sangue tra i capelli, che è abbondantemente colato lungo la gota e a terra. È arrivata la polizia mortuaria.
Gli ufficiali dei carabinieri confabulano col magistrato e
col medico legale e sì e no la degnano di uno sguardo,
mentre i becchini la prendono per le braccia e per le
gambe e la scaricano dentro una cassa di plastica grigia.
Sull’asfalto rimane la linea di contorno della sua figura
con una pozza di sangue all’altezza della testa e un’altra
lungo la figura. Lo guardano esterrefatti quando dice che
s’incarica lui di informare i famigliari. Ma come, lei la conosceva? Sì, e allora? Eccola qui la signora Sartori, fa il
tenentino siculo dell’antiterrorismo, “‘sta gran bott…”,
ma si blocca perché vede il suo sguardo pieno di disprezzo. Gli spaccherebbe volentieri la faccia, ma riesce a trattenersi. Si vede benissimo che anche il colonnello della
territoriale nella sua impeccabile divisa nera è orgoglioso
del risultato. Ma si controlla e ostenta freddezza militare.
Non si fa nemmeno sfiorare dall’orrore di una giovane vita spezzata. Era una terrorista, un nemico e allora che
problema c’è?
Sul tavolo di acciaio dell’obitorio, Rina è ancora coperta
da un lenzuolo, dal quale spuntano i piedi. A una caviglia
hanno legato un cartellino con dei numeri. L’Elisa e la
Generosa si avvicinano piangendo. Un infermiere scopre
il volto. Per fortuna è stato pulito e Rina è più bella che
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mai, ma lontana. Rimangono per un po’ scoperte anche
una spalla e in parte il seno. C’è un foro nella carne che
sembra ancora viva, sotto la clavicola, del diametro di poco superiore a una matita. Spicca sul pallore della pelle
levigata. Ma che motivo c’è di tagliarla, di farla a pezzi, di
farle oltraggio, soltanto per stabilire quale è stato il colpo mortale?
Guido si riscosse da quelle funeree visioni. Nel corridoio
risuonavano dei passi e le voci del Ruspante e di Snoopy.
– Possiamo? – domanda il Ruspante affacciandosi alla
porta. Ha l’aria abbacchiata ma sempre sospettosa.
Snoopy fa capolino dietro di lui.
– Allora? – chiede Guido in maniera brusca. – Che cosa
avete combinato?
Si parte male, pensa dentro di sé il Ruspante, ricambiando l’aggressività del capo con un “e va be’!”, accompagnato da un sospiro profondo che vorrebbe evidenziare il
suo spirito di sopportazione e da un’occhiata di intesa
con il collega. Poi tira fuori dalle tasche diversi foglietti
spiegazzati e incomincia a esaminarli per trovare quelli
giusti.
– Ma è mai possibile girare con le tasche piene di quella
sozzeria? Vi ho detto tante volte di usare dei taccuini o
un’agenda come faccio io. Vedi che poi ti perdi le cose e
non ci capisci più niente…
– Capo, qui non siamo mica a Scottlajard – l’inglese del
Ruspante non è perfetto, – e poi i taccuini li uso quando
me li passa l’amministrazione. Comunque non mi sono
perso mai niente –. Sta per incazzarsi, ma poi riprende
subito il controllo di sé:
– Allora, se non disturbo, vado avanti. Anche i “cugini”
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sono andati a sentire la Boni. Anzi loro l’hanno proprio
interrogata a verbale – Guido deglutì. – La Boni però, di
fronte a tutte quelle divise e alla carta scritta, è stata
molto più… più…
– Più che cosa? – interviene Guido indispettito dal fatto
che il Ruspante lo vuole chiaramente tenere sulla corda.
– Tranquillo, capo. Più… stitica. Non ha nominato quella
tale Rina, se è questo che volete sapere. Poi hanno interrogato tutte le insegnanti e il personale amministrativo
della scuola, bidelli compresi. Pare che non abbiano puntato nessuno dopo gli interrogatori, nemmeno quelli o
quelle passati nell’istituto come supplenti e poi scomparsi. Si sono però fatti dare le loro generalità e in questo
elenco di sette o otto persone figura anche Rina… come
si chiama lei. Tra l’altro, con l’ordine che c’è in quella
scuola hanno trovato le schede di ciascuno di loro complete di fotografia. Non devono fare neppure la fatica di
andarsele a procurare allo schedario delle carte d’identità dei comuni di residenza o altrove. Se la signora Sartori figura nell’elenco, il gioco è fatto. Basta mostrare la sua
fotografia agli inquilini dello stabile e…
– E l’hanno già fatto? – chiede Guido visibilmente agitato.
– No, capo. Non mi sembra che credano molto a questa
pista.
– Allora dobbiamo farlo noi. Subito. Però non abbiamo le
foto, anche se io…– e Guido si interrompe.
– Anche se voi… almeno una delle foto la potreste avere.
Quella di Rina magari…
Non c’è bisogno di spiegazioni. Lo sguardo che si scambiano è eloquente. Il Ruspante si prende la rivincita. Ma
che cosa credeva il capo? Che lui dormisse?
Il Ruspante non riesce però a capire come stiano vera136
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mente le cose: è chiaro che il capo conosce personalmente la Rina, ma perché tanti misteri? Che rapporti ci sono
stati fra loro? Certamente la vuole proteggere. Ma fino a
che punto? Anche nel caso in cui lei fosse veramente una
terrorista? Il capo fa spesso dei discorsi strani, discorsi
da sociologo, come quando dice che bisognerebbe andare alla ricerca delle cause del terrorismo. Sarà anche vero, ma il compito della polizia è quello di arrestare i terroristi. Questo il Ruspante sente essere il suo dovere e
se quella ragazza è una terrorista lui deve fare di tutto
per buttarla in galera, prima che faccia altri danni e magari la pelle a un poliziotto o a un carabiniere. Insistono
troppo nei loro volantini con gli sbirri dell’antiguerriglia e
non è affatto da escludere che stiano effettivamente pensando di fare fuori proprio uno dell’antiterrorismo, che si
è fatto notare per l’impegno, o che si è messo in mostra
con la stampa. Lui no, al Ruspante non lo fregano! Ha
scelto da sempre un profilo basso, lontano dagli obiettivi
delle macchine fotografiche e dalle cineprese. A Torre
Spaccata, il quartiere popolare alla periferia di Roma dove abita con la famiglia, nessuno sa che lui è in polizia;
aveva raccomandato anche alla moglie e ai ragazzi di tenere la bocca chiusa. Che fa papà? Lavora al ministero
dei Trasporti. Del resto, da quando erano andati ad abitare a Torre Spaccata, nessuno l’aveva visto mai in divisa, perché era stato in servizio sempre all’ufficio politico.
Appena arruolato, dopo il corso alla scuola di Trieste,
l’avevano spedito a Padova, al reparto Celere. Era ancora scapolo allora e di tanto in tanto ritornava al paesello
a trovare i genitori e Silvana, che era ormai una donna.
Gli piaceva allora pavoneggiarsi con la divisa. Secondo il
padre, con il diploma di perito tecnico poteva fare qual137
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cosa di meglio. A Silvana andava bene, anche se quello
era un mestiere pericoloso che la faceva stare in ansia. Si
erano sposati contenti, per niente spaventati dall’avvenire che si presentava tutt’altro che facile, specie nei primi
tempi, quando lei era dovuta restare al paesello, nella
speranza che il marito ottenesse il trasferimento. Lui
scappava ogni volta che poteva e si faceva ore e ore di
treno pur di passare mezza giornata con Silvana e portarle tutto quello che riusciva a risparmiare per mettere su
casa. Ed era gran parte dello stipendio, perché a Padova
non spendeva quasi niente: dormiva in caserma e mangiava alla mensa del reparto. Giusto qualche migliaio di
lire per i caffè e le “Nazionali”. Per fortuna la situazione
si era risolta in un paio d’anni e, con la raccomandazione
dell’onorevole, il Ruspante aveva avuto il trasferimento
alla Questura di Roma. Non era stato facile trovare casa
con i prezzi degli affitti, ma alla fine, grazie a qualche conoscenza, era saltata fuori l’occasione giusta: due camere e servizi in un palazzone moderno di un ente pubblico. Due stanze andavano giuste giuste per papà, mamma
e Caterina, nata al paesello e portata nella capitale che
appena sapeva camminare. Ma in arrivo c’era anche Domenico e allora si sarebbe stati forse un po’ stretti; però
la cucina era abitabile e c’era anche il balcone, sempre
pieno di sole, dal quale si vedevano i prati e in lontananza le montagne azzurrine che facevano pensare al paesello. Quando l’avevano assegnato all’ufficio politico, il Ruspante non si era perso d’animo. “Nessuno nasce imparato” sentiva dire cameratescamente per incoraggiamento dagli anziani della squadretta alla quale l’avevano assegnato e lui, solido e testardo come un mulo, si era messo alle costole del maresciallone esperto per rubare il
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mestiere. All’inizio lo sfottevano un po’ perché, contrariamente a molti altri colleghi di simili origini agresti che
si erano però rapidamente urbanizzati, lui conservava ancora quel suo aspetto da contadino vestito a festa, rigido,
con lo sguardo sospettoso e sornione. Agli sfottò lui rispondeva “Contadino, scarpe grosse e cervello fino” un
po’ per scherzo, ma anche perché si sentiva in fondo orgoglioso della sua origine.
La strada l’aveva rapidamente formato: le molte manifestazioni dei gruppi di estrema sinistra, alle quali interveniva con la squadretta per osservare e segnalare manovre strane ai responsabili del servizio di ordine pubblico,
erano esperienze preziose per conoscere nomi, personaggi, luoghi di aggregazione e tentare agganci approfittando di circostanze favorevoli. Se all’inizio i volantini e i
giornali della sinistra rivoluzionaria gli erano sembrati
quasi incomprensibili, la pratica l’aveva poi messo in condizione di capire al volo la matrice e i significati di ogni
documento d’area. Annotava tutto diligentemente e tutto immagazzinava gelosamente nel suo testone. La solida
immagine contadina unita a un ingegno vivace avevano
giocato a suo favore anche nei difficili rapporti con la
controparte. Non suscitava repulsione od odio come molti dei suoi colleghi e se pure non era possibile ispirare fiducia in chi considerava comunque i poliziotti dei nemici di classe, qualche gruppettaro non si sottraeva a un
minimo di dialogo con lui e dopo aver sperimentato che
non tirava a fregare, finiva che lo stesse anche a sentire
nei momenti più critici e accettasse dal Ruspante consigli che mai avrebbe accettato da altri. Non sempre ciò
era possibile, ma se si andava allo scontro le molotov e le
sassate, o peggio ancora qualche pistolettata, non aveva139
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no come obiettivo il Ruspante. Era sempre un nemico di
classe, ma un nemico corretto.
E così con questi sistemi riusciva più degli altri a fiutare
l’aria, a capire dove andavano a parare certe situazioni, ad
acchiappare per tempo la notizia giusta, ad avere qualche
confidenza, soprattutto approfittando dei momenti in cui
la controparte si trovava nei guai: una perquisizione, un
fermo, un arresto. Bastava allora una sigaretta, una mezza parola che dimostrasse assenza di rancore o, meglio
ancora, un gesto di protezione a fronte delle brutalità alle quali i duri della squadra si lasciavano talvolta andare,
e il gruppettaro rimaneva spiazzato da una pur modestissima manifestazione di umanità che mai si sarebbe aspettato. Così, specie chi si sentiva mancare la terra sotto i
piedi perché andava in galera per la prima volta, finiva per
accettare anche quel qualcosa in più che lo vincolava poi
moralmente al Ruspante: la disponibilità a far arrivare ai
familiari un messaggio tranquillizzante, la promessa di un
intervento in suo favore presso il magistrato per un colloquio o per sollecitare la concessione della libertà provvisoria.
L’abilità stava tutta nel trovare il soggetto giusto perché
la logica dominante era quella dello scontro, unico tipo di
rapporto che un vero rivoluzionario potesse istaurare
con gli sbirri. Anche in questo il Ruspante aveva naso.
Gli bastava intravedere in quegli occhi di coetanei smarriti uno spiraglio di resipiscenza. E lì si incuneava, lì faceva breccia con molta abilità per istaurare un rapporto
umano, da cui poi avrebbe potuto ricavare delle utilità.
Intanto seminava…
Non si era mai posto il problema se fosse giusto approfittare delle disgrazie e delle debolezze dell’avversario per
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entrare nelle sue difese, perché la sua indole sana e contadina lo spingeva istintivamente da una parte a non infierire su chi è caduto, dall’altra a non perdere però occasioni favorevoli per conseguire un vantaggio, visto che
poi si trattava non di vantaggi personali, ma della sicurezza della gente.
Umanità e utilitarismo professionale potevano benissimo
convivere nella sua morale di poliziotto furbo ma corretto, calcolatore ma non cinico.
Col trascorrere del tempo, aveva acquisito una esperienza invidiabile: conosceva la maggior parte dei componenti delle formazioni della sinistra rivoluzionaria, di molti
aveva seguito i percorsi e anche le vicende familiari. Sapeva capire se qualcuno di loro aveva fatto il grande salto nelle file del partito armato. Da quelli che aveva soccorso nel momento del bisogno riceveva notizie utili,
mentre qualcun altro gli era grato per averlo fermato in
tempo.
Per questo Guido l’aveva voluto con sé. Nel periodo trascorso insieme all’ufficio politico, ne aveva apprezzato
non solo le doti professionali, ma anche la schiettezza.
Lui, giovane commissario, si era molto giovato dell’esperienza e del buon senso del dipendente, e questi si sentiva appagato dall’essere al tempo stesso guida discreta di
un superiore sveglio ma alle prime armi e il suo collaboratore preferito.
Guido del resto era benvoluto da tutto il personale, perché non aveva la puzza sotto il naso.
Ne era nato un rapporto ruvido all’apparenza, ma solido,
nel quale l’uno aveva dalla sua maggiore esperienza e
praticità, l’altro maggiore cultura, capacità di analisi e soprattutto la voglia di assumersi le responsabilità.
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Nonostante la stima e il reciproco rispetto, accadeva ogni
tanto che Guido avvertisse come invadenza ciò che il Ruspante riteneva invece un diritto e un dovere e cioè quello di propinare costantemente consigli e suggerimenti al
suo capo e di adombrarsi quando aveva la sensazione di
essere tenuto all’oscuro di qualcosa.
In queste situazioni Guido non riusciva a dissimulare la
sua irritazione e ad accompagnare i conseguenti borbottii del Ruspante con minacciosi “Ma che cazzo vuoi,
adesso?”.
E la storia di Rina era esattamente una situazione critica,
anzi la più complicata e grave che si fosse mai verificata
tra di loro, quella in cui entravano in gioco anche aspetti
molto personali e Guido non era disposto a tollerare invadenze e curiosità sia per un fatto di pudore, sia perché
si rendeva conto di avere la coda di paglia.
Dal canto suo il Ruspante era più che mai animato dall’intento di evitare che il suo capo finisse nei pasticci e
per adempiere alla sua sacrosanta missione si sentiva autorizzato anche a forzare la mano.
IX
Snoopy, rimasto fino ad allora impassibile con la sua faccia da mamutone e con aria sorniona, tira fuori dalle tasche della giacca di velluto un mazzetto di foto formato
tessera:
– Me le ha date il mio paesano. Sono le copie di tutte le
foto delle schede della scuola che i carabinieri hanno sequestrato.
Guido le afferra e le scorre febbrilmente fino a fermarsi
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di colpo davanti a quella giusta. Rina ha lo sguardo spento e triste. Deve essersela fatta alle macchinette per fototessera che si trovano per la strada.
È scuro in volto e pare che stia andando alla fucilazione
quando suonano alla porta del cavalier Martin, il proprietario dell’appartamento di via Aquileia. Scorre lentamente le
fotografie con i suoi occhietti pignoli da filatelico, di tanto
in tanto sollevando lo sguardo con aria ammiccante verso
Guido. Ma non si capisce perché. Ne trattiene alla fine una:
– Ecco, la signora Sartori assomigliava abbastanza a questa.
– Assomiglia o è lei? – fa brusco il Ruspante.
– No, ho detto soltanto che assomiglia, ma nemmeno
troppo.
Gli altri inquilini sono ancora più timorosi. Guardano
frettolosamente con la speranza di non riconoscere nessuno.
Il geometra Toffoletto vuole garanzie in anticipo: si impegna a collaborare e a riconoscere eventualmente la signora Sartori solo a patto di restare anonimo. Scorre con attenzione le fotografie e si sofferma più volte su quella indicata dal cavalier Martin, ma alla fine, tra profondi sospiri e convulsi scuotimenti della testa in segno di diniego, restituisce la fotografia con un gesto liberatorio. No,
non se la sente nemmeno di dire se ci sono delle rassomiglianze.
La foto è quella della Rina.
Guido e il Ruspante si guardano perplessi.
– Te lo dicevo io che era lei – commenta amaramente
Guido. – È chiaro che l’hanno riconosciuta. Solo che la
paura fa novanta e non se la sentono di dirlo.
– Io non sarei così sicuro – replica il Ruspante. – Mi sem143
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bravano sinceri. Se stiamo ai fatti, viene fuori che, su una
decina di testimoni, uno ha notato una semplice rassomiglianza, l’altro si è solo soffermato su quella foto.
– Ma io ho anche altri elementi per credere che invece
sia proprio lei.
– Capo, su questo punto io non faccio più domande.
Guido appare combattuto. Non c’è nessun altro oltre loro due.
– So che mi posso fidare di te. Questa Rina la conosco…
la conoscevo da ragazzina. Sai, è dello stesso paese di
mia madre. Io l’estate la passavo quasi sempre lì. Si giocava insieme da bambini…
– Ah, ho capito! E ritenete che sia lei non solo per la rassomiglianza, ma anche perché conosceva la Boni e potrebbe averne rubato le generalità. Questo già l’avevo capito, ma non basta. Da quanto tempo non la vedete più?
– Da tanto – risponde secco Guido e già si è pentito di essersi lasciato andare. – Senti… sono cose un po’ personali. Non ho niente da nascondere, ma certe cose preferisco tenerle per me.
– Capo, io non voglio sapere i fatti vostri. Vorrei soltanto
dare una mano…
– Allora aiutami a cercarla, prima che si cacci ancora di
più nei guai.
– Snoopy ha saputo che i carabinieri hanno identificato
l’uomo. Sarebbe un ex Potere Operaio milanese, che fa
parte però della colonna veneta dell’Organizzazione.
Era una lotta contro il tempo, ma Guido non sapeva da
dove incominciare.
Poi si ricordò di Alvise.
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X
Alvise anarchico libertario, contrabbandiere e forse trafficante di opere d’arte, era di origine nobile, ma il ramo
dell’antica casata veneziana dalla quale discendeva era
decaduto da tempo.
Il padre, dato fondo alle ultime sostanze al tavolo da gioco, un bel giorno aveva preferito mollare tutto sparandosi un colpo in testa con la sua pistola da repubblichino
della X Mas.
Alvise, allora poco più che un ragazzino, era stato svegliato bruscamente quella brutta mattina come da uno
schianto. Avevano poi percepito, ancora nel dormiveglia,
un susseguirsi di rumori insoliti, frasi concitate, grida
soffocate, lamenti, il pianto angosciato della madre. Lo
avevano bloccato sulla porta della sua cameretta, ma
aveva fatto in tempo a intravedere la polizia che entrava
e usciva dallo studiolo del padre e la mamma che se ne
stava seduta lì davanti, la testa tra le mani, con le vicine
che la consolavano. Allora si era ribellato alla zia e ai poliziotti che volevano per forza portarlo fuori e aveva tentato a calci e pugni di entrare in quella stanzetta, dove la
sera prima il padre lo aveva tenuto abbracciato a lungo e
gli aveva fatto dei discorsi strani e poi, con le lacrime agli
occhi, gli aveva ricordato di come erano stati bene quel
giorno che erano andati a pesca in laguna insieme a un
gruppo di amici e alla sera a mangiare nel “cason” del Bepi il bisato, e cioè l’anguilla, arrostito sulla brace con la
polenta. E lui lo ricordava benissimo e avrebbe voluto
farlo altre volte, perché gli era piaciuto molto non solo
pescare e mangiare il bisato, ma anche vedere il babbo e
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la mamma stretti sulla panca accanto al focolare, allegri
e sereni come capitava di rado.
La vedova, ancora giovane e piacente, si era presto unita
a un medico divorziato dell’Ospedale S.S. Giovanni e Paolo, con il quale da tempo se la intendeva, e Alvise, appena terminato il ginnasio, era stato avviato al collegio navale Morosini sull’isola di Sant’Elena, come il padre avrebbe
voluto.
L’impatto con il severo stile militare del collegio era stato devastante per Alvise, abituato fino ad allora ad ampi
margini di libertà dovuti all’assenza della figura paterna e
alla fragile personalità della madre. Sentiva la stessa uniforme del Morosini come una sopraffazione e quando
nelle serate d’inverno doveva rientrare inesorabilmente
puntuale con i compagni al collegio dopo la libera uscita,
gli veniva il magone a vedersi come gli altri sotto quelle
tristi mantelline blu; e dopo il magone gli veniva la rabbia, il risentimento contro la madre, che chiudendolo lì
dentro era come se si fosse voluta sbarazzare di lui. Ma
perché? Prima che entrasse in collegio, non era lei a svegliarlo la mattina scarmigliandogli i capelli per tirarlo giù
dal letto, a preparargli la colazione e a guardarselo a lungo sorridendogli in silenzio?
Aveva resistito appena un anno e poi aveva mollato con
grande sollievo dei responsabili del collegio, ma con molto dispiacere di diversi suoi compagni di corso, che ne
avevano apprezzato il coraggio non solo di contestare le
forme più rigide di disciplina, ma anche la disponibilità a
prendere le difese di quanti ne erano vittime.
Il ritorno alla scuola pubblica e la riappropriazione del
proprio tempo avevano riportato Alvise a contatto con i
problemi reali dei coetanei, che ora vedeva in una luce
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diversa dopo l’esperienza del collegio Morosini, e in quel
mondo in fermento fatto di assemblee, occupazioni, cortei di protesta, finì per trovarsi a suo agio e scoprire la
sua vocazione libertaria.
Era diventato un bel ragazzo: la figura alta e snella, la folta “criniera” bionda, gli occhi azzurri che ora scrutavano,
ora sembravano perdersi in visioni lontane, facevano
strage di cuori tra le “zecche”, ma anche i compagni avevano finito per accettarlo per la generosità e il coraggio
dimostrato sul campo.
I tratti distinti del volto, incorniciato da una robusta barba, il portamento naturalmente disinvolto e il piglio da
avventuriero spiccavano ancora di più calati nella trasandatezza libertaria della persona e del vestire e l’insolita
combinazione contribuiva a farne un personaggio affascinante e a esaltare la sua immagine di ribelle, col risultato che la figura di Alvise era diventata emblematica della
sinistra rivoluzionaria veneta.
I guai con la giustizia erano incominciati con il fermo per
una incursione contro la sede del Movimento Sociale, avvenuta ai margini di una manifestazione studentesca e da
allora il fascicolo di polizia di Alvise era andato crescendo rapidamente, anche se restava nel vago uno dei punti
fondamentali della schedatura e cioè la sua militanza: a
quale formazione apparteneva Alvise? Certamente era
un militante della sinistra rivoluzionaria, ma nessuno sapeva collocarlo con maggiore esattezza dentro quello che
veniva definito dai cronisti il “variegato arcipelago” dell’eversione rossa.
In realtà Alvise non apparteneva a nessun gruppo perché
era insofferente a qualsiasi tipo di inquadramento, di disciplina e di impegno, così che l’unica classificazione che
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più gli si addiceva era quella di anarchico libertario, che
evidenziava meglio l’individualità, lo spontaneismo e anche la precarietà della sua scelta.
Non c’era effettivamente da parte sua l’adesione a una
ideologia ben definita né una vera fede rivoluzionaria, ma
piuttosto il rifiuto della società in quanto tale e cioè come una serie infinita di regole, impegni, doveri, obblighi,
convenzioni e il discorso valeva non solo per la società
borghese.
Una siffatta concezione di vita non poteva che sfociare
nel rifiuto non solo di qualsiasi tipo di lavoro subordinato, ma anche di ogni altra attività che comportasse impegno metodico. Alvise così, dopo aver interrotto gli studi,
aveva cominciato a frequentare gli ambienti dei contrabbandieri e dei trafficanti di opere d’arte, trovandoli molto attraenti e rispondenti ai propri gusti.
La trafila era iniziata con la partecipazione a sbarchi notturni di cartoni di Malboro e di Muratti Ambassador sulla spiaggia di punta Sabbioni e l’esperienza lo aveva tanto esaltato da convincerlo a entrare in quel genere di affari. Con il gruzzolo che la famiglia gli aveva accantonato
su un libretto di risparmio si era allora comprato un bel
barchino veloce, di quelli che in laguna chiamano cacciapesca, spinto da un potente motore Evinrude ed era andato a stabilirsi alla Giudecca, nella soffitta di un antico
e fatiscente palazzotto che vantava anche una “cavana”,
dove Alvise rimetteva il caccia-pesca. Lo stabile sorgeva
infatti su un “rio” le cui acque lambivano le fondamenta
ricoperte fin dove arrivava la marea dal velo di alghe verdognole e scivolose. Dall’abbaino con le imposte di legno
della sua soffitta, Alvise dominava il bacino di San Marco
e la Punta della Salute.
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Anche Satana mostrava di gradire quella nuova sistemazione e in breve tempo si era fatto benvolere dagli abitanti del campiello su cui si apriva l’ingresso principale
del palazzo. Sarebbe stato difficile capire di quali incroci Satana fosse il prodotto, ma l’effetto, seppure alquanto distante dai canoni della bellezza canina, era apprezzabile quanto a simpatia che suscitava di primo acchito:
pelo abbondante bianco e nero, testone volpino con
orecchie erette, occhi furbi, corporatura massiccia, zampe robuste ma cortissime. Tranquillo e riservato, Satana
diventava però una furia quando si sentiva oltraggiato
da qualche suo simile specie di taglia superiore o di razza, o quando riteneva che si volesse far del male ad Alvise. Allora non si faceva alcuno scrupolo di ricorrere
anche ai mezzi più proditorii pur di vendicare l’offesa o
di sventare il pericolo.
Avvenne un giorno che Alvise, ormai ben introdotto anche nella mala veneziana di un certo livello, rimanesse, a
torto o a ragione, coinvolto in una indagine su un traffico
di opere d’arte rubate.
Sentì bussare sgarbatamente, che era ancora buio, alla
porta della sua soffitta e non ebbe dubbi su chi lo stesse
svegliando a quell’ora.
– Polizia! Apri subito.
– Eh, che furia! Vegno…– e così dicendo afferrò per la
collottola Satana che stava dando i numeri e se lo mise
sotto il braccio per evitare che si cacciasse nei guai.
Danila, confusa e terrorizzata, cacciò la testa fuori delle
coperte invocando mamma.
– Tranquilla, Dany. Vedrai che non succederà niente – cercò di tranquillizzarla Alvise, ma quando i poliziotti irruppero nella stanza, la prima cosa che fecero fu di far volare le
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coperte nelle quali la ragazza cercava disperatamente di
restare avviluppata, lasciando il suo bel corpo caldo e seminudo alla contemplazione allupata della sbirraglia.
– Maresciallo, se si incomincia così voglio l’avvocato – intervenne con decisione Alvise e a Danila fu consentito di
riavvolgersi nella coperta e di mettersi seduta su una sedia, dove rimase muta e con gli occhi bassi.
Il mandato parlava di “associazione per delinquere finalizzata al traffico di opere d’arte di provenienza furtiva” e
la perquisizione fu lunga e meticolosa. Il maresciallo Polo e i suoi giannizzeri andarono a rovistare anche sotto le
tegole del tetto. Ma non veniva fuori nulla di quello che
cercavano. Alvise era tutto meno che un “mona”.
Gli sbirri mostravano segni di dispetto. Evidentemente
avevano avuto una soffiata che ritenevano precisa e speravano di trovare proprio a casa di Alvise la tela preziosa
scomparsa qualche settimana prima da una chiesa della
terraferma.
– Mì trafficante de opere d’arte… ma ‘ndemo, maresciallo! Non so gnanca cossa significa – fece Alvise
con aria tra il sornione e lo sfottente.
