Wrecker
Pasquale Semeraro
PASQUALE S EMERARO
WRECKER
Questo romanzo è dedicato a Stefano Sbizzera
Questo documento è frutto della fantasia dell’autore,
così come lo sono i nomi dei protagonisti, i personaggi
e i luoghi. Tutti gli eventi citati nel testo sono prodotti
dall’immaginazione dell’autore e, se reali, sono stati
usati in modo fittizio.
Ogni riferimento a fatti e persone viventi o scomparse è
puramente casuale.
Alcuni capitoli sono caratterizzati da un alto contenuto
erotico e la lettura è consigliata a un pubblico adulto e
senza nessun pregiudizio sul genere.
Tutti i diritti sono riservati.
L’autore concede la stampa in proprio del documento e
la diffusione gratuita del file tramite e-mail.
Per ogni altro utilizzo è necessaria l’autorizzazione
scritta dell’autore, reperibile agli indirizzi e-mail
[email protected] e [email protected]
o al fax 02700420618.
Foto di copertina: Collezione Guido Alfano.
Ringraziamenti
Ogni opera letteraria riceve diversi contributi oltre a quello
dell’autore. Quest’opera non fa eccezioni.
Devo la realizzazione di questo racconto alla mia compagna, e spero futura moglie, Roberta: senza il suo incoraggiamento a scrivere non avrei mai cominciato; suo è tutto il lavoro
di impaginazione del testo e delle foto.
A Lugo Marino del Centro Documentazione RCS e all’amico
Paolo Ferrari devo le informazioni sulle vicende delle navi trattate nel testo.
Ringrazio Achille Rastelli e Guido Alfano per avermi concesso di utilizzare foto della loro collezione per completare la
galleria fotografica, oltre ad avermi fornito validi ragguagli
sulle unità irachene.
Ringrazio Giorgio Isidoris per avermi fornito le prime rudimentale nozioni sul rebreather.
Devo all’ingegnere Biagio De Marzo, primo comandante di
macchina del Vittorio Veneto e attivo Direttore del Progetto
“Nave Vittorio Veneto-Museo del Mare nel Mare”, le informazioni sulla nave e i momenti di vita a bordo; oltre a un’attenta
correzione delle bozze. A lui il mio più sincero augurio di riuscire a salvare il Veneto dalla fiamma ossidrica.
A Guglielmo Scaiola devo la coerenza del romanzo, i suoi
consigli si sono rivelati preziosi come il suo incoraggiamento a
scrivere.
Ad Alessandro Fenu e Marco Segatto devo le informazioni
sul loro giocattolo, lo scooter Zeuxo.
Di grande utilità mi sono stati i disegni della nave, acquistati dall’Associazione Navimodellisti Bolognesi.
A Sergio Pivetta e Gianluca Mirto devo la possibilità di rilasciare tramite il loro sito www.relitti.it la versione completa del
romanzo.
Consigli per la lettura
Note dell’autore
In Wrecker sono descritte strutture e attrezzature singolari
ma esistenti. Immagini delle navi trattate nel romanzo, sono disponibili sul sito www.relitti.it; ad essa è dedicata una
galleria fotografica in formato pdf.
Non sono un romanziere, ma semplicemente una persona che ha scritto un romanzo.
Chi volesse approfondire le proprie conoscenze sui rebreather e i trascinatori subacquei, può farlo visitando i siti
web:
www.rebreather.it
www.suex.it
La trama è frutto della mia immaginazione. Come
ogni scrittore, ho costruito una storia ambientandola
in un contesto reale e ho inventando i personaggi attingendo alla cerchia delle mie conoscenze e amicizie.
Ovviamente l’incrociatore Vittorio Veneto non è stato affondato e spero mai lo sarà. Mi auguro con tutto
il cuore che La Fondazione Ammiraglio Michelagnoli e la Marina Militare riescano a salvare questa
spendida nave, vanto della nostra nazione da diversi
lustri.
Si dice che augurando la morte a una persona in realtà gli si allunghi la vita; spero che l’aver scritto dell’affondamento del Veneto conceda alla nave l’immortalità, permettendo a tutti noi di ammirarla negli
anni a venire ormeggiata a una banchina, intenta ad
accogliere i figli e i nipoti di coloro che l’anno resa
viva e operosa.
PROLOGO
043°51’,661N
008°04’,581E
2 mg x 141° al largo di Oneglia
SERRARONO il portello e un tonfo sordo, metallico, esplose
nella testa di Stefano, rimbombando come un rimprovero
divino.
Sapeva che tutta quella sporca faccenda non si sarebbe
dissolta come l’eco del tonfo. Se fosse uscito vivo da quel
barilotto metallico avrebbe dovuto fornire esaurienti spiegazioni su quanto accaduto. Spiegazioni, poiché di risposte certe non ne aveva; per la smania di scoprire cosa si nascondesse là sotto aveva sacrificato la salute irreversibilmente e forse la sua stessa vita.
La pressione aumentava lentamente e Marietto gli occludeva le narici, per farlo compensare, mentre la mente
vagava alla ricerca di giustificazioni plausibili.
A fatica cercava di immaginare cosa avrebbe raccontato
al magistrato che conduceva le indagini sulla morte del
suo amico Paolo, come avrebbe spiegato a Nico la distruzione del loro prototipo o come avrebbe giustificato a famigliari e amici lo stato in cui si trovava.
Ma le spiegazioni più convincenti le doveva a se stesso,
come giustificare la perdita di altre vite umane di cui era
responsabile.
Benché si concentrasse, una valanga di immagini gli invase il cervello, impedendo ogni pensiero. Gli eventi degli ultimi giorni gli passavano davanti agli occhi come in un film.
Wrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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D’improvviso ebbe un sussulto.
E se fosse il film della vita, quello che i moribondi vedono prima di esalare l’ultimo respiro? Si chiese digrignando i denti, l’unica parte del corpo che riusciva a muovere.
Si rassegnò, nelle sue condizioni non poteva fare altro
che guardarlo. E sperare.
CAPITOLO UNO
VARO DEL VITTORIO VENETO
VENTUNO salve di cannone sparate dal “Duilio” salutarono
il varo dell’incrociatore lanciamissili Vittorio Veneto.
La mattina di quel 5 febbraio 1967 fu, per Castellammare di Stabia, indimenticabile.
La notizia del varo occupò le prime pagine di tutti i
quotidiani, e il Corriere della Sera mandò come inviato
speciale nientemeno che Dino Buzzati.
Madrina d’eccezione fu Ernestina Santacatterina
Saragat, figlia del Presidente della Repubblica, accompagnata oltre che dalle più alte cariche dello Stato, anche dalla piccola figlia Giuseppina.
La bella nave grigia fresca di pittura si pavoneggiava
sullo scalo della Navalmeccanica, attorniata da altre imponenti costruzioni rosse di antiruggine e agghindate di impalcature, impazienti del loro momento.
Al termine dei discorsi di rito la madrina, visibilmente
emozionata, si avvicinò al tavolo con i nastri da tagliare.
Con una piccola accetta d’argento recise il cavetto collegato alla bottiglia di spumante piemontese. La bottiglia si
ruppe esplodendo contro la prua in un festoso artificio di
spuma. Fu allora che il direttore del varo, minuscolo, in tuta bianca sotto il bulbo della nave pronunciò le fatidiche
parole: «In nome di Dio, taglia!»
Per ordine dello stesso direttore erano già state demolite
le taccate laterali e liberata la linea di varo a poppa: non restava che dare l’ultimo colpo.
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Wrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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Ernestina Santacatterina tagliò con un colpo netto il cavo collegato ai martinetti elettrici e dopo pochi secondi di
ansioso silenzio la nave si mosse, accompagnata ora da
grida e sirene.
La chiglia fendette l’acqua dolcemente di poppa fino a
sprofondarvi tutta, a rimanere dritta, altezzosa e marziale,
come si addice ad una nave ammiraglia.
Le salve del Duilio, in rada con le fregate Centauro e
Cigno, resero omaggio al quarto incrociatore lanciamissili
della Marina Militare Italiana dopo il Garibaldi, il Doria e
lo stesso Duilio.
Il Capitano di Vascello Marulli, comandante della nave
appena varata, poteva essere orgoglioso del nome dell’unità. Un’altra ammiraglia portava lo stesso nome e ai tanti
anziani ufficiali, rimasti nelle ultime file del palco d’onore,
tornavano alla mente le immagini della corazzata.
Quarantacinquemila immense tonnellate di orgoglio italiano che fendevano, come una baionetta, il mare in guerra.
Uno di essi le immagini le rivedeva sfuocate da un velo
di lacrime che gli lucidavano gli occhi azzurri e tristi, la
notte del 28 marzo 1941 l’ammiraglia fu ferita da un siluro
inglese. Era la battaglia di Capo Matapan, e quella notte
l’ammiraglio Jachino era al comando dell’unità.
Quattromila tonnellate di odio inglese invasero lo scafo,
ma la nave tornò a Taranto con le sue forze filando a 19
nodi.
La vecchia Vittorio Veneto fu disarmata il 3 gennaio
1948.
Diciannove anni dopo, poche gocce di silenziosa emozione accompagnano il battesimo della nuova ammiraglia.
Il Vittorio Veneto rappresentò in quegli anni la tappa
più prestigiosa di uno sforzo costruttivo tenace e determinato. Il piano di ricostruzione della Marina Militare proce-
deva, malgrado la scarsità di fondi, incrementando anche
qualitativamente l’organico delle unità.
179 metri di lunghezza, 19,40 di larghezza per 5,24 metri di immersione, il Vittorio Veneto poteva contare su un
apparato motore da 73000 cavalli composto da turboriduttori Tosi alimentati da quattro caldaie Ansaldo-Foster
Wheeler, capaci di imprimere allo scafo 32 nodi di velocità, con un’autonomia di 5000 miglia a 17 nodi. Costruito
in piena guerra fredda era in grado di attraversare ambienti
contaminati da radiazioni nucleari. L’intera nave poteva
essere isolata dall’esterno e condotta senza che il personale si esponesse alle radiazioni. Dalla centrale di propulsione, un ambiente isolato dall’esterno situato a centro nave,
pochi uomini potevano condurre la nave senza essere presenti fisicamente in sala macchine.
All’avanguardia erano tutti i sistemi d’arma e di controllo installati durante l’allestimento terminato nell’estate
del 1968.
Nel 1983 i lavori di mezza vita e i conseguenti rimodernamenti e grandi lavori la resero bella come il primo giorno, permettendo alla nave di rimanere in servizio oltre il
Duemila.
Ora il Veneto, così lo chiamano in Marina, può vantare
un armamento di tutto rispetto: sei elicotteri AB 212 ASW
o 4 SH-3D con disponibilità di un ponte di volo di 48 per
18,5 metri; missili di superficie Teseo; missili superficiearia Standard SM-1; missili ASW ASROC; 8 cannoni da
76/62; 3 impianti binati da 40/70; 2 lanciarazzi SCLAR da
105 mm; 2 lanciasiluri trinati da 324 mm.
L’elettronica di bordo comprende radar di scoperta e ricerca aerea, radar di scoperta di superficie, radar di navigazione, radar meteo, radar guidamissili, sistema a guida radar per artiglierie, sistemi di comando e controllo, sistemi
contromisure antiaeree e antisommergibile e sonar.
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Wrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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Come per le persone anche per le navi è più facile ricordare i cattivi episodi che quelli buoni, così per il Veneto furono versati fiumi di inchiostro quando si arenò in Albania
mentre poche parole si spesero in occasione di missioni
umanitarie come quella lungo le coste vietnamite nel 1979
o quella in Somalia molti anni dopo.
Il mese di aprile del 1997 non è stato dei migliori per la
Marina Militare Italiana; il Venerdì Santo la corvetta
Sibilla, a trenta miglia dalla costa pugliese, sperona e affonda involontariamente un’imbarcazione carica di profughi albanesi, muoiono 80 civili; alcuni giorni dopo nave
San Giusto, durante l’evacuazione di profughi da Durazzo,
urta un relitto sommerso e si procura uno squarcio nella
fiancata; poi, il 22 aprile, il Veneto finisce incagliato in
dieci metri di fondale nella baia di Radima, tra la penisola
di Karaburun e l’isola di Sazan.
La stampa nazionale e internazionale ricamarono sull’incidente grotteschi servizi, basati su resoconti di albanesi risentiti e adirati, ai danni di una Marina Militare sempre
in prima fila.
Dell’incidente ROMA, così lo ha classificato la
Magistratura militare, l’unico a subirne le conseguenze fu
il comandante della nave; l’unità non riportò alcun danno.
Il comandante si assunse tutte le responsabilità del caso
come compete per legge ad ogni comandante, ma soprattutto per scagionare l’equipaggio. In Marina ti fanno le
spalle grandi e ti insegnano a prenderti la colpa, anche
quando non è tua.
Il comandante, un Capitano di Vascello pescarese, al
comando del Veneto da ventidue mesi, chiese e ottenne di
essere trasferito con tre mesi di anticipo alla sua nuova destinazione, capo divisione della direzione generale del personale.
Il luogo dell’incidente è famoso per le condizioni cli6
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matiche imprevedibili, il vento si alza d’improvviso e anche i pescatori di Ulqini, i migliori sulla costa tra Saranda
e la Jugoslavia, evitano di ancorarvi. La baia fu per anni la
casa inespugnabile di un feroce pirata Haxli Ali, il terrore
del Canale d’Otranto.
Il Vittorio Veneto non fu l’unica nave ad arenarsi sospinta da un vento di cinquanta nodi e mare forza nove:
dieci anni prima era toccato a una nave italiana, vent’anni
prima era toccato a un dragamine russo, trent’anni prima a
un cargo sovietico. E se il Veneto non subì alcun danno,
sorte peggiore era toccata a un’altra nave italiana in un’altra zona della baia di Valona. Nel novembre 1915 la corazzata Regina Margherita scarroccia, l’ancora ara nella sabbia e la nave finisce su un campo di mine posato dagli stessi Italiani. Fu una strage, morirono 650 dei 900 marinai
imbarcati.
Dopo l’incidente in Albania la vita del Veneto proseguì
senza altri brividi fino al momento del disarmo. Da anni un
determinato manipolo di uomini si adoperava perché non
diventasse “lamette da barba” o rotaie.
La Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli
Onlus, da tempo lavorava all’attuazione di un progetto ardito e unico in Italia, convertire l’incrociatore in Nave
Museo in Mare.
Il progetto, ideato da due Tarantini, un docente universitario di biologia marina e un ingegnere navale, primo direttore di macchina del Veneto, aveva per nome “Nave
Vittorio Veneto – Museo del Mare nel Mare” e consisteva
nel convertire l’incrociatore in nave museo in mare con finalità scientifiche, culturali, educative e turistiche.
Il Veneto si sarebbe prestato egregiamente a tale compito in quanto rappresentava un importante patrimonio di
tecnologia navale. Con i suoi ampi spazi ben si prestava ad
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esporre la tecnologia, la vita di bordo e le attività della nave, abbinandole a simulazioni o attività multimediali.
L’attuazione del progetto prevedeva la divisione della
nave in diverse aree: il percorso museale, il centro scientifico e tecnologico per gli usi del mare e il centro congressi
oltre a ovvie attività collaterali come reception bar, ristorante, internet point, e altre attività attrattive date in gestione a privati.
Il percorso museale prevedeva la visita a aree significative attrezzate per simulare le condizioni operative dell’unità, apparati attivi e manichini avrebbero riprodotto la vita di bordo. Il percorso comprendeva: plancia, centrale
operativa di combattimento, centrale caricamento missili,
stazione antisommergibile, locale radio, cannoni, sistema
antimissile, depositi munizioni, hangar con elicotteri dismessi, sala macchina, locale caldaia, centrale di propulsione, officine, centrale antincendio, ospedale, cala nostromo,
cucine, alloggi Ammiraglio, Comandante, Ufficiali,
Sottufficiali e Marinai, quadrato ufficiali, quadrato sottufficiali, mensa equipaggio. Avrebbero integrato il percorso
museale la biblioteca, l’acquario, sale storiche della
Marina Militare e di quanto altro pertinente il mare, sale di
proiezione multimediale. Il visitatore si sarebbe immerso
nelle attività interagendo con diversi videogiochi che simulavano le attività di plancia comando, navigazione, operazioni subacquee e di tiro.
Attraverso il centro scientifico e tecnologia per il mare
e il centro congressi, il mondo accademico avrebbe disposto attraverso Nave Veneto di spazi divulgativi, di aree di
sviluppo e di formazione post universitaria e locali per
l’addestramento del personale marittimo.
L’allocazione prevista della nave museo era Taranto, la
sistemazione finale sarebbe dipesa dalla definizione del
progetto urbanistico URBAN II, e si ipotizzavano due siti,
uno in Mar Grande e uno in Mar Piccolo, entrambi con pro
e contro.
Il progetto di fattibilità tecnica, economica e finanziaria, relativo alla trasformazione della nave, aveva prodotto
un preventivo di diversi milioni di Euro per la trasformazione e l’adeguamento della nave alle normative di sicurezza, per le infrastrutture per l’ormeggio e per la musealizzazione delle aree.
Si prevedeva anche che le risorse necessarie a far vivere
la nave museo non erano inferiori a quelle per farla nascere. La realizzazione del progetto dipendeva da una legge
dello Stato che assicurasse il gettito necessario alla gestione della nave museo per la quale si proponeva la creazione
di un ente gestore controllato dalla Fondazione
Michelagnoli. Al sovvenzionamento del progetto avrebbe
concorso anche il contributo di privati, aziende e associazioni, coordinati dalla costituenda associazione “Nave
Vittorio Veneto – Museo del Mare nel Mare”. Nel mondo,
tramite questo meccanismo furono acquisite diverse navi,
diventate in seguito navi museo, l’incrociatore Belfast a
Londra, l’incrociatore Colbert a Bordeaux, la corazzata
Missouri a Pearl Harbour.
Prerequisito fondamentale per l’attuazione del progetto
“Nave Vittorio Veneto – Museo del Mare nel Mare” era
che lo Stato riconoscesse ufficialmente lo status di Cimelio
Storico alla nave dismessa e che tale Cimelio fosse affidato alla Fondazione Michelagnoli o a una prestigiosa istituzione museale.
A fronte di tanto impegno e dedizione si contrappose
l’indisponibilità di fondi e la crisi di governo. La schiera di
parlamentari che appoggiavano il progetto con le nuove
elezioni si ritrovò in netta minoranza e la legge non fu
nemmeno presentata alla Camera.
Per l’incrociatore Veneto si profilava la stessa agonia
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del Duilio, ancorato per anni a Porta Manarola nell’Arsenale di Spezia e demolito in Spagna come rottame.
Ma il destino fu clemente e concesse al Veneto l’onore
di servire il suo Paese anche dopo essere stato radiato dal
naviglio della Marina Militare Italiana.
CAPITOLO DUE
DOMENICA
LA LUCE del tramonto tingeva di rosa la divisa bianca del
marinaio della Capitaneria di Porto; prima di suonare il
campanello si sistemò in qualche modo, stirando verso il
basso la camicia e tirando su i calzoni per la cintura, infine
si passò le mani tra i capelli corti ormai pressati dal berretto. Si sentiva emozionato il giovane, come ad un appuntamento galante.
Il campanello trillò insistentemente tre volte, prima che
Stefano Tixera andasse ad aprire; il giovane marinaio, di
stanza alla Capitaneria di Imperia, si tolse il cappello
quando vide il padrone di casa.
Riempì a sufficienza gli esili polmoni poi disse:
«Dovrebbe venire al comando, è successo un incidente sul
relitto. Abbiamo tentato di telefonarle, ma il suo cellulare è
irraggiungibile.»
«L’ho dimenticato nel mio ufficio al consorzio, sarei
tornato a prenderlo questa sera», rispose Stefano, notando
che il marinaio spostava lo sguardo al di sopra della sua
spalla cercando di intravedere quell’essere che turbava i
sogni di quanti lavoravano nella zona del porto o avessero
a che fare con il consorzio.
L’oggetto di tanta attenzione era impegnato nella stiratura di alcuni indumenti e attendeva che Stefano la informasse su chi avesse suonato e che cosa volesse, raramente
venivano disturbati nella loro dimora. Proprio per questo
ogni volta che poteva si concedeva una certa libertà nel ve10
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stire e al momento indossava una T-shirt nera che arrivava
alle natiche, coprendole, a patto che non si inclinasse in
avanti; era scalza come sempre in casa.
Stefano ritirò la porta dietro di se a tutela della privacy
della sua compagna e chiese al marinaio: «Cosa è successo?»
Il marinaio riempì di nuovo i piccoli polmoni dilatando
il torace ossuto e riferì: «Il comandante Santi mi ha incaricato di informarla che un ricercatore, immersosi sul relitto
non è riemerso. La sua guida è rientrata a dare l’allarme
ma è in stato di shock.» Il marinaio, finito di parlare si rilassò assumendo quasi la posizione di riposo, e attese che
l’uomo di fronte aggiungesse qualcosa.
«Hanno cominciato le ricerche?» chiese Stefano al magro marinaio, il quale riprendendo la posizione di attenti
riferì: «Una nostra pilotina sta battendo il campo boe, ma il
mare sta ingrossando e tra poco dovranno rientrare; il comandante vuole discutere con lei una futura strategia di ricerca del cadavere.»
Il comandante Santi dirigeva la Capitaneria di Porto da
due anni e sapeva che Stefano conosceva il relitto meglio
di chiunque altro, inoltre era il direttore del consorzio che
ne controllava le immersioni; più che sensato che fosse lui
a seguire le ricerche coadiuvato dal personale della
Capitaneria di Porto.
«Ha con sé un cellulare?» chiese Stefano al marinaio di
fronte visibilmente emozionato, che sorpreso dalla domanda rimase in silenzio con aria sbigottita.
«Il mio è scarico, devo chiamare una persona per organizzare le ricerche, mi presta il suo cellulare?» insistette
Stefano.
Per tutta risposta il marinaio rimase in silenzio ed
estrasse il suo minuscolo Star Tac dalla tasca dei pantaloni
porgendolo a Stefano, ormai spazientito.
«Sa come si usa?» chiese il marinaio che si sentì rispondere in modo seccato: «Ne ho uno uguale!»
Digitò velocemente il numero di Bambinoricco, uno dei
suoi collaboratori, e attese che rispondesse.
«Ciao Bambinoricco, dove sei? Bene! Senti abbiamo un
problema, c’è stato un incidente sul relitto, fammi una cortesia, vai alla base mare e prepara la mia, la tua e l’attrezzatura di Tarja e aspettaci là, forse c’è da ripescare un cadavere.» Stefano era sicuro che il suo collaboratore si sarebbe precipitato sul posto. Rese il cellulare al marinaio e
lo congedò dicendogli che si sarebbe presentato dal comandante Santi tra 15 minuti. Mentre il marinaio si avviava all’auto, lungo il vialetto, chiese al suo messaggero chi
fosse il ricercatore disperso, il marinaio voltandosi disse:
«Credo di tratti di un certo Paolo Molli.»
Porca zozza, pensò tra se Stefano e aggiunse: «E la guida chi è?»
Il marinaio si voltò completamente e portando le mani
agli occhi, mimando la forma del binocolo disse: «La
bionda, quella con gli occhi truccati che sembra un panda.» Prima di abbozzare una qualsiasi espressione il marinaio attese di vedere quella di Stefano che al pensiero precedente aggiunse porca porca zozza. Il marinaio capì che
non era il caso di aspettare, si voltò e se ne andò.
Prima di entrare in casa e riferire alla sua compagna
quanto accaduto, Stefano si portò nell’angolo di giardino
che permette di vedere il mare, da un’altezza di circa 200
metri dominava diverse miglia di mare aperto ma la vista
panoramica non comprendeva il campo boe del suo relitto,
troppo vicino alla costa. Il vento aveva mollato per qualche ora nel pomeriggio, ma col sopraggiungere del tramonto aveva ripreso a soffiare dal largo, impedendo le immersioni. Così sarebbe stato per altri 2 o 3 giorni, almeno
secondo le previsioni.
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Al largo appariva di rado qualche cresta bianca, con il
passare del tempo sarebbero aumentate e uscire sarebbe
stato impossibile.
Benché fosse la metà di ottobre il vento era ancora caldo, di quello che arriva dall’Africa e allunga l’estate di
qualche settimana; quell’anno il clima aveva regalato una
stagione favolosa, la migliore degli ultimi anni, forse ora
era arrivata l’ora di pagare il conto alla natura.
Stefano rientrò nella casa di legno, informò la sua compagna di quanto successo; Tarja, da buona nordica, non fece domande inutili, si infilò la tuta, le scarpe e in pochi minuti entrambi furono sul furgone del consorzio diretti al
porto.
Alla sede dalla Capitaneria trovarono il comandante
Santi, due guardiamarina e il marinaio che aveva avvisato
Stefano; in un angolo dell’ufficio, molto agitata e silenziosa, Marisa aspettava che si facesse qualcosa. Per la prima
volta il pesante trucco nero usato per sottolineare gli occhi
verdi si era scomposto, Marisa ne usava un tipo speciale,
non si scioglieva nell’acqua e lo usava anche per fare le
immersioni o nuotare in piscina, un piccolo vezzo per sentirsi a posto in ogni momento. Ora tutto colava, rigando gli
scarni zigomi di arabeschi neri, le lacrime di quel giorno
erano particolarmente acide e amare, e non avrebbero intaccato solo il rimmel di Marisa.
Il comandante Santi mise al corrente di quanto successo il
direttore del consorzio e la sua assistente, aggiornando le informazioni all’ultimo minuto di ricerca della pilotina, poi si
diressero verso la donna sconvolta nell’angolo della stanza.
Stefano, avvicinandosi a Marisa in lacrime, chiese cosa
fosse successo là fuori; prima di abbozzare un tentativo di
risposta, Marisa fece due brevi respiri, cercando di annegare il singhiozzo che pareva dovesse riprendere da lì a momenti, poi cominciò a raccontare.
«Siamo usciti alle 16.30, Paolo doveva rilevare i valori
dello spostamento dei sedimenti, come faceva di solito. Si
è immerso dalla boa numero sei. Dopo mezz’ora non era
ancora riemerso, ho cominciato a guardare intorno per vedere se si vedevano le bolle, ma non vedevo nulla, il mare
era mosso.»
Stefano la interruppe con una domanda: «Oggi le immersioni sono vietate, la boa rossa è accesa, di chi è stata
l’idea di uscire con il mare così mosso? Tua o sua?»
Marisa aspirò due lacrime attraverso il naso poi rispose:
«Siamo stati insieme tutto il giorno, quando ha visto il mare calmarsi un po’, verso le 15.30, mi ha chiesto se lo portavo sul relitto per contare le tacche. Ho chiesto il gommone a Tino e lui ce lo ha dato.»
Proprio in quel momento entrò nell’ufficio Tino Corsi,
proprietario del diving Delfino Rosa, il diving in cui
Marisa faceva la guida, e proprietario del gommone.
Salutò i presenti che conosceva bene e in silenzio attese
che la conversazione tra Stefano e Marisa terminasse. La
presenza di Tino non passava mai inosservata, vuoi per la
mole, vuoi per il carattere espansivo plasmato da anni di
servizio come capovillaggio in Mar Rosso.
Stefano riprese l’informale interrogatorio domandando:
«Tino sapeva cosa avreste fatto col gommone?»
«No non lo sapeva, ce lo ha dato e basta!» precisò
Marisa.
Stefano, ritenendo di aver concluso quella breve indagine, si rivolse al comandante e a Tino dicendo: «Signori, la
situazione è questa: da circa due ore risulta disperso Paolo
Molli, il geologo, che si è immerso sul relitto per effettuare
delle misurazioni. Se si trova in superficie dovrebbe trovarlo la pilotina della Capitaneria che si trova sul campo
boe da circa un’ora; considerando che mare e corrente
spingono verso costa, a quest’ora dovrebbero averlo già
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trovato, ma così non è. Se si trova sott’acqua è morto e non
vi è più nulla da fare.» Per Stefano non era piacevole pronunciare quelle parole, conosceva Paolo Molli da molto
tempo, da prima che si formasse il consorzio Vittorio
Veneto; insieme facevano parte del direttivo di
LegAzzurra, l’associazione ambientalista che aveva appoggiato la realizzazione del progetto Vittorio Veneto.
«Comandante», disse Stefano rivolgendosi al capitano
Santi, «ci permetta di effettuare un’immersione di ricerca
ora, prima che il mare aumenti; se Paolo è sceso per contare le tacche sulla fiancata della nave potrebbe essere nelle vicinanze. La corrente arriva da fuori e lambisce il relitto di
traverso; se Paolo ha avuto un malore in prossimità della
fiancata sinistra, la corrente lo avrà spinto contro la murata
e sarà lì; se ha avuto un malore sulla fiancata di destra, la corrente sul fondo sarà nulla perché lo scafo impedisce il flusso, quindi il corpo sarà lì, fermo vicino alla murata. Ci faccia tentare subito, se è in uno di questi due punti lo recuperiamo ora, altrimenti non so quando lo troveremo.» Il comandante Santi era responsabile della salvaguardia della vita in mare nel suo comprensorio, e di rischiare la vita di altre persone per un cadavere non ne voleva nemmeno discutere. Riconosceva, però, nell’idea di Stefano una certa valenza pratica. Pensò per qualche minuto al da farsi, poi rivolgendosi a Stefano acconsentì alla sua richiesta formulando un’ulteriore domanda: «Come intende agire?»
Stefano aveva già elaborato un abbozzo di piano, e lo
espose ai presenti.
Prima di iniziare chiese a Marisa: «Quanta benzina è rimasta nel gommone di Tino?»
«Mezzo serbatoio», rispose con un filo di voce la bionda dagli occhi cerchiati.
«Bene», disse Stefano proseguendo la spiegazione del
piano.
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«Useremo quello perché se il mare ingrossa è più facile
risalire che sulla pilotina; lo porterà Tino, Tarja rimane a
bordo con lui per aiutarci a risalire o tirar su il cadavere, io
e Bambinoricco ci immergiamo e diamo un’occhiata alle
fiancate della nave; se uno di noi lo trova, gli aggancia un
pallone segnasub dei nostri e lo spara su.» Stefano si fermò
un istante poi aggiunse: «Se il mare ingrossa e non ci è
possibile salire a bordo con l’attrezzatura da sub, la togliamo e la lasciamo cadere sul fondo assieme ai piombi, le recupereremo appena torna sereno.» Aggiunse solo la domanda di rito: «Avete domande da fare?»
Tutti scossero lentamente il capo e attesero il via dell’operazione.
Stefano non tardò nel farlo dando appuntamento alla loro Base Mare, dove Bambinoricco stava attendendo il suo
capo, seduto di fianco alle attrezzature già assemblate.
Prima di uscire dall’ufficio della Capitaneria Stefano
chiese al comandante Santi se qualcuno avesse avvertito la
famiglia di Molli; il militare annuì, la moglie era stata informata pochi minuti prima che lui arrivasse, era appena
rientrata da una visita alla madre, in una casa di riposo di
Genova, aveva con se i bambini e non aveva nessuno a cui
lasciarli, il mattino seguente si sarebbe presentata al comando.
Appena Stefano e Tarja arrivarono al piccolo edificio
adibito a diving del consorzio, videro Bambinoricco alzarsi e avvicinarsi con passo svelto. Non attese molto prima
di cominciare con le domande, a quattro metri di distanza
chiese: «Che cosa è successo?»
Stefano tirato in volto cominciò a parlare tentando di rispondere anche alle future domande, prima che venissero
concepite dalla mente di Bambinoricco.
«Paolo è rimasto sotto», disse «te la senti di scendere a
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cercarlo?» Stefano continuò a parlare, senza attendere la
risposta che dava per scontata e che non poteva essere diversa da un sì.
Aggiunse: «Partiamo da qui con il gommone di Tino,
viene a prenderci tra qualche minuto, ci mettiamo l’attrezzatura da qui, in modo che se si balla non ci resta che buttarci in acqua, scendiamo sulla boa sei, lo cerchiamo per
tre minuti e poi risaliamo; se Paolo è stato male mentre
eseguiva il suo compito lo troveremo lì, altrimenti lo ripeschiamo quando molla questo tempo. Niente decompressione, c’è corrente ed è meglio stare lontani dalle boe, se ci
colpiscono è come essere investiti da un’auto; se in superficie ci sono problemi, lascia affondare i piombi e il gav, lo
recuperiamo dopo. Il gommone ci aspetta tra la boa numero tre e la quattro. Tutto chiaro?»
«Chiaro», rispose Bambinoricco aggiungendo: «Tra poco sarò buio, portiamo le torce e le cyalume?»
Stefano pensò qualche secondo poi rispose: «Sì prepara
le torce, l’idea delle cyalume è buona, fissane due alla maschera così quando emergiamo ci vedono meglio, rosse tu
verdi io.» Il ragazzo annuì in risposta e preparò le cyalume. Mentre i due uomini si preparavano ad indossare le
mute stagne, Tarja portò le attrezzature sul bordo del molo
dove, a minuti, avrebbe attraccato il gommone di Tino.
Benché fosse una donna era naturale per lei spostare la pesante attrezzatura subacquea, il suo fisico plasmato da anni
di body building era una efficiente macchina sportiva, insensibile allo sforzo e alla fatica.
La configurazione standard per i membri del consorzio
era composta da monobombola da 18 litri caricata con trimix al 18 per cento di ossigeno e il 45 per cento di elio, assemblata su schienalino in acciaio con GAV Pioneer della
Halcyon e erogatori Poseidon Cyclon di cui il primario
con frusta lunga, muta a scelta del sub, stagna o semista-
gna, torcia su spallaccio, coltello alla cintura e forbice. Lo
strumento da polso era l’Aladin per le immersioni in aria o
a scelta dell’operatore nelle immersioni con miscela.
Terminato il facchinaggio Tarja entrò nel locale dove i
due uomini si stavano cambiando, prese la sua muta stagna, si sedette sulla panchina rimasta libera si tolse le scarpe e cominciò ad indossarla sopra la tuta da ginnastica, con
quella addosso sarebbe rimasta asciutta e se fosse caduta
in acqua sarebbe rimasta a galla senza problemi.
Mentre i due uomini già vestiti si chiudevano a vicenda la
cerniera della muta, il gommone di Tino annunciò il suo
arrivo con un brontolio sommesso. A quel richiamo tutti
uscirono dal locale e cominciarono a caricare le attrezzature subacquee sul gommone. Tarja si avvicinò a Stefano e
voltandosi di spalle fece segno di chiuderle la cerniera della muta; una volta chiusa si girò verso l’uomo e disse: «Tu
promette che fa bravo e torna in barca?»
Le preoccupazioni della donna mal si celavano dietro
quelle goffe e semplici parole, Stefano rispose con un tenero bacio, senza aggiungere altro.
Il sole avvisava con un bagliore sempre più rossastro la
sua imminente scomparsa. Mentre i due uomini cominciavano a indossare le bombole e il resto dell’attrezzatura,
Tino prese i comandi del gommone e iniziò a percorrere il
braccio di mare lungo il molo, appena usciti in mare aperto
le onde avrebbero dato inizio alle danze.
Il vento aumentava ma il cielo era limpido, una bella
giornata di mare mosso.
Il gommone uscì dal porto solo quando i due furono
pronti, indossavano le pinne e tutto il resto, la maschera
era appoggiata sulla fronte, pronta a coprire gli occhi prima del tuffo. Dopo dieci minuti di navigazione da mal di
mare, sferzati da raffiche di vento e spruzzi d’acqua salata,
il gommone raggiunse il campo boe. In vicinanza della boa
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numero sei Stefano si buttò in acqua per primo e scomparve immediatamente sotto la superficie; il tempo di vedere
le bolle allontanarsi e Bambinoricco fece lo stesso. Al margine del campo boe incrociava la pilotina della Guardia
Costiera, aveva avuto l’ordine di restare sul posto e attendere la conclusione delle ricerche subacquee prima di rientrare; il programma non entusiasmava l’equipaggio, ma
nessuno si lamentò.
Otto metri sotto la superficie del mare il moto ondoso
era impercettibile; solo le catene delle boe, ancorate 50
metri più in basso a corpi morti di cemento, sentivano l’influenza delle onde, penzolando su e giù. I due sub si lasciarono sprofondare fino alla coperta della nave, la visibilità era ottima ma il buio impediva loro di vedersi, a tratti
appariva in lontananza la debole luce delle torce. Entrambi
seguirono le murate dello scafo in prossimità del fondo,
dove era più probabile trovare il cadavere di Paolo, sulla
fiancata infatti vi erano le tacche di metallo che servivano
a Paolo per misurare lo spostamento del sedimento in relazione ai moti del mare.
Sfiorare il fondo in prossimità della chiglia dava l’impressione di essere alla base di una parete, il campo visivo
era di alcuni metri il che permetteva di staccarsi dalla murata del relitto.
Dopo tre minuti di permanenza sul fondo iniziarono a
risalire. Paolo non era stato trovato.
Bambinoricco emerse molto vicino al gommone, le onde sballottavano qualunque cosa galleggiasse e ciclicamente il sub e il gommone finivano per scontrarsi.
«Togli la bombola», gridò Tino dal posto di guida.
Bambinoricco non capì cosa avesse detto ma si tolse la
bombola, come aveva ordinato Stefano, vi agganciò la cintura dei piombi e fece sprofondare il tutto in fondo al mare,
sarebbero tornati a recuperarlo insieme al corpo di Paolo.
Libero da ogni impaccio si diresse verso il gommone, appena vicino afferrò una delle cime saldate al tubolare, tentò di issarsi a bordo ma venne agguantato da quattro mani
forti e imbarcato come un tonno. Tarja in quanto a forza ne
aveva da vendere e Tino era un rude uomo di mare.
Appena in barca Bambinoricco si tolse le pinne e chiese
di Stefano che, proprio in quel momento apparve in superficie.
«Eccolo», gridò Tarja, indicando il cappuccio nero e
rosso con le due cyalume verdi appese al lacciolo della
maschera come orecchini. Tino diresse il gommone verso
di lui, doveva portarsi sottovento e fare in modo che il mare portasse il sub vicino al gommone, intanto Stefano aveva tenuto la bombola e continuava a respirare dall’erogatore poiché il mare agitato continuava a sballottarlo sopra e
sotto. Tino aveva portato il gommone in posizione con i
due inservienti pronti al recupero, a pochi metri da
Stefano, poche ondate lo avrebbero avvicinato al tubolare
quel tanto che bastava a recuperarlo. Prima che Stefano si
togliesse il gav e i piombi, tre grosse ondate anomale, probabilmente prodotte da una grossa nave passata al largo,
investirono la sfortunata combriccola. Tonnellate di acqua
scavalcarono Stefano e il tubolare di sinistra del gommone, facendo perdere l’equilibrio a Tarja e Bambinoricco; a
Tino, che aveva indossato una semplice giacca a vento sopra gli abiti normali, restava asciutto solo il cervello.
Stefano fu investito dalla forza delle onde e si spostò di
qualche metro, ritrovandosi aggrappato per un istante al
tubolare del gommone. Quell’istante fu sufficiente a Tarja,
Bambinoricco e Tino, appena ripresisi dalle ondate, ad afferrare il loro compagno e portarlo in secco come se fossero a una mattanza di tonni. Una volta a bordo, steso sul pagliolato e con l’erogatore ancora in bocca, Stefano si sentì
al sicuro, smise di respirare dalla bombola solo quando il
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gommone partì per tornare in porto, stabilizzandosi a sufficienza da permettere ai due assistenti di aiutarlo a togliersi
tutta l’attrezzatura.
Al ritorno in porto, una volta salutato Tino, che, infreddolito se ne tornò a casa, si presentarono dal comandante
Santi; non occorreva dire nulla, tutto era chiaro.
Le cattive notizie non erano terminate, la Magistratura informata dell’incidente, aveva aperto un’inchiesta e disposto
il sequestro del relitto. Con rammarico il comandante Santi
informò Stefano Tixera, direttore del consorzio Vittorio Veneto, di quanto disposto dal magistrato Antonio De Corti.
Benché fosse un grave danno economico per tutta la zona, la
decisione non sconvolse Stefano, d’altronde non poteva permettere che si facessero immersioni sul relitto col rischio che
qualche sub si imbattesse nel cadavere. Il gruppo si congedò
dal comandante Santi e si avviò al consorzio; urgeva preparare un comunicato ai diving e tutti gli associati, inoltre bisognava prevenire ogni attacco perpetrato attraverso la stampa da chi, in precedenza, aveva ostacolato tutto il progetto.
Rimessi gli abiti asciutti e chiusa la base mare, Tarja e
Stefano salutarono Bambinoricco, la sua presenza non era
più necessaria. Si diedero appuntamento per l’indomani al
consorzio. Il lunedì mattina tutto il personale sarebbe stato
informato dell’accaduto e molto probabilmente la magistratura avrebbe comunicato l’ordinanza di sequestro del
relitto. Stefano e Tarja salirono sul piccolo Porter Piaggio,
il furgoncino del consorzio che Stefano usava per gli spostamenti, e si avviarono verso la sede del consorzio che gestiva le immersioni sul relitto del Vittorio Veneto.
Una sottile fessura di luce rosso-arancio staccava il cielo dal mare, durò pochi secondi, poi la notte vinse come
sempre.
Durante il tragitto Tarja formulò una sola domanda a
Stefano: «Tu cosa pensa di Paolo?»
«Credo abbia avuto un malore sott’acqua, ma lo sapremo solo dopo aver trovato il corpo. Adesso che cosa raccontiamo a sua moglie?»
Anche se formulata ad alta voce la domanda era diretta
a se stesso e se avesse risposto avrebbe detto:«Tu mio caro
Stefano, sei o non sei il direttore oltre che amico di Paolo e
famiglia!»
Quella era la parte più ingrata della situazione, la moglie
avrebbe fatto domande su Paolo e Marisa e lui non sapeva
ancora se mentire o dire la verità. Già ma quale verità.
Stefano aggiornò il sito web del consorzio aggiungendo
una pagina che spiegava l’accaduto e il motivo della sospensione delle immersioni fino a nuove disposizioni della
Magistratura; inviò tramite la mailing list le stesse informazioni a tutti gli associati e gli utenti iscritti, invitando i
diving center ad annullare tutte le immersioni prenotate
per la prossima settimana e a dare conferma della disponibilità a partecipare alle ricerche del cadavere, segnalando i
nominativi delle guide subacquee da convocare. La sospensione delle immersioni per cattivo tempo o per cause
diverse, danneggiava enormemente l’economia del consorzio, ma in questo caso un’ombra minacciosa si abbatteva su tutta la comunità indotta.
Stefano inizialmente intendeva preparare un comunicato stampa, in modo da essere pronto appena i giornalisti
avrebbero assaltato il consorzio. Desistette su consiglio di
Tarja, tanto avrebbero scritto quello che capivano o stracapivano, meglio attendere, anche se non c’era da illudersi, chi
aveva ostacolato il progetto sin dall’inizio non avrebbe perso l’occasione per screditare Stefano e tutto il consorzio.
Tornarono a casa alla una di notte e si misero subito a
dormire.
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CAPITOLO TRE
STEFANO
UN METRO E OTTANTANOVE per 96 chili, un protettivo strato di
neoprene biologico sottocutaneo, indossato con disinvoltura, un pizzetto rado e indisciplinato come i capelli, castano
chiaro. Una presenza che non passava inosservata, anche
se Stefano faceva di tutto per sembrare l’omino grigio mimetizzato nello sfondo, invisibile ma presente.
Scompariva volontariamente al cospetto delle isteriche primedonne mancate che ormai inquinano ogni ambiente,
subacquea compresa.
Era ovunque, tutti ne volevano una parte, chi un consiglio, chi un ordine, chi solamente un saluto. La sua presenza era la calma in persona, mai nessuno lo aveva visto arrabbiarsi, adirarsi, scoppiare in collera. Quando era presente raramente le persone litigavano, sembrava che assorbisse tutta l’aggressività altrui, e forse era per quello che
nei momenti di rabbia e sconforto tutti chiedessero dov’è
Stefano. Se fosse una questione di vibrazioni positive o di
pelle nessuno sapeva spiegarlo, ma un tuffo nella pace dei
suoi occhi blu rilassava chiunque.
Malgrado i quarantun anni suonati, una saltuaria acne
giovanile arabescava le guance carnose, non era sempre
presente ma, ciclicamente compariva e scompariva nel giro di alcune settimane. Giovava il trasferimento in località
di mare ma l’acne non dipendeva da uno squilibrio ormonale, tra l’altro confermato da livelli di testosterone lievemente oltre la norma, ma dalla somatizzazione di quel suo
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carattere gioviale e giocherellone, da adolescente. Nessuno
conosceva questo lato della sua personalità tranne i familiari, gli amici e le poche donne che intensamente si dedicarono a lui. Da ultima la finlandese, la donna che tutti desideravano e che invece scelse proprio lui. Fu forse per il
trattamento cameratesco che le riservò, da affiatati colleghi di lavoro, o forse per l’indifferenza dimostrata verso
l’avvenente aspetto fisico, mai una battuta, mai un complimento pesante, mai un’occhiata furtiva alle forme sinuose
che aggressive tentavano di debordare oltre lo strato tessile
che le imprigionava. A Tarja sembrava un datore di lavoro
asessuato, come del resto a Stefano la donna sembrava un
personaggio virtuale, un’eroina da videogioco, tridimensionale ma irreale. La prima incrinatura al rapporto platonico la diede involontariamente Stefano. Per caso scoprì,
visionando il passaporto, che la bionda compiva gli anni la
settimana seguente al suo arrivo e constatato che non beveva caffè italiano perché troppo forte, le regalò una macchinetta per fare il caffè alla finlandese, una specie di caffè
americano ma più lungo. Aveva letto su una guida turistica
che i finlandesi ne bevono più di un litro al giorno, così
quella mattina fece trovare la macchinetta nel loro ufficio
già montata, con un semplice biglietto di auguri. La donna,
visibilmente sorpresa, gradì molto il regalo e benché fosse
nel loro ufficio, Stefano chiedeva il permesso ogni volta
che desiderava un po’ di quell’intruglio. Anche se invitato
più volte a non chiedere il permesso e servirsi della macchinetta a suo piacimento, Stefano continuava involontariamente a chiedere, come involontariamente chiamava la
donna dottoressa Mattila ogni volta che erano in riunione o
a colloquio con funzionari di enti pubblici; non si sbagliava mai e questo genuino rispetto generava sempre più ammirazione da parte della donna. In compenso non chiedeva
mai per favore e non ringraziava mai quando ordinava o ri-
chiedeva ai collaboratori di espletare compiti previsti dalle
loro mansioni. Solo in occasione di compiti richiesti ed
eseguiti al di fuori del proprio incarico, persuasivi per favore e sentiti grazie erano dispensati in unica copia.
Dal padre, un colto portoghese, aveva ricevuto in eredità genetica la predisposizione all’apprendimento delle lingue, il genitore ne parlava cinque ed era traduttore di professione. Dalla madre acquisì la predisposizione all’ordine, alla razionalità, alla precisione; era infatti una delle poche donne con diploma di disegnatore tecnico conseguito
in Italia negli anni sessanta. Nessuna impresa la assunse
come disegnatore e finì col fare la contabile all’ufficio tecnico dell’ATM di Milano.
Stefano, diplomatosi perito elettronico cominciò subito
a lavorare e poi si iscrisse all’università quando aveva ventisette anni. Laureatosi dopo sette anni in ingegneria informatica, passò dall’occupazione di elettrotecnico in una ditta di ascensori a quella di sviluppatore di software per il
controllo di sistemi d’arma teleguidati.
Alla Fireline di Trezzano sul Naviglio, sembrava di essere in un altro mondo: mimetizzata tra capannoni commerciali e magazzini appena fuori Cusago, appena varcato
il cancello del capannone, sistemi di sicurezza e guardie
armate rendevano l’ambiente simile al set di un film di
spionaggio. Per passare da un ufficio all’altro occorreva
inserire il badge in una fessura, in ogni momento l’ufficio
sicurezza sapeva dove fossero e cosa facessero i dipendenti. Malgrado le assillanti procedure, l’ambiente era amichevole, ogni sviluppatore seguiva un progetto, lo gestiva
in modo autonomo e ne rendeva conto solo al capo commessa.
Stefano non aveva rilevanti possibilità di carriera all’interno dell’azienda: più anziano di dieci anni dei suoi pari
grado, non lo avrebbero mai promosso, preferendo a lui un
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elemento più giovane e forgiabile, ma a Stefano tutto ciò
stava bene, soleva dire “sempre meglio che riparare elevatori”.
Fu per questo che quando LegAzzurra gli offrì di occuparsi del progetto Vittorio Veneto, tra l’altro informalmente suggerito da lui, accettò onorato l’incarico. Chiese quattro anni di aspettativa all’azienda che non poté rifiutare in
quanto la richiesta oltre che dall’associazione ambientalista proveniva dalla regione Liguria. Era fiducioso nel futuro, sapeva che al suo ritorno in azienda sarebbe dovuto ripartire da zero, ma aveva un piano per dare una svolta alla
propria vita.
Inizialmente la regione Liguria chiese a LegAzzurra un
progetto di fattibilità concreto, a seguito della loro proposta di affondare l’incrociatore Vittorio Veneto.
LegAzzurra, in risposta, incaricò Stefano Tixera di realizzare un business plan, una vera e propria idea imprenditoriale. Esperto di relitti, di immersioni, di diving, Stefano
aveva una grossa lacuna per quanto riguardava l’aspetto
imprenditoriale dell’idea, così, con il consenso di
LegAzzurra ingaggiò una sua conoscenza adatta al compito. Si trattava di Gabriele Tenace, soprannominato
Bambinoricco, studente di economia e commercio all’università Bocconi. Il business plan fu redatto a tempo perso,
di giorno lavorava alla Fireline, di sera e nei week end al
progetto Vittorio Veneto. Stefano pattuì con l’associazione
un rimborso spese e una diaria per le giornate lavorative
perse in occasione di incontri con funzionari e sopraluoghi, inoltre in caso di approvazione ed esecuzione del progetto avrebbe ricoperto la carica di direttore del consorzio
per tre anni, dopodiché avrebbe lasciato l’incarico. Se
qualcuno aveva qualche dubbio sull’idoneità di Stefano
come dirigente dovette ricredersi alla presentazione del
progetto. Furono tutti entusiasti.
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Stefano, in rappresentanza di LegAzzurra, si presentò al
rettore della Bocconi e chiese che il progetto fosse seguito
da Gabriele e che diventasse la sua tesi di laurea.
Incuriosito dall’idea il rettore concesse quanto richiesto.
Non si pentì, Gabriele si laureò con centodieci e lode e il
bacio accademico. La persona più contenta in assoluto
quel giorno fu il padre di Gabriele, in quella grande sala
scoprì che quello svogliato e apatico figlio in realtà aveva
la stoffa del dirigente d’azienda. Gabriele incantò tutti durante la discussione della tesi, ad ogni domanda rispondeva con l’entusiasmo convinto di un capo militare sicuro di
battere il nemico.