Più tignoso degli altri sembrava il brigadiere Fantin, che
seguitava a rovistare dappertutto e a guardarsi intorno
nella speranza di individuare nascondigli segreti. Non era
difficile capire che era stato proprio lui ad avere la soffiata e se così stavano le cose era anche chiaro per Alvise
chi fosse l’infame. Sogghignò dentro di sé.
– Ascolta, Alvise: cosa pensate di farci con quella tela? È
arte sacra e quel quadro figura oltretutto sui libri di storia dell’arte. Chi volete che lo compri? Il Patriarca ci terrebbe tanto a rivederlo al suo posto. Tu sei un ragazzo
sveglio e se ci dài una mano…
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Frattanto il brigadiere Fantin andava scartabellando alcune riviste ammucchiate su una sedia:
– Roba anarchica, eh!
– Xe proibito anca leggere adesso, sior brigadier?
– Sì, specie se si tratta di roba come questa dove si insegna a fare le bottiglie Molotov e le bombe…
– Roba che si trova anche sui carrettini.
Ma il brigadiere Fantin sembrava ormai gasato. Era passato a ispezionare minuziosamente il piccolo frigorifero,
evidentemente ricordando altri suggerimenti avuti dall’infame. Altrimenti come ci sarebbe arrivato a trovare i
tre detonatori che Alvise aveva immersi, avvolti nella stagnola, dentro un barattolo di marmellata di ciliege?
Le cose si stavano mettendo veramente male per Alvise:
con i detonatori in casa, occultati in quel modo, l’arresto
era inevitabile. E questo sembrava essere l’orientamento
degli sbirri, ben lieti di avere un serio pretesto per sbattere in galera quel figlio di puttana di contrabbandiere
anarchico.
– Maresciallo, questo è un terrorista, – sussurrò con aria
grave l’anziano appuntato Cafiero – conviene chiamare
anche la “difficile” per guardare bene tutte ‘ste carte e le
agendine telefoniche. Loro possono fare collegamenti…
almeno dicono…
Il maresciallo Polo trovò sensato il suggerimento. Meglio
chiamarli subito i filosofi della “difficile”, per evitare che
poi facessero le solite polemiche per non essere stati avvertiti subito di cose che quelli delle squadre mobili non
potevano capire perché erano capaci solo di fare indagini di bassa macelleria. Ma poi, quando interveniva “la difficile”, quali erano i risultati? Solo aria fritta. Meglio chiamarli però, visto che si trovavano già in zona da qualche
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giorno per indagare ancora proprio su ambienti anarchici del Veneto frequentati a suo tempo da quel matto che
aveva tirato una bomba davanti alla Questura di Milano.
Ci volle più di un’ora prima che Guido potesse arrivare
col motoscafo di “pronto intervento”. Valutò la situazione facendosi informare dal personale che aveva operato
e prendendo visione delle carte di contenuto ideologico.
Le pubblicazioni anarchiche e il manuale sulla confezione di ordigni esplosivi erano il consueto corredo di ogni
militante d’area, ma i detonatori stavano a dimostrare
che Alvise non faceva soltanto teoria. Quel ragazzo però
gli ispirava simpatia. Sembrava di buona pasta, diverso
dagli altri gruppettari, chiusi nel loro astio preconcetto
verso tutto e tutti, animati solo da intenti distruttivi. L’atteggiamento ostentatamente da duro e da ribelle tradiva
una sensibilità che lo collocava al di fuori e forse al di sopra degli ambienti nei quali si era cacciato. Era chiaramente preoccupato per la ragazza, le teneva un braccio
sulle spalle come per proteggerla e le lanciava occhiate
di conforto. Decisamente un personaggio interessante,
complesso, da studiare. Forse da sfruttare.
– Da quanto tempo è qui la ragazza? – incominciò Guido
giusto per rompere il ghiaccio.
– Da ieri sera.
– Sì… ma dico: è stata qui altre volte?
– Alla polizia che cosa interessa saperlo? È necessario alle indagini sui traffici di opere d’arte? – rispose polemicamente Alvise.
– A noi dei fatti tuoi non ce ne frega proprio niente – rispose Guido senza scomporsi. – Se te l’ho chiesto c’è un
motivo: se risulta che lei era qui occasionalmente può
evitare l’arresto per i detonatori.
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– È arrivata ieri sera. A casa sanno che è andata a Padova a fare un esame, ospite di un’amica. Fa medicina. È
una brava ragazza.
Guido dovette faticare non poco per convincere la squadra mobile a non arrestare la Danila per “concorso in detenzione di materiale esplodente” e a indicarla nel rapporto all’autorità giudiziaria soltanto come “occasionalmente” presente a casa di Alvise.
Alvise lo salutò stringendogli la mano. Poi, prima che
gli mettessero le manette, abbracciò a lungo Danila e la
baciò teneramente, sussurrandole di stare tranquilla e
di prendersi cura di Satana. La lancia bianco-azzurra
“113 Polizia”, nella quale venne calato dagli agenti, si
avviò gorgogliando verso le carceri di Santa Maria Maggiore con il lampeggiante acceso che sciabolava la nebbia.
XI
Da “Toni alla rivetta” si poteva stare tranquilli. Guido trovò Alvise che lo aspettava appoggiato al bancone, ingannando l’attesa con uno “spritz” e “cicchetti” di cozze al
gratin. Satana, che era sdraiato ai suoi piedi, si drizzò sulle zampe quando vide il nuovo arrivato andare verso il
padrone, ma poi, rassicurato dai saluti che i due si scambiavano, incominciò a scodinzolare.
– Come va, commissario? A che devo l’onore…
– E tu come te la passi?
– A piede libero! – rispose ironico Alvise.
– Come è andata a finire la storia dei detonatori e della
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tela dell’Assunta? Quanto tempo ti hanno tenuto dentro?
– Nemmeno un mese, commissario. Acqua passata!
– Ho letto sui giornali che la tela è stata recuperata dalla
Mobile e restituita alla chiesa in pompa magna…
– Un miracolo dell’Assunta, signor commissario – commentò Alvise beffardo.
Guido capì che per amor di patria era meglio non soffermarsi sull’argomento. L’operazione del recupero della tela aveva suscitato molte perplessità anche nell’opinione
pubblica più attenta. Le circostanze in cui sarebbe avvenuta, così come raccontate in conferenza stampa dal capo della squadra mobile, erano sembrate alquanto inverosimili: improbabili inseguimenti nella notte, i ladri che
si sbarazzano della refurtiva, nessun arresto, nessuno dei
responsabili identificato.
Non era la prima volta che accadeva. Preziose pale di altare, quadri di inestimabile valore trafugati e poi miracolosamente recuperati dalla polizia, sempre senza l’arresto di nemmeno uno dei componenti della fantomatica
banda di razziatori di opere d’arte collegati a trafficanti
internazionali. Giravano molte chiacchiere in proposito.
Si diceva che la polizia trovasse sempre troppo facilmente il confidente giusto per arrivare al recupero e che le
società di assicurazione si prestassero di buon grado a
scucire sotto banco qualche milioncino per la spiata, pur
di recuperare l’opera ed evitare di dover far fronte al ben
più pesante risarcimento del danno. E così erano contenti tutti: la polizia, che faceva una brillante operazione, i
ladri che ricavavano il loro utile rischiando ben poco e le
assicurazioni, almeno fin quando non si stancavano di
stare al gioco. Bastava non tirare troppo la corda.
– Alvise, devi darmi una mano.
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– In che modo, commissario?
– Sto cercando delle persone.
– E chi sono?
– Sono due… terroristi, ma non so come si chiamano.
– Non capisco…
– Mi spiego meglio. Avrai saputo che dalle parti di Padova c’era un covo, che venne smobilitato in gran fretta
quando in Piemonte furono arrestati due capi dell’Organizzazione. Nel covo abitava una coppia apparentemente
insospettabile. Ma tu queste cose le sai meglio di me. Io
sto cercando questa coppia.
– Per arrestarli…
– Beh, sì. È il mio mestiere. Ma non è questo il punto. Ci
sono anche altri motivi.
– E sarebbero?
Guido si era preparato. Alvise era di una decina d’anni
più giovane di lui, ma le sue scelte l’avevano portato a
confrontarsi presto con la vita e con gli altri senza la mediazione o l’aiuto di alcuno, aggiungendo alla sua notevole intelligenza un’esperienza superiore alla sua età e dotandolo della capacità di cavarsela in qualsiasi situazione.
La contestuale frequentazione di ambienti ideologizzati e
della malavita l’aveva reso spavaldo, smaliziato, scaltro e
diffidente. Sotto questa cortina difensiva indispensabile
alla sopravvivenza, rimanevano però la generosità, la
gentilezza dei sentimenti e la lealtà proprie della sua natura. Non era il tipo al quale si potevano contare balle o
fare proposte avventate o miserabili.
Guido si rendeva conto che è difficile per un poliziotto alla ricerca di una soffiata non fare proposte miserabili, ma
lui in quel momento non era né si sentiva lo sbirro alla ricerca di un delatore prezzolato, né considerava tale Alvi155
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se, che mai si sarebbe prestato a vendere un compagno
alla polizia per danaro. Occorreva allora convincerlo che
l’operazione non era in questi termini.
Occorreva giocare anche sulle sue incertezze, sui dubbi
nei quali egli, come molti altri giovani del movimento, si
dibatteva, per tentare di convincerlo che la collaborazione che egli avrebbe offerto, sarebbe servita a evitare che
altri compagni venissero risucchiati in un’avventura senza sbocchi e sempre più oscura.
– Ti rispondo facendoti io una domanda, se permetti – riprese Guido dopo una pausa piuttosto lunga. – Tu approvi la lotta armata?
– Commissario, lei sa bene che io non ho nulla a che fare
con l’Organizzazione o altre cose del genere.
– Questo lo so, ma io non ti ho chiesto se fai parte della
banda o hai contatti con loro. La mia domanda è un’altra:
condividi o no l’idea di un’avanguardia armata che trascina le masse alla rivoluzione e alla presa del potere?
– Io sono convinto che questa è una società di merda, da
abbattere, ma sono contrario a ogni forma di militarismo,
anche se rivoluzionario. E l’Organizzazione è ormai chiusa nel suo militarismo.
– E forse ritieni anche che non stiano facendo gli interessi del proletariato?
– Lei sa che noi siamo contrari sia all’impostazione militarista della lotta armata sia all’idea del partito, cioè di
gruppi elitari che pretendano di interpretare le esigenze
del proletariato e di comandare…
– Non saresti il primo a dubitare della linea dell’Organizzazione o quantomeno della bontà delle loro valutazioni.
Compagni che sbagliano, dice qualcuno…
– Quel qualcuno non mi interessa.
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– Che cosa hanno ottenuto quelli dell’Organizzazione?
Non ti pare che l’unico risultato raggiunto sia solo un’ondata repressiva che rischia di travolgere anche le diverse
componenti del movimento, primi fra tutti voi anarchici
che siete tra l’altro tornati nel mirino per la bomba alla
Questura di Milano? – seguitò insinuante Guido.
– Quella di Milano è un’altra porcata dei servizi segreti. E
poi, commissario, perché lei si preoccupa tanto della repressione? È il vostro pane quotidiano, è la vostra ragion
d’essere. Mi viene da ridere: lei che si preoccupa del movimento! Ma come, non è sempre la polizia che mena
manganellate in piazza quando noi manifestiamo? O che
pretende di fare di ogni erba un fascio, denunciando per
banda armata chi fa casino in piazza e chi fa gli omicidi?
Guido capì che doveva recuperare in fretta:
– La polizia reprime quando si creano le condizioni che lo
rendono inevitabile, ma non è la polizia che le crea. Allora, prima che altri – diciamo altri – usino noi e voi come
strumenti per portare avanti strane strategie, cerchiamo
di fare quello che ci è possibile per neutralizzarle o interromperle.
– Se parla sul serio vuol dire che lei è uno sbirro… deviato – e Alvise scoppiò a ridere.
– Se permetti, mi sento uno sbirro intelligente.
– È una contraddizione in termini! Oppure, c’è da preoccuparsi ancora di più – seguitò Alvise ridacchiando.
– Alvise, torniamo al dunque. Ti spiego perché vorrei localizzare quei due. Io ho saputo che la donna vorrebbe mollare. Non ci crede più. E forse anche lui – mentì Guido. –
Su di loro ci sono anche i carabinieri; anzi sono avanti rispetto a noi e credo che li abbiano già identificati. Se arrivano prima loro, la partita è chiusa. Finiranno a marcire in
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galera, se non ci rimetteranno la pelle in uno scontro a fuoco. Sai, i cugini ci vanno pesanti. Se invece arrivassi prima
io, col tuo aiuto, beh, si potrebbero usare dei riguardi…
Alvise lo guardò tra il perplesso e il divertito: – Quali riguardi, commissario? Una cella matrimoniale con servizi?
Quali trattamenti di favore lei può assicurare a due disgraziati ricercati come terroristi? E poi come fa a sapere che stanno per mollare? Allora vuol dire che lei li conosce o conosce qualcuno che li ha frequentati di recente. E allora perché non si fa aiutare da questo qualcuno?
– concluse ritornando serio e diffidente.
Guido non aveva molte scelte: o chiudere il discorso rinunciando all’idea di servirsi di Alvise, o dargli una spiegazione plausibile capace di coinvolgerlo. Ma quanto
c’era da fidarsi di quel ragazzo, del quale aveva tutto
sommato una conoscenza molto superficiale? Bastava
l’impressione positiva che gli aveva fatto fin dal primo
momento? Forse stava rischiando troppo. Decise di azzardare senza sbracare del tutto.
– Conosco lei, forse.
– Come sarebbe a dire forse? Sì o no?
Quel ragazzo lo stava mettendo alle corde e provò una
sensazione di dispetto. Si impose di restare calmo e indifferente.
– Ho detto “forse” nel senso che potrei anche sbagliarmi
e cioè che la donna ricercata non è la persona che io penso. Tu capisci che è per questo che faccio il misterioso
anche sul suo nome. Ma se è lei, io vorrei fare di tutto per
tirarla fuori… nel migliore dei modi, cioè risparmiandole
il più possibile i traumi e le sofferenze che accompagnano questo tipo di operazioni, assicurandole il sostegno di
un avvocato serio e dei familiari, presentandola ai magi158
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strati in un certo modo… – e stava per aggiungere che lo
avrebbe fatto per rispetto verso i familiari che conosceva
da tempo, di fronte ai quali si era assunto l’impegno morale di salvare la donna, ma si trattenne convinto che una
giustificazione del genere sarebbe suonata ancor più pateticamente ridicola e gli avrebbe fatto perdere altri punti nel confronto con Alvise.
Sentiva forte la tentazione di gridargli in faccia: – È la
donna che amo! È questo che vuoi sapere? Ti serve per
tenermi in pugno, per umiliarmi? Sì, la voglio strappare a
ogni costo dalle grinfie di quei pazzi allucinati sanguinari
che me l’hanno portata via, perché in questi anni che ho
vissuto senza di lei mi sono seccato come un ramo spezzato. Che cosa faresti tu al mio posto con la tua Danila?
Che cosa vuoi che ti dica ancora: che se mi aiuti a sapere
dov’è, io – sì, io da solo – farò di tutto per portarmela via,
per nasconderla a costo di espatriare tutti e due, anche se
questo significa tradire i miei doveri e violare la legge?
Si guardavano negli occhi e a Guido parve di cogliere nello sguardo ceruleo di Alvise non più sospetto e scherno,
ma un segnale fugace di immedesimazione.
– Ho capito, commissario, – disse dopo un lungo silenzio
– se riuscirò a sapere qualcosa, la chiamerò. Ah, mi dimenticavo: saluti dalla Dany.
XII
Da quando si era sposato, il Nane, detto Candela, aveva
proprio cambiato registro. Era inutile andarlo a cercare
nelle bettole che un tempo frequentava assiduamente
con la compagnia o nei luoghi dove usava prima bighello159
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nare in attesa di rimorchiare qualche turista, nonostante
il suo aspetto allampanato ed esangue.
Ora lo potevi trovare soltanto nella trattoria che la famiglia della moglie Dorina gestiva in laguna, sperduta nel
dedalo dei canali e degli isolotti, non tanto persa però da
non esser diventata nel tempo un richiamo per i villeggianti che d’estate affollano gli alberghi e i campeggi del
litorale, grazie all’ottima cucina di specialità di mare e ai
prezzi modesti.
Nei silenzi e nel torpore invernale, la trattoria non rimaneva inattiva, ma era meta nei fine settimana di una
clientela locale affezionata che amava gustare piatti tradizionali e bere altrettanto bene.
Nella stagione morta, Nane ritornava a fare di tanto in
tanto il suo mestiere di contrabbandiere, ma più per ingannare il tempo che per necessità.
– Dime Nane, non mi avevi parlato qualche settimana fa
di un lavoretto che ti avevano proposto, una cosa che ti
dava pensiero?
– Come no! È una storia che non me piase.
Alvise ricordava bene: Nane si era confidato con lui e
aveva accennato vagamente a gente pericolosa e a un carico di armi. Ma la cosa era rimasta lì, perché Nane, forse pentito di essersi lasciato andare, si era poi chiuso a
riccio e Alvise non aveva insistito per saperne di più sia
per rispetto dell’amico sia perché la faccenda non lo interessava dopotutto più di tanto.
Ora invece lo interessava e molto.
– Perché non te piase, Nane?
– Qui non è questione di qualche cartone di “bionde”, dove rischi che la Finanza ti sequestri la merce o al massimo la barca. Qui si rischiano anni di galera e forse anche
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la pelle. Sono “ferri”, Alvise, e anche di quelli pesanti, tu
mi capisci. E dentro c’è gente che fa paura. Pagano bene,
ma che vuoi che m’interessi specie ora che ho famiglia e,
grazie a Dio, sto anca ben.
– Sono quelli della banda del Brenta?– chiese provocatoriamente Alvise, alludendo alla famigerata banda criminale che imperversava tra Mestre e Padova.
– Peggio, molto peggio – rispose Nane con aria spaventata e guardandosi istintivamente attorno. – È roba de…
terrorismo! – concluse afflosciandosi sulla sedia.
– E allora se ti fa paura, lascia perdere.
– Lascia perdere? Magari potessi… – proseguì penosamente Nane, scongiurando Alvise di non dire niente a
nessuno. E poi gli spiegò che doveva ringraziare suo fratello Menego, il sindacalista, se si trovava in quella situazione. Era stato lui a portargli Alfonso – un compagno fidato gli aveva detto – ma ne parlava come se ne avesse
paura.
– Chi è ‘sto Alfonso?
– Alvise, ti supplico, non farmi dire cose…
– Lo faccio solo per aiutarti. Guarda, se tu pensi che sia
possibile, lo faccio io il lavoro.
– Allora non hai capito. Mi hanno incastrato: una volta
che ti hanno messo a parte di una storia come questa, tu
sei dentro. Non hai vie di scampo, perché se ti tiri indietro diventi un testimone pericoloso, un rischio troppo
grande per loro. Alvise, ‘i me copa se non faccio il lavoro! E quando l’avrò fatto sarò ancora di più nella merda.
Figurarse se posso dirgli io non posso, però c’è un amico che… e via compagnia cantando – argomentava Nane
sempre più pallido e, dopo qualche istante di silenzio,
proseguì come se parlasse in confessione. – Alfonso è un
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calabrese tosto, sempre muto, anche lui operaio al Petrolchimico come mio fratello. Non è che mi ha detto
molto l’unica volta che ci siamo incontrati: si tratta di andare sottobordo a una carretta a largo del litorale del Cavallino, caricare tre o quattro casse e portarle in terraferma, dove c’è qualcuno che aspetta con un furgone. Quando? Lo sa solo lui e me lo dirà all’ultimo momento. Hai capito ora? – proseguì Nane con aria sempre più angosciata. – Non è che mi ha fatto una proposta; mi ha dato un
ordine e quando io ho provato a trovare scuse mi ha
guardato con una faccia da farmi cagare addosso.
Alvise si rese conto che con un po’ d’intuito e per uno
scherzo del destino era andato a mettere il naso dove
Guido voleva. Se gli avesse raccontato quello che aveva
saputo dal Nane avrebbe messo in mano al commissario
il bandolo di una matassa che poteva portare non solo alla donna che gli stava tanto a cuore, ma all’intera colonna veneta dell’Organizzazione. Dagli elementi sia pure
molto scarni che Nane gli aveva dato, non potevano esserci dubbi: Alfonso era uno dell’Organizzazione, ancora
non passato alla clandestinità, ma con un ruolo importante, altrimenti non gli avrebbero affidato una faccenda
tanto delicata. Chissà che cosa dovevano farci con tutte
quelle armi? Alfonso aveva parlato di casse, quindi – dedusse Alvise – si trattava probabilmente non solo di pistole, ma anche di roba più grossa, forse Kalashnikov e
qualche lancia-granate magari. I tedeschi della RAF li
avevano usati in un attentato contro una macchina blindata. Dove volevano arrivare quei pazzi, si chiedeva Alvise. Che avesse ragione Guido?
Rischiava di mettersi anche lui in un brutto pasticcio per
fare un favore al commissario. E poi perché? Soltanto per
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quel vecchio debito di riconoscenza di quando Guido aveva tirato fuori dai pasticci la Dany? Forse conveniva dimenticare tutto e farsi gli affari propri.
Eppure quel commissario sembrava una persona perbene, diverso, molto diverso dagli altri poliziotti che aveva
conosciuto. Ma era pur sempre un poliziotto, per definizione un nemico di classe. E lui, Alvise, un rivoluzionario,
per definizione nemico giurato del potere e degli apparati polizieschi. Perché allora aveva accettato di incontrarsi con un commissario, rischiando di essere scambiato
per delatore? E il Nane? Se avesse raccontato tutto a
Guido, sarebbe senz’altro finito in galera.
Alvise trascorse notti insonni, passando più volte in rassegna gli avvenimenti ed esaminando il problema nei suoi
più diversi aspetti. Alla fine aveva dovuto ammettere di
essere finito in un cul-de-sac. Non c’erano alternative: o
tacere come se nulla fosse accaduto e prendere le distanze da Guido, o raccontargli tutto.
Non sapeva darsi una risposta, né sapeva che cosa avrebbe fatto se Guido l’avesse cercato.
XIII
Si incontrarono di nuovo da Toni alla Rivetta.
Ad Alvise sembrava di esserci arrivato automaticamente,
cioè a prescindere dalla sua volontà. Dopo che Guido,
specie negli ultimi giorni, lo aveva più volte cercato al telefono della trattoria, si era convinto che fosse inutile seguitare a negarsi, ma ora si pentiva di essersi fatto incastrare.
– Vediamoci lo stesso – aveva insistito Guido – anche se
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non hai niente da dirmi. Può essere utile a tutti e due, visto quello che succede.
In realtà erano accaduti dei fatti che, se da un lato giustificavano ampiamente l’insistenza del commissario, dall’altro inducevano Alvise a stramaledire il momento in
cui lo aveva incontrato.
A incasinare le cose e creargli altra confusione in testa ci
si era messa pure la Dany: da tempo lo tampinava perché
la smettesse di vivere in quel modo e riprendesse a studiare, sostenendo che la rivoluzione la fanno i proletari,
ma a guidarla sono gli intellettuali. – Guai alla penna senza fucile, guai al fucile senza penna – gli diceva un po’ per
sfotterlo la Dany, ripetendo uno slogan della contestazione studentesca. Il padre, il dottor Giorgi, era un medico
conosciuto e stimato, fortemente impegnato nel sociale e
quando la figlia gli confidò della sua storia con Alvise
spiegandogli che tipo fosse, lui non fece salti di gioia, ma
non la mise neppure sul tragico.
La ragazza, rincuorata dalla prima reazione paterna, combinò di nascosto un incontro tra i due in circostanze che
sembrassero occasionali. Al dottor Giorgi quel giovane
strampalato piacque, perché capì che aveva delle qualità
e poteva essere ancora recuperato. Gli sembrò anzi che
fosse inconsciamente alla ricerca disperata di aiuto. Bisognava soltanto agire con molta accortezza. Non si poteva
pretendere che, dopo anni di abbandono, Alvise si integrasse di colpo in quella società della quale detestava le
regole. Occorreva non allarmarlo con prediche e imposizioni e fare leva invece su alcuni suoi interessi che potevano condurlo verso una normalità possibile, senza imporgli di rinunciare agli ideali e ai sogni.
Del resto, il dottor Giorgi tutto voleva per l’avvenire del164
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la stessa Dany meno che la normalità borghese e cioè
un’esistenza banale impostata sulla corsa al guadagno e
al lusso. Sperava invece per la figlia un futuro ricco di stimoli e di soddisfazioni interiori, che lei stessa doveva costruirsi seguendo le proprie inclinazioni.
Per questo lui e Gabriella erano stati sempre molto accorti a non condizionare le sue scelte, ritenendo che fosse compito dei genitori indicare ai figli, soprattutto con
l’esempio, i valori su cui impostare l’esistenza e stimolare in loro la capacità di giudizio e di scelta.
Alvise aveva percepito che la famiglia della Dany era disposta ad accoglierlo con affetto e se da un lato la prospettiva provocava in lui sensazioni piacevolmente indistinte, dall’altro lo spaventava, perché temeva di venire
avviluppato in una situazione che avrebbe comportato la
definitiva rinuncia alla propria indipendenza, ai compagni del collettivo, agli spinelli, al Nane, a quel mondo disordinato e avventuroso al quale era ormai avvezzo. Ma
sotto tali timori ne covava uno più insidioso e inconfessato: quello di non essere all’altezza di impegnarsi con la
Dany, che pure amava.
Lei, in stato di beatitudine, andava facendo ogni giorno
progetti per il loro avvenire: se Alvise avesse voluto, il padre gli avrebbe anche trovato un lavoretto, tanto per
mantenersi agli studi, nell’azienda agricola di un suo amico, un tipo di lavoro all’aria aperta e a contatto con gli animali, che gli sarebbe piaciuto senz’altro. Non aveva detto
una volta che avrebbe voluto fare il veterinario? Insieme
avrebbero proseguito gli studi all’università e poi…
Dany era una ragazza dolce e forte allo stesso tempo, piena di iniziativa e di voglia di fare, desiderosa di rendersi
utile. Una compagna seria.
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Guido, nonostante le premesse, sperava molto che Alvise fosse in realtà riuscito a raccogliere qualche elemento
utile.
Si guardarono a lungo, Alvise chiaramente in imbarazzo,
ma anche Guido non del tutto a suo agio.
– Ti vedo agitato, Alvise.
– Chi, io? Sono tranquillo come sempre, commissario.
– Hai visto l’ultimo botto dell’Organizzazione? Che cosa
se ne è detto nei vostri ambienti? – incominciò a chiedere Guido per entrare in argomento, facendo riferimento
alla clamorosa liberazione da un carcere di massima sicurezza del capo storico dell’Organizzazione, quello che insieme alla moglie aveva iniziato la sua carriera di rivoluzionario a Trento. Un commando guidato, si diceva, proprio dalla moglie, aveva condotto un’azione da manuale,
che aveva ridicolizzato in un colpo solo tutte le forze dell’ordine e fatto impallidire gli inquilini dei palazzi del potere…
Mara si presenta tranquilla al portone del carcere con un
pacco in mano, dicendo di volerlo consegnare a un detenuto. È giorno di colloqui e l’agente, il cui faccione compare al di là dello spioncino, non si insospettisce: la giovane donna, dagli splendidi occhi verdi, è di aspetto fine
e delicato. Il secondino apre allora il portone e la gentile
signora, accompagnata da un ometto insignificante, una
volta dentro, si trasforma in una tigre, fredda e circospetta, sicura della propria superiorità: tira fuori da sotto il
cappotto un mitra col calcio segato puntandoglielo sulla
pancia. Altri, entrati al loro seguito, si danno da fare per
tagliare i fili del telefono, mentre la Mara, col viatico del
povero agente tenuto sotto mira, riesce a farsi aprire le
cancellate più interne fino ad arrivare al corridoio su cui
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si affacciano le celle. Chiama a voce alta il compagno, che
compare subito niente affatto sorpreso, come al più normale degli appuntamenti. Il commando ripiega senza
sparare un colpo e si allontana con il detenuto su due
macchine in attesa davanti al carcere.