Il padre pianse di felicità per quel figlio, e da quel momento Gabriele divenne il capolavoro della sua vita.
Con le donne Stefano non ebbe molta fortuna, o forse
furono le donne ad essere sfortunate con lui; le poche femmine che intersecarono la sua vita non vi rimasero a sufficienza da lasciare un ricordo struggente. Anche l’ultima,
Debora, ragazza madre con due figli ormai adolescenti,
non riuscì a distoglierlo dai suoi amori profani, le immersioni, i relitti, i sommergibili e soprattutto il suo cucciolo.
La donna abbandonò Stefano per disperazione, aveva due
figli a cui badare e non aveva nessuna intenzione di occuparsi di un terzo adolescente. Qualche volta si sentivano
per telefono ma non si videro mai più.
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CAPITOLO QUATTRO
IL DIRETTORE
ATTIVO in diverse Associazioni, con alcune di queste face-
va da contatto ufficiale, da elemento in comune, quasi una
colla. Presso LegAzzurra, di cui era vicepresidente della
sezione di Milano, si occupava del monitoraggio degli scafi affondati con elementi inquinanti a bordo, in particolare
la Haven, la superpetroliera affondata nel 1991 al largo di
Arenzano, la Brodospas, la nave jugoslava carica di bidoni
di tetraetilene di piombo, affondata nel canale di Otranto e
la Klearchos, carica di veleni e affondata vicino a
Tavolara, soprannominata “La nave di Bucher”. Su questi
e altri relitti, Stefano organizzava delle missioni per il recupero di campioni da analizzare.
Affascinato dai relitti, di tutte le epoche, aveva aderito
all’AIDMEN, associazione italiana documentazione marittima e navale. Lì aveva scoperto esperti di storia navale
di livello mondiale, persone cordiali e generose; da loro otteneva foto e informazioni delle navi affondate sulle quali
poi si immergeva. Alcuni membri lo aiutarono nelle ricerche storiche quando organizzò una spedizione privata alla
ricerca dell’Ark Royal, la portaerei britannica affondata al
largo di Estepona da un U-boote. Non trovarono l’Ark
Royal ma un grosso mercantile, probabilmente il Fjona,
affondato anch’esso nella zona. Data la sua carica presso
l’associazione ambientalista, fu giocoforza obbligato a
collaborare con uno dei consiglieri che curava il progetto
“Archivio Relitti del Mediterraneo Centrale”. Dapprima si
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trattarono con diffidenza, poi tra i due si instaurò una sincera amicizia e la collaborazione si trasformò in complicità, ognuno sapeva in ogni momento cosa stesse facendo
l’altro.
Stefano era anche membro dell’ANMI, l’Associazione
Nazionale Marinai d’Italia, e quando la domenica non era
al mare a fare le immersioni vi faceva visita. Iscrittosi da
giovane come simpatizzante, passava ore ad ascoltare i
racconti dei marinai, le storie di guerra, la perdita dei compagni o di una nave. La sua cultura storica e marinara più
che dalle letture era alimentata da questi uomini che in lui
depositavano la loro memoria, affinché il ricordo non morisse insieme a quei reduci, sfiniti ma orgogliosi.
Narravano fatti di storia mai citati nei libri, racconti di
uomini che videro la morte passare loro vicino, degnarli di
un solo sfuggevole sguardo e proseguire per mietere la vita
del compagno vicino. Qualcuno dice di averla vista voltarsi e lanciare una languida occhiata, era un appuntamento a
quella che sarebbe stata la prossima vittima. Molti degli
iscritti all’ANMI avevano visto quei gelidi occhi, e da anni
attendevano con serenità l’appuntamento, godendosi ogni
giorno come un regalo del Signore.
Durante le prime visite all’Associazione Stefano non
era visto di buon occhio, la sua attività preferita era vista
come quella di un tombarolo subacqueo, un profanatore di
tombe. All’ANMI tutti pensavano che i sub asportavano
pezzi dei relitti e qualche volta ossa dei marinai morti, e
Stefano era incluso nella lista. Fu una strana circostanza
quella che convinse gli anziani soci a ricredersi. Una domenica Stefano portò delle foto del Ravenna, un relitto al
largo di Capo Mele in Liguria, affondato nella prima guerra mondiale. La So.Ri.Ma. vi aveva lavorato sopra, demolendo le sovrastrutture e recuperando il carico di balle di
lana. All’interno di un locale vi erano delle pile di piatti e
altri oggetti di porcellana con lo stemma della compagnia
di navigazione. Stefano ne aveva fotografato uno intatto e
lo aveva rimesso al suo posto. In previsione della visita in
sede A.N.M.I di un ammiraglio che aveva perso i nonni
paterni a bordo del Ravenna, fu chiesto a Stefano di recuperare un piatto da donare all’ufficiale come ricordo. A
parte il non essere d’accordo sul tipo di omaggio, si rifiutò
categoricamente di recuperare qualsiasi cosa; a nulla valse
l’offerta di rimborsare le spese sostenute o concedere che
il dono fosse porto da lui in persona all’ammiraglio, tessendo così una importante conoscenza in ambito militare,
Rifiutò categoricamente.
«Non porto via nulla né metto nulla», diceva riferendosi all’usanza di depositare corone o targhe sui relitti. Dopo
qualche settimana di isolamento, sanzione involontaria di
quel manipolo di ex militari, le cose tornarono come prima, anzi meglio. Tutti riconobbero in Stefano il rispetto
per i relitti e i morti custoditi.
Non poteva essere altrimenti, ogni volta che Stefano
ascoltava il racconto di qualche marinaio ne vedeva gli occhi velarsi, una incontenibile emozione suscitata dal ricordo sgorgava dall’interno esternandosi in un tremore incontrollabile o in alcune lacrime. Lo stato d’animo del relatore
di turno innescava per simpatia, come il tritolo, anche l’emotività di Stefano, anch’egli solidale sentiva il groppo alla gola e il fiato spezzarsi.
Il destino volle che anche lui provasse cosa vuol dire
perdere un amico.
Una persona in Associazione era sempre ben disposta
nei riguardi si Stefano, Billo il segretario. Tutti lo chiamavano così perché il suo cognome era Birillo e, come usava,
tra marinai veniva contratto appunto in Billo. Angelo
Birillo era la memoria storica dell’ANMI di Milano, aveva
visto passare decine di presidenti ed estinguersi decine di
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soci, sapeva tutto di tutti, un archivio vivente. A lui faceva
riferimento Stefano quando voleva informazioni sul personale della Marina Militare. In vista di incontri o riunioni
con ammiragli, chiedeva a Billo che genere di ufficiale
avrebbe incontrato e in base alle sue considerazioni si regolava sull’approccio. Se a qualcuno gli ufficiali sembrano
tutti uguali è perché ne conosce pochi o nessuno, sosteneva Billo che da quarant’anni intratteneva ammiragli in visita alla sede di Milano o di passaggio diretti a NAVALGENARMI.
Una sezione dell’ANMI alla quale avrebbe voluto essere più vicino era Aria alla Rapida, piccola rivista fatta da e
per sommergibilisti; il direttore, di origine austriaca, era
stato imbarcato come ufficiale sugli U-boote tedeschi; i
due redattori erano esperti sommergibilisti sulla classe
Toti, lo stesso modello donato dalla Marina Militare al
Museo della Scienza di Milano e persosi nelle anse del Po
e della burocrazia. Purtroppo per Stefano, Aria alla Rapida
era un club esclusivo, solo per una ristretta cerchia di eletti, tutti sommergibilisti, e tutto ciò che riusciva ad ottenere
erano informazioni ufficiose sulla costruzione di minisommergibili, una delle sue passioni recondite.
Oltre a dirigere il consorzio Vittorio Veneto, Stefano
aveva un’altra creatura a cui dedicava tutto il suo tempo libero, poco in verità al momento, ma con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno, il tempo a disposizione sarebbe aumentato.
Il suo cucciolo era un rebreather, un apparecchio per le
immersioni a circuito chiuso elettronico, in gestazione ormai da un anno. Con il suo amico Nico Giudici, aveva iniziato una analisi di mercato dei prodotti disponibili, ne
avevano acquistati due modelli differenti negli Stati Uniti,
e uno in Italia, li avevano smontati e rimontati centinaia di
volte, conoscendone ogni minima parte, e ora si preparavano a costruirne uno.
L’idea era quella di assemblare due prototipi e testarli,
fino a renderli il più affidabile possibile. Se i prototipi fossero stati migliori dei modelli usati come campione, il
CCR 2000, l’Azimut e il Buddy Inspiration, avrebbero iniziato a produrre una preserie da testare con un gruppo di
amici, subacquei esperti e interessati a quel tipo di immersioni. Se le cose fossero andate bene avrebbero creato
un’azienda e avrebbero brevettato il modello.
Il cucciolo non aveva ancora un nome, lui e Nico lo
chiamavano semplicemente “Il Nostro Rebreather”.
Con Nico si era diviso i compiti, Stefano avrebbe tradotto in italiano tutti i manuali, i testi tecnici, e quelli di fisiologia, in seguito avrebbe redatto il manuale della macchina e i manuali per i corsi. L’amico avrebbe contattato le
varie ditte del nord Italia per reperire i pezzi della nuova
macchina o farli costruire su disegno. Entrambi avrebbero
collaudato la macchina sul relitto di Stefano, il Vittorio
Veneto, una volta terminata la stagione estiva. Il collaudo
dei prototipi sarebbe stata la parte più pericolosa anche
perché i due modelli acquistati si erano dimostrati inefficienti agli usi estremi per i quali erano stati costruiti e garantiti dal costruttore. In un caso Stefano stava per rimetterci la pelle: se il suo compagno non si fosse accorto che
la macchina non funzionava bene, lui sarebbe svenuto e
poi piombato verso il fondo come un container e annegato.
Fortunatamente Nico in acqua aveva mille occhi e prima che la situazione precipitasse portò Stefano fuori dall’acqua. Più erano frequenti i malfunzionamenti delle due
macchine statunitensi, più i due si convincevano che la loro era la strada giusta e i fatti lo avrebbero dimostrato. Il
cucciolo di Stefano e Nico richiedeva molte ore di conversazioni telefoniche, fatte per lo più nelle ore serali, quan-
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do, finiti gli impegni lavorativi, potevano utilizzare il telefono fisso del consorzio o della ditta dell’amico. Quelle
lunghe telefonate erano tra le poche cose che Tarja mal
sopportava, finche non scoprì le “caressine”.
Uno dei compiti più ingrati toccati a Stefano Tixera,
nella gestione del consorzio, fu quello di colloquiare con
funzionari della regione e della provincia, esponenti politici locali nella maggior parte dei casi. La sua maggiore
preoccupazione era dovuta alla sua mimica facciale, collegata al pensiero da sinapsi incontrollabili. Se durante un
colloquio di lavoro la persona davanti a lui dava segni di
idiozia, nel cervello di Stefano si materializzava il pensiero “sei un pirla” e senza volerlo o poterlo impedire sul suo
viso si modellava l’espressione di un noto pupazzo televisivo di origine Genovese, rosso di pelle e di fede. Benché
cercasse in tutti i modi di dissimulare dalla faccia quei lineamenti loquaci con soffiate di naso o sorrisi, l’interlocutore recepiva il chiaro messaggio sublimale “sei un pirla,
seeii unnn piiiirla!”
Quando poteva si faceva accompagnare da
Bambinoricco, un vero diplomatico.
Fortunatamente, tra gli enti pubblici con cui aveva a che
fare vi erano molti personaggi desiderosi che qualcuno
realizzasse qualcosa di nuovo per i cittadini elettori, e soprattutto che si accollasse il carico di lavoro e le responsabilità, qualcuno insomma che insistesse nel dare le proprie
palle in pegno e disposto a sacrificarle in caso di insuccesso, e Stefano era politicamente sacrificabile.
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CAPITOLO CINQUE
LA CASA
DOVENDO trasferirsi stabilmente per almeno tre anni a
Oneglia, Stefano decise di affittare una casa piuttosto che
alloggiare in una pensione. Il contratto stipulato con
l’Associazione LegAzzurra prevedeva il rimborso delle
spese per l’alloggio oltre che l’uso dei veicoli del consorzio. Oltre a risultare più economico, la scelta di affittare
una casa garantiva un confort ed una privacy migliore, cose a cui Stefano teneva in modo particolare. Un desiderio
albergava nella mente del direttore, quello di abitare in una
casa di legno; fin da bambino era stato attratto da questo tipo di costruzioni e quando andava in vacanza era ben felice di alloggiare in bungalow e casette che ad altri sembravano cucce per cani giganti. Quando si presentò all’agenzia immobiliare più grande di Oneglia e chiese se fosse
disponibile una casa in legno, il responsabile rimase stupito di tale richiesta che peraltro, non poteva soddisfare, almeno così credeva. Fu la segretaria, seduta alla scrivania
dall’altro lato del piccolo ufficio, a suggerire la soluzione.
«Ci sarebbe quella dell’ingegnere di Torino», disse quasi
sottovoce, «non siamo mai riusciti ad affittarla.» Il volto
del titolare dell’agenzia si illuminò come se avesse trovato
la via dello Zen, per lui accontentare un cliente era una
missione di vita e in quel caso forse ne accontentava due.
L’ingegner Tocra si occupava di telecomunicazioni, dopo alcuni anni in SIP a Torino era passato alla Nokia, trasferendosi per alcuni anni in Finlandia. Rimasto affascinaWrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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to dal modo di vita dei finlandesi e soprattutto dall’abitudine di passare i fine settimana in un cottage in riva ad uno
dei diciottomila laghi che costellano il territorio, al ritorno
in Italia decise di farne costruire uno su un pezzetto di terra ereditato dalla moglie originaria della città di Imperia.
La casa venne trasportata smontata in pezzi numerati e
rimontata in 20 giorni dai tecnici finlandesi venuti appositamente ai quali si aggiunsero due italiani di Trento, che
erano i concessionari per le riparazioni e le modifiche
strutturali.
Costruita in pino nordico proveniente da Hiltulanlahti, a
nord di Helsinki, accuratamente selezionato e trattato, la
casa aveva le pareti esterne fatte di tronchi di 17 centimetri
di diametro, le paresi interne erano rivestite di perline,
sempre in pino, ed in pino erano anche le pareti divisorie.
Il tetto, unica cessione al gusto mediterraneo, era in coppo
rosso, troneggiava sulla sommità il comignolo appendice
di un possente camino in pietra. Vista da fuori sembrava
uno di quei rifugi che si vedono nei film ambientati sulle
montagne rocciose, all’interno il confort era paragonabile,
se non superiore, ad ogni abitazione in muratura delle stesse dimensioni, circa 48 metri quadri. Il modello KESA
prevedeva diversi allestimenti, quello scelto dall’ingegner
Tocra comprendeva il portico di circa 13 metri quadri, la
camera da letto con armadio e letto matrimoniale, bagno
con doccia, water e lavandino, mancava il bidet, ma in
compenso vi era la sauna elettrica. La zona giorno, con angolo cottura e zona relax, occupava poco meno della metà
della superficie dedicata all’interno della casa; un divano a
elle in un angolo e un tavolino rotondo insieme a un tavolo
da cucina per quattro persone rappresentava l’arredamento
della casa. Il camino, al centro del soggiorno, occupava il
posto più importante dell’ambiente e fungeva da riscaldamento.
Non vi era la televisione e a Stefano questo fece immenso piacere, infatti lui non la sopportava.
Il proprietario abitò nella casa per il mese di agosto dello stesso anno in cui la costruì, poi, trasferitosi di nuovo in
Finlandia, decise di affittarla, ma nessuno gradiva quel generi di sistemazione. A nulla valse abbassare il canone di
affitto.
Per raggiungere l’abitazione occorrevano circa 10 minuti di auto dalla sede del consorzio, la strada si snodava
sulle colline retrostanti Oneglia fino a perdersi tra gli ulivi;
ad un certo punto proprio dopo un tornante, un vialetto
portava alla casetta. Non vi era possibilità di vederla dalla
strada, anzi nessuno poteva vederla, circondata dagli alberi
di ulivo e pino mediterraneo, annegata in una vegetazione
incolta e selvaggia, sembrava fosse la dimora di gnomi solitari decisi a dissuadere con la magia ogni visitatore.
Piacque subito a Stefano, decise di usare la sauna come
ripostiglio e di sistemare una sedia a dondolo sotto il portico. Aveva anche una piccola idea riguardo ad una cascata
artificiale. Rimediò una idropulitrice professionale, sostituì il tubo di uscita della lancia con una manichetta da alta
pressione molto più lunga al termine della quale inserì un
ugello. Disponendo il tubo nel giardino e orientandolo verso l’alto il getto di acqua assumeva la forma di un geyser.
Il prisma d’acqua, attraversato dai raggi solari, proiettava
in visione svariate illusioni ottiche, arcobaleni dalle molteplici sfumature, alcuni doppi o tripli, effetti ottici che assomigliavano ad aurore boreali nelle ore tra il tramonto e il
crepuscolo. L’aria ionizzata era salutare, Stefano adorava
respirare quel misto di aria e acqua, era la sua cura antistress. Nei mesi primaverili e estivi, il geyser funzionava
ogni sera.
Che fosse un modello di casa finlandese Stefano lo scoprì solo quando Tarja la vide, anzi la casa fu motivo per cui
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la donna cominciò ad apprezzare di più quell’uomo particolare, professionale nel lavoro e giocondo nella vita privata, il quale non immaginava certo che una donna, a prima vista molto sofisticata, desiderasse dividere con lui
quella spartana dimora.
Una sera di ritorno da una riunione con i presidenti della regione Liguria e della provincia, Stefano chiese a Tarja
di accompagnarlo al mercato del pesce, dove acquistò un
branzino che, dalla taglia abbondante, non poteva essere di
allevamento. Il pesce era troppo grosso per una sola persona e così chiese a Tarja di fermarsi a cena da lui, avrebbe
cucinato il branzino al sale. Tarja accettò, era curiosa di
vedere quell’uomo alle prese con i fornelli, era convinta
che ogni Italiano single fosse una specie di mammone incapace di vivere autonomamente senza una donna che lo
accudisse, nella maggior parte dei casi una madre depressa. Non era così per Stefano che da quando era andato all’università viveva da solo, in completa autonomia.
Quando Tarja vide la casa rimase entusiasta, le sembrò
di essere tornata in Finlandia, l’unica differenza era negli
alberi, invece di betulle e pini vi erano ulivi. Si disse dispiaciuta per la mancanza di un piccolo laghetto nelle vicinanze, ma rimase stupita quando Stefano attivò il suo geyser artificiale; sebbene fosse una sera di febbraio e la temperatura non superasse i 12 gradi l’effetto fu suggestivo.
La spallata finale la diede la sauna, l’unica cosa di cui
sentiva la mancanza. Quando Tarja la vide decise di stabilirsi in quella casa o quantomeno a farvi spesso visita.
Dopo la cena e mezza bottiglia di limoncello entrambi cedettero alla stanchezza e finirono sul letto; Stefano non approfitto della situazione benché la tentazione fu forte. Da
quella sera le cene a due divennero un’abitudine e la settimana dopo Tarja si trasferì nella casa dove intanto era stata
sgombrata la sauna. Tenne la sua camera alla pensione uti-
lizzandola come deposito per il bagaglio, tanto il conto lo
avrebbe pagato il Ministero del turismo finlandese.
Dopo quella cena i rapporti tra i due erano passati da un
regime professionale ad uno amichevole, e con il trasferimento di Tarja nella casa di Stefano, molto intimi. Ogni
momento passato da soli finiva per legarli l’un l’altro sempre di più, anche se un’ombra minacciosa incombeva sul
loro rapporto.
I giorni passati insieme rappresentavano gioia e felicità,
ma sapevano entrambi che si trattava di una situazione
precaria. Decisero di affrontare il problema quando si sarebbe presentato, il qui e adesso era il loro unico pensiero.
Malgrado i buoni propositi Stefano era avvolto da
un’aurea di tristezza e gelosia quando Tarja tornava in
Finlandia per qualche giorno, a trovare i familiari e un fidanzato di cui non rivelò mai il nome. Pur senza nome, il
fidanzato, era una presenza fastidiosa, almeno due volte la
settimana telefonava a Tarja con la quale parlava per trenta
quaranta minuti. Stefano non capiva una parola di finlandese ma era un po’ infastidito da quelle amichevoli conversazioni che terminavano con un bacio sul cellulare. Ancor
più infastidito era quando Tarja andava da quell’altro a
Helsinki; ogni volta che il pensiero gli veniva alla mente,
tentava di ribaltane il punto di vista, in fondo era lui che si
faceva abitualmente la donna di un altro. A volte vi riusciva a volte no.
La casa, o meglio il giardino, aveva un altro inquilino,
vantava una maggiore anzianità di Stefano e all’inizio non
gradì minimamente la presenza umana nel suo territorio.
Si trattava di Diablo, un gatto di razza norvegese di proprietà dell’ingegner Tocra, che intrippato da tutto ciò che
era nordico, lo acquistò da un allevamento amatoriale di
Biella. Il gattone, in ossequio alla sua eredità genetica,
aveva raggiunto il ragguardevole peso di 7 chili e per di-
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mensione assomigliava di più a un cocker che a un gatto.
Diablo sembrava un gatto disegnato sui manga, i fumetti
giapponesi dove tutti i protagonisti d’azione hanno i ciuffi
di capelli ribelli. Il micione, dal musino da cartone animato, assomigliava ad incrocio tra uno scendiletto e un peluche; il pelo, intenso a causa della stagione invernale e della
vita all’aperto, sembrava esplodere, continuamente arruffato, malgrado le ore di toilette che vi dedicava il felino.
Se a prima vista, specie se sdraiato sullo zerbino, sembrava un pacioccone, col tempo rivelava tutta la sua aggressività, nessun animale di taglia inferiore o uguale alla sua
poteva attraversare il giardino, pena un combattimento all’ultimo sangue. Diablo menava e di prenderle non gli importava, aveva le orecchie bucate come il biglietto del treno ma nessun segno sul sedere, segno che non scappava
mai. Fece un tentativo di intimidazione anche con Stefano,
appena lo vide gonfiò il pelo raddoppiando il volume e si
mise a soffiare e a miagolare come fanno i puma. Se invece che grigio silver fosse stato arancione, lo si sarebbe
scambiato per una lince con la coda sbagliata. Il tentativo
non sortì l’effetto desiderato, Stefano ignorò l’animale e si
chiuse in casa, Diablo allora passò alle dimostrazioni di
forza; ogni volta che passava vicino alla casa, prese a farsi
le unghie sulle pareti esterne in legno. Il gatto norvegese
aveva grosse zampe palmate per camminare sulla neve e
artigli molto più spessi delle altre razze di gatti, tali uncini
gli permettono di salire sugli alberi come se fosse dotato di
rampini, le unghie erano talmente forti da sostenere il gatto
appeso per una zampa sola. Ad ogni esibizione di forza,
Diablo trasformava alcuni grammi di compatto e trattato
legno di pino nordico in segatura a scagliette. Ad una frequenza di tre quattro esibizioni al giorno, Stefano calcolò
che dopo vent’anni sarebbe rimasto solo il camino della
casa. L’umano si aspettava poi un attacco a base di puzzo-
lente pipì ormonale, sapientemente dosata nei punti cruciali del perimetro della casa. Decise di giocare di astuzia, e,
come consigliava Sun Tzu nell’Arte della Guerra, di allearsi col nemico. Acquistò due ciotoline in acciaio inox e
le destinò alle offerte di cibo per il nemico. Ogni due o tre
giorni donava pro bono pacis una scatoletta di prelibato cibo per gatti. Diablo, dopo un po’ di diffidenza e stupore, si
concesse a quei pranzi raffinati e carichi di ricordi. In passato pasteggiava ogni giorno con quelle prelibatezze.
Dopo due settimane di offerte propiziatorie, l’alleanza
era sancita e prese carattere di interscambio, Diablo ad
ogni scatoletta ricambiava con un pregiato e freschissimo
dono della natura, variava continuamente le offerte per
non stancare il palato del suo nemico-amico, alternava lucertole, scarafaggi, lombrichi a pantegane di notevoli proporzioni, roditori di taglia più piccola e, in un’occasione
particolare quanto fortuita, offrì un bianco coniglio nano,
probabilmente scappato da qualche villetta nelle vicinanze. Lo sfortunato animale si era perduto sconfinando nel
territorio di Diablo senza sapere di andare incontro alla sua
fine. Stefano gradiva i regali culinari, ne conosceva il significato, fortunatamente venivano immolati sul retro della casa. Evitava però di farli vedere a Tarja, non sapeva come avrebbe reagito e non voleva certo che abbandonasse
la casa. Le precauzioni furono inutili; quando la finlandese
scoprì le donazioni alimentari non fece una piega, anzi disse a Stefano di sentirsi onorato di quel trattamento pregandolo al contempo di occuparsi dello smaltimento dei cadaveri.
Con Stefano e Tarja, Diablo condivideva il geyser sintetico, nelle calde serate d’estate i primi due si concedevano
una doccia corroborante appena rientrati a casa, il felino
invece attraversava l’area investita dalla ricaduta del getto
d’acqua, lentamente, dimostrando di gradire, come la mag-
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gior parte dei gatti norvegesi, il contatto con l’acqua. Il pelo idrorepellente gli impediva di infradiciarsi tutto, si bagnava quel tanto che bastava a rinfrescarsi un po’ dopo il
risveglio dal lungo sonno diurno; a breve sarebbe cominciata la sua seconda attività preferita dopo il dormire, la
caccia notturna.
CAPITOLO SEI
BAMBINORICCO
AL CONSORZIO Vittorio Veneto affluivano vari personaggi,
tutti più o meno interessanti, alcuni rimanevano poche settimane, altri rimasero per tutta la stagione.
Una delle presenze più importanti, oltre a quella di
Stefano e Tarja, era quella di Bambinoricco, alto, longilineo ma muscoloso, con i capelli corti rossi, la pelle bianca
anche in piena estate e due occhi cerulei striati di giallo
zucchina.
Il portamento marziale lo faceva sembrare un sergente
dei paracadutisti della Royal Army. Calmo, diplomatico,
dava l’impressione che non gli importasse nulla di nulla.
Parlava amichevolmente con tutti, ma nessuno, a parte
Stefano, lo considerava un amico con la A maiuscola.
Nessuno sapeva dove abitasse, con chi, e cosa facesse
quando salutava tutti e se ne tornava a casa, o almeno così
diceva di fare.
Il consorzio era in buona parte merito anche di
Gabriele, sue erano tutte le idee commerciali messe in atto,
per questo lui era come di casa.
Con Stefano si erano conosciuti molti anni prima in un
diving di Varazze, in occasione di una missione di monitoraggio sulla Haven condotta da LegAzzurra, dopo 7 anni
dall’affondamento; l’associazione ambientalista aveva ottenuto dal tribunale di Genova l’autorizzazione ad effettuare delle immersioni e prelievi di campioni. Inoltre, il
progetto prevedeva il raschiamento di zone di un metro
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quadro dello scafo e l’applicazione di telai di posizionamento per fotocamere. Ad intervalli di 15 giorni, un fotografo si sarebbe immerso sul relitto e avrebbe documentato, fotografandolo, lo stato di crescita degli organismi marini. Il titolare del diving avvisò Stefano che sarebbe arrivato un socio di LegAzzurra che avrebbe partecipato alle
immersioni della settimana e che essendo neo brevettato
sarebbe sceso con lui che era il capo missione. Poco dopo,
alla sbarra di entrata del porticciolo di Varazze si presentò
una Mercedes blu, nessuno capì che modello fosse perché
sulla carrozzeria vi era solo la vernice blu, nessuna sigla,
nessun adesivo, nessun graffio. L’auto si avvicinò al diving, e dalla portiera del guidatore scese un uomo giovane,
dalla pelle scura e castano, con occhiali da sole, giacca blu
su maglietta nera, e un auricolare nell’orecchio sinistro.
Appena sceso si guardò intorno con fare circospetto, poi si
avvicinò alla portiera posteriore di sinistra, la aprì e fece
scendere il giovane rampollo. I due si avvicinarono al baule della Mercedes, tanto grosso da contenervi una Fiat
Panda, e cominciarono a scaricare l’attrezzatura da sub di
Gabriele. L’autista prese un borsone in mano avviandosi
verso il diving ma venne fermato dal ragazzotto, imbarazzato come un adolescente sorpreso a masturbarsi davanti
ad un catalogo della Postal Market, pagine delle lingerie
per signora.
«Faccio io», disse, cercando di camuffare l’ordine perentorio nella richiesta di un momento di legittima autosufficienza. L’autista capì e in silenzio si allontanò di pochi metri. Fu allora che Stefano si avvicinò al giovane e gli
indicò dove sistemare la sua roba e dove presentarsi per
l’analisi della miscela di immersione.
«Sei già registrato al diving?» chiese Stefano.
«Sì, ci vengo spesso.»
«Bene», aggiunse Stefano, «analizziamo la miscela e
montiamo le attrezzature, appena arrivano gli altri facciamo il briefing.»
Al momento di montare l’attrezzatura Stefano rimase
impressionato dal materiale di Gabriele, tutto quello che di
più costoso si poteva trovare sul mercato era stivato nelle
borse del giovane. Fu allora che Stefano disse:«vedo che
sei un Bambinoricco.»
Gabriele arrossì imbarazzato, anche se non ne aveva colpa, il suo stato economico lo perseguitava causandogli momenti di frustrazione, la sua ricchezza lo faceva sentire in
colpa. Accortosi dello stato d’animo, non certo ideale per le
immersioni che si accingevano a compiere, Stefano cercò di
risollevare il morale del suo compagno d’immersione.
«Se per caso i tuoi genitori decidono di adottare un altro
figlio, vorrei essere interpellato, sarei onorato di diventare
tuo fratello, si lo so c’è di meglio, ma prova a immaginare
se te ne capita uno nero o uno gay, ci pensi la sfiga, essere
ricco e con un fratello gay o nero!» recitò Stefano, come se
fosse sul palco dello Zelig. Le sue parole riuscirono ad incrinare il broncio di Gabriele, malgrado lo sforzo di trattenerlo, un sorriso fiorì su quel viso.
Al termine dell’immersione Stefano iniziò a parlare dei
relitti che aveva visitato con il titolare del diving di
Varazze, Gabriele incuriosito chiese di restare ad ascoltare
e più di una volta intervenne per precisare fatti storici citati imprecisamente. La preparazione storica del giovane
subacqueo destò stupore e un riverito rispetto tra i due anziani subacquei al punto che Stefano propose di continuare
la conversazione davanti a una pizza, e se la pizza l’avesse
pagata Bambinoricco lui l’avrebbe riaccompagnato a casa,
ovunque abitasse. La proposta venne accettata; informata
la famiglia di Gabriele del programma, i due si accomodarono in pizzeria alle diciassette e ne uscirono alle ventiquattro, senza mai smettere di parlare di relitti.
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Quando Stefano si fermò fuori dalla casa di Bambinoricco ebbe conferma di quanto aveva immaginato, vide
solo un cancello in ferro battuto, con tanto di quel ferro da
sballare le bussole delle navi in transito al largo di
Sanremo.
Prima di far scendere il ragazzo gli chiese:«Sei sicuro
di abitare qui? Sembra l’entrata dei giardini pubblici, si vedono solo alberi!»
Gabriele sorrise e lo stesso fece Stefano.
Solo in un’altra occasione Stefano rivide la casa e conobbe i genitori del suo consulente aziendale, in occasione
della festa di laurea. Allora scoprì che l’enorme cancello
era l’entrata secondaria, la più vicina alla casa, l’entrata
principale, un altro cancello in ferro battuto molto più piccolo, introduceva ad un sentiero lastricato di cotto in terra
di Siena, costeggiato di felci e in leggera pendenza. Dopo
appena duecento metri una villettina stupiva di primo acchito il visitatore, che contemporaneamente veniva assalito, sulla sinistra, dalla visione della villa padronale vera e
propria. Sembrava una specie di maniero, senza torri ma
con decine di stanze; la villettina era quella della servitù.
L’immensa casa sbalordiva le persone comuni e anche
quelle introdotte in certi ambienti della finanza. La casa
era del nonno di Gabriele, ormai ritiratosi a vita privata dopo aver ceduto l’azienda farmaceutica di famiglia al figlio.
Tutte e tre le generazioni abitavano lì, chi sempre, chi
durante i week end, chi, come Gabriele, ogni volta che poteva.
La sera della festa Stefano fu accolto come il Guru di Gabriele, colui che lo aveva forgiato e messo sulla giusta via.
Non vi erano i compagni di università i quali avevano festeggiato in un locale, sui navigli di Milano, il sabato notte
precedente, ma tutta la crema imprenditoriale milanese.
Sembrava una riunione di Assolombarda.
A Stefano piacevano le belle donne e in quella serata gli
sembrò di essere al festival delle tardone, pur essendo l’età
media di cinquant’anni quasi tutte meritavano un biglietto
da visita infilato nel reggiseno. Si trattenne dal farlo, anche
perché era un personaggio anomalo in quell’ambiente, a
cominciare dall’abbigliamento, i jeans e la giacca blu, gli
stessi usati per presenziare alla discussione della tesi, stonavano con l’arredamento della casa e gli ospiti come un
ramarro su una torta chantilly.
Nessuno vi faceva caso, a parte la servitù che non lo
guardava e lo evitava. Per avere due tartine di salmone e
un flu^te di spumante dovette aspettare che la padrona di
casa intercedesse per lui.
Già, la padrona di casa.
Gabriele prese Stefano da parte e gli disse:«Ora ti presento mia madre, mi raccomando fai il bravo!» L’amico
non capì ma fece un cenno con il capo, cercando di immaginare cosa lo aspettava. Quando vide la donna capì, non
riuscì a dire nulla se non un timido «Molto lieto.»
La madre di Gabriele, premurosa, lo prese sottobraccio
e lo intrattenne qualche minuto, Stefano non riusciva a dissimulare il suo stupore. La donna, cinquant’anni, indossava un abito lungo grigio perla, con una vertiginosa scollatura che esaltava il seno abilmente rifatto, anche le labbra
lo erano, e dall’angolatura verso l’alto delle sopraciglia era
evidente anche il lifting facciale, l’interno coscia era ancora sodo, lo si vedeva dalla trasparenza dell’abito e il sedere, benché sceso di qualche millimetro, catalizzava lo
sguardo dei presenti, i maschi lo apprezzavano, le donne lo
criticavano.
Da lei Gabriele aveva preso i capelli rossi e la pelle
chiara, l’altezza, il portamento. Si muoveva sinuosa tra gli
ospiti: ballerina di fila del Moulin Rouge, non aveva mai
smesso di fare danza per tenersi in forma.
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Nemmeno quando il marito la conobbe era così splendida. Accolta in famiglia senza pregiudizi, si occupava della
famiglia intera, dal nonno ai figli.
Tutti i maschi presenti alla festa, che avessero fatto sesso con la consorte o l’amante, lo avrebbero fatto ad occhi
chiusi, immaginando tra le braccia e attorno al proprio
membro quella rossa dagli occhi di fuoco e la bocca carnosa.
Stefano fu il solo del consorzio ad entrare nella casa del
nonno di Gabriele, nessun altro sapeva dove abitasse
Bambinoricco, nessuno sapeva che era ricco veramente,
tutti pensavano che il soprannome fosse dovuto alla sua
fertile immaginazione, al suo ingegno.
Il padre convinse inoltre Gabriele a frequentare un corso antisequestro negli Stati Uniti, da allora il giovane assunse uno stile di vita defilato, non guidava auto di grossa
cilindrata ma catorci da demolire, tutti con il telepass e
l’antifurto satellitare, in modo da tracciare ogni movimento in caso di scomparsa, vestiva sempre jeans, felpa e scarpe da trekking, non portava mai troppo contante, usava la
carta di credito ogni volta che poteva e quattro volte al
giorno inviava un SMS a un numero di Milano con l’orario
previsto per l’invio del messaggio successivo e un + seguito da un numero per indicare la tolleranza massima del ritardo prima di dare il preallarme della scomparsa. Se il secondo messaggio non arrivava nelle tre ore successive al
ritardo previsto, scattava l’allarme scomparsa e la ricerca
del giovane per terra, per cielo e per mare.
Gabriele, stimolato da Stefano, era passato, da un atteggiamento di completo disinteresse verso la materia di studio scelta all’università, ad una completa simbiosi con la
stessa, viveva e pensava al consorzio, a come migliorarlo,
a come guadagnare i soldi necessari a riscattarlo da ogni
vincolo con le istituzioni regionali e provinciali che ne
vantavano buona parte del merito. Le idee per fare soldi gli
fioccavano nella testa come una tempesta di neve, il processo lo assorbiva completamente, distogliendolo da ogni
altra funzione, solo quelle basali rimanevano attive poiché
inconsce. La gestazione dell’idea richiedeva che interrompesse qualsiasi cosa stesse facendo, si bloccava e rimaneva
immobile con lo sguardo fisso nel vuoto; a volte la paralisi
durava qualche minuto, altre volte decine; capitava di vederlo immobile con la forchetta a pochi centimetri dalla
bocca spalancata ma immobile, e così rimaneva finché il
corpo non si rimpadroniva della mente. Tutti erano preoccupati per lui, se quando guidava fosse stato colto da un
raptus creativo sarebbe volato giù da uno dei tanti cavalcavia o tornanti che costituiscono la viabilità ligure.
Fortunatamente ciò non successe mai, una sola volta accadde qualcosa di simile, ma in mare; le guide del consorzio erano a bordo del gommone guidato da Gabriele e dirette alla boa numero otto per un controllo preimmersione.
Erano le otto della mattina e alle nove sarebbero cominciate le immersioni sul relitto aperte a tutti; il pilota colto da
processo fantasioso relativo ad una nuova idea commerciale si isolò completamente da tutto il resto del mondo, passò
vicino alla boa numero otto senza fermarsi e proseguì verso il mare aperto; solo dopo due miglia tutto il gruppo
esclamò:«ooooohhhhhhhhhh fermaaaaaa.» I compagni
non si arrabbiarono, ormai lo conoscevano, ma tutti incuriositi vollero sapere che idea gli fosse venuta in mente.
Ottimo sub, era l’unico di cui Stefano si fidava ciecamente in acqua. Sebbene ricco era un ottimo uomo di mare, abituato alla vita in barca sin da piccolo, il nonno infatti possedeva una vecchia signora del mare, un Sangermani
di sedici metri del 1956. Fu il nonno a insistere che prendesse la patente nautica, tassativamente vela e motore oltre
le venti miglia dalla costa. Dall’età di ventidue anni si im-
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mergeva nella zona di Sanremo e della Costa Azzurra, di
cui conosceva tutti i relitti famosi, il Rubis, il Togo, il
Sagonà. Partecipò con Stefano alla spedizione sulla Ark
Royal, anzi la spedizione fu realizzata per merito suo, infatti fu il padre a finanziarla, come anticipo sul regalo di
laurea.
CAPITOLO SETTE
I COLLABORATORI
TRA I VARI ELEMENTI che a rotazione popolavano il gruppo di
guide del consorzio, alcuni spiccavano per la loro personalità. Oltre a Stefano, Tarja e Bambinoricco solo un’altra
persona era membro permanente, Roberto Castagnola, detto Ruby. Da buon genovese gestiva oculatamente ogni risorsa energetica, era soprattutto parsimonioso e moderato
negli sforzi fisici. Longilineo, alto e castano, estroso nel
vestire era un maniaco dell’aspetto: non appena uscito dall’acqua e toltosi il cappuccio della muta si pettinava con
meticolosità; anche con il mare forza quattro, aveva sempre un pettinino a portata di mano, nessuno immaginava
dove lo tenesse ma ogni venti minuti gli compariva tra le
mani, su un lato vi aveva incollato una striscia di specchio,
in modo da controllare l’operazione tra un colpo di pettine
e l’altro. Oltre a fare la guida subacquea si occupava con
Stefano della gestione della rete dei computer del consorzio, la sua giornata tipo prevedeva la mattina immersione
di controllo sul relitto, briefing o corsi in sede e al pomeriggio lavoro in ufficio, o viceversa a seconda delle necessità. Ruby si occupava della manutenzione dei computer,
della formazione degli utenti, anche quelli amministrativi,
della gestione del sito www.vittorioveneto.com e della gestione dell’archivio fotografico. Fallita la ditta presso cui
lavorava come tecnico hardware, era stato assunto come
sviluppatore web presso un’azienda di Genova, sua città
natale, durò pochi mesi, la vita d’ufficio passata davanti al
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computer richiedeva una disciplina, una produttività e una
professionalità che lui non aveva. Adorava il contatto con
le persone, la chiacchiera, tutti pensavano che il mestiere
più adatto per lui fosse quello del barista o quello del portinaio in un grosso condominio, infatti era un pettegolo incallito. Conobbe Stefano per caso durante una visita ai
Magazzini del Cotone, nel Porto Antico di Genova; entrambi si ritrovarono in ammirazione davanti ad un modello di cantiere del piroscafo Umbria, costruito dai cantieri
Orlando di Livorno e autoaffondato dall’equipaggio fuori
da Port Sudan. Il perché fossero tutti e due lì, ad ammirare
quel modello tra tanti disponibili, era inequivocabile, entrambi erano wrecker.
«Ci sei già stato sopra?» chiese Ruby al suo futuro datore di lavoro.
«Forse ci vado questo inverno», rispose Stefano senza
sapere di aver innescato una bomba logorroica. Il suo interlocutore finì di parlare dopo due ore. La passione comune li portò a scambiarsi il numero di telefono e a rincontrarsi in occasione dell’Eudi show e del Salone Nautico di
Genova. Fu il destino a far combaciare le loro necessità lavorative. Ruby dopo aver abbandonato il posto di sviluppatore web, decise di mettersi in proprio, creando una ditta
individuale addetta alla manutenzione di computer aziendali. La sua avventura imprenditoriale fallì a causa della
sua indolenza e delle varie segretarie che lo facevano accorrere ogni giorno per banali e stupidi errori nell’uso del
software. Quelle oche giulive lo chiamavano per ogni stupidata, come una spina disinserita, oggetti appoggiati sulla
tastiera o errate opzioni impostate nel programma in uso.
Per non far pesare le continue uscite del tecnico sul bilancio della ditta e soprattutto per non apparire in tutta la loro
stupidità agli occhi del superiore, promettevano a Ruby
pagamenti in altra natura come inviti a cena e dopocena.
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La maldestra gestione dell’impresa condusse Ruby all’inevitabile fallimento. Fu allora che Stefano gli offrì una
soluzione per rifarsi una vita, gli propose un contratto di
assistenza e collaborazione di sei mesi, al termine del quale avrebbero deciso se continuare o interrompere la collaborazione. Sistematosi in un monolocale di Imperia, Ruby
era tornato a nuova vita, non aveva orari di lavoro, nessuno lo pressava, e in più si immergeva quasi ogni giorno sul
più bel relitto del mondo.
Delle guide che prestavano servizio per alcune settimane due rimasero impresse nella mente di tutti, due amici di
Brescia che facevano insieme qualsiasi cosa. Di cultura ed
educazione superiore alla media, avevano una sensibilità e
una intelligenza emotiva fuori dal comune. A nessuno venne in mente che potessero essere gay, solo Stefano colse un
gesto di tenerezza tra i due, mimetizzato benissimo tra i
modi spicci, tipici degli abitanti di quella provincia.
Approfittando di un momento di solitudine con i due, chiese da quanto tempo fossero insieme.
I due sorpresi da tale domanda si guardarono negli occhi,
chiedendosi dove avessero sbagliato per farsi scoprire, poi risposero:«Da qualche anno. La cosa crea qualche problema?»
Stefano sorrise e rispose:«Assolutamente no, se decidete di sposarvi vi faccio da testimone.»
I due amici bresciani, sempre più sorpresi guardarono
Stefano dritto negli occhi cercando di leggere la risposta
ad una domanda che rimbalzava loro nella mente.
Senza attendere un miracolo di telepatia Stefano disse:«No ragazzi, a me piacciono le donne e dubito che mi
stancheranno per i prossimi cinquant’anni.» Risero tutti e
tre, le battute avrebbero potuto proseguire per ore, ma per
quel trio di uomini le attitudini sessuali altrui erano da rispettare, qualunque fossero.
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Le guide del consorzio rappresentavano un campionario eterogeneo di quanto offriva la subacquea italiana.
Subacquei di tutti i tipi, si avvicendavano durante il week
end o nei mesi estivi, per qualche settimana, chi guidava le
immersioni non pagava l’immersione e ogni cinque immersioni aveva diritto a una immersione gratuita. Questo
accordo funzionava con tutti quei sub che si immergono
per passione e che generalmente provengono dalle città del
nord Italia.
CAPITOLO OTTO
LUNEDÌ
LA MATTINA SEGUENTE, il lunedì, si alzarono alle otto, la not-
te era passata rapida e insonne, si avviarono al bar dove facevano colazione con gli altri membri del consorzio.
Trovarono solo Bambinoricco ad attenderli, tutti gli altri,
ormai raggiunti dalla notizia della scomparsa, erano già al
consorzio.
Il vento caldo continuava a soffiare, senza accennare a
smettere, e il meteo prevedeva una durata di altre 24 ore.
Alla sede del consorzio, gli impiegati amministrativi erano
già al lavoro dalle otto e trenta, le due commesse del punto
vendita interno avevano iniziato le pulizie del locale, le
guide erano in sala video, benché fossero al corrente della
situazione, volevano da Stefano le ultime notizie.
Non appena varcata la soglia della saletta, in un angolo
della quale faceva bella mostra di se il modello del relitto
racchiuso in una teca di vetro, i presenti si alzarono dalle
sedie blu allineate al centro della sala e si disposero di
fronte a Stefano e Tarja.
«Sapete tutti cosa è successo?» chiese Stefano ai presenti. Il prevedibile coro di sì incalzò le parole successive.
«Ci aspetta una settimana pesante, appena molla il vento
cominciamo le ricerche del cadavere, la magistratura metterà sotto sequestro il relitto, le immersioni al di fuori delle
ricerche sono vietate a tutti, salvo autorizzazione della
Capitaneria. Sono già arrivati Carabinieri o poliziotti?» aggiunse incrociando le braccia.
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«Sono già stati qui, avevano delle buste, le hanno consegnate al travet», rispose Alberto, studente di economia e
commercio a Gallarate e guida del consorzio.
Il travet era il signor Giovanni Crespi, ragioniere della
regione Liguria, comandato presso il consorzio 2 giorni alla settimana, il lunedì e il giovedì, il suo compito era quello di tenere la contabilità e riferire in regione sull’andamento e le vicende del consorzio. La regione, prestando il
proprio personale aveva messo una specie di controllore
interno, così pur non avendo possibilità alcuna di intervenire sulla gestione del consorzio, aveva la conoscenza della situazione economica e politica in tempo reale. Stefano
non era per nulla infastidito da questo, la regione aveva appoggiato il progetto sostenendo gli oneri iniziali dell’operazione, quantificati un milione di euro, più che giusto che
tutelasse il proprio investimento.
Stefano si congedò dalle guide presenti, per oggi non ci
sarebbero state immersioni, ognuno poteva dedicarsi alla
propria attività principale in seno al consorzio. Seguito da
Tarja si diresse al loro ufficio al secondo piano della casa
sede del consorzio, passando dal primo piano chiesero a
Giovanni di consegnare quanto lasciato dai Carabinieri.
Con il personale amministrativo, tutto stipendiato dalla
regione, i rapporti erano molto formali, non ci si dava del
tu come nel resto del consorzio, e i rapporti erano quasi
esclusivamente di lavoro. Secondo Stefano, questo distacco era dovuto al fatto che né il signor Crespi né le due impiegate erano subacquei, anzi molto spesso si chiedevano
cosa ci fosse da vedere sotto il mare che non si potesse vedere all’Acquario di Genova. Il signor Giovanni, con l’insensibilità tipica delle persone complessate, chiedeva che
gli si spiegasse perché un essere umano, geneticamente
sprovvisto di branchie dovesse bagnarsi e soprattutto pagare 30 euro per vedere qualcosa che all’acquario si poteva
vedere per 12 euro, senza bisogno di fare decompressioni
o sforzi. Se due mentalità così diverse dovevano per forza
andare d’accordo era necessario basare il rapporto sulla reciproca stima professionale, così fece Stefano, trasformando il signor Crespi in un fidato collaboratore.
Arrivato al piano del proprio ufficio, prima di prendere
posto alla scrivania e aprire la posta, Stefano accese la videocamera digitale sistemata sul treppiede davanti alla finestra del balcone, la diresse sul campo boe e zoomando
cercò di intravedere qualche oggetto estraneo. Le probabilità che apparisse il corpo di Paolo erano inesistenti, ma
non costava nulla tentare. Tarja seduta alla sua scrivania
aveva iniziato a redigere nuove pagine del suo lungo rapporto, l’argomento del giorno però non stimolava la sua
vena creativa ed era in attesa che da un momento all’altro
un pensiero sensato si formasse nella mente.
Nella posta che Stefano si accingeva ad aprire, spiccava
la busta verde della Magistratura, con l’istanza di sequestro
del Vittorio Veneto e l’invito a comparire quanto prima al cospetto del magistrato incaricato delle indagini, il dottor Antonio De Corti. Stefano decise di andarci nel primo pomeriggio, alzò la cornetta del telefono e prese appuntamento per
le quattordici e trenta, ci sarebbe andato da solo, ora attendeva una visita che avrebbe volentieri evitato.
Erano circa le undici di lunedì mattina quando Barbara,
neo vedova Molli, arrivò alla sede del consorzio. Stefano,
alla finestra, vide la Yaris nera percorrere la strada che portava alla palazzina di 2 piani adibita a uffici del consorzio.
Scese di corsa le scale e si avvicinò all’auto di Barbara; la
piccola e sfatta donna terminata la manovra di parcheggio,
tentò di ricomporsi prima di scendere. Asciugò l’ultima
delle lacrime sfuggita dagli occhi consumati, indugiò inutilmente col fazzoletto vicino al condotto lacrimale, sperando che la sorgente si inaridisse per i prossimi minuti.
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Stefano attendeva che parlasse per prima, pur immaginando cosa avrebbe chiesto. Barbara non attese molto e
aggredì l’uomo di fronte con feroci domande alle quali esigeva solo una conferma.
«Era con quella puttana vero?» chiese con voce tremolante e piena di disprezzo.
Stefano non disse nulla, si limitò a guardare con i suoi
occhi blu la donna di fronte, ella non attese che pochi secondi poi proseguì, chiedendo come fosse successo.
«Sono usciti per dei rilevamenti sullo scafo del relitto»,
attaccò Stefano, «si è immerso da solo, come faceva di solito, non sappiamo cosa sia successo né dove sia il corpo.»
Distolse lo sguardo dalla donna per non vedere gli occhi
lucidi, se avesse indugiato anche a lui sarebbe scappata
qualche lacrima, per l’amico perso e perché ogni volta che
vedeva piangere una donna per disperazione, di riflesso,
gli veniva da lacrimare. Tuffò lo sguardo nell’orizzonte
spumoso del mare adirato e in quei giorni ostile.
«Quando mi riportate il corpo?» chiese la donna prima
di essere colta dall’ennesima crisi di pianto.
«Prima dobbiamo trovarlo», disse Stefano, «stiamo
aspettando che il mare si calmi, credo che cominceremo
domani le ricerche, oggi pomeriggio devo presentarmi dal
magistrato, hanno aperto un’inchiesta, probabilmente faranno l’autopsia, ci vorrà qualche giorno.» Mentre parlava
si sforzava di rimanere calmo, ma un senso di agitazione
cominciava a salire dallo stomaco alla gola; da lì a poco
avrebbe sentito un forte bruciore di stomaco, segno inequivocabile dello stato di stress. Da molto tempo non sentiva
più quella sensazione divampare dentro di lui.
Barbara asciugò il rigagnolo che inondava la guancia
sinistra e disse: «Continuo a piangere e non so perché, ormai era tutto finito, volevo chiedere la separazione, volevo
che se ne andasse di casa.»
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«Questo non lo sapevo», disse Stefano.
«L’ho deciso da qualche giorno, non lo sapeva nemmeno lui», continuò la donna guardando nel vuoto.
«Posso fare qualcosa?» chiese Stefano, «vuoi entrare a
bere dell’acqua o un caffè?»
La piccola donna scosse la testa, e disse:«Non voglio
vedere nessuno, vado via subito. Fammi un favore, fai in
modo che quella puttana non si presenti al funerale, altrimenti…»
Stefano aveva già immaginato questa evenienza e in un
modo o nell’altro avrebbe risolto il problema.
Si avviarono verso la Yaris di Barbara dalla quale si erano allontanati pochi metri, si salutarono stringendosi la
mano per alcuni secondi poi la donna senza ormai più lacrime se ne andò, affranta e sola come era venuta.
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CAPITOLO NOVE
MARISA
MARISA CALEFFI si immergeva da molti anni, l’acqua era per
lei la dimensione naturale dove esprimere la propria personalità.
Lavorava in un albergo di Torino, il suo incarico principale consisteva nel ricevere gli ospiti alla reception ma in
realtà faceva un po’ di tutto visto che l’albergo in parte era
suo. L’hotel Fortezza, tre stelle iniziali, poi declassato a due
per rientrare in competizione sul mercato, aveva passato un
periodo non molto felice, causato principalmente dalla cattiva gestione della famiglia allora proprietaria. Per evitarne
il fallimento, alcuni dipendenti, tra cui Marisa, il direttore,
la governante ai piani e due portieri notturni avevano deciso di associarsi e rilevare l’azienda, investendovi parte dei
loro averi. La scelta col tempo ripagò dei sacrifici e Marisa
ora poteva permettersi di lavorare solo quattro giorni alla settimana e passare gli altri facendo il suo sport preferito, le immersioni su relitto. Da un anno faceva la guida presso il diving center Delfino Rosa di Imperia, diretto dal buon Tino
Corsi. I due andavano molto d’accordo, qualcuno insinuava che ci fosse qualcosa di più che un semplice accordo commerciale, in verità Tino era l’unico uomo che Marisa non si
sarebbe mai portato a letto, pur avendo una naturale propensione a farlo con chiunque le andasse a genio. Dopo un
episodio verificatosi a bordo del suo gommone, Tino comprese subito che una simile figura professionale avrebbe attirato al centro immersioni una discreta schiera di subacquei
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maschi sessualmente interessati, e la cosa gli sembrava una
fortuna da sfruttare abilmente. Quella volta, Marisa portava
il gommone, quando ci fu da sganciare il moschettone che
lo teneva ormeggiato alla boa, si diresse a prua e si tuffò a
testa in giù sulla prua del gommone, il copricostume che
indossava si ribaltò sulla schiena scoprendo le piccole e paffute natiche, che aprendosi, mostrarono il colore del perizoma trattenuto in ostaggio dalle carnose chiappe. L’esibizione spontanea generò una standing ovation dei presenti,
tutti uomini naturalmente. Così quando il mare lo permetteva, in cambio di vitto e alloggio, Marisa guidava da due a tre
immersioni al giorno sul Vittorio Veneto. Fu una delle prime
guide a seguire i corsi presso il consorzio e insieme a Stefano Tixera, Bambinoricco e Tarja aveva al suo attivo sul relitto più immersioni di chiunque altro.
La vita non era stata generosa in gioventù, sposatasi a
vent’anni divorziò prima di averne compiuti ventiquattro;
da allora decise che mai più nessun uomo avrebbe sostato
nella sua vita abbastanza da farla sentire impegnata in
qualche modo. Un grave incidente automobilistico, in cui
perse la vita la sorellina di tredici anni, le impedì di lavorare per diversi anni, ma con il risarcimento poté rilevare la
quota maggiore dell’Hotel Fortezza. Più generosa fu la natura nell’aspetto fisico: anoressica fino a trent’anni, si era
preservata da ogni attacco di cellulite e ormai superati i
quarant’anni poteva permettersi mise da spiaggia che poche ventenni avrebbero osato. In occasione dei suoi trentotto anni si era regalata un intervento di mastoplastica adduttiva, due belle tette al silicone, unica mancanza sentita
dal suo io. Le tette aliene rialzarono il suo indice di gradimento nella comunità subacquea maschile che abitualmente gravitava attorno al diving Delfino Rosa, a tutti gli ex
venne il desiderio di provare la nuova variante e ogni maschietto tentava di suscitare interesse presso Marisa che,
pazientemente avrebbe accontentato tutti o quasi. La novità si sposava con un’abilità storica di Marisa apprezzata
dalla maggior parte dei fortunati quanto occasionali compagni, la fellatio era un’arte in cui eccelleva, una delle poche donne al mondo che gradiva passare ore con un pene
eretto e turgido in bocca. L’abilità e insieme il piacere che
ne traeva mandava in estasi il fortunato di turno che guardando lo spettacolo di cui era anche attore, si infoiava
sempre di più. L’unico difetto fisico, di cui tra l’altro non
si faceva cruccio, era la pelle del viso, stropicciata da migliaia di piccole rughe, retaggio di una sconsiderata esposizione solare protratta per anni e solo lievemente attenuata dalle creme di vario tipo, spalmate a tonnellate. Negli
ultimi anni ne metteva a chili, in ogni momento della giornata, tutti coloro che portavano occhiali avevano smesso di
baciarla sulle guance poiché se le lenti toccavano, come
sempre accade, gli zigomi, rimanevano contaminate da un
alone oleoso e solo dopo abbondante pulizia a base di diluente alla nitro, le lenti tornavano pulite.
Il segno caratteristico, quello che permetteva di distinguere Marisa solo in base alle indicazione ricevute, senza
averla mai vista, era il pesante trucco usato per evidenziare
gli occhi verde scuro, esagerava al punto che sembrava l’avessero pestata. Il trucco la seguiva ovunque, in mare in
terra in cielo. Un’indagine fatta tra uomini, in evidente stato di ebbrezza da alcool, al termine di una delle tante serate trascorse sotto il portico del diving Delfino Rosa, appurò che mai nessuno l’aveva vista senza trucco. Qualcuno
ipotizzò si trattasse di trucco permanente, quello tatuato
che dura diversi anni, qualcun altro precisò che era permanente solo se rimaneva sulla federa del cuscino, infatti alcuni dei presenti si erano svegliati la mattina senza ritrovare Marisa al loro fianco, al suo posto, una federa ornata da
ideogrammi giapponesi senza senso ma di una persistenza
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così profonda che per eliminare le tracce non rimaneva che
gettare il reperto calligrafo nei rifiuti. Il portiere della pensione dove alloggiava quando era a Imperia aveva avvisato
Tino, gli avrebbe messo in conto tutte le federe rovinate
dalla bionda, e per evitare contenziosi le teneva tutte da
parte, a prova di quanto avrebbe addebitato.
L’ultimo passatempo di Marisa era Paolo Molli, il quale, amareggiato da alterne quanto, secondo lui, inspiegabili
incomprensioni coniugali, cercava un diversivo per allentare la tensione. La madre della moglie non lo vedeva di
buon occhio; sebbene geologo di fama nazionale, non aveva una clientela fissa, faceva lavori su commissione per diversi enti tra cui l’ICRAM, il CNR, l’ENI e la regione
Liguria, ma non possedeva né uno studio avviato né un
portafoglio clienti. L’avversione della suocera era ricambiata più o meno allo stesso modo, per questa ragione non
accompagnava la moglie in visita dalla genitrice, ma preferiva restare a Imperia e vedere Marisa. La domenica dell’incidente il loro programma prevedeva un pomeriggio tra
le lenzuola a rotolarsi fino a sera.
A cambiare i loro programmi fu il mare che calmandosi,
nelle prime ore del pomeriggio, indusse Paolo a immergersi per effettuare la misurazione dei livelli di sedimento sullo scafo del Vittorio Veneto. Era importante, secondo Paolo,
approfittare di questo fenomeno inusuale per intensità e durata, così chiese a Marisa di accompagnarlo sul relitto.
Morì così, nell’assurda mediocrità di un pomeriggio fedifrago, interrotto dalla propria devozione per il lavoro,
unico vero amore della sua vita.
Dopo l’incidente a Paolo, Marisa non sarebbe stata più
la stessa, per alcuni mesi smise di andare in acqua e quando riprese lo fece senza entusiasmo.
L’incidente di Paolo fu la fine di un periodo spensierato per molte persone.
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CAPITOLO DIECI
TARJA
TARJA MATTILA era nata a Tampere al centro della Finlandia,
a diciotto anni si trasferì a Helsinki lasciando il fratello più
giovane, la madre ingegnere forestale e il padre artigiano
del legno. Terminata l’università e laureatasi in scienze turistiche aveva trovato impiego alla Finnair, per lei era prevista una carriera dirigenziale con un iter formativo appropriato. Avrebbe ricoperto diversi ruoli per i primi tre anni,
poi sarebbe diventata responsabile qualità dei prodotti
Finnair.
Per il primo anno fece la hostess di linea su varie tratte
e partecipando a un crossover tra diverse compagnie aeree;
successivamente lavorò in alcune sedi estere della compagnia tra le quali Bonn, New York e Roma, presso quest’ultima vi rimase quasi un anno. Nel 1998 a soli ventinove
anni ricopriva una delle cariche più ambite dal personale
dirigenziale della compagnia. In quell’anno cominciarono
anche i suoi guai, conobbe infatti uno di maggiori azionisti
della compagnia, un colto uomo di quarantotto anni, affascinante, bello secondo i canoni della maggior parte delle
donne.
L’uomo era sposato, aveva una figlia di poco più giovane di Tarja e il futuro genero faceva parte del consiglio di
amministrazione con la consegna di tutelare il patrimonio
di famiglia. Dapprima Tarja non ne volle sapere di inviti e
appuntamenti, ma quell’uomo, peraltro gradevole, continuava a corteggiarla con una sensibilità d’altri tempi.
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Dopo sei mesi di rispettose e velate proposte, Tarja accettò
il primo invito, ne seguirono altri e ne nacque una storia
intensa e disinteressata. Per qualche mese la relazione fluì
nella normalità ma, col passare del tempo, l’uomo veniva
divorato dalla bramosia di avere la donna solo per sé, voleva sposarla. L’ossessione, tra l’altro non ricambiata, si materializzò nell’assurdo piano di uccidere la moglie, simulando un incidente automobilistico.
La donna uscì di strada ma non morì, l’auto che doveva
prendere fuoco non si incendiò e una perizia scoprì la diabolica quanto rozza colpevolezza del marito. Ormai paralitica, la donna fece causa al marito come parte civile, aggravando così la situazione penale del marito fedifrago.
Consigliato dalla difesa, che prevedeva l’ergastolo come
sentenza, senza la possibilità di ribaltare la decisione dei
giudici in appello, l’uomo finì per accusare Tarja di complicità, al fine di vedersi ridurre la pena. Comunque fossero andate le cose non avrebbe più rivisto la giovane donna,
tanto valeva trarne vantaggio.
Gli avvocati di Tarja non ci misero molto a far crollare
il castello di prove inesistenti su cui si basava la difesa del
fallito uxoricida.
I guai non finirono con la sentenza favorevole, la compagnia aerea, su pressione del genero dell’ex amante, invitò Tarja a lasciare la compagnia, che da mesi era colpita da
pubblicità negativa attraverso l’unico giornale scandalistico della Finlandia.
L’alternativa per Tarja sarebbe stata il trasferimento in
una sede estera, in un angolo remoto del mondo, soluzione
naturalmente poco gradita. Concordò un risarcimento per
il danno subito, minacciando una causa per mobbing se
non fosse stato accettato; dalle trattative ottenne due anni
di stipendio pagato e la sua liquidazione moltiplicata per
cinque. Tutto sommato fu un affare per tutti e due, la com-
pagnia aerea pretese alcune clausole nel contratto, per salvaguardare in futuro l’immagine dell’azienda, riguardavano eventuali dichiarazioni ai media e ogni pubblicazione
sull’accaduto come libri o altro, nonché l’impossibilità di
lavorare presso qualsiasi altra struttura fino al termine dei
due anni di retribuzione concordata.
L’avventura costò molto cara a Tarja in fatto di salute,
un tremendo esaurimento nervoso la colpì, l’inattività forzata la deprimeva ulteriormente. Fu una breve psicoterapia
a salvarla dalla depressione unitamente a una attività sportiva intensa e professionale. Nei due anni seguenti frequentò lo Sporting Center di Helsinki ogni giorno, praticamente viveva lì. Da principio solo il continuo allenamento
le impediva di pensare alla storia passata, poi col tempo finì per abituarsi a quel triste e deleterio ricordo che l’avrebbe seguita per tutta la vita, costandole qualche ora di malinconia e sconforto. Come una sorta di allergia, era colta
da nausea e mal di stomaco ogni volta che qualcuno tentava di sedurla con modi sdolcinati come quelli del maturo
uomo d’affari causa di tanta sofferenza; se poi l’uomo era
anche sposato, sopravveniva una totale repulsione, innata
difesa dell’organismo verso quel tipo di infezione sentimentale. Si dedicò con tale abnegazione al fitness da diventarne una acerrima sostenitrice, presso la palestra sostituiva i trainer che non potevano fare lezione e decise di
partecipare fuori gara con una squadra cittadina al festival
del Fitness di Francoforte. Fu un successo. Al ritorno dalla
manifestazione, il Ministero del Turismo, indisse un bando
di concorso per seguire un progetto turistico in Italia, e al
tempo stesso conseguire la specializzazione in scienze turistiche sperimentali presso l’università di Helsinki.
Tarja vinse il concorso poiché parlava oltre al finlandese, inglese, tedesco, svedese, russo e un po’ di italiano appreso da autodidatta durante l’anno passato negli uffici
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amministrativi della Finnair a Roma, inoltre era un’ottima
subacquea.
Usufruendo degli sconti concessi ai dipendenti dalla
compagnia area, aveva visitato le migliori mete subacquee
del mondo, compilando un logbook di immersioni invidiabile. La caratteristica che le aveva permesso il primo posto
in graduatoria era la sua esperienza nel campo dei relitti,
infatti quasi tutte le sue immersioni si erano svolte sui relitti di Scapa Flow, Bikini, Truk Lagoon, Costa Azzurra e
Mar Rosso. Trovare un candidato con simili credenziali
era pressoché impossibile in una nazione nordica con solo
cinque milioni di abitanti.
Per via della vicinanza con la Russia, paese dove si stava sviluppando la subacquea ricreativa, il governo finlandese vedeva l’opportunità di sfruttare i numerosi relitti nel
Golfo di Botnia e magari affondarne qualcuno nuovo, le
offerte a saldi presso la marina russa non mancavano.
Un giorno di gennaio 2002 Tarja si presentò alla futura
sede del consorzio Vittorio Veneto, ad attenderla vi era il
direttore Stefano Tixera.
Indossava un cappotto di piumino che non lasciava trasparire nulla delle sinuose forme modellate da ore di acquagym, nuoto, step e spinning. Gli scarponcini, il pile e i
pantaloni di velluto sfumavano quello che con l’arrivo della bella stagione sarebbe stato il corpo più ammirato della
costa ligure.
Il viso di Tarja, un ovale spigoloso, colpiva per la luminosità e i lineamenti delicati ma geometrici. Al centro un
piccolo nasino appuntito attirava tutte le attenzioni per poi
deviarle verso gli occhi verde malachite scuri al punto da
sembrare neri, solo chi si avvicinava a meno di mezzo metro ne distingueva l’inquietante colore. Di taglio oblungo
come quello di un’orientale, vi si scorgeva solo l’iride, che
incontrastata oscurava il bianco della cornea. Le labbra,
carnose ma appuntite ai lati della bocca, sembravano quasi
affilate, anche l’angolo superiore del labbro, quello sotto il
naso era angolato assomigliando ad una losanga. La sensazione di spigolosità era accentuata ulteriormente dalla capigliatura, di un biondo chiarissimo, scolpita in un caschetto asimmetrico. La frangetta raggiungeva le sopracciglia, dal lato destro proseguiva lambendo la tempia, sfiorando il lobo dell’orecchio, scalando delicatamente fino alla nuca, continuava sull’altro lato come un normale caschetto, terminando poco dopo l’orecchio sinistro che rimaneva completamente nascosto dai capelli, la punta del
lembo sinistro del caschetto lambiva l’articolazione della
mascella. Quella acconciatura stupiva tutti per la sua originalità.
Quando Stefano la vide per la prima volta capì che non
era pane per i suoi denti, troppo giovane, troppo bella,
troppo intelligente. Entro poche settimane avrebbe avuto
uno strascico di ammiratori e a lui di competere per una
donna non andava proprio.
Il loro primo colloquio, in perfetto inglese, si tenne in
quella che sarebbe diventata la sede del consorzio.
Arrivata in treno da Nizza, dove si era recata per salutare
amici di famiglia, Tarja si era presentata con un solo trolley come bagaglio, meravigliando Stefano che si aspettava
almeno quattro valige. In realtà il resto del bagaglio sarebbe arrivato dopo qualche giorno; una volta trovata la sistemazione adeguata, la famiglia le avrebbe spedito il resto
tramite corriere. Stefano propose di alloggiare per qualche
giorno nell’hotel di fianco al consorzio, un dignitoso due
stelle, farsi spedire il bagaglio e cercare con calma un alloggio di gradimento; il bagaglio lo avrebbero trasportato
con il furgone del consorzio. Una volta sistemata avrebbe
cominciato a lavorare presso il consorzio. L’idea piacque
alla finlandese che finì per stabilirsi definitivamente presso
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l’hotel Cometa. Prima di accompagnarla alla reception
dell’albergo Stefano prese un grosso raccoglitore e lo porse alla donna: conteneva il business plan del progetto
Vittorio Veneto, già tradotto in inglese.
Gli accordi tra il consorzio Vittorio Veneto e il
Ministero del turismo finlandese prevedevano che Tarja lavorasse al consorzio in veste di guida subacquea, traduttrice, public relation, addetta alle relazioni con la stampa
estera, in cambio poteva accedere ad ogni aspetto amministrativo, logistico, economico e sociale della gestione del
consorzio. Stefano la coinvolgeva in ogni attività, responsabilizzandola oltre il dovuto: per tutti Tarja era la persona
che lo sostituiva quando era assente. Il contratto di lavoro
prevedeva trentasei ore di lavoro alla settimana, ma non
erano mai meno di cinquanta, Tarja non si tirava mai indietro. Nemmeno gli orari erano fissi, a volte si lavorava solo
la mattina, altre volte il pomeriggio o la sera. La donna
chiese solo una pausa, quando possibile, di due ore nell’arco della giornata, da utilizzare per un po’ di sport aerobico.
Appena poteva, andava nella sua stanza d’albergo, allo
stesso piano del suo ufficio ma nello stabile di fianco e si
cambiava, prendeva la mountain bike e faceva un’ora in
giro per le colline retrostanti Oneglia o sulla statale
Aurelia. Al ritorno, una doccia veloce e tornava al lavoro.
Alla bicicletta alternava un’ora o più di nuoto. Proprio davanti al consorzio e all’hotel, vi era la spiaggia di ciottoli
protetta dal frangiflutti in pietre; si era formata così una
specie di piscina naturale profonda pochi metri ma lunga
quasi un centinaio. Con indosso la muta da sub e le pinne
percorreva la distanza da una sponda all’altra innumerevoli volte e senza fermarsi. Se fosse stata in costume, una folla di ammiratori voyeurs avrebbe assistito alla performance sportiva.
Con l’inizio delle immersioni sul Vittorio Veneto, oltre
a fare i corsi preimmersione agli stranieri e ai giornalisti
che parlavano tedesco, svedese, finlandese o russo, si occupava di tutta la corrispondenza con la stampa estera.
Alla fine dell’anno di permanenza avrebbe redatto un rapporto per il Ministero del turismo finlandese, di cui una copia sarebbe rimasta al consorzio.
L’abbronzatura artificiale, omogenea e monocromatica,
ricordo della partecipazione al festival di Francoforte, tingeva la pelle tesa ed elastica; al di sotto dello strato epidermico muscoli tonici e guizzanti davano, a chi per caso entrava in contatto con il corpo di Tarja, una sensazione di
durezza. Chi invece come Stefano aveva l’opportunità di
palparlo in stato di relax provava una sensazione di reattiva gommosità, i fasci muscolari mantenevano il corpo sodo anche quando erano rilassati. Non vi erano segni di cellulite, accenni di flaccidità, smagliature o capillari visibili,
sembrava finta.
Al tatto la pelle pareva raso di seta, Tarja vi dedicava la
massima cura, durante la doccia usava un guanto di crine
ruvido come una matassa di filo spinato, lo passava su
ogni centimetro di pelle, anche la più delicata. Finita la
doccia toccava all’idratazione, un prodotto specifico spalmato velocemente preservava l’involucro divino dall’invecchiamento. Tra una sauna e l’altra invece, Tarja si depilava con la massima cura. A nessun pelo era consentito
crescere su quel corpo al di fuori delle zone autorizzate, ciglia, sopracciglia e cuoio capelluto. Ogni tentativo sovversivo veniva stroncato sul nascere, non era concesso ai peli
spuntare per più di un micron. L’inguine richiedeva la
massima cura, in quella zona la vigilanza e l’attività depilatoria erano particolarmente intense, con grande gioia di
Stefano.
Dalla sua pelle e dalle mani di Stefano, Tarja traeva
nuovi ed eccitanti stimoli. Una sera per caso Stefano passò
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la mano sulla schiena nuda di Tarja, sfiorando la pelle,
un’ondata di brividi seguì lo spostamento delle dita, che
invece di infastidire la donna, provocarono uno stimolo
elettrizzante, la donna chiese al compagno di farlo ancora
e poi ancora, lasciando l’uomo sbalordito. Ciò che a quasi
tutti gli esseri umani dava fastidio a lei donava immenso
piacere; da allora, una volta a casa, ogni momento era buono per le caressine, così le chiamava la finlandese. Spesso,
mentre Stefano era impegnato in lunghe telefonate col suo
amico Nico, Tarja si avvicinava e togliendosi la maglietta
chiedeva appunto le “caressine” con la mano libera. Una
volta soddisfatta la schiena, Tarja scopriva il sedere e pretendeva che Stefano si occupasse delle natiche. Dopo un
minuto di estatica ammirazione per quel capolavoro di
scultura umana, iniziava lo sfioramento delle natiche causando una spessa pelle d’oca. Il piacere che la donna provava era indescrivibile. Stefano cominciò a pensare di essere dotato di un fluido particolare.
Ogni tanto Stefano tentava di divagare sul tema cercando di spostare velocemente il nastro del perizoma imprigionato tra i glutei e infilare il polpastrello del medio nell’ano o nella vagina, la reazione di Tarja era fulminea, i
glutei si contraevano con la forza di una tridacna
dell’Oceano Indiano. Per Stefano era quasi sempre impossibile penetrare uno dei due orifizi, se vi riusciva la morsa
delle natiche strizzava le dita con forza tale che da costringerlo a ritirale. I tentativi si susseguivano in numero di due
o tre dopodiché Tarja si arrabbiava e redarguiva il suo
compagno dicendo: «Tu fa bene tuo lavoro.» Dopo qualche decina di minuti di “lavoro” a Stefano veniva una particolare eccitazione nella zona dell’inguine, appena Tarja
se ne accorgeva chiedeva spiegazioni di tanta eccitazione,
qualunque fosse la risposta dell’uomo, seguiva da parte
della donna l’offerta di un servizio sempre molto gradito
dal compagno. Le guance muscolose di Tarja creavano una
tale depressione attorno al pene da risucchiare il cervello
di Stefano se il trattamento fosse durato più di qualche minuto. Entrambi preferivano passare ad altre espressioni
dell’ars amatoria. Il cervello di Stefano rischiava notevoli
riduzioni di volume anche quando si dedicava al cunnilingus, infilare la testa tra le cosce muscolose di Tarja era una
vera e propria prova di coraggio, durante l’orgasmo tendeva a stringerle con forza causando al suo amante una insostenibile pressione intracranica. Stefano pensava che prima o poi il suo cervello sarebbe stato iniettato nelle cavità
paranasali e se la pressione non terminava la materia grigia
sarebbe stata estrusa dalle narici mentre gli occhi sarebbero stati sparati come due tappi di spumante attraverso le
pareti in legno della casa.
Da quando viveva con Stefano, Tarja aveva scoperto il
lato giocherellone del suo compagno, serio e puntiglioso
sul lavoro, nella vita privata dava molto spazio da ogni
aspetto ludico della vita; la donna si meravigliava che in
una persona potesse risiedere la serietà professionale di un
funzionario ministeriale e la fantasia irrequieta di un ragazzo adolescente. Stefano regrediva volontariamente solo
nelle pareti di casa e Tarja si lasciava coinvolgere dai giochi che il suo compagno inventava al momento. Tutto sarebbe finito una volta usciti di casa, era come vivere con
una specie di dottor Jeckill e mister Hyde. Una sola volta
Stefano perse la bussola, erano a Genova nel palazzo della
regione, soli in ascensore mentre salivano al sesto piano
Stefano disse ridendo:«vuoi vedere come si ferma un
ascensore?» e senza attendere la risposta di Tarja cominciò
a saltellare con i suoi 96 chili. L’ascensore si fermò veramente, suonò l’allarme e in breve tutto il palazzo seppe dei
due bloccati nell’ascensore. Tarja rimase molto seccata da
questo comportamento, fuori luogo e soprattutto stupido.
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Per sdrammatizzare Stefano disse che tutte le persone in
attesa sul pianerottolo avrebbero pensato che loro due stessero facendo del sesso in ascensore. Fu come buttare benzina sul fuoco, Tarja incrociò le braccia e non rivolse la parola a Stefano per tutto il giorno. Intanto una folla di curiosi attendeva la liberazione dei due prigionieri, se non altro
per vedere chi fossero. Il custode pazientemente salì, a piedi, fino all’ultimo piano, si attaccò alla manovella dell’ascensore e lentamente sollevò la cabina fino al piano successivo. Ci vollero diversi giorni perché a Tarja passasse
l’arrabbiatura.
Nelle prime settimane di permanenza, i rapporti con
Stefano erano solo professionali, ognuno di loro alla fine
della giornata si ritirava a vita privata e nulla sapeva dell’altro. Continuò così per tre settimane, poi un giorno in
vista di una riunione alla regione Liguria Stefano chiese a
Tarja di vestirsi in modo elegante, Il giorno dopo la donna
si presentò con un tailleur rosa pesca e scarpe di vernice
vera con tacco a spillo, sotto il giacchino un top di pizzo
elasticizzato senza maniche compattava il seno in un morbido rigonfiamento della cassa toracica impedendo ai capezzoli turgidi di manifestarsi in tutta la loro turgidità. Le
calze nere con motivo floreale sembravano dipinte sulle
gambe muscolose, la gonna era sagomata dalle incantevoli
e rotonde forme delle cosce e delle natiche, ogni piega del
tailleur era riempita di abbondante sensualità. Per la prima
volta la donna si truccò il viso in modo adeguato, un filo di
eye-liner sottolineava gli occhi felini, l’ombretto rosa madreperla esaltava il colore dell’iride, sulle labbra un rossetto rosso peccato aspettava di essere assaggiato. Rimase
senza parole, Stefano, quando la vide, senza parole rimasero tutti i presenti alla riunione. Fu quella sera che i due cenarono insieme nella casa di legno, fu quella sera che tra i
due si insinuò un embrione di sentimento. Complice l’af-
fiatamento e successivamente la convivenza, con il passare
del tempo e l’aumentare dell’intimità, Stefano si impadronì del corpo di Tarja. Ci fu solo un’altra occasione in cui
Tarja ebbe modo di sorprendere tutti con un abbigliamento
palesemente provocatorio. Una sera di luglio, in occasione
di una festa in discoteca per festeggiare la laurea di una
delle guide del consorzio, Stefano chiese a Tarja di vestire
in quell’occasione in modo sexy.
La donna sorpresa, volle mettere alla prova i sentimenti
del compagno, ormai aveva capito che ogni italiano quando è veramente interessato alla propria donna prova una
intensa gelosia, quindi decise di utilizzare la serata per
quel tipo di test.
«Tu vuole che io vestere come…Cubista?» chiese all’uomo che meravigliato rispose con un “mmhhh”, del
quale nemmeno lui interpretava il significato, e un’espressione di velata preoccupazione. Aveva l’impressione che
stesse per accadere qualcosa ma la curiosità era tale da indurlo a stare al gioco.
Con un sorriso compiacente ma sibillino la donna aggiunse: «Va bene io fa.»
Lo sforzo maggiore che Tarja dovette fare per prepararsi fu quello di rendere omogenea l’abbronzatura; ormai
scomparsa quella da gara era stata sostituita da quella da
lavoro, la pelle sembrava infatti quella di una cavalla pezzata. I piedi erano quasi bianchi, le caviglie appena ambrate, a causa dei calzari da sub indossati durante il giorno tra
un’immersione e l’altra, i polpacci e le cosce erano quasi
marroni, dando l’impressione che portasse calze autoreggenti, infatti i pantaloncini usati per andare in bicicletta lasciavano un segno bianco proprio dove di solito termina
quel tipo di calza, il corpo era anch’esso chiaro a causa del
costume intero che usava, la schiena era la parte più scura
di tutto il corpo. Ci vollero quattro sedute di doccia solare,
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di cui una fatta con un asciugamano intorno alle gambe, in
modo da coprire la parte abbronzata e scurire piedi e fianchi. Alla fine del trattamento la pelle sembrava monocromatica. Per l’abbigliamento della serata scelse una minigonna inguinale di pelle nera con spacchetti laterali che arrivavano a cinque centimetri dalla cintura, ombelico scoperto. Un bustino di cotone elasticizzato bianco con il davanti a forma di cuore e la parte posteriore composta da
quattro elastici bianchi, al collo un lacciolo, sempre bianco, ancorato nello svaso del corpetto, fungeva da sicura,
impediva infatti che le due coppe, addette al contenimento
del seno, scendessero troppo. Ai piedi un paio di sandali
dal tacco vertiginoso lasciavano completamente scoperti i
piedi. Affusolati, magri, guizzanti i piedi erano il punto da
cui ogni uomo presente iniziava l’ammirazione di quel
corpo, i tendini e i muscoli, quando la donna camminava,
sembravano muoversi con l’armonia e la fluidità delle corde di un’arpa, preludio ad una sinfonia di forme e linee
estatiche. Il verde smeraldo dominava incontrastato su tutti gli altri spazi disponibili, il trucco degli occhi, sapientemente sfumato, le unghie delle mani e dei piedi, i sandali
di sottile cuoio, tutti gli accessori avevano la stessa tonalità di verde smeraldo. Anche il perizoma indossato era verde, un verde bottiglia, poiché era l’unico verde che era riuscita a trovare, l’unico colore che mancava alla sua collezione. I nastrini laterali del perizoma salivano fino alla vita, mentre la gonna bassa in vita lasciava scoperta buona
parte del ventre e dietro copriva solo le natiche, a patto che
non sculettasse, cosa che avveniva mentre camminava.
Eliminato il caschetto asimmetrico già dalla primavera,
appena iniziate le immersioni, i capelli si esibivano ora in
un carrè molto corto e pratico, per l’occasione accorciati
ulteriormente, scoprendo ogni parte del volto, due sottili
barrette di metallo dorato pendevano dalle orecchie. Sulle
labbra, continuamente accarezzate dalla punta della lingua,
una distesa di rossetto rosa tradimento era stata abbondantemente pennellata. Il tocco finale era una ricercata miscela di odori, un’amalgama di bagnoschiuma Dove, antitraspirante Vichy, profumo Latix di CK, doposole Piz Buin.
Sapientemente dosati ad un’eruzione ormonale dovuta alla
imminente ovulazione, quel corpo diceva, a chiunque ne
sentisse l’odore, prendimi.
Con quell’abbigliamento, più adatto ad un’attrice di
film hard, una squillo di lusso, la cameriera di un topless
bar, una ballerina di lap dance o la cassiera di un night,
Tarja si concesse l’unica esibizione trasgressiva della sua
vita, non ci furono altre occasioni per rimettere quegli indumenti, il giorno dopo finirono in una scatola di cartone e
non ne uscirono mai più.
Per Stefano quella fu una delle serate più stressanti della sua vita, appena la vide uscire dal bagno fu colto dall’irresistibile desiderio di restare a casa e saltarle addosso.
Non potendo insistere con quel programma, in fin dei
conti era stata sua l’idea di andare in discoteca, suo malgrado, si avviarono al locale. All’interno della discoteca
Entropia sembrava ci fosse un raduno di 030 e 035, gente
tosta che con le donne non perde tempo. Da come guardavano la sua, capì che non era il caso di lasciarla sola un attimo e benché odiasse farlo, ballò con lei in pista tutte le
volte che lei lo volle. Se avesse avuto due manette le
avrebbe usate, in mancanza la tenne per mano tutta la sera.
Sin dall’inizio della serata Tarja ebbe conferma di quanto desiderava, ma per giocare ancora un po’, come faceva
sempre Stefano, ogni tanto chiedeva al compagno:«tu vuole che io fa ballo sexy in pista?» oppure:«tu vuole che io
sale su cubo e balla per te?» ad ogni domanda del genere il
suo guardiano rispondeva con uno scuotimento orizzontale
della testa e un’espressione terrificata, dovuta probabil-
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mente al pensiero di cosa sarebbe successo se avesse autorizzato l’esibizione.
Alla fine della serata, soddisfatta di come andò la prova
gelosia, Tarja si concesse languidamente a quell’uomo che
ormai era cotto di lei. Stefano la spogliò lentamente, come
un bimbo che riceve l’agognato regalo e teme di romperlo
prima di averlo scartato. Si inebriava del profumo di donna
sensuale, dopo ogni indumento tolto odorava il lembo di
pelle lasciato scoperto fino a stordirsi, poi passava all’altro
senso, il gusto, e con la lingua assaggiava quel prelibato
bocconcino. Ogni centimetro di pelle fu degustato e gradito, poi passò ad altri più intensi e prelibati sapori.
Ciascuno diede all’altro una parte di sé, ognuno se ne appropriò definitivamente facendola parte del proprio essere.
Quella notte se la ricordarono per tutta la vita.
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CAPITOLO UNDICI
MARTEDÌ
ALLE SETTE della mattina seguente, Stefano scrutava con Tar-
ja dalla finestra dell’ufficio il cielo limpido; Bambinoricco
e le altre guide sarebbero arrivati entro le otto.
Il vento calava, il mare mollava la rabbia dei giorni precedenti e ora sembra un gigante stanco, rimaneva solo un
po’ di fastidiosa onda lunga, ma si poteva uscire.
Dopo pochi minuti di contemplazione controllò il fax
meteo e scaricò la posta elettronica, sperando di ricevere
altre offerte di aiuto da parte dei sub della zona. Il fax meteo lo tranquillizzò ulteriormente, era previsto un miglioramento e cielo da poco nuvoloso a sereno. La lista di volontari era promettente, circa trenta sub parteciperanno alle ricerche, con due immersioni, una al mattino e una al pomeriggio, le probabilità di trovare il cadavere di Paolo erano
buone, quasi certe.
La base mare cominciava ad animarsi, i gestori dei diving
aprivano i locali e preparavano i gommoni per il lavoro di ricerca. Stefano stampò alcune mappe del relitto in formato
A3, sarebbero servite per il briefing, prese la lista delle guide disponibili e scese nella sala corsi, dove Tarja l’aveva preceduto per ricevere i primi arrivati. Le persone che conoscevano Paolo Molli, cercavano di scambiare qualche parola con Stefano che, non avendone voglia, rimandava l’aggiornamento della situazione al momento del briefing.
In quel momento arrivò anche Santi, il comandante della Capitaneria di Porto, che avrebbe fornito assistenza in
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caso di imprevisti o incidenti in mare occorsi alle guide.
Recava inoltre una comunicazione della Magistratura: se
le ricerche all’esterno del relitto non avessero dato esito
positivo, si sarebbe passati alle zone chiuse ma solo in presenza di personale della Marina Militare. La comunicazione apparve molto strana a Stefano, ma non aveva certo intenzione di discutere con la Magistratura.
Alle otto e venti quasi tutti erano arrivati, compreso
Bambinoricco e Ruby, le poltroncine della sala erano quasi
tutte piene e i presenti erano impazienti di iniziare. Nel
frattempo Stefano aveva segnato su fogli bianchi le squadre e i mezzi destinati alle operazioni.
Alle otto e trenta prese la parola:
«Buon giorno a tutti e grazie per essere qui. Sapete tutti
cosa è successo a Paolo Molli? Si è immerso domenica,
approfittando di un momento di calma di mare, doveva
raccogliere dei dati per il suo lavoro, e non è più riemerso.
Il cadavere non è venuto a galla, la Capitaneria ha battuto
il campo boe anche col maltempo ma non lo ha ritrovato.
Oggi faremo delle immersioni di ricerca del cadavere. Ci
divideremo in tre squadre, una lo cercherà sul fianco sinistro del relitto, l’altra sul destro, la terza sulle sovrastrutture, vi saranno inoltre due coppie di sub che con i motorini
perlustreranno la zona profonda intorno alla poppa. Le due
squadre ai lati, batteranno i fianchi del relitto distanziati
due metri l’uno dall’altro, partiremo dalla boa numero sei
e arriveremo a prua, lo stesso sull’altro lato dalla boa numero cinque. La squadra sulle sovrastrutture visiterà prima
tutta la coperta della nave. Ho preparato una lista con i nomi e le squadre; una raccomandazione, chi trova il cadavere verrà in seguito interrogato dal magistrato che segue le
indagini, per cui fotografate il corpo mentalmente, controllate e memorizzate se ha l’erogatore in bocca, dove ha le
mani, quanta aria segna il manometro. Non toccate i rubi-
netti, controllate quanto è gonfio il gav senza gonfiarlo ulteriormente. Attenzione a tutto ciò che vi sembra strano. Il
corpo lo agganciate ad un pallone segnasub e lo sparate in
superficie, il gommone più vicino lo andrà a recuperare.
Fate attenzione attorno alla boa numero due: dovrebbe esserci l’attrezzatura di Gabriele, gonfiate il gav e mandatele
in superficie.» Al termine del monologo si avvicinò al modello del relitto e con il designatore laser indicò le aree da
setacciare.
«Squadra uno, da qui a qui, squadra due, il lato sinistro
da qui a qui, squadra tre, metà di voi inizia la perlustrazione dalla prua e prosegue verso il centro nave, l’altra metà
scende direttamente sul ponte di volo e controlla tra i due
fumaioli, se rimane tempo controllate la tuga centrale.»
Stefano si interruppe per qualche secondo e osservò attentamente le espressioni dei presenti per cogliere qualche
dubbio stampato sulle facce delle guide, ma non ne vide.
Lanciò uno sguardo a Tarja poi proseguì con la spiegazione della pianificazione.
«Quattro sub con gli scooters controlleranno la zona intorno alle eliche, i fianchi del relitto dallo specchio di poppa alle boe numero sei e numero sette e tutto il ponte di volo, vi immergerete a coppie, la prima fa il lato destro, la seconda il sinistro, prima una coppia poi l’altra», disse con la
solita calma rilassante.
In ultimo aggiunse, srotolando i fogli stampati in precedenza: «Ognuno di voi, al termine delle ricerche, disegnerà la zona che ha controllato su queste piante del relitto,
così vedremo se è rimasta fuori qualche zona, in tal caso
nel pomeriggio ci andremo a dare un’occhiata.»
Al termine delle disposizioni pronunciò la solita frase
di rito: «Ci sono domande?»
Nessuno chiese altre delucidazioni, Stefano aggiunse:
«Useremo il nostro canale vhf per le comunicazioni, io sa-
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rò in contatto tutto il tempo, appena lo trovate voglio essere avvisato.»
Distribuì i fogli con i nomi dei sub suddivisi per squadra ed invitò tutti ad iniziare il lavoro. I presenti si avviarono alla base mare e iniziarono a prepararsi. Il pallido sole che illuminava quella triste giornata ben presto avrebbe
riscaldato come in una giornata estiva. La procedura di ricerca era chiara a quasi tutti, nel corso per diventare guida
era un argomento ampiamente trattato e una simulazione,
alla quale aveva partecipato più della metà dei presenti, era
già stata effettuata in marzo, all’inizio della stagione.
Stefano si trattenne qualche minuto con il comandante
della Capitaneria, il quale sostenne la necessità che il cadavere fosse raccolto dalla pilotina della Capitaneria.
Salutato il comandante, Stefano chiese a Tarja di occuparsi dei giornalisti; in fondo era martedì, il solo giorno in
cui si ricevono dietro appuntamento, e prima o poi qualcuno si sarebbe fatto vivo.
Una volta nel suo ufficio, Stefano si diresse sulla terrazza che fungeva da torre di controllo, da lì poteva ispezionare tutto il campo boe e controllare tutta l’operazione. Si
mise il vhf alla cintura inserendo la clip metallica nella
cintura dei jeans, sistemò l’auricolare nell’orecchio sinistro poi sollevò il treppiede con la videocamera digitale e
la sistemò sul balcone, inserì la spina ed accese la Sony.
Con quattrocento ingrandimenti la videocamera permetteva di vedere il colore degli occhi di coloro che erano a bordo dei gommoni ormeggiati sul campo boe. La videocamera veniva usata per controllare che le barche ormeggiate
sul relitto avessero a bordo le persone dichiarate nella richiesta di immersione, in caso di discrepanze tra il numero
comunicato e quello effettivo delle persone a bordo, l’imbarcazione veniva filmata in modo da avere una prova in
caso di contenzioso. La videocamera era utile anche in ca-
so di incidente subacqueo: se tramite il vhf qualche imbarcazione chiedeva soccorso, la persona di guardia filmava
tutta l’emergenza.
Alle nove e trenta i primi gommoni si staccarono dal
molo con a bordo i sub. Dopo alcuni minuti si ormeggiarono alle boe, ogni gommone aveva a bordo otto sub più il
conducente. Attraccarono in tre gommoni alla boa numero
sei, altri tre alla boa numero sette, dopo quindici minuti
tutti i sub si buttarono in acqua, si disposero come un rastrello lungo le fiancate del relitto. Ci vollero quaranta minuti ai sub per disporsi in linea e percorrere i circa 150 metri di scafo compresi tra la boa sei e la prua. Lo stesso fecero sull’altro lato i sub di altri tre gommoni, percorrendo il
fianco della nave dalla boa numero sette alla prua. Al momento della riemersione i sub trovarono ad attenderli i
gommoni, che nel frattempo si erano spostati sulle boe più
a riva. Non trovarono il corpo di Paolo.
«Niente», fu il messaggio ricevuto da Stefano dai conducenti dei gommoni, non occorreva aggiungere altro.
Nel frattempo un altro gommone si era ormeggiato alla
boa profonda, quella blu; lì quattro sub si sarebbero dati il
cambio per la ricognizione sull’ultima parte del relitto, quella esclusa dagli altri sub. Il troncone rimasto era quello di
poppa, da dove inizia l’hangar dei sei elicotteri, allo specchio di poppa. La profondità in quella zona passava dai quaranta metri ai sessanta e solo chi aveva un brevetto trimix diver poteva accedervi. A bordo vi erano Bambinoricco, Ruby,
Giangiacomo Fontana e Corrado Sulcis, tutti avevano un bibombola dodici più dodici caricato a duecentocinquanta atmosfere di trimix diciotto quaranta, una miscela ternaria
composta dal diciotto per cento di ossigeno e il quaranta
per cento di elio, la restante percentuale di gas era coperta
dall’azoto. Questa miscela era standard per il consorzio, arrivava infatti già premiscelata, in bomboloni da quaranta li-
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tri impacchettati in parallelepipedi di nove bombole. Utilizzando gas premiscelato, analizzato con lo spettrometro e
certificato dal fornitore, TEGAS, il consorzio aveva eliminato tutti i problemi relativi alla miscelazione dei gas per le
ricariche. Le uniche miscele che venivano preparate erano il
nitrox cinquanta, miscela standard da decompressione e il
nitrox 32 per chi desiderava fare immersioni respirando
qualcosa di diverso dall’aria.
La miscela utilizzata dai quattro sub a bordo del gommone ormeggiato alla boa blu, avrebbe eliminato completamente la narcosi, permettendo di iniziare la ricerca a sessanta metri e terminarla alla grossa boa di centro nave,
quella azzurra e bianca.
La prima coppia a immergersi comprendeva Bambinoricco e Giangiacomo, i due si conoscevano da diversi mesi
e si immergevano utilizzando il sistema DIR, come quasi
tutte le guide del consorzio. Una volta riemersi avrebbero
passato gli scooters subacquei ai loro compagni e si sarebbero scambiati i compiti.
Indossati i pesanti bibombola, sistemata la frusta lunga
intorno al collo, agganciata la bombola da sette litri di nitrox cinquanta ai D-ring di sinistra, i due si calarono la maschera sul viso e dopo un cenno con le dita si riversarono
in acqua di schiena.
I compagni a bordo passarono loro i due scooters; appena agganciato il moschettone all’anello del sottocavallo infilarono la testa sott’acqua e si diressero sul relitto facendosi trascinare dagli scooters e seguendo la catena che ancorava la boa al parallelepipedo di cemento sul fondo del
mare vicino alla poppa. Corrado e Ruby a bordo del gommone, da quel momento non avrebbero perso di vista le
bolle rilasciate dai due sub, né si sarebbero distratti un minuto. Dall’imbarcazione avrebbero vigilato continuamente, pronti ad immergersi se qualcosa andava storto o se i
due risalivano in superficie per qualche emergenza.
Corrado infatti aveva la muta stagna indosso e chiusa,
pronto a tuffarsi in acqua.
Giangiacomo e Bambinoricco si conoscevano da diversi
mesi, da quando il consorzio aveva aperto la stagione di immersioni sul relitto. Gli amici lo chiamavano Giangi, qualcuno Gengy, per via delle gengive gonfie che gli riempivano la bocca e che sporgevano come un parabordo rosa ogni
volta che sorrideva. Studente universitario di non si sa cosa, anche lui non si faceva troppi problemi di vita, gli studi
erano sovvenzionati dalla famiglia e lui per campare faceva
l’istruttore subacqueo e lavorava due ore alla sera in un bar
dando il cambio per la cena al titolare. L’unico mezzo che
possedeva era una vespa e ogni volta che doveva trasportare la pesante attrezzatura subacquea, precettava a turno uno
dei suoi ex allievi e ne disponeva come se fossero fattorini.
A discolpa di questo comportamento autoritario soleva dire:
«Oh, io sono l’istruttore», come se l’istruttore fosse un capo
setta. In verità aveva in mente qualcosa del genere, il suo sogno era di costituire una specie di comunità sub, basata sulla promiscuità e dove vigeva lo Jus prime noctis, suo esclusivo diritto. Recondito desiderio era quello di farsi tutte le
mogli o fidanzate dei suoi allievi. Anche una psicoanalisi telefonica avrebbe diagnosticato un disturbo della personalità dovuto a forzata astinenza sessuale, in effetti quelle gengive sporgenti non lo aiutavano proprio.
Seguirono la catena per dieci metri, si fermarono un minuto nel quale si scambiarono gli erogatori primari e controllarono che tutto funzionasse, poi proseguirono fino al
grosso parallelepipedo di cemento armato adagiato a pochi
metri dalla poppa, il ponte di volo lo intravidero già quindici metri sotto la superficie, si parava dinanzi come un
campo di calcio, libero di ogni ostacolo. A dieci metri dalla poppa videro i segni bianchi utilizzati per l’appontaggio
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degli elicotteri; sotto il ponte si trovava l’hangar e sotto di
esso una serie di locali formava un inestricabile labirinto;
solo chi viveva imbarcato sulla nave diversi mesi finiva
per conoscerne ogni anfratto. La visibilità era buona e non
occorrevano le torce, atterrati vicino al timone i due si
scambiarono un ok, controllarono l’attrezzatura, poi iniziarono la perlustrazione. Giangi lesse sul profondimetro la
profondità, sessanta metri, erano passati solo 3 minuti dall’inizio dell’immersione. Il ronzio degli scooters, simile a
quello di un grosso trapano fatto girare a vuoto, permeava
la massa d’acqua intorno a loro. Bambinoricco prese il comando seguito ad un metro e spostato sul lato sinistro da
Giangi che fungeva da ombra, ogni trenta secondi si sarebbero scambiati un’occhiata per controllare se tutto era a
posto. Iniziarono con un giro davanti allo specchio di poppa tra le eliche, poi diressero verso il fianco del relitto, si
distanziarono di tre metri dal relitto e tre metri l’uno dall’altro, staccati dal fondo di circa due metri, pareva di volare attaccati a quei minisiluri ronzanti. Sfiorarono il corpo
morto della boa numero otto, seguirono il relitto fino al
corpo morto della boa numero sei, la stessa dalla quale era
partita la squadra numero uno, la profondità era ora di circa cinquanta metri. Tornarono indietro verso la poppa senza superare la profondità dei cinquanta metri, si sarebbero
ritrovati a poppa estrema sopra la parte terminale del ponte
proprio sopra le eliche, da lì avrebbero ispezionato tutto il
ponte di volo fino alla plancia elicotteri. La profondità era
ora sempre di cinquanta metri e si trovavano alcuni metri
sopra il ponte metallico; si diressero verso il centro nave,
distanziati di cinque metri, se ci fosse stato il corpo di
Paolo lo avrebbero visto sicuramente, la visibilità era ottima. Terminata l’esplorazione del ponte in vicinanza del locale distribuzione benzina, la profondità era di quaranta
metri ed erano passati ventidue minuti di immersione.