Guido si stava logorando su questa storia. E se nel commando ci fosse stata anche la Rina, magari alla guida di
una delle macchine? Gli ritornò in mente dell’Università
di Trento, di quello che gli aveva raccontato la Boni sui
rapporti che c’erano stati tra Mara e Rina negli anni della contestazione, del matrimonio nel santuario alpino…
Non riusciva ora a pensare alla Rina senza vederla con un
mitra in mano, in mezzo a sparatorie e ammazzamenti,
fredda e implacabile, ma fragile, quanto fragile.
Anche Alvise pensava all’attacco al carcere di massima
sicurezza e alla compagna Mara, eroica, appassionata. Affascinato da quella figura, dimenticò per un attimo le
proprie riserve sul militarismo brigatista e rispose:
– Sono grandi…
– Non c’è dubbio che ci sanno fare. Hanno agito con freddezza, lucidità… Tanto di cappello da questo punto di vista. Ci hanno ridicolizzato. Io però seguito a credere che
l’Organizzazione ha imboccato una strada senza ritorno,
che la porterà ad avvitarsi su se stessa, a perdere il contatto con la realtà. Se è un fenomeno genuino, si tratta di
illusi destinati a sporcarsi sempre di più le mani di sangue e finire i loro giorni in galera. Inutilmente, anzi ottenendo l’effetto contrario a quello sperato.
– Lei ne è sicuro, commissario? Io vedo invece che l’Organizzazione è in piena espansione. Tra noi del movimento molti sono quelli che sono pronti a fare il salto.
– Questo non lo metto in dubbio. Ciò che voglio dire è
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che nonostante la crescita del consenso, il progetto della
lotta armata è destinato a fallire. Quanto può durare questa storia? Qualche anno ancora? E poi? È demenziale credere che si possa fare oggi la rivoluzione come nel 1917 in
Russia. Tu credi veramente che oggi in Italia il proletariato sarebbe disposto a seguire un’avanguardia armata?
Quanti siete tutti compresi nell’area della sinistra extraparlamentare, da Lotta Continua agli anarchici come te?
Centomila? È al massimo in questa area che l’Organizzazione trova consensi. Ma si tratta di una piccola fetta della società, che crede di interpretare i bisogni delle masse.
Non è così. Siete marginali. Verrete tutti insieme inghiottiti da un sistema dove non ci sono più i presupposti per la
rivoluzione e la lotta di classe. Di fronte a voi avete una società che vi respinge e che vi schiaccerà, con gli strumenti che le sono propri: sarete sconfitti non solo da un giro di
vite della repressione, ma prima ancora sul piano politico.
Lo farà la gente, la società intera, non solo i borghesi, ma
lo stesso proletariato o ciò che resta di esso.
– Perché sarete sconfitti… Che c’entriamo noi anarchici
con l’Organizzazione?
– Perché anche voi siete dei pazzi, anzi ancora più pazzi
dei marxisti-leninisti. Non si può cambiare la società con
le bombe…
– È da vedere chi le usa veramente le bombe e la violenza… – replicò indispettito Alvise. – Ma a parte la posizione di noi anarchici – proseguì più calmo, – che cosa si deve fare, secondo lei? Subire e basta? Chi è sfruttato deve
ringraziare i maiali che si ingrassano sempre di più a suo
danno? Lui a mangiare sempre polenta e gli altri sempre
caviale? Il proletariato deve seguitare, insomma, a prenderlo sempre nel…?
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– Ti ho detto che, secondo me, non esistono più i presupposti della lotta di classe, perché ne stanno scomparendo gli attori. Dove le vedete le masse affamate, pronte a
prendere le armi? Quando la gente raggiunge un certo
benessere, come sta avvenendo in Italia, non torna più
indietro. Voi direste: diventa vittima del sistema. E dall’altra parte, dove sono più i latifondisti che affamano i
contadini, i capitalisti che succhiano il sangue degli operai, che sfruttano i bambini e le donne nelle fabbriche o
nelle miniere? Il capitale, furbescamente, si è umanizzato, come dicono i vostri stessi pensatori, perché ha capito che lo sfruttamento a oltranza del lavoratore è solo
controproducente e così, introducendo benefici, migliorie nei processi produttivi e altre cose del genere è riuscito a disorientare e a frantumare il fronte operaio, a
stemperarne la voglia di fare la rivoluzione. Gran parte
della gente sogna l’America, non l’Unione Sovietica o la
Cina…
– Lei, commissario, non ha la più pallida idea di come viva la famiglia di un operaio, di che cosa significhi alzarsi
che è ancora buio, perdere ore di sonno e di vita sui treni per andare e tornare dalla fabbrica, uomini e donne,
beccarsi un tumore magari in ambienti di lavoro malsani.
E questa lei la chiama umanizzazione del capitale? Il padrone esiste ancora, anche se ha cambiato vestito. Usa
strumenti più raffinati ma egualmente perfidi. Quando
non gli riesce più bene in casa propria, va a sfruttare la
mano d’opera nei Paesi dove il proletariato deve ancora
sottostare al ricatto per sopravvivere. La gente non ne
può più.
– Io non saprò nulla della vita degli operai, ma tu, che ti
svegli alle dieci di mattina e non hai mai lavorato, ne sai
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ancora meno. Ma, a parte questo, secondo te per cambiare le cose bisogna prendere il fucile? Approvi allora il terrorismo? – lo punzecchiò ancora Guido.
– Io dico che il sistema politico è corrotto e non ha né la
voglia, né la capacità di andare incontro alla gente. Allora qualcuno deve scuotere le coscienze, deve far tremare i padroni, dare un altolà… Ma per noi il problema è più
ampio: non è questo tipo di governo che non va; è lo Stato in sé…
– Alvise, lascia stare, ti prego, i vostri vaneggiamenti
anarchici. Ora ti parlo come uomo, non come poliziotto.
Effettivamente, nel sistema ci sono troppe cose che non
vanno e che, come dicono i preti, gridano vendetta al cospetto di Dio. Ci sono poi vecchi conti lasciati in sospeso… Posso allora arrivare anche a capire i perché di questa ondata di violenza che ha investito il Paese e ammettere l’esistenza di responsabilità gravi anche da parte di
chi ne ha prodotto le cause. Posso anche ammettere che
il terrorismo è una malattia del sistema, una fase transitoria dello sviluppo della nostra società, ma proprio per
questo va curata per tempo e debellata, prima che produca danni irreparabili. Ora basta, bisogna disinnescare
la violenza e l’Organizzazione ne è il frutto più velenoso.
Alvise non replicò e rimasero entrambi assorti nei propri
pensieri per diversi minuti. Poi Guido decise di toccare il
tasto affettivo:
– Come va con la Dany? – domandò a sorpresa.
Alvise dava l’impressione di riemergere lentamente da
grandi profondità. Prima di rispondere, inspirò profondamente come se volesse riprendere fiato:
– Va bene, va bene – mormorò quasi assente.
– Ma tu le vuoi bene veramente alla Dany?
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Alvise si riscosse: non erano più convenevoli. Il commissario entrava nei suoi fatti personali ed era andato a toccare l’argomento più sensibile. Divenne guardingo e provò un senso di irritazione:
– Sì, ma che cosa c’entra questo?
– Cerca di non cacciarla nei guai – replicò Guido elusivamente.
– Sarebbe a dire?
– Ma perché ti incazzi? Tu già hai beccato diverse denunce, sei stato in galera, hai rischiato di coinvolgere anche
lei, non lavori, sei anarchico, frequenti la mala. Se non
cambi registro, a legarsi a te c’è solo da rimetterci. Se
permetti, volevo darti un consiglio.
– La mala, come dice lei, non la frequento più. Le mie
idee politiche poi…
Guido si accorse che il discorso stava prendendo una
piega favorevole per lui e decise di ricorrere a un’altra
provocazione per capire se Alvise, come gli sembrava,
gli nascondesse qualcosa. Si vedeva che aveva perso la
sua abituale sicumera e che era combattuto. Si vedeva
che sotto quella patina da duro c’era un ragazzo smarrito.
– Tutto sommato, voi anarchici siete soltanto dei sognatori, capaci soprattutto di farvi male da soli – riprese Guido e aggiunse, dopo averlo guardato con ostentata perplessità – siete isolati, vivete nel vostro mondo. Forse ti
ho chiesto troppo.
Alvise non si rese neppure conto di quello che stava per
dire. Le parole vennero fuori prescindendo dalla sua volontà, amaramente:
– Eppure, commissario, anche un disadattato come me
può venire a sapere qualcosa che voi con tutti i mezzi che
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avete, spie del sindacato comprese, non siete capaci di
sapere…
– Quale sarebbe la grande notizia? – chiese Guido in maniera deliberatamente sfottente.
– Ci sono delle armi in arrivo.
– Armi per l’Organizzazione?
– Forse non soltanto per loro.
– E tu come lo hai saputo? – chiese Guido abbandonando ogni atteggiamento di sufficienza.
– Piano, commissario. Io non so nemmeno perché le sto
raccontando queste cose, anche se capisco perfettamente che ne ricaverò solo guai. Prima di raccontarle il resto
vorrei però delle… garanzie.
– Che tipo di garanzie e per chi? Spiegati meglio.
– C’è di mezzo un amico, un bravo ragazzo. Lavorava con
le bionde, come me. Ma ora ha messo la testa a posto. Si
è sposato e aspetta un bambino. È la persona più innocua del mondo. Bisogna tenerlo fuori.
– Se non mi spieghi bene fin dall’inizio, come faccio a
darti delle garanzie per lui. Come entra nella storia?
– C’entra perché un tale, che è senz’altro dell’Organizzazione, gli ha chiesto di trasportare le armi con il motoscafo, per un breve tratto, sotto costa. Lui deve fare soltanto questo. Non sa niente di terrorismo. Sta morendo di
paura.
– Se è così, lo teniamo fuori. Hai la mia parola.
Con evidente sofferenza, Alvise raccontò allora a Guido
di Alfonso, di come aveva agganciato il Nane, della nave
che doveva arrivare con le armi.
– Alvise, sapevo che non mi avresti deluso. Sono notizie
di eccezionale importanza. C’è da lavorarci sopra, ma i risultati possono essere grandiosi. Ti siamo debitori…
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– Se dice così, mi fa pentire ancora di più di averle raccontato queste cose. Non so neppure io perché l’ho fatto. Non voglio nulla, se non garanzie per il Nane. Mi sento una spia, un infame.
– Non lo sei. Stai salvando delle vite umane…
– Ma altre le sto distruggendo.
– Si stanno distruggendo da soli. Non devi avere scrupoli di nessun genere. Stai salvando anche loro da una sorte peggiore. È quello che spero di fare anch’io con…
quella donna.
XIV
Il piano di lavoro era teoricamente semplice: bisognava
osservare e pedinare Alfonso. Tutti quelli che avrebbe incontrato sarebbero stati soggetti di interesse: o militanti
irregolari come lui, o simpatizzanti dell’Organizzazione o
persone, che, seppure estranee, avrebbero potuto fornire preziose indicazioni. Ma la fase centrale dell’operazione era di arrivare all’“appuntamento strategico”, lo snodo organizzativo tra irregolari e clandestini, assolutamente vitale per la banda, per comunicare, impartire ordini, ricevere informazioni. Lì finalmente la polizia avrebbe visto in carne e ossa un militante a tempo pieno, un
operativo, seguendo il quale sarebbe arrivata a un covo,
e cioè a una base dell’Organizzazione. A questo punto si
poteva decidere se intervenire subito facendo irruzione
nel covo o se spingere oltre l’osservazione per arrivare ad
altri clandestini e ad altre basi.
Teoricamente la soluzione migliore sarebbe stata quest’ultima, ma Guido sapeva bene che i suoi superiori non
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l’avrebbero mai adottata per diverse ragioni, la più banale delle quali era data dalla voglia spasmodica di conseguire presto successi nella lotta al terrorismo, così come
voleva il governo, e acquisire meriti. Le altre ragioni erano meno miserabili: a tirarla troppo per le lunghe c’era il
rischio di vedersi fare qualche attentato sotto il naso e
nessuno ovviamente voleva assumersi una responsabilità
del genere, oppure che i terroristi si accorgessero di essere sotto osservazione e tutta l’operazione fallisse.
Guido sapeva bene che un rischio del genere era tutt’altro che remoto: loro erano molto guardinghi e adottavano di prassi mille cautele per seminare eventuali pedinatori. Potevano adottare se necessario anche misure di
contropedinamento, come nel caso degli appuntamenti
strategici, che sapevano essere un momento di forte rischio per l’Organizzazione.
– Ti do tutti gli uomini e i mezzi che vuoi – gli aveva detto il Bimbo eccitatissimo una volta informato da Guido
dell’insperata svolta. – Se abbiamo un po’ di fortuna, gli
rompiamo il culo. Ti faccio promuovere, ma… mi raccomando a te: non tirarla troppo per le lunghe, non essere
il solito perfezionista del... piffero.
Mai il Bimbo era stato così affettuoso con Guido e lui,
pur consapevole che si trattava di attenzioni interessate,
si sentiva appagato da tanta falsa considerazione. Aveva
dimostrato di essere capace, più degli altri, più dei paraculi di professione. Ora tutti lo cercavano e gli correvano
appresso.
– Al grande capo non diciamo ancora niente, ti pare Guido. Aspettiamo di fare qualche passo avanti. Me lo devi
dire tu quand’è il momento.
In realtà, il Bimbo non aspettò un minuto a raccontare
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tutto al grande gapo, ovviamente alla sua maniera, cioè
mettendo subito il cappello sull’operazione: era stato lui
a indirizzare il giovane collega in quell’area, lui che aveva avuto informazioni precise che lì ci doveva essere un
covo. Aveva dovuto guidarlo per mano, ma alla fine il giovane collega…
Guido però, conoscendo bene l’avidità dei suoi superiori,
alcune cose se le era tenute gelosamente per sé, in primo luogo il nome della sua fonte. Il Bimbo aveva molto
insistito per sapere da chi avesse saputo quelle notizie,
ma Guido non aveva ceduto, non certo per gelosia di mestiere, quanto invece per tutelare Alvise. Considerava un
impegno morale mantenere i patti e tenere segreto il loro rapporto. Sapeva bene quale strappo avesse provocato nella coscienza del ragazzo quella storia e quanto lo
avrebbe sconvolto che altri ne venissero a conoscenza o
che gli saltassero addosso per saperne di più. Lui, Alvise,
rispettato dai compagni del collettivo e considerato un
fratello dagli amici filibustieri della laguna, che si scopre
essere in realtà un delatore, un infame, un miserabile
confidente della polizia. Gli sarebbe crollato addosso il
mondo. Avrebbe preferito morire.
Altra cosa che Guido aveva nascosto al Bimbo era il coinvolgimento del Nane e anche sulla questione del carico di
armi si era tenuto molto sul vago, prospettandola come
eventuale, un sentito dire ancora senza nessun riscontro,
un’ipotesi della quale occorreva verificare l’attendibilità.
Men che meno aveva fatto alcun accenno alla Rina.
Il Bimbo rimase molto contrariato dalle reticenze di Guido e, da vecchio sbirro, si accorse che riguardavano non
solo il confidente ma anche altri aspetti della vicenda,
che però non riusciva ad afferrare. Ma capì che, suo mal175
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grado, doveva stare al gioco, salvo poi… Si limitò a dirgli,
in un tono tra il paterno e il vagamente minatorio: – Attento, però. Coi confidenti bisogna fare patti chiari fin
dall’inizio. Il fatto che il tuo dica di non volere niente, mi
fa pensare male. Stai attento a non farti incastrare.
I sospetti del Bimbo aumentarono quando Guido pretese, con molta fermezza, di gestire l’operazione da solo,
con uomini scelti singolarmente da lui. Sospettava che
Guido non volesse tra i piedi altri colleghi non tanto per
il timore che si prendessero i meriti delle sue fatiche,
quanto che mettessero il naso in faccende che voleva tenere rigorosamente per sé.
Il Bimbo, pur convinto che fosse suo interesse almeno
per il momento accordare di fatto a Guido ampia autonomia d’azione, voleva affidare formalmente il comando
dell’operazione a un collega di più provata esperienza,
non solo per coprirsi meglio le spalle nel caso le cose non
fossero andate nel verso giusto, ma anche per avere un
elemento di sua fiducia che lo informasse puntualmente.
Se avesse potuto, avrebbe volentieri scippato l’operazione a Guido per affidarla al conte Dracula, che nel frattempo era riuscito a portare all’antiterrorismo.
Fu raggiunto un compromesso: Guido avrebbe condotto
da solo tutta la fase investigativa, mentre nella fase conclusiva sarebbe intervenuto il Bimbo in persona con
l’unità d’intervento speciale per l’irruzione e gli arresti.
Anche in questo caso non potette esimersi da una raccomandazione nel suo consueto stile: – Sia come vuoi tu;
ma, secondo me, avere a fianco, fin dall’inizio, un buon
collega ti sarebbe stato utile. Voglio però essere aggiornato continuamente.
Il problema che Guido doveva affrontare lontano da occhi
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indiscreti era come portare a conclusione l’operazione salvando la Rina e il Nane. Sentiva balzargli il cuore in gola al
solo pensiero di vedere comparire la Rina nel bel mezzo di
un servizio di appostamento, magari incontrarsi con Alfonso o uscire guardinga dal covo. Che cosa avrebbe fatto?
Avrebbe fatto finta di niente con i suoi uomini, avrebbe interrotto il servizio con una scusa, si sarebbe poi appostato
da solo vicino al covo finché non l’avesse vista uscire? E allora l’avrebbe affrontata, l’avrebbe indotta a fuggire?
Si accorse di venire lentamente trascinato in un gorgo, di
essere vittima di una sindrome che lo induceva a fantasticare e anche quando s’imponeva di restare lucido, i
suoi pensieri, penosamente contorti, finivano per scivolare su un crinale melmoso dove il confine fra fantasia e
realtà, tra previsione e paura, tra probabile e inverosimile sfumava senza che lui se ne avvedesse.
Quando usciva da quelle confuse fantasticherie e tornava in sé, si rendeva conto che il massimo che potesse fare era di evitare che l’irruzione finisse tragicamente con
uno scontro a fuoco nel quale la Rina poteva rimetterci
anche la pelle, evitare poi che venisse maltrattata dopo
l’arresto, starle vicino, consigliarla, intercedere presso i
magistrati nella speranza che prendesse le distanze dall’Organizzazione, che riconoscesse i propri errori. Le imputazioni sarebbero state gravissime, le solite: partecipazione a banda armata, detenzione e porto abusivo di armi e se poi saltavano fuori elementi che riconducevano a
fatti specifici, come una pistola che aveva ucciso o ferito,
si sarebbero aggiunte accuse più specifiche.
Ma come era possibile che la Rina fosse stata presa da
una spirale di violenza tanto assurda? Come era possibile che ragazze sensibili, dolci come lei, la Mara e chissà
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quante altre, spinte da motivi ideali in sé giusti, fossero
disponibili anche a uccidere?
Altro argomento angoscioso sul quale tornavano continuamente i suoi pensieri erano le possibili reazioni della
Rina. Si chiedeva come lei avrebbe reagito nel rivederlo
nelle circostanze drammatiche dell’arresto, quali sentimenti avrebbe provato nei suoi confronti dopo il tempo
che era trascorso e le vicende attraverso le quali era passata.
Per lui, da questo punto di vista era tutto molto semplice: da quando si era lasciato con la Rina, la sua vita sentimentale era stata pressoché nulla. Nei momenti di esaltazione viveva la sua condizione come quella farneticante di un monaco guerriero, ma quando vedeva i suoi coetanei passeggiare abbracciati alle loro donne e si ritrovava alla sera solo come un cane, si sentiva un povero disgraziato e provava compassione per se stesso.
Per lei era diverso. Aveva avuto senza dubbio altre esperienze. Che cosa restava di lui nei suoi ricordi?
E allora tornava a immaginare per l’ennesima volta la
scena di quando si sarebbero ritrovati faccia a faccia: lei
terrorista, lui sbirro; lei con le mani alzate, gli occhi bassi, la rabbia della sconfitta, i poliziotti che la strattonavano; lui arma in pugno, infagottato nel giubbotto antiproiettile. C’era da aspettarsi che, dopo attimi di smarrimento e di sorpresa, la Rina sbottasse in una risata che sarebbe stata per lui peggio di una pistolettata.
Su tutto però prevaleva il desiderio di rivederla, un desiderio travolgente, angoscioso, che occupava totalmente i
suoi pensieri.
In questo marasma di attese, speranze, sentimenti, si fece strada dentro di lui la paura di non essere nelle condi178
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zioni di spirito adatte a guidare l’operazione, anzi di trovarsi in una oggettiva condizione di incompatibilità con i
suoi doveri. C’era il rischio che gli uomini se ne accorgessero e, per quanto avesse cercato di selezionarli, poteva
esserci sempre quello che, per farsi bello, si sarebbe lamentato col Bimbo che Guido sembrava avere le idee
confuse e che li stava facendo girare a vuoto.
E in effetti i risultati delle prime indagini non sembravano esaltanti.
XV
In fabbrica Alfonso non si agitava più come un tempo, anche se seguitava a partecipare agli scioperi e a tutte le
manifestazioni di protesta. I compagni di lavoro credevano che ciò dipendesse dalle preoccupazioni che gli dava
la salute del figlio: a cinque anni compiuti, ancora non
spiccicava una parola.
Appena finito il turno di lavoro, Alfonso se la filava via
e nessuno dei compagni si sentiva di rimproverarlo se
non si fermava più a discutere su come proseguire le loro lotte.
Il Ruspante e gli altri pedinatori avevano però costatato
che Alfonso non andava a casa, ma girava freneticamente per la città e dovevano sudare sette camicie per stargli dietro senza farsi notare: saliva su un bus e scendeva
la fermata dopo, salvo riprendere la corsa successiva della medesima linea; spesso faceva giri viziosi o ritornava
sui propri passi; frequentemente si voltava indietro. Tale
comportamento, apparentemente incoerente, aveva dato
ai pedinatori l’impressione di stare appresso a un matto,
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nonostante Guido e il Ruspante si sforzassero di far capire loro che Alfonso era il soggetto giusto e si muoveva
come un vero terrorista, che adottava, come costume,
ogni accorgimento per seminare eventuali pedinatori.
Oltretutto il Ruspante, seguendo le raccomandazioni di
Guido, non aveva spinto a fondo i primi servizi di pedinamento, perché aveva avuto l’impressione che l’uomo
fosse troppo guardingo e se lo avessero marcato stretto c’era il rischio di farsi scoprire e di mandare tutto a
monte.
Le indagini dunque, in quei primi giorni, non avevano fatto alcun progresso apparente e già Guido aveva colto segnali di insofferenza da parte di un paio di elementi della squadra, Mal e Fofò, proprio quelli che il Bimbo, vincendo la sua resistenza, aveva voluto includere nell’operazione, sostenendo che si trattava di ragazzi svegli e fidati. Tutti sapevano invece quali fossero i veri meriti dei
due scherani: erano stati per anni gli sciacquini del Bimbo, adibiti alle diverse esigenze domestiche della sua numerosa famiglia e ancora lo erano occasionalmente, di
rincalzo ai nuovi addetti. Per premiarli di tanta dedizione
e fedeltà, lui aveva dovuto assecondare alla fine, anche
se gli seccava privarsene, la loro pretesa di essere inclusi nella squadra operativa antiterrorismo nonostante fossero spaventosamente ignoranti e non avessero alcuna
esperienza specifica. Ma far parte della squadra di élite
comportava vantaggi economici e di carriera e così il
Bimbo non aveva potuto esimersi.
Forti della benevolenza del capo ed esaltati dai nuovi
compiti, Mal e Fofò si comportavano in maniera odiosamente burbanzosa e i colleghi, pur detestandoli, li temevano, sapendo quanto fossero inclini alla maldicenza e
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dando per scontato che il loro compito principale fosse di
fare la spia.
C’erano già stati da parte loro battute e sorrisetti di sufficienza durante i briefing che Guido teneva quotidianamente per informarsi dell’andamento dell’indagine e per
decidere che cosa fare l’indomani e lui temeva che l’atteggiamento disfattista di quei due bulletti potesse diventare una complicazione non da poco.
Decise di intervenire con fermezza nei loro confronti,
ma, nonostante i buoni propositi e i consigli di moderazione che il Ruspante gli aveva somministrato, lo fece
andando sopra le righe. Per la verità, aveva iniziato in tono abbastanza sereno, ma mentre parlava percepì che
Mal e Fofò lo guardavano con sufficienza se non con aria
di sfida, per fargli capire che lui non contava niente per
loro.
Allora, come gli accadeva sempre più spesso, aveva perso il lume della ragione: un vulcano era esploso dentro di
lui, gli occhi gli si erano appannati mentre le parole, o
meglio gli insulti, uscivano urlati dalla bocca prima che la
mente li ideasse, senza che potesse fare nulla per fermarli. Era come se tutto ciò che da tempo gli ribolliva dentro
non potesse essere più compresso ed eruttasse proprio
come la lava da un vulcano: i suoi conflitti interiori, la
paura di essere impotente a soccorrere la Rina, il pensiero dei pericoli ai quali poteva esporre Alvise, la meschinità e la perfidia del proprio ambiente di lavoro. Rabbia,
frustrazione, paura.
Stava ancora ansimando con gli occhi fissi sui due bulletti come se li volesse incenerire, che già andava realizzando di aver ottenuto l’effetto opposto a quello sperato e
cioè di aver dato una prova di debolezza e di aver offer181
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to loro l’occasione di procurargli altri fastidi, ma era troppo tardi per tornare indietro.
Intervenne il Ruspante a portarseli via visibilmente indispettiti da quella sfuriata e ansiosi di rivalersi.
E in effetti, la telefonata del Bimbo non si fece attendere:
– Ciao Guido, come vanno le cose?
– È un po’ presto per dirlo.
– È passata quasi una settimana. Che cosa gli racconto al
grande capo? Ti abbiamo messo a disposizione un bell’apparato…
– Mi sembra che eravamo d’accordo che si doveva andare avanti senza fretta per cercare di ampliare il più possibile l’operazione – rispose Guido cercando di controllarsi.
– Speriamo che il tuo confidente non ci abbia raccontato
fesserie e che non ci faccia perdere solo tempo e auguriamoci pure che, mentre noi corriamo appresso ai fantasmi, quelli dell’Organizzazione non accoppino qualcuno.
– Io sono sicuro che le informazioni che ho avuto sono
giuste e che basta avere un po’ di pazienza.
– Beh, voglio avere ancora fiducia in te. Andiamo avanti;
però, ti prego, cerchiamo di non scoglionare troppo i nostri uomini, sennò poi ci mollano quando ne abbiamo bisogno veramente!
Il messaggio di Mal e Fofò era giunto a segno. Guido era
sconvolto. Provava una rabbia sorda, fatta di odio e di disprezzo, ma le parole del Bimbo, anziché abbatterlo ulteriormente, ebbero l’effetto di una sferzata, dolorosa ma
stimolante. Ora aveva un motivo in più di condurre a termine l’operazione: ricacciargli presto in gola quelle parole, dimostrargli quanto fosse brutalmente miserabile, urlargli tutto il proprio disgusto per i suoi metodi.
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Decise di staccare la spina almeno per qualche ora e se
ne andò a passeggiare per le strade del centro. Avevano
da poco aperto un grande magazzino, dal quale la gente
usciva con carrelli carichi di alimentari e oggetti per la
casa. Vi entrò e prese a girare per i banchi. Osservò le
merci esposte e si meravigliò di trovare cose che non conosceva o che erano confezionate in maniera per lui assolutamente nuova e attraente. Si accorse di non avere
più la minima idea di quanto costasse il pane, il latte o la
carne. Vide la gente, intere famiglie con i bambini attaccati ai carrelli, fare la fila alle casse. Era così spaesato che
trovò difficoltà anche a uscire. Si accorse che gli anni
erano passati e che molte cose erano cambiate senza che
se ne avvedesse.
Si stava facendo sera e la gente rientrava a casa. Sentì
profondamente la solitudine. Si era fatto un vanto in passato di non soffrire di solitudine e aveva quasi commiserato quanti avessero bisogno di avere sempre compagnia.