Bambinoricco segnalò, incrociando le braccia con le mani
aperte, la fine dell’immersione; risalirono lungo le sovrastrutture e quando furono sulla sommità si diressero verso
la boa di centro nave. Risalivano molto lentamente, percorrendo il tratto orizzontale con una lieve pendenza verso
l’alto, a venticinque metri trovarono il termoclino, la temperatura dell’acqua, superiore di sette gradi, rendeva sfuocata la vista mentre attraversavano lo strato di circa un metro. A ventuno metri, Bambinoricco indicò con l’indice destro la bombola da decompressione agganciata sul fianco
sinistro e poi, sempre con l’indice indicò Giangi: era il momento di iniziare la decompressione con la miscela iperossigenata. Giangi capì che doveva iniziare lui, il suo buddy
era stato chiaro con quei segnali, tirò con delicatezza la
frusta impacchettata con degli elastici di silicone alla bombola di fianco, la fece passare intorno al collo, aprì il rubinetto, tenne l’erogatore nella destra e con la sinistra si tolse
quello che aveva in bocca, fulmineamente si infilò tra le
gommose gengive l’erogatore da decompressione e dette
tre abbondanti ciucciate. Constatato che tutto funzionava
fece OK al compagno che ripeté la stessa procedura sotto
gli occhi attenti di Giangi. Il cambio gas avveniva a turno
in modo che se ci fossero problemi, il compagno poteva
intervenire immediatamente. Rimasero cinque minuti a
ventuno metri, poi cominciarono a risalire lentamente alla
velocità di tre metri al minuto, sostarono due minuti a dodici metri, tre a nove metri di profondità e cinque minuti a
sei. Dai sei metri risalirono come facevano sempre, un metro al minuto. Durante tutta la decompressione non si persero di vista un secondo, quello era uno dei momenti più
critici dell’immersione e nessuno doveva abbassare la
guardia. Mentre erano ai sei metri videro che dalla superficie Ruby li stava osservando, nuotava con indosso la muta
ma senza le bombole, si scambiarono dei segnali di OK.
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Era chiaro che Paolo non era stato trovato.
Terminata la decompressione e riemerse nel giro di quindici minuti, le coppie si erano scambiate i posti e ora Ruby
e Corrado si apprestavano a compiere un’immersione speculare a quella dei loro predecessori ma sul lato opposto del
relitto. Senza perdere tempo si agganciarono il moschettone
dello scooter al sottocavallo e si fiondarono verso il relitto.
Con un’autonomia di un’ora gli scooters permettevano a due
coppie di sub di immergersi una dopo l’altra.
Spariti sott’acqua i due amici, Bambinoricco chiamò
Stefano col vhf: «Hai già capito vero?»
Stefano che aveva seguito la riemersione dei due sub attraverso la videocamera aveva immaginato tutto, non aveva notato nessun pallone segnasub in superficie, segno evidente dell’insuccesso delle ricerche.
Anche il gruppo assegnato alla parte centrale del relitto
aveva terminato senza successo il proprio compito, il corpo non era né sulle sovrastrutture né sul ponte di volo.
I gommoni tornavano alla base mare non appena terminato il compito assegnatogli. Quando anche l’ultimo disormeggiò dalle boe, Stefano raggiunse il molo dove i partecipanti si stavano cambiando. Erano ormai le undici e trenta quando tutti erano presenti sul molo.
Stefano li raccolse attorno a sé. «Il corpo non è stato trovato», disse, «prima di fare la pausa pranzo vi prego di passare da me e segnare sulla mappa la zona che ognuno di voi
ha controllato, nel pomeriggio, verso le quindici, ci riuniamo
e discutiamo sul da farsi. È probabile che sia rimasta fuori
qualche zona intorno al relitto, comunque ci rimane da battere la zona tra il relitto e la costa. Se avete una bussola portatela nel pomeriggio, vi sarà utile. Buon appetito e non mangiate troppo.»
Mentre tornava al suo ufficio vide rientrare la pilotina
della Capitaneria; gli uomini erano silenziosi, preoccupati.
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CAPITOLO DODICI
INDAGINI
FUORI dalla palazzina azzurra sede del consorzio risaltava
un’Alfa 145 dei Carabinieri. In quei pochi minuti era arrivato un giovane capitano con un carabiniere scelto; il loro
compito era quello di acquisire le cartelle relative al lavoro
del geologo Paolo Molli. Nell’ufficio di Stefano il capitano non aveva perso tempo e seppur accaldato nella divisa
invernale, tentava in tutti i modi di assomigliare ad un generale. La presenza di Tarja non gli era sfuggita e diede
fondo a tutto il suo repertorio di tombeur de femme, sicuro
che il fascino della divisa non lo avrebbe tradito. Magro e
abbronzato con un viso da fotomodello, il capitano Zucchi
non aveva certo problemi di donne, a volte era costretto
addirittura a rifiutare le meno attraenti. Aveva una certa fama nell’ambiente che frequentava, infatti lo chiamavano
gambone.
Appena vide la faccia di Stefano, Tarja capì che la gelosia si era impadronita del suo compagno e quando le fu vicino disse:«Dottor Tixera, il capitano Sùchi.»
Il breve silenzio e la smorfia smorzata di Stefano fece
capire al militare che non aveva destato interesse nella
donna.
«Zucchi», disse il carabiniere, rimarcando in seguito
«Capitano Zucchi», e indicando l’altro militare presente
nella stanza aggiunse: «Il carabiniere scelto Rossetti.»
Il modo in cui pronunciò le parole “Capitano Zucchi”
chiarì ai presenti che erano al cospetto di una specie di
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Comandante Bond nostrano; anche l’altro militare, in ferma breve, chiuse per un attimo gli occhi in segno di empatica frustrazione.
Tarja, che ormai conosceva il suo pollo, decise di alleggerire la situazione prima che degenerasse: «Vado a prendere focacce per pranzo, volete anche voi?» disse rivolgendosi al capitano. Questi rifiutò educatamente con un
cenno della testa poi aggiunse: «Siamo qui per lavorare
non per ingrassare», sottolineando l’ultima parola con
un’occhiata all’addome di Stefano che, sebbene dimagrito,
proponeva alla vista un leggero strato di adipe. Tarja fece
per uscire ma Stefano la richiamò con un “xxss xxss” impercettibile agli altri, appena la donna si avvicinò lui la baciò delicatamente sulle labbra senza curarsi dei presenti. A
Stefano sembrò la cosa migliore da fare per marcare il territorio e la propria donna, visto che non poteva urinare in
ogni angolo della stanza come fanno gli animali.
I restanti si ritrovarono di fronte, in attesa che qualcuno
facesse la prima mossa e fu il militare a non perdere tempo.
«Siamo qui per acquisire elementi utili alle indagini
sulla scomparsa del dottor Molli», disse con aria grave, attendendo che Stefano proponesse l’offerta di materiale utile. Come d’abitudine, il carabiniere cercò di avere in offerta della documentazione a discrezione del convocato, successivamente avrebbe chiesto quanto ordinato dal magistrato. Il direttore del consorzio, ingenuamente, non assecondò il gioco del carabiniere, infatti, con la cortesia che
lo distingueva in ogni occasione, rispose: «Mi dica di cosa
ha bisogno e farò il possibile per accontentarla.»
Il capitano non perse tempo e citò una lista di documenti riguardanti Paolo Molli: tutti i rapporti delle sue immersioni, le autorizzazioni, compresa quella di domenica, l’elenco delle persone con cui aveva rapporti di lavoro, nominativi di aziende o enti con cui lavorava.
Stefano non ci mise molto a presentare tutto: la documentazione era in un raccoglitore rosso, ogni rapporto era
stato stampato e inserito nel grosso parallelepipedo formato a4, mancava solo l’autorizzazione all’immersione di domenica che non c’era. Il comandante chiese spiegazioni a
Stefano che tranquillo rispose: «Paolo doveva immergersi
alla fine del maltempo, quando sulla boa di poppa sono accese le luci bianca e blu, il segnale che autorizza alle immersioni sul relitto. Quando domenica si è immerso vi erano accese le luci rossa e bianca, segnale che vieta le immersioni sul relitto, per cui si è immerso senza autorizzazione.» Mentre rispondeva teneva le mani con i pollici nella cintura dei pantaloni, cercando di essere il più calmo
possibile per quanto sentisse che la calma si sarebbe esaurita a breve.
Il capitano prese in visione la documentazione e una
volta controllata la passò al collaboratore che intanto preparava il verbale. Al termine chiese se era possibile avere
copia delle registrazioni delle webcam. Stefano spiegò al
capitano che le immagini delle webcam, sia quelle sott’acqua che quella sulla boa non vengono registrate, sono visibili on-line solamente tramite il sito del consorzio.
«Bene», disse il capitano Zucchi; dopo qualche istante
passato a riordinare le idee chiese a Stefano: «Ma, se le immersioni sono vietate e sono accese le luci bianca e rossa,
perché nessuno lo ha raggiunto prima che si immergesse?»
La domanda sembrò a Stefano molto arguta, e prima di
rispondere si concesse qualche minuto di riflessione, poi,
cercando di dissimulare l’ombra di dubbio che sbocciava
sul suo viso, disse: «Quando sono vietate le immersioni
per mare grosso non è necessario vigilare sul campo boe,
in più se qualche imbarcazione si avvicina agli ormeggi, la
Capitaneria di Porto informa il natante con il vhf che sono
vietate le immersioni e che l’imbarcazione deve andarse-
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ne. Se l’imbarcazione non si allontana parte la pilotina e
per quelli a bordo sono cavoli amari.»
Il capitano Zucchi ascoltò le parole di Stefano senza
mai deformare il plastico viso, nessuna emozione scalfì
quei lineamenti forti e virili.
La domanda successiva fu ugualmente sensata. Il capitano la servì a Stefano senza quasi muovere la bocca:
«Come spiega che la Capitaneria non sia intervenuta domenica?»
Cazzarola, bella domanda, pensò Stefano; rispose di
getto con quello che gli passava per la mente: «Dovrebbe
chiederlo alla Capitaneria; secondo me, ma sia chiaro che
è una supposizione, Paolo aveva chiamato in Capitaneria,
e visto che era ben conosciuto e che il mare si era calmato
in quel momento, lo hanno lasciato fare; ma ripeto, questa
è una mia supposizione.»
«Bene», rispose ancora il capitano Zucchi «verificheremo in Capitaneria», aggiungendo: «Non c’è altro al momento, se firma il verbale la lasciamo lavorare.»
Stefano prese i fogli che nel frattempo il carabiniere
scelto Rossetti aveva compilato, li lesse con attenzione poi
li firmò. Prima che i due militari se ne andassero Stefano
chiese al comandante Zucchi di informare il dottor De
Corti che il cadavere non era stato ritrovato e che l’indomani mattina lo avrebbero cercato nel relitto. Il militare
consigliò di inviare un fax con la dicitura urgente al centralino della Magistratura, il numero era sull’elenco.
Mentre uscivano i due carabinieri, entrarono
Bambinoricco e Ruby con le focacce, le avevano avute da
Tarja che aveva deciso di andare a fare un giro di mezz’ora
in mountain bike.
«Scassapalle?» disse Ruby, riferendosi ai due ospiti appena usciti.
«Scassapalle», rispose Stefano.
Bambinoricco porse a Stefano la pianta del relitto con
le zone coperte dall’operazione di ricerca della mattina;
Stefano la distese sulla sua scrivania e iniziò a studiarla.
La mappa rappresentava il Vittorio Veneto visto in pianta,
erano segnati anche tutti i corpi morti degli ancoraggi e i
cavi delle webcam, sopra questi a penna ogni guida aveva
segnato l’area che aveva perlustrato durante l’immersione
della mattina. Tutta la superficie del relitto era stata esplorata, e così l’area tra le fiancate del relitto e i corpi morti
delle boe esterne; rimaneva da esplorare la zona compresa
tra la prua del relitto e la spiaggia antistante il campo boe.
Rimaneva anche una zona profonda da controllare, benché
le probabilità di trovare il corpo fossero molto basse occorreva immergersi anche in quel punto, la parte di fondale
al largo della poppa. Nell’immersione della mattina i quattro sub con gli scooters avevano controllato la zona nelle
immediate vicinanze delle eliche, Stefano decise che era il
caso di dare un’occhiata anche un po’ più al largo.
Radunò intorno a sé i due ragazzi che nel frattempo
avevano divorato la loro parte di focaccia genovese e spiegò loro il piano di ricerca per il pomeriggio.
Tutte le guide disponibili avrebbero controllato la zona
tra la prua del relitto e la costa; si sarebbero immersi dalle
boe più vicine alla costa, la uno, la due e quella bianca, e
con l’aiuto della bussola avrebbero proseguito in direzione
della costa. I gommoni li avrebbero aspettati fuori dalla
zona delle ricerche in modo da recuperare chi si fosse perso o allontanato troppo. Stefano decise di rimandare il controllo della zona profonda al giorno successivo. Chiese
agli amici se erano state messe sotto carica le batterie degli
scooters, ricevendo un cenno con la testa come risposta affermativa.
In quel momento arrivò Tarja, di ritorno dalla sua pedalata. Aveva indosso un paio di ciclistini fucsia che sembra-
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vano tatuati addosso, un bustino giallo con la cerniera centrale tutta aperta dalla quale si intravedeva il canyon formato dai due seni sodi. «Serve aiuto o posso fare doccia?»
chiese la donna a Stefano. Per un momento al direttore
venne la gran voglia di sospendere ogni attività e di andare
a fare la doccia con la bella bionda di fronte e da come si
guardarono negli occhi l’idea non dispiaceva alla donna.
Poi, colto da un insano senso del dovere, concesse il permesso e si mise al computer per scrivere la comunicazione
al magistrato.
Tarja si diresse alla sua stanza, nell’albergo di fianco al
consorzio, che ormai usava come spogliatoio, visto che al
consorzio le erano spariti diversi perizoma; malgrado le
indagini di Stefano non si riuscì a trovare il feticista e saggiamente decise di non lasciare più simili tentazioni nei
servizi del consorzio.
Mentre Stefano scriveva al computer gli altri due scaricarono la posta elettronica diretta al consorzio: sessantotto
messaggi ricevuti demoralizzarono i due giovani che cercarono di rispondere ai più urgenti, tra tutti spiccava quello
di un giornalista del Secolo XIX, il quotidiano di Genova,
che annunciava la sua visita nel pomeriggio.
Bambinoricco, appena letto il messaggio si rivolse a
Stefano chiedendo: «Te lo ricordi il rompicoglioni di
Genova, quello del decimonono che non è nemmeno un
sub?»
«Sì», rispose Stefano indaffarato alla tastiera, «che vuole?» continuò sbirciando da dietro il monitor.
«Viene qui nel pomeriggio, ha saputo dell’incidente e
vuole una dichiarazione.»
Stefano non disse nulla ma le guance gli si gonfiarono
come quando si cerca di trattenere la parola pirla in preda a
conati di vomito.
«Lo lasciamo a Tarja», disse, convinto di aver risolto la
seccatura; poi aggiunse: «Se non è ancora qui vuol dire
che è in giro per Oneglia a fare domande, sarà già andato
in Capitaneria e in tutti i bar a intervistare i pescatori in
pensione, chissà cosa cazzo scriverà questa volta. Secondo
me in sede di Esame di Stato dovrebbero fare anche una
perizia psichiatrica ai futuri giornalisti, ce ne sarebbero in
giro la metà!»
Ruby, colto da uno dei suoi raptus di follia goliardica,
chiese genericamente ai due: «Ma secondo voi, se gli diciamo che Paolo si è immerso con una nuova miscela a base di scoregge di porco, in modo da non fare la decompressione, questo qui, lo scrive sul giornale? Secondo me lo
scrive!»
«Per favore non dirgli cavolate, se no poi quello le scrive», rimproverò Stefano al povero Ruby. «Vi ricordate cosa ha scritto su uno degli articoli di inizio stagione? I sub
devono fare decompressione altrimenti scoppiano i polmoni!»
A quelle parole Ruby diresse lo sguardo al cielo della
stanza e tentò di fischiettare qualcosa, ma uscì di bocca un
muto sibilo: «fffhhh, fffhhhh.»
Stefano e Bambinoricco lo guardarono seriamente. Il
direttore disse: «Non posso crederci, sei stato tu?» Ruby
non rispose. Ritentò nuovamente di zufolare un motivetto
ma, anche cambiando pezzo, tutto quello che ora usciva
dalle labbra era un afonico: «ffhhuu, ffhhuu.» L’espressione dei due compagni di stanza da seria divenne di incredulo stupore. Fu Bambinoricco a rimproverare il tecnico:
«Stai punito a vita», disse con voce seria.
«Che vuol dire?» chiese Ruby preoccupato.
«Che siamo molto incazzati», rispose Stefano mentre
toglieva il foglio dalla stampante. Diede il foglio a
Bambinoricco e gli chiese di inviarlo, poi si avventò sul
cartoccio di focaccia dove erano rimasti i suoi tre pezzi, ne
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prese due, lasciando il terzo per Tarja, li addentò contemporaneamente, in due minuti aveva già masticato tutto.
Pochi minuti dopo le quindici i tre scesero al piano terra; nella saletta alcune guide discutevano su quanto era
stato fatto la mattina, alla vista del trio tutti smisero di parlare.
Attesero che arrivassero tutti, alle quindici e quindici
Stefano prese la parola e illustrò il piano di lavoro del pomeriggio. Nel frattempo anche Tarja era entrata nella stanza, cercò di sedersi in ultima fila senza far rumore, ma la
sua presenza non passava inosservata e per qualche secondo tutti si voltarono ad ammirarla. Anche con i capelli
umidi, una felpa e i jeans agli occhi di tutti sembrava miss
mondo.
Alle quindici e trenta tutti si diressero alla base mare,
Ruby avrebbe preso il posto di Stefano sulla terrazza, Tarja
ricevette le disposizioni per intrattenere il giornalista, la
consegna era parlare senza dire niente, essere carina senza
sedurre, tassativamente niente sesso. La bionda rise, ascoltando le parole di Stefano. Una punta di gelosia traspariva
dalle precisazioni sul contegno da tenere con il giornalista.
«Tu vuole che io fa carina con lui?» disse, punzecchiando ulteriormente il suo compagno.
Stefano precisò immediatamente: «Ho detto cortese
non carina.»
Tarja sorrise e si congedò con un: «Io capito.»
Il modo di parlare e il tono di voce della donna mandava in visibilio tutti gli uomini della zona; ai non più giovani ricordava Solvy Stubing, la valchiria del cinema italiano
degli anni settanta, ai giovani del paese Tarja sembrava la
copia di Victoria Silversted.
Stefano e Bambinoricco si avviarono alla base mare a
preparare l’attrezzatura per il giorno successivo. La visita
alle parti interne del relitto richiedeva un’attrezzatura di-
versa da quella abituale, i due amici avrebbero caricato le
bombole per tutti e quattro loro, Tarja e Ruby compresi. A
Stefano venne in mente anche di andare un’occhiata alla
parte di fondale attorno alla poppa; non avendola mai
esplorata preventivò una profondità massima di settantacinque metri e decise di preparare anche l’attrezzatura per
quella immersione, il suo bibombola da dodici più dodici
litri.
Attesero che tutti i gommoni si allontanassero dalla
banchina, tutta quella gente faceva un certo casino, e quando non rimase più nessuno tranne Almiro, il compressorista, iniziarono la preparazione. Collegarono quattro bombole da diciotto litri alla rampa del compressore, diedero
ordine ad Almiro di caricare con trimix diciotto quaranta e
attesero che il sibilo nelle tubature annunciasse l’arrivo del
gas. Almiro apriva e chiudeva in sequenza le bombole, utilizzando le diverse pressioni per riempire le bombole da
sub alla massima pressione possibile col sistema del travaso, una volta arrivato alla massima pressione ottenibile in
quel modo avrebbe attivato il compressore per riempire le
bombole fino alla pressione di duecentoquaranta atmosfere.
Stefano e compagni utilizzavano la miscela trimix nelle
penetrazioni all’interno del relitto, in modo da eliminare
completamente la narcosi. I passaggi stretti e lunghi percorsi all’interno richiedevano tutta la lucidità possibile,
l’aria veniva utilizzata solo nelle immersioni all’esterno
del relitto e non oltre i trentacinque metri. La scelta di utilizzare il trimix non era ben vista da tutti, ma a Stefano importava la sicurezza nelle immersioni non certo l’opinione
degli altri. Ognuno era libero di immergersi secondo le
proprie capacità, ma sul suo relitto si faceva quello che diceva lui.
Una volta cariche le bombole, assemblarono gli schie-
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nalini di alluminio con i cinghiaggi, montarono gli erogatori, controllarono che funzionassero, poi riposero il tutto
in un angolo del locale. Stefano chiamò Tino Corsi e gli
chiese di passare a prendere il suo bibombola e di caricarglielo con una miscela trimix dodici settanta, lo avrebbe ritirato la mattina successiva mentre andava al consorzio.
Con quel tipo di miscela, l’indomani, avrebbe esplorato la
zona intorno alla poppa.
Cercò di radunare tutta la roba che serviva la mattina
seguente, decise di usare la muta stagna, in modo da avere
la muta in neoprene, asciutta per l’immersione all’interno
della sala macchine. Fece quindi due cestoni, in uno pose
tutto ciò che occorreva nella prima immersione, nel secondo mise la muta di neoprene e le piccole torce per esplorare le viscere del Vittorio Veneto. Sulla prima cesta appoggiò la sua imbragatura con lo schienalino in acciaio e il
sacco Halcyon; la usava abitualmente in tutte le sue immersioni, vi avrebbe attaccato le bombole caricate da Tino.
Tino era l’unico al di fuori di Bambinoricco, Ruby e
Tarja, a cui Stefano facesse ricaricare le proprie bombole
di trimix, era anche uno dei pochi di cui si fidava in acqua
e soprattutto fuori: quando sul gommone c’era Tino si poteva stare tranquilli. Stefano asseriva convinto che il miglior subacqueo dovrebbe stare in barca quando si fanno
delle immersioni impegnative, così se succede qualcosa in
acqua, si hanno le maggiori garanzie che chi sta fuori sappia cosa fare, in ogni situazione.
Tino intanto era arrivato col gommone, si era avvicinato al molo in prossimità del piccolo locale che fungeva da
base mare del consorzio e aveva lanciato un saluto ai due
sub indaffarati.
«Heilà», disse Stefano avvicinandosi al gommone,
mentre Bambinoricco prese il bibombola di Stefano e lo
portò a Tino.
«Ti è venuto mal di schiena?» disse Tino indicando con
un gesto del capo Bambinoricco che fungeva da facchino.
Stefano non si era accorto che il suo amico gli stava portando il pesante bibombola, si scusò con uno di quei rari
grazie che lo rendevano famoso.
«Senti un po’», tagliò corto Stefano «questo me lo fai
dodici settanta a duecentosettanta atmosfere”; nel gergo
dei relittari voleva dire più o meno, carica le bombole a
duecentocinquanta atmosfere abbondanti con un trimix al
dodici per cento di ossigeno e al settanta per cento di elio.
«Vai sull’elica della Haven?» chiese Tino curioso.
«No», rispose Stefano «vado in un posto e vorrei che
fossi tu ad accompagnarmi.»
«Tu da solo, senza amici?» chiese Tino, insospettito da
quel programma insolito.
«Sì, da solo», rispose, «gli amici domani hanno una
giornata pesante.»
«Devo caricarmi anch’io uno di quelli», disse Tino indicando le bombole di Stefano ormai sistemate sul gommone.
«Non serve, mi basta che sei sul gommone, si tratta di
una passeggiata.»
«Mi dici adesso dove si va o è una sorpresa?» domandò
Tino sempre più curioso.
Stefano illustrò il piano a Tino e gli diede appuntamento per le otto, si sarebbero immersi alle nove in modo da
tornare al consorzio per le undici.
Rantolando come un giaguaro asmatico il Mariner da
200 cavalli spinse via il gommone di Tino verso l’uscita
del porto.
I due amici chiusero il locale del consorzio e si avviarono verso la riva del mare da dove sarebbero arrivati i sub
intenti nelle ricerche del corpo di Paolo. Mentre camminavano Bambinoricco chiese a Stefano perché non lo volesse
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con lui l’indomani. Stefano ne spiegò le ragioni: «Domani
mattina, non si sa a che ora, arriveranno dei sommozzatori
della Marina Militare e dovremo accompagnarli nel relitto
a cercare il corpo di Paolo.»
«Perché il magistrato crede che il corpo sia all’interno
del relitto?» chiese Bambinoricco.
«Non lo so, però ci toccherà accompagnarli, e tu dovrai
essere al consorzio a riceverli, non penso arriveranno prima delle nove», replicò Stefano.
Intanto erano arrivati in riva al mare, dove il frangiflutti
crea un piccolo bacino, quello in cui Tarja si esibiva nell’imitazione di Ester Williams. I primi sub cominciavano a
riemergere, alcuni qualche metro lontano dal frangiflutti,
qualcuno più al largo. Non vi erano palloni segna sub in
superficie, Paolo non era stato trovato.
In lontananza, vicino al chiosco delle bibite sul lungomare, spiccava la bionda capigliatura di Tarja, appiccicato
come un francobollo c’era il giornalista che parlava, parlava, parlava. Erano ormai le diciassette e trenta quando l’ultimo sub uscì dall’acqua; demoralizzato come tutti gli altri,
sapeva che finché non fosse stato ritrovato il cadavere tutte
le attività del consorzio sarebbero state sospese.
Dal giorno successivo il cellulare di Stefano sarebbe
stato il più chiamato di tutta la Liguria, ogni socio del consorzio voleva rassicurazioni sul futuro del consorzio e lui
non ne poteva dare.
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CAPITOLO TREDICI
IL GIORNALISTA
MENTRE Stefano e Bambinoricco si dirigevano verso Tarja
e il giornalista, salutarono in lontananza Ruby e una delle
impiegate che tornavano a casa.
Prima di arrivare da Tarja e il giornalista, Bambinoricco disse a Stefano che del giornalista ne avrebbe fatto volentieri a meno, così deviò verso il parcheggio delle auto
dietro il molo, salutando con la mano la bionda finlandese.
A circa tre metri di distanza il giornalista iniziò una serie di convenevoli, a metà tra il saluto a un Capo di Stato e
il ritorno del figliol prodigo.
«Dottor Tixera», disse il giornalista «la sua assistente
mi ha raccontato tutto, un fatto terribile.»
Prima di rispondere o pensare qualsiasi cosa, Stefano
diresse un’occhiata interrogativa alla sua compagna che,
rimasta qualche metro dietro il giornalista, scosse lievemente la testa in segno di negazione.
Ma guarda sto pirla, pensò Stefano, gioca a fare l’FBI.
Sulla faccia di Stefano intanto si increspava un seria
espressione di diffidenza verso l’interlocutore. Temeva che
le considerazioni personali sul giornalista potessero trasparire dai suoi lineamenti, il suo volto non era fatto per mentire e cercava di rimanere serio più che poteva. Se gli fosse
passata ancora per la mente la parola pirla, il giornalista se
ne sarebbe accorto senza ombra di dubbio.
«Terribile», replicò di nuovo il giornalista, porgendo
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una flaccida e appiccicosa mano; pareva si fosse lavato le
mani col sigillante Saratoga.
«Come proseguono le ricerche?» chiese ancora il giornalista.
«Senza successo per il momento, il cadavere non è stato
trovato», tagliò corto Stefano guardando dritto negli occhi
il giornalista e stringendo i denti, nel tentativo di non ridere in faccia al paffuto ometto. Il pensiero pirla, pirla, pirla,
intanto tentava di irrompere prepotentemente nella mente,
come un team della delta Force, se vi fosse riuscito, sarebbe successo un gran casino.
Il giornalista proseguì imperterrito nella sua attività
preferita, quella di scassare le palle e chiese al direttore del
consorzio: «Da fonti attendibili mi risulta che ci siano state
delle infrazioni al regolamento del consorzio e scarsa vigilanza da parte degli organi incaricati.»
«Quali sono le fonti attendibili a cui si riferisce?»
«Segreto professionale», rispose di rimbalzo il giornalista impettito, ogni volta che citava quelle parole si ammantava in un’aura divina, come un’uniforme che protegge da
tutto, dalle pallottole, dalla muffa, dalla stupidità.
«Domattina riceverà un comunicato stampa dal consorzio con tutte le informazioni in nostro possesso», rispose
Stefano incrociando le braccia, sempre più spazientito da
quella conversazione.
«Domani è troppo tardi, devo scrivere il pezzo questa
sera, va in stampa all’una di notte», rispose l’ometto, incrociando anch’egli le braccia; il segnale era evidente, arroccato sulle sue posizioni non avrebbe accettato altri accordi.
«Ho avuto una giornataccia e devo sbrigare delle faccende in ufficio, non credo di poterlo fare questa sera»,
sottolineò Stefano con un tono di voce seccato.
«Il pezzo va in stampa all’una, dovrò scriverlo senza il
suo aiuto!» dichiarò il giornalista, infilando le mani nelle
tasche dei pantaloni alla ricerca di una pistola o di un argomento utile a convincere l’essere di fronte a collaborare.
«Ho capito, si inventerà qualcosa, tanto per scrivere
qualcosa», ribatté Stefano, sicuro che la conversazione sarebbe terminata a minuti con un attacco di escandescenza
da parte dello scassapalle lì di fronte.
Tarja che fino a quel momento era rimasta in disparte,
silenziosa, si avvicinò a Stefano appoggiandogli una mano
sulla spalla pinzando delicatamente il muscolo trapezio,
con decisione ma senza fare male.
«Io aiuta a fare comunicato stampa», disse la donna con
calma tibetana, «poi manda un fax a giornalista e uno a
Magistratura.» Non sorrise, ma l’espressione rilassata della donna tolse ai due uomini l’astio che li animava.
«Va bene anche un’e-mail», disse il giornalista.
«Meglio un fax», ribatté Stefano, ritenendo il valore legale del fax un deterrente a non travisare il senso delle parole scritte, «a che numero lo inviamo?»
In risposta alla richiesta il giornalista porse un biglietto
da visita sfilandolo dal taschino della camicia a righe; lo
porse alla donna dato che Stefano continuava a tenere le
braccia incrociate. Poi, anche se convinto di doverla ritirare imbarazzato, porse la mano a Stefano che con espressione schifata la strinse, strizzandola con energia; gli parve di
stritolare un krapfen ripieno di marmellata, più stringeva la
mano più diventava collosa. L’arto viscido passò a Tarja
che lo toccò appena e delicatamente, con sommo dispiacere del proprietario, il quale si voltò e se ne andò sulle sue
corte gambe.
Erano ormai le diciotto e trenta quando Tarja e Stefano
si avviarono al loro ufficio. Il chioschetto davanti allo stabile del consorzio iniziava a chiudere, la stagione estiva era
terminata e, a parte il sabato e la domenica, tutti gli esercizi
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chiudevano in prima serata. Stefano prese con la destra la
mano sinistra di Tarja e sollevandola ne baciò il dorso. «Grazie per essere intervenuta», disse con voce dolce.
«MMHH, se io non fare qualcosa, quello scrivere grande casino in ciornale», disse la donna col tono di autocompiacimento di chi crede di aver salvato il mondo. In effetti
aveva evitato che il giornalista scrivesse delle inesattezze,
che in un momento così delicato, avrebbero potuto nuocere
al consorzio. Stefano sollevò di nuovo la mano e baciò di
nuovo il dorso. «A casa avrai il resto», disse guardando gli
occhi verdi della donna. Tarja non disse nulla ma sorrise.
«Cos’altro è successo mentre ero via?» chiese Stefano.
Erano giunti al portoncino del consorzio, prima di entrare si voltarono verso il tramonto in posa per qualche
cartolina e un depliant di viaggi.
Mentre ammiravano il loro tramonto Tarja disse:
«Almiro il compressista dice che finito trimix, bisogna ordinare ancora, su scrivania c’è due bonifichi da firmare,
tua madre chiamato pomeriggio”, dopo il breve riassunto
con aria pensierosa decise di interrogare Stefano su un argomento che la incuriosiva.
«Quando tua madre chiama e io risponde tuo posto, lei
parla con me come se conosce, cosa dici di me a tua madre?»
Tarja attendeva incuriosita la risposta, anche se Stefano
fu abbastanza vago. «Niente, ho detto che sei un’amica!»
rispose sollevando le spalle e cercando di assumere un’aria
seria e convincente.
«Tu, bambino birichino che non dice verità!» disse
Tarja martellando delicatamente con il dito indice il torace
del compagno e premendosi le labbra l’un l’altra in modo
da impedire che considerazioni più personali e spontanee
uscissero dalla bocca.
Cambiò discorso e chiese a Stefano se dopo avere ter-
minato il comunicato stampa l’accompagnasse in camera
d’albergo a preparare la valigia. «Tu ricorda che io parte
giovedì e che tu deve portare me a Malpensa?» disse, sicura che l’uomo se ne fosse scordato.
Stefano chiuse gli occhi per un secondo, non serviva dicesse altro, poi aggiunse: «Va bene, mangiamo una pizza
in camera tua e poi facciamo la valigia.»
Alle ventidue e trenta avevano terminato di mangiare i
due tranci di pizza tonno e carciofini e di sistemare la valigia di Tarja; più che una valigia era un trolley, pieno di perizoma e abiti da sostituire in vista della stagione in arrivo.
Per tutto agosto e settembre Tarja aveva rinunciato ai
week end di permesso che le spettavano di contratto, il lavoro al consorzio era intenso e senza che le venisse richiesto prestò servizio ininterrottamente, come Stefano, Ruby
e Bambinoricco, che pur non essendo pagato, svolgeva le
stesse mansioni degli altri tre. Ora, era giunto per la bella
bionda il momento di rivedere la famiglia e gli amici, e soprattutto procurarsi gli indirizzi di un certo numero di ragazze finlandesi; infatti, la maggior parte delle guide che
gravitavano intorno al consorzio chiedeva di corrispondere
con qualche sua amica. La cosa che più divertiva Tarja era
che agli italici maschietti non importasse nulla della situazione sentimentale delle candidate. Quando alle richieste
lei rispondeva dicendo che tutte le sue amiche erano sposate, si sentiva rispondere dal babbuino di turno un insolente: «Fa niente, non sono geloso.»
Una volta, incendiata di rabbia, per il precedente comportamento di Stefano che aveva fatto bloccare l’ascensore, sbottò in una legittima considerazione: «Tu pensa che
donna finlandese non trova nessuno per fare sesso, tu pensa che tute troia?»
Il povero, timido quanto frustrato ragazzotto, diventò di
tutti i colori assomigliando ad un camaleonte che tenta di
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mimetizzarsi su un quadro di Picasso; il giovane non si fece più vedere.
Sistemata in un angolo la valigia i due si sedettero sul
letto e decisero di dormire lì per la notte, lo avevano già
fatto altre volte e il proprietario dell’albergo non aveva
nulla da ridire, la camera era pagata pur restando sempre
vuota.
Stefano decise che era giunto il momento di ringraziare
la sua compagna per l’aiuto ricevuto con il giornalista, sfilò la maglietta alla donna, sfilò il bustino elasticizzato che
conteneva il prosperoso seno e attese che Tarja si sfilasse il
resto e si sdraiasse accanto a lui supina, sapeva cosa gradiva la sua compagna come sapeva che oltre a rilassarla, le
carezze a fior di pelle erano i preliminari più eccitanti per
lei.
Si distese ignudo di fianco e con la mano destra iniziò a
sfiorare la pelle della schiena, delle natiche, delle cosce.
Il passaggio della mano a pochi decimi di millimetri
dall’epidermide causava un sisma di brividi intensi e incontrollabili, Tarja respirava a denti stretti, aspirando sibilanti boccate di piacere. Dopo alcune passate su tutta la superficie raggiungibile dalle mani di Stefano, la pelle si sensibilizzava al punto da rendere elettrizzanti le ondate di
brividi, il corpo allora cominciava a muoversi sinuosamente cercando di indirizzare la mano dell’uomo verso le zone
che a turno desideravano essere sfiorate. Dopo alcuni minuti di trattamento Stefano interrompeva il contatto con
l’epidermide e chiedeva: «La signora è soddisfatta?»
Dopo qualche secondo di attesa, necessario perché l’ultimo brivido si esaurisse, la donna voltava il capo verso
Stefano e rispondeva: «Sì.» Ancor più che le parole, il viso
calmo, rilassato e disteso confermava il raggiungimento di
uno stato d’animo sereno e appagato, pronto a rendere più
di quanto ricevuto. A quel punto toccava a Stefano disten108
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dersi e lasciare che quel caldo e morbido corpo lo avvolgesse come le onde del mare avvolgono le conchiglie finite sul bagnasciuga. La donna allora si stendeva su di lui, si
muoveva ondeggiando sinuosamente, sfiorandolo con il
corpo vellutato, strofinando i capezzoli turgidi sul torace
irsuto, avvolgendolo con le cosce polpose e stampando le
impronte delle labbra sulla bocca, le guance, il mento.
Ogni tanto testava la consistenza del membro di Stefano e
quando la durezza ne confermava l’avvenuta maturazione,
lo coglieva, concedendosi a gambe e braccia aperte. Tra le
cosce di Tarja si schiudeva un bocciolo di rosa carico di rugiada mattutina e Stefano, ogni volta che gli veniva donato, lo sfiorava con il polpastrello del medio destro, ne coglieva qualche goccia, e la gustava come fosse nettare degli dei. L’assaggio eccitava ancor di più la donna che scioglieva tutta la muscolatura e si predisponeva ad accogliere
l’uomo della sua vita.
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CAPITOLO QUATTORDICI
L’IDEA
AFFONDARE una nave in tempo di pace richiede lo stesso co-
raggio che in tempo di guerra. I rischi sono diversi, in
guerra si mette in gioco la propria vita, cercando di infliggere quanto più danno economico e umano al nemico, in
tempo di pace si rischia la propria carriera, la poltrona, e si
cerca di causare meno danno possibile, permettendo agli
alleati di trarne il massimo profitto.
Anche per affondare il Vittorio Veneto ci volle molto
coraggio.
L’alienazione delle vecchie navi prevede diverse soluzioni: la prima, la più usata, è quella della demolizione,
sorte che tocca a circa il 95% delle navi, la percentuale restante finisce in fondo al mare. Non tutte le navi affondano
per cause che sfuggono al controllo dell’uomo, alcune di
esse vengono autoaffondate per diversi motivi. Ad esempio per realizzare un molo, riempiendo lo scafo con colate
di cemento, una specie di enorme cassone. Nel dopoguerra
molti porti sono stati ricostruiti in questo modo. Se invece
la demolizione della nave è molto onerosa, la si porta in un
punto di mare molto profondo e la si affonda in migliaia di
metri di acqua. Alcuni armatori hanno scoperto che affondare le proprie navi può essere un affare, soprattutto quando sono molto vecchie: in quello che sarà l’ultimo viaggio
dichiarano il trasporto di un carico di valore, ad esempio
elettrodomestici o computer, che invece vengono rivenduti
al mercato nero, mentre invece caricano la nave con pro110
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dotti tossici difficili da smaltire. La scomparsa della nave
frutta oltre al rimborso dello scafo e quello del carico dichiarato, la vendita del vero carico e l’introito dovuto allo
smaltimento dei rifiuti tossici. Un bell’affare.
Navi affondate per esperimenti militari si contano da
epoche remote: la prova delle armi imbarcate non potrebbe
avere collaudo migliore che in mare contro un bersaglio in
movimento. Il 31 gennaio 1958 il sommergibile Rubis veniva adagiato su un fondale sabbioso a 40 metri di profondità: da allora concorre alla formazione degli equipaggi
della marina militare francese addetti alla caccia ai sommergibili. L’apoteosi di questa attività si ebbe con i test nucleari svolti dagli Stati Uniti nell’atollo di Bikini: quaranta
navi ormeggiate nella laguna e attorno all’isola affondarono in seguito all’esplosione di una bomba nucleare.
A distanza di quarant’anni il luogo è un paradiso per i
sub di tutto il mondo.
Da qualche decina di anni è uso affondare le navi in acqua bassa per creare punti di immersione subacquea. Alle
isole Vanuatu nel 1985 fu affondato il cargo Semle
Fedrasen: adagiato a venti metri di profondità fu spostato
dall’uragano Uma arrivando fino a meno cinquanta.
Israele ha affondato la cannoniera lanciamissili Soufa della
Marina Militare; alle isole Cayman nel settembre 1996 è
stata affondata una nave da guerra sovietica, la fregata 356
ribattezzata Capitan Keith Tibbetts. Cuba non è stata da
meno, creando nel 1997-98 un vero e proprio parco marino
composto da reef artificiali, affondando in meno di 30 metri la The Black Coral, una nave di 40 metri, e tre navi militari tra cui una fregata lunga 100 metri di 500 tonnellate
di stazza, oltre ad aerei ed elicotteri. È dal 1953 che in
Alabama migliaia di obsoleti carri armati M48 e M60 sono
utilizzati per creare una scogliera artificiale; da ultima
Malta, che negli ultimi anni sta realizzando numerosi pun-
ti di immersione adagiando grosse navi mercantili sui fondali. Le ultime affondate sono: la Um El Faroud, petroliera
libica danneggiata da un’esplosione il 3 febbraio 1995 e
affondata al largo della costa sud-est dell’isola, presso
Wiediz-Zurrieq; il traghetto Xlendi, costruito in
Danimarca e utilizzato dalla Gozo Channel Co. Ltd. per il
traffico locale, affondato il 12 novembre 1999 fuori dall’isola di Gozo per creare un reef artificiale.
Tutti questi progetti sono stati portati avanti in sinergia
da Ministeri del turismo, dell’ambiente e Forze Armate.
L’idea di affondare una nave per i sub passa per la mente ad ogni subacqueo almeno una volta nella vita, e ai sub
italiani pareva molto strano che con ottomila chilometri di
coste nessuno ci abbia mai pensato. In realtà ci hanno provato in molti, ma la burocrazia affonda solo le buone idee.
I porti del sud come Otranto, Crotone e Lampedusa pullulano di vecchie carrette che stanno lentamente affondando in porto; la loro alienazione naturale sarebbe opportuna
in bassi fondali, in modo da divenire punti di attrazione per
il turismo subacqueo, limitando la fuga dei turisti italiani
verso mete più esotiche, a tutto vantaggio del turismo italiano.
L’unico caso, peraltro anomalo, è la petroliera Haven,
affondata di fronte ad Arenzano. Il comandante delle operazioni di salvataggio diede ordine di trainare il relitto in
fiamme in bassi fondali, in modo da rendere possibile la
bonifica. Col senno di poi la scelta si è rivelata la più saggia, regalando inoltre ai sub uno dei relitti visitabili più
grande al mondo. Uno dei più belli.
L’affondamento del Vittorio Veneto non fu certo cosa
semplice e arrivò a buon fine solo perché ad occuparsene
furono incursori da scrivania, uomini vestiti da impiegati
ma efficienti e determinati come i vari Birindelli, Schergat
e Tesei, eroi della seconda guerra mondiale.
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LegAzzurra, associazione ambientale per la salvaguardia del patrimonio ambientale, si occupò della gestione politica del progetto, coordinando le azioni sinergiche degli
altri enti interessati. Nel suo organico aveva le pedine giuste: Stefano Tixera futuro direttore del consorzio Vittorio
Veneto e Alice Rivelli, vicepresidente dell’associazione e
segretaria personale del Ministro dell’ambiente, colui che
avrebbe autorizzato l’affondamento della nave, dimostrando la determinazione di un assaltatore.
La regione Liguria stanziò un milione di euro quando fu
presentato il progetto di fattibilità, che prevedeva la creazione di un consorzio che tutelasse gli interessi dei soci e
gestisse la concessione demaniale. La provincia di Imperia
fornì lo stabile per la sede del consorzio in uso gratuito per
i primi cinque anni, con proroga se il consorzio avesse ottemperato alla funzione richiesta.
Il Comune di Oneglia, gestore della concessione demaniale, si accontentò di un corrispettivo simbolico per i primi cinque anni; in seguito, in caso di successo, avrebbe applicato le tariffe in vigore sul territorio nazionale.
Il Consorzio Vittorio Veneto venne costituito all’inizio
del duemilauno, quando la Marina Militare radiò l’incrociatore rendendolo al Ministero del Tesoro. La nave era ora
dello stato italiano che l’avrebbe messa all’asta per la demolizione. Normalmente i demolitori navali fanno un’offerta in busta chiusa e chi ha offerto di più demolisce la nave. Tale procedura va scomparendo a causa della notevole
quantità di amianto presente nelle sale macchina e nelle
caldaie, materiale antieconomico da smaltire. Molto frequentemente la demolizione viene effettuata in paesi dove
lo smaltimento dell’amianto richiede meno oneri, quali la
Turchia, il Pakistan o l’India.
Nel caso del Vittorio Veneto, il Ministero del Tesoro cedette il vascello a LegAzzurra a un prezzo simbolico ben
al di sotto del valore di rottame dello scafo stesso, ammontante a circa trecentocinquanta mila euro.
Il problema dell’amianto era stato studiato già diversi
anni prima, quando Legazzurra intendeva affondare un altro incrociatore italiano, il Caio Duilio, radiato nel 1991 e
rimasto ignobilmente ad arrugginire a Porta Manarola nell’arsenale di La Spezia. Secondo studi condotti dal professor Cannelli della Facoltà di zoologia marina dell’università di Genova, l’amianto è altamente cancerogeno in ambiente aereo ma in acqua è assolutamente inerte, non a caso per smaltirlo viene bagnato. L’amianto non è cancerogeno neanche nel circuito alimentare attraverso i pesci; ma
per fugare ogni timore tutte le intercapedini contenenti fibre di amianto furono trattate iniettando un liquido colloso
che lo cementificò, tutte le strutture furono ricoperte con
una vernice plastica che avrebbe impacchettato il tutto in
una pellicola trasparente; inoltre l’acqua di mare, penetrando dove non arrivava la vernice, avrebbe reso inerti le
fibre rimaste libere. Le sale macchina e le caldaie, locali
con la massima concentrazione di amianto, sarebbero state
monitorate continuamente con prelievi di acqua, di sedimento, di fitoplancton e fauna marina.
Tutti i relitti affondati volontariamente devono fornire
le massime garanzie di basso impatto ecologico. A tal proposito è stato stilato un protocollo che prevede le operazioni obbligatorie prima di inabissare la nave: il protocollo
Lowestoff. Tutti i residui di idrocarburi devono essere eliminati, così gli oli e tutto ciò che è altamente inquinante o
tossico.
Nel caso del Vittorio Veneto tutti i depositi di carburante e olio furono svuotati, lavati con un solvente e sciacquati con acqua di mare, la quale veniva aspirata, depurata e
rimessa in mare. Ogni martinetto idraulico fu forato e l’olio aspirato o sparato fuori e smaltito. Tutte le sostanze tos-
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siche come vernici, benzine, carburanti vari, liquidi idraulici vennero asportati. Tutte le munizioni leggere, i missili,
le vettovaglie furono sbarcate. Tutto quello che poteva essere tolto da un uomo a mani nude fu asportato e smaltito:
tavoli, mobili, apparecchiature elettroniche. Tutti i sistemi
d’arma furono smantellati per evidenti motivi bellici.
Brande, armadietti, accessori che avrebbero potuto staccarsi dallo scafo vennero alienati; quel poco di legno presente a bordo fu asportato. Tutti gli stralli, i cavi e le antenne furono tolte e l’albero con il radar fu tagliato, in modo
che le mareggiate non lo spezzassero. Tutti gli oggetti di
metallo sottile, che col passare degli anni si sarebbe corroso, furono tolti preventivamente. Non fu possibile sabbiare
tutta la nave, il costo sarebbe stato proibitivo, ma alcune
zone del ponte, delle fiancate e delle sovrastrutture furono
sabbiate fino a mostrare il metallo nudo. Lo chiglia era ormai coperta da denti di cane a causa dei mesi passati in
porto, la vernice antivegetativa era ormai completamente
scomparsa.
I portelli e i boccaporti furono tutti saldati in apertura
per consentire il passaggio dell’acqua durante l’affondamento, tranne quelli che portavano alle sale macchina e alle caldaie; questi ultimi erano stati bloccati con del cavo di
acciaio e dopo l’affondamento sarebbero stati continuamente oggetto di manutenzione, perché dovevano aprirsi e
chiudersi come se fossero nuovi.
La nave subì i lavori preparatori all’affondamento nell’arsenale di La Spezia; alla Marina Militare fu comandato
di eseguire la preparazione.
Grande importanza fu data alla documentazione delle
strutture prima dell’affondamento.
Lo scafo della nave fu completamente fotografato in
ogni suo dettaglio. Una squadra di sei persone per una settimana scattò duecentoventiseimila fotografie digitali, un
patrimonio di immagini che avrebbe fornito la pietra di
paragone tra la nave appena affondata e dopo la colonizzazione da parte degli organismi marini. Ogni foto scattata in
seguito, durante le immersioni, poteva essere confrontata
con una prima dell’affondamento. Una tale mole di lavoro
fu possibile solo perché una nota azienda di pellicole offrì
in comodato alcuni apparecchi digitali. Una volta che la
memoria della macchina era piena, bastava sostituire il microdrive e riprendere a scattare; quando tutte le memorie
erano piene, si scaricavano le foto in un computer portatile
e si ricominciava. Per scattare le foto delle soprastrutture
da una prospettiva aerea fu impiegata anche una piattaforma di quelle per i traslochi. Le foto a rotazione sarebbero
apparse sul sito del consorzio, a disposizione del pubblico
e in un angolo dell’immagine, insieme al marchio del consorzio, appariva anche quello della marca di pellicole, anche se nemmeno un metro di film era stato utilizzato.
L’archiviazione delle foto richiese la messa a punto di
un programma particolare: cliccando su un particolare della nave, un motore di ricerca individuava tutte le foto di
quella zona.
Il giorno dell’affondamento, la nave fu trainata da due
rimorchiatori, fu posizionata nel luogo prescelto con molta
cura, le ancore vennero filate per stabilizzare la prua. Una
squadra di subacquei della Marina Militare si occupò dell’apertura delle prese a mare. La nave lentamente iniziò a
affondare con la poppa. Sembrava si sedesse. Un rimorchiatore tirava leggermente la poppa in modo che le catene
facessero presa e la nave rimanesse nel punto esatto previsto per l’affondamento. A bordo tre sommozzatori del
Comsubin erano pronti ad intervenire se un lato della nave
si fosse inclinato più del dovuto, e anche il direttore del
consorzio Stefano Tixera era a bordo, pronto a seguire la
sua creatura verso la nuova vita.
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Nuvole di grosse bolle d’aria continuavano a sfuggire
dal relitto, sibilando, fischiando, gorgogliando. In alcuni
locali l’aria rimasta imprigionata sotto forma di bolla creava delle camere asciutte.
Il punto di affondamento fu scelto accuratamente: dapprima si commissionò una prospezione del fondale tramite
side scan sonar; i risultati diedero una visione tridimensionale del fondo da Diano Marina a Sanremo; in seguito si
simulò al computer il posizionamento dello scafo con varie inclinazioni e a varie profondità, scegliendo quella più
appropriata.
Una volta scelto il punto esatto si passò alla bonifica del
fondo: sullo strato di sabbia bianca non doveva esserci
nulla, ogni oggetto fu recuperato e gli ordigni esplosivi fatti brillare. Trovarono due mine, alcuni piccoli scafi in legno ormai marci, uno scaldabagno e rifiuti vari. Lo strato
di sabbia fu infine passato con il metal detector, ma nulla
era nascosto sotto la soffice rena.
Il letto fu circoscritto in un campo di boe nelle quali bisognava sistemare la nave. Alcuni giorni dopo vennero sistemati i grossi corpi morti che costituivano il campo boe.
Grossi cubi di cemento armato, di due metri di lato con un
grosso occhiello per fissare la catena, facevano da cornice
alla chiglia dell’incrociatore.
Il campo boe fu allestito dalla Mako Sub Service, la
stessa ditta aveva effettuato la survey col side scan sonar e
la bonifica del fondo. Visto da lontano il campo boe sembrava la pista di atterraggio dell’aereo club di Como, dove
file di boe colorate invitano gli idrovolanti a sfiorare e baciare delicatamente la superficie dell’acqua del lago. A
Oneglia, i galleggianti colorati segnalavano una delle attrazioni sottomarine più frequentate.
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Il relitto fu circondato da un campo boe, sia per segnalarne la posizione sia per permettere l’ormeggio delle imbarcazioni con i sub. Una grossa boa metallica dipinta di
bianco fu sistemata alcuni metri dinanzi alla prua, ancorata
ad un grosso cubo di cemento armato di due metri di lato.
Lo stesso ancoraggio fu riservato alla boa rossa, a poppa della nave. Una terza boa di plastica gialla fu fissata al
primo fumaiolo. Alcuni metri sotto la boa fu sistemato un
galleggiante che teneva la catena in tensione. Lo spezzone
di catena tra il galleggiante e la boa era zavorrato con un
peso di piombo che smorzava le oscillazioni dovute al mare. Di fianco al relitto, a circa dieci metri di distanza, vi
erano due file di corpi morti per ciascun lato; alla fila vicina alla fiancata del relitto erano ancorate le boe rosse di discesa; a quella più esterna, distante dieci metri, erano ancorate le boe di ormeggio bianche. Le boe di ormeggio
bianche e quelle rosse erano parabordi rotondi formato A3.
Ogni catena era tenuta in tensione da un fusto in plastica,
di quelli da 200 litri iniettati di polistirolo espanso, sistemati a 6 metri di profondità e collegati tra loro da un cavo
di nailon.
L’area formata dalle boe era interdetta alla navigazione
di qualsiasi mezzo; i mezzi autorizzati all’ormeggio dovevano avvicinarsi lentamente alle boe provenendo dall’esterno e allontanandosi nello stesso modo. La procedura di
immersione prevedeva che ad ogni imbarcazione fosse
concessa una boa di quelle bianche numerate. Il campo
boe permetteva inoltre a quei sub che, per emergenza,
avessero dovuto risalire in libera, di trovarsi in un’area dove non transitavano imbarcazioni. La lieve corrente di superficie riportava i sub dispersi verso le boe collegate da
cime senza il rischio che si disperdessero in mare aperto.
Alla tappa di risalita dei sei metri, ogni guida presente
sul gommone doveva posizionare una bombola di nitrox
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cinquanta con almeno tre erogatori in pressione ma con rubinetto chiuso; al termine delle immersioni la guida procedeva al recupero o, se erano previste più immersioni e la
bombola non veniva utilizzata, la recuperava alla fine della
giornata. Il consorzio raccomandava di terminare gli obblighi decompressivi alla tappa dei sei metri, trascorrendo lì
anche i minuti della tappa a tre metri, consigliava inoltre di
risalire dai sei metri molto lentamente seguendo la catena
che dai sei metri portava al gommone. Questa procedura
rendeva più efficiente la decompressione e metteva al riparo da eventuali errori commessi dai sub durante l’immersione.
I sub una volta in acqua seguivano il cavo che collegava
i due galleggianti posti a meno sei metri e scendevano sulla catena della boa rossa, quella vicina al relitto. A dieci
metri dal fondo, un altro cavo collegava la catena al relitto,
in modo da arrivarci anche con pochissima visibilità. Sul
relitto, in corrispondenza del cavo vi era una targa di rame
con il numero della boa, in modo da facilitare la ricerca
della propria boa di risalita e l’orientamento: le boe 1, 3, 5,
7 a sinistra del relitto guardando la prua da centro nave; le
boe 2, 4, 6, 8 a destra. I numeri indicavano inoltre la zona
dello scafo in cui ci si trovava: i numeri uno e due indicavano la paratia 36, i numeri tre e quattro la paratia 78, i numeri cinque e sei la paratia 100, i numeri sette e otto la
paratia 130. In caso di smarrimento era possibile salire su
qualsiasi boa, fare la sosta decompressiva necessaria e raggiungere la propria boa se vicina, altrimenti farsi portare
dall’imbarcazione più vicina. Il sistema della doppia boa,
una di ormeggio e una di discesa, rendeva sicure le operazioni di immersione, distanziando l’imbarcazione dai sub
in decompressione.
Le due grosse boe a prua e a poppa erano radarabili e
provviste di luce bianca; in caso di divieto di immersione
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una potente luce rossa lampeggiante sulla boa di poppa segnalava il divieto stesso. Per la prima stagione non si effettuarono immersioni notturne, tranne che per manutenzioni
straordinarie o ricerche scientifiche.
All’epoca del progetto dell’affondamento una delle
preoccupazioni più sentite da tutti gli interessati era legata
al possibile inquinamento ambientale. Per questo sarebbe
stato necessario stipulare una polizza assicurativa con i
Lloyd’s in modo da coprire eventuali danni arrecati all’ambiente. La polizza era anomala per la compagnia assicuratrice; si trattava del primo caso di assicurazione a un
relitto di nave. Le tariffe furono conteggiate forfettariamente e il primo preventivo fu talmente elevato da scoraggiare dall’idea di proseguire nella realizzazione del progetto: per coprire la quota assicurativa occorreva che il consorzio fatturasse come una multinazionale petrolifera. La
soluzione venne in mente a Stefano Tixera. Con Icram,
Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica
Applicata al Mare, e Castalia, società leader nel monitoraggio ambientale, LegAzzurra condusse una ricerca sull’inquinamento da scafi affondati di proposito. I primi presi in esame furono quelli di Malta e successivamente quelli che, in ogni parte del mondo, potessero fornire informazioni attendibili.
Dalla ricerca emerse che i livelli di inquinamento, peraltro molto bassi rispetto a quelli degli affondamenti accidentali, crescevano nei primi tre anni per poi ridiscendere
fino a stabilizzarsi sui valori precedenti all’affondamento.
L’idea geniale del direttore fu quella di prevedere il recupero della nave in caso di superamento dei livelli di inquinamento oltre la soglia preventivata e concordata con le
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ASL delle località adiacenti la costa di Imperia. L’idea richiedeva che il relitto fosse già predisposto per il recupero.
Per questo fu prevista una rete di tubi di pvc rigido ad alta
resistenza fosse installata sul relitto. Le condotte da un
pollice, provviste di rubinetto in ottone, partivano dalla coperta in prossimità del paraonde, raggiungevano i locali
macchine, caldaie, depositi vari e doppifondi. Il
Dipartimento di Ingegneria Navale dell’Università di
Genova aveva calcolato i volumi da svuotare necessari alla
riemersione della nave, tenendo conto dell’aumento del
peso dovuto alla crescita delle colonie di organismi sottomarini e dell’indice di scollamento necessario a staccare la
chiglia dal fondo. Una nave adagiata sul fondo vi rimane
incollata; meno è compatto il fondo, più occorre forza di
spinta per sollevare la nave; fu anche per questo che per
l’affondamento fu scelto un fondo di sabbia: se fosse stato
fango l’indice di scollamento sarebbe stato il massimo.
La rete per il recupero era composta da un impianto di
mandata dell’aria compressa e da uno di sfogo dell’acqua.
Il primo era vincolato al soffitto dei locali, quello per lo
scarico al pavimento. Entrambe le tubature avevano dei
tappi-diaframma che sarebbero saltati con l’immissione
dell’aria compressa. Per questo era necessario riempire la
tubolatura di glicerina, in modo che restasse efficiente per
tutti gli anni richiesti e non fosse possibile la colonizzazione all’interno di organismi marini. Tutte le aperture della
sala macchine furono trattate in maniera speciale e preventivamente verniciate con una sostanza siliconica che le
avrebbe preservate dalla corrosione. In caso di recupero
tutti i portelli sarebbero stati chiusi e sigillati lungo il battente con uno speciale mastice che avrebbe garantito la tenuta dell’aria. Potenti compressori come quelli usati nei lavori stradali avrebbero permesso il rigalleggiamento della
nave in meno di due giorni. Il costo dell’impianto di recu122
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pero risultò essere un decimo del preventivo iniziale della
polizza assicurativa, la quale venne adeguatamente ridotta
fino a diventare accettabile. Prima dell’affondamento,
Legazzurra, Castalia e i Lloyd’s eseguirono dei rilevamenti di campioni per accertare lo stato di inquinamento della
zona, lo stesso fecero le ASL. In accordo con la legge vigente furono fissati i limiti massimi di inquinamento ammesso.
Una parte del budget del consorzio fu accantonata per
le eventuali operazioni di recupero e demolizione, lasciando che la copertura assicurativa coprisse solo i danni ambientali.
Dopo un anno di giacenza sul fondo i valori di inquinamento da idrocarburi e metalli pesanti erano gli stessi dell’anno precedente; la colonia di organismi marini, colonizzando il relitto, metabolizzava le esigue quantità di rifiuti
che il relitto rilasciava.
Una delle tante idee che fu presa in considerazione circa la penetrabilità del relitto prevedeva la visita dell’hangar elicotteri, uno spazio molto ampio che sarebbe stato
possibile visitare come una grotta sommersa. Opportunamente sagolato, sarebbe stato possibile attraversarlo da
parte a parte. Ogni sub avrebbe ricevuto una specie di joinline lunga un metro e mezzo con due moschettoni alle
estremità, una da fissare alla propria attrezzatura e una da
agganciare alla fune di guida, formando una specie di teleferica; il senso di progressione era forzato in una sola direzione, suggerita dalla colorazione della corda di nylon. Fu
deciso di rimandare di due anni la realizzazione del percorso guidato all’interno dell’hangar, per rendersi conto
della reale fattibilità testando il percorso con le guide del
consorzio, e per rinnovare l’interesse verso il relitto dopo
alcuni anni.
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CAPITOLO QUINDICI
MERCOLEDÌ
IL TRILLO del cellulare lo trafisse nel sonno profondo, ci mi-
se mezzo minuto per rispondere e altri dieci secondi per
capire se era vivo o morto in quel momento.
Fu la voce di Tino a ricondurlo sulla terra. «Belin! Non
dovevamo vederci alle otto?» chiese seccato di essersi svegliato all’alba per nulla.
«Arrivo subito», disse Stefano, sicuro che quella sarebbe stata una giornata del cavolo, e se era cominciata male
sarebbe finita sicuramente peggio.
Si infilò in bagno e fece la rituale minzione mattutina:
cominciare con quella liberazione fisiologica era un rito irrinunciabile, a costo di sedersi sul water e aspettare per ore
che uscisse.
Quella mattina non ce ne fu bisogno, bastò il comando
mentale per rilasciare la lattina di birra in cui era annegata
la pizza della sera prima. Indossò i pantaloni e la maglietta
del giorno precedente, entrambe stropicciate come un
Sacchetto di Tivek. Mentre si allacciava le Nike, vide i calzini di spugna sotto il letto, troppo tardi pensò e li lasciò
dov’erano. Diede un bacio a Tarja che pur sveglia non si
era mossa dalla sua posizione, si riaddormentò proprio
mentre le labbra dell’uomo premevano le sue. Prima di
uscire lo sguardo di Stefano cadde sui bordi della pizza
della sera prima, li aveva lasciati Tarja perché troppo cotti.
Decise che quella sarebbe stata la colazione del giorno, se
ne cacciò uno in bocca e con gli altri in mano scese le sca124
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le di corsa. In meno di tre minuti, con un leggero fiatone e
le croste di pizza che tamponavano la fame mattutina, arrivò alla base mare, dove Tino lo attendeva a bordo del gommone.
Aprì il locale che conteneva le attrezzature del consorzio e, sempre col fiatone, avvicinò quanto gli serviva al ciglio del molo, in prossimità del gommone, Tino lo avrebbe
caricato. Pinne, maschera, cappuccio, pesi, profondimetro,
Xtrac con unità remota, bombola da sette litri di nitrox cinquanta per la decompressione, GAV Halcyon da ventisette
litri, pallone segna sub, due erogatori Poseidon Cyclon di
cui uno con frusta di due metri, due torce subacquee.
Tolse la batteria sotto carica dello scooter subacqueo, la
infilò nel corpo cilindrico di PVC, collegò i morsetti e
chiuse il corpo, una leggera pressione sulla leva di marcia
fece roteare l’elica di plastica a ipervelocità. Passò il giocattolo direttamente nelle mani di Tino affinché lo depositasse in modo stabile.
Si tolse gli abiti, infilò il sottomuta di tinsulate e la muta stagna Otter, chiuse il locale e salì sul gommone. Mentre
Tino si dirigeva sulla boa al largo alla velocità di un nodo,
Stefano iniziò ad assemblare la sua attrezzatura.
«Quanto tempo di fondo farai?» chiese Tino mentre
puntava sulla boa ormai vicina.
«Da quindici a venti minuti», disse Stefano.
«Secondo me domani picchia», aggiunse Tino, «forse
già da stasera!» concluse, guardando la bassa riga grigia
che, parallela, sdoppiava l’orizzonte. Il mare ancora calmo, dava segni di agitazione, uno spruzzo di schiuma ogni
tanto, una leggera e impercettibile folata di vento.
«Domani non usciamo comunque», disse Stefano mentre avvitava il secondo erogatore sul bibombola, «devo
portare Tarja a Malpensa, sta via qualche giorno.»
Tino non disse nulla e continuò a dirigersi alla boa blu.
Una volta arrivati e ormeggiati, Tino si tolse la felpa, il
sole cominciava a scaldare e in gommone c’era già uno
che sudava abbondantemente. Chiuso nella muta stagna
Stefano colava come una statua di ghiaccio al sole.
«Facciamo in fretta, me stò a squaià», disse alla guida baffuta. Accese il segnalatore e il ricevitore dell’Xtrack, il ricevitore lo mise al polso e diede a Tino la consegna di calare in acqua il trasmettitore, doveva stare esattamente due
metri sotto la superficie. Fatto quello Tino aiutò il sub a indossare il gav. Una volta pronto, Stefano si lasciò cadere di
lato dal tubolare del gommone e finalmente la temperatura
divenne amichevole. Controllato che tutto fosse a posto,
con un cenno della mano chiese lo Zeuxo. Il tempo di agganciare il moschettone all’anello in vita e si immerse nel
blu. Il minisiluro ci mise un minuto per raggiungere i sessanta metri di profondità del corpo morto, la catena che
collegava la boa al pesante blocco di cemento filò davanti
a Stefano velocemente. Diede l’ultimo colpetto di aria alla
stagna, durante la stagione estiva preferivano usare quel
gas al posto dell’argon. Si ritrovò in perfetto assetto orizzontale a due metri dal fondo, tra il cubo di cemento e la
poppa del Vittorio Veneto: le eliche, enormi, creavano una
certa apprensione, anche a chi le aveva viste decine di volte. Prima di iniziare la perlustrazione fece gli ultimi controlli, aspirò qualche boccata di trimix dal secondo erogatore, diede un colpetto di gas al gav e, constatato che funzionava, scaricò il gas in eccesso. Con un’occhiata verificò
il profondimetro, sessantuno metri, e notò con piacere che
il ricevitore Xtrack funzionava. Era il terzo minuto di immersione quando iniziò la cavalcata subacquea.
La visibilità era ottima, il termoclino, stabile ai venticinque metri e sottile come una lama, divideva lo strato
profondo di acqua fredda e limpida da quello più caldo e
torbido di superficie. Il fondo del mare si presentava omo-
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geneo, sabbia compatta e consistente, era proprio per quello che il relitto si trovava lì. Disseminati sul fondo, a circa
una decina di metri l’uno dall’altro, piccoli massi rocciosi
creavano piccole oasi per le specie di vita marina. Se avesse avuto più tempo si sarebbe regalato qualche minuto di
contemplazione per quegli acquari senza vetri, il compito
era un altro. Ad ogni minuto circa cambiava direzione cercando di memorizzare la rotta e tracciandola nella mappa
mentale che ormai, con le centinaia di immersioni sul relitto, aveva stampata nella mente. Ogni due minuti controllava il ricevitore Xtrack, il visore digitale indicava la direzione del ricevitore in gradi e la distanza in metri. Decise
di non allontanarsi più di centocinquanta metri dal relitto e
di percorrere una rotta di ricerca a forma di greca. Al decimo minuto si fermò in assetto a due metri dal fondo, controllò il manometro, centosettanta atmosfere, bene, pensò,
guardò il profondimetro digitale, settantuno virgola quattro metri, in quell’istante scattò l’undicesimo minuto di
immersione. Lo Xtrak al polso indicava 245° distanza centoventicinque metri. Per sicurezza, benché fosse certo di
dove si trovava, Stefano estrasse dalla tasca della stagna
sulla coscia destra, una tavoletta di lexan bianco, misurava
diciotto centimetri per quindici e aveva un buco in un angolo in cui era infilato un grosso elastico. Sulla lastra vi
era incisa la pianta del relitto, lunga circa cinque centimetri, e in corrispondenza delle boe centrali, quella blu, quella bianca e azzurra e quella tutta bianca, partivano verso
l’esterno tanti raggi radiali, di quindici gradi in quindici
gradi. Sembravano tanti piccoli raggi di sole che si irradiavano da tre punti diversi, le boe appunto. I fasci dei raggi
erano intersecati da archi di cerchio che indicavano la distanza dal centro, ve n’erano tre, uno ogni cinquanta metri.
Sul bordo della lastra, in prossimità della fine di ogni raggio vi era segnato l’angolo bussola. Questa lavagnetta,
ideata da Stefano, permetteva di orientarsi quando la visibilità era scarsa e non si era in prossimità del relitto. Era
già stata usata in precedenza, per visitare la coltivazione di
posidonia a cento metri dal relitto; ogni settimana un biologo ne misurava l’aumentare dell’estensione o la riduzione e tutte le variazioni possibili.
Stefano si trovava tra i raggi 240 e 255 e tra il secondo e
il terzo segmento circolare, un po’ più spostato a nord di
quanto avesse stimato. Decise di utilizzare gli ultimi minuti per un ampio giro più a sud, alle sue spalle. Girò il destriero elettrico e spinse a fondo la leva di accensione. Lo
scooter al momento della partenza dà una specie di strattone, non molto forte, ma la massa di acqua intorno al sub, in
quell’istante, preme di colpo su tutta la parte anteriore del
corpo, come quando ci si tuffa. Una volta partiti la sensazione diminuisce, ma si sente sempre una piccola pressione sulla maschera e con l’erogatore tenuto in bocca, se la
velocità è massima e si volta la testa, c’è la probabilità che
il flusso di acqua sposti la maschera. Ma ormai Stefano era
esperto, usava quel giocattolo ogni volta che poteva.
Dopo circa cinquanta metri arrivò su di un banco di
sabbia chiara, bianca, libera da ogni tipo di detrito; misurava all’incirca un po’ meno di un campo da calcio, attorno i
massi più grossi che raggiungevano le dimensione di
un’automobile. Quel fondo compatto lo incuriosì, anzi lo
attraeva, un grande spazio bianco ondulato come le spiagge di sabbia finissima. Se osservato da tre metri di distanza
era attraente, figuriamoci da vicino, pensò Stefano, e diresse lo scooter verso il basso. Sorvolò il drappo di sabbia a
pochi centimetri di distanza, girando in tondo alla ricerca
del posto dove fermarsi. Un punto al centro dell’area lo
chiamò, si diresse affascinato, quel punto era strano ma
non capiva perché. Solo quando si inginocchiò sulla sabbia
capì. Il fondo era liscio e concavo, non piatto e ondulato da
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piccole e continue dune alte circa cinque centimetri, come
lo sono tutti i fondi sabbiosi. Si prese qualche secondo per
contemplare quella strana orma, e più la guardava più assomigliava allo forma di un pesce. Si diresse a una delle
estremità e notò che un metro distante dal bordo appuntito
dell’orma vi era come un cerchio di un metro e mezzo di
diametro, dove le dune, pur essendo presenti erano meno
accentuate, come se il grosso pesce, terminato il riposo,
fosse sgommato via sbattendo la coda, sollevando un nuvolone di sabbia. Ma dai, pensò, vuoi vedere che qualche
balenottera ha fatto un sonnellino qui! L’idea lo affascinava, il santuario dei cetacei era proprio nelle acque tra la
Liguria e la Corsica. Ne avrebbe parlato con quelli
dell’Istituto Thethis. Ripresosi dai pensieri guardò il manometro, cento atmosfere, guardò il profondimetro, settantasei virgola sei metri. «Cazzarola», urlò a se stesso, agguantò la manopola dello Zeuxo, lesse la direzione
sull’Xtrack e si diresse verso la boa. Mentre tornava, decise di risalire nel blu gradatamente, si sollevò di cinque metri dal fondo, dopo un minuto risalì di altri cinque metri e
poco dopo di altri cinque. A ottanta metri di distanza dal
relitto ne vide la sagoma scura, decise di salire a cinquantacinque metri, la quota dove avrebbe iniziato la decompressione con i deep stop. Una volta vicino alla catena della boa e iniziata la risalita lenta, Stefano venne assalito da
una malinconica tristezza, il corpo del suo amico non era
stato trovato e le probabilità che il mare lo rendesse in
tempi brevi erano molto poche.
Tino, che a bordo del gommone era rimasto in apprensione per tutto il tempo, tirò un sospiro di sollievo, la vista
delle bolle rigogliose sotto la boa lo tranquillizzava, anche
se non del tutto: solo quando il sub fosse salito in barca gli
si sarebbe rilassato il sistema nervoso.
Stefano intanto era arrivato ai ventuno metri e si era at-
taccato alla bombola del nitrox cinquanta, decise di fare
una delle decompressioni sperimentali che provava nelle
immersioni in solitario. Non le avrebbe consigliate a nessuno, ma lui era convinto che il sistema usato da sempre
poteva essere migliorato e, in previsione della messa a
punto della sua creatura, da diverso tempo provava a decomprimere con un profilo inverso. Sarebbe rimasto dieci
minuti a ventuno metri, sette a diciotto metri, cinque a
quindici metri, due a dodici metri poi avrebbe sostato un
minuto ogni tre metri fino alla superficie. Da alcuni mesi
testava quel tipo di procedura, i risultati erano incoraggianti, anche se non poteva certo pubblicizzare quel tipo di
decompressione. Con la fine della stagione di immersioni
sul relitto, avrebbe iniziato una serie di test; al termine di
ogni immersione, di cui si registrava il profilo, si sottoponeva il sub a ecodoppler per il rilevamento delle microbolle. Il sistema non era molto scientifico ma era già stato
usato da diversi gruppi subacquei, soprattutto negli Stati
Uniti.
Appena bucata la superficie del mare,vicino al gommone, vide la faccia di Tino con una espressione felice.
«Bentornato», disse a Stefano che percepì le parole in tono
ovattato, smorzate dal cappuccio di neoprene della muta.
«Sono arrivati gli incursori», disse Tino mentre sistemava nel gommone tutto ciò che Stefano gli passava, imprecando in genovese ogni volta che l’oggetto pesava più
di due chili. Una volta a bordo del gommone filarono in
porto in meno di due minuti.
Ad attenderli sulla banchina vi erano Bambinoricco e
un ufficiale di Marina in uniforme; alla sede del consorzio
un folto gruppo di capi e sottocapi era intento a fare colpo
sulla bionda finlandese che ormai era sempre più divertita
dalla popolazione maschile italiana.
Stefano abbandonò il gommone con tutta la sua roba a
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bordo e con passo veloce e sicuro si diresse verso i due.
Scambiò un’occhiata con Bambinoricco, in quegli sguardi
intensi vi era tutto, una stretta di mano, un saluto, le disposizioni per sistemare la roba sul gommone, il risultato della ricerca, tutto quanto avrebbero dovuto dirsi due persone
normali.
CAPITOLO SEDICI
INCURSORI
IL CAPITANO allungò la mano verso Stefano quando era a un
metro di distanza.
«Stefano Tixera», disse il sub con ancora la muta stagna
indosso. «Comsubin», ribatté il militare a denti stretti, entrambi strizzarono le mani dell’altro con tutta la forza disponibile.
«Scusi», disse Stefano con un angolo della bocca impercettibilmente arricciato in un ghigno, «mi ripete il suo
cognome?»
«Comsubin», rispose il capitano, «sono del Comando
subacquei e incursori della Marina», aggiunse con determinazione.
Stefano non era nuovo a queste presentazioni, era evidente che il militare non voleva dire il suo nome e cognome. Stefano ne conosceva il motivo ma si divertiva a importunare il militare di turno.
«Da dove arriva dottor Tixera», chiese l’incursore,
guardando con sufficienza la muta stagna ancora bagnata.
«Ho fatto un’immersione attorno alla poppa del relitto,
era l’unica zona rimasta inesplorata nelle ricerche di ieri»,
rispose Stefano.
«La Magistratura l’ha informata della nostra missione?» chiese il capitano scolpendo un’espressione dura e
seria sul viso abbronzato.
«Siete qui per accompagnarci nell’ispezione all’interno
del relitto?»
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«Non propriamente», rispose l’ufficiale, «per le ricerche nel relitto non abbiamo bisogno di essere accompagnati, tutti i membri del team sono stati imbarcati sulla nave quando era operativa, inoltre due sommozzatori erano
nella squadra che affondò la nave in febbraio.»
«Come vuole, c’è altro che devo sapere?» domandò
Stefano mentre apriva la cerniera ventrale della stagna e
scapolava la testa fuori dal collare di caucciù.
«Posso vedere il profondimetro che ha al polso?» chiese il capitano tendendo la mano magra e nerbuta. Non disse nulla Stefano ma rimase stupito da quella richiesta, non
era certo interessato alla marca dell’oggetto; quel diffidente militare aveva avuto ordine di notare tutto quello che
non andava. Lesse la profondità massima raggiunta e il
tempo di fondo, poi guardando dritto negli occhi, impassibile come un giocatore di poker, restituì il profondimetro
Uwatec al proprietario.
«Bene dottor Tixera appena è pronto cominciamo», ordinò il militare convinto di trovarsi di fronte un subalterno.
«Il tempo di cambiarmi, tra quindici minuti sarò nella
sala del consorzio», disse Stefano dirigendosi verso il locale che fungeva da base mare, senza accomiatarsi dal militare e visibilmente irritato. Anche il militare si allontanò
con passo veloce.
Nel frattempo, Bambinoricco aveva sistemato tutta la
roba subacquea di Stefano, non lo faceva certo per subordinazione, il rosso giovanotto non era stipendiato; tra i due
vi era un continuo scambio di favori e spesso era Stefano
ad occuparsi della roba dell’amico. Entrò veloce e iniziò a
togliersi la muta; Bambinoricco gli avvicinò una bottiglia
di acqua fresca e in cambio ricevette un “grazie” pacato e
seguito da un sincero “per tutto”. L’acqua aveva un sapore
strano, quasi amaro, segno premonitore che la giornata
avrebbe continuato ad essere una giornataccia. Fu un sol-
lievo togliere il pagliaccetto di tinsulate, benché asciutto
sulla pelle, aveva sudato parecchio e l’indumento era madido di condensa.
Tino, che aveva assistito stando sempre a bordo del
gommone, salutò i due col saluto militare e disse che se ne
sarebbe andato, aveva molto da fare al diving.
Stefano gli disse che la sera ci sarebbe stata una cena, e
che lui era invitato. «Paga il consorzio», aggiunse e ciò bastò a convincere il baffuto uomo di mare.
«Sono qui alle otto», disse allontanando il gommone
dal molo con una spinta, «da solo.»
Lasciarono il locale aperto, Almiro il compressorista
avrebbe fatto la guardia come tutte le volte che lo lasciavano incustodito.
Alla sede del consorzio tutti attendevano il direttore, gli
attacchi alla finlandese erano terminati nell’insuccesso generale. Tarja aveva già preparato i disegni con segnati gli
accessi ai corridoi interni del relitto.
Stefano aggiornò la pianta del giorno precedente disegnando la zona che aveva perlustrato poi vi sovrappose
quella con i cancelli e chiese ai militari come avessero intenzione di procedere.
Il capitano prese la parola con la calma e la serietà di un
ammiraglio in sede di corte marziale e chiese che fossero
indicati sulla carta i passaggi.
Stefano indicò i tre punti sul disegno: uno era a prua, il
secondo a centronave e il terzo vicino al secondo fumaiolo.
Il terzo era quello da cui si accedeva a tutti i locali sotto il
ponte di volo; ne era stato previsto un quarto, a poppa estrema, ma l’immersione avrebbe richiesto un profilo a emme
rovesciata e non era consigliabile, quindi il quarto cancello
fu eliminato. I cancelli chiusi da lucchetti, abbondantemente lubrificati, venivano sostituiti ogni sei mesi; il numero inciso sopra, corrisponde a quello della chiave che lo apre.
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«Noi, quando andiamo a controllare, lasciamo un compagno al cancello e in uno o due entriamo; come avete intenzione di procedere?» chiese Stefano ai presenti.
«Esattamente così», rispose il comandante, «tre squadre
di tre uomini, due entrano e uno resta fuori, non serve che
venga qualcuno di voi, nemmeno sulla pilotina.»
«Vado a prendere le chiavi», disse Stefano senza aspettare risposte, Tarja lo seguì, Bambinoricco uscì a prendere
aria.
«Romanelli, Ferrari, Volpi, entrata numero uno,
Cacace, Altomare, Spinelli, entrata numero due, Sperati,
Silvestri, Mazzetti, entrata numero tre», ordinò il capitano
che, come ogni buon comandante, conosceva i propri uomini per nome. «Sono le undici e zero quattro, alle dodici
e quindici tutti pronti al posto di ormeggio della pilotina
della Capitaneria di Porto. Ci sono domande?» chiese senza attendere la risposta.
«Buon lavoro signori», tuonò con un tono di voce che
scosse dal torpore i militari presenti. Si avviarono tutti verso il camion che trasportava sacche e attrezzature, bombole e camera iperbarica monoposto, una specie di tir adibito
a diving center.
Stefano e Tarja erano saliti al loro ufficio al secondo
piano; nel passare dal primo piano infilarono la testa negli
uffici amministrativi dove Maria, l’impiegata part-time
della mattina, era già al lavoro e la salutarono.
Una volta in ufficio i due si diressero verso la macchinetta del caffè finlandese di Tarja; ne era rimasto poco e la
donna lo versò nel bicchiere di Stefano dicendo: «Ora faccio ancora.»
Dopo un sorso di caffè, l’uomo si concesse un attimo di
ammirazione del fondoschiena della compagna. Quella
mattina vestiva una pesante tuta bianca, molto abbondante,
al punto da deformare tutte le rotondità tranne quelle del
sedere che invece venivano esaltate, il tessuto in quella zona era particolarmente stirato dai glutei e l’effetto lo faceva risaltare su tutto il resto dell’indumento informe.
Stefano le si avvicinò alle spalle e sussurrò nell’orecchio: «Buonngiooornoo”. Il tono in cui lo disse, ricalcato
da un tormentone pubblicitario dell’estate, era per Tarja
una richiesta inequivocabile di attenzioni. Quel tono e
quella parola così distorta era la prima che si scambiavano
la mattina quando aprivano gli occhi e a questa seguivano
le prime tenerezze della giornata. Tenerezze che quella
mattina erano mancate e ora il compagno suggeriva la possibilità scambiarsele. La cosa non dispiaque alla donna che
voltandosi cinse con le braccia il collo di Stefano e incollò
le labbra alle sue, masticandone con gusto le mucose carnose. Durò pochi secondi il sensuale abbraccio, poi
Stefano, con aria furbesca, chiese a Tarja: «Vai in bicicletta
oggi?»
Tarja rispose con un’altra domanda: «Perché tu ha faccia da bambino birichino?»
«Se non vai in bicicletta possiamo stare qui e farci un
po’ di coccole, mangiamo un panino e mentre aspettiamo
che quelli fanno l’immersione noi ci rilassiamo un po’»,
disse Stefano cercando di essere convincente come un venditore di enciclopedie che tenta di sconfiggere l’ignoranza
dei popoli.
«Va bene», rispose Tarja con uno guardo complice e intenso.
L’uomo prese le chiavi, corse le scale fino al piano terra, diede le chiavi al capitano che come ringraziamento
disse: «A dopo», poi uscì cercando Bambinoricco.
«Puoi andare se vuoi, per oggi non ci rimane molto da
fare», disse all’amico che al riparo dal sole osservava i
preparativi dei marinai.
«Sì vado, devo preparare la macchina, domani devo
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portare la mamma dai nonni ad Antibes», disse il giovane
coprendosi la fronte con la mano di taglio a mo’ di visiera.
«Vero, devi partire anche tu; giovedì lasciamo qui Ruby
e il travet, chissà che combinano; a proposito dov’è
Ruby?», ora che ci pensava non l’avevano visto per tutta la
mattina.
«Era spappolato, non è riuscito ad alzarsi dal letto, probabilmente ieri sera ci ha dato con la birra, ha detto che recupera oggi pomeriggio.»
«Fammi un favore», chiese Stefano, «chiamalo e digli
di non venire, recupera domani, digli anche che stasera ceniamo al Naufragio, viene anche Tino, siete invitati tutti e
due.»
«Va bene, a stasera», disse Gabriele e si avviò alla macchina estraendo il cellulare dalla tasca, il pomeriggio libero ci stava proprio bene.
Nei cinque minuti successivi Stefano acquistò due grossi panini al prosciutto crudo e tornò da Tarja. Mangiarono i
panini, bevvero una tazza di caffè poi si concessero al loro
sport preferito.
Alle tredici la pilotina della Capitaneria era sulla boa
centrale. Le tre squadre di sub erano pronte a immergersi e
il capitano del Comsubin diede al sub della squadra che sarebbe rimasto fuori il grosso moschettone di ottone con la
chiave del cancello sommerso. Il sub con la chiave si sarebbe immerso per primo, avrebbe aperto il cancello e dopo due minuti si sarebbero immersi gli altri due, i sub che
avrebbero ispezionato l’interno del relitto. Due minuti di
vantaggio permettevano a chi aveva le chiavi di aprire il
cancello e, se la chiave fosse stata quella sbagliata, di provarla negli altri cancelli, di cui conosceva la posizione, lasciare la chiave e tornare al proprio cancello dove un altro
compagno avrebbe aperto con la chiave giusta.
Per i nove incursori era un gioco da ragazzi, anche se
non tutti erano entusiasti di quella immersione, loro si divertivano in altre situazioni: recuperare un siluro da esercitazione, far brillare una mina, fare ricerche in alto fondale,
quelle erano le occupazioni giornaliere del gruppo subacquei.
Nessuno però aveva l’esperienza di Stefano in fatto di
relitti, soprattutto di quel relitto, altrimenti avrebbero chiesto se all’interno vi sono grossi gronghi o murene, vero deterrente all’esplorazione dei relitti.
Di solito ci sono tre tipi di gronghi: quelli stupidi si riconoscono dall’espressione tonta, hanno occhi da strabico,
si parano davanti scambiando il sub per uno di loro, non si
spostano mai nemmeno se li prendi a schiaffi; ci sono poi
quelli timorosi, hanno lo sguardo sottomesso, rivolto verso
il basso, implorano di non fargli male e appena possono si
defilano; in ultimo ci sono i gronghi cattivi, ti accorgi subito se sei di fronte a uno di questi, il suo sguardo è come
quello di Mike Tyson sul ring, è meglio andarsene, altrimenti se si arrabbiano …
Per le murene è diverso, hanno tutte lo stesso carattere,
ci sono solo murene con la pancia piena e murene con la
pancia vuota; le prime possono diventare un compagno di
giochi acquatici, le seconde possono diventare un serio
problema per le vostre carni. La stessa murena che fino a
qualche minuto prima si lasciava accarezzare, al termine
della digestione potrebbe scambiarvi per un prelibato buffet.
Fu anche per queste popolazioni locali che la squadra
tre non percorse tutto il corridoio sotto il ponte di volo fino
a poppa; oltre che lungo e buio, il continuo trovarsi faccia
a faccia con un grongo con la testa grossa come un cane
lupo, non era affatto piacevole; seppure addestrati al combattimento in ambiente ristretto, quella situazione ricordava le azioni dei tunnel rats, i piccoli soldati americani, pre-
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valentemente di origine ispanica che si infilavano nei cunicoli sotterranei a caccia di Charlie, i soldati vietcong.
Anche se Paolo fosse entrato nel relitto con una copia
delle chiavi era improbabile che fosse arrivato fino lì, inoltre, ovunque illuminassero, gli incursori notavano che lo
strato di limo depositato sulle pareti, le maniglie, i volantini, era omogeneo, segno che nessuno li aveva toccati. Nei
relitti, si usa attaccarsi con le mani ad oggetti fissi alle pareti, al soffitto o al pavimento se la nave è inclinata, in modo da progredire senza dover pinneggiare; questo sistema
permette di alzare meno sospensione possibile. Nel
Vittorio Veneto il sedimento penetrato era poco ma impalpabile come borotalco, ad ogni colpo di pinna si sollevava
come una nuvola di polvere e impiegava diversi minuti a
ridepositarsi.
Una volta terminata l’ispezione, durata circa venticinque minuti, i due sub, usciti dal relitto, si diressero verso la
superficie, mentre il terzo sub, il guardiano, chiudeva il
cancello. Si sarebbero ritrovati tutti sotto la boa a far decompressione.
Sulla pilotina intanto si cominciava a ballare, complice
anche il baricentro alto dell’imbarcazione, il capitano aveva intuito che non era stato trovato il cadavere.
Quando tutti gli incursori furono a bordo il cielo era diventato scuro, anche se erano solo le sedici e trenta, il sole
era sparito, il vento strappava ciuffi di schiuma bianca dalla cima delle ondine che parevano autoalimentarsi, tra poco sarebbero diventate delle onde incazzate. Tutti a bordo
convenivano che era meglio rientrare.
Terminate le effusioni con la vichinga, Stefano decise
di andare alla sede della Capitaneria; lì con il capitano
Santi e quello del Comsubin avrebbe fatto il punto della situazione. Tarja andò nella sua camera, nell’hotel di fianco
al consorzio, per sistemare le ultime cose nella valigia.
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Il comandante della Capitaneria decise di sospendere le
ricerche per cattivo tempo, il Magistrato avrebbe comunicato se e quando proseguire, con tutta probabilità avrebbe
incaricato la Marina Militare di cercare il corpo con i rov.
Il capitano del Comsubin rese le chiavi a Stefano, assicurando che i cancelli erano stati chiusi, avrebbe in seguito
inviato una copia del verbale al direttore del consorzio e al
comandante della Capitaneria, oltre naturalmente alla
Magistratura e al Comando subacquei. Si salutarono tutti
con la solita strizzata alle mani.
Tornato alla sede del consorzio, chiuse il portoncino e
con Tarja si diresse a casa; avevano due ore per fare una
doccia, cambiarsi e tornare indietro.
Dopo un periodo di pressing iniziale da parte degli associati, le richieste di rassicurazione erano terminate. La
prima stagione era stata molto proficua e appagante ma al
contempo aveva assorbito tutte le energie degli uomini impiegati, era quello il motivo per cui nessuno assillava continuamente Stefano, tutti avevano bisogno di riposo.
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CAPITOLO DICIASSETTE
TINO
MALGRADO avesse fatto un’indigestione di mare e immersio-
ni subacquee, nei mari più belli del mondo, Tino Corsi continuava a far parte di quell’ambiente che in parte detestava e
in parte amava. L’attività subacquea ricreativa era per Tino
l’amore sacro e l’amore profano insieme. L’amore sacro era
per il mare, sebbene avesse migliaia di immersioni, e avesse visto le mete più belle del mondo, non passava giorno che
non facesse un puccio, così chiamava lui le immersioni. Gli
bastava stare in acqua, senza gravità, per sentirsi quello che
la natura per sbaglio gli aveva negato, un cetaceo. La sua ammirazione per i delfini rasentava la devozione religiosa, sapeva tutto sui tursiopi, le stanelle e le orche. Per lui una nuotata con i delfini era la migliore delle psicoterapie, per qualsiasi patologia, per ogni problema.
Cinquantadue anni portati male, non bastavano i baffi
folti e lunghi capelli ancora al loro posto per dissimulare
l’avanzato stato di decadenza fisica, iniziato peraltro in
giovane età. A 17 anni aveva iniziato a immergersi nelle
acque liguri con gli aro, residuati militari disponibili al
mercato del surplus. Era stato uno degli allievi di Schergat.
Fu lì, alla sede della Lega navale di Genova, che conobbe
Bino Falchi, suo coetaneo. Tra i due si instaurò subito una
continua competizione, in mare come in terra, qualsiasi
momento era buono per misurarsi. Nessuno si spiegava
perché quei due si accanissero tanto l’uno contro l’altro,
pareva un fatto ereditario o di pelle.
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All’età di diciannove anni conobbe un corallaro di
Cagliari che faceva corallo in Nord Africa; lo volle con lui
a bordo del peschereccio sgangherato che usava come piattaforma navale per le operazioni di recupero dell’oro rosso. Rimase cinque anni su quella barca. Fu molto fortunato, o forse solo più prudente degli altri che più volte si embolizzarono. A volte, al ritorno in Italia, pescavano con le
bombole per conto di qualche ristorante della costa, così,
tanto per cambiare.
Ogni due o tre mesi tornava a Genova e si dedicava alla
sua attività preferita, importunare la ragazza di turno di
Bino. Il corallo fruttava bene e i soldi non mancavano. Fu
la sorella che lo salvò dalla morte certa. Gli impedì innanzi
tutto di sperperare quanto guadagnato pericolosamente,
chiedendo continuamente soldi per la loro madre malata,
per la casa, per tutte le più astute ragioni che una donna
può inventare e invece di utilizzarli li versava su un libretto di banca intestato a Tino.
Quando il suo maestro corallaro morì, addormentandosi
sul fondo per la narcosi mentre faceva corallo a 97 metri
respirando aria, Tino volle rilevare la barca. Ma la barca
era stata ereditata dal figlio del proprietario, che geloso di
quel rapporto instaurato tra Tino e il padre, preferì demolirla piuttosto che cederla a chi aveva, involontariamente
ma colpevolmente, preso il suo posto nel cuore del padre.
Fu allora che, tornato a casa infuriato come il mare che
aveva sempre solcato, scoprì che la sorella aveva risparmiato per lui un ragguardevole gruzzolo. Quando vide il
totale dei versamenti sul libretto di banca fu colto da un
groppo al cuore, cadde in affanno come quando l’aria sta
per finire, rimase fermo a guardare il libretto e dentro di lui
le forze della natura si alternavano come nel più temibile
degli uragani, prima la rabbia, per non essersi mai accorto
di quel gesto amoroso, poi la calma, ora aveva la possibili-
tà di comprare la barca, poi ancora la collera, per aver scoperto l’inutilità dei suoi sacrifici, necessari solo a soddisfare i suoi bisogni voluttuari.
Fu nuovamente la sorella, una volta passata la tempesta
interiore, a suggerirgli la via.
Ciò che disse scosse Tino fino a indurlo a rivedere i piani della sua vita. Quante altre persone avrebbe dovuto vedere morire prima che toccasse a lui, chiese la sorella,
guardandolo dritto negli occhi. Tino si prese qualche mese
per pensare, poi per caso alla Lega Navale conobbe un archeologo subacqueo che cercava dei sub per svolgere sopraluoghi lungo le coste italiane, qualcuno che scendeva
profondo. Si offrì subito. In quella spedizione scoprì un
modo di immergersi molto diverso da quello usato nella ricerca del corallo; conobbe un giovane istruttore Fips e insieme fecero la maggior parte delle immersioni. Videro
molti reperti ma non ne toccarono nessuno, dovevano solo
riportare cosa avevano visto. Quando finì la stagione estiva, e con essa, la missione archeologica, Tino accettò la
proposta del nuovo amico istruttore di fare la guida subacquea in Mar Rosso per dei ricchi turisti tedeschi. Per Tino
si aprì una strada tutta nuova, fu lì che scoprì la sua attitudine ad accompagnare i subacquei. Era naturale per lui occuparsi degli altri sub; la sua calma e la sua attenzione lo
rendevano la guida più ambita, ovunque esercitasse.
Diventato istruttore di diverse didattiche, rimase fedele alla CMAS come didattica di insegnamento, questo riduceva
molto il numero dei suoi allievi ma ciò non lo preoccupava
molto. Secondo lui, alla fine del corso, l’allievo doveva diventare anche compagno di immersioni, e siccome non si
immergeva con idioti, la selezione era molto pesante.
Anche Stefano era stato suo allievo durante un periodo trascorso a Malta.
Fisico asciutto e sempre abbronzato, portava un minu-
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scolo costume da bagno elasticizzato che stava su senza
lacciolo. Con l’esplosione della subacquea e il conseguente arrivo del gentil sesso, Tino risorse a nuova vita. Dopo
alcuni anni passati in sedi fisse, decise di dedicarsi in pianta stabile alle crociere subacquee. A bordo era il capo crociera e la fauna femminile era tutta per lui. Riteneva fosse
un dovere aziendale sollazzare tutte le subacquee sole e
non, durante i momenti di relax. Sposate o no, lui faceva il
suo dovere. Discrete nel fisico nella maggior parte dei casi, passabili quasi sempre, raramente brutte, per Tino tutte
le turiste andavano timbrate, così diceva all’equipaggio
egiziano. La lussuriosa monotonia veniva talvolta vivacizzata da situazione per lui eccitanti quanto pericolose, come
farsi in timoneria la figlia appena maggiorenne di un dottore di Milano, mentre lui cenava con il resto della comitiva, oppure farsi in sala motori la bella moglie di un avvocato di Napoli, che piegato in due dal mal di mare pregava,
in cabina, che il Signore prosciugasse il mare. Farsi la donna di un altro per lui era puro divertimento, ma farsi tutte
le donne sposate del mondo non lo avrebbe ripagato di
quella che gli aveva portato via Bino Falchi, l’unica a cui
teneva.
Tornato in Italia nel duemila, aveva sentito della possibilità di affondare una nave come era già stato fatto in altri
paesi e decise di non perdere l’occasione. Ritrovato l’allievo Stefano a capo del progetto, si dette da fare immediatamente per aprire un diving a Oneglia. Tino non era rimasto
insensibile al boom delle immersioni tecniche, e aveva
preso un brevetto trimix diver, dimostrando una completa
adattabilità alle nuove teorie, ben diverse dalle procedure
utilizzate al tempo della pesca del corallo.
Il ritorno in Italia aveva contribuito ulteriormente alla
decadenza del fisico, ormai provato da un’attività sessuale
paragonabile a quella di un attore hard. La pastasciutta si
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rivelò per lui micidiale come la kriptonite per Superman,
solamente che era lui stesso ad assumerne abbondanti dosi,
in tutte le salse. Un’abbondante protrusione dello stomaco
richiedeva la confezione di mute su misura, e ad ogni stagione ne occorreva una nuova. Manteneva un paio di baffoni, in onore del suo vecchio maestro corallaro, li curava
ostinatamente, anche se gli causavano l’allagamento continuo della maschera, i capelli li portava legati in una coda.
Non si era mai sposato, e mai lo avrebbe fatto. La mattina amava svegliarsi solo, a costo di cacciare la concubina
nel bel mezzo della notte con una scusa qualunque. Una
delle caratteristiche che lo rendevano inconfondibile era
l’abitudine a non portare mai calzini nemmeno d’inverno e
a togliersi le scarpe in casa e camminare scalzo. Nelle località dove lavorava lo chiamavano lo Scalzo; le scarpe le
metteva solo lontano dal mare.
Un paio di sandali in cuoio mise quella sera per andare
a cena con Stefano e compagni, senza calze naturalmente,
anche se la temperatura lo avrebbe sconsigliato a chiunque. Pantaloni neri di cotone, maglietta nera, per smagrire
e una giacca bianca, portata sbottonata in rispetto dell’addome.
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CAPITOLO DICIOTTO
LA CENA
STEFANO e Tarja arrivarono al ristorante per ultimi,
Bambinoricco, Ruby e Tino erano già seduti al tavolo e
spettegolavano sulle ultime disavventure dei conoscenti in
comune.
Al ristorante Il Naufragio, Stefano e compagni erano
trattati con riguardo, ogni volta che veniva qualche personalità in visita, il consorzio prenotava la zuppa di pesce di
Ugo, il padre del titolare. Nel locale vi lavorava tutta la famiglia, il capostipite, Ugo, era abruzzese e così sua moglie. Il figlio maggiore aveva preso le redini dell’azienda
subito dopo il diploma in ragioneria, da allora il locale, da
semplice trattoria era diventato il più rinomato ristorante
di tutto il Ponente. La zuppa di pesce come la fanno gli
abruzzesi è qualcosa che bisogna assaggiare almeno una
volta nella vita, e quella di Ugo era un’esperienza mistica.
Il locale offriva anche qualche concessione alle tradizioni
del luogo, e i membri del consorzio aveva standardizzato il
loro menù al punto che dovevano solo chiamare e dire in
quanti sarebbero stati: antipasto a base di focaccette appena sfornate, formaggetta e salumi, seguita da zuppa di pesce alla Ugo, al termine della quale ci si sentiva veramente
satolli.
Il ristorante non aveva molti coperti e il sabato e la domenica era impossibile cenare senza prenotazione. Per ovviare alla penuria di posti, era stata costruita una specie di
veranda sulla strada, rialzata di qualche centimetro con
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una pedana di legno. Di solito vi passano le automobili,
ma a causa di lavori di consolidamento sulla vecchia
Aurelia, il transito era stato chiuso e la strada era utilizzata
come parcheggio e per sistemare i tavoli dei vari locali all’aperto. La veranda del Naufragio dava proprio sulla strada. Sebbene separata da alcune felci, offriva interamente lo
spettacolo del tramonto. Proprio nell’angolo più esterno si
trovava il tavolo di Stefano, lontano da tutti gli altri, in
prossimità del parcheggio dei carrelli da portata con i dolci
e la frutta.
A parte Tino che aveva deciso di rispolverare per l’occasione la sua tenuta da sciupafemmine, tutti gli altri erano
vestiti in modo sportivo; era abitudine di Stefano avvisare
i collaboratori quando si rendeva necessario un abbigliamento formale. Gli uomini, come sintonizzati su una comune frequenza di pensiero, indossavano una tuta da ginnastica su polo in Piquet e scarpe da tennis, Tarja un paio
di fuseax neri, una maglietta del consorzio e un pile multicolore. Per l’occasione aveva osato una riga di eyeline e
uno sbuffo di rossetto. Gli amici non si salutarono, come
se durante il giorno non si fossero mai divisi. Appena seduti al tavolo rotondo il cameriere si avvicinò e chiese cosa desiderassero da bere, passarono solo pochi secondi tra
le richieste e l’arrivo delle birre gelate.