Anche lui ora avvertiva forte il desiderio di stare insieme
a qualcuno che non fosse il Ruspante, o Snoopy o altri
poliziotti, evadere dall’ambiente di lavoro, dalla dimensione totalizzante in cui si era confinato, speculare a
quella dei terroristi.
Gli tornò in mente la trattoria “Le volpine”, dove era stato qualche giorno prima con la squadra. Voleva rivedere
Luigina. Si fece coraggio.
Nel locale c’era diversa gente, una tavolata di amici in
grande allegria, qualche coppia, tre ragazze che festeggiavano chissà che cosa.
Guido si affacciò titubante, sperando di veder comparire
la Luigina. Venne invece una cameriera che già aveva notato la volta precedente.
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– Prego, è da solo? Si accomodi qui allora.
Percepì gli sguardi e la curiosità degli altri clienti. Vide se
stesso come dal di fuori seduto a quel tavolino isolato,
terribilmente patetico. Cercò di darsi un tono disinvolto
e gli sembrò di aggravare la situazione. Incrociò per un
attimo lo sguardo di una delle ragazze che festeggiavano
e gli parve di leggervi la diffidenza o la perplessità con
cui la gente è solita guardare i diversi.
Ordinò qualcosa ormai rassegnato, ripromettendosi di
restare lì lo stretto indispensabile.
Poi la Luigina comparve sulla porta della cucina con il
grembiule bianco. Si passò il dorso della mano sulla fronte. Era di una bellezza tranquilla, casalinga, graziosa anche nei panni di cuoca. Si accorse subito di Guido e ricambiò con un sorriso timido, appena abbozzato, il suo
cenno di saluto liberandosi del grembiule.
– Solo, stasera?
– Capita, ogni tanto.
– Che cosa ha preso? Il risotto? Era buono?
– Molto.
– L’ho fatto io.
– Per questo era così buono.
Luigina sorrise divertita. Poi rimasero in silenzio, entrambi in imbarazzo, incapaci di trovare una battuta o
una frase che consentisse loro di fare di quelle fugaci
battute l’occasione per conoscersi. Allora lei non trovò
nulla di meglio da fare per cavarsi d’impaccio che scusarsi frettolosamente e scomparire di nuovo in cucina, richiamata dagli impegni.
Quasi tutti gli avventori erano alle ultime battute e anche
Guido stava per chiedere il conto, quando Luigina ricomparve con il trucco rifatto e con un abitino elegante; lui
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desiderò tanto che attaccasse di nuovo bottone per invitarla a sedere al tavolo a fare due chiacchiere. Gli sembrò
che anche lei lo volesse e che si fosse fatta bella per lui.
Poi pensò di illudersi; molto più probabilmente si era
preparata per passare il resto della serata con il suo ragazzo. Era impossibile che una ragazza così carina e simpatica non ne avesse uno.
Quando si alzò per andarsene lei si avvicinò sorridente:
– Spero che lei verrà ancora a trovarci, magari con i suoi
amici.
– Lo farò senz’altro, se ci sarà anche lei.
– Certo che ci sarò, – rispose Luigina con le guance un
po’ rosse – come tutte le sere per dare una mano ai miei
che gestiscono il locale – concluse con una nota di orgoglio.
Quando si strinsero la mano Guido capì di essersi comportato come un fesso. Per il resto della serata seguitò a
sognare la compagnia di Luigina e a rimpiangere di essersi per tanti anni negato la vita.
XVI
C’era il Ruspante che lo attendeva davanti al cancello
della caserma e aveva l’aria di essere lì da diverso tempo.
Avvertì un certo disagio, come quando da ragazzo rientrava a casa tardi e trovava la madre ancora sveglia ad
aspettarlo. Poi il disagio si trasformò in irritazione: il Ruspante! Sempre presente, sempre al posto giusto, con la
sua aria da grillo parlante. Sembrava volesse dirgli “Mentre tu te la spassavi, io…”.
– Avanti, che cosa c’è di tanto urgente?
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– Se disturbo… – reagì il Ruspante in quel tono tra l’offeso e lo sfottente che mandava in bestia Guido.
– Possibile che succede sempre qualcosa appena manco?
– Quando mai? Non è successo niente. Solo pensavo vi
facesse piacere sapere subito una novità.
– E sarebbe?
– Alfonso si è incontrato con un tizio, uno scuro di pelle.
Sono rimasti a parlare per una buona mezz’ora. Lui era
molto guardingo.
– Che vuol dire scuro di pelle? È un negro?
– No, meno. Sembra un arabo o qualcosa del genere.
– Un arabo? E avete capito chi può essere, come spunta
fuori? – chiese Guido ora molto eccitato.
– Ancora no. Però lo abbiamo seguito. Abbiamo mollato
Alfonso e filato lui.
– Bravi! E dove è andato a finire?
– In un negozio di cianfrusaglie arabe: braccialetti, collane, tappeti. È rimasto dentro fino alla chiusura. Forse lavora lì.
– E poi?
– Poi si è allontanato con un altro scuro come lui. Sono
andati in una pizzeria vicino piazza Barche, dove hanno
mangiato insieme ad altri due compari che erano già lì.
Il Ruspante proseguì il suo rapporto spiegando, con un
certo disappunto da parte di Guido, che era stato necessario interrompere il pedinamento perché gli uomini, che
avevano attaccato alla mattina, non ce la facevano più.
Non era stato quindi accertato dove abitasse l’arabo, o
presunto tale, che si era incontrato con Alfonso, ma in
quella circostanza erano riusciti a fotografarli stando nascosti dentro “Moby Dick”, lo speciale furgone da osservazione, munito di dispositivi che consentivano di scatta186
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re fotografie senza essere visti. Bisognava aspettare però
che la scientifica sviluppasse il rullino.
La mente di Guido turbinava. Credeva di aver capito il significato di quell’incontro e l’indomani, se la sua ipotesi
fosse stata esatta, ce ne sarebbe stato un altro che gli
avrebbe creato un qualche problema pur costituendo la
conferma della bontà dell’indagine. Contrariamente a
quanto il Ruspante si aspettava, gli disse di concentrare
l’attenzione non sull’arabo ma ancora sui movimenti di
Alfonso, escludendo però dal servizio Mal e Fofò, che
avrebbe invece fatto bene ad affidare a un sottufficiale
esperto per portare a termine gli accertamenti su Mustafà – questo ormai era il nome in codice dato allo sconosciuto. Gli raccomandò poi di avvertirlo subito via radio
nel caso Alfonso avesse avuto nuovi incontri, perché lui
voleva andare a vedere e si sarebbe tenuto in zona nascosto sul “Moby Dick”.
L’indomani Alfonso viene agganciato al termine del turno
di lavoro. Il Ruspante e la prima squadretta si mettono
in allerta, pronti a seguirne le evoluzioni sui mezzi pubblici. Infatti, come è sua abitudine, Alfonso si dirige, apparentemente tranquillo, verso la fermata dell’autobus,
che sta per sopraggiungere già carico di gente. Quando
le portiere si spalancano, il primo pedinatore anticipa Alfonso saltando sul bus. Ma ecco l’imprevisto: all’ultimo
momento, Alfonso si sfila dal gruppetto che sta prendendo d’assalto il mezzo, richiamato da qualcosa. È un tizio
in motorino, intabarrato nell’eskimo, che accosta facendo cenni di saluto. Alfonso salta sul trabiccolo, che si immette scoppiettando nel traffico del viale.
Il Ruspante e gli altri rimangono di sasso. È lui il primo
a riscuotersi: sbatte per terra “l’Unità” che teneva in ma187
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no convinto di mimetizzarsi meglio, mollando nel contempo una bestemmia. Poi, sempre imprecando, salta su
una delle macchine di appoggio, ma il motorino è ormai
confuso nel traffico congestionato della zona industriale
nell’orario di chiusura degli stabilimenti e guadagna sempre più strada rispetto all’auto-civetta. Stramaledice se
stesso per non aver tenuto pronto anche qualche agente
in scooter, visto che l’idea gli era venuta, ma poi l’aveva
accantonata per non sembrare esagerato.
Guido intanto seguitava a chiedere con insistenza novità
via radio. E chi aveva il coraggio di dirglielo che se l’erano perso? Il Ruspante tardava a rispondere nella speranza di riagganciare in qualche modo quel maledetto motorino, ma dopo qualche minuto capì che era inutile resistere e si decise a dare una risposta:
– Ombra Uno in ascolto. Avanti.
– Perché non rispondete? Ci sono problemi?
– C’è stato un imprevisto… – trovò infine il coraggio di
ammettere il Ruspante con una voce rantolante e poi
spiegò succintamente a Guido quello che era accaduto.
Attraverso l’auricolare gli arrivò un moccolo dei peggiori
che fosse mai uscito dalla bocca di Guido, come una
schioppettata che lo fece saltare sul sedile dell’Alfa Sud.
Seguirono alcuni istanti di silenzio, poi la voce di Guido
ritornò a farsi sentire rabbiosa e tagliente.
– Ombra Uno, cerchiamo di contare almeno su una botta
di c… cioè sulla fortuna, visto che le capacità sono scarse. Mettetevi in perlustrazione. Verrò anche io in zona
con un paio di equipaggi. Chiudo.
Verso il centro della città il traffico era ancora più caotico. Calava, con l’oscurità, una nebbiolina perfida, quasi
una pioggia sottilissima che rendeva ancora più grigia e
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anonima la moltitudine di pendolari che andavano a
gruppi verso la stazione ferroviaria o quella delle autocorriere, la gran parte avvolti negli eskimo verde militare
foderati di finto capretto, altri infagottati in giubboni da
poco prezzo, in mano buste di plastica o misere borse di
tela, volti di donne e uomini disfatti dalla fatica e dai miasmi delle ciminiere degli stabilimenti.
Per ingannare l’attesa dei mezzi e ripararsi dal freddo andavano ad affollare i bar della zona con i vetri appannati
e l’aria pesante di fumo, di alcol e di vapori umidi, alcuni
concedendosi il ristoro di un latte caldo, di un bicchiere
di vino, di un caffè corretto. Altri, che avevano la fortuna
di abitare in quartieri meno distanti dalle fabbriche, fendevano il traffico su motorini di ogni tipo, formando nugoli disordinati e assordanti.
Il contatto con Alfonso era stato perso da quasi mezz’ora
e Guido non si faceva più illusioni. Decise di fare un ultimo tentativo andando a dare un’occhiata nel piazzale dove Alfonso prendeva abitualmente la corriera per tornare a casa.
C’era ancora molta gente ammassata sotto le pensiline,
rassegnata a pagare quell’ulteriore tributo quotidiano per
il posto in fabbrica, stipati sulle corriere o sui treni locali, sfiancati da una stanchezza cronica, un po’ assopiti, un
po’ immersi nelle pagine alcuni dell’“Unità”, altri della
“Gazzetta dello Sport”; o le donne, grigie come la nebbia,
raggrinzite, sempre più simili ai loro compagni di lavoro,
perse a fantasticare tra le immagini dei fotoromanzi quasi furtivamente, come fosse un lusso sconveniente, una
fuga dalle proprie responsabilità. E la piacevole immedesimazione nelle trame di amori travolgenti viene ripetutamente interrotta da improvvise sensazioni di rimorso:
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gli assilli della quotidianità, i problemi della casa, della famiglia, dell’ambiente di lavoro. Luigino ha già la scoliosi
e avrebbe bisogno di cure e di ginnastica correttiva; la
nonna più che un aiuto è diventata un peso; le bollette
della luce sempre più care con il televisore, la lavatrice e
il frigo sempre attaccati. E lui questo mese ha portato
una busta paga bella magrolina per gli scioperi. Se non lavorasse anche lei…
Ma dietro la fragilità umana dei singoli, si vedeva la solidità della classe operaia, forte dell’esperienza maturata
nelle lotte di quegli anni e determinata a difendersi e a
migliorare, ma senza avventurismi. L’Organizzazione non
aveva capito che la storia cammina, avanza comunque,
anche se qualcuno la vorrebbe fermare o far tornare indietro. Spesso c’è qualcosa di cinico e di spietato in questo suo avanzare: ti può chiedere anche la vita e poi considerarti acqua passata. Ma è sempre così.
Sperare che quella gente fosse disposta a imbracciare il
fucile e ad attaccare il palazzo d’inverno era semplicemente una follia. Erano passati quei tempi, pensava Guido. Non c’era in loro la rabbia e la disperazione necessarie a scelte estreme. Quella soglia era stata superata da
anni di lotte e di conquiste, che avevano formato una
piattaforma sicura sulla quale costruire l’avvenire, senza
scosse, senza traumi, senza dover travolgere o distruggere nulla, ma aggiungere, completare un percorso già intrapreso.
Che cosa ne pensavano dell’Organizzazione? Quale impatto avevano su quella gente i loro messaggi e gli attentati? Quanti si riconoscevano in quel linguaggio contorto
e in quegli slogan ossessivamente ripetitivi?
Un dirigente industriale di quelli che si sentono dei pa190
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dreterni o un capetto dei più perfidi ridotto a una puzza
di fronte al tribunale del popolo, sottoposto alla giustizia
proletaria, poi lasciato alla berlina incatenato a un palo,
magari vicino alla fabbrica, con al collo il cartello con la
stella a cinque punte, queste azioni sì, riscuotevano senz’altro consensi. Nessuno aveva il coraggio di manifestarlo, ma molti se la ridevano sotto i baffi e approvavano. Ma
era un consenso del tutto estemporaneo, superficiale e
personale, la simpatia che può suscitare una guasconata,
un’impresa alla Robin Hood, niente su cui fondare speranze di riscatto né un percorso di lotta comune.
Quando invece alzavano il tiro, le cose cambiavano: scattavano diffidenze e timori e le prese di distanza dei partiti e dei sindacati riscuotevano adesioni convinte. Il terrorismo veniva percepito per quello che era: una minaccia agli interessi anche della classe operaia. Solo una esigua minoranza di esaltati poteva vagheggiare la lotta armata.
Su queste cose andava ragionando tra sé e sé Guido mentre lo sguardo spaziava sulla folla in movimento, ormai
senza più convinzione. Quando ebbe un sussulto: sotto i
portici della piazza gli era parso di intravedere Alfonso.
Fece fermare la macchina a conveniente distanza, scese
col cuore in gola e, senza dare spiegazioni, ordinò all’autista di allontanarsi dalla zona. Cercando di controllare l’agitazione, si mischiò alla gente che passeggiava sotto i portici. Era proprio lui, segaligno, con la sua espressione dura e fissa, per niente stemperata dalla fitta barba meridionale, la testa come intagliata nel legno, simile a quella dei
pupi. L’incontro era ancora in corso. Davanti a lui un tipo
alto ed esangue, che ascoltava succube e curvo, come
stesse ricevendo degli ordini sgraditi o dei rimproveri.
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Guido si compiacque con se stesso. Aveva visto giusto.
Provò un brivido quando passò accanto ai due. Si allontanò anonimo fra i tanti.
Non appena giunto in caserma, dette agli equipaggi l’ordine di rientrare alla base.
Sulla scrivania trovò la relazione del sottufficiale che aveva incaricato di identificare Mustafà. L’accertamento era
stato piuttosto semplice, perché si dava il caso che il negozio di cianfrusaglie arabe fosse frequentato da diversi
poliziotti del commissariato di zona. Se dovevi fare un
pensierino alla ragazza bastava andare da Alì il libanese,
ribattezzato scherzosamente Alì Babà, che con poche
migliaia di lire ti risolveva il problema e ti faceva fare
sempre bella figura. A qualcuno del commissariato, frequentatore più assiduo del negozio, era poi bastato vedere la foto di Mustafà, scattata durante il pedinamento,
per riconoscervi un nipote di Alì, tale Ahmad, palestinese, studente di medicina all’Università di Padova.
Un bravo ragazzo Ahmad, intelligente, molto impegnato
per la causa palestinese, un personaggio notissimo in ambito studentesco, solito partecipare a convegni e dibattiti. I suoi interventi, seppure appassionati, rivelavano un
approccio equilibrato e politicamente evoluto. Si presentava come militante dell’Olp, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina.
Che cosa stava a significare l’incontro di Ahmad con Alfonso? Era un tentativo dell’Organizzazione di allacciare
rapporti con la guerriglia palestinese, come avevano fatto i terroristi giapponesi o i tedeschi? Ma se lo scopo fosse stato questo, Ahmad non sembrava il soggetto più
adatto, perché si presentava come l’espressione della
componente intellettuale e politica dell’Olp, la più lonta192
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na dai gruppi che praticavano la guerriglia. Ma l’Olp era
un grande ombrello sotto cui trovavano riparo realtà
molto diverse e talora antitetiche.
Occorreva approfondire. La giornata era stata fruttuosa.
XVII
Gli arrivavano sulla cornetta i grugniti del Bimbo, intervallati da lunghi silenzi, che denotavano scontento e diffidenza. E ne immaginava l’espressione da pupone imbronciato, innocuo all’apparenza, ma capace di scatenare all’improvviso un’aggressività e una cattiveria da ippopotamo, che mai si sarebbe supposta in quelle sembianze paciose.
Nel riferirgli le novità della giornata, aveva parlato dettagliatamente dell’incontro di Alfonso con Ahmad, anche
perché il Bimbo ne era senz’altro già stato informato dai
suoi giannizzeri, mentre aveva taciuto sul secondo incontro, potendo agevolmente farlo, visto che nessuno ne era
al corrente all’infuori di lui.
Si sentiva a disagio nel mentire a un superiore e incominciava ad avvertire tutto il peso delle enormi responsabilità che si stava assumendo, ma non c’erano alternative.
I due incontri avevano per lui un significato ben chiaro
ed erano strettamente collegati: la questione delle armi
era alle battute conclusive. Alfonso aveva avuto dal palestinese la conferma che il carico stava per arrivare e si
era subito premurato di allertare il Nane. Lui non l’aveva
mai visto, ma dalla descrizione di Alvise non c’era dubbio
che lo spilungone che si era incontrato con Alfonso sotto
i portici fosse proprio il Nane.
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Se voleva tutelarlo doveva tenere la notizia ancora per
sé. Si convinse che non stava venendo meno al proprio
dovere, né moralmente né professionalmente, se non informava subito il superiore di tutti i risvolti delle indagini. Aveva avuto del resto troppe prove della sua scorrettezza e dell’avidità dei colleghi. Aveva dunque il sacrosanto diritto di difendere il proprio lavoro, assumendosi
la responsabilità di essere lui a stabilire i tempi e i modi
dell’operazione per meglio contemperare le diverse esigenze: arrivare al covo e disarticolare una cellula terroristica, intercettare il carico di armi, salvaguardare l’identità e l’incolumità delle sue fonti. Era del resto lui a essersi esposto verso di loro e ad aver costruito l’indagine
col solo aiuto del Ruspante e di Snoopy.
E la Rina? A quel pensiero le sue certezze tornavano a
scricchiolare. La sua condotta non era viziata alla base da
un interesse del tutto personale, cioè di tutelarla, di proteggerla in qualche modo? Non era questo il motivo principale che aveva impresso all’operazione un andamento
tortuoso? Tornava allora a ripercorrere tutte le fasi di
quella storia. Se non ci fosse stata di mezzo lei, sarebbe
senz’altro andata avanti in maniera più spedita e più in linea con le regole. Poi si era aggiunto Alvise, un aiuto determinante, ma anche un’ulteriore complicazione. In entrambi i casi, i sentimenti avevano finito per condizionarlo: il suo rapporto con la Rina e una singolare e inattesa
forma di affetto per quel giovane spavaldo, sfortunato e
fragile, al quale una ragazzina generosa stava schiudendo prospettive che sembravano essergli ormai precluse.
E poi ancora: se era giusto che come diretto responsabile dell’indagine si riservasse dei margini di autonomia,
doveva anche ammettere che ciò non lo esimeva dall’ob194
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bligo di informare lealmente chi quella responsabilità gli
aveva affidato e cioè il Bimbo.
Ma si può essere fino in fondo leali con chi non lo è? I
suoi pensieri tornavano allora a ripercorrere un circuito
per sua natura vizioso, perché ritornava su se stesso e a
percorrerlo mille volte non avrebbe mai trovato la soluzione. Bisognava uscire dal circuito con un atto di coraggio, attraverso una valutazione dei valori in gioco, anche
se ciò significava uscire dalle regole.
“Oh San Michele arcangelo, condottiero delle angeliche
milizie…”, così iniziava la preghiera del poliziotto. Il dipinto di Guido Reni, che la Polizia aveva adottato come emblema della propria missione, raffigurava l’arcangelo con la
spada in mano trionfante sul demonio, schiacciato sotto i
suoi piedi. Sopra il bene, sotto il male. Sopra la luce, sotto
le tenebre. Nella realtà non sempre le cose erano così semplici e chiare… Spesso il confine tra la luce e le tenebre
non era poi così netto. Ci potevano essere ampie zone sfumate, di un grigio più o meno intenso, non una linea retta,
ma insenature e commistioni, come nell’incontro tra un
fiume fangoso e le acque limpide del mare.
Ma la decisione presa era quella giusta. Stava rischiando
molto. Aveva percepito la diffidenza del Bimbo. La telefonata si era chiusa con quelle pause imbarazzate che
contraddistinguono una conversazione reticente e sgradevole.
La cosa più urgente era sapere quando e dove sarebbe
arrivato il carico e tenersi la notizia il più a lungo possibile, nella speranza che nel frattempo Alfonso li avrebbe
condotti al covo.
E se le sue deduzioni fossero state troppo superficiali e affrettate? L’unico che poteva dare la certezza che la storia
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stesse andando come lui intuiva era Alvise. Lo doveva contattare nuovamente, per sapere che cosa si fossero detti
Alfonso e il Nane e quando sarebbero arrivate le armi.
Quando si incontrarono, si rese conto di essere ora percepito da Alvise, pur nel rapporto di simpatia che si era
stabilito fra loro, come una minaccia ai progetti che stava segretamente coltivando con la Dany. Tutto stava andando per il verso giusto e lui aveva già rimosso quella
storia e le altre che lo legavano al passato.
Gli disse dell’incontro che c’era stato tra Alfonso e il Nane. Non fu facile per Guido convincerlo ad andare sotto
all’amico. Alla fine però Alvise cedette, convinto forse
che dovesse pagare per riconoscenza quell’ultimo tributo per meritarsi il futuro.
– Io ci vado dal Nane, ma deve essere lui a entrare in argomento.
– Andrà così, vedrai. Come si è confidato con te la prima
volta, lo farà a maggior ragione ora, che deve affrontare
la situazione.
– E se mi dice quando e dove arriva la roba, voi che cosa
fate?
– Io, – sottolineò Guido – io, che cosa faccio. Sarò solo io
a decidere. Lascio fare il trasbordo a terra, sul furgone, e
mi limito a vedere dove va a finire a costo di seguirlo per
tutt’Italia. Sarei stupido a intervenire subito. Mi precluderei la possibilità di sapere dove andranno a finire le armi e di prendere chi le dovrebbe usare.
– Mi dà la sua parola che il Nane resterà fuori? Se gli dovesse capitare qualche cosa, non… me lo perdonerei.
– Non me lo perdonerei neppure io – replicò Guido guardandolo negli occhi come per rassicurarlo.
Rimasero d’intesa che Alvise avrebbe chiamato Guido a
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un numero di telefono convenuto, subito dopo aver incontrato il Nane.
– E la donna che lei cercava è riuscito a rintracciarla? –
gli chiede Alvise mentre si stavano lasciando.
– Ancora no.
– Mi dispiace – fece Alvise allontanandosi, ed era senz’altro sincero.
XVIII
Ora tutto lasciava supporre, secondo Guido, che Alfonso
dovesse riferire a qualche altro elemento dell’organizzazione più importante di lui che le armi stavano per arrivare ed era da escludere che una notizia così delicata potesse essere comunicata per telefono, strumento al quale loro ricorrevano del resto il meno possibile e, in ogni
caso, adottando il massimo della cautela.
C’era dunque da attendersi a brevissima scadenza un incontro di Alfonso con un clandestino, probabilmente già
fissato da tempo secondo certe scadenze e con modalità
concordate. Era la fase più delicata dell’operazione, quella risolutiva, che Guido aspettava con ansia. Un passo falso avrebbe compromesso tutto.
Il Ruspante resta perplesso quando vede Alfonso, all’uscita dello stabilimento, fermarsi all’edicola e comprare “la Repubblica” e “La Settimana Enigmistica”, come
non era mai successo prima.
Ha fretta e sembra più guardingo del solito. Sull’autobus
l’agente Zanon si accorge che Alfonso lo osserva furtivamente. Lui seguita a leggere “Diabolik”, cercando di rimanere indifferente, ma il cuore gli batte forte. Eviden197
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temente qualcosa non convince Alfonso. Il poliziotto passa mentalmente in rassegna il proprio aspetto, l’atteggiamento e gli indumenti che indossa e gli sembra di non
avere, come sempre, nulla di sospetto e di essere perfettamente intonato all’ambiente: un giovane operaio, fra i
tanti altri stipati sull’autobus. Che cosa c’è ora di diverso
rispetto alle altre volte in cui si erano incrociati su quella linea? Ma Alfonso seguita a fissarlo e anzi sembra stia
facendo in modo di andargli il più vicino possibile, approfittando della ressa. Arriva a contatto di gomito, anzi lo
preme sul fianco destro. Zanon ha un attimo di panico:
realizza improvvisamente che cos’è che ha attirato l’attenzione di Alfonso. Come mai è stato tanto fesso da non
pensarci prima? I baffi! Si è tagliato i baffi! Evidentemente Alfonso ricordava la sua fisionomia marcata dai baffi
rossicci da vikingo, che sommati alla criniera ricciuta dello stesso colore e agli occhi cerulei lo caratterizzavano
molto. Era stato il Ruspante a convincerlo a tagliarseli,
per essere meno vistoso, più anonimo. Ma avevano sbagliato. Alfonso aveva memorizzato quella immagine di lui
e l’avrebbe passivamente registrata come le altre volte se
gli fosse ricomparsa tale e quale. Ora invece aveva notato qualcosa di diverso, ma probabilmente non riusciva
ancora a mettere a fuoco che cosa c’era che non lo convinceva e si stava scervellando per capirlo.
Era scattato tuttavia in lui un campanello d’allarme.
Una frenata dell’autobus e Alfonso si aggrappa al poliziotto come per non perdere l’equilibrio e lo fa piazzandogli entrambe le mani sui fianchi. Zanon capisce che lo
sta palpando per verificare se porta la pistola alla cinta.
Per fortuna lui la tiene ben protetta in tutt’altra parte del
corpo, alla caviglia, così come Guido aveva imposto a tut198
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ti i pedinatori, dotandoli di piccoli revolver Smith & Wesson e di particolari fondine adatte allo scopo. La toppata
di Alfonso gli restituisce sicurezza ed è lui questa volta a
fissarlo con uno sguardo tra l’interrogativo e l’irritato,
che ha l’effetto di fugare i sospetti.
Ma per Zanon è venuto il momento di sfilarsi. Rimane
sull’autobus quando Alfonso scende alla fermata. Non c’è
bisogno di fare alcun cenno alla Lucia. Lei non aveva perso una battuta ed era sgattaiolata giù dall’autobus per
proseguire il pedinamento. Neppure il più smaliziato dei
terroristi avrebbe potuto sospettare che in quella trentenne grassoccia e dall’aria innocua, con in mano una busta del supermercato piena di generi alimentari, si nascondesse un’assistente della polizia femminile prestata
all’antiterrorismo insieme ad altre colleghe.
All’agitazione dei giorni precedenti era subentrato in
Guido uno stato di calma accettazione dell’inevitabile,
come davanti ai professori quando hai deciso di sostenere un esame. Ora però non rischiava soltanto la bocciatura. Nella prova che lo attendeva e che aveva a lungo inseguito, si giocava molto di più: il senso della sua
vita sentimentale e professionale. La paura di fallire
c’era sempre, ma non lo condizionava più. Bastava ricacciarla indietro quando cercava di tornare per agghiacciarti. Costatò con soddisfazione che era venuta
fuori in lui, a sorpresa, una dote che non gli era abituale, diversa anche dallo stato d’animo dell’esame: una
freddezza che non era indifferenza o disponibilità ad accettare qualunque esito, ma lucidità, capacità di analizzare la situazione e trovare le risposte adeguate. Fiducia in se stesso.