Il sole era ormai scomparso e il crepuscolo non si rassegnava a cedere il posto alla notte, accendendo i visi degli
amici con fiammate di luce dorata.
Il cielo si era aperto e il vento spazzava via le nubi e
ciuffi di mare; tutti i pescherecci erano rientrati e una mareggiata da libeccio era in arrivo per la nottata. L’aria non
era più calda come i giorni precedenti, la lunga estate stava
ormai per finire.
Fu Ruby, il logorroico, ad esplodere in una delle domande che sarebbe stato il tema della serata: «Ma secondo
voi dove lo ritroveranno il corpo di Paolo, se lo ritroveranno?» chiese ingoiando il primo sorso di gelida birra della
serata.
Tino ripose il boccale sul tavolo e disse: «Lo troveranno
in Sardegna come quel povero ragazzo scomparso sul KT
di Sestri Levante, o da qualche altra parte della costa, come Savona o Genova, vi ricordate la ragazza sulla Haven,
la ritrovarono a La Spezia.» Le parole lo rattristarono.
Stefano ricordò un altro fatto analogo. «Ricordate la
contessa, quella di Portofino, la ritrovarono in Costa
Azzurra», disse senza assumere nessuna espressione e appoggiando i gomiti sul tavolo.
«Ma perché corpo va così lontano?» chiese Tarja stupita
che un cadavere potesse essere trasportato così distante dal
posto della sciagura.
«Di solito sono le correnti, molto spesso i pescatori»,
disse Tino con lo sguardo assente e la mente assalita dai ricordi dei cadaveri che dovette recuperare nella sua lunga
attività di divemaster, tutti giovani istruttori che si facevano di azoto, violando le profondità del mare alla ricerca di
quella ebbrezza mortale che a volte uccide, a volte no.
«Pesciatori?» chiese Tarja sorpresa e incuriosita.
«Sì i pescatori», rispose Tino, «a volte il cadavere finisce nella rete mentre pescano al largo e loro lasciano il cadavere sotto costa, così il mare lo porta a riva e qualcuno
lo trova.»
«Perché non portano subito corpo a Capitaneria?» chiese ancora Tarja, stupita da quella inspiegabile procedura.
Rispose Stefano che conosceva la Capitaneria molto
bene: «Perché la capitaneria fa molte domande e se qualcosa non li convince sequestrano il peschereccio.
Potrebbero anche accusare il comandante della barca di
aver pescato dove non era permesso o di aver pescato il
sub poi morto nella rete.»
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«Capito», disse la donna, «possiamo parlare qualcosa di
allecro?»
In quel momento arrivarono le focaccette calde e subito
dopo la formaggetta, tutti rimandarono i discorsi a dopo la
degustazione delle fumanti pietanze.
Sterminata la fame assassina risvegliata dagli aromi che
fuggivano dalla cucina, con la prima focaccetta farcita,
Stefano irrigò la gola di gelida birra; poi con tono da amministratore delegato di una multinazionale disse: «Tutto
sommato non possiamo lamentarci, la stagione è filata liscia fino a domenica scorsa, solo qualche pallonata, una
MDD leggera, qualcuno sbucato fuori dal campo boe e un
sacco di gente che si è divertita”, sorseggiò un altro po’ di
birra e attese che qualcuno dicesse la sua.
«Belin», disse Ruby, «abbiamo lavorato da matti, non
ho mai conosciuto così tanti subacquei come quest’anno.»
Innescata la bomba logorroica Ruby posò la seconda focaccetta nel piatto e indicando Bambinoricco disse: «Però
tu, per l’anno prossimo devi inventare qualcosa per far venire più donne, altrimenti qui è dura. Non voglio mica diventare buliccio.»
«Dai qualcuna è venuta», disse Tino senza smettere di
massaggiarsi le gengive con la sua terza focaccetta.
«Sì», rispose Ruby, «ma son tutte accompagnate, quelle
libere sono dei cessi paurosi.»
«Gnhu mhn, fregatene», ribatté Tino a bocca piena, «vai
colpisci e semina, l’universo femminile te ne sarà grato.»
Tarja, che mangiava silenziosamente all’ascolto di
quelle parole cominciò a fermentare; Stefano, seduto tra
lei e Bambinoricco alla sinistra, decise che era meglio
cambiare discorso prima che iniziasse la reazione nucleare
che avrebbe fatto esplodere la finlandese. Approfittò dell’educazione della donna, che non parlava mai a bocca piena, per assestare una domanda fuorviante.
«Chi vi è piaciuto di più dei sub che avete conosciuto?»
chiese ai presenti.
«La cognata del direttore della stazione», rispose Tino
ingoiando frettolosamente il primo boccone della quinta
focaccetta.
«Oh, ma tutte da te vengono», sbottò Ruby, visibilmente contrariato dal successo con le donne di Tino, proprio
non riusciva a capire cosa ci trovassero in lui.
Ancora una volta Stefano cercò il rimpallo. «A me son
piaciuti i fidanzatini di Peynet, quelli che facevano tutto
tenendosi per mano, anche l’immersione, non si staccavano mai, avevano anche messo gli strumenti su polsi differenti, così per leggerli non dovevano staccarsi, lui sul destro e lei sul polso sinistro. A te chi è piaciuto?» domandò
alla compagna.
«Marco, quello biondo, molto bravo, molto gentile,
molto carino», rispose Tarja con un malizioso sorriso.
«Ah sì, Marco Ablondi, anche a me è piaciuto, ottimo
sub, e poi sapeva tutto sul Vittorio Veneto, ci era stato imbarcato qualche anno fa.» Visto che tutti masticavano in silenzio Stefano continuò le proprie considerazioni.
«Peccato che rompeva sempre i marroni per entrare nel
relitto, me lo avrà chiesto dieci volte, ho dovuto rispondergli male per farlo smettere, ci mancava anche che portassimo gli ex marinai in pellegrinaggio nella nave», rimarcò,
pulendosi la bocca col tovagliolo. Bastò un attimo per cogliere una leggera flessione nello sguardo di Ruby, ora gli
occhi dell’amico erano puntati sul boccale di birra di fronte a lui, silenzioso, con il dorso dell’indice ne asportava il
sudore causato dalla condensa dell’aria marina umida.
Il tono di Stefano si fece più basso, più lento ma deciso.
«Meno male che non lo ha portato nessun altro!» disse, attendendo che lo sguardo di Ruby si volgesse a lui per rassicuralo su quanto chiesto. Ruby non si voltò e continuò a
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togliere col dito la condensa che trasudava dal vetro. «Vero
Ruby?» tuonò Stefano facendo sobbalzare Tarja che si era
distratta, rapita dall’ultima delle focaccette rimaste nel
vassoio.
Ruby esplose, guardava Stefano e gesticolava con le
mani umide cercando di attivare uno scudo virtuale che lo
proteggesse dall’ira del suo capo. Travolse tutti i presenti
con una valanga di veloci parole. «Ho dovuto portarlo, mi
aveva promesso che saremmo usciti in quattro, io lui, la
sua amica e la farmacista di Corso Garibaldi, quella rossa,
magra, alta; sono tre mesi che tento di uscire con lei, ho
l’armadietto del bagno che sembra un ambulatorio dalle
medicine che ho comprato in questi mesi, potrei curare tutto il Nord Africa per tre mesi; quando scadranno dovrò noleggiare un container per inviarle alla discarica dei farmaci, e quella non mi caga nemmeno di striscio; lui ha detto
che la sua amica la conosce bene e che saremmo usciti insieme, cavolo a me non va mica sempre bene come a
Tino!»
Lo sfogo esistenziale lasciò tutti senza parole per qualche secondo, poi iniziarono le risate soffocate e subito dopo le sganasciate; di tutti i presenti tranne che di Stefano.
«Ma allora sei buliccio», disse con aria molto seria.
«Ma ti rendi conto che se rimaneva dentro o gli succedeva
qualcosa a quest’ora io e te eravamo segregati a
Montecristo per il resto della nostra vita?» «Ma ci pensi
che se mentre eravate nel relitto si chiudeva il cancello
esterno, o se Marco si fosse perso nel relitto o se qualche
grongo o murena lo avesse morso….. Cose da pazzi.»
Stefano attendeva che Ruby dicesse qualcosa, anche se dubitava che fosse qualcosa di sensato.
«Poi non capisco», continuò Stefano, «noi andiamo in
tre a controllare all’interno del relitto e tu ci vai solo con
uno che non è del consorzio?»
«Non era da solo», disse Bambinoricco con refolo di
voce.
Gli occhi sgranati di Bambinoricco attendevano che
Stefano si voltasse verso di lui e iniziasse la sanzione verbale che un attimo prima era toccata a Ruby.
«Belin, ma allora sei buliccio anche te», rombò Stefano
sorpreso come non mai. «Ma a te cosa ha promesso, la
mussa non ti manca, i soldi non ti interessano, che cosa ti
ha promesso in cambio?»
«Una carta degli echi non sub», rispose Bambinoricco,
sperando che l’amico si calmasse un po’.
«Una carta de che?» chiese Tino, sempre più divertito
da quella insolita serata.
«Una carta degli echi non sub», ripeté Bambinoricco,
«le usano le unità sommergibili e i cacciasommergibili, sono delle carte su cui sono segnati tutti i relitti e gli ostacoli
sommersi e sono molto dettagliate.»
«Cicciobello», disse Stefano al giovane amico, «quelle
sono carte classificate ad uso interno della Marina
Militare, sono anni che ne cerchiamo una e non è mai saltata fuori; ti pare che un rappresentante di estintori come
Marco Ablondi possa averla?»
Bambinoricco non si perse d’animo e con tutta la calma
che gli rimaneva cercò di allentare la tensione con l’amico.
«Ne aveva una della zona di La Spezia, me l’ha fatta
vedere nel suo camper, diceva che suo cugino lavorava
all’Istituto Idrografico della Marina e poteva fotocopiarle,
ne ho chiesta una della nostra zona. Sai sono molto dettagliate, meglio delle carte del Fusco o delle Seaway, lì ci
sono segnati anche i container.»
Visto che Stefano rimaneva impassibile, Bambinoricco
giocò l’ultima carta: «Volevo regalartela per il tuo compleanno», disse con un briciolo di rammarico.
Stefano, colpito dalle intenzioni dell’amico, strinse le
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labbra e gonfiò le guance, poi disse: «Grazie ugualmente,
ma avete fatto una grossa cazzata, se succedeva qualcosa a
Marco Ablondi, a quest’ora il casino era cento volte quello
creato dalla scomparsa di Paolo.»
Ruby aveva ascoltato in silenzio, fissando il boccale ormai vuoto di birra dinanzi a lui; cercò di strappare anche
per lui parole di perdono e così disse: «Anch’io volevo regalarti la farmacista di Corso Garibaldi per il tuo compleanno.»
Tarja che fino ad allora era rimasta in religioso silenzio,
prese il tovagliolo, ne fece una palla e la tirò a Ruby dicendo a voce alta: «Crotino.»
Anche Stefano e Bambinoricco, in preda ad un attacco
di riso, fecero una pallottola col tovagliolo e la tirarono a
Ruby dicendo in coro: «Crotino.»
Tino, che nel frattempo era sprofondato nella poltroncina di plastica e divertito si gustava la scena, si accorse
troppo tardi di essere l’unico a non aver tirato il tovagliolo.
Così, con la velocità e lo scatto di un grizzly appena uscito
dal letargo, afferrò velocemente il tovagliolo ma non si accorse delle posate appoggiate sopra, le quali, animate dalla
forza impressa dallo strattone cominciarono a roteare come micidiali suriken lanciati da un ninja e finirono oltre le
felci, in mezzo alla strada, fortunatamente senza sfregiare
nessuno. Allo scampanellare delle posate e alla vista dei
tovaglioli in terra, il cameriere si precipitò verso il tavolo
con forchette e biancheria pulita.
Ricomposti gli animi, Stefano chiese: «A proposito di
gronghi e murene, quando avete cercato il corpo di Paolo
lungo le fiancate del relitto e a poppa, avete visto Lula?»
Lula era una grossa murena maculata che abitava nella
parte di poppa, nei locali sotto il ponte di volo adibiti all’ormeggio, misurava oltre tre metri e non aveva nulla da
invidiare alle murene del Mar Rosso. Incuteva un certo ti-
more a chiunque, non le andava a genio che qualcuno invadesse il suo territorio e Stefano riteneva che se avesse
creato dei problemi sarebbe stato necessario abbatterla, anche se la cosa non era affatto facile.
«Noi non ci abbiamo guardato», disse Bambinoricco,
«abbiamo dato un’occhiata da lontano mentre risalivamo
ma non siamo entrati agli ormeggi.»
Ruby rimase immobile come se la più pericolosa delle
creature stesse per arrabbiarsi, immaginava infatti cosa sarebbe successo appena avrebbe detto che neanche lui e il
suo compagno erano passati agli ormeggi.
«Nemmeno noi siamo passati, pensavamo che ci avessi
guardato tu», disse rivolgendo un cenno con il capo a
Bambinoricco.
Ruby aveva visto giusto, Stefano stava per arrabbiarsi
veramente, il suo tono di voce non era dei più amichevoli.
«Belin, ma voi dovreste organizzare delle feste all’interno della scatola cranica, così magari i neuroni si incontrano e se si piacciono formano delle sinapsi, ne bastano
due o tre per sembrare persone normali. Cacchio, ma mi
avete segnato sulla mappa del relitto che eravate passati in
quella zona!»
Bambinoricco ritenne essenziale spiegare il malinteso:
«Noi abbiamo segnato la zona sulla carta intendendo che
avevamo ispezionato il ponte di volo, non il ponte ormeggi
sottostante, essendo disposti su due piani ci siamo fraintesi.»
Ruby e Tino rimasero zitti, il baffuto sciupafemmine
sogghignava sotto i mustacchi.
«Sono veramente poche le probabilità che il corpo sia
stato trascinato nel ponte ormeggi dalla corrente, proprio
là dentro poi, mi sembra molto strano», disse Tino dopo
avere valutato attentamente la situazione. «Comunque appena si sistema il tempo andiamo a vedere.»
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Proprio in quel momento arrivò la zuppa di Ugo e calò
il silenzio in tavola.
Una volta terminata la zuppa con un’accurata scarpetta
a base di fette di pane di Altamura, gli amici si rilassarono
ammirando il mare e ascoltando la voce delle onde, ritmica
e suadente.
«Speriamo che non strappi via le boe», disse Stefano
preoccupato dall’incalzare degli elementi. «Questo è il primo test impegnativo per tutto il campo boe, non abbiamo
mai avuto mare così grosso da quando siamo qui.»
Il resto della serata fu tutta una serie di disposizioni su
quanto doveva essere fatto in sua assenza; Ruby era delegato a sostituire il direttore durante l’assenza e Tino avrebbe dato una mano se il mare avesse spiaggiato le boe.
Ad un tratto Stefano si ricordò del giornalista del giorno
precedente e che non aveva visto il giornale a causa della
intensa giornata cominciata tra l’altro con una sveglia traumatica; chiese agli amici: «Avete letto il Secolo? C’era
l’articolo sul consorzio»
Ruby lo aveva letto ma non aveva trovato niente sull’incidente.
«Strano, molto strano», disse Stefano, poi pensando al comunicato stampa aggiunse: «Vuoi vedere che quel tipo non
sa l’inglese e non è potuto andare in stampa perché alle undici di sera non ha trovato nessuno che lo traducesse?»
Tino allargò la bocca in un sorriso, anche se nessuno riuscì a vedere i denti, rimasti imboscati dietro i folti baffi.
«Non posso crederci», disse, «anche se ormai non mi stupisco più di niente.»
«Secondo me domani rincara la dose», disse Ruby
preoccupato.
«Se trovi qualcosa sui giornali, scansiona e mandamelo
in posta elettronica, la leggo con il portatile», disse
Stefano al suo amico.
La maggior parte dei clienti era già andata via quando Ugo
in persona servì il sorbetto della casa e il Limoncello fatto dalla moglie. Rimase a chiacchierare con gli amici per un quarto d’ora, fino a quando lo vennero a chiamare dalla cucina.
La serata volgeva al termine e i cinque amici, dopo avere salutato amichevolmente il personale del ristorante si
avviarono verso le automobili. La temperatura si era abbassata ulteriormente e il vento strappava dalle onde molecole di acqua e sale, profumando l’aria di immenso, odore
che solo il mare e il deserto riescono ad emanare. Quando
lo annusi ti senti piccolo piccolo, al cospetto della natura.
Non sei più il dominatore degli elementi, ma un umile
ospite nella dimora di un potente, il creatore.
Una volta vicini alle auto fu il momento dei saluti, il
primo fu Bambinoricco che dopo aver stretto la mano di
Tarja, le passò il braccio attorno la vita e si scambiarono
tre baci sulle guance.
«Bastava uno», disse Stefano con tono geloso e sguardo
di fuoco, «ricordati che hai una bella mamma e potrei fartela pagare.»
Bambinoricco sorrise poi disse: «Se vuoi possiamo fare
cambio per un giorno.»
«Depravato», rispose Stefano sorridendo, sapeva che
l’amico non l’avrebbe mai fatto.
Nel frattempo gli altri due avevano approfittato della
distrazione di Stefano per salutare Tarja allo stesso modo
di Bambinoricco, seguì un incrocio di strette di mano tra
gli uomini.
«Se vuoi a me interessa lo scambio con la mamma», disse Tino sorridendo, mentre stringeva la mano a Bambinoricco, «sono disposto a cedere tre o quattro delle mie donne
in cambio.»
«Ma se non l’hai mai vista», rispose il ragazzo sfilando
dispettosamente la mano da quella di Tino.
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«La conosco, la conosco», disse Tino ondeggiando leggermente avanti e indietro la testa, «va ogni venerdì pomeriggio a Sanremo da Carlo, il parrucchiere di fianco al municipio, e io sono amico di tutte le ragazze che lavorano lì.
A proposito domani vai dai nonni ad Antibes vero?»
«Stalle lontano», disse Bambinoricco con voce minacciosa puntando l’indice carico di rabbia contro il baffuto
amico. La cosa che più lo faceva imbestialire era che un
estraneo sapesse dove era diretto; tutte le attenzioni antirapimento che osservava erano vanificate dalle chiacchiere
della madre dal parrucchiere. Decise che l’indomani
avrebbe cazziato la madre durante il viaggio in macchina.
«Belin, ma sei terribile, ma chi sei, James Bond», disse
con profonda ammirazione Ruby.
Tarja ascoltava divertita, in silenzio, ma saettando gli
occhioni verdi in ogni direzione.
«A proposito», chiese Stefano a Tino, «come sta
Marisa?»
«Non la sento da un po’, è tornata a casa», rispose Tino.
Quando gli amici si salutarono era ormai mezzanotte.
La stanchezza aveva iniziato ad impadronirsi di Tarja e
Stefano; una volta a casa entrambi sprofondarono in un
sonno profondo, si addormentarono abbracciati, con la mano destra di Stefano sul seno di Tarja.
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CAPITOLO DICIANNOVE
GIOVEDÌ
LA MATTINA del giovedì iniziò con le solite carezzine, per
Tarja era il modo migliore di iniziare la giornata, sentire il
tocco delicato di Stefano sulla pelle era elettrizzante e rilassante al tempo stesso. I flussi energetici subivano una
ricanalizzazione tale da eliminare tutte le tensioni e lasciare che l’energia positiva della terra affluisse all’interno del
corpo.
Dopo le carezze i due amanti si concessero l’un l’altro, in
quello che sembrava dovesse essere il loro ultimo amplesso,
ognuno volle il massimo dal partner, assaporarono le sensazioni che i corpi regalavano come se fossero i loro ultimi istanti sulla terra. Al termine dell’amplesso, esausti ma appagati,
si accorsero di essere in ritardo sulla tabella di marcia. La mattina proseguì tentando di recuperare il tempo impiegato ad
amalgamare i propri corpi come un gelato variegato.
Saltarono la sauna, decisero di fare colazione in autostrada al primo Autogrill e dopo la doccia, caricarono la
valigia di Tarja sul Porter del consorzio e si diressero verso
Milano. Prima di lasciare la casa, Stefano riempì una grossa ciotola di crocchette e un grosso piatto di acqua per
Diablo, lo cercò con lo sguardo ma non lo vide.
Durante il viaggio in macchina Stefano rimase zitto fino ad Alessandria, poi la donna, stupita da quel silenzio
chiese: «Perché tu non parla?» pur sapendo che l’argomento che avrebbe scelto Stefano per rompere il silenzio riguardava l’uomo che l’aspettava a Helsinki.
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Stefano non attendeva altro, e chiese, continuando a
guardare la strada: «Ma adesso che torni a casa farai sesso
anche con lui?»
«Io non sa», rispose la donna, «perché tu vuole sapere cosa fa io? Tu geloso? Lui mio fidanzato.» Mentre parlava era
seria, come se stesse discutendo di chi avrebbe fatto uso del
suo computer o della bicicletta, mentre per Stefano si stava
discutendo di qualcuno che avrebbe messo una parte di sé
nella propria donna e questo lo faceva imbestialire.
L’uomo sapeva che quel discorso avrebbe fatto alterare
Tarja e decise di non parlare più, il boccone era amaro da
ingoiare, e proprio non voleva andare giù, i fiumi di saliva
che convogliava in gola non erano sufficienti a spingerlo
nello stomaco.
Non voleva salutare la donna in stato di frustrazione, in
qualche modo si fece passare il magone che aveva e iniziò
a parlare di altro, a raccontare cosa avrebbe fatto a Milano
da Nico e all’ANMI, dove si sarebbe recato nel pomeriggio.
Alle tredici finirono di pranzare al buffet dell’aeroporto
e lì si salutarono, Stefano strinse Tarja talmente forte che
la donna smise per qualche secondo di respirare. I baci che
si scambiarono erano quelli di due adolescenti che di nascosto scoprono le labbra e i sapori dell’altro.
«Ci vediamo a Nizza lunedì sera», disse Stefano, lì infatti sarebbe atterrato l’aereo che gli restituiva Tarja. La
donna diede un ultimo tenero e vibrante bacio, poi si voltò
e se ne andò trainando il trolley ruotato. I jeans sdruciti
contenevano a malapena il sedere sodo, e solo la giacca a
vento annodata in vita, portata in previsione della bassa
temperatura di Helsinki, copriva completamente le eccitanti forme.
A quel punto Stefano decise di dedicarsi alle vecchie
conoscenze che lo aspettavano a Milano.
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Imboccò l’autostrada e si diresse verso la caotica metropoli, il traffico sulla Milano-Laghi era intenso ma scorrevole come al solito. Mentre guidava pensava agli amici
dell’Associazione Marinai, benché il giovedì fosse uno dei
giorni in cui rimane chiusa la segreteria, sperava che Billo,
il segretario tuttofare, fosse lì alla sua scrivania, indaffarato come sempre dai mille problemi dell’Associazione che
in un modo o nell’altro gli toccava gestire.
Alle sedici meno qualche minuto parcheggiò l’auto nello spiazzo sterrato lungo il Naviglio, parcheggio privato
dell’Associazione.
Non appena entrato fu accolto dal calore tipico della
gente di mare, abitudine rimasta ai benemeriti soci, anche
se distanti geograficamente da ogni bacino salato.
«Salve a tutti», gridò Stefano sporgendo la testa nell’ufficio, sapeva che Rocco, l’altro furiere assistente di Billo
era un po’ sordo.
Quando Billo lo vide, spense l’espressione preoccupata
che albergava continuamente sul viso, chiuse il faldone di
fatture che stava controllando, si mise in bocca la pipa carica di tabacco alla vaniglia e si alzò in piedi.
Sulla soglia della porta della segreteria, il giovane attendeva che il segretario lo invitasse ad entrare; a differenza di tutti gli altri soci, non ignorava per rispetto all’amico
il cartello esposto sulla porta: ACCESSO CONSENTITO
SOLO PER ESPLETARE SERVIZI DI SEGRETERIA.
Quella forma di rispetto riempiva di gioia il cuore del
segretario, almeno uno dei soci lo rispettava come lui desiderava.
In realtà la segreteria era il posto migliore per spettegolare, e i soci in cerca di informazioni vi si tuffavano per
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chiacchierare con gli incaricati di turno e soprattutto con
Billo, l’anima dell’ANMI.
Rocco dal tavolo di fronte alla scrivania di Billo fece un
cenno con la testa.
«Entra», disse Billo con un sorriso sincero, i due si abbracciarono come padre e figlio.
«Come stai?» chiese il giovane, all’anziano amico aromatizzato alla vaniglia, ormai tutti lo sentivano arrivare
usmando nell’aria l’inconfondibile e piacevole aroma.
Sebbene fosse vietato fumare, Billo era l’unico dispensato,
aveva messo in guardia tutto il consiglio direttivo, se gli
avessero proibito l’uso della pipa avrebbe dato le dimissioni dalla carica di segretario; terrorizzato dalla prospettiva,
il direttivo all’unanimità aveva concesso la delega al fumo
all’insostituibile furiere.
In risposta all’amico, Billo dondolò la Testa alcune volte
a destra e sinistra formando con le labbra una c rovesciata,
con le punte verso il basso. Era la risposta standard tra i marinai della sua età, nel gergo dell’associazione voleva dire
“non male, tranne i soliti acciacchi dovuti all’età”.
Terminato di scuotere la testa, Billo chiese al giovane
amico: «Come sta il tuo relitto? Te vedo che sei in ottima
forma»
«Il relitto sta bene», disse Stefano, «anche se abbiamo
avuto un incidente grave.»
«Sì lo so», aggiunse Billo.
«Sai sempre tutto!» ribatté il giovane, poi chiese se vi
erano stati decessi tra i soci delle varie Associazioni.
Stefano conosceva molti anziani marinai, frequentava i raduni annuali e in quelle occasioni gli presentavano personaggi che avevano scritto pagine di storia come anche anonimi uomini che a bordo delle unità della Marina Militare
avevano svolto con abnegazione il loro dovere e di avventure ne avevano da raccontare.
A causa del ricambio generazionale le Associazioni
d’arma hanno sempre meno iscritti, la cancellazione naturale dalle liste dovute a morte, non viene rimpiazzata dai
giovani congedati, causando così l’estinzione di un patrimonio culturale umano pressoché unico. Billo prese dal
primo cassetto della sua scrivania, alcuni fogli stampati tenuti da un punto di cucitrice nell’angolo in alto di sinistra.
La lista conteneva circa sessanta nomi, la porse a Stefano
che diede una accurata scorsa all’elenco. Man mano che
gli occhi leggevano i nomi, un’espressione triste prendeva
forma sul volto, ad ogni nome conosciuto, una manciata di
rughe si formava sulla pelle.
«Questo qui era stato direttore di macchina sul tuo relitto», disse Billo, indicando una riga della lista: «Lo conoscevi?»
«No. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo, magari mi raccontava qualcosa sul Vittorio Veneto.» Stefano era sempre
alla ricerca di notizie sulla nave. All’inizio del progetto
Vittorio Veneto, l’Associazione Marinai non era per niente
d’accordo sull’affondamento. Vi erano associazioni che
volevano trasformarlo in un museo galleggiante, ormeggiato nell’arsenale di Taranto, ma per attuare tale progetto
occorrevano degli sponsors disposti a mettere mano al portafogli continuamente, infatti tutte le navi adibite a museo
sono una costante voce passiva nei bilanci statali e in Italia
vi erano già molti musei in passivo, pronti a dare battaglia
per una manciata di miliardi.
«State parlando di Martelli?» chiese Rocco, destandosi
dal sua sorda apatia.
Stefano guardò negli occhi Billo, a poche decine di centimetri da lui e bisbigliò: «ma non è mica sordo quello lì?»
«Fa il sordo quando vuole lui», rispose l’amico con un
tono sufficientemente alto da farsi sentire in piazza Duomo
e guardando il collega che non vedeva l’ora di intervenire
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nella discussione, annoiato dal compito che stava svolgendo. Infatti, spuntare le ricevute di versamento dei soci per
beccare i morosi era una palla unica a detta di chiunque
fosse incaricato del compito. Chiamato in causa, Rocco si
sentì autorizzato ad abbandonare il suo posto e avvicinarsi
ai due per prendere parte a qualsiasi discussione, purché lo
distogliesse dal lavoro.
«Tu lo conoscevi?» chiese Billo al collega.
«L’ho conosciuto ad un raduno», attaccò Rocco dopo
una profonda iperventilazione che lasciava presagire un intervento non breve. Visto che nessuno ribatteva, ritenne
l’attimo di silenzio dei due uomini di fronte, come il via ad
un monologo che lo avrebbe visto protagonista per buona
parte del pomeriggio.
«All’ultimo raduno ci trovammo a pranzo seduti uno di
fianco all’altro, mi parlò tutto il tempo del suo figlioccio,
figlio naturale di un suo amico morto in Marina di cui aveva sposato la moglie, aveva allevato il ragazzo come fosse
suo figlio, ma col tempo le incomprensioni li avevano divisi. Litigavano continuamente. Mi diceva che lo aveva
fatto studiare da ingegnere navale e ora seguiva la costruzione di alcuni minisommergibili per il ricco mercato americano. Era stato assunto dalla TGO di Zingonia per costruire tre minisommergibili da mettere su altrettanti lussuosi yacht di qualche magnate americano.» Al termine
dello show personale, il magro vecchietto riprese ad iperventilare preparandosi per un secondo intervento, se i due
non avessero aperto bocca.
«Minisommergibili?» chiese Stefano incuriosito, il suo
interesse per i mini battelli subacquei era noto a Billo, ma
Rocco non ne sapeva nulla.
Il piccolo marinaio, ormai saldato il debito di ossigeno con
il proprio apparato circolatorio, riprese a dispensare quelle
che considerava informazioni degne di una spia del KGB.
«Ho visto di là», disse lanciando il pollice oltre la spalla
a indicare il locale, sede di Aria alla rapida, «una rivista
americana in cui c’era un servizio su questi minisommergibili e c’era la foto di questo tipo, il figlio di Martelli appunto, c’erano anche i disegni del sommergibile e la foto
del primo in costruzione avanzata.» Rocco si interruppe
per qualche minuto, se gli avessero fatto un emogas in quel
momento gli avrebbero trovato nel sangue la stessa percentuale di ossigeno che c’è sulla Luna.
«E te da quando sai l’inglese?» chiese Billo incuriosito
al suo subalterno, che intanto sembrava fosse diventato più
alto di qualche centimetro.
«A parte il fatto che era americano e non inglese», rispose Rocco indispettito, «io l’inglese non lo parlo ma se
vedo le foto capisco di cosa parla il servizio.» Rimase leggermente offeso da quella insinuazione e decise che avrebbe continuato a parlare solo se lo avessero pregato.
Stefano capì subito che occorreva un abile lavoro di
persuasione per far riprendere a parlare Rocco, il quale
aveva interrotto ogni attività ventilatoria, segno che era
proprio deciso a stare zitto, fino alla morte per asfissia.
Anche Billo capì che al suo giovane amico interessava ottenere altre informazioni e si unì alle lusinghe.
Soddisfatto delle pressioni, Rocco sparì dalla vista cercando in tasca le chiavi del locale dei sommergibilisti, ne
aveva una copia in caso fosse necessario accedere al locale in mancanza dei redattori. Tornò con una copia di
Under Sea, una rivista americana specializzata in mezzi
sottomarini di qualsiasi tipo, dai ROV, ai sottomarini nucleari.
Rocco, tenendo ben stretta la rivista, cercò le pagine del
servizio e una volta trovate cominciò a mostrarle ai due
uomini che attendevano ansiosi di vederne il contenuto.
Stefano non conosceva la rivista e venne colto dall’irrefre-
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nabile desiderio di strapparla dalle mani del piccolo furiere, ma decise di attendere che Rocco avesse finito.
L’arzillo vecchietto ormai tutto eccitato dall’interesse
che era riuscito a suscitare nei suoi compagni, appoggiò la
rivista sulla scrivania di Billo e iniziò a sfogliare le pagine
patinate, illustrando i vari argomenti trattati dal servizio
sui minisommergibili. Pareva che lo avesse letto almeno
dieci volte, in realtà ricordava molto bene quello che si dicevano i redattori di Aria alla Rapida mentre lo recensivano.
Nelle prime due pagine oltre al titolo vi era la foto di un
sommergibile in costruzione lungo circa 8 metri e largo 1,8
metri, sembrava in realtà un semplice tubo di acciaio, solo
occhi esperti come quelli di Stefano ne riconoscevano le
subdole, dissimulate forme. Da una parte il tubo era affusolato, mancavano elica e timoni ma la poppa si distingueva chiaramente, l’altra estremità era aperta e Stefano non
capiva se vi sarebbe stato aggiunto un altro pezzo o un
portello. Certo che un portello proprio sulla prua suonava
strano. Le due pagine successive chiarirono ogni dubbio, il
disegno tecnico mostrava che al posto del buco ci andava
un oblò di plexiglass, spesso dieci centimetri, un grosso
occhio da cui il pilota poteva vedere fuori dal mezzo.
Rocco voltò le pagine velocemente e raggiunte le ultime due disse: «Ecco, in questa foto ci sono il progettista
Julio de Sanctis, l’armatore, un petroliere texano e l’ingegnere addetto alla costruzione, il figliastro di Martelli.»
Billo appoggiò la mano destra sulla spalla di Stefano e
preoccupato chiese: «Ma stai bene? Hai la faccia che sembra un timballo di spinaci!»
Stefano dovette sforzarsi per riprendere a respirare, era
come se un enorme cazzotto gli fosse stato sparato con un
bazooka nello stomaco, quell’ultima foto lo aveva messo
K.O.
Dopo qualche secondo passato ad impartire ordini sublimali al proprio diaframma, Stefano annuì, emettendo una
specie di rantolo gutturale.
«Scusa Rocco, come si chiama l’ingegnere addetto alla
costruzione?» chiese all’ometto intento ad ammirare le pagine del giornale.
«Ah sì, aspetta un attimo, è vero, non si chiama Martelli
come il patrigno, ora te lo dico», rispose il nonnetto che
prese la rivista e la portò con se al suo tavolo. Infilati gli
occhiali a mezze lenti, lesse il nome ad alta voce: «Marco
Ablondi.»
PATANG. Quel nome risuonò nella testa di Stefano come una martellata su un fusto di benzina vuoto, e continuava a rimbombare.
«Il bello di questo sommergibile», riprese a cicerare
Rocco, «è che c’è un comparto da dove si può far uscire un
sub e poi farlo rientrare stando in immersione, lo chiamano
loch in loch out.»
PATANG. Un’altra martellata colpì quel bidone vuoto
che era ormai la testa del direttore del consorzio.
«Si può sapere che hai?» chiese ancora Billo, preoccupato per il muto stato catatonico in cui era caduto il suo
giovane amico.
«Niente, è solo che ho conosciuto questo tipo qui, ma
mi disse di essere un rappresentante di estintori.»
«Non farci caso», tentò di consolarlo Billo, «in quel
campo meno persone sanno quello che fai e meglio è, anche l’azienda pretende la massima riservatezza, ma questo
dovresti saperlo bene.»
Stefano annuì senza dire niente, poi prese la rivista dalle mani di Rocco e tornò di qualche pagina indietro, fino a
quella in cui si vedeva il minisommergibile in avanzato
stato di costruzione, alle spalle di questo vi era una costruzione familiare, l’aveva già vista, magari da un’angolazio-
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ne diversa, poi notò che dietro lo stabile si vedeva il mare e
incuriosito chiese a Rocco, sperando che sapesse rispondere: «Ma qui c’è il mare e prima mi hai detto che il sommergibile lo costruisce la TGO di Zingonia, qualcosa non quaglia, a Zingonia non c’è il mare e qui sì?» Indicò con l’indice destro la piccola striscia di azzurro sulla foto, per
quanto piccolo quel particolare era inconfondibile, si trattava di mare.
Rocco prima di rispondere si dedicò per qualche secondo alla deacidificazione del sangue, respirando velocemente, poi assunse un’aria da asceta illuminato e iniziò a
raccontare quanto precedentemente ascoltato nella redazione dei sommergibilisti.
«L’armatore americano ha commissionato il minisub alla TGO di Zingonia e lo yacht ai cantieri navali di Varazze,
l’ex cantiere Baglietto; altre due commesse identiche sono
state firmate e i cantieri navali hanno concesso che i minisub fossero assemblati e collaudati presso di loro, così
hanno concesso una parte dei capannoni, quelli nella foto.»
PATANG. L’ennesima martellata devastò completamente la mente di Stefano, Varazze non era molto lontana
da Oneglia, e la forma dello scafo del minisub assomigliava a quell’orma trovata durante le ricerche del corpo di
Paolo. Forse il cetaceo che aveva lasciato l’impronta era di
acciaio e gli era stato appena presentato.
Vuoi vedere che quel bastardo viene a farsi le immersioni gratis sul mio relitto, pensò Stefano, e più pensava
più si incazzava. Si sentiva proprio un pollo.
«Sarà meglio che vieni a bere qualcosa», disse Billo,
prendendo l’amico sotto braccio e indirizzandolo verso il
bar.
«Grazie ne ho bisogno», rispose il giovane del gruppo
senza essersi ancora ripreso dalle sorprese dell’ultimo
quarto d’ora. Prima di lasciare la segreteria si voltò e chiese a Rocco se poteva fargli le fotocopie dell’articolo.
Rocco mise il giornale sotto il braccio sinistro, scattò
lentamente su un attenti lievemente sbilenco sulla sinistra
a causa della protesi all’anca, poi urlò: «Signorsì signore,
agli ordini signore.»
Billo scosse la testa senza dire niente e i due andarono
verso il bancone del bar.
I due amici ordinarono al barista ansioso di fare qualcosa, una Coca Cola e un Aperol spruzzato di bianco. La sala
era vuota, i pochi soci presenti erano indaffarati nelle proprie mansioni.
«La coca è finita, abbiamo della marijuana, fa lo stesso?» chiese il barista ai due, con espressione che invitava a
prenderlo a schiaffi a due a due finché non diventano dispari.
«Ma sei scemo?» chiese Billo, pronto a far interdire
l’insubordinato da ogni incarico presso l’Associazione.
«Va beh, volevo essere simpatico», rispose il barista
imbronciato, allungò la lattina a Stefano e servì l’Aperol al
furiere scassapalle, poi riprese a fare quello che faceva tutto il giorno, leggere il giornale e pulire il bancone.
Lo show non era riuscito a distogliere Stefano dalla valanga di pensieri che stava precipitando nella mente, travolgendo tutte le preoccupazioni di quei giorni. La cosa
che più lo amareggiava era il fatto di essere stato gabbato e
di non essersene mai accorto. L’amaro rimaneva e la Coca
Cola non era sufficiente a cancellarlo.
Salutato il barista che in risposta grugnì qualcosa di incomprensibile, i due tornarono nell’ufficio di Billo; Rocco
aveva già fatto le fotocopie e le porse al giovane.
«Mi faresti anche la copertina e il frontespizio, così gli
scrivo e mi abbono anch’io.»
Rocco obbedì immediatamente.
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Salutato l’amico con la promessa di sentirsi al telefono
più spesso Stefano salì in macchina, lo attendevano i genitori per cena e l’indomani mattina sarebbe andato a
Saronno, dal suo amico Nico. Era arrivato il momento di
dedicare un po’ di tempo alla loro “creatura”.
Prima di mettere in moto la macchina diede uno sguardo alla fotocopia con la copertina della rivista americana,
la prese e ne lesse il mese, maggio duemiladue.
Si concesse qualche minuto per riflettere, se il numero
della rivista era maggio, la foto era sicuramente stata scattata non meno di un mese prima, per cui il minisub doveva
essere operativo, in fase di collaudo. L’idea di rintracciare
Marco Ablondi si faceva sempre più insistente, premeva
sui desideri, primo tra tutti quello di fare un giro sul minisub. Tra un pensiero e l’altro faceva capolino qualche riflessione che lo riportava alla realtà, come avrebbe fatto a
rintracciare Marco, visto che tutto quello che aveva detto
non corrispondeva al vero. Il biondo ingegnere si spostava
a bordo di un camper, lo parcheggiava proprio fuori dal ristorante Il Naufragio, quando ad ogni week end si presentava al consorzio per le immersioni sul Vittorio Veneto.
Babbione, pensò Stefano, sono proprio un babbione. Di
solito sgamava subito quelli che simulano o raccontano
balle, per lui si trattava di una dote quasi naturale, in completo contrasto con la sua ingenuità su tutto quanto riguarda le astuzie della vita. Eppure quel tipo lo aveva fregato,
quello era il motivo per cui si sentiva avvilito.
L’arrivo a casa dai genitori non fu meno caldo di quello
all’Associazione dei Marinai, non lo vedevano da agosto,
da quando erano stati in vacanza a Oneglia per due settimane.
La cena a base di risotto con i funghi e salamelle ai funghi consentì a Stefano di abbandonarsi al clima casalingo,
gli argomenti di discussione lo trasportarono in una dimen172
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sione umana molto distante da quella abituale. La cugina
che aspettava un altro bambino, lo zio ricoverato per la
prostata, i colleghi della madre che non capiscono nulla, i
clienti del padre che vogliono le traduzioni prima ancora
di consegnarle e le pagano dopo sei mesi. Tutto normale
insomma si disse prima di andare a dormire sul divano: da
quando se ne era andato di casa i genitori avevano adibito
la sua stanza per metà a studio del padre e per metà a guardaroba.
Mentre cenava sentì il bip che segnalava l’arrivo di un
messaggio sul cellulare, lo lesse prima di addormentarsi,
era Nico che voleva sapere a che ora si sarebbero visti l’indomani.
Era molto stanco e si addormentò subito, ma la compagnia sgradita di branchi di cetacei d’acciaio gli impedì di
riposare.
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CAPITOLO VENTI
IL CONSORZIO
LA CREAZIONE del consorzio fu la parte più complessa di tut-
ta l’operazione. Il problema maggiore fu quello di mettere
d’accordo un sacco di teste, scontentandone il meno possibile.
Come sede fu preso in affitto uno stabile proprio davanti al campo boe, una palazzina di due piani sul lungomare,
lungo il troncone di statale Aurelia chiusa al traffico, a due
passi dall’ufficio della Capitaneria. Dalle finestre del secondo piano si poteva controllare tutto il campo boe e con
una videocamera digitale si teneva sotto controllo tutto il
traffico.
L’adesione al consorzio avveniva a quattro livelli, soci
fondatori, soci aggregati, soci operatori e soci ordinari.
Soci fondatori erano gli enti che avevano costituito il consorzio, LegAzzurra, Regione Liguria, Provincia di
Imperia, Comune di Oneglia ecc.
Soci operatori erano tutti gli enti di ricerca e i diving
center con accesso al relitto, per il quale pagavano una
quota annuale più il dieci per cento per ogni immersione
effettuata sul relitto. I diving center concedevano inoltre
un passaggio barca ogni dieci sub, il consorzio utilizzava
questa regola per far immergere i vari ricercatori.
All’occorrenza, se l’intervento sul relitto era complesso e
richiedeva più operatori, lo staff del consorzio interveniva
con il proprio gommone, evento comune nel caso di visite
da parte di gruppi di giornalisti. I mezzi del consorzio e
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quelli della Capitaneria erano gli unici che potevano ormeggiare alle boe centrali, quelle che indicano la prua, il
primo fumaiolo e la poppa del Veneto. Per tutte le altre imbarcazioni era d’obbligo ormeggiare alle boe esterne.
L’accesso alle boe avveniva su prenotazione ed era regolamentato dal consorzio. Una guida, a turno tra quelle dello
staff, fungeva da controllore. Dall’ufficio del secondo piano verificava la puntualità delle barche, l’esattezza degli
ormeggi e il rispetto dei tempi di permanenza sulle boe.
Inoltre in caso di incidente, filmava e coordinava le operazioni. Tutte le comunicazioni avvenivano su un canale vhf
concesso al consorzio. Durante la stagione estiva, l’ufficio
di Tixera sembrava la torre di controllo di un aeroporto
londinese.
Il consorzio aveva convinto la comunità di pescatori di
Oneglia a riciclarsi in barcaioli. Attività gradita soprattutto
dai figli più giovani di questi ultimi che preferirono abbandonare il lavoro in fabbrica o la vita da pescatore per dedicarsi al trasporto dei sub, meno faticoso, più remunerativo
e divertente. Il consorzio piccola pesca di Oneglia occupava una parte consistente della banchina. Piccoli casotti simili a container fungevano da ricoveri delle reti e degli altri ammennicoli per la pesca. I box furono rilevati dal consorzio Vittorio Veneto che li sostituì con un grosso locale
diving con punti di attracco per i gommoni. Ai pescatori fu
concesso dalla Regione un indennizzo sotto forma di finanziamento a tasso agevolato in caso di acquisto di imbarcazione conforme ai servizi richiesti dal consorzio.
Accettarono tutti, anche i più anziani, contenti di poter dare un futuro ai loro figli, un posto di lavoro sul mare.
Il consorzio utilizzava per le proprie uscite i gommoni
dei ventitrè pescatori convertitisi. Con un abile coordinamento le boe erano sempre piene di gommoni che caricavano e scaricavano sub sul relitto. Nei momenti di calca vi
erano anche 50 sub sul relitto e altri 30 in superficie o in
deco, ma con i suoi 180 metri il Veneto accontentava tutti.
Soci aggregati erano coloro che versavano una quota e
concedevano agevolazioni in forma di sconto ai clienti del
consorzio, e ogni anno aumentavano gli hotel, i bar e i ristoranti che aderivano. Il consorzio in caso di richieste di
soggiorno, provvedeva ad effettuare la prenotazione presso i propri affiliati.
Soci ordinari erano i sub che si immergevano sul
Veneto
L’accesso al relitto da parte dei sub era concesso solo
dopo un breve corso teorico obbligatorio.
Ogni subacqueo pagava una quota annuale di 15 euro,
più una tassa di 10 euro per ogni certificazione. Il sub appena iscritto veniva registrato e prima di immergersi seguiva un briefing di circa due ore sulla storia della nave, la
conformazione dello scafo, le procedure di immersione, le
procedure di emergenza e i segnali usati dalle guide.
Durante il briefing ampio spazio era dedicato al modellino
del relitto, ai piani di immersione e alle foto fatte prima
dell’affondamento. Dopo il breve corso di presentazione, il
consorzio rilasciava un “plastichino”, una tessera su cui si
applicavano i timbrini delle immersioni e il sub poteva immergersi accompagnato da una guida. Dopo 8 immersioni
poteva immergersi da solo con un pari livello, dopo altre
20 immersioni poteva frequentare il corso guida e accompagnare un gruppo di sei sub. Nell’archivio anagrafico erano registrate tutte le immersioni effettuate da chiunque.
Le guide del consorzio seguivano un iter formativo particolare, messo a punto dal direttore Stefano Tixera. Lo
standard di immersione prevedeva che ogni guida si adeguasse alla configurazione base, molto simile al sistema
DIR. Abilità quali la chiusura dei rubinetti, uso della frusta
lunga, lo scambio di erogatori e il salvataggio del compa-
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gno erano svolte fino alla nausea. Il consorzio aveva acquistato uno stock di bombole da 18 e 15 litri, tutte con rubinetto Bros della Scubatec, facili da aprire e chiudere anche sott’acqua. Abilità che tutti imparavano vedendo le
guide farlo automaticamente diverse volte durante l’immersione. Ogni guida si immergeva con una bombola da
18 litri carica a 240 atmosfere, in modo da garantire un minimo di riserva gas ai clienti in difficoltà.
Una stazione di pompaggio composta da più compressori forniva aria e miscele in abbondanza.
Il sito web del consorzio forniva ogni informazione necessaria, era inoltre possibile prenotare le immersioni o
soggiorni con un programma di immersioni completo in
modo da visitare ogni angolo del relitto. Dalla finestra del
secondo piano, una webcam riprendeva il campo boe inviando in rete la situazione del mare. Una luce rossa lampeggiante sulla boa più esterna informava che le immersioni erano vietate. Presso il consorzio non era possibile
fare corsi di specialità, ma lo stesso forniva ogni appoggio
logistico necessario agli istruttori che utilizzavano il relitto
del Veneto come palestra. Le immersioni tecniche erano
effettuate con lo staff direttivo del consorzio per i ricercatori e con diving esterni, come quello di Tino Corsi, per gli
altri sub.
Un piccolo locale sotto gli uffici, di fianco alla sala riunioni del consorzio, era adibito a gadget shop, magliette,
cartoline, videocassette e DVD, felpe e ogni altro genere
di inutile oggetto dedicato al relitto era in vendita, diretta o
via posta. Anche dal sito era possibile acquistare pacchetti
immersioni e gadget.
Un grande interesse nel mondo scientifico destava l’archivio completamente digitalizzato del consorzio. Tutte le
foto della nave prima dell’affondamento erano disponibili
ai ricercatori, a rotazione, alcune decine venivano lasciate
sul sito per gli associati del consorzio. Chiunque desiderasse fotografare o filmare il relitto doveva concedere una
copia del proprio lavoro a fini scientifici; i documenti erano disponibili in visione ma non potevano essere utilizzati
dal consorzio né da altri senza il consenso dell’autore.
Ogni ricercatore era obbligato, alla fine del proprio lavoro,
a cedere una copia dello stesso al consorzio che lo metteva
a disposizione della comunità. Un terminale permetteva ai
soci del consorzio di accedere, in sola visione, alla mole di
dati raccolti durante i vari lavori scientifici.
La cartella stampa preparata per i giornalisti che settimanalmente si presentavano al consorzio, aveva raggiunto
le dimensioni di una ventiquattrore, testi in 7 lingue, foto e
filmati su DVD, gadget, felpa e maglietta, erano trofei ambiti da giornalisti di tutto il mondo.
Le attrezzature dello staff erano dislocate nella base
mare, una dependance del diving vero e proprio; oltre a
mute stagne e di neoprene di vario tipo, vi erano bibombola da 24 litri, bombole decompressive, torce varie, materiale per la manutenzione degli ancoraggi e i due destrieri del
consorzio, due trascinatori subacquei della Suex.
I modelli scelti erano gli ADV-&£, lunghi circa 90 centimetri, pesavano 34 chili e avevano una autonomia di un
ora alla velocità di 58 metri al minuto. Ogni “maialino” era
dotato di tre batterie sempre sotto carica, bastavano dieci
minuti per sostituire l’accumulatore e passare il mezzo ad
un’altra squadra. Il trascinatore aveva una manopola del
gas con pulsante per la marcia, un selettore di velocità e
una fettuccia a V con un moschettone, che fissato all’anello dell’attrezzatura posto in vita, permetteva la trazione del
sub senza sforzare le braccia nella presa. Rimaneva semplicemente da guidare il veicolo. Tra i congegni elettronici
usati dalle guide, oltre alla bussola digitale, molto usato
era il sonar EyeSea, un sistema di navigazione, da portare
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al polso, che fornisce la distanza in metri e la direzione in
gradi del risponditore sistemato due metri sotto la barca.