Si allungò sulla poltrona dell’ufficio che gli avevano mes199
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so a disposizione nella caserma, nella penombra appena
rischiarata dal lume da tavolo dello scrittoio, fumando a
boccate lente e profonde l’ennesima MS. Dalla ricetrasmittente Prodel, piazzata sulla étagère accanto al pesante telefono in bachelite nera, partiva di tanto in tanto
qualche fruscio. Sui bordi del tavolino della macchina da
scrivere c’erano segni di bruciatura di cicche dimenticate lì accese da quanti, negli anni, avevano pestato sui tasti della vecchia Olivetti. Due bandiere infisse su piedistalli di ottone ossidato a fianco della scrivania, una con
i colori nazionali e l’altra cremisi con le insegne della polizia, apparivano in quell’ambiente muffo pateticamente
sussiegose, come un soprammobile pretenzioso in una
casa scalcinata. Il volto del presidente Leone occhieggiava tra le bandiere, mentre il centro della parete alle spalle della scrivania era occupato dalla immagine di un vigoroso san Michele arcangelo che infilza il drago e, al di sopra, da un crocifisso con attaccato chissà da quanti anni
un rametto di olivo rinsecchito.
Si sentì pervadere da una sensazione di piacevole rilassamento, al punto da appisolarsi nonostante i tentativi di
resistere. Nello stato di dormiveglia si meravigliava di
non volere opporsi più energicamente al sonno ma una
strana indulgenza verso se stesso vinceva il senso di rimorso che pure covava nelle pieghe della coscienza. Un
ottimismo insolito faceva balenare prospettive favorevoli. Ma sì, tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ce l’avrebbe fatta a tirare fuori la Rina e a gestire l’operazione come lui voleva, senza inguaiare Alvise e il Nane e senza indispettire il Bimbo.
Venne scosso dallo stato di sopore dal gracchiare della ricetrasmittente:
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– Centrale da Ombra Uno – insisteva con una certa concitazione il Ruspante.
– Avanti, Centrale in ascolto – rispose Guido afferrando
il microfono con la mano tremante. Era di nuovo teso, ma
nella misura giusta.
– C’è stato l’incontro. Stanno parlando. Camminano
avanti e indietro e si guardano intorno.
– Chi è l’altro? – chiese Guido al colmo dell’eccitazione.
– È nuovo.
Guido avrebbe voluto chiedere di più, ma si trattenne per
non distrarre troppo i pedinatori e per non correre rischi
di essere intercettato.
Anche il Ruspante avrebbe voluto dire di più, ma non
lo fece per gli stessi motivi e per un’altra ragione ancora: evitare di far saltare Guido dalla sedia per qualcosa
che poi avrebbe potuto dimostrarsi infondata, niente di
più che una sua impressione. Sì, perché quel tizio che
parlottava con Alfonso gli ricordava qualcuno. La lampadina gli si era accesa appena l’aveva visto avvicinarsi
alla piazzetta dove lo stava aspettando Alfonso. Aveva
un aspetto insignificante, innocuo, anonimo, del tutto
diverso da quello che un terrorista ha nell’immaginario
collettivo, l’aspetto di un impiegatuccio, di un contabile. Ma certo! Il ragionier Sartori. Corrispondeva perfettamente all’identikit che i carabinieri avevano fatto del
sedicente piazzista di mobili per ufficio che insieme alla sua compagna aveva smobilitato il covo nella cittadina veneta. I conti tornavano. Aveva anche lui in mano
un paio di giornali. Toh, “la Repubblica” e “La Settimana Enigmistica”, come Alfonso! Ora il Ruspante capiva:
era un segnale di riconoscimento. Evidentemente i due
non si conoscevano ed erano ricorsi a un espediente fis201
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sato nelle regole di comportamento dell’Organizzazione, che dovevano prevedere anche i luoghi e le scadenze degli incontri.
– Mando “Moby Dick” per fotografarli – riprese Guido. –
Rimanga sul posto solo uno e ben defilato. Gli altri si disperdano nei pressi, pronti a pedalare quello nuovo non
appena si separano. Ce la fate, interrogativo?
– Positivo.
Era chiaro che questa volta bisognava spingere il pedinamento fino in fondo. Ma Guido aveva messo in campo i migliori e tutto faceva sperare che sarebbero riusciti a seguire lo sconosciuto fino alla sua tana, senza farsi notare.
Era di nuovo in uno stato di forte tensione: sentiva di essere prossimo a una sorta di resa dei conti con se stesso,
sul piano professionale e umano.
Il tempo scorreva insopportabilmente lento. La tentazione di chiamare via radio il Ruspante per sapere come
stesse andando il pedinamento era molto forte, ma riuscì
a trattenersi per evitare di distrarlo o magari di farsi intercettare da qualcuno che volesse curiosare nella frequenza che gli era stata riservata.
Non poteva far altro che aspettare e pregare che tutto
andasse per il verso giusto.
Sentiva di tanto in tanto il Ruspante scambiare dei messaggi convenzionali con gli uomini e con le ragazze della
polizia femminile che si alternavano nel pedinamento. Gli
sembrava tranquillo e questo gli provocava vampate di
piacere. Poi seguivano lunghe pause di silenzio e l’angoscia tornava a fare di nuovo capolino, ma lui riusciva a ricacciarla indietro perché era sicuro di essere dalla parte
del giusto.
Ma perché non chiamavano più? Si sorprese a inveire
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contro l’intera squadra a voce alta e il fiele in bocca, con
una rabbia irrazionale, quasi bestiale. Si vergognò e riprese il controllo di se stesso.
– Centrale da Ombra Uno.
Finalmente! Si gettò sul microfono per rispondere che
era in ascolto e attese il messaggio del Ruspante con lo
stesso stato d’animo con cui si attende la pronuncia di
una sentenza.
La comunicazione fu molto breve: – Capo, è andata!
Rimase per qualche istante come paralizzato in quella
stanza buia e squallida. Poi sentì il petto gonfiarsi come un pallone. Strinse i pugni, gli occhi e i denti per
tentare di contenere quella pressione, che però salì su
fino a sfiatare prima in un lamento di crescente intensità e poi a erompere in una serie di singhiozzi che lo
squassarono da capo a piedi. Si sciolse infine in un lungo pianto.
Il Ruspante intanto seguitava a sollecitare per radio il
“ricevuto”.
– Ricevuto… bravi! – riuscì ad articolare Guido con un
grande sforzo. – Ora rientrate.
Andò nella toilette e si guardò nello specchio scrostato.
Era stravolto e aveva gli occhi arrossati dalla stanchezza
e dal fumo. Non voleva mostrarsi così ai suoi uomini. Al
malconcio rubinetto del lavandino grigiastro era attaccato un tubo di gomma che finiva all’imbocco del cesso alla turca incrostato di macchie scure e giallastre. Lo sciacquone a catena con la manopola di ceramica sudicia aveva l’aria di non funzionare più da molto tempo e il tubo
suppliva evidentemente a quella carenza. Una scopa
smazzata appoggiata lì accanto faceva supporre un utilizzo diverso da quello usuale.
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Staccò il tubo dal rubinetto e si sciacquò alla meglio la
faccia con l’acqua fredda che scendeva incerta, asciugandosi poi con il fazzoletto.
Sentì un rimbombo di passi e un vociare allegro in avvicinamento, scandito da risate e da battute. La squadra
era raggiante. Lo coinvolsero in un abbraccio collettivo
come fanno i giocatori dopo aver segnato un goal sofferto e decisivo. Si sentì immensamente bene e padrone
della situazione.
Adesso era assolutamente necessario non precipitare le
cose.
XIX
L’appartamento era in una palazzina della periferia, quasi certamente al terzo piano, dove i poliziotti avevano visto accendersi la luce poco dopo che il Ragioniere (ormai lo chiamavano così) era entrato nel portone e aveva
imboccato le scale. Evidentemente era il primo a rincasare, non essendo ipotizzabile che non ci fosse anche la
compagna, con la quale era scappato dal covo scoperto
nella non lontana cittadina veneta.
Adesso era affare suo. Doveva appostarsi lì vicino e controllare chi entrava e usciva dallo stabile. Immaginava già
di vederla la Rina, venire fuori a testa bassa da quel portone, dimessa nel vestire come l’aveva vista le ultime volte, e guardinga. Chissà com’era diventata? Era passato
qualche anno…
Si fece accompagnare subito dal Ruspante a vedere la
palazzina. Ormai era notte e le luci delle finestre erano
tutte spente. Lei poteva essere lì, dietro le tapparelle del
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terzo piano, che dormiva con quel canchero. Sentì il sangue rimescolarsi.
Si poteva anche risalire al proprietario dell’appartamento per accertare a chi l’avesse affittato, ma questo avrebbe richiesto tempo, mentre lui voleva sapere subito, cioè
la mattina dopo, se la Rina c’era o no, appostandosi nei
pressi del portone. Avrebbe voluto essere solo in quel
momento, per non manifestare ad altri il suo stato d’animo e le sue reazioni specie nel caso in cui se la fosse trovata effettivamente davanti, ma dovette convincersi che
la presenza del Ruspante era indispensabile. Da solo, infatti, avrebbe potuto verificare esclusivamente se i suoi
sospetti fossero fondati come temeva e cioè accertare la
presenza della Rina, qualora lei fosse uscita di casa. Se
invece la compagna del Ragioniere fosse stata una donna diversa, lui da solo avrebbe potuto anche non notarla
ed era bene che comunque la vedesse anche il suo collaboratore. Del resto non aveva ancora visto nemmeno il
Ragioniere e non sarebbe di certo bastata la descrizione
del Ruspante a farglielo individuare con certezza.
La zona non si prestava a un appostamento: il portone affacciava direttamente sulla strada e di fronte, dall’altro
lato, c’erano un negozio di alimentari, un tabaccaio e un
piccolo bar che poteva contenere al massimo sette od otto persone in piedi, senza la possibilità quindi di sostare
se non per una consumazione veloce.
– Dobbiamo parcheggiare qui davanti la “Moby Dick”, lì
in quel piazzaletto – disse Guido guardandosi intorno per
valutare bene l’angolo visuale. – Domani mattina alle cinque e mezza ci facciamo portare qui da Snoopy. Poi lui
se ne va e ci viene a riprendere quando lo chiamiamo per
radio.
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– Domani mattina? – annotò costernato il Ruspante. –
Fra qualche ora, vorrà dire. È quasi l’una!
Nonostante la stanchezza che gli penetrava fin dentro le
ossa, Guido stentava a prendere sonno. Al Bimbo non
aveva ancora detto niente, ma non poteva tirare la corda
ancora a lungo. Al massimo nel pomeriggio doveva pur
dirglielo che aveva localizzato il covo. Sperava di avere
nella mattinata il riscontro che cercava. E se la coppia,
per un motivo qualsiasi, non fosse uscita di casa quel
giorno? O fosse uscito solo il Ragioniere? Quando ci si
mette la sfiga… Ma no, sarebbero usciti senz’altro e molto probabilmente insieme. In ogni caso avrebbe cercato
di convincere il Bimbo a fare ancora un paio di giorni di
osservazione. Poi l’irruzione l’avrebbe fatta lui stesso con
il Ruspante e altri tre ragazzi freddi ed equilibrati che già
aveva selezionato. Però prima occorreva dare un’occhiata alla porta dell’appartamento per vedere se c’erano serrature di sicurezza o blindature da far saltare. In quei
momenti avrebbero dovuto agire con grande rapidità per
coglierli di sorpresa, nel sonno, ed evitare così sparatorie. Per questo voleva farla lui l’irruzione, senza quelli
dell’unità speciale di intervento, le teste di cuoio nostrane. Meglio evitare!
Doveva mantenere a tutti i costi il controllo dell’operazione in quei giorni e dopo, perché le cose andassero come aveva programmato. Alfonso era bene lasciarlo fuori
per il momento. Avrebbe costituito il bandolo della matassa per far progredire l’indagine e sarebbe stato interessante vedere come si sarebbe comportato dopo la scoperta del covo e quali evoluzioni avrebbe avuto la faccenda delle armi. Lo stesso discorso valeva per Ahmad.
Dopo averne accertato l’identità, Guido non ci aveva la206
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vorato più sopra, ritenendo al momento più utile concentrare tutte le risorse su Alfonso e poi sul Ragioniere.
Qualcun altro però lo aveva fatto. Ahmad non se ne era
minimamente accorto, ma in quei giorni i suoi movimenti erano attentamente spiati. Non lo avevano nemmeno
lontanamente insospettito due tipi con le tute da operai
e la cassetta degli attrezzi che sembravano aspettare
qualcuno nei pressi della rampa del garage del palazzone
di corso del Popolo dove abitava. Niente di più normale.
Quando era uscito dal garage con la sua vecchia e sgangherata NSU Prinz erano ancora lì, ma lui li aveva sì e no
notati.
Il sonno lo colse nel bel mezzo delle elucubrazioni sul letto metallico da ospedale dove lo avevano sistemato, assegnandogli per una forma di riguardo una stanza dell’infermeria, l’unica singola disponibile della caserma, dotata perfino di lavabo.
Lo svegliò alle cinque la telefonata del Ruspante nel bel
mezzo di un sogno. Si sciacquò alla meglio e si vestì in
fretta nell’umidità appiccicosa di quella cella, ripensando
al sogno: era andato al paese a trovare la Generosa per
chiederle della Rina e la vecchia l’aveva accolto sorridente e l’aveva portato davanti alla porta della stanza della
ragazza, aprendola lentamente con aria ammiccante. Sul
letto era seduta una donna, immobile con le mani appoggiate sulle ginocchia. Lui la vedeva di profilo, ma non era
la Rina. Aveva la faccia terrea e i capelli grigi raccolti sulla nuca. Sul vestito scuro spiccava un colletto di pizzo ingiallito. Volse lentamente la testa verso di loro e Guido vide con orrore che le orbite erano vuote.
– Eccola la tua Rina, Guido – mugolava la vecchia. – È da
tanto che ti aspetta. Abbracciala, Guido, abbracciala!
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Ma anche la camera non era quella della Rina o non lo era
più. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Sembrava piuttosto una stanza della caserma, con la branda
e il comodino metallico. Come la sua. No, adesso capiva:
era il covo! Ma come aveva fatto la Generosa ad arrivare
fin lì?
Rabbrividì pensando al sogno e si precipitò per le scale
come per sfuggire all’angoscia che seguitava a dargli anche da sveglio, raggiungendo di corsa il cortile, immerso
nel buio e in una nebbiolina che preannunciava i primi
umidi tepori della primavera.
I furgoni e i camion della Celere, schierati in perfetto ordine, formavano una massa grigio-verde che evocava immagini cilene.
Snoopy era al volante di “Moby Dick” e aveva già avviato il motore che mandava dal tubo di scappamento nuvole di fumo bianco. Il Ruspante era in attesa appoggiato al
finestrino.
– Sistemiamoci subito dietro, – disse Guido – così non
dovremo fare manovre che potrebbero dare nell’occhio
proprio davanti all’obiettivo. – Poi rivolto a Snoopy: – Tu
allora, arrivato sul posto, parcheggi come ti abbiamo
spiegato, scendi tranquillamente dal mezzo, chiudi e te
ne vai. Ci vieni a riprendere alle dieci. Resta in zona però e se vedi che è possibile farlo senza attirare l’attenzione di nessuno, ogni tanto dài un’occhiata... insomma,
guardaci le spalle! Non si sa mai. In ogni caso teniamoci
in contatto con le radio, ma usiamole solo in caso di
emergenza.
Quando arrivarono di fronte alla palazzina albeggiava e la
gente si era già messa in movimento. Snoopy: parcheggiò in maniera che dai punti di osservazione del vano di
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carico del furgone si potesse vedere bene il portone dello stabile. In effetti Guido e il Ruspante potevano agevolmente tenerlo sotto controllo attraverso il lunotto posteriore del furgone dotato di vetro trasparente solo dall’interno verso l’esterno, standosene seduti su una specie di
panchetta ancorata sul pianale di carico. Il vano di osservazione aveva blindature artigianali e anche il vetro del
lunotto veniva spacciato per antiproiettile.
Dovettero aspettare fin dopo le sette prima di veder uscire il Ragioniere.
– Eccolo! – bisbigliò il Ruspante a Guido stringendogli il
braccio. Un essere insignificante, mingherlino e scialbo,
che al massimo poteva ispirare antipatia. Corrispondeva
in effetti abbastanza all’identikit del ragionier Sartori.
Aveva l’aria livida del frustrato. Un terrorista per frustrazione, incline per natura solo a colpire alle spalle. Come
poteva la Rina perdersi con gente del genere? Il Ragioniere se ne stava andando a prendere l’autobus da solo.
Di lei nemmeno l’ombra.
Uscirono poco dopo di lui due giovani donne, ma né l’una
né l’altra assomigliava nemmeno vagamente alla Rina o
poteva far sospettare di essere la sua compagna. La prima infatti saltò sulla moto del suo ganzo che l’aspettava
rombando sotto casa e faceva di tutto per mettersi in mostra. L’altra, una racchia vivace e simpatica, era entrata
nel baretto, dove doveva essere da sempre popolarissima
a giudicare dall’accoglienza dei presenti.
Dopo una buona mezz’ora comparve una terza donna, sui
venticinque anni, dal fisico asciutto e atletico, capelli
biondi a caschetto, jeans, scarpe basse, casacca a fiori e
una capace borsa di tela a tracolla. Un tipo forte e dinamico, senz’altro di una femminilità attraente, nonostante
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si penalizzasse nell’abbigliamento e nella cura della persona.
Non l’aspettava nessuno. Prima di dirigersi verso la fermata dell’autobus, si fermò un attimo sul portone e si guardò
intorno in maniera apparentemente disinvolta. Si capiva
però che quegli occhi di ghiaccio avevano fotografato in
pochi istanti la situazione. Guido e il Ruspante si scambiarono un’occhiata significativa. Alla vista della ragazza avevano avuto tutti e due la stessa reazione: quella era la persona giusta. Ma mentre Guido tirava un sospiro di sollievo
vedendo che non si trattava della Rina, il Ruspante lo
guardava furtivamente per averne la conferma scrutandone le reazioni. Non sembrava tradire particolari emozioni.
Mentre la osservava ferma in attesa dell’autobus vigile e
guardinga, Guido vi trovò nella figura e nelle linee della
testa e del collo una certa somiglianza con la Rina, ma
quelli della sconosciuta erano tratti duri, lontani dalle
fattezze morbide ed eleganti della Rina. Sospirò.
Per scrupolo decisero di restare ancora in osservazione
fino all’ora convenuta, ma dalla palazzina ormai uscivano
ed entravano solo persone anziane. Nella cabina l’aria cominciava a diventare pesante perché il sole batteva su
una fiancata del furgone e l’impianto di aria condizionata
non funzionava più di tanto. Quando sentirono Snoopy
aprire la portiera e sedersi al posto di guida, trassero un
sospiro di sollievo.
– Era quella la Rina, capo? – si decise il Ruspante a chiedere a Guido una volta in caserma, pur sapendo che lo
avrebbe indispettito. Ma proprio non ce la faceva più a
trattenere la domanda.
– No, non era lei – il tono era meno stizzito del previsto.
– E allora possiamo fare l’irruzione anche domani mattina.
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– E chi ti dice che dentro l’appartamento non ci sia altra
gente? Abbiamo fatto poco più di quattro ore di osservazione. Secondo me, bisogna proseguire per avere la certezza che lì dentro non c’è nessun altro.
– Con i capoccioni come vi regolate?
Guido rimase per un po’ in silenzio, meditabondo. Al suo
collaboratore non aveva ancora parlato del Nane e del carico di armi. Decise di farlo allora e al termine del suo
stringato racconto, il Ruspante, vinta la sensazione di dispetto che lo aveva preso nell’apprendere cose che non
sapeva e che si riteneva invece in diritto di sapere, sentenziò serio serio inarcando le sopracciglia cespugliose:
– È rischioso, ma bisogna aspettare. Il problema è farlo
capire ai superiori.
XX
Il Bimbo manifestò sorpresa e grande contentezza quando Guido lo informò che il covo era stato localizzato. Era
senz’altro su di giri e Guido ebbe la sensazione che in realtà già lo sapesse. Mal e Fofò dovevano averlo informato fin dalla sera precedente. Si rese conto di rischiare
molto per quella quindicina di ore di ritardo. Tentò di
metterci una pezza:
– Ieri sera tardi avevamo già localizzato la palazzina,
ma prima di darti la notizia volevo capire chi altro ci
fosse nel covo. Stamattina presto abbiamo fatto un po’
di osservazione e forse abbiamo identificato anche la
donna. Dovrebbe essere la coppia che scappò dalla base scoperta dai carabinieri. Gli identikit sembrano
coincidere.
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– Io sarò lì domani per organizzare l’irruzione con l’unità
speciale…
– Ti volevo dire – lo interruppe Guido, – che sarebbe meglio fare ancora un paio di giorni di osservazione. Potremmo beccare qualcun altro che frequenta il covo.
– Io sarò lì domani, come ti ho detto, – il tono era diventato tagliente e minatorio – e l’irruzione la faremo all’alba di dopodomani. Nel frattempo osserva quanto ti pare,
ma se scappano sono cazzi tuoi. È chiaro?
Poi, riconquistata la calma, riprese: – Hai visto che cosa
è successo in Piemonte? – e raccontò che quella mattina
c’era stata una sparatoria tra carabinieri e terroristi in
una cascina isolata dove tenevano sequestrato il figlio di
un industriale.
– Sembra che i carabinieri siano andati lì a fare un controllo di routine, senza adottare precauzioni. Evidentemente
non si aspettavano di trovare quello che hanno trovato. Insomma c’è stata una brutta sparatoria. Pare che i terroristi
abbiano tirato anche delle bombe a mano mentre scappavano. Un carabiniere è morto e uno è ferito gravemente.
Però sono riusciti a stenderne uno, una donna. Dicono che
potrebbe essere quella zoccola della Mara, la moglie di...
– Non l’hanno ancora identificata? – chiese con affanno
Guido.
– Non ancora. O forse non lo dicono. Dovrebbe essere
senz’altro lei, e il marito, come al solito, l’ha fatta franca.
– Chi erano gli altri? Hanno arrestato qualcuno? – insistette Guido cercando di non tradire la sua emozione.
– Non si sa. I carabinieri sono molto abbottonati. L’ostaggio dovrebbe essere salvo. Che mazzo che tiene! – concluse il Bimbo alla napoletana, lasciando Guido in attesa
mentre sbrigava col suo maresciallo tuttofare le quotidia212
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ne faccende private. Poi riprese il colloquio: – Scusami,
ma bisogna pensare anche a queste cose. Tu te ne fotti
perché sei scapolo. Torniamo a noi: hai visto che belve
sono questi figli di zoccola. Ma noi non ci facciamo fottere. Ecco perché io voglio impiegare l’unità speciale per
l’irruzione. Al minimo segnale di reazione, li stendiamo
tutti! Tu stai attento oggi e domani. Non esporre inutilmente il personale.
– Io spero che non ci sia bisogno di stendere nessuno –
replicò Guido polemicamente senza riuscire a trattenersi, – e mi auguro che non siano proprio i nostri superman
a creare casini…
– Senti Guido, adesso mi hai scassato ‘o cazzo. Già hai
fatto una cosa gravissima a non avvertirmi subito del covo. Poi a suo tempo mi spiegherai perché e spero tanto
per te che le tue spiegazioni siano convincenti. Ma adesso basta. Stai attento a come ti muovi, se no ti metto tutto in conto.
Non c’era molto da replicare. Guido capì di essere sotto
schiaffo. Doveva stare ancora più attento a muoversi, se
non voleva finire nei guai. Intanto era chiaro che il Bimbo si apprestava ad appropriarsi dell’operazione per ricavarne il massimo dei meriti per se stesso. Ma per Guido
questo era ormai l’ultimo dei pensieri e dopotutto lo dava per scontato. Ora bisognava soltanto cercare di non
farsi estromettere e di non perdere completamente il
controllo dell’operazione.
Si sorprese a provare per la prima volta un senso di irritazione al pensiero della Rina. Se rischiava di finire nei
guai era per colpa sua. Tutta la sua azione era stata condizionata dal desiderio di salvarla a ogni costo, anche rischiando di infrangere le regole. Si riaffacciò in lui il dub213
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bio di aver creato nella sua mente una storia immaginaria che affondava le radici nell’adolescenza e che nulla
aveva a che fare con la vita reale. Forse si era attribuito
una missione ponendone artificiosamente i presupposti.
Si chiese se la responsabilità del declino del rapporto con
la Rina fosse dipesa dalla sua incapacità di alimentarlo e
difenderlo, come da qualche anno si stava rimproverando, o non piuttosto da altre cause. Perché non ammettere che forse tra loro non era mai nato un amore vero e
profondo e che il riaccendersi di quel suo interesse verso di lei dipendeva dalla solitudine nella quale era piombato? Anche in questo la figura della Rina aveva avuto il
suo peso e l’aveva condizionato nella ricerca di un rapporto più maturo. La Rina evocava in lui il ricordo di tempi felici, dei primi turbamenti amorosi in quella terra-madre, pronta ad accoglierlo e a proteggerlo. Difficile sostituirla.
Forse era rimasto profondamente immaturo.
Aveva avuto la riprova che la compagna del Ragioniere
non era la Rina. Non lo era stata nel covo smobilitato
qualche mese prima e non lo era adesso nella nuova base. La misteriosa terrorista era sempre la stessa: la Tedesca (così l’avevano battezzata i suoi collaboratori) e cioè
la ragazza che era uscita quella mattina dopo il Ragioniere, la stessa che prima si spacciava per la professoressa Oriele Boni.
Era stato questo nome a indurlo in errore, a pensare cioè
che solo la Rina potesse essersene appropriata grazie al
rapporto di amicizia che aveva intrattenuto con la Boni,
quando insegnavano nella stessa scuola.
Aveva tratto delle conclusioni affrettate. Ed era strano
che l’evidenza dei fatti, anziché rallegrarlo, quasi lo con214
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trariasse, al punto da tentare fino all’ultimo di negare
l’evidenza. Si sentì avvampare. Doveva rivedere tutto.
Lui, dunque, si era messo in testa che la Rina fosse una
terrorista sulla base di presupposti, il più serio dei quali
si dimostrava ora infondato. Aveva rincorso affannosamente in quei mesi un fantasma, si era sentito investito
della missione di salvatore sulla base di sue elucubrazioni pateticamente astruse: non solo la Rina non invocava
aiuto, ma forse non era mai stata nemmeno in pericolo.
E aveva fatto tutto ciò spinto dalla passione. Ma quale
passione? Un ripescaggio di infatuazioni adolescenziali,
un parto della sua fantasia…
E adesso?
Un fatto rimaneva e non era parto della sua fantasia: Rina era scomparsa nel nulla da un paio d’anni. Era vero o
no che prima di scomparire frequentava ambienti dai
quali erano usciti dei terroristi? Che a Trento si era distinta per attivismo e che aveva frequentato la Mara, una
ragazza di buona famiglia, perbene come lei, religiosa oltretutto, che era tra i fondatori di una banda armata? Mara che era morta adesso con il mitra in mano, per una
scelta di vita, per un ideale di giustizia traviato dalle logiche spietate che gli estremismi portano con sé, ma anche
per difendere ancora una volta il suo uomo. Si ricordò dei
timori della Generosa. Anche lei pensava che la Rina potesse aver fatto il salto nel buio.
Se non era la compagna del Ragioniere, nulla escludeva
che facesse egualmente parte dell’organizzazione e che
magari si trovasse quella mattina insieme alla Mara e fosse riuscita a scappare.
Doveva trovare la forza di uscire da quel labirinto nel
quale si intrecciavano percorsi incompatibili: sentimenti
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e doveri, desideri e realtà e tutto era condizionato da lei.
La prima sonora smentita ai suoi sospetti era servita a
fargli mettere di nuovo i piedi per terra. Si sentiva ora in
grado di riprendere il suo lavoro con maggiore serenità,
senza farsi condizionare da una immagine della cui irrealtà cominciava a prendere coscienza: la Rina che aveva
fino ad allora inseguito era una sua creazione, era l’idealizzazione di un ricordo.
Si riscosse. Stava sprecando del tempo prezioso. Ora doveva concentrarsi su Ahmad e la faccenda delle armi.
XXI
Secondo le informazioni che il Bimbo aveva avuto dal
Mossad, Ahmad era un personaggio ben noto. Apparteneva a un gruppo palestinese in rotta con Arafat, di impronta marxista, sospettato di tenere contatti anche con
organizzazioni terroristiche europee, specie tedesche.
Gli israeliani tenevano a rimarcare che il contrasto era
più di facciata che di sostanza e che comunque quel
gruppo faceva parte dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, di cui Arafat era presidente.
Il Bimbo era d’accordo: Arafat era un “chiavico”, un terrorista fottuto, e l’Italia doveva stare ben attenta ad appoggiarlo. Chi c’era dietro la strage di atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco o quella all’aeroporto di Fiumicino? Sempre Arafat!
C’erano state accese discussioni tra lui e Guido quando
Arafat era comparso alle Nazioni Unite brandendo in una
mano il mitra e nell’altra un ramoscello di ulivo. Per il
Bimbo quel gesto rimarcava tutta l’ambiguità del perso216
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naggio; per Guido era invece una svolta positiva e quel
mitra voleva soltanto sottolineare simbolicamente all’opinione pubblica il diritto del popolo palestinese di difendersi e di non rinunciare alla lotta di liberazione.
Di fronte agli atteggiamenti decisamente filo-sionisti del
superiore, Guido finiva anche lui per polemizzare e
schierarsi con i palestinesi, ma dentro di sé ammetteva
che era difficile tracciare una linea di demarcazione tra
ragioni e torti così come tra terrorismo e lotte di liberazione, specie nella questione arabo-israeliana, dove entrambi i contendenti avevano tante ragioni da vendere e
tante colpe da farsi perdonare.
Ahmad ci stava bene in Italia, anche se pensava sempre
alla sua gente ammassata nelle casupole dei campi profughi, tra i viottoli polverosi e i rigagnoli di liquami, e insieme alla nostalgia provava quasi un senso di colpa per
i vantaggi che quella nuova esistenza gli procurava.
Quando era in Giordania, la famiglia godeva di un certo
benessere, ma poi erano dovuti scappare, abbandonare
tutto e rifugiarsi in Libano dove potevano contare sull’aiuto dei parenti. Anche se allora era poco più che un
ragazzo, si era distinto nella resistenza alla feroce repressione scatenata da re Hussein e aveva fatto una notevole
esperienza di guerriglia. Il Fronte ne era compiaciuto e
ne avrebbe tenuto conto al momento opportuno, anche
in segno di riconoscenza per il sacrificio di Hani, il maggiore dei suoi fratelli che era morto combattendo per la
causa.
E il momento venne quando Ahmad, terminate le scuole
anche grazie agli aiuti dei parenti che avevano in Libano
un commercio di tessuti, aveva deciso di fare l’università. Il Fronte stabilì di dislocarlo in Italia, dove c’era mol217
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to da fare sul piano politico e serviva comunque un elemento fidato da mobilitare in caso di necessità. Il giovane aveva tutti i requisiti necessari: la fedeltà alla causa,
l’intelligenza, la furbizia, la preparazione politica e militare per aver seguito nella valle della Bekaa corsi di indottrinamento e di addestramento. Ma più di ogni altra cosa
poteva vantare l’esperienza di combattente nel tragico
settembre nero giordano.
L’occasione di impegnarlo in una operazione delicata era
alla fine arrivata: il Fronte, dopo incontri segreti avuti a
Parigi con il responsabile di una insospettabile associazione culturale italo-francese, si era impegnato a fornire armi all’Organizzazione e alla consorella tedesca. Il carico
sarebbe arrivato dal Libano con la motonave “Amal” che
avrebbe sostato per una notte al largo di Venezia, in attesa che un capace motoscafo venisse a trasbordarlo in terraferma. Si trattava di due missili terra-aria, alcuni lanciagranate e bazooka, una trentina di Kalashnikov con relativo munizionamento, tre casse di bombe a mano, un discreto quantitativo di esplosivo Semtex e di detonatori.
Il compito di Ahmad era quello di organizzare con gli italiani il trasbordo del carico dalla motonave e farlo poi
proseguire con un furgone verso un luogo sicuro. Le intese erano che il carico dovesse essere diviso in tre parti: una agli italiani, una ai tedeschi, mentre la terza, che
comprendeva i due missili, doveva essere tenuta dall’Organizzazione a disposizione del Fronte.
Ahmad sperava di essere stato mobilitato non soltanto per
organizzare il trasporto delle armi, ma anche per usarle
contro qualche obiettivo israeliano in Europa, magari una
sinagoga o un aereo dell’El-Al, visto che c’erano anche i
missili. Si era dunque messo alacremente al lavoro.
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Il Ragioniere viene svegliato bruscamente da uno schianto e ha l’impressione che nella stanza abbia fatto irruzione
una mandria di bufali. Poi si rende conto che non può essere così, perché i bufali non sarebbero mai riusciti a salire le scale. Lo stato di confusione dura pochi istanti e appena mette a fuoco la situazione cade ancora di più nel panico: è accaduto quello che temeva, la polizia li ha beccati
e lui può anche rimetterci la pelle. Gli eventi e i pensieri si
inseguono freneticamente: un fascio di luce, lui e Greta
che vengono scaraventati via dal letto e sbattuti per terra
a faccia all’ingiù, energumeni in tuta scura col giubbotto
antiproiettile e il volto coperto che li tengono schiacciati
sul pavimento con le pistole puntate contro la testa, altri
energumeni che fanno volare materassi, coperte e cuscini.
Greta guarda la sua pistola infilata in una ciabatta a pochi centimetri da lei. L’energumeno che la tiene a bada se
ne accorge e sta per mollarle un calcio in testa col suo
pesante anfibio. Guido fa appena in tempo a bloccarlo.
Non ci sono più rischi. La situazione è sotto controllo.
Entrano allora il Bimbo e il conte Dracula che si fermano per un attimo a contemplare la scena con la spocchia
dei generali vittoriosi sul campo di battaglia e si muovono poi con studiata solennità verso i due arrestati lanciando occhiate colme di sadico disprezzo per far intendere ancora meglio di avere in mano il loro destino e il
dominio assoluto dei loro corpi.
Entrano, subito dopo, altri tre o quattro uomini in borghese che incominciano a frugare metodicamente in giro. Saltano fuori pistole, due mitragliette, alcune bombe
a mano, passamontagna, parrucche, volantini, una mon219
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tagna di appunti riguardanti l’Organizzazione, schedature di potenziali vittime e alcune mazzette di banconote
chiaramente provenienti da rapine in banca.
Greta è mezza nuda. Ha un bel corpo e il suo energumeno pensa bene di palparsi oscenamente tra le gambe di
fronte a lei e di dirle, lanciando occhiate di scherno verso il Ragioniere: – Ti piacerebbe eh…, altro che quella
mezza sega.
– Smettila o ti faccio rapporto – gli sibila Guido livido.
Il Bimbo osserva divertito, poi prende da parte Guido:
– Così ridai coraggio a queste due merde e mortifichi i
nostri ragazzi. Devono sentirsi persi! Ma che cosa ti frega
de ‘sta zoccola. Chissà quanti ne ha presi…
– Certi sistemi mi fanno schifo. Adesso faccio intervenire la polizia femminile. La donna deve essere affidata a
loro.
Il Bimbo è furioso: – Eccolo il garantista. Perché? Loro le
regole le rispettano? Ti ricordo che sono degli assassini.
Hanno ammazzato un carabiniere l’altro ieri. Lo sai che ti
dico? Se ti togli dai coglioni è meglio.
– E io ti ricordo che qui ci sei arrivato perché ti ci ho portato io.
– Beh, non diamo spettacolo davanti ai nostri uomini. I
conti li facciamo dopo – taglia corto il Bimbo notando
che il personale tende le orecchie incuriosito. Poi rivolto
agli arrestati: – Volete dire almeno come vi chiamate?
– Mi dichiaro prigioniero politico – trova la forza di proclamare il Ragioniere.
– Ho capito. Tu hai bisogno di un po’ di… persuasione.
Adesso ce ne andiamo a scambiare due chiacchiere in un
posticino tranquillo – fa il Bimbo in tono grevemente ironico.
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– Capo, se permetti, con la signora vorrei parlare io… –
salta su il Conte Dracula ammiccando alle spalle di Guido.
I due arrestati vengono fatti vestire alla meglio sotto stretto controllo, ammanettati dietro la schiena e bendati.
Il Ragioniere trema e cerca di gridare quando lo trascinano per le scale, ma un violento pugno nello stomaco gli
fa mancare il fiato. Poi una grossa mano guantata gli tappa brutalmente la bocca e il naso fino quasi a soffocarlo.
Sente l’urina inondargli i pantaloni e scorrere calda lungo le gambe, mentre lo caricano su un furgone con i vetri oscurati.
Greta appare molto più padrona di sé, quasi sprezzante.
Il suo “Mi dichiaro prigioniero politico” non è un espediente difensivo, ma una barriera insormontabile tra lei e
l’antiguerriglia. Eppure Guido vorrebbe tentare di infrangerla. Quando poco prima è intervenuto per evitare che
prendesse un calcio in testa, la ragazza lo ha fissato per
un attimo e nel suo sguardo Guido ha intravisto un barlume se non di riconoscenza quanto meno di apprezzamento, proprio come un soldato caduto prigioniero che
esige il rispetto delle convenzioni internazionali.
La pistola che teneva a portata di mano infilata nella ciabatta è una Walther del periodo bellico, come quella che
il Suldà, il nonno della Rina, teneva nascosta nella vecchia stufa.
Vorrebbe starle accanto nel furgone dove la stanno rinchiudendo per tentare da subito di aprire una piccola
breccia, evitandole più pesanti oltraggi fisici e morali, come se fosse la Rina, perché Greta e la Rina sono come la
stessa persona.
Ma il Conte Dracula si è già appiccicato alle costole del221
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la ragazza e c’è da giurare che non la mollerà, perché è
una preda che lo eccita.
Il Bimbo e il conte Dracula erano arrivati a sorpresa con
ventiquattrore di anticipo all’aeroporto Marco Polo su un
aereo messo a disposizione dall’Aeronautica Militare, insieme agli uomini dell’unità speciale.
Erano piombati nel piazzale della caserma con un corteo
di auto, accolti con tutti gli onori dallo stesso questore.
Se l’operazione fosse andata bene sarebbe stata anche
per lui l’occasione per una promozione e tutti sapevano
quale influenza avesse Il Bimbo sui capi del dipartimento della pubblica sicurezza tanto nell’esaltare un collega,
quanto nello stroncarlo.
– Vi aspettavo per domani. Come mai avete anticipato? –
aveva esordito Guido quando si erano radunati nell’ufficio.
– Ti sconvolge la cosa? – aveva replicato con durezza il
Bimbo – Abbiamo deciso di anticipare l’operazione a domani mattina. Punto e basta.
Da Roma erano sopraggiunti nel frattempo numerosi altri poliziotti con automezzi di ogni tipo, compresa la
fiammante Alfetta metallizzata riservata al Bimbo. Guido
non riusciva a capire a che cosa servisse tutta quella forza. Aveva curiosato un po’ con il Ruspante e Snoopy, ma
nessuno sapeva niente di preciso, se non che il questore
e il Bimbo avevano deciso di accompagnare l’operazione
principale con una serie di perquisizioni e di fermi a carico di simpatizzanti dell’Organizzazione.
C’era stata una cena in uno dei ristoranti migliori della
zona, ma Guido aveva trovato la scusa di non sentirsi bene di stomaco. Dopotutto non era nemmeno una scusa.
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Già prima dell’arrivo di Greta e il Ragioniere, nelle camere di sicurezza della caserma sono stati portati Alfonso, il Nane, suo fratello il sindacalista e tre giovani palestinesi, tutti in isolamento e guardati a vista.
Guido non crede ai propri occhi, pensa che si tratti di un
brutto sogno. Tra poco si sarebbe svegliato e avrebbe costatato che si era trattato solo di un incubo. Non riesce a
connettere. Non può ammettere che i suoi colleghi siano
stati così miserabili da nascondergli che avevano deciso
di andare a prendere anche Alfonso e gli altri. Ma poi, come avrebbero fatto a individuare Nane e suo fratello se
lui non ne aveva mai parlato con nessuno? E i tre palestinesi che cosa c’entrano? Forse sono legati ad Ahmad, ma
perché lui non c’è?
Si precipita nella stanza dove si è sistemato il Bimbo:
– Mi spieghi che cosa sta succedendo? – gli grida fissandolo con gli occhi fuori dalle orbite e i pugni serrati.
– C’è qualcosa che non va? – replica il Bimbo simulando
meraviglia in modo provocatoriamente esagerato. – Siamo andati a beccare qualche altro pezzo di merda. Tutto
qui.
– Ma ti rendi conto dei guai che state combinando? State stroncando un’indagine che poteva portare molto più
in là. Mi dici che cosa ci fai adesso con questi fermati?
– Beh, incominciamo a dire che gli elementi per incastrare Alfonso me li hai dati tu stesso. Ci sono le relazioni dei
tuoi pedinatori e le fotografie che dimostrano il suo collegamento con il Ragioniere, gli appuntamenti strategici con modalità che solo i militanti dell’Organizzazione
possono conoscere. Devo farti i miei complimenti; hai lavorato bene. Quanto ai due fratelli – il sindacalista e il
contrabbandiere – se permetti, ci sono arrivato anch’io.
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Se avessi dovuto aspettare che ti decidessi a dirmelo tu,
sarei stato fresco! È bastato mettere sotto controllo un
paio di telefoni: quello di Alfonso prima di tutto e poi
quello del sindacalista. Peccato che ci ha detto un po’
male e non siamo riusciti a beccare subito il palestinese
più importante, quell’Ahmad famoso. Dev’essergli successo un incidente, purtroppo – fa il Bimbo sospirando e
assumendo un’espressione costernata, – ma abbiamo
portato i suoi amici che ci spiegheranno tutto.
Il Bimbo gongola e gode nel vedere Guido stravolto. Vuole stravincere:
– Amico mio, tu credevi veramente di farmi fesso? Ma dove volevi arrivare? Forse è il caso che lo spieghi anche ai
magistrati, così possiamo capire tutti meglio da che parte stai.
È come se qualcuno con un telecomando avesse fatto
brillare dell’esplosivo dentro di lui. La testa viene investita dall’onda d’urto e gli occhi folgorati da potenti flash
sparati a brevissima distanza.
La scrivania vola addosso al Bimbo che cade pesantemente dalla poltrona e finisce a terra incastrato tra i
mobili. Ha il volto paonazzo e grida come un’aquila,
mentre cerca di liberarsi da quel groviglio e di rimettersi in piedi.
Nella stanza irrompono Mal e Fofò, che sostavano fuori
dalla porta a disposizione del capo. Bloccano a fatica Guido mentre sta per partire di nuovo all’attacco e si affrettano poi a soccorrere con trepidazione il superiore.
– Ti sei fottuto con le tue mani, stronzo! – sibila con voce rotta, ansimando e spolverandosi la giacca con le mani. Rivoli di sudore gli scendono dalle tempie.
Guido è pallidissimo e lo guarda con odio. Rimane immo224
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bile per qualche secondo al centro della stanza e poi si allontana sbattendo la porta.
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Ahmad non ha trascorso la notte nel monolocale che divide con altri tre “fratelli”. La Elvira se l’è portato nel suo
confortevole appartamentino. È affamata di sesso e quel
bel ragazzo bruno ed esotico, che ha agganciato qualche
giorno prima, sembra avere le caratteristiche per strapazzarla tutta la notte come lei desidera. Altro che il pappamolla del fidanzato che pensa solo a bere e a guardare
la televisione! Nemmeno si era accorto qualche settimana prima che, mentre cenavano in pizzeria, lei non riusciva a staccare gli occhi dal palestinese.
Ahmad si sveglia presto perché, come fa quasi tutte le
mattine, deve andare all’università a Padova. Scivola via
dal letto sfilandosi delicatamente da sotto la coscia e il
braccio di Elvira, che dorme a bocca aperta. Quando esce
dal bagno, la trova sveglia, distesa su un fianco, nuda. Poi
lei si mette seduta sulla sponda e lo abbraccia alla vita.
Vorrebbe ricominciare, ma Ahmad non ne può più. Prima
di lasciarla deve soggiacere a un lungo, vorace bacio e
promettere che la chiamerà in serata.
Il garage pubblico dove tiene la sua NSU Prinz di seconda mano è vicino, a metà strada tra la sua abitazione e
quella dell’Elvira.
Il motorino di avviamento gracchia come di consueto, facendo ancheggiare la vettura, che si avvia penosamente
come un asino con un fardello troppo pesante. La benzina è quasi al minimo e Ahmad si fruga le tasche alla ri225
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cerca delle mille lire per il rifornimento. Mentre fa manovra per uscire dal garage ripensa alla nottata con Elvira.
Safiya proverebbe un gran dispiacere se venisse a conoscenza di certe cose e non lo perdonerebbe. Si sentono
spesso per telefono e si scrivono. Sarà lei sua moglie. Fa
manovra per uscire dal garage e imbocca accelerando la
ripida rampa, la supera e si immette sulla strada dopo
aver dato un’occhiata a sinistra per vedere se sopraggiungono altre auto. Fa appena in tempo a scorgere in
lontananza davanti al palazzo dove abita un paio di macchine della polizia, quando accade qualcosa di assolutamente incomprensibile: un lampo e un boato terrificante,
forse l’esplosione delle condutture del gas, oppure lo
scoppio del serbatoio della benzina. La macchina deve
essere distrutta. Che guaio! Per fortuna, gli sembra di
non aver riportato lesioni serie nonostante la botta. Ora
però deve uscire in qualche modo. Oh mamma, le gambe
non le sente più. Non gli fanno male, semplicemente non
le sente più. Prova una gran spossatezza e ha dei brividi
di freddo. Chissà perché gli vengono in mente i versetti
del Corano che gli facevano ripetere da bambino. Ora riesce a scorgere qualcosa in mezzo al fumo. Oh, le sue
gambe! Che cosa è successo alle sue gambe? Vede un ammasso di carne sanguinolenta da cui spuntano schegge
giallastre. Oh Allah clemente e misericordioso, sono le
sue ossa. Ora è chiaro: gli hanno trappolato la macchina!
Non pensava che quei maledetti potessero arrivare fin lì.
Non avverte dolore, solo un gran freddo e delle fitte al torace. Deve avvertire subito i suoi. Deve avvertire anche il
Fronte.
Qualcuno sta armeggiando intorno a lui. Non riesce a vedere bene. La vista gli si sta appannando. Ma come ha
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fatto Safiya ad arrivare così presto, perché rimane lì impalata e non lo soccorre? È tutto così strano. C’è anche
Hani, suo fratello maggiore. Non lo ricordava così alto e
bello. “Hani, guarda le mie povere gambe”. E Hani gli arruffa i capelli con le mani, come da bambino e sorride:
“Ahmad, fratello mio, non avere paura. Ti ricordi come
mi avevano ridotto? Guardami ora. Tra poco sarà così anche per te”.
XXIV
Il Ragioniere, dopo un giorno e una notte di interrogatori da parte del Bimbo e dei suoi specialisti, è crollato.
Si è lasciato andare e ha promesso agli sbirri di collaborare.
Li porterà l’indomani in un luogo dove dovrebbe incontrare Marcel, un insospettabile al centro di trame internazionali.
Gli hanno portato del caffellatte con del pane. Fa fatica a
masticare e a deglutire. Ha bisogno solo di riflettere. Lo
hanno fatto distendere su una branda con le braccia distese lungo i fianchi e i polsi incatenati ai longheroni della rete metallica.
Il Bimbo gli ha garantito che la sua collaborazione, oltre
a riscattarlo sotto il profilo morale, comporterà notevoli
benefici: la famiglia verrà economicamente assistita e
trasferita subito in un’altra città per sottrarla alle vendette dell’Organizzazione; anche i magistrati lo guarderanno
con occhio di riguardo; gli sarà evitato il carcere di massima sicurezza e verrà collocato in un istituto di pena
tranquillo, il più possibile vicino alla famiglia. Si tratta di
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stare in carcere qualche annetto e poi la vita ricomincia.
Tutte le disgrazie non vengono per nuocere!
Il Ragioniere è confuso e spossato. Gli sembra di fluttuare. Quella prospettiva inattesa lo spiazza. L’idea di
uscire dal vicolo cieco in cui è finito gli pare un’ancora di
salvezza.
Non odia più il Bimbo per quello che è e per quanto lo ha
fatto patire. Ora gli è grato per l’umanità che sta dimostrando.
Dopo tanto tempo prova un senso di rimorso per la moglie e il figlio che ha abbandonati quando si è dato alla
clandestinità per inseguire un sogno che ora gli pare folle.
L’hanno portato nella parte più interna della caserma, in
un locale angusto che doveva essere stato la guardiola
della vecchia officina ora in disuso, per condurre l’interrogatorio lontano da orecchie e occhi indiscreti.
Cade in un sonno profondo e quando si risveglia per le
fitte che sente alle braccia ha l’impressione di ripiombare in un incubo ancora peggiore di quelli che lo hanno incalzato mentre dormiva. Adesso però ha la mente più lucida, non avverte più lo smarrimento di prima.
La consapevolezza del tradimento gli si para davanti come una immagine agghiacciante. Prova disgusto verso se
stesso. Come può rinnegare una scelta di vita che ha fatto con tanta determinazione, fino al punto da convincersi e da convincere i compagni che sarebbe stato capace
anche di farsi ammazzare pur di non tradire quegli ideali? Balle! È bastato poco per far crollare la sua fede rivoluzionaria e per fargli riscoprire i doveri familiari. Non ha
diritto nemmeno di riappropriarsi del ruolo di padre di
famiglia. È semplicemente un fallito totale.
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Annaspa, gli manca il respiro. Poi uno spiraglio. Forse c’è
il sistema di riparare e di uscire da questa situazione. È
vero: ha dato all’antiguerriglia una informazione che potrebbe arrecare un danno gravissimo all’Organizzazione,
aprire uno squarcio che nemmeno lui sa dove possa portare, ma può riparare. Basterebbe far arrivare ai compagni la notizia del suo arresto. Gli sbirri non hanno fatto
trapelare nulla dell’operazione, allettati dalle prospettive, che lui aveva fatto balenare, di arrivare al livello superiore dell’Organizzazione, ai grandi manovratori che
tessono la tela del terrorismo internazionale.
Quattro agenti in divisa stazionano davanti alla porta della guardiola. Di tanto in tanto gli lanciano un’occhiata in
cagnesco, mentre parlottano e scherzano tra loro. Si
stanno annoiando. Li osserva e si convince che ce la farà.
– Agente, devo andare in bagno. – Poi vedendo lo sguardo perplesso del più anziano: – Devo solo pisciare.
I quattro poliziotti si consultano scambiandosi tacite occhiate. Dentro la guardiola c’è un cesso, separato dal resto dell’ambiente da un leggero tramezzo. Sembrano
convinti che non ci siano rischi. Sono in quattro e ciascuno di loro sarebbe in grado da solo di stritolarlo.
Quando gli liberano le braccia, rimane seduto sulla sponda della branda a massaggiarsi i polsi doloranti e lividi.
– Allora, ti muovi o no?
– Mi gira la testa – fa il Ragioniere alzandosi lentamente e dirigendosi traballante verso il cesso. Poi, mentre si
sbottona i pantaloni, si gira con fare imbarazzato verso
l’agente che gli sta alle spalle.
– Hai paura che ti guardo il pistolino? – sghignazza – Non
sono mica un cula come te!
Davanti a lui c’è una specchiera sporca e spaccata. È
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questione di un attimo. Parte con una violenta testata. Lo
specchio cade in pezzi e mentre sul volto appaiono le prime gocce di sangue lui ha già afferrato una scheggia con
la quale infierisce sul suo polso. Lo squarcio è orribile. Il
sangue zampilla subito a fiotti. Gli agenti gli sono addosso furibondi.
Quando lo fanno accorrere lì, il Bimbo è fuori di sé. Capisce che il suo piano sta miseramente fallendo. Chiama
d’urgenza il medico della caserma, ma la ferita è troppo
grave. Non può che bloccare alla meglio l’emorragia. Non
può né è in grado di suturare una ferita così profonda,
che deve aver interessato dei vasi importanti. Se non vogliono trovarsi un morto in casa è necessario spedire subito l’arrestato al pronto soccorso dell’ospedale.
Il Bimbo bestemmia. Ormai è fatta: sa benissimo che non
appena l’ambulanza arriverà al pronto soccorso i cronisti
di nera piomberanno lì come falchi. Quello stramaledetto verme se l’è giocato: con la sua faccia da moribondo
avrebbe sussurrato al primo medico o infermiere che gli
si fosse avvicinato quelle tre micidiali parole: sono prigioniero politico. E di lì a poco l’Organizzazione avrebbe saputo tutto e adottato ogni possibile contromisura.
XXV
Gli amici del Nane e la moglie Dorina, incinta da poco,
avevano aspettato a lungo davanti alle carceri in attesa
che portassero gli arrestati. Poi se n’erano andati, perché
arrivavano in massa giornalisti e fotografi. Alvise però
non c’era.
Nel telegiornale avevano detto che l’antiterrorismo era
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riuscito a neutralizzare una cellula di una organizzazione
terroristica internazionale appena in tempo, cioè poco
prima che passasse all’azione assassinando uomini di governo e attaccando obiettivi istituzionali. Il Nane, il fratello sindacalista e Alfonso erano pezzi importanti dell’Organizzazione, in collegamento con terroristi tedeschi,
francesi e palestinesi. Anche tre di questi ultimi erano
stati arrestati, ma il più pericoloso era morto per l’esplosione accidentale di un ordigno che stava trasportando
sulla sua autovettura. Erano in Italia da diverso tempo e
sembravano innocui studenti universitari.
Il Bimbo, nella lunga intervista che gli era stata dedicata
nel telegiornale, aveva sottolineato l’altissima professionalità degli investigatori dell’antiterrorismo e degli uomini dell’unità speciale di intervento, che avevano condotto un’operazione molto rischiosa senza spargimento di
sangue e nel pieno rispetto dei diritti degli arrestati. Aveva sostenuto che le circostanze in cui era morto Ahmad
erano la riprova della grande pericolosità e dei collegamenti internazionali dell’Organizzazione. Richiesto dall’intervistatore a chi fosse destinato l’ordigno che Ahmad
stava trasportando, il Bimbo, facendo la faccia di chi la
sa lunga, aveva detto che purtroppo il segreto istruttorio
gli impediva di svelare altri particolari, ma che si trattava
in ogni caso di un obiettivo di grande rilevanza nazionale
e internazionale.
Il servizio era stato completato dalle immagini della vettura del palestinese dilaniata dall’esplosione, delle chiazze di sangue da lui lasciate sull’asfalto, dei numerosi fori
prodotti sulle macchine e sulle vetrine circostanti dalle
biglie di acciaio che componevano l’ordigno micidiale.
Della vittima era comparsa una foto tratta dal permesso
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di soggiorno; degli altri, immagini girate nel cortile della
caserma, dove il Bimbo aveva organizzato per i suoi amici giornalisti venuti da Roma una sceneggiata mentre venivano caricati sui furgoni blindati da poliziotti dall’aria
spavalda come se stessero per essere portati in carcere:
Alfonso impassibile, il Nane distrutto e incredulo, il fratello che tentava di nascondersi il volto con la giacca poggiata tra le braccia ammanettate, contrastato sadicamente da uno degli agenti; i tre palestinesi simili ad automi.
L’avevano sentito abbaiare disperatamente nel cuore della notte. Poi i primi ad alzarsi lo avevano visto sporgersi
dal finestrino del bagno, con la testa infilata tra le grate
fin quasi a strangolarsi e finalmente avevano capito che
era il caso di chiamare il 113.
I pompieri erano entrati dalla finestra dell’abbaino, dinnanzi alla quale Alvise rimaneva spesso per ore a vagare
con lo sguardo al cielo attraversato dai gabbiani, sulle acque della laguna e sui profili della città: le guglie dei campanili, le cupole fastose, lo sfavillare degli ori della punta
della Salute, i merletti di palazzo Ducale, i tetti, gli intimi
recessi delle mansarde, la lunga striscia verde pastello dei
giardini di Sant’Elena, fino alle propaggini dell’arsenale.