L’aggeggio era molto utile nelle immersioni su fondo piatto e uniforme, il led digitale indicava sempre la via per tornare a casa. Diveniva lo strumento essenziale nelle immersioni sulla prateria di posidonia distante un centinaio di
metri dal fianco destro del relitto, lì vi si immergevano ricercatori che studiano la pianta acquatica e tengono sotto
controllo l’estensione della “piantagione”. Uno degli esperimenti in corso, prevedeva infatti il trapianto di esemplari,
testando la diversità di microclima offerti dalla presenza
del grande scafo, piccole aiuole di posidonia proliferavano
più o meno rigogliosamente intorno al gigante annegato
anche se era presto per festeggiare il successo della prima
colonia di posidonia ottenuta per coltivazione.
Una parte consistente della popolazione di ricercatori
che frequentava il consorzio era composta da membri della
facoltà di Zoologia dell’Università di Genova. Il relitto dava occasione ad una moltitudine di laureandi e ricercatori
in corso di specializzazione, di avere un laboratorio subacqueo praticamente nel giardino di casa. Il relitto praticamente nuovo di zecca era in continuo monitoraggio, ogni
settimana, frotte di sub visitavano il Veneto misurando
ogni genere di parametro biologico e chimico. Dopo la
Haven toccava all’incrociatore lanciamissili dare un inestimabile contributo alla scienza.
Ogni mattina prima che iniziassero le immersioni, alcune guide dello staff controllavano lo stato di efficienza degli ancoraggi e se sul relitto fosse tutto in ordine, lo stesso
faceva una squadra alla sera, al termine della giornata di
immersioni.
La prima stagione di immersioni aveva confermato la
validità dell’idea, gli introiti avevano permesso alla gestione di chiudere in attivo e accantonare un consistente cusci-
no ammortizzatore in caso di disastro ambientale, peraltro
scongiurato dalle continue quanto positive analisi effettuate dalla ASL di Imperia.
Altre amministrazioni provinciali iniziavano ad interessarsi del progetto e a valutare la possibilità di clonarlo in
altre zone della costa italiana, e non erano solo le amministrazioni nazionali ad interessarsi. La Francia stava correndo ai ripari, le immersioni sul Vittorio Veneto avevano richiamato molti “cugini” d’oltralpe alleggerendo la pressione turistica sui relitti della costa azzurra, evento non gradito dagli enti turistici locali. Il governo francese era alla ricerca di un soggetto da contrapporre al relitto del Veneto,
ma nessun vascello di tale importanza stava per andare in
disarmo e così prese ad interessarsi alle navi in riserva delle altre marine tra cui quella degli Stati Uniti e quella russa, ormai in saldo. Spagna e Grecia stavano a guardare, ma
con attenzione e interesse.
La concomitanza della strage delle Torri Gemelle diede
un involontario contributo alla riuscita del progetto: crollati i viaggi aerei, l’offerta di un soggiorno in Liguria e la visita ad un relitto esclusivo attirava un considerevole flusso
di turisti. Poco meno della metà erano stranieri, Svizzeri,
tedeschi, francesi, ma non mancavano olandesi, britannici,
spagnoli e austriaci. Diverse delegazioni di russi e maltesi
erano venuti in visita più per conoscere la struttura logistica e organizzativa che per visitare il relitto.
Dal mese di marzo a settembre si effettuarono più di
22000 immersioni sul relitto, il consorzio contava su 7249
soci ordinari.
La gestione di un gran numero di sub e conseguentemente di auto, aveva richiesto la creazione di un parcheggio specifico per i clienti del consorzio che all’atto della
prenotazione dell’immersione prenotavano anche il posto
macchina. Dal parcheggio al diving un servizio di facchi-
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naggio a mezzo furgoncino sollevava i sub da ogni fatica,
la borsa veniva lasciata in un loculo all’interno del diving.
Al consorzio non erano accettate bombole personali ed
erano disponibili cinture di piombi per tutti i gusti e tutti i
pesi, i sub potevano così evitare di portarsi pesi inutili. Il
consorzio garantiva anche un servizio navetta con la stazione e il casello autostradale, facilitando l’accesso con
ogni mezzo.
Il consorzio Vittorio Veneto fu un successo sotto ogni
aspetto, l’incidente mortale avvenuto a Paolo Molli fu un
duro colpo a tutta la struttura.
CAPITOLO VENTUNO
VENERDÌ
LA COLAZIONE abbondante a base di Fiesta e un tazzone di
caffè fu il preludio di una buona giornata. Stefano si alzò
presto, appena in tempo per salutare la madre che andava a
lavorare. Lui e il padre rimasero a chiacchierare seduti al
tavolo per circa un’ora. Il genitore era impaziente di conoscere le novità sul sub scomparso e sulle ipotesi della morte. Stefano tenne per sé le informazioni del giorno precedente, gli parevano sogni abortiti e non voleva coinvolgere
il genitore.
Raccontò al padre le stesse cose che avrebbe dichiarato
in un’intervista. Terminata la colazione utilizzò il computer di casa per leggere i messaggi di posta diretti al consorzio. Nessuno destava preoccupazione, nessuno da Tarja.
Anche se lo amareggiava la mancanza di un segnale da
parte della compagna, quel giorno si sentì più libero, quel
giorno lo avrebbe dedicato al suo amico e alla sua creatura.
Salutò il padre con una stretta di mano, gli diede una
leggera pacca sulla spalla e raccomandò di tenere d’occhio
la mamma.
Uscì di casa alle otto, col traffico di Milano ci avrebbe
messo più di un’ora per arrivare a Saronno dove il suo
amico lo attendeva.
Nico Giudici quella mattina era abbastanza agitato, cosa strana per lui. La gamba destra ingessata lo obbligava a
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saltellare per la casa cercando di sistemare il caos che la
sera precedente si era impadronito di tutte le stanze.
Generalmente non era disordinato, ma la sera prima gli
avevano fatto visita alcuni colleghi di lavoro e dopo un po’
di Rhum e quattro risate l’ordine aveva lasciato spazio alla
completa anarchia dell’arredamento. Lo sforzo maggiore
stava nel saltellare senza toccare il parquet con la staffa di
metallo fissata nell’ingessatura a supporto del calcagno.
La gamba rotta ormai non doleva più, in compenso prudeva continuamente.
La casa dove si era trasferito da pochi mesi odorava di
nuovo, l’impresa di costruzioni aveva consegnato per ultimo il suo appartamento, una mansarda di 80 metri quadrati più terrazzo, camino e doppio box. In un angolo della
mansarda un mobiletto sosteneva tutto il patrimonio informatico di Nico. Il computer, sul cui monitor era appoggiata la stampante o lo scanner, a seconda di cosa gli serviva,
lo spazio a fianco della tastiera rimaneva libero. Lì vi appoggiava l’unità di controllo del rebreather, chiamato anche Panel, e collegandolo al computer ne variava i parametri di controllo. L’oggetto era in bella mostra, assomigliava
ad un computer palmare senza tastiera con un grosso cavo
giallo del diametro di un centimetro e lungo circa un metro. Lo aveva tolto da poco dal suo nascondiglio, nessuno
dei suoi colleghi di lavoro sapeva della creatura.
Laureatosi in chimica era stato assunto dopo qualche mese
da un’azienda farmaceutica della zona, una multinazionale
con sedi in Europa dell’est e Sudamerica. Dopo nemmeno
un anno era stato promosso direttore di produzione.
Benché il posto gli piacesse sperava di andarsene, il richiamo per il mare era forte; sebbene passasse tutti i giorni di
ferie in giro per il mondo a fare immersioni, il suo sogno
era quello di vivere sul mare. E se la creatura funzionava,
le probabilità di trasferirsi erano buone.
Il resto della creatura era nella parte posteriore del doppio box, adibito ad officina meccanica. Nella prima parte
la Opel Tigra nera, sempre lucida come nuova, oscurava ai
curiosi del piccolo condominio l’attività secondaria di
Nico, che molto spesso apriva il portello posteriore per impedire la vista del reparto sperimentazioni. Il rebreather
era sul tavolo da lavoro ma completamente smontato in
ogni parte, mancava solo il panel di controllo.
Con indosso il camice bianco Nico sembrava uno scienziato pazzo, di quelli che si vedono nei film intenti a distruggere il mondo. I capelli lunghi una decina di centimetri erano perennemente in erezione, come se gli fosse scoppiata una bomba in faccia, gli occhiali spessi con una grossa montatura di plastica rendevano ancora più inquietanti
gli occhi iperattivi. In reparto sembrava un furetto alla
continua ricerca di qualcosa, era irascibile e facile al rimprovero se le mansioni non erano svolte a modo. Non passava giorno che non cazziasse qualche operaio della produzione, tutti lo consideravano un emerito rompiballe fino
al giorno in cui dovette rimanere a casa per la gamba rotta.
Al suo secondo giorno di assenza per malattia, nella linea
di produzione degli steroidi, un catalizzatore esplose violentemente causando il ferimento di due addetti e un incendio fortunatamente domato dal pronto intervento della
squadra di pompieri interna. Mancando la completa vigilanza del direttore di produzione, gli addetti avevano commesso un banale errore di miscelazione, causando l’esplosione. Fortunatamente non ci fu nessun morto, ma tutti si
resero conto dell’operato di Nico; quando c’era lui in reparto tutto era sotto controllo, presenziava ad ogni procedura pericolosa e prima che qualcuno sbagliasse partivano
i cazziatoni.
Nella vita privata l’unica cosa che angustiava Nico era
la mancanza cronica di donne; a trentasei anni non poteva
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contare su un’attività sessuale soddisfacente e questo in
qualche modo aumentava la sua irascibilità.
Magro per un metro e settanta, non superava mai i sessanta chili di peso, nemmeno in vacanza. Il suo metabolismo consumava come quello di un inceneritore municipale. Sebbene facesse poco sport, frequentava solo una sera
alla settimana la piscina, il suo aspetto era quello di un maratoneta.
Quando Stefano suonò al portoncino tutto il ciarpame
era stato rimosso e stipato nel ripostiglio, l’ordine apparente era ricomparso. Nico si infilò i pantaloni della tuta, gli
unici che riusciva a mettersi col gesso e saltellò fino alla
porta, la aprì mentre si apriva anche quella dell’ascensore.
Stefano sembrava imponente vicino a Nico; i due si
strinsero la mano sorridendo.
«Hai già fatto colazione?» chiese Nico.
«Due ore fa.»
«Mi fai compagnia?» rilanciò l’amico.
Stefano strinse le labbra gonfiando le guance, poi chiese: «C’è la torta che fa la tua mamma?»
Nico annuì.
«Allora sì!»
Mentre il padrone di casa metteva su il caffè Stefano si
avvicinò al tavolino del computer, vi appoggiò il suo portatile e lo accese, poi si diresse in cucina dall’amico.
«Come va a donne?»
«Maluccio», rispose Nico, «ma forse viene ad abitare
sotto di noi un coppia, lui è un ingegnere di 49 anni, lei
una russa di 30, bella gnocca, appena sono in forma vado
all’attacco!»
Stefano rimase sorpreso da quelle parole.
«Ma non dicevi che le donne degli altri non ti interessano, che non hai bisogno di portare via la donna d’altri e
tutte queste balle?»
«Sì è vero, lo dicevo, ma non bisogna mai fossilizzarsi
sulle proprie idee, bisogna rinnovarsi, evolvere!»
«Ho capito, te la vuoi fare, ma merita?»
Nico rispose con un ampio e lento sì della testa.
Dopo la colazione passarono ad occuparsi della creatura.
Un rebreather è un autorespiratore che ricicla il gas respirato dal subacqueo. Vi sono diversi tipi di rebreather:
alcuni di questi riciclano completamente la quantità di gas,
altri ne rilasciano una piccola quantità che viene sostituita
da gas nuovo. Un’altra sostanziale differenza sta nella gestione delle valvole, che può essere meccanica o elettronica. La respirazione del gas avviene attraverso due grossi
tubi corrugati: da uno entra il gas filtrato, dall’altro il gas
espirato ritorna al sacco polmone e al filtro.
Stefano da buon ingegnere informatico aveva scritto il
programma per la gestione delle periferiche del rebreather,
il panel di controllo un chip integrato collegato a un visore
a cristalli liquidi, il tutto scafandrato in una scatola stagna
delle dimensioni di una scatola di sigari collegata tramite
cavo all’unità di sensori ed elettrovalvole.
Tramite un cavo di collegamento era possibile collegare
il PC al panel e variare o riconfigurare le funzioni della
macchina. La possibilità di riconfigurare o riprogrammare
la macchina rendeva il rebreather una macchina intelligente, capace di calcolare le differenze tra un sub e l’altro e
adattarsi.
Nico prima di rompersi la gamba, aveva testato la macchina nel lago di Como fino alla profondità di 80 metri, rilevando la scarsa affidabilità dei sensori a ossigeno di produzione nazionale. Nuovi sensori statunitensi erano stati
montati sulla macchina e garantivano il funzionamento anche se umidi di condensa o per via di qualche leggera infiltrazione. Stefano si mise al lavoro e riconfigurò la macchi-
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na calibrando il sistema sui nuovi sensori. Al termine chiusero il panel e scesero nel box di Nico.
La macchina era adagiata sul tavolo completamente
smontata.
«Ho sanificato tutta la macchina», disse Nico, facendo
annusare l’odore di detergente rimasto sui tubi corrugati.
«Bene, i sensori li hai già montati?»
«No, aspettavo te per farlo.» Nico porse la scatola con i
bulbi dei sensori per l’ossigeno. Entrambi si misero al lavoro. Terminata la sostituzione dei sensori rimontarono insieme tutta la macchina.
Il rebreather di Stefano e Nico era a circuito chiuso elettronico. Il gas passava attraverso due corrugati e riciclato
in sacco filtro che contiene un assorbente per l’anidride
carbonica, generalmente idrossido di bario e idrossido di
calcio, più raramente idrossido di litio, più efficiente ma
altamente caustico.
Un circuito elettronico controlla sensori ed elettrovalvole a solenoide, miscelando il gas necessario al sub. I gas
sono due, elio e ossigeno, un gas diluente e un gas vitale,
l’ossigeno appunto.
Il prototipo che stavano assemblando era molto diverso dai rebreather in circolazione e da quello che sarebbe
stato il modello definitivo, al momento era il loro laboratorio.
Una volta assemblato sembrava una grossa bombola
con due grossi tubi di gomma e uno strumento simile ad
una consolle, ma molto più grossa. Ai lati del corpo centrale si fissano le bombole di gas, una per l’ossigeno una
per l’elio, entrambe da cinque litri. Il cilindro contenente
i componenti della macchina era occupato per un terzo,
nella zona inferiore, dal sacco polmone, il cestello del filtro nella parte centrale e i sensori ossigeno e le valvole a
solenoide nel terzo superiore da dove partivano anche i
tubi corrugati e il cavo collegato al panel. La macchina di
per se non era diversa da molte altre, la parte meccanica e
la struttura portante era stata costruita fondendo le soluzioni migliori disponibili sul mercato. L’innovazione tecnologica stava nella parte elettronica, quella che da sempre crea problemi sott’acqua. I nuovi sensori funzionavano anche se bagnati, le nuove valvole erano le stesse utilizzate a bordo dello Shuttle, montate in coppia e in parallelo su ogni circuito gas, in caso di guasto si autoescludevano dal circuito rimanendo bloccate. Il programma di
controllo le azionava alternativamente così in caso di
esclusione di una valvola l’altra continuava ad erogare il
gas necessario.
Il programma di gestione, vero cuore della macchina,
era stato scritto completamente da Stefano; con la perizia
di un hacker era riuscito a scaricare il software di altri
due rebreather commerciali. Dopo ore di analisi funzionale iniziò a riscriverli completamente, ma visto che le limitazioni a cui erano sottoposti non soddisfacevano i due
costruttori ne compilarono uno completamente nuovo.
Per il calcolo delle decompressioni utilizzarono il software ZQplanDive fornito gratuitamente dal suo creatore interessato all’integrazione dei due tipi di software.
Tutto lo chassis della macchina era costruito in acciaio
inox, il capo manutenzione della Chemical Factory era un
grande amico di Nico e su sua richiesta aveva costruito
ogni pezzo, fatturando le spese di materiale e manodopera all’industria chimica presso la quale interveniva ogni
volta che il direttore di produzione lo convocasse.
Il sotterfugio funzionava da un po’ di mesi e se fosse
stato scoperto, Nico avrebbe “discusso” di alcune dubbie
consulenze fornite dalla moglie dell’amministratore delegato e pagate profumatamente.
Terminate le operazioni di montaggio e sistemato il re-
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breather sul Porter i due risalirono in casa, mangiarono
qualche panino accompagnato da Coca Cola e chiacchierarono dei propri problemi e delle migliorie applicabili
alla loro macchina. Alle due si salutarono, Stefano voleva
passare da Bino Falchi per un saluto.
CAPITOLO VENTIDUE
BINO
L’ADOLESCENZA di Albino Falchi trascorse, per alcuni anni,
parallela a quella di Tino Corsi; all’età di diciassette anni
entrambi entrarono nella Lega navale di Genova e lì si impratichirono sull’uso dell’aro, con un maestro d’eccezione,
Schergat, un famoso incursore della Marina Militare.
Abbastanza simili nell’aspetto in età giovanile da sembrare fratelli, i due non perdevano occasione di misurarsi,
in qualsiasi campo.
La rivalità si faceva cruenta quando si trattava di donne,
ma Tino in quel campo era avvantaggiato. L’ardire di Bino
di fronte a qualsiasi evento si trasformava in timidezza di
fronte alle esili forme di qualche coetanea e il rivale era lì,
sempre pronto ad approfittare di ogni attimo di debolezza
dell’avversario.
All’età di diciotto anni, Bino conobbe un palombaro del
porto che, dopo avergli insegnato il mestiere, lo volle con
sé e lo portò in giro per il mondo. Fu una vera scuola di vita e di mestiere; il giovane apprendista divenne in breve
una persona molto esperta in demolizioni navali subacquee, lavori in bacino, ispezioni alle carene da parte del
Registro Navale Italiano, lavori di scavo e tutto quanto poteva essere fatto sott’acqua.
Ritiratosi il vecchio maestro, Bino cedette alle lusinghe
della Micoperi, impresa specializzata nelle demolizioni e
recuperi marittimi, e all’inizio degli anni ottanta concesse
la sua esperienza alla Sub Sea Oil Service, leader mondia190
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le nelle immersioni in saturazione, un fiore all’occhiello
dell’industria petrolifera italiana.
Trasferitosi a Savona, creò la Mako Sub Service, impresa di lavori subacquei conosciuta in tutto il golfo ligure.
Nell’azienda aveva inserito i due figli, Marietto e Daniela,
il figlio maggiore lo seguiva in mare, la figlia si occupava
di tutta la parte amministrativa.
Fu Bino ad effettuare la prospezione del fondo su cui
affondare il Vittorio Veneto: iniziò con il rilevamento del
fondo con side scan sonar, in modo da individuare il punto
migliore, poi con i rov esaminarono il fondo centimetro
per centimetro e nel punto in cui si sarebbe appoggiato lo
scafo della nave, una squadra di sub eseguì la bonifica da
eventuali ordigni sepolti nel fondo.
Fu sempre Bino a sistemare i corpi morti delle boe, a
tendere le catene, saldare le sbarre su quei portelli rimasti
aperti per consentire che l’affondamento procedesse nel
migliore dei modi.
Bino aveva una grande passione per la vita del palombaro, quello di una volta, che con l’elmo di rame, il vestito
di tela gommata e le scarpe di piombo, sfidava le profondità marine. Aveva gelosamente conservato la sua prima attrezzatura, un elmo Mark V ancora funzionante e il suo vestito, ormai incartapecorito e pieno di rammendi di gomma, come una vecchia camera d’aria. Aveva ricevuto in regalo anche quella del suo maestro, un elmo Galeazzi tutto
ossidato ma ancora funzionante.
Un altro Galeazzi Granluce, con vestito praticamente
nuovo, trovato su un rimorchiatore andato in demolizione
concludeva la collezione privata. Quest’ultimo scafandro
pareva fosse nuovo, appena uscito dalla fabbrica, e Bino lo
prestava ai giovani che volevano provare quel tipo di attrezzatura.
Fu proprio per provare uno scafandro che Stefano co-
nobbe Bino. Aveva sentito da un commercialista di
Milano, appassionato anch’egli di palombari, che a Savona
era possibile fare un’immersione nella storia. Incuriosito,
Stefano chiese di provare e un sabato si recò in porto a
Savona da Bino, nella sede della Mako. L’ambiente che vi
trovò lo affascinò al punto che ogni volta che poteva si recava alla Mako, anche solo per mangiare con i sommozzatori a bordo del Bolivia, il rimorchiatore adibito a piattaforma operativa. Ogni volta che tornava a casa aveva acquisito qualche nozione in più, qualche segreto, anche se
le vedute del mondo subacqueo commerciale sono profondamente diverse da quello sportivo.
L’amicizia con Bino si era saldata ancora di più quando
il figlio Marietto finì in un brutto giro di droga, pericolosa
eroina che arrivava in porto quasi pura. Stefano era lì
quando scoprirono il figlio in bagno semincosciente seduto in braccio alla morte che suadente tentava di addormentarlo definitivamente per l’ultima volta. Lottarono contro il
tempo e giunsero in ospedale appena in tempo: la terapia
disintossicante fu efficace per Marietto ma non per il suo
amico del cuore, che contemporaneamente cedeva per
sempre alle carezze mortali della droga.
Dimettere Marietto non sarebbe bastato a salvarlo dalla
morte bianca, e Stefano consigliò Bino di mandare il figlio
in una comunità a disintossicarsi. La cosa non era delle più
semplici: la percentuale di fughe, insuccessi e ricadute rende l’efficacia delle comunità molto bassa, ma Stefano aveva un’idea, un supporto psicologico continuo al ragazzo,
oltre a quello interno della comunità. Fu così che chiese a
Bino di mandare Marietto in una comunità di Cusago, a
meno di un chilometro da dove lavorava, in quel modo gli
sarebbe stato vicino, continuamente. Per sei mesi Stefano
si recava alla comunità a trovare Marietto tre volte al giorno. Con il benestare della direzione, i due facevano cola-
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zione insieme alle otto, pranzavano alla una e cenavano alle diciannove. A volte Stefano e Marietto uscivano la sera,
qualche volta si univa qualche ospite della comunità, qualche volta uno dei responsabili. Per tutti furono i sei mesi
più duri della vita, ma alla fine Marietto riuscì ad uscire
dal giro.
Anche il padre aveva contribuito, segnalando alle autorità tutti i movimenti sospetti all’interno del porto, portando all’arresto degli intermediari e del chimico che tagliava
l’eroina.
Alla fine Stefano finì per diventare quasi un figlio per
Bino e Marietto e Daniela non erano minimamente gelosi.
Alto e magro ma dotato di una forza straordinaria, col
passare degli anni non era ingrassato nemmeno di un etto,
aveva le ossa molto grosse e le mani callose e dure, sembravano dita meccaniche e quando stringeva calorosamente la mano, al poveretto sembrava che l’arto fosse incastrata in una morsa da banco.
Tino e Bino non si vedevano da molti anni, da quando,
entrambi ventiquattrenni, litigarono l’ultima volta per una
donna; ma in quell’occasione le parti si scambiarono.
Tino aveva conosciuto una ragazza di vent’anni e con il
fascino che da sempre lo ammantava e con l’opulenza che
gli permetteva l’attività di corallaro, aveva fatto sì che si
innamorasse di lui. A differenza delle altre volte Tino si innamorò veramente della bella mora e decise che l’avrebbe
sposata al ritorno dall’imminente viaggio in Tunisia.
Le cose andarono diversamente, durante i mesi di assenza la ragazza conobbe Bino il quale corteggiò la donna,
ignaro che fosse la fidanzata del suo acerrimo nemico/amico. La donna cedette a Bino e inviò una lettera alla famiglia di Tino per rompere il fidanzamento. Fu al ritorno che
il corallaro scoprì con chi si era fidanzata la sua mancata
sposa.
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Il confronto avvenne alla Lega navale, quando qualcuno disse a Tino che quello appena entrato era il nuovo fidanzato della sua bella e in quel momento entrava proprio
Bino. Ci vollero sette persone per tenere fermo ciascuno
dei due. Chiesero a Bino che era appena entrato di andarsene e a Tino di restare nella sede, nessuno voleva che i
due si rovinassero con una scazzottata o peggio.
Nessuna altra donna fece passare per la testa di Tino l’idea di sposarsi, nessuna delle donne che rubò agli altri lo
ripagò mai di quella che aveva perduto.
Bino e la bella mora si sposarono quell’anno ma la donna morì di parto dando alla luce Marietto. Tino non avrebbe mai più potuto riprendersela.
Le probabilità che i due si incontrassero di nuovo erano
aumentate da quando Tino era rientrato in Italia, entrambi
sapevano che prima o poi si sarebbero rivisti e se Bino ormai aveva quasi dimenticato tutti i conflitti di gioventù, a
Tino rimanevano stampati in mente in modo indelebile,
trent’anni non erano bastati a cancellarli.
Quando Bino e Stefano si incontravano un forte abbraccio avvolgeva entrambi anche se al giovane dava un’impressione diversa, gli sembrava infatti di essere imbragato
come un collo da calare nella stiva di qualche nave mercantile.
Così fu anche quella volta.
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CAPITOLO VENTITRÈ
MAKO SUB SERVICE
«COMANDANTE, g’avemo un buliccio a bordo», disse
Stefano imitando la voce del Gabibbo e restando sulla soglia del capannone sede della Mako Sub Service.
«Chiedo il permesso di salire a bordo.»
«Sarai mica te il buliccio?» rispose Bino sorridendo e
allargando le braccia come si fa con i bambini.
I due si avvicinarono e si abbracciarono, tanto forte che
a Stefano parve di sentire le costole fracassarsi. Non riusciva a capire dove prendesse la forza quell’uomo alto
come lui ma pesante poco più della metà.
«Sei solo?», chiese Bino, «e la tua valchiria dov’è?»
«In Finlandia per qualche giorno», rispose Stefano ansioso di cambiare discorso.
«Ah ho capito, è andata ad accontentare quell’altro», ribatté ironicamente l’amico strizzando gli occhi in un sorriso.
«Senti, hai mica della calce sodata o del Sodasorb?»
chiese il giovane sapendo che l’argomento che introduceva
la richiesta avrebbe fatto infuriare Bino.
Bino usava la calce sodata nei filtri per la ricarica dell’aria e in un vecchio aro ancora funzionante, che teneva
come cimelio, un ricordo delle sue prime immersioni.
«Cosa devi farne? Devi giocare con uno di quei giocattoli per bambini scemi? Vuoi lasciarci la pelle come quell’incursore in porto a La Spezia?» Il tono di Bino non era
più quello paterno di qualche minuto prima, o meglio era il
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tono di un padre incazzato; Bino i rebreather li considerava aggeggi pericolosi, roba per chi mette nell’equazione
dell’immersione anche la perdita della propria vita.
«Devo collaudare il mio», rispose Stefano, sicuro che
non era il caso di mostrare la sua creatura all’amico, anzi
non gli avrebbe nemmeno detto che lo teneva nel furgone.
«Ma senti un po’, te l’ho raccontata quella dell’incursore scomparso nel porto?» domandò Bino. L’amico ciondolò la testa, la storia la conosceva. Un gruppo di incursori
doveva simulare un attacco a una nave in porto a La
Spezia. Era notte e in prossimità dell’obbiettivo un rimorchiatore stava spostando, spingendola di lato, una portacontainers ormeggiata alla banchina di fronte. Il flusso dell’elica del rimorchiatore aveva sorpreso gli incursori che si
erano trovati avvolti in una spessa coltre di poltiglia marrone e in balia di una corrente anomala. Ad uno ad uno risalirono, fallendo la missione, impossibilitati a vedersi a
vicenda. Risalirono tutti tranne uno di cui non si seppe più
nulla per quattro giorni, fino a quando Bino lo trovò semisepolto nella melma del porto.
Bino si trovava a La Spezia per il collaudo della camera
da decompressione biposto istallata sul rimorchiatore
Bolivia. Costruita dalla Galeazzi, ogni due anni occorreva
farvi il collaudo. La maggior parte delle volte arrivava un
tecnico a bordo ed eseguiva la prova, ma quell’anno la
Mako si trovava a Monterosso per allungare lo scarico della fogna e Bino decise di recarsi con il Bolivia direttamente a La Spezia.
Recatosi a salutare il comandante della Capitaneria, sua
vecchia conoscenza, seppe dell’incidente e si offrì di cercare il cadavere a patto che non ci fossero altre interferenze nella zona. Il comandante del gruppo subacquei del
Comsubin, incaricato delle ricerche non vide di buon occhio quell’intrusione negli affari della Marina Militare,
ma, consigliato dal comandante della Capitaneria, accettò
l’aiuto.
Bino aveva una grande esperienza nella ricerca di oggetti nei porti, il cui fondo è composto da un impalpabile
strato di melma sofficissima, spessa a volte più di un metro: gli oggetti spariscono, completamente inghiottiti dalla
viscida sostanza.
Prima di iniziare le ricerche ricostruì tutti gli spostamenti dei natanti e delle navi all’interno del bacino dove
era avvenuto l’incidente, disegnò sul piano del porto un
grafico dei flussi prodotti dalle eliche in moto e dalle navi
durante lo spostamento, al momento dell’esercitazione. In
ultimo chiese agli uomini sopravvissuti di segnare il punto
in cui avevano iniziato ad immergersi e dove erano affiorati in superficie. La strana procedura lasciò senza parole il
comandante del Comsubin, che nel frattempo aveva informato l’ammiraglio Arena. Disegnati tutti gli elementi sulla
carta, Bino la studiò per mezz’ora poi, al termine di un
processo inconscio, segnò un’area in cui era sicuro di trovare il corpo. La posizione era molto anomala e distante
dal luogo dell’esercitazione e sia il rappresentante del
Comsubin che il comandante della Capitaneria di Porto
chiesero a Bino cosa lo portasse a considerare quello il
punto in cui si trovava il corpo. Bino rispose che nel cervello aveva inserito tutti i dati segnati sulla carta e dall’esperienza che aveva, qualcosa gli diceva che il corpo era lì,
ma non sapeva spiegare come fosse arrivato a quel risultato. Chiese il permesso di immergersi alla ricerca dell’incursore e si preparò per il tuffo. Nelle immersioni professionali i sommozzatori, così amano essere chiamati, si immergono con un casco rigido collegato ad una manichetta
che fornisce aria compressa. Intrecciato alla manichetta vi
è un cavo di forza che serve a recuperare il sub in caso di
malessere o incidenti e un cavo telefonico. Bino si appre-
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stava ad entrare in acqua, seguito in superficie dalla sua
squadra; poteva parlare attraverso un telefono inserito nel
casco e un altro sub vestito era pronto ad entrare in acqua
in caso di problemi.
Anche se la profondità non superava i sei metri, l’immersione era molto impegnativa, il fondo era pronto a inghiottire qualunque cosa vi si appoggiasse. La ricerca venne guidata dalla superficie, controllando le bolle di scarico
gli uomini sul rimorchiatore indicavano in che direzione
proseguire, Bino lavorava praticamente immerso in un soffice e ovattato letto di melma. Dopo quattro ore passate nel
buio completo toccò qualcosa di grosso e gommoso, l’inconfondibile forma della testa gli fece capire che aveva
trovato l’incursore o qualcun altro annegato in porto.
Afferrò saldamente il corpo e chiese di essere issato delicatamente perché il fango faceva un effetto ventosa faticoso da vincere; avvisò in superficie che sarebbe affiorato ad
occhi chiusi per proteggerli dalla luce e che qualcuno doveva entrare in acqua a prendere il cadavere; si raccomandò inoltre che non lo facessero cozzare contro lo scafo del
Bolivia poiché, momentaneamente cieco e con le mani occupate, non poteva evitare nessuno ostacolo.
Il corpo tra le mani era proprio quello dell’incursore
che colpito da intossicazione da ossigeno non aveva individuato da che parte fosse la superficie; al contatto col fondo vi era rimasto incollato, ma a quel punto doveva già essere morto.
Quando Bino risalì sul Bolivia vi trovò l’ammiraglio
Arena, giunto appositamente per assistere al recupero, che
gli strinse la mano melmosa con l’impegno di rendere il
favore.
Bino l’aveva già raccontata quella storia ma pareva ne
avesse un’altra pronta per distogliere Stefano dagli insani
propositi della giornata.
«E quella di Key West te l’ho raccontata?» chiese Bino
portando le mani sui fianchi in segno di sfida e strizzando
gli occhi marroni fino a farli diventare due fessure.
«No! Questa no», rispose il giovane amico pronto ad incassare un’altra bordata.
«Senti un po’», cominciò Bino, «ero a Key West, ospite
di un texano pieno di soldi con cui avevo lavorato in saturazione sulla piattaforma Kalimbus, nel Mare del Nord;
una mattina invece di andare in spiaggia a guardare belle
ragazzotte cicciotte, mi chiese di accompagnarlo a un congresso sulle nuove frontiere dell’immersione, a me non interessava poi tanto, preferivo la spiaggia, ma visto che ero
ospite andai con lui. Mi portò in un hotel dove un tale doveva parlare del futuro delle immersioni. Arrivammo che il
seminario che dovevamo seguire era appena iniziato e trovammo posto solo nelle ultime file. Seduti nella fila davanti a noi c’erano dei ragazzotti, tutti muscolosi, abbronzati e con i capelli rapati. Questi qui facevano un po’ di casino e commentavano ridendo tutto quello che diceva il relatore. A un certo punto quando fu il momento di fare le
domande uno di questi si alzò, si diresse verso il palco e
chiese di poter parlare al microfono. Il relatore, che probabilmente lo conosceva, disse: «Certo Bob, parla pure.» Il
giovanotto rivolto ai presenti disse: «Io sono un Navy Seal
e quelli nella penultima fila sono miei compagni; noi questi apparecchi li usiamo ogni giorno, siamo addestrati, in
perfetta forma fisica. Revisioniamo gli apparecchi dopo
ogni immersione e sostituiamo i sensori a ossigeno ogni
volta che li usiamo, eppure molti di noi non ritornano dall’immersione: malgrado tutti gli accorgimenti, alcuni di
noi perdono la vita, e voi vorreste dare questi aggeggi a dei
civili?» Non ci fu risposta a quell’intervento e il seminario
si chiuse così.»
Bino prese solo un po’ di fiato, poi continuò: «Non è fi-
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nita; al bar dell’albergo trovammo un russo, un tale
Sulajev, che conoscevamo entrambi. Il texano mio amico
gli chiese: “Ma voi li usate i rebreather?” E il russo sai cosa ha risposto? “Sì, li usiamo, chiamiamo ogni modello
con una percentuale, ad esempio 10%, oppure 25% o 30%,
il numero indica la percentuale di sub che non ritorna dall’immersione”. E tu ne vuoi fare uno?»
Stefano non aveva argomenti per controbattere il ribaltone che gli stava facendo l’amico, non aveva nemmeno la
sua esperienza ma vedeva lontano e questo, Bino, proprio
non riusciva a farlo.
Non sapendo cosa dire biascicò le prime parole che gli
passarono per la mente: «Eccepisco quanto hai detto.»
Bino non sopportava quei grossi paroloni e rispose con
un’aria di scherno: «Cosa è che pisci?» Era il suo modo di
sdrammatizzare le situazioni, anche se sperava di indurre il
giovane amico a rinunciare al collaudo dell’infernale apparecchio.
Stefano decise che era il momento di cambiare discorso
e chiese a Bino: «Quando vieni a mangiare la zuppa di
Ugo?»
Bino sorrise, capì che era il momento di mollare il colpo e rispose: «Lunedì mattina iniziamo un cantiere a
Diano Marina, dobbiamo allungare il tubo della fogna; se
vuoi la sera andiamo a cena.»
«Bene, lunedì sera ci sarà anche Tarja.»
«Allora ci sono di sicuro», disse Bino dilatando gli occhi, per lui era un piacere vedere la bella finlandese.
Mentre si dirigevano verso il magazzino per prendere la
calce sodata, Stefano chiese a Bino se conosceva qualche
modo per individuare un sommergibile in immersione lungo la costa. L’uomo rise, e chiese se aveva intenzione di
affondare anche un sommergibile per far compagnia all’incrociatore, magari senza comprarlo.
Stefano spiegò la sua teoria sull’orma del minisommergibile e attese le riflessioni del saggio compare.
«Quello che ti sto per dire è riservato; se qualcuno ti
chiede da chi l’hai saputo inventati una storia credibile
perché se citi il mio nome dirò che non sei sano di mente.
Al largo di Capo Noli c’è un centro di ascolto sottomarino
dell’università di Pisa: nessuno sa che cosa facciano realmente, a noi hanno detto che ascoltano i suoni del mare,
ma a me sembra che registrino le impronte delle navi che
passano.» Bino era serio mentre parlava e sembrava che si
guardasse intorno caso mai qualcuno ascoltasse.
«Cos’e che fanno?»
«Prendono le impronte digitali alle navi. Se guardi bene
proprio sul capo c’è una casa con sopra il tetto un radar di
quelli oscillanti, quelli da ricerca che vedi sulle navi. Sott’acqua, collegati con dei cavi elettrici con guaina in kevlar
vi sono degli idrofoni; sono sistemati tutti lungo una direttrice e il radar serve a sapere cosa ci sta passando sopra. Dalle finestre identificano la nave che passa e gli idrofoni ne captano il rumore sottomarino. Secondo me è roba della Marina Militare: la segnatura acustica serve a identificare il tipo
di nave o la nave stessa. I microfoni sono grossi come fusti
della birra e sono ancorati a diverse profondità, noi quando
andiamo a fare manutenzione riceviamo un trasponder che ci
permette di identificarli, altrimenti non li troveremmo. Se il
tuo sommergibile passa da Capo Noli, loro sono in grado di
sentirlo.» Bino aveva un’espressione seria, entrambi sapevano che quelle parole non dovevano uscire da lì.
Nelle mani Stefano si ritrovò il contenitore di plastica a
forma di borraccia pieno di calce sodata, oltre a quello ricevette l’invito a renderlo di persona, l’ennesimo invito a
mollare tutto.
Prima di andarsene a Stefano passò per la mente un’idea e decise di chiedere a Bino qualche giochino dei suoi.
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Il sommozzatore era anche un esperto di esplosivi, aveva anche il patentino da Fuochino, e in magazzino, tenuto
sotto chiave, aveva anche un piccola quantità di esplosivi
vari.
«Non è che mi regaleresti un panetto di plastico?» chiese Stefano come se stesse ordinando Marlboro dal tabaccaio.
«Belin, lo sai che non posso, e non voglio nemmeno sapere che cosa ci vuoi fare», rispose Bino ridendo; poi con
aria rassegnata lo invitò a seguirlo.
Si diressero verso la porta del locale esplosivi, uno sgabuzzino con una porta blindata costruita dagli stessi operai
della Mako. Bino indicò un grosso contenitore di plastica
grigia, una scatola grossa come un baule, con maniglie
rosse. Lo portarono all’esterno del piccolo locale e lo deposero delicatamente e terra. Bino lo aprì e tirò fuori un
oggetto cilindrico che nelle sue grandi mani sembrava un
grosso sigaro, e mentre lo passava in quelle di Stefano disse: «Se vuoi divertirti sott’acqua usa questo, è l’ultimo che
mi è rimasto.»
Stefano non capiva cosa fosse quel coso, a prima vista
sembrava una lattina di birra da mezzo litro, con una parte
delle superficie cilindrica, appiattita, come se fosse il lato
con cui appoggiarla. Una specie di lungo cerotto di carta
metallica copriva un rigonfiamento molliccio, proprio sulla parte piatta; un anello dello stesso materiale, permetteva
di togliere la striscia di protezione e un secondo anello di
metallo sopra la lattina dava l’idea che strappandolo qualcosa sarebbe successo.
Bino lasciò che l’amico lo rigirasse tra le mani per qualche secondo, poi visto che il giovane non si pronunciava,
spiegò che si trattava di una bomba termica. La Mako la
usava per stressare piccoli pali o tubi che dovevano essere
tagliati grossolanamente.
Tirando l’anello di carta metallica si scopriva un cuscinetto di sostanza appiccicosa che fungeva da adesivo; bastava appoggiarlo a qualsiasi superficie più o meno pulita
e quel cilindro non si staccava più; il collante funzionava
anche in acqua di mare e se veniva a contatto con la pelle o
con il neoprene della muta non c’era verso di toglierlo.
Il secondo anello, una volta strappato, dava inizio a una
reazione chimica che portava in pochi secondi la temperatura del cilindro a circa seicento gradi.
Con quel sistema era possibile shockare termicamente
piccole condutture subacquee che con il successivo repentino raffreddamento si indebolivano strutturalmente sempre di più. A quel punto con semplici attrezzi era possibile
procedere al taglio o alla rottura completa.
Il vantaggio nell’utilizzo dello shock termico era che si
poteva utilizzare con il sommozzatore in acqua, anche se a
debita distanza. All’interno del cilindro vi era un particolare tipo di esplosivo che miscelato ad un elemento ritardante impediva l’esplosione del composto ma ne causava la
veloce combustione. Il calore generato stressava il metallo
producendo come effetto collaterale una grande quantità di
vapore che risaliva in superficie vorticosamente. La reazione termica manda in ebollizione l’acqua circostante formando grosse bolle di vapore che salgono in superficie e la
temperatura circostante a diversi metri di distanza sale oltre i quaranta gradi. Occorre stare ad almeno trenta metri
di distanza per non subire danni. Nel caso invece dell’uso
dell’esplosivo tradizionale tutti i sommozzatori devono essere fuori dall’acqua altrimenti la morte è certa.
La Mako aveva utilizzato quel sistema per demolire i
pali di un pontile ormai vecchio; la passerella era stata
smantellata da una ditta di demolizioni, ma i pali dovevano
essere tagliati vicino al fondo. Su pressione degli ambientalisti il Comune preferì utilizzare i bombolotti termici,
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che anche se ad un costo maggiore non causavano, come
l’esplosivo, la morte di pesce e altra vita marina.
«Costano un sacco di soldi, ma tanto paga il Comune di
Alassio», disse Bino.
«Ma… Sono sicuri?»
«Ci puoi sparare dentro», disse sorridendo Bino.
«L’unica cosa che non devi fare è tirare l’anello rosso; se
lo tiri devi essere in acqua e allontanarti di almeno trenta
metri in tre minuti, altrimenti esci lesso come una piovra
con le patate.»
Stefano prese l’oggetto, anche se non sapeva cosa farsene, la richiesta di esplosivo era stata fatta solo per vedere
cosa avrebbe detto Bino, ma ora che gli era stato donato un
giocattolino divertente e relativamente innocuo, decise di
tenerlo.
«Ma è legale, non è che se me lo trovano finisco in gattabuia con qualche terrorista islamico?»
Stefano venne rassicurato; il prodotto era una novità e
nemmeno gli artificieri lo conoscevano; inoltre fuori dall’acqua la reazione non poteva innescarsi, essendo infatti
l’acqua stessa parte della reazione.
Mentre si avviavano all’uscita, Stefano vide una grossa
macchia arancione sul pavimento e schizzi dello stesso colore tutto intorno, non era certo sangue ma la cosa lo incuriosiva e chiese a Bino cosa fosse successo.
Si trattava di Eosina, una sostanza chimica colorante.
«Ne abbiamo ordinati cinque litri, ma hanno sbagliato e
ce ne hanno mandato un bidone da cinquanta litri, la stiamo travasando nelle bottiglie di PET per poterla usare»,
disse Bino senza toccare nessuno dei recipienti, cosa che
invece fece Stefano, sporcandosi di quella infida sostanza.
«Ma a cosa vi serve?»
«La usiamo per vedere dove perde una conduttura; ne
butti un bicchiere in un cesso e dopo un’ora sul tubo della
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fogna vedi da dove esce l’acqua sporca tinta di arancione»,
spiegò all’amico.
«Me ne dai un po’?» chiese Stefano senza neanche sapere cosa farne.
«Quanta ne vuoi?» chiese Bino sorridendo.
Stefano adocchiò alcune bottiglie dell’acqua minerale
da un litro e mezzo già piene di liquido e ne chiese una.
«Belin», disse Bino, «fai attenzione, se ti cade in mare
senza tappo tingi il mare di arancione, da qui fino alla
Corsica.»
«Ma dai, colora così tanto?»
«Ne basta una tazzina da caffè in una piscina e in acqua
non vedi più niente», rispose sogghignando Bino.
Prima di andarsene Stefano chiese altre informazioni
sul centro di acustica sottomarina dell’università di Pisa;
era deciso a fermarsi durante il ritorno a casa.
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CAPITOLO VENTIQUATTRO
CAPO NOLI
UNA VILLA residenziale con ampie finestre, una di quelle
che si affittano una volta nella vita per regalarsi una vacanza da sogno. Il centro di acustica sottomarina sembrava
una delle tante costruzioni che sorgono sul promontorio di
Capo Noli.
Una cosa lasciava perplessi, il numero delle antenne
istallate sul tetto, e tra tutte spuntava quella del radar nautico, simile a quelle montate sulle navi.
La villetta a due piani era composta da una sala ascolto
allestita nel grande salone al piano terra; all’interno comodissime postazioni di computer tenevano occupati, ventiquattro ore su ventiquattro, tre tecnici intenti a registrare i
suoni provenienti dai sensori idrofonici sistemati in profondità. Al piano superiore, una delle stanze da letto, la più
grande, era stata adibita a torre di avvistamento; oltre alla
postazione radar, proprio davanti alla grande finestra, vi
era una stazione telemetrica.
Il centro era informato su tutte le navi in transito entro
cinquanta miglia da Capo Nol; di ogni nave captava il rumore caratteristico delle eliche e ne realizzava una specie
di impronta sonora digitale. La serie di impronte serviva
per il perfezionamento della ricerca passiva con un nuovo
tipo di sonar in dotazione ai nuovi sommergibili in costruzione nella Marina Militare Italiana.
La procedura standard prevedeva l’identificazione ottica della nave a mezzo telescopio terrestre, la tracciatura
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col radar, in modo da sapere con precisione quanto era distante dai sensori acustici, e la registrazione del rumore a
varie distanze. Tutti i file venivano poi elaborati con un
software, realizzato dall’università di Pisa. Bastavano tre
rilevamenti dello stesso rumore e il software lo avrebbe
poi riconosciuto da qualunque direzione di provenienza e
con tutte le interferenze possibili. Le tracce ottenute diventavano dotazione standard del software degli apparati sonar di nuova costruzione. Una volta acquisito il rumore di
un’elica, il computer avrebbe velocemente cercato quello
più simile nell’archivio, consentendo di identificare la nave o quanto meno il tipo.
La linea dei sensori era composta da dieci grossi idrofoni, grandi come un barilotto della birra, distanziati di circa
cinquecento metri l’uno dall’altro e affondati in acqua profonda. I barilotti erano ancorati al fondo con lo stesso cavo
che serviva alla trasmissione dei dati e che, rivestito da una
calza gialla di kevlar, resisteva ad una trazione di cinquecento chili. I sensori erano a cinquanta metri di profondità,
e sembravano palloncini attaccati al fondo del mare in balia delle correnti.
La manutenzione mensile era possibile solo attivando
dei pinger interni al sensore: un rilevatore calato in mare
indicava direzione e distanza dell’idrofono, senza quei dati
era praticamente impossibile trovare i sensori. Non tutti i
sommozzatori erano idonei a quel lavoro, lavorare a cinquanta metri, nel blu assoluto, senza riferimenti, porta alla
perdita dell’orientamento. Non si vede il fondo, non vi è
nulla a cui aggrapparsi, solo il blu, in ogni direzione, e si è
soli, l’unica compagnia è quella del rov che segue ogni
istante dell’intervento, sia per sorvegliare l’operatore, sia
per fornire al committente la prova che il lavoro è stato
eseguito.
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Bino aveva suggerito di chiedere del dottor Sisti, un
giovane a capo della struttura: se qualcuno poteva fare
qualcosa era lui.
Al citofono Stefano chiese di Sisti.
Al cancello della villa una telecamera scrutava tutti i
nuovi visitatori; il cancello fu aperto. Stefano percorse il
vialetto di ghiaia che portava all’entrata, fu accolto da una
figura marziale, ritta, fuori dal portoncino di entrata. Quel
tipo era così innaturale nella sua tuta da giardiniere da
sembrare un modello per il catalogo Postal Market; non
una macchia, non una piega o una sgualcitura, e soprattutto non aveva l’odore da giardiniere, quel misto di sudore,
erba e terra che emana ogni servitore della natura.
«Ha un appuntamento con il dottor Sisti?» chiese il finto giardiniere.
«No.»
«Per quale motivo desidera conferire con il dottor
Sisti?» chiese ancora il giovane con i capelli rasati e il viso
abbronzato, non abbastanza da coprire una vistosa voglia
color cioccolato proprio sul collo.
«Per una richiesta di collaborazione.»
«Entri e si accomodi. Attenda qui, chiedo se il dottor
Sisti può riceverla. Chi devo dire?» L’energumeno non
aveva mosso nessun lineamento del volto, a parte un leggero movimento delle labbra, tutto il viso era rimasto inespressivo, come affetto da paresi facciale.
«Dottor Stefano Tixera.»
«Attenda qui», ripeté l’energumeno.
Il guardiano si girò ed entrò nel grande salone che fungeva da sala ascolto, poi salì velocemente al piano superiore.
Stefano non voleva certo diventare parte dell’arredo,
così fece qualche passo e sbirciò nel grande salone dove
invece dei divani in agorà e il mega televisore a cristalli liquidi, vi erano tavoli con computer tutti collegati tra loro,
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ognuno con due grossi monitor, e a ogni computer un giovane sembrava stesse facendo la cosa più importante del
mondo. Fu a una di quelle postazioni che vide un giovane
dall’aspetto familiare. Ricordava di averlo già visto al consorzio ma non ricordava se faceva le immersioni o era lì
per qualcosa d’altro. Di giovani ne aveva visti molti negli
ultimi mesi ma quello gli era rimasto impresso per i capelli, lunghe treccine da rasta di sottili capelli castano chiaro,
quasi un biondo scuro, lunghi fino alla spalla. Il giovane
non aveva più le treccine ma al loro posto c’era una serie
di ciuffi di capelli cotonati che andavano in ogni direzione,
sembravano fiocchi di bambagia. Quella capigliatura stonava proprio con il giardiniere e con la sorveglianza della
casa, c’era qualcosa che sfuggiva a Stefano, ma non riusciva a capire cosa.
Il ragazzo con i capelli esplosi si sollevò per qualche secondo dal monitor su cui lavorava e diresse lo sguardo verso la finestra dove vide l’immagine di Stefano riflessa nel
vetro o forse ne sentì la presenza, di fatto si voltò verso il
direttore del consorzio e subito lo riconobbe, salutandolo
con un ampio gesto della testa.
Non poteva sentire poiché come tutti gli operatori aveva delle cuffie sulle orecchie, tipo quelle usate negli stereo
ad alta fedeltà; il rumore infatti andava ascoltato al meglio
delle possibilità tecnologiche.