Quando nella sua vita era entrata la Dany, ci stavano insieme nell’abbaino, stretti su una panchetta di legno che
Alvise aveva sistemato davanti alla finestra, impegnati in
un dialogo fitto: pensieri, sensazioni e sogni che non era
necessario tradurre in parole.
Satana, mugolando a testa bassa e lanciando occhiate
che strappavano l’anima, li condusse verso la camera da
letto.
Alvise era seduto, riverso sullo scrittoio, con la testa im232
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mersa in una chiazza di sangue già in parte rappreso, il
braccio destro penzoloni. In terra una pistola; sul tavolo le
foto del padre e della Dany, un koala di peluche che lei gli
aveva regalato. E poi due biglietti con la sua scrittura disordinata: – Dany, perdonami. Mi hai fatto toccare il cielo,
ma anche a te io ho fatto solo del male. Prega il Nane
di perdonarmi anche lui. Prenditi cura di Satana. – A
mia madre. Si vede che era destino. Faccio la stessa fine di papà. Ho voluto tanto bene a tutti e due ed ero felice quando vi vedevo insieme, come quella volta al cason del Bepi. Ti ricordi? Stai vicina alla Dany.
XXVI
Contro Guido avevano fatto barriera. Gli ordini che il
Bimbo aveva impartito alla truppa erano chiari: quel pezzo di merda doveva essere tagliato fuori dal resto dell’indagine e non doveva assolutamente avere contatti con gli
arrestati, che erano rimasti nella caserma sotto il controllo della polizia. Il Bimbo infatti, volgendo a suo favore
l’incidente del Ragioniere, era riuscito a convincere i
magistrati che ragioni di sicurezza consigliavano di non
mandare subito gli arrestati nelle carceri mandamentali.
Le attenzioni dei colleghi di Guido erano ovviamente tutte concentrate su Greta, Alfonso, Nane e suo fratello nella speranza di indurli a “cantare” con le buone o con le
cattive. Per la verità, i primi interrogatori tosti li avevano
riservati ai tre palestinesi, ma poi avevano mollato, dicendo che non c’entravano niente né con l’Organizzazione, né con l’attività di Ahmad, anche se dormivano nello
stesso appartamento. Secondo loro erano soltanto tre
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coglioni, che Ahmad si era scelto per darsi una copertura da studente. Stranamente gli israeliani, prima così solerti e collaborativi, da quando il giovane era saltato in
aria non si erano fatti più né vedere né sentire, ma anche
questo era stato interpretato dal Bimbo come la prova
che quei tre beduini non contavano un cazzo. O almeno
questa era la versione che voleva accreditare.
L’attenzione su di loro da parte degli scagnozzi del Bimbo si era comunque allentata e i tre palestinesi sembravano ormai destinati a farsi un paio d’anni di galera prima che qualche magistrato si accorgesse che non esisteva nulla a loro carico e si decidesse a scarcerarli quando
tutti avevano dimenticato che gli inquirenti li avevano
definiti pericolosissimi terroristi internazionali.
La pena per la morte di Alvise aveva scavato un solco ancora più profondo tra Guido e i colleghi che avevano preso in mano l’inchiesta. Erano per lui giorni di profondo
sconforto, durante i quali tendeva a isolarsi nonostante il
Ruspante e Snoopy facessero di tutto per tirarlo su. Poi
era intervenuto anche Nicola.
Nicola era l’ultimo arrivato alla “squadra politica” della
questura; un ragazzone atletico, ma dai tratti fini e lo
sguardo acuto e allo stesso tempo tenero che denotava
sensibilità e intelligenza. Veniva da Trani ed era ancora
fresco di studi e di servizio militare. Da ragazzo sveglio
aveva subito capito come stavano le cose e per questo all’istintiva simpatia per Guido si era poi aggiunta ammirazione per la sua competenza e, dopo la rottura con il
Bimbo, una convinta solidarietà. Stava dalla sua parte.
A Nicola era stato affidato il compito di esaminare quelli
che in gergo si chiamano i reperti e cioè le cose sequestrate nel covo: armi, documenti di identità falsificati,
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targhe contraffatte, carte di circolazione di autovetture,
volantini, scritti e agendine. Si era buttato a capofitto in
questo lavoro, con il desiderio di tenerne al corrente Guido nella convinzione che solo lui sarebbe stato in grado
di cogliere collegamenti e spunti per portare avanti l’indagine e solo lui avrebbe potuto dargli indicazioni su come condurre la sua analisi.
Nonostante gli ordini e le minacce del Bimbo, Nicola teneva dunque riservatamente al corrente Guido dei suoi
progressi.
– Quelle che mi incuriosiscono di più sono le agendine. I
nomi sono chiaramente di battaglia o di copertura e i numeri di telefono in codice. Così come sono scritti o non
trovano riscontro o portano fuori strada. Allora vuol dire
che si riferiscono tutti a militanti dell’organizzazione o a
simpatizzanti. Oppure che contengono dati che in chiaro
potrebbero consentire l’identificazione di chi possiede
l’agendina magari perché si riferiscono ai suoi familiari o
ad altre persone utili a ricostruire la sua storia. Se scopriamo presto la chiave possiamo dare un’altra bella mazzata –, concluse Nicola con la sua decisa inflessione pugliese.
– A chi li avete dati da decrittare? – chiese Guido.
– Ci sto provando io con Carmen.
– Con tua moglie?!
– Lei è laureata in matematica. Lo sai? Centodieci e lode.
E adesso non tiene che fare, perché il provveditorato ancora non le ha dato la cattedra.
– Ma, ti prego, lasciate stare. Bisogna darli al servizio segreto, alle barbe finte. Ci sono quelli della marina militare. È il loro mestiere.
– Tu dici? – concluse Nicola arrossendo.
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– Ma certo. Anzi, approfitta per mollargli anche le agendine di Ahmad che sono scritte in arabo. E anche quelle
degli altri tre palestinesi. Non si sa mai. Chissà che dall’incrocio delle agendine non venga fuori qualche sorpresa.
Nicola si grattò la testa: – Secondo te, lo possiamo fare di
nostra iniziativa noi della questura o dovremmo passare
tutto al Bimbo?
– Se passate la mano al Bimbo vi castrate da soli. Devi
convincere il tuo capo ad agire direttamente. E subito.
Del resto responsabili dell’inchiesta davanti alla magistratura siete voi.
– Beh, tu l’hai visto il mio capo. Mi sembra che si fotta di
paura davanti al Bimbo – commentò Nicola perplesso.
– E allora gioca d’anticipo. Va’ da quel sostituto giovane
che sta lavorando al caso, il dottor Ferri, e fatti autorizzare ad avvalerti dei servizi segreti per decrittare i numeri.
– Vedi l’esperienza… Io non ci avrei mai pensato.
– Mi vuoi prendere per il culo, eh! – disse Guido sorridendo e mollandogli una pacca sul collo.
Rimasero per un po’ in silenzio. Poi Nicola si alzò per
prendere qualcosa nell’armadio dei reperti.
– Questa è l’agendina di Greta. Ci sono segnati gli appuntamenti strategici e altre annotazioni che fanno quasi
sempre riferimento a “N”, come se fosse un capo. Se poi
vai alla lettera N della rubrica telefonica – aggiunse mostrando a Guido l’agendina – trovi come primo nome Nadia e accanto un numero telefonico di molte cifre, evidentemente straniero. Nella riga sotto, come vedi, c’era
un altro numero telefonico riferito sempre a Nadia che
è stato però accuratamente cancellato a penna.
Guido osservò la macchia scura in controluce:
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– Se la scientifica fa le cose perbene, viene fuori quello
che c’è scritto sotto. La cancellatura è stata fatta con un
inchiostro diverso. Dovrebbe essere più facile dissolverla
e far riaffiorare il numero.
– Maestro, stasera t’invito a casa mia. Carmen fa le orecchiette con le cime di rapa.
XXVII
Il dottor Sabato Festa del gabinetto regionale di polizia
scientifica, soprannominato Bialetti, ricordava in effetti
molto da vicino l’omino baffuto e serioso della famosa
caffettiera.
Quando infilò la testa nell’ufficio di Nicola e rimase per
alcuni istanti a fissare con i suoi occhietti da faina lui e
Guido, si capiva chiaramente che aveva un asso nella manica e sbottava dalla voglia di calarlo.
Ma c’era tutto un rituale da osservare.
– Carissimi, come va la vita? Vi vedo pensierosi.
– Ciao Sabatino, quali belle novità ci porti? Ci vieni a dire che con i tuoi acidi hai bruciato l’agendina che abbiamo fatto l’errore di affidarti? – chiese scherzosamente
Nicola.
– Beh, perché ti meravigli? Non dite sempre che la scientifica non è capace di combinare un cazzo?
– Speravo che almeno una volta…
– E hai fatto bene a sperare! – gridò trionfante il dottor
Festa con un acuto imprevedibile, sbattendo sulla scrivania una grossa cartella di pelle ed estraendone con modi
bruschi un fascicoletto grigio con le intestazioni del suo
ufficio. – Guardate qui, sapientoni.
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Dopo una lunga premessa con la descrizione del reperto
e dei procedimenti chimici usati per raggiungere lo scopo, il fascicolo conteneva una sequenza di fotografie in
bianco e nero, l’ultima delle quali mostrava il risultato
conseguito: la cancellatura era ridotta a un alone da cui
traspariva abbastanza nitidamente il numero che era stato cancellato.
Si trattava di un numero criptato come tutti gli altri, ma
di nove cifre.
– Se c’è anche il prefisso, come è probabile, – disse Guido
ragionando tra sé e sé – potrebbe essere di una piccola città di provincia, dove i numeri sono ancora di cinque cifre.
Ma a che punto sono le barbe finte con la decrittazione?
– Poco fa mi hanno telefonato. Dovrebbero aver concluso e hanno promesso che in giornata ci portano i risultati – rispose Nicola.
– Speriamo bene… – concluse Guido.
– Che cosa vuoi dire?
– Sai, loro non è che si limitano a fare quello che gli abbiamo chiesto. Cercheranno senz’altro di ficcare il naso
in questo affare, soprattutto perché l’agendina e la rubrica di Ahmad e dei palestinesi possono portare a informazioni utili ai loro impicci.
– Cioè? – incalzò incuriosito Nicola.
– I loro fini possono non coincidere con i nostri.
– O Madonna, mica proteggeranno i terroristi! – esclamò
provocatoriamente Nicola ridendo.
– Non fare l’ingenuo. Voglio dire che per difendere quelli che loro ritengono i nostri interessi nazionali, potrebbero per esempio utilizzare le nostre informazioni come
merce di scambio con gli israeliani o con gli arabi. Bisogna tenere conto poi che una parte degli spioni è filo238
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israeliana, ma altri sono filo-palestinesi. Insomma, potrebbero nasconderci delle cose o usarle per i loro fini.
Per loro l’arresto di un terrorista può diventare secondario rispetto ad altre esigenze di difesa.
– C’è da sperare che facciano scelte oculate. Non so se i
militari…
– Lascia stare Nicola, se no rischi di passare anche tu per
sovversivo. E poi il discorso diventerebbe troppo complicato – concluse Guido.
Le barbe finte non avevano dovuto faticare un granché
per trovare la chiave. L’artificio adottato da Greta era abbastanza semplice: aveva aumentato di una progressione
fissa di unità le prime tre cifre di ciascun numero, mentre per le restanti l’operazione era stata inversa, cioè di
sottrazione. Per verificare l’esattezza della loro ipotesi, i
servizi segreti dicevano di aver cercato i riscontri ai prefissi telefonici di ciascuno dei numeri annotati: mentre
prima non avevano alcun senso, una volta decrittati rispondevano perfettamente a quelli della rete nazionale e
internazionale.
La chiave era racchiusa in una specie di formuletta che
era facilissimo applicare e trattenere a mente.
Non appena decrittato il numero cancellato da Greta,
Guido trasalì. Il prefisso lo portava lì dove non avrebbe
voluto. Cercò di stare calmo e di ragionare: poteva essere una semplice coincidenza assolutamente irrilevante.
Un prefisso dopo tutto non significava nulla, perché poteva associarsi a decine di migliaia di numeri telefonici.
Perché proprio a quello?
– Cos’hai, Guido? Ti vedo strano – chiese Nicola.
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– ‘Sto numero mi ricorda qualcosa. Ma posso pure sbagliarmi. Qui ci vuole il Ruspante che segna tutto.
Anche il Ruspante trasalì a suo modo davanti a quel numero di telefono e cioè fece una smorfia strana con la
bocca inarcando contemporaneamente le sopracciglia.
Poi, riconquistata la necessaria freddezza, tirò fuori dalla tasca della giacca l’inseparabile mucchietto di carte e
incominciò a esaminarle meticolosamente mormorando:
– Calma e gesso.
Dopo qualche minuto si bloccò su un foglietto e guardò
fisso Guido:
– Capo, abbiamo avuto la stessa idea. È il telefono di
Oriele Boni, la collega della famosa Rina.
– Di chi? – chiese incuriosito Nicola. Poi, accortosi che
Guido stava fulminando con lo sguardo il Ruspante, soggiunse subito con disagio: – Non è che lo voglio sapere
per forza. Se non me lo potete dire, io non è che me la
prendo a male.
– Scusami Nicola, – reagì Guido chiaramente in imbarazzo – è una storia un po’ lunga da raccontare, che mi coinvolge anche sotto il profilo personale.
Le sorprese non erano finite: l’altro numero che figurava
accanto al nome Nadia era con prefisso internazionale
siriano. Su di esso, come su altre utenze internazionali,
gli spioni non si erano limitati al lavoro di decrittazione,
ma avevano fatto anche delle verifiche. Secondo i loro
accertamenti, si trattava di un numero dell’azienda dei
telefoni di Stato di Damasco, forse semplicemente di una
cabina pubblica.
L’esame delle agendine proseguiva ora febbrilmente e
con metodo. L’ufficio di Nicola era diventato una camera
a gas con il contributo determinante delle Nazionali del
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Ruspante. Decisero di prendere come base la rubrica di
Greta e di confrontarla con quelle degli altri arrestati e
di Ahmad, che gli spioni avevano trascritto dall’arabo.
Guido, sollecitato da una specie di premonizione, si gettò su quest’ultima. Trovò ben presto la conferma ai suoi
nuovi sospetti: lo stesso numero di Damasco che figurava nella rubrica di Greta sotto il nome Nadia compariva
anche in quella di Ahmad accanto al nome Aisha.
Nadia e Aisha dunque dovevano essere nomi di battaglia usati dalla stessa persona. Se a questi elementi si aggiungeva l’altro e cioè che nella rubrica di Greta era stato segnato a suo tempo come recapito di Nadia il telefono della Boni, era da ritenere molto probabile che la donna del mistero fosse la Rina.
Guido sentiva gravare su di sé lo sguardo inquisitore e la
disapprovazione del Ruspante e per la prima volta non
provò rancore. Prese serenamente atto che il Ruspante
era il suo grillo parlante. E adesso ci si aggiungeva anche
Nicola. Come poteva seguitare a fare il misterioso con
due soggetti di quel genere, che mai l’avrebbero tradito,
che ricambiavano i suoi silenzi e la sua scontrosità con
una devozione rara?
E poi non ce la faceva più a tenersi tutto dentro. Era arrivato il momento di confidarsi, di trovare un aiuto e un
conforto su una questione che aveva assunto contorni
smisurati.
In quel labirinto ossessivo, l’immagine della Rina, che lui
si ostinava a inseguire e a vagheggiare, si deformava
grottescamente come una bambola di cera lambita da vapori caldi, per assumere poi le sembianze gelide ed estranee di un cadavere in disfacimento.
Che cosa significava quel numero siriano? Degli spioni
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non c’era da fidarsi: non era possibile che fosse quello di
una cabina telefonica. Anche Nicola pensava che fosse
una risposta di comodo data dai Servizi segreti siriani e
accettata passivamente dall’intelligence italiana per non
guastare i rapporti e turbare chissà quali equilibri.
Guido, Nicola e il Ruspante si scambiarono un’occhiata
eloquente: si stava aprendo uno spiraglio che poteva portare a fare luce sulla vera natura dell’Organizzazione.
XXVIII
All’aeroporto di Damasco era ad attenderli una macchina
delle “barbe finte” italiane. Dopo aver cercato di scoraggiare in tutti i modi la missione, avevano preferito far buon
viso a cattiva sorte assicurando che avrebbero assistito,
per quanto possibile, Guido e Nicola nelle loro indagini.
Anche a Roma le resistenze alla loro missione erano state forti, con argomenti che oscillavano tra il richiamo duro e il compatimento, come si fa con i ragazzini quando
non capiscono che si stanno cacciando in mezzo ai guai.
Ma alla fine il grande capo aveva dovuto cedere perché,
come commentava astiosamente il Bimbo, a dare una
mano a quei due rompicoglioni ci si era messo anche il
dottor Ferri, il giovane sostituto procuratore, che, invasato peggio di loro, riponeva grande fiducia in Guido e
Nicola.
Il magistrato aveva in mano non solo l’inchiesta sull’intera operazione ma anche uno stralcio, un fottutissimo
stralcio aperto in seguito alle denunce per maltrattamenti e torture presentate dagli avvocati del Ragioniere, di
Greta e di Alfonso. E la faccenda dava non poco fastidio
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al Bimbo e ai suoi superiori, non perché temessero che
le denunce avrebbero potuto trovare un qualche riscontro, ma solo per i prevedibili attacchi agli uomini dell’antiterrorismo da parte dei molti “garantisti del… piffero”
che figuravano tra le fila dei partiti di opposizione e da
parte della stampa d’area.
Quel canchero del “compagno Ferri” – così ormai veniva
chiamato il magistrato dal Bimbo e dai suoi fidi – invece
di stoppare subito certe smanie con una bella incriminazione per calunnia a carico dei denuncianti, pareva ci godesse a tenere aperto il fascicolo processuale e a far capire che l’avvio di una vera e propria inchiesta era inevitabile, anzi doveroso.
– Signori miei, – andava ripetendo il Bimbo in tutti gli
ambienti che contano – adesso potete capire perché è
tanto difficile combattere il terrorismo in questo Paese.
Ma io vi giuro che se uno dei miei uomini dovesse essere
chiamato da quel signorino a rispondere di certe infamie,
io armo uno di quei casini… Poi vedremo chi è dalla parte nostra e chi appoggia invece i terroristi.
E si affannava a spiegare che “il compagno Ferri” non
aveva capito niente. Il denunciare torture faceva parte di
una strategia ben precisa, concordata preventivamente
dai militanti dell’Organizzazione con i loro legali, per evitare che qualcuno, una volta catturato e messo di fronte
alle proprie responsabilità, vuotasse il sacco durante gli
interrogatori. Era il tentativo estremo di impedire alla
polizia di ricondurre alla ragione degli individui in fin dei
conti psicologicamente fragili, facendo loro toccare con
mano l’assurdità e l’orrore di certe scelte. Ma quali torture! Nel caso del Ragioniere e degli altri era stato solo il
crollo psicologico di chi tocca con mano il fallimento del243
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la propria esistenza e si rende conto che a collaborare
con la giustizia si può ricavarne solo vantaggi.
– Ma allora, visto che i tre avevano deciso di collaborare
per una specie di crisi di coscienza, come mai hanno detto poi di essere stati torturati? – obiettava qualcuno.
– Ma è chiaro, – rispondeva senza esitazioni il Bimbo, come se fosse la cosa più ovvia del mondo – per salvare la
faccia di fronte all’Organizzazione!
Le argomentazioni del Bimbo, anche se non del tutto
coerenti, suscitavano una profonda impressione nei suoi
autorevoli interlocutori perché riportavano il problema
su un terreno pratico: se le forze antiterrorismo, dopo
tanti sacrifici e tanti rischi, dovevano essere anche perseguitate e difendersi da accuse ridicole e assurde per un
malinteso garantismo a vantaggio di terroristi assassini,
chi se la sarebbe più sentita di impegnarsi su un fronte
tanto rischioso? E allora chi avrebbe più difeso la collettività e le istituzioni da una minaccia tanto grave?
E gli autorevoli interlocutori del Bimbo, un po’ stupefatti e un po’ preoccupati, non potevano che annuire e sospirare.
Il conte Dracula dava man forte al Bimbo in questa campagna di difesa dell’immagine del “corpo”, deciso a proseguire l’indagine nella convinzione di portare, prima o
poi, al Bimbo la testa di Guido su un piatto d’argento, come era solito dire. Ma nonostante il suo accanimento non
era riuscito nemmeno e dare un nome alla compagna
Nadia, della quale gli aveva parlato un pentito, definendola un membro importante dell’Organizzazione dislocato in Siria per tenere i collegamenti con i fronti palestinesi. Ma il pentito non sapeva molto di più se non che
Nadia, secondo quanto gli avevano riferito, era una ra244
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gazza avvenente, che portava sempre con sé, con orgoglio, una vecchia Walther, appartenuta a un parente partigiano caduto durante la Resistenza; che, infine, era
molto legata a Greta.
Il conte Dracula, pungolato dal Bimbo, si era infognato
allora in una ricerca spasmodica fra tutti i parenti dei caduti della Resistenza, ma alla fine aveva dovuto gettare la
spugna di fronte a una mole gigantesca di dati che si incrociavano come in una incontrollabile reazione a catena.
Il Bimbo si era così dovuto consolare bisbigliando al
grande capo che c’era solo da sperare che Guido e Nicola non combinassero qualche casino serio. Non aveva però trascurato di raccomandare a un amico fidato tra le
barbe finte di seguire la missione e di tenerlo costantemente informato. E per non sbagliare aveva fatto arrivare una voce anche agli israeliani, che si erano mostrati
molto sensibili all’argomento. Secondo informazioni che
loro avevano, pareva che la Siria ospitasse la centrale
dell’Organizzazione e che anche il famigerato Sciacallo
vivesse indisturbato a Damasco.
Guido e Nicola erano quindi partiti con un DC9 della Middle East Airways accompagnati dagli accidenti del Bimbo e dal salvacondotto delle barbe finte, che contavano
su una stazione a Beirut competente in diversi dei Paesi
limitrofi, tra cui la Siria.
Nonostante in Libano imperversasse la guerra civile tra
le diverse fazioni, le barbe finte ritennero più prudente
portare Guido e Nicola a Beirut e sistemarli in uno dei
pochi alberghi rimasti in piedi nella parte est della città,
quella sotto il controllo delle forze cristiano-maronite. La
zona ovest, in mano musulmana e palestinese, era anco245
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ra più disastrata e insicura. In mezzo, la frontiera della linea verde.
Era sorprendente costatare come nonostante i pericoli e
le devastazioni della guerra, la gente seguitasse a muoversi come se nulla fosse per le strade intasate di traffico e costellate di voragini, fra i frequenti check-point dell’esercito e i carri armati a presidio dei punti nevralgici.
Mezzi militari di ogni tipo circolavano per la città con gli
edifici pubblici protetti da cavalli di frisia e da enormi
blocchi di cemento attraverso i quali le auto erano costrette a incunearsi con difficili manovre e quindi fermarsi per i controlli. Ciò per scongiurare che i miliziani sciiti
di Hezbollah sferrassero altri attacchi suicidi con macchine o furgoni imbottiti di esplosivo e lanciati a gran velocità contro l’obiettivo.
Quando si ritirarono in albergo dopo la prima giornata
di incontri, Guido e Nicola avevano entrambi la netta
sensazione di non aver concluso nulla. Era chiaro che i
loro interlocutori della polizia e del Mukabarat, cioè del
servizio segreto, non si sognavano nemmeno lontanamente di collaborare. Li avevano fatti parlare fingendo
di ascoltarli con interesse, ma le risposte erano state
vaghe e dilatorie. Su un punto solo avevano dato una risposta netta: quel numero di Damasco corrispondeva
effettivamente a una linea della società dei telefoni e la
conclusione da trarre traspariva dai loro sorrisetti di
sufficienza. Come a dire: “Lasciate stare. Non abbiamo
nessuna intenzione di farvi sapere gli affari nostri. Non
avete la più pallida idea di che cosa succeda qui. Tornatevene a casa ché è meglio”.
– Che cosa facciamo adesso? – chiese Nicola con l’aria
sconsolata.
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– Forse non ci resta che andare domani mattina a parlare col nostro ambasciatore. Credo che non servirà a molto, ma perlomeno anche il ministero degli Esteri dovrà
registrare che non abbiamo avuto alcuna collaborazione.
Quello che mi rode è che abbiamo la soluzione di tanti
misteri a portata di mano… potremmo finalmente capire, e invece… Effettivamente sono stato un fesso. Mi sono illuso. Ti pare che permetterebbero a due modesti
commissari di polizia di scoperchiare la fogna.
– Uno sfizio me lo devi far togliere, Guido. Fammi provare a fare quel numero.
Sentirono squillare a lungo. Poi qualcuno rispose in arabo con voce sgraziata.
Nicola, con il suo inglese approssimativo, chiese:
– Parlo con l’hotel Semiramis?
– No, lei ha sbagliato. Questa è la compagnia dei telefoni.
Chi le ha dato questo numero? – replicò l’interlocutore in
un inglese altrettanto arrangiato.
– Me lo hanno dato all’agenzia turistica. Sarebbe tanto
gentile da darmi lei il numero giusto?
– Questo non è l’elenco abbonati. Buona sera – concluse
bruscamente l’arabo.
Guido aveva orecchiato: – Ti aspettavi una risposta diversa? I nostri amici del Mukabarat li avranno messi in allarme subito.
Rimasero a lungo in silenzio. Poi Guido, come a conclusione delle sue riflessioni, disse:
– Nicola, è meglio che dormiamo tutti e due nella stessa
stanza e a turno.
– Tu pensi addirittura che…
– È meglio essere prudenti. Mi sono accorto che qualcu247
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no ha rovistato nella mia valigia. Avevo lasciato dei segni… Chissà cosa credevano di trovare!
Quando uscirono dall’albergo sopraggiunse prontamente
un taxi. L’autista, un giovane dall’aspetto sveglio e accattivante, spalancò le portiere e si mosse in maniera così
abile da indurli a sedersi sul sedile posteriore del mezzo
come se non vi potessero essere alternative.
Stavano per reagire insospettiti da tanta decisione, quando il giovane, che era già partito ad andatura sostenuta,
si girò verso di loro con aria complice:
– Mi chiamo Yussef. Tranquilli, sono un amico – disse in
francese porgendo nello stesso tempo a Guido una busta
rigonfia, come se contenesse un piccolo oggetto. L’aprì
con cautela e quando vide il contenuto gli sembrò che il
sangue gli friggesse fino alla punta dei capelli come il citrato. Si trovò tra le mani un portachiavi con un buffo scoiattolo. Lo strinse e lo scoiattolo gonfiò le gote emettendo un
debole squittio, come tanti anni prima quando lo vinse al
tiro a segno alla fiera del paese e lo regalò alla Rina.
Si abbandonò con la testa sullo schienale spaventosamente pallido, tanto che Nicola lo guardò chiedendo preoccupato: – Tutto bene, Guido?
Appena le lacrime glielo consentirono lesse il biglietto
che accompagnava l’oggetto:
– Affidatevi a Yussef. Vi porterà subito all’aeroporto di Damasco. Lasciate i bagagli in albergo e partite col volo per
Zurigo. Tieni sempre Ciccio con te come ho fatto finora io.
Due giorni dopo, quando fu chiaro che Guido non sarebbe più tornato in quell’albergo, la stanza già da lui occupata fu visitata da due torvi figuri, che lo stesso diretto248
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re si premurò di accompagnare al piano, scacciando nervosamente il personale di servizio.
I due figuri entrarono da soli nella camera, mentre il direttore era rigorosamente restato a piantonare la porta,
e ne uscirono dopo circa una decina di minuti, con qualcosa avvolto in un sacchetto di plastica dell’albergo.
Quando in serata il ricco gioielliere iracheno Abdul Zuhair andò ad alloggiare in quella stessa stanza, poté buttarsi sul letto, al termine di un’intensa giornata di fruttuosi affari, senza saltare in aria.
XXIX
Al suo ritorno in questura, Nicola era stato accolto dalla maggior parte dei colleghi con attestazioni di stima
per i rischi che aveva corso, ma anche dai commenti
sarcastici dei più invidiosi per l’apparente inutilità della missione.
Si era svegliato a fatica quella mattina, perché la notte
era rientrato più tardi del solito per occuparsi di alcuni
“espropri proletari”. Carmen l’aveva atteso come sempre,
crollando di tanto in tanto dal sonno, per risvegliarsi bruscamente con l’animo in pena fino a quando non lo aveva sentito aprire la porta ed entrare in casa. Si scambiarono un bacio.
La mattina lo svegliò alla solita ora con un sorriso e un
caffè.
– Ti vedo pensieroso, Nico’. C’è qualcosa che non va?
– No, Carmen. Tutto a posto. Tu come ti senti?
– Bene, Nico’, quando ci sei tu.
– Allora, quanto manca?
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– Meno di un mese, Nico’.
– Allora siamo d’accordo. Lo chiamiamo Manfredi.
Rimasero per un po’ a fantasticare sul loro futuro e a pregustare la gioia della nascita del loro primo figlio. Poi Nicola si fece ancora pensieroso:
– Sai, ieri sera mi ha telefonato Guido.
– Uh! E come sta?
– Sta bene, ma è solo come un cane. Gli ho detto di stare attento. Sai, a Roma, in quel casino…
– Povero Guido. Ma stai attento pure tu, Nico’. Chi ve lo
ha fatto fare a scegliere un lavoro così rischioso. Fatti
trasferire all’Amministrativa – disse Carmen con sguardo
implorante.
– Lo sai che morirei di noia, Carmen. Non stare preoccupata. Qui la situazione è più tranquilla e figurati se i terroristi pensano proprio a me – concluse Nicola sorridendo. Un bacio ancora, prima di infilarsi l’impermeabile e di
assicurarsi la pistola alla cintola.
Carmen lo vide dalla finestra dirigersi col suo passo sicuro verso la Fiat 131 che avevano comprato di seconda
mano. Pensò che non lo avrebbe potuto amare di più.
Aspettarono che fosse intento a mettere in moto la macchina, perché avesse le mani impegnate e non fosse in
grado di reagire. La donna dal volto livido sparò per prima estraendo la mitraglietta dal lungo soprabito. Carmen
sentì una sequenza di colpi attutiti e lontani, come in un
incubo agghiacciante. Poi il colpo secco e forte della pistola di Nicola. La macchina fece un balzo e si spense,
mentre lui si accasciava sui sedili.
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XXX
Guido non riusciva a darsi pace per la tragica fine di Nicola e se ne sentiva in certo senso responsabile per averlo coinvolto in indagini rischiose.
In quello stato d’animo sentì forte il bisogno di tornare
nella Bassa. Voleva riflettere, fare il punto di situazione
della propria esistenza rivedendo quei luoghi dove tutto
aveva avuto inizio.
Rimase a guardare sbigottito il portoncino chiuso e le
spesse imposte grigie tappate sulle finestre, chiedendosi
se per caso non avesse fatto confusione e fosse andato a
finire in un altro posto.
Già nell’entrare in paese aveva sentito che i denti sottili
e aguzzi della nostalgia stavano affondando dentro di lui.
La scritta – Cicli Artar – che aveva acceso i suoi sogni di
ragazzino, era ormai illeggibile e sul muro del laboratorio
abbandonato ne restavano tracce appena percettibili.
Il bar-tabaccheria Brennero, un tempo l’osteria del Suldà,
era stato rimodernato e doveva essere ancora una volta
passato di mano.
Gli avventori lo guardavano incuriositi e perplessi. Quando si decise a chiedere, la donna dietro il bancone e un
uomo di mezza età intento a sfogliare l’“Avanti” si scambiarono un’occhiata imbarazzata. Poi la donna prese l’iniziativa:
– Mi dispiace. Credevo sapesse. Il povero Suldà è morto
da qualche anno. Era malato da tempo...
– E la Generosa? – chiese Guido con gli occhi lucidi non
appena riuscì a vincere la commozione.
– Lei, poverina, è al ricovero – rispose la barista in tono
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di grande commiserazione e poi, temendo che Guido non
avesse capito bene, – alla casa di riposo, insomma. Dopo
la morte del marito ha avuto un tracollo spaventoso in
poco tempo. Non ha più nessuno qui in paese. Le figlie
sono andate tutte e due via. Hanno le loro famiglie e i loro impegni. La vita è fatta così adesso, non è più come
una volta!
Attraverso la finestra della parete di fondo del bar, Guido
gettò lo sguardo sul pergolato retrostante l’osteria del
Suldà, dove per la prima volta lui e la Rina si erano trovati soli, uno accanto all’altra, accovacciati davanti al pollaio e alle gabbie dei conigli, lei con le ginocchia con le croste che spuntavano da sotto il vestitino leggero. Erano rimasti così per un bel po’, nel silenzio di un pomeriggio
estivo con l’aria mossa soltanto dal frinire delle cicale.
La nebbia gelata ricopriva la pergola, le piante, la tettoia
con i vecchi arnesi, simile a un telo pietosamente steso
sulle cose di una persona cara che non c’è più, per mantenerle il più a lungo possibile come sono state lasciate,
non solo per rispetto, ma nell’illusione che le possa far
piacere e magari torni a rivederle e toccarle nel buio e
nei lunghi silenzi della notte.
Risuonarono nella mente di Guido ma come un’eco lontanissima e attutita, gli schiamazzi, le risate, le battute
degli avventori dell’osteria, le risposte allegre della Generosa, i tonfi dei pugni che si abbattevano sui tavolini nelle interminabili accanite partite di scopone. L’aria pregna
dell’umore del lambrusco e del fumo dei mezzi toscani.
Non la riconosceva quasi più la Generosa, abbandonata
sulla sedia a rotelle, con una coperta scozzese sulle ginocchia e una mantellina grigia sulle spalle, fra gli altri
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vecchi, soprattutto donne, chi con la testa ciondoloni apparentemente addormentato, chi intento a sbocconcellare un biscotto, chi a piagnucolare. Occhi fissi nel vuoto,
assenti rispetto all’ambiente circostante, rivolti altrove a
inseguire chissà quali pensieri persi nel tempo e nello
spazio; o sguardi ansiosi da cane abbandonato alla ricerca disperata di un padrone, attenti a cogliere il benché
minimo segnale di semplice attenzione per implorare affetto e sperare nel miracolo.
– Vedi Generosa chi ti è venuto a trovare… – disse la badante in camice bianco.
– Eeeh… – fece lei in tono lamentoso, girando meccanicamente gli occhi.
– Lo conosci questo signore?
Lo sguardo della Generosa si posò su Guido senza manifestare alcuna reazione.
– E allora chi è? È il tuo fidanzato e non ce lo vuoi dire,
vero? – sghignazzò la donna.
Di nuovo un “Eeeh” prolungato.
– Ma guardala la civetta come se lo sgolosa! – proseguì la
badante ammiccando maliziosamente verso di lui e poi
verso le colleghe.
Guido provò un senso di fastidio per quelle gratuite trivialità.
– Ah brutta birbacciona! Adesso ho capito che cosa guardi: i cioccolatini!
Guido sentì stringersi il cuore. Era vero. La Generosa
guardava la scatola dei cioccolatini che lui teneva tra le
mani e quando fece il gesto di porgergliela allungò avidamente le mani.
Era quasi Natale e nello stanzone dove gli anziani stavano
raccolti, l’albero con le lucine intermittenti, un presepio ar253
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rangiato e i festoni da poco prezzo non ce la facevano proprio a consolarli. Anzi sembrava che facessero spiccare ancora di più per contrasto la loro solitudine. Una beffa!
Guido tornò a scrutare negli occhi chiari e velati della
Generosa nella speranza di cogliervi qualche barlume di
lucidità.
– Da quanto tempo è in queste condizioni? – chiese a una
grassona che sembrava essere la caposala.
– Da diversi mesi. È andata peggiorando rapidamente.
– Secondo lei è cosciente?
– Sempre meno.
– Viene qualcuno a trovarla? – insistette Guido.
– Per lo più i vecchi clienti dell’osteria che gestiva in paese insieme al marito; ogni tanto le figlie che ora vivono
lontano, in città. Ma lei chi è, che vuol sapere tutte queste cose? – chiese infine circospetta la caposala.
Davanti a una delle finestre dello stanzone, un vecchietto con un sovrabbondante maglione da ragazzo e un berretto con il paraorecchie, ticchettava debolmente con le
dita ritorte e irrigidite dall’artrite sui vetri appannati per
conquistare l’attenzione di un gattone rugginoso seduto
sul davanzale. Si strusciò miagolando contro il vetro per
implorare di essere ammesso al calduccio e il vecchio
guardò astiosamente sconsolato la caposala.
– Giovannino, guai a te se lo fai entrare. Lo sai che non
voglio. – Poi, rivolta verso Guido: – L’altro giorno abbiamo trovato sporco e peli dappertutto… Ma lei non mi ha
ancora risposto. È anche lei un parente della Generosa?
– No, sono solo un conoscente. Con la nipote si giocava
insieme da bambini.
– Allora lei abitava in paese… – provò ad argomentare incuriosita la donna.
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– Non proprio. Venivo d’estate a trovare i miei parenti.
– Posso sapere chi sono i suoi parenti? – incalzò. – Sa, anche se non sono del posto, ormai conosco un po’ tutti.
– Sono le Sughèri.
– Ah, la Zoraide e la Nilde! Vengono anche loro ogni tanto a trovare la Generosa e altri ospiti della casa. Che brave donne! Oggi non ce n’è più così.
La Generosa era intenta a scartare il terzo o quarto cioccolatino, quando l’infermiera sguaiata cacciò un urlo:
– Guarda come ti sei combinata, sporcacciona. Lo sai che
i dolci ti fanno male… – sentenziò togliendole di mano la
scatola e passandole senza grazia un fazzoletto di carta
sulla bocca e le mani. – Ti do la tua pupazzetta, così stai
buona – e così dicendo tirò fuori da una borsa sdrucita che
la Generosa teneva al fianco una buffa bambolina di pezza.
Guido sentì che gli occhi gli si inumidivano ancora senza
poter fare niente per evitarlo. La bambolina gli sembrava
una di quelle che faceva la Rina. Avrebbe voluto vederla
meglio, ma ormai la Generosa se la stringeva tra le mani
con avidità. E poi che senso aveva accertare se fosse effettivamente quella? Non c’era il rischio di tornare indietro e ripiombare in fondo al cunicolo dal quale cercava di
uscire? Si trovava nella condizione di rievocare quei ricordi senza che invadessero il presente e riprendessero
il sopravvento su di lui?
Ma allora perché era andato fin lì dopo tanto tempo?
Adesso la caposala aveva voglia di attaccare bottone e si
sarebbe spinta a esplorare parentele e a spettegolare all’infinito se Guido non avesse tagliato corto. Non vedeva
l’ora di fuggire. Baciò la fragile testa della Generosa e si
allontanò in fretta, mentre nelle orecchie gli risuonava il
suo lamentoso “Eeeeh”.
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Il cortile della casa della Zoraide ospitava ora un capace
magazzino di materiale elettrico. L’orto, gli alberi, il pozzo con la pompa dell’acqua, gli archi, le scale e le mura di
mattoni rossi da cui provenivano una volta sussurri di vite vissute, erano scomparsi, cancellati per sempre dal
nuovo fabbricato anonimo. Sul confinante terreno una
volta occupato dal casolare dei nonni paterni della Rina
era sorta una banca e Guido dovette chiudere gli occhi
per ricostruire nella memoria i luoghi e le cose di un tempo, per rivedersi lì con gli altri ragazzini del paese, con la
bambina dalle treccine bionde e dagli occhi che lo incantavano.
Adesso era la Zoraide a mandare avanti la baracca con la
sua sartoria. Dante era ormai in pensione e la Tecla si divideva nell’accudire entrambi. Guido era loro profondamente affezionato, ma ora non vedeva l’ora di distaccarsene. Mancava poco al tramonto e quel paio d’ore di luce
che ancora restavano le voleva tutte per sé.
Si diresse quasi furtivamente e a capo chino verso la
piazza, cercando di evitare i rari passanti. Sentiva imperioso il bisogno di parlare con se stesso e con i luoghi.
Si fermò davanti alle lapidi dei partigiani. Non era più il
sacrario che conosceva, il luogo della memoria e dei valori. Le scritte delle epigrafi erano ormai sbavate e avrebbero avuto bisogno di un restauro. Anche i nomi di Folletto e degli altri caduti erano scarsamente decifrabili.
Quando arrivò al ponte sulla Fiuma stava ormai calando
l’oscurità e la luce dei lampioni a mala pena riusciva a
fendere la nebbia e ad arrivare a terra. L’acqua ferma e
grigia del canale, gli alti argini, il fitto canneto che ne
guarniva le rive, i pioppi, sfumavano nelle foschie della
serata invernale.
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La paura di dover prendere atto che una parte della sua
vita era inesorabilmente trascorsa lo aveva tenuto relegato per anni in un suo mondo illusorio dove si perpetuavano sensazioni e sentimenti della giovinezza.
Era tornato allora per seppellire i ricordi?
No, non voleva né poteva sbarazzarsene, ma soltanto
sfuggire al loro dominio. Voleva che restassero al loro posto, in uno scrigno prezioso, ma che non condizionassero più la sua vita con l’amaro sapore del rimpianto, ma la
illuminassero.
Sentì sciogliersi il groppo che gli gravava da anni nel petto. Ci stava riuscendo. Aveva incontrato Lucilla e sentiva
che col suo aiuto avrebbe potuto uscire da quella condizione assurda. Capì di amarla.
XXXI
Le legano le mani dietro la schiena, poi li vede che le ficcano una matassa di garza nella bocca e gliela tappano
con del nastro gommato fino quasi a soffocarla. La bendano.
La portano fuori dall’orribile tana dove l’avevano tenuta
per un tempo che non era stata in grado di valutare. Le
fanno salire alcuni gradini tenendola sottobraccio. Ecco,
incomincia ad avvertire nelle narici l’aria fresca dell’alba.
Sente di essere finalmente all’aperto. Inspira dal naso con
avidità, alza il volto verso il cielo per offrirsi agli umori del
giorno che nasce. Prova brividi di piacere. Vorrebbe poter
inghiottire quanta più aria possibile. Ma che bisogno c’era
di tapparle la bocca? Sente cinguettare un merlo e le sembra la melodia più bella che abbia mai ascoltato.
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La caricano su un furgone e ritornano l’oscurità e il tanfo dei suoi aguzzini.
Lei si lascia fare tutto, come se quella lì, imbavagliata e legata, fosse un’altra. E sa che l’altra non ha via di scampo:
ha tradito, e la legge dell’Organizzazione è inesorabile. È
ormai un mostro agonizzante che divora se stesso. La Rina conosce perfettamente tutti i momenti di quel rito agghiacciante, per averlo anche lei approvato con la convinzione e l’orgoglio di esercitare la giustizia proletaria.
Ma la Rina non è più quella: è tornata al paese a ballare
con Guido sulla pedana di legno tra i festoni e le lampadine colorate. Lei ama la vita, ha orrore della violenza e
tutto il suo essere si ribella all’idea che in nome di un
principio qualsiasi o di una qualsiasi giustizia si possa
somministrare la morte e violare freddamente l’essenza
sacra, misteriosa e profonda dell’animo umano, infierendo sul corpo indifeso, fino a spegnervi la vita.
La Rina si è resa conto del suo tragico errore: ha sentito
la sua anima schiantarsi, ma ha capito finalmente gli inganni delle ideologie e il cinismo della storia; prova una
profonda pietà per l’altra che stanno avviando al luogo
dell’esecuzione e aspetta che Guido la venga a portare
via da quella situazione assurda.
Lo vede correre disperatamente su un fuoristrada verso
il luogo maledetto, perduto tra le alture libanesi, insieme
ai suoi uomini. Respira affannosamente, sa che è questione di minuti. Ma ecco che Guido e i suoi si trovano all’improvviso in un piccolo e assurdo paese deserto, con le case di un bianco accecante, viuzze, scale, archi e specchi
con cornici dorate. Il fuoristrada fa fatica a manovrare tra
quei vicoli, rischia di rimanervi intrappolato.
Le case assumono l’aspetto di tombe e gli specchi diven258
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tano ritratti di defunti. Bisogna che Guido esca a tutti i
costi da quell’incantesimo, ma una grande pietra angolare impedisce alla macchina di fare manovra per imboccare la direzione giusta. Lo invoca perché faccia presto.
L’hanno fatta sedere per terra con le gambe distese e la
schiena appoggiata contro un muro di pietra. Avverte il
chiarore e le languide carezze dei primi raggi di sole. Affonda le unghie nella sabbia e preme con forza la schiena contro le pietre per godere quanto più può della sublime materialità della terra. Sente i primi colpi e il tempo
infinitesimo che i proiettili impiegano a raggiungerle il
petto si dilata prodigiosamente per accogliere le immagini più dolci di tutta la sua vita. Ora anche per lei, come
per suo papà, tutto è improvvisamente chiaro e tanto
semplice da lasciarla stupefatta.
È ormai Libera, sì, libera di correre incontro a Folletto, di
gettarsi tra le sue braccia e affondare il viso sul suo petto, tra i suoi panni, fino a sentire finalmente quell’odore
che aveva sempre sognato.
Pensa che quando Guido giungerà sul posto troverà abbandonato tra i rifiuti un orribile, macabro manichino,
addossato con le spalle a un muretto diroccato, la testa
reclinata e appeso al collo un cartello con la scritta “Morte ai traditori”.
Libera detta Rina, alias la compagna Nadia per l’Organizzazione e Aisha per i fratelli del Fronte. Qualche terrorista pentito seppe soltanto dire che se ne erano perse
le tracce tra la Siria e il Libano. Per l’Interpol rimase latitante irreperibile.
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ANCORA IN PIAZZA SAN GIOVANNI
A chiusura del telegiornale regionale, le telecamere avevano fatto le ultime carrellate su piazza San Giovanni per
mostrare capannelli di ragazzi che resistevano a oltranza
ancora in vena di fare cagnara, agitando ormai stancamente qualche bandiera, mentre i furgoncini a spazzole
rotanti della nettezza urbana avevano preso a scorrazzare in lungo e in largo e gli operai si affannavano a smontare il palco.
Quelle bandiere non gli dicevano più niente, gli sembravano un’accozzaglia di simboli e colori che ne rendevano
ambigua l’identità. Anche la più intelligibile, e cioè quella rossa con il volto del Che, calata in quel contesto, suonava falsa o patetica, né più né meno di un gadget da
bancarella.
Avrebbe voluto che Lucilla fosse restata accanto a lui per
confidarle queste sue impressioni, ma la sentì indaffarata a confabulare con Titti.
I suoi pensieri finirono ancora una volta per scivolare
verso i ricordi. Si rivide ragazzo, seduto sulla panchina di
pietra tra le aiuole della stazione ferroviaria del paese
della Bassa a fantasticare con la faccia rivolta al sole languente, in una dimensione beata fatta di tepore umido, di
trilli di rondini che volavano rasoterra, delle voci della
madre e delle altre donne che chiacchieravano sedute
nel giardinetto della zia Nilde, con le rose, i gerani, le petunie dai colori tenui e i gatti, stesi come stracci bagnati
sulla terra tiepida.
Per molti, troppi anni si era perso senza rendersene
nemmeno conto.
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E allora che ne era stato di quel ragazzino che aspettava
la notte di san Lorenzo per contare le stelle cadenti, sognare e augurare ogni bene possibile alle persone care?
Un giorno disse scherzosamente a Lucilla che lui viaggiava molto di più di quanto apparisse, perché spesso, senza che lei se ne accorgesse, si infilava furtivamente sul
“treno col fumo”, che lo portava lontanissimo in pochi
istanti e poi lo riportava da lei altrettanto rapidamente e
con tanta voglia in più di riabbracciarla.
Diceva in parte la verità. Erano i suoi viaggi nei ricordi,
che non consistevano in una fuga dalla realtà, quanto
piuttosto in un espediente per esservi dentro con tutto
se stesso, allacciando il presente al passato.
E al ritorno da ogni viaggio, non vedeva l’ora di raccontarle tutto, con un entusiasmo esagerato, come i bambini, che si affannano a ostentare a chi gli va a genio tutti i
loro giocattoli.
Amava raccontare a Lucilla, divertendola e lusingandola,
che un giorno il “treno col fumo” si fermò a una stazione
nuova che aveva segretamente sognato e lui la vide salire
sperando ardentemente che entrasse nel suo scompartimento. Nel paesaggio si accesero mille colori quando lei
finalmente entrò e lo guardò in silenzio in un modo tra il
timoroso e il desideroso, meravigliosamente animale.
Il treno allora invertì la marcia e lui non si rese conto di
quanto tempo fosse passato prima che si fermasse altre
due volte, perché era troppo perso in lei. Salirono prima
Nanù e poi Titti, spaesati nei loro vestitini un po’ ridicoli
e impacciati tra Orsi Rosa, pappagallini, gatti Ciccio e altri pacchetti buffi. Da allora avevano viaggiato tutti insieme verso mete e itinerari comuni.
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Sullo schermo del televisore scorrevano ormai stancamente i titoli di coda del servizio da piazza San Giovanni.
Si mise di nuovo in viaggio.
Riuscì ad afferrare con un certo sforzo l’album delle fotografie che era sul tavolinetto e volle rivedere quella del
padre Peppino accanto al camion, magro, con la faccia
scavata e i capelli arruffati, un paio di braghe abbondanti e sgualcite, una camicia chiara con le maniche rimboccate, delle scarpacce impolverate, sullo sfondo quasi africano di Littoria in costruzione.
Fieramente appoggiato a quel trabiccolo che sembrava
un residuato della prima guerra mondiale, Peppino tradiva nello sguardo e in un mezzo sorriso spavaldo tutto il
suo orgoglio. Chissà quanti sacrifici aveva dovuto fare,
ma ora quel camion era suo. Sentiva di poter affrontare
la vita e mettere su famiglia. Probabilmente quella foto
se l’era fatta per impressionare l’Annetta quando erano
ancora fidanzati.
Sì, le donne e gli uomini del Novecento erano facile preda delle illusioni, sempre pronti a farsi ingannare, vittime
degli ideali, capaci di sacrifici estremi come tutti gli eroi.
Cantavano “Illusione, dolce chimera sei tu…” o “Voglio
vivere così, col sole in fronte”.
Poi la testa incominciò a girargli come su una giostra.
Sì, una giostra come quella che lo affascinava da bambino. Si ricordò di quando, a Gardaland, ne aveva trovata
una quasi eguale e c’era voluto salire. Non aveva resistito alla tentazione e vi aveva trascinato Lucilla, che un po’
si vergognava, per girare abbracciato a lei sulle note dolci di un valzer, accanto a Titti che lanciava occhiate eccitatissime con i capelli al vento e Nanù, rigido sul cavallo,
fortemente compreso nel ruolo di condottiero.
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Ora la giostra girava accompagnata dal valzer di Strauss
“Sul bel Danubio blu”, lo stesso motivo del carillon che aveva comprato a Vienna tanti anni prima, quando c’era andato in viaggio con la Annetta. La sera, in albergo (non ne
aveva mai dimenticato il nome: si chiamava Wandl ed era
vicino Stephans Platz), Guido aveva a lungo maneggiato e
rimirato il cofanetto di legno intarsiato con l’immagine del
duomo e poi aveva caricato il carillon per riascoltare il valzer insieme alla Annetta, che si era messa ad accompagnare le note con un leggero movimento della testa. Erano tutti e due contenti come bambini e lui sentì che il cofanetto
e quella melodia lo avrebbero accompagnato per sempre.
Se lo teneva da allora sulla scrivania e anche se il carillon
aveva smesso da tempo di funzionare, a lui bastava guardarlo per sentire ancora le note del bel Danubio blu e ritornare all’albergo Wandl.
Ripensò poi al viaggio che aveva fatto di recente con Lucilla e i ragazzi, sulla macchina nuova, loro quattro, a velocità moderata, in giornate serene e con scarso traffico,
attraverso l’Italia. E ancora quando erano andati in vaporetto a Burano solcando dolcemente la laguna verso casette colorate, immersi in una miscellanea vaporosa di
cielo-acqua-aria col sole che li accarezzava. E la sera da
Zanella a Ca’ Savio a mangiare il risotto e l’anguilla arrosto con la polenta bianca, e a dire fesserie; o la mattina a
fare colazione seduti sotto il porticato, tra i vecchi che
ciacolano e le rondini che vanno e vengono dai nidi nel
sottotetto dove ritornano miracolosamente ogni primavera, da sempre, come se tutto fluisse restando immutabile.
La giostra, sollecitata dal crescendo dei ritmi, piroettava
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sempre più vivacemente, proprio come fanno i ballerini
di valzer. Sfrecciavano davanti ai suoi occhi come in una
pellicola cinematografica le immagini della sua vita e delle persone care.
Ora girava troppo forte per lui.
Era arrivato il tempo di scendere.
Si lasciò allora andare all’indietro sul bordo della giostra
tenendosi aggrappato al corrimano come faceva da ragazzo per saltare giù dal tram ancora in movimento prima della fermata sul Lungotevere vicino al chioschetto
delle grattachecche. Quando arrivò a terra spinto in
avanti dalla forza d’inerzia, fu costretto a fare qualche
passo di corsa per evitare di cadere, ma dopo qualche attimo di capogiro si sentì sicuro e andò con lo sguardo alla ricerca di Lucilla e dei ragazzi.
Gli sfilarono davanti agitando le mani in segno di saluto,
come alla partenza del treno.
Non appena scomparvero alla sua vista, sentì una pena
nel cuore profonda e totale, come mai aveva provato.
Quando li vide ricomparire al giro successivo, gli sembrò
che fosse passata un’eternità. Riemerse, rapidamente e
senza sforzo, dall’orrido in cui era precipitato. Ora avvertiva una sensazione di benessere di una intensità del tutto
nuova. Sentì fischiettare Voglio vivere così. Si voltò e si accorse che alle sue spalle c’erano Peppino e la Annetta, anche loro sereni e sorridenti. Si riabbracciarono. Poi si misero di nuovo a guardare la giostra che girava, lui nel mezzo
che li teneva stretti, come mai aveva potuto fare prima.
A piazza San Giovanni passò un furgoncino che portava i
giornali alle edicole, mentre il primo bar alzava la saracinesca. Come ogni mattina.
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BIBLIOGRAFIA
Sull’attentato a Togliatti e sulla vittoria di Bartali al Giro di Francia ho
consultato:
“La Gazzetta del Mezzogiorno” – Finestra sulla storia (http.www.lagazzettadelmezzogiorno.it) e i seguenti altri siti Internet: www.cronologia.it; www.inclasse.it; www.intermarx.it; www.sportpro.it.
Sul linciaggio di Donato Carretta: www.ancr.to.it; www.luchinovisconti.net
Sulle mondine, oltre ai racconti sentiti da alcune donne che avevano
fatto in gioventù quel mestiere, ho consultato: http:/freeeweb.superava.com/mondine.freeweb/lavoro.htn.
Sulle Brigate Rosse, oltre ai ricordi diretti e alle esperienze vissute, ho
consultato:
http://www.brigaterosse.org/brigaterosse/documenti
http://www.bibliotecamarxista.org;
Nanni Balestrini e Primo Moroni, L’orda d’oro – 1968 - 1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa politica ed esistenziale, Sugarco
Edizioni;
Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, Che cosa sono le BR. Le radici, la nascita, la storia, il presente, ed. BUR
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Ringraziamenti
Il mio ringraziamento sentito per avermi invogliato a scrivere va all’amico
Annibale Paloscia, con il quale ho vissuto molti degli eventi degli “anni di
piombo”, lui da giornalista, io da poliziotto.
A Simona Mammano la mia gratitudine per la maniera partecipe in cui ha
seguito la pubblicazione.
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INDICE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5
A piazza San Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
Stile Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19
L’Organizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77
Ancora in piazza San Giovanni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 260
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267
Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 269
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NELLA STESSA COLLANA
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12:58
Pagina 276
VOGLIO VIVERE COSÌ
di ANSOINO ANDREASSI
Collana diretta da SIMONA MAMMANO e ANTONELLA BECCARIA
Progetto grafico ANYONE!
Impaginazione ROBERTA ROSSI
© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Casella postale 97 – 01100 Viterbo
fax 0761.352751
e-mail: [email protected]
ISBN 978-88-6222-115-3
Finito di stampare nel mese di gennaio 2010
presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)
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