Ricevuta risposta al saluto si rituffò nel suo mare di
ronzii.
Stefano si spostò dalla soglia del salone e riprese il suo
posto vicino alla scrivania del giardiniere inamidato e dette un’ulteriore occhiata all’ingresso adibito a guardiola.
Alle spalle della scrivania vi erano dei fogli appesi e decise di avvicinarsi per leggere cosa vi era scritto.
Alla vista delle righe una leggera preoccupazione lo
morse, poi più leggeva più la preoccupazione aumentava.
Porca zozza pensò, i nomi della lista erano scritti in minuscolo mentre i cognomi erano in maiuscolo, come è in
uso nelle Forze Armate. Quella era una struttura delle
Forze Armate e probabilmente della Marina Militare.
In quel momento il dottor Sisti fece il suo ingresso nel
piccolo atrio; minuto, non più alto di un metro e settanta,
molto giovane, con dei molli capelli neri e un paio di occhiali in metallo nero di forma ovale. Il viso era quello da
secchione della classe e la tuta da sommergibilista che indossava diceva tutto sullo stato delle cose.
«Dottor Tixera? Lei è il direttore del consorzio Vittorio
Veneto vero?» chiese il giovane stringendo la mano freddamente.
«Sì, sono io», rispose Stefano, molto sorpreso di essere
riconosciuto.
«Possiamo fare qualcosa per lei? Abbiamo saputo dell’incidente!» chiese il giovane con la faccia di un adolescente che non avrebbe mai fatto quanto richiesto.
«Proprio per questo sono qui, volevo chiedere se nelle
giornate di sabato e domenica scorsi avete notato del traffico sottomarino irregolare, intendo un sommergibile o
qualche minisommergibile?» chiese Stefano quasi sicuro
che il giovane ufficiale avrebbe negato ogni attività del
centro.
«Dalla sua richiesta deduco che lei è al corrente della
nostra attività. Non le chiederò come ne è venuto a conoscenza così non dovrà sforzarsi per inventare storie assurde. Noi ovviamente non forniamo servizi a privati o enti,
ma in via del tutto eccezionale verificherò il traffico di
quei giorni; in cambio voglio la sua parola che non divulgherà informazioni su questa struttura e non farà ulteriori
richieste.»
Il giovane, anche se aveva l’aria da timido, non lo era
affatto e inoltre aveva sfoderato un’astuzia da vero strate-
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ga, scambiando qualcosa con la promessa di non interferire mai più nelle attività del centro.
«Va bene.»
«Chiama Kodó», disse al guardiano il giovane ufficiale,
che da poco uscito dall’Accademia Navale, stava conseguendo il dottorato in acustica sottomarina presso l’università di Pisa. Un futuro da ricercatore nella Marina Militare
attendeva il promettente ufficiale.
Dopo pochi istanti, dietro il giardiniere guardiano apparve il ragazzo con i capelli da rasta, lo chiamavano Kodó
perché nei momenti di pausa, per ricaricarsi, ascoltava i
percussionisti dell’isola di Hokkaido, i Kodó appunto.
Il rasta fece finta di non conoscere Stefano il quale assecondò l’atteggiamento del giovane, l’ufficiale gli ordinò
di portare i tabulati del traffico di sabato e domenica. Il
giovane Kodó sparì per tre minuti e al suo ritorno porse i
fogli appena stampati.
«Lei teme che un sommergibile si sia avvicinato troppo
al relitto e abbia causato l’incidente?» chiese il dottor Sisti
a Stefano.
«Qualcosa del genere», rispose guardando i presenti
che sembravano fatti di cera, nessuna emozione traspariva
di loro volti.
Posati i tabulati sulla scrivania, il dottor Sisti li spulciò
velocemente scuotendo la testa impercettibilmente; la posizione in cui si era messo impediva a Stefano di sbirciare
le pagine e Stefano già immaginava il responso.
«Nessun sommergibile militare è transitato nella nostra
area di ascolto sabato o domenica scorsi», disse rialzandosi,
il militare occhialuto, e guardando dritto negli occhi Stefano.
Era ovvio, pensò Stefano; non furono gli occhi del dottor Sisti a rivelare la menzogna ma quelli di Kodó che con
un impercettibile movimento delle ciglia sconfessò il proprio superiore.
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Stefano sapeva che non era il caso di insistere e soprattutto di dubitare della validità delle informazioni, per cui
non aggiunse altro.
«Anche se fosse passato un sommergibile», disse Sisti,
«non si sarebbe mai avvicinato al relitto tanto da essere un
pericolo per i subacquei; vi sono molti altri relitti su cui si
addestrano i mezzi subacquei.»
«Certo», disse Stefano, come se volessero convincerlo
che il mare è zuccherato da Nettuno. Salutò stringendo la
mano al dottor Sisti e se ne andò via.
Durante il viaggio di ritorno strane visioni accompagnarono Stefano. L’ipotesi che un sommergibile militare
avesse causato l’incidente di Paolo era assurda, altamente
improbabile. Rimaneva da spiegare l’orma trovata nei
pressi della poppa del Vittorio Veneto. Stefano era sempre
più convinto che Marco Ablondi avesse visitato il relitto
col minisommergibile, ma anche in quel caso era altamente improbabile che l’evento fosse causa della morte di
Paolo.
Se Paolo avesse visto un sommergibile, grosso o piccolo che fosse, durante l’immersione sarebbe riemerso subito. Inoltre il sommergibile non si sarebbe mai avvicinato ai
lati del relitto, il campo boe con le catene ancorate al fondo
lo avrebbe tenuto ad almeno cinquanta metri di distanza.
Ma più di tutto quello che convinceva Stefano dell’improbabilità del coinvolgimento di un sommergibile era la
mancanza di motivazione, perché il comandante di un sottomarino avrebbe dovuto rischiare la propria unità per avvicinarsi a un relitto, al suo relitto?
Per quanto riguardava il minisub, potevano esserci
motivazioni differenti, tutte abbastanza plausibili, come
addestrare il pilota all’esplorazione dei relitti, o fare praWrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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tica nel pilotaggio vicino a grossi ostacoli, ma un dubbio
rimaneva.
Tra Varazze e Oneglia ci sono diversi relitti, perché arrivare fino lì?
Stefano non riusciva a rispondere a questa domanda ma
alcuni pezzi di un puzzle invisibile iniziavano ad incastrarsi. Ablondi aveva le mappe degli echi non sub, quelle utilizzate dalle unità militari, quindi conosceva la posizione
dei relitti della costa ligure, perché era interessato al suo?
Voleva semplicemente farci delle immersioni gratis o il
motivo era un altro? E poi perché cercava in tutti i modi di
visitarne l’interno, al punto da convincere i suoi due amici
ad assecondarlo?
Domande alle quali poteva dare una risposta solo strizzando per bene tutta la sua fervida fantasia. Rinunciò, occupando la mente con la pianificazione delle prove della
sua “creatura”, assopita nel vano posteriore del Porter.
Era ormai tarda sera quando arrivò al consorzio, decise
di salire velocemente in ufficio per controllare se vi erano
documenti da firmare o messaggi importanti, tipo un fax
dalla Finlandia o una e-mail. In mezz’ora sbrigò le faccende burocratiche lasciando quanto doveva essere firmato
sulla scrivania di una delle impiegate del primo piano, poi
tornò a casa stanco e assonnato, il rebreather lo avrebbe
scaricato l’indomani.
Nessun fax, nessuna e-mail.
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CAPITOLO VENTICINQUE
MARCO
MARCO ABLONDI avrebbe potuto fare il fotomodello o l’atto-
re invece che l’ingegnere navale; il suo aspetto fisico lo
aiutava in ogni istante della vita, e sapeva come ottenere il
massimo vantaggio da ogni situazione. Alto un metro e ottantanove, biondo e con occhi verdi, aveva un fascino che
turbava anche gli uomini con un misto di ammirazione e
invidia per quel corpo plasmato alla perfezione.
Un dono di natura coltivato in gioventù giocando a pallanuoto fino alla fine dell’università. Le spalle tradivano la
provenienza da uno sport acquatico, erano sovradimensionate, due ali che davano all’uomo un aspetto ancor più
massiccio e in acqua, con o senza bombole, era un pesce.
Pur essendo longilineo e magro aveva forza ed energia
ben superiori alla media, spostava le bombole come se fossero cestini della merenda; fatto strano per tutti, non aveva
mai il fiatone e sott’acqua consumava meno aria di tutti.
Con le donne si dava da fare per tenerle lontane, ne aveva sempre più di una intorno, pareva si mettessero d’accordo, una specie di alleanza per attaccare il biondo, a una
delle pretendenti sarebbe toccato, prima o poi. Non era
sempre così, a Marco le donne interessavano solo se potevano essere di aiuto nella vita, come la sua professoressa
di elettronica o quella di calcolo infinitesimale. Tutte usate, anche se pensavano il contrario. All’avvenenza fisica,
Marco univa un’instancabile resistenza sessuale peraltro
molto gradita dalle partner; in realtà si trattava di una graWrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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ve forma di disturbo psicologico, non raggiungeva mai
l’orgasmo perché considerava le donne indegne del proprio seme, tutte le donne. Non si era mai innamorato veramente e le femmine con cui aveva avuto una storia lo avevano abbandonato per disperazione, stanche di vivere a
fianco di un individuo che le considerava una serva in cucina e una puttana in camera da letto.
La vita di Marco non era stata facile; rimasto orfano all’età di otto anni, non ricordava molto di suo padre, lo vedeva di rado, quasi sempre imbarcato su una unità della
Marina Militare. Non ricordava nemmeno il funerale del
padre; infatti non ci fu, il corpo non venne mai trovato,
disperso in alto mare durante cattivo tempo, era la motivazione scaturita dall’inchiesta militare.
Un altro militare prese il posto del padre, un amico di
famiglia che lo trattò come un figlio proprio. Malgrado
l’affetto ricevuto dal nuovo padre, il carattere di Marco
prevalse e rovinò quel legame causando attriti e scompiglio in famiglia; la madre infatti doveva dimenarsi tra l’affetto materno dovuto a un figlio e quello verso un uomo
che si era occupato di lei in un brutto momento, un uomo
che in fondo amava.
La crisi familiare peggiorò col passare degli anni anche a causa dell’interferenza dello zio di Marco, il fratellastro del padre naturale. Rimasto in disparte per molti
anni, si ripresentò quando il giovane era ormai quindicenne, stabilendo con lui un’intesa che andava oltre le affinità caratteriali, era qualcosa di genetico. Marco finì per preferire la compagnia dello zio a quella del patrigno e la
madre non riusciva ad impedirgli di vedere lo zio ogni volta che voleva, anche se sapeva che al consorte dava molto fastidio.
Fu lo zio, dirigente della Marconi telecomunicazioni, a
consigliare a Marco di frequentare l’Istituto Nautico e poi
il corso di Ingegneria Navale: con le conoscenze che aveva
lo avrebbe sistemato in qualche cantiere o ente navale. Tra
zio e nipote si era instaurata una strana complicità, una
specie di patto di sangue, al punto da escludere completamente la madre e il patrigno, ormai rassegnati alla perdita
del ragazzo.
Appassionato da sempre di sommergibili, laureatosi
con una tesi sul doppio scafo toroidale con funzione di serbatoio di ossigeno per la propulsione sottomarina, con
l’aiuto dello zio riuscì ad essere nominato direttore dei lavori per la costruzione dei tre minisommergibili della
TGO.
Oltre che della costruzione doveva occuparsi del collaudo e della formazione degli equipaggi. Nel maggio
2001 fu inviato alla Comex per un corso di pilotaggio di
minisommergibili e batiscafi, a novembre 2001, sempre alla Comex frequentò un corso per tecnici iperbarici, lo stesso fatto da chi deve manovrare una camera iperbarica. Il
corso sarebbe servito per la gestione del comparto lock in
lock out dei minisommergibili. In quel corso insieme a
Marco vi era un suo assistente, già pratico di camere iperbariche, in quanto era un sottufficiale della Marina
Militare addestrato al COMSUBIN e congedatosi da alcuni anni.
Per il lavoro di Varazze, Marco Ablondi aveva concordato con il cantiere costruttore una sistemazione particolare: invece di essere sistemato in albergo o in appartamento,
aveva chiesto e ottenuto l’uso di un motorhome, preso in
leasing dal cantiere con la possibilità di riscattarlo per
l’importo rimanente una volta terminato il lavoro.
Il camper era posteggiato nell’area del cantiere e il sabato e la domenica Marco si dirigeva a Oneglia per fare
immersioni sul Vittorio Veneto. Posteggiava la casa su ruote duecento metri oltre la sede del consorzio, nella strada
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chiusa poco oltre il ristorante il Naufragio, da lì alla base
mare non c’erano più di trecento metri.
Il motorhome era molto confortevole, l’arredamento
non aveva nulla a che fare con i camper che affollano i
campeggi. Il letto matrimoniale era sistemato in coda, ampio e spazioso, la cucina era più attrezzata di quella di molti bungalow. Sotto il lettone vi era un garage per lo scooter
e la mountain bike; sul tetto il climatizzatore azionato dal
motore o dal piccolo generatore refrigerava l’interno nelle
torbide giornate estive. La zona notte ogni tanto era frequentata da qualche ignara signora convinta di iniziare una
torbida e appagante avventura sessuale, in realtà tutto finiva nel giro di qualche giorno, lasciando inaridita l’anima
della sfortunata. Nessuna donna resisteva più di qualche
settimana e lui non faceva nulla per trattenerle.
Anche gli amici erano esemplari rari nella sua vita, preferiva stare da solo, anche se non faceva nessuna fatica ad
instaurare rapporti con le persone, anzi aveva la rara capacità di capire quale era il punto debole delle persone, quella macchia nascosta che tutti vogliono celare ad ogni costo
e a seconda delle sue necessità utilizzava quel dono per
plagiare o ferire interiormente le persone. E se decideva di
ferire lo faceva con crudeltà.
Marco Ablondi si interessò del relitto dopo aver letto le
memorie del suo patrigno, imbarcato per diversi anni sul
Vittorio Veneto come ufficiale di macchina. L’uomo si era
sposato con la madre e aveva lasciato la carriera militare
per accudire la donna e il figlio di pochi anni, ma dal diario
trasparivano motivazioni ben diverse e coinvolgevano anche il vero padre di Marco. Nessuno sapeva che il vecchio
compilasse un diario e nessuno sapeva cosa scrivesse
Martelli nel suo diario; solo dopo la morte per tumore allo
stomaco, i familiari riuscirono a leggere le pagine di quei
diari che nel corso degli anni erano diventati tre. Martelli
non scriveva tutti i giorni, ma solo quando si sentiva depresso; era stato lo psicologo che lo aveva in cura a consigliare quella terapia, e lui ogni volta che si sentiva assalito
dalla malinconia, scriveva quello che gli passava per la
mente.
Ma non furono quei diari a suscitare l’interesse per il
relitto bensì un piccolo libricino scritto venti anni prima,
certamente uno sfogo. Su quel taccuino rilegato in pelle
marrone dalle pagine ingiallite vi erano scritte tutte le parole che il comandante Martelli non aveva potuto raccontare circa la morte dell’amico, il padre di Marco, parole
che mai avrebbe pronunciato alla presenza di qualcuno,
perché non voleva infangare la memoria del commilitone
perso. Scrivere quelle pagine fu l’unico modo per liberarsi
di quel peso, ma non fu sufficiente, il tumore lo colse proprio perché aveva deciso di tenersi tutto dentro.
Da diversi mesi Marco non faceva più visita alla madre,
si recò a Livorno solo in occasione del funerale del patrigno, più per dovere che per amore. Poche settimane dopo
la madre lo chiamò e gli disse che avrebbe ricevuto le fotocopie del diario con alcune informazioni sulla morte di suo
padre, il suo vero padre, informazioni di cui Marco ignorava l’esistenza.
Martelli non voleva che altri sapessero, almeno fino alla
sua morte.
Quando lesse il diario di Martelli la vita di Marco cambiò: ora sapeva come era morto suo padre, e sapeva che gli
aveva lasciato qualcosa, una piccola eredità, bisognava solo andare a prenderla. Ne parlò solo con lo zio, l’unica persona di cui si fidasse, l’unica persona che sentiva simile a
lui. Lo zio rimase allibito nel sentire la storia e il piano di
Marco ma alla fine disse che era giusto quello che stava facendo, e che quello che voleva prendersi gli spettava di diritto. Marco si accorse che mentre raccontava il piano allo
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zio questi cambiava espressione, fino quasi a sentirsi male,
ma per una volta quella empatia che gli permetteva di leggere le emozioni altrui non funzionò, non funziona mai
con le persone troppo simili o dello stesso sangue.
Pensò si trattasse del ricordo della morte del fratello e
non ci fece più caso. Era ben altro, un fantasma tornato dopo molti anni, si appropriava della vita dello zio: da quel
giorno gli avrebbe fatto visita continuamente per annunciargli la resa dei conti.
Lo zio sapeva che sarebbe arrivato quel momento e attese gli eventi, rassegnato.
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CAPITOLO VENTISEI
SABATO
del sabato si profilava piena di impegni,
Stefano dormì come un sasso fino alle sette, poi accortosi
di essere solo nel lettone, gettò via le coperte e si ordinò di
alzarsi. Eseguì l’ordine prontamente e si diresse alla doccia. Per colazione decise di mangiare due panini con il tonno, ogni volta che si preannunciava una giornata dura, preferiva iniziare con lo stomaco pieno in modo da avere autonomia fino a pomeriggio inoltrato, La sensazione di fame che assale la mattina quando si è in barca è una delle
più terribili, i succhi gastrici insorgono e reclamano qualcosa da digerire. Meglio prevenire quel fastidioso senso e
riempire lo stomaco già dalle prime ore della mattina. Alle
sette e quarantacinque decise che tutto il mondo doveva
essere operativo come lui e chiamò con il cellulare Ruby.
La voce che rispose sembrava provenisse dall’oltretomba,
ma furono sufficienti pochi secondi per trasformare l’amico ancora addormentato in un fiume di parole incontenibili. Ruby parlava sempre e molto, soprattutto con le persone
che gli piacevano e Stefano era il suo amico preferito, anche se si conoscevano da poco.
«hhuè, ma da dove parli? Da una cripta del cimitero?»
chiese Stefano all’amico.
«Sì, no, chi? Ah ciao. Belin ma soffri d’insonnia?» iniziò Ruby, «ma ti pare il caso di svegliare la gente di notte?»
«Va che sono le otto di sabato mattina! Siamo sulla terra ed è l’anno 2002!» A Stefano piaceva svegliare il sonLA
MATTINA
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nolento amico, una delle sue caratteristiche più sorprendenti era che al risveglio gli occorreva un’ora buona per riprendersi. Da quando apriva gli occhi all’inizio di qualsiasi attività trascorreva un’ora di vuoto. Nemmeno la colazione o la doccia era in grado di fare; l’ora successiva all’apertura degli occhi trascorreva restando immobile catatonico, seduto sul letto, osservando tutto ciò che vi era intorno, cercando di riconoscere qualche oggetto familiare.
Sembrava che il cervello di Ruby funzionasse con delle
vecchie valvole che hanno bisogno di scaldarsi prima di
funzionare. In quell’ora di coma vegetativo, Ruby non parlava, non sentiva e soprattutto non capiva nulla.
Stefano conosceva quelle caratteristiche tecniche e decise di andare di persona a casa dell’amico, dopo averlo
avvisato, pur sapendo che era fiato sprecato.
«Sto venendo a prenderti, dobbiamo fare un’immersione, preparati.» Sì, preparati, pensò Stefano, lo troverò a
letto addormentato.
In nemmeno dieci minuti fu a casa di Ruby, stranamente non era a letto ma seduto sul divano e con ancora il cellulare nella mano e lo sguardo fisso nel vuoto.
«Eccomi, arrivo», disse in stato comatoso al suono del
campanello, «belin, ma con cosa sei venuto, col teletrasporto?»
Appena entrato, Stefano vide l’amico zoppicare vistosamente, non riusciva a tenera la gamba sinistra appoggiata a terra e per camminare sembrava facesse un veloce
scatto con la destra e un passettino finto con la sinistra.
«Che hai fatto?» chiese Stefano preoccupato.
«Sapessi», sospirò Ruby, «senti un po’, mentre ti racconto fai il caffè che io non posso mica stare in piedi.»
Mentre l’amico procedeva alla preparazione del caffè,
Ruby si sedette alla sedia del tavolino della cucina, l’unico
tavolo di tutto il monolocale.
«Ti ricordi l’altra sera alla cena con Tino?» chiese all’amico che rispose con un cenno, «quando voi tre siete andati via, io e lui siamo rimasti sul lungomare a parlare e mi
ha dato un consiglio per far colpo sulla farmacista, sai
quella rossa ricciola di Corso Garibaldi?”, Stefano continuava ad annuire.
«Beh, mi ha detto che lui, al mio posto, sarebbe andato
lì e avrebbe chiesto una confezione di preservativi Golden
Boy della Pirex; è un tipo di preservativo che fanno per il
Sud Africa, molto abbondante per via delle misure che
hanno i neri. Lui dice che di solito le farmaciste si incuriosiscono e alla fine accettano un invito a cena.» Ogni tanto
tra le parole di Ruby si inframmezzava una smorfia di dolore, dolore che non lo distolse dal racconto e dal sistemarsi i capelli col suo pettinino.
Proseguì quasi senza interruzione: «Così ieri pomeriggio
sono andato alla farmacia alle tre e mezzo quando apre, a
quell’ora c’è lei da sola, e con tutto il mio coraggio sono entrato a chiedere una confezione di preservativi Golden Boy.»
Mentre aspettava che il caffè uscisse, Stefano ascoltava
con attenzione cercando di sopprimere la risata che sapeva
sarebbe esplosa da lì a poco. L’amico continuava a raccontare.
«Allora appena lei mi ha chiesto cosa desideravo io le
ho detto la marca e il tipo di preservativi spiegando che
non trovavo quella misura da nessuna parte e lei mi fa
“non si preoccupi, da noi li troverà sempre, un sacco di
gente viene qui a chiederli sperando di fare colpo su di me,
ma a me piacciono i piselli normali, simpatici, basta che
siano duri.” Belin, son diventato rosso, poi ho preso il coraggio a due mani e le ho detto “come il mio, simpatico ma
di marmo, come in questo momento”; pensavo che scherzasse e invece mi fa “perché non vieni di qua dal bancone
e me lo fai vedere”, e intanto guardava che non passasse
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nessuno.» Stefano aveva già cominciato a sogghignare,
pur non immaginando come sarebbe continuata la storia, la
scena raccontata dall’amico aveva già qualcosa di comico.
Ruby continuò con dovizia di particolari.
«Vai mi sono detto, è fatta, ora si tromba, faccio il giro
del bancone, abbasso la cerniera e tiro fuori il boa, appena
fa capolino dai jeans, quella lì mi molla uno sberlone che a
momenti mi spezza il collo, e poi continua, calci, pugni,
ginocchiate, fioccavano come in una tempesta di neve, e io
ero lì a proteggere la belva con le mani, ma te lo sapevi che
quella lì faceva full contact?»
Stefano scosse la testa.
«A un certo punto mi ha dato un pugno che ho visto nel
cervello una luce blu, tutto blu, e subito dopo mi da una ginocchiata a metà della coscia sinistra che pensavo me l’avesse spezzata, belin che male, poi mi fa “e adesso se non
corri fuori subito chiamo i carabinieri”. Belin, correre, ero
zoppo con la belva di fuori come potevo fare, ben, quella lì
aveva già la cornetta in mano ma io prima che finisse il numero ero già a casa.»
Stefano ormai era piegato in due dalle risate e il caffè
ribolliva nella moka.
«Ma secondo te Tino lo sapeva che quella lì faceva full
contact?» chiese Ruby convinto di essere stato buggerato.
«Se lo sa è perché le ha prese anche lui!» disse Stefano
mentre continuava a ridere.
Il caffè era talmente caldo che ribolliva anche una volta
versato nelle tazzine.
«Ma… Secondo te quella lì mi denuncia per violenza
sessuale?» chiese Ruby preoccupato, fissando l’amico in
attesa di una risposta confortante.
«Ma tu l’hai solo tirato fuori, mica lo hai messo dentro,
al massimo ti becchi un atti osceni in luogo pubblico e tentata violenza, se sei incensurato al massimo ti fai due o tre
mesi», rispose Stefano, deludendo l’amico che sperava in
un’amnistia immediata.
«Stai tranquillo», disse ancora, con voce pacata all’amico zoppo, «se voleva denunciarti a quest’ora eri già al fresco. Però d’ora in avanti un po’ più di rispetto per le donne.»
«Belin, se penso a tutti i soldi che ho speso in medicine,
ti serve mica qualche farmaco, metà prezzo e tre per due»,
disse Ruby zoppicando fino ad uno stipetto che appena
toccato si aprì e travolse il poveretto con una valanga di
scatolette di medicinali.
«Queste sono favolose», disse a Stefano, «una supposta
di Voltaren e passa qualsiasi tipo di dolore, meno male che
ci sono, ne sto prendendo un casino.»
Alla vista della montagnetta di medicinali che circondava Ruby raggiungendo il ginocchio Stefano allibito chiese:
«Ma quanti soldi hai speso in medicine, ma te sei proprio
stupido, con quei soldi ti facevi ogni sera la russa che sta
sul lungomare, quella bionda alta come me, e secondo me
è anche meglio della farmacista.»
«Sì lo so», rispose Ruby, «ma a me piace la conquista.»
Stefano a quelle parole chiuse gli occhi, non sapeva cosa pensare, poi disse: «Belin, ma te non sei mica normale,
vuoi conquistare una farmacista comprando preservativi
che potresti usare per farci un canotto? Secondo me quando davano via il cervello tu hai sbagliato fila e ti hanno
messo nella scatola cranica del gelato alla pesca.»
Ruby era indeciso se ridere o offendersi e in bilico tra le
due espressioni aveva assunto un’aria buffa, accentuata dai capelli perfettamente pettinati e dall’abbigliamento indossato,
canottiera di cotone a coste e pantaloni del pigiama a righe.
Decise di cambiare discorso.
«Ma senti un po’, proprio oggi devi fare l’immersione,
non puoi aspettare qualche giorno che magari sto meglio?»
chiese, tamburellando sulla scatola di supposte.
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«Ma sì, aspettiamo la prossima estate già che ci siamo.
Certo che la devo fare oggi, la devo fare perché due imbecilli che lavorano con me hanno detto una cosa e ne hanno
fatta un’altra», rispose Stefano un po’ alterato dal lassismo
del suo tecnico.
Ruby disegnò sul proprio viso l’espressione di un bambino imbronciato, poi scartando una supposta di Voltaren
disse: «Belin, con tutti questi siluri in culo mi viene la narcosi a dieci metri.»
Stefano rise, e si rassegnò a fare anche quel giorno l’immersione da solo, sperava di trovare qualcuno al consorzio
che lo accompagnasse. Salutò l’amico e gli disse di stare a
casa ancora qualche giorno, al massimo lunedì doveva essere di nuovo al lavoro e prima delle sette. Lo disse in modo che sembrasse un ordine.
Al consorzio sembrava fosse un giorno di festa, alle nove e trenta non c’era ancora nessuno, e solo qualche solitario pescatore era al lavoro lungo le banchine del porto.
Tutti i locali della base mare erano chiusi e nessuno si
vedeva nei dintorni. Lasciato il Porter Piaggio al solito
parcheggio si diresse al bar di fronte alla Capitaneria di
Porto. Lì fortunatamente vi trovò Almiro il compressorista
e il comandante Santi, chiese un caffè coi fiocchi al barista
e se ci fossero novità al comandante.
Santi smise di sorseggiare l’espresso e scosse la testa
orizzontalmente, poi ingoiato lentamente il pregiato liquido disse: «Niente, il corpo non è stato trovato.»
Rivolto ad Almiro, il compressorista, gli chiese: «Ma tu
lo porti il gommone?»
«Certo», rispose con aria stupefatta dall’insolita domanda.
Stefano sapeva che Almiro era in grado di condurre un
gommone, ma con quella domanda voleva testare la disponibilità del soggetto ad accompagnarlo.
«Bene», rispose, «ho un lavoretto per te, comandante,
oggi vado a controllare una zona attorno alla poppa che secondo me non è stata controllata adeguatamente, così, tanto per essere sicuri”, Stefano sperava che l’ufficiale non
avesse obiezioni da fare.
«Va bene», ordinò il comandante, «ma se trova qualcosa mi avverta subito”, ripose la tazzina sul piattino e uscì
di fretta salutando con un cenno della testa.
Rimasti in due, Stefano si avvicinò al compressorista e diede disposizioni per la mattinata: caricare il suo bibombola di
trimix, quello standard, il diciotto quaranta; caricare tutte le
bombole disponibili di nitrox cinquanta; portare il gommone
del consorzio alla banchina del consorzio, e aspettarlo lì.
Il rebreather era ancora nel Porter. Decise di lasciarlo fino a sera, in modo evitare sguardi indiscreti.
Avrebbe fatto volentieri a meno di passare dall’ufficio,
ma era suo dovere, così si diresse al consorzio, distante un
centinaio di metri.
Le due ragazzotte addette alla vendita dei gadgets erano
al lavoro, chiuse nel loro piccolo bugigattolo, inscatolavano quanto era stato ordinato per e-mail, avrebbero spedito
tutti i pacchi in mattinata.
L’aula dei corsi era vuota; al primo piano una delle impiegate della regione stava lavorando al computer come
sempre, spostò la testa quel tanto che bastava per vedere
chi stesse salendo.
«Buongiorno», disse Stefano facendo sobbalzare la donna, «se c’è qualcosa da firmare o visionare me la lasci sulla
scrivania, nel pomeriggio sono in ufficio; se c’è qualcosa di
importante me lo dica subito che devo andare in mare.»
«A dopo», disse la donna nascondendosi dietro il video.
Stefano salì ugualmente nel suo ufficio, si avvicinò al
fax e prese il bollettino meteo; sperava ci fosse anche un
altro fax, magari dalla Finlandia, ma il bollettino era solo.
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Dalle informazioni schematiche Stefano deduceva che il
bel tempo sarebbe durato qualche giorno, anche se leggermente nuvoloso, il mare era calmo, ideale per le immersioni.
Alle undici era alla base mare, dove Almiro lo attendeva smanettando al compressore; mancavano poche atmosfere perché il pressostato spegnesse il compressore, il bibombola di Stefano era carico.
Scelse la muta di neoprene da sette millimetri, le solite
pinne con le molle e il suo GAV personale, mentre sostituì
l’erogatore primario Apeks con un Poseidon.
Quest’ultima scelta era d’obbligo ogni volta che doveva
incontrare Lula, la murena di poppa. Lula era così grossa
che con una sella avrebbe potuto essere un destriero sottomarino, la sua aggressività regrediva solo di fronte ad un
consistente getto di bolle e il Poseidon era l’ideale in quella situazione. Stefano aveva già provato quel trucco e fino
ad allora gli aveva evitato spiacevoli e intimi contatti. Non
ci teneva a riemergere con qualche dito mancante.
Nel locale del consorzio, Almiro aveva già riempito sei
bombole di Nitrox cinquanta da cinque litri e due da sette
litri, tutte in alluminio non verniciato e con rubinetteria
Scubatec. Ogni bombola aveva una striscia di fettuccia che
passava attorno al collo e a venti centimetri dal fondo era
bloccata con una fascetta di metallo, di quelle usate per
serrare i tubi. Alle due estremità la fettuccia aveva un moschettone di acciaio inox, questi si fissavano agli anelli a D
dello spallaccio sinistro e della cintura.
Le bombole di alluminio in acqua erano più o meno
neutre, da negative di mezzo chilo quando sono piene diventano positive di circa 300 grammi quando sono completamente vuote. Al consorzio le bombole di alluminio
erano tra gli standard imposti da Stefano, e tutti erano stati
ben felici di seguire quelle direttive.
Almiro era salito sul gommone del consorzio, ormeg-
giato proprio fuori il locale, e controllava il livello della
benzina, e che tutto il resto fosse a posto.
«Siamo bassi di benza», disse al direttore.
«Va bene, passiamo a fare il pieno mentre usciamo, anzi
guarda il distributore, se non c’è nessuno ci vai ora», disse
Stefano al simpatico pensionato.
«C’è il gozzo del figlio della Jole, vado adesso?»
«Sì, vai ora, quando torni carichiamo la roba e andiamo», rispose Stefano da dentro il locale.
Mentre Almiro avviava il martellante Suzuki da duecento cavalli e si dirigeva lentamente al distributore dall’altra parte del porto, il direttore continuava a preparare
l’attrezzatura subacquea necessaria all’immersione.
Sistemò lungo la banchina, dove sarebbe tornato il gommone, tutte le sei bombole da cinque litri di nitrox cinquanta, ognuna con un erogatore pulito a ossigeno e con la
frusta lunga centoventi centimetri, impacchettata alla bombola con elastico al silicone nero, molto simile al tubo chirurgico che si lega al braccio nei prelievi di sangue.
Le bombole le avrebbe sistemate in vari punti del relitto, con il circuito in pressione e i rubinetti chiusi. Sperava
di non averne bisogno, ma quelle piccole riserve di gas
erano la sua assicurazione sulla vita. Al momento di testare
il rebreather in acqua profonda, se qualcosa non avesse
funzionato, sarebbe andato di corsa verso la bombola più
vicina e avrebbe terminato l’immersione a circuito aperto.
Sempre che non fosse andato in ipossia o iperossiemia in
modo fulmineo. Ma in tal caso non si sarebbe nemmeno
accorto di morire. Le altre due bombole di nitrox cinquanta, quelle da sette litri le tenne da parte, una l’avrebbe portata con sé, l’altra l’avrebbe lasciata sul gommone con la
consegna di filarla in acqua se avesse lanciato il pallone di
emergenza. Quel tipo di procedura al consorzio la conoscevano tutti, se qualcuno lanciava un pallone di emergen-
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za al di fuori del campo boe, il gommone più vicino lo
avrebbe raggiunto e calato in acqua una bombola di nitrox
cinquanta, sia per fornire gas, sia per migliorare le tappe di
decompressione.
Dopo le bombole avvicinò al bordo della banchina le
pinne, la cintura dei piombi, il cappuccio, la maschera e, in
una scatola di plastica, profondimetro e bussola. Vide in un
angolo anche una bombolina di ossigeno, era quella di
Bambinoricco e aveva l’erogatore già montato, controllò
la pressione, centocinquanta atmosfere, la sistemò assieme
alle altre sulla banchina, sarebbe stata utile in caso di
emergenza. La roba da caricare cominciava a diventare
tanta, così decise di lasciare al diving il kit ossigeno per le
emergenze. Da un armadietto prese due torce Halcyon,
lunghe e sottili, di quelle che di solito si usano di back up,
avevano due anelli di elastico al silicone ciascuna e
Stefano le usava all’interno dei relitti fissandole sugli
avambracci. Per quella immersione decise anche di portare
i mezzi guanti. Dopo le piccole cose portò fuori il pesante
bibombola, con il gav Halcyon e lo schienalino in acciaio.
Fissata allo schienalino in acciaio vi era la tasca con il pallone e fissato ad un anello uno spool molto grosso, del diametro di tredici centimetri con un moschettone a doppia
luce, lo usava in sostituzione del rocchello. Per ultimo lo
scooter subacqueo Zeuxo, ben chiuso con un filo di grasso
sugli o-ring di tenuta e carico alla massima capacità degli
accumulatori. La quantità di materiale subacqueo sistemata lungo la banchina era impressionante, e solo chi fa immersioni tecniche avrebbe creduto al fatto che tutte quelle
cose le avrebbe indossate un solo subacqueo.
Almiro, lentamente come se ne era andato, si avvicinava all’ormeggio, Stefano nel frattempo aveva indossato la
muta, lasciando la parte superiore del torace scoperta.
Passare le bombole e tutto il resto dell’attrezzatura dalla
banchina al gommone fu una sudata per entrambi, soprattutto per il giovane direttore che aveva indosso pantaloni
di neoprene. Prima di chiudere il locale del consorzio, prelevarono dalle confezioni accatastate in un angolo tre bottiglie di acqua naturale Levissima, la preferita di Stefano.
L’idratazione era importante e dopo una sudata come quella bisognava bere, anche senza avere sete. Mentre le sorsate di acqua tiepida scendevano nella gola i due si concessero i soli attimi di riposo della mattinata, da lì al loro ritorno. Stefano si versò anche un po’ di acqua sulla testa, poi
ordinò al compressorista promosso a comandante di levare
gli ormeggi e dirigere alla boa azzurra, quella centrale.
Mentre il gommone dirigeva fuori dal porto accompagnato da un concerto di scoppiettanti martelli che ritmicamente imprimevano al mezzo la propulsione necessaria,
Stefano terminò di prepararsi. All’arrivo alla boa, cinque
minuti dopo, chiese ad Almiro di aiutarlo a indossare il bibombola, una volta legate le cinghie e sistemati al collo gli
erogatori, tra cui il poseidon con la frusta lunga due metri e
dieci, e spiegò cosa avrebbe fatto in immersione.
Entrato in acqua, Almiro gli avrebbe passato tutte le
bombole di nitrox da cinque litri e una da sette, lui le
avrebbe agganciate all’anello di sinistra della cintura e allo
spallaccio, formando un bouquet di bombole, poi l’aiutante avrebbe passato lo Zeuxo. A quel punto Stefano si sarebbe immerso, avrebbe sistemato le sei bombole da cinque litri sul relitto e avrebbe tenuto la 7 litri per la decompressione del giorno. Terminata la sistemazione delle bombole di nitrox, Stefano si sarebbe diretto a poppa a controllare sotto il ponte elicotteri, se avesse trovato il cadavere,
cosa secondo lui improbabile, lo avrebbe sparato su con il
pallone e Almiro, che intanto si sarebbe ormeggiato alla
boa profonda, quella blu, avrebbe chiamato la Capitaneria
per far recuperare il cadavere dall’acqua.
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«Manda in pressione tutti gli erogatori delle bombole;
se sto in acqua più di quarantacinque minuti calami a sei
metri la bombola dell’ossigeno, quella piccola verde», disse Stefano prima di entrare in acqua; poi, giratosi verso il
lato del gommone, si tuffò in acqua di testa sfiorando il tubolare del gommone di alcuni centimetri, un classico di repertorio per impressionare i presenti a bordo.
Almiro in pochi secondi aprì e chiuse tutti i rubinetti
delle bombole, poi, visto che il sub era pronto, iniziò a passargliele. Stefano aveva gonfiato tutto il gav per stare bene
in superficie, mentre prendeva la bombola controllava che
il manometro segnasse pressione, poi le sistemava sul Dring di sinistra. Le bombole formavano una innaturale protuberanza al sub, ma non lo sbilanciavano. Per ultimo arrivò lo scooter Zeuxo, Stefano si era allontanato di un metro
dal gommone e appena agganciato all’anello ventrale fece
il segno di OK al barcaiolo e si immerse.
Non aveva pianificato l’immersione, ma ormai aveva
un profilo standard in mente, scritto con l’esperienza delle
innumerevoli visite al relitto, fatte in ogni condizione.
Se fosse riuscito a fare tutto in venti minuti, sarebbe
uscito con venti minuti di deco, se ci avesse messo mezzora ne avrebbe fatta il doppio, quaranta minuti, suddividendo le tappe tra i ventuno metri e la superficie. Ma era sicuro di farcela in venti minuti.
A sette metri dalla superficie tolse la mano dalla manopola dello Zeuxo, si cambiò gli erogatori di bocca per accertarsi che il secondario funzionasse, poi riprese il
Poseidon e continuò la corsa verso il ponte di comando. La
visibilità era ottima, il relitto si vedeva in tutta la sua maestosità. Lasciò la prima bombola vicino al ponte di comando, alla profondità di ventidue metri; prima di abbandonarla, aprì il rubinetto, premette per qualche secondo il pulsante di spurgo per accertarsi che l’erogatore funzionasse,
poi chiuse il rubinetto e si avviò alle altre postazioni. Le sistemò tutte tra i venticinque e i venti metri di profondità.
Terminato il parcheggio delle bombole di emergenza, si diresse verso poppa: era il nono minuto di immersione ed era
in perfetto orario sulla tabella di marcia. Non ci sarebbero
voluti più di sei minuti per terminare il giro di ricognizione. Seguì il ponte di volo lungo il lato di tribordo, fino a
quando ne vide la fine stagliarsi nel blu profondo dell’orizzonte sottomarino, si scostò di qualche metro e seguendo il
fianco della nave arrivò al ponte ormeggi di poppa.
Stefano accese le due torce sugli avambracci, si tolse il
poseidon di bocca e si attaccò al secondario. Tirò un po’ la
frusta lunga del poseidon in modo da poterlo dirigere in
ogni direzione, poi, con il pollice appoggiato sul pulsante
di spurgo e il boccaglio rivolto verso l’esterno, si avviò
verso l’interno. Il ponte ormeggi è una specie di grande
balcone sotto il ponte di volo degli elicotteri, vi sono ampie aperture che permettono il passaggio dei cavi di ormeggio; sul ponte vi sono argani e passacavi molto grossi,
proporzionati alla nave. Alle spalle due portelli permettono
l’ingresso alle viscere della nave. I due portelli erano stati
saldati alle pareti in modo da restare sempre aperti ed evitare che si chiudessero per qualsiasi motivo, impedendo la
circolazione dell’acqua all’interno del relitto. Non vi era
pericolo che qualche sub vi entrasse; come tutte le aperture, i portelli erano stati chiusi con delle sbarre di lamiera
spessa cinque millimetri e larga dieci centimetri, saldate ai
bordi del portello. Era impossibile dissaldare le bande metalliche con normali attrezzi trasportabili da subacquei. Tra
una banda e l’altra rimanevano circa venticinque centimetri di spazio, insufficienti per far passare un sub. Ci passavano bene invece gronghi e murene, anche di grosse dimensioni.
Una volta entrato in quella specie di terrazzo, Stefano
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attivò le percezioni al massimo delle sue possibilità; di discutere con Lula non ne aveva proprio voglia e quindi con
lo Zeuxo iniziò il giro di perlustrazione.
Largo un po’ meno di un campo da tennis, l’area da
controllare avrebbe richiesto pochi minuti. Diresse il fascio delle torcia di destra, la stessa in cui teneva il poseidon pronto a sparare, verso il fondo e poi verso il soffitto,
controllò con attenzione negli angoli ma non trovò nulla,
come aveva immaginato e come Tino aveva previsto. Era
il tredicesimo minuto di immersione e decise, prima di risalire, di dare un’occhiata ai portelli per vedere se c’era
Lula. Anche se ne aveva un certo timore era pur sempre un
bello spettacolo da vedere, magari non troppo da vicino. Si
avvicinò al primo portello, quello di destra, puntò il braccio destro verso l’interno, in modo da illuminare la sinuosa
regina e spaventarla col getto di aria se avesse attaccato,
ma non vide nulla. Prese la manopola dello Zeuxo con la
mano sinistra e premendo il pulsante di avvio in pochi secondi fu dall’altra parte della nave, vicino al secondo portello, quello di sinistra, mantenendo lo scooter tra lui e le
sbarre come ulteriore protezione, esplorò l’interno con la
torcia, pronto con il pollice sul pulsante del poseidon. Il
portello e le sbarre avevano però una forma strana, all’inizio pensò che ci fosse una sacca di acqua a temperatura diversa e che distorcesse la visione, poi, avvicinandosi alle
verghe, si accorse che erano ondulate.
Spostò di lato lo Zeuxo per avvicinarsi meglio e scuotendole sentì che non erano stabili come dovevano essere.
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CAPITOLO VENTISETTE
LULA
UN PO’ di sospensione iniziava a sollevarsi e a ridurre la vi-
sibilità. Prima che calasse ancora di più, Stefano dette uno
strattone alla sbarra centrale e si accorse che nella parte superiore oscillava debolmente. Puntò la torcia verso l’estremità e vide che erano tutte e tre dissaldate. Provò a scuoterle con forza, vibravano come diapason, ma le estremità
inferiori erano saldamente ancorate. Seguendo le sbarre
con la torcia al polso, vide una gobbatura delle sbarre, nella metà inferiore, come se fossero state piegate e raddrizzate.
A prima vista sembrava che qualcuno dall’interno avesse sfondato le stecche per poter uscire. Ma chi avrebbe potuto farlo? Non certo Lula, la murena, che per quanto grossa sarebbe scivolata agilmente tra tre sbarre. E poi perché
tutte e tre erano piegate? Si chiedeva Stefano, sempre più
incuriosito. La sospensione stava crescendo, qualche secondo ancora e la visibilità sarebbe stata nulla. Decise
quindi di allontanarsi e attendere che il sedimento sottile
come borotalco si ridepositasse sul fondo. Voleva vedere
da vicino, molto vicino perché si erano staccate le sbarre.
Uscì da uno dei finestroni sul lato sinistro dello scafo con
un colpo di scooter, prese il manometro e controllò la pressione delle bombole, cento quaranta atmosfere, poi portò il
polso dinanzi alla maschera e lesse sul profondimetro il
tempo di immersione, diciassette minuti. Era quasi ora di
risalire se voleva stare entro i venti minuti ma voleva veWrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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dere ad ogni costo le estremità delle sbarre. Fu sufficiente
un minuto al sedimento per depositarsi sul fondo, ora per
evitare di risollevarlo si sarebbe avvicinato senza scooter,
tirandosi con le mani sugli appigli che forniva il relitto, in
quel modo, senza l’azione delle pinne, la sospensione sarebbe rimasta al suo posto per un po’.
Parcheggiò lo scooter Zeuxo e la bombola da sette litri
che aveva fissato al fianco sinistro, sul ponte di volo proprio al di sopra del locale che lo interessava. Assicuratosi
che gli oggetti fossero ben fissati si diresse all’interno dello spazio dedicato agli ormeggi. Lentamente, tirandosi con
le mani, raggiunse le sbarre, gonfiò i polmoni al massimo
per salire di alcuni decimetri fino al soffitto del ponte. In
prossimità delle saldature, le illuminò con la torcia sul polso sinistro e un piccolo riflesso lo abbagliò, poi un altro
ancora. Appoggiò una mano sulla parete e con l’altra tirò
con forza verso di se la spessa stecca di acciaio, la quale si
spostò di circa venti centimetri, mostrando una lucente ferita proprio sul riporto del materiale di saldatura. La ferita
era netta, come la lacerazione di un coltello, qualcuno con
un affilato scalpello da metallo aveva reciso le gocce di
saldatura, e non era stata di certo Lula.
Sgonfiando i polmoni scese di circa venti centimetri,
prese con la mano destra il Poseidon, che intanto pendeva
sulla destra del collo, svolse l’asola della frusta che passava dietro la testa e diresse la torcia, elasticata al braccio,
verso l’interno del locale. L’incontro che si preannunciava
non era dei più invitanti: le fauci di una murena con la testa grossa come quella di un cane lupo e i denti aguzzi e taglienti come bisturi di ossidiana.
Benché pronto a sparare una bordata di bolle sotto pressione, non vide niente di preoccupante, solo un riflesso
sfuocato sul pavimento del locale. Non era un riflesso metallico, ma una specie di oggetto luminescente che risalta-
va sul colore scuro del fondo. La cosa non gli quadrava
minimamente e decise di andare a vedere di cosa si trattasse, poteva essere qualsiasi cosa, finita all’interno del locale, molto probabilmente i resti di qualche argenteo pesce,
avanzo di uno dei tanti prelibati banchetti di Lula.
Per entrare occorreva piegare tutte e due le sbarre di almeno cinquanta gradi, per fare in fretta puntò i piedi contro la parete e fece forza tirando con le braccia, una sbarra
alla volta. Ci mise meno di un minuto, ma andò in lieve affanno. Prima di entrare guardò il manometro: cento atmosfere. Un pensiero lo colse in quel momento, un pensiero
che gli rimbombò nella testa tre volte prima che si dissolvesse, stai facendo una cazzata, stai facendo una cazzata,
stai …
Il monito sparì dalla mente nel momento in cui entrò
nel locale, si diresse subito verso l’oggetto, si inginocchiò
sul fondo appoggiando le rotule di lato all’oggetto che intanto sbiadiva avvolto dal sedimento sollevato da Stefano.
Agguantò l’oggetto prima che scomparisse completamente
alla vista e già al tatto capì di cosa si trattasse.
Prima di portarlo vicino alla maschera per vederlo, diresse la torcia e il poseidon verso destra e sinistra, esplorando lo spazio circostante alla ricerca della padrona di casa. Anche se quello che aveva in mano non era cibo della
signora, sapeva di essere in una situazione equivoca, Lula
non avrebbe certo sopportato quell’intrusione.
Portò la mano sinistra all’altezza del viso, l’oggetto era
esattamente quello che aveva intuito al tatto, una maschera
subacquea, una ESA, la stessa che usava Paolo.
Non era il momento di chiedersi cosa ci facesse lì, ma
dove fosse il corpo di Paolo. Poi, come chiamato da una
voce eterea, volse il capo e la torcia verso il soffitto. Il fascio di luce rimbalzò prima sulla rubinetteria lucente poi
sulla muta colorata che stonava su quel soffitto scuro. Il
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corpo era lì, attaccato al soffitto come un palloncino scappato di mano e bloccato dal soffitto della stanza, con le
pinne rivolte verso l’uscita e la testa verso l’interno del locale. I gas prodotti in quei cinque giorni dalla decomposizione all’interno del corpo avevano reso Paolo leggero. La
respirazione di Stefano cominciava ad aumentare e così la
sospensione sul fondo; non poteva rimanere molto in quel
posto, occorreva agire subito.
Incurante di quello che fino a quel momento rappresentava il pericolo numero uno, Lula, sistemò la frusta del poseidon dietro il collo, poi diede un colpo con le mani a paletta per staccarsi dal fondo e un colpo di pinne per raggiungere il corpo. Prese la rubinetteria dell’amico e cercando di fargli fare una specie di inversione di marcia lo
trascinò verso il portello di uscita. Il portello alle spalle di
Stefano, occluso in parte dalle stecche, indicava l’unica
uscita dal locale sempre più intorbidato dai moti dell’acqua. L’apertura appariva come una vetrata verde bottiglia,
un colore familiare a chi penetra abitualmente nei relitti, il
colore della via di casa. Stefano si diresse verso quel pertugio, ma tra uno sguardo all’uscita e uno al cadavere vide
una forma affusolata scomparire nel buio del locale, l’immagine durò una frazione di secondo, sufficiente però a
capire che quella forma sinuosa intravista in parte, guardando l’uscita, era Lula. Aveva altro di cui occuparsi al
momento e con veloci pinneggiate raggiunse l’apertura.
Ma che fare ora, passare per primo e recuperare poi il cadavere o spingere fuori il cadavere e seguirlo? La presenza
di Lula consigliò a Stefano di uscire per primo, e così fece.
Il corpo di Paolo era molto positivo, galleggiava come un
palloncino, anche se il gav era quasi sgonfio. Non era il caso di fermarsi e sgonfiarlo del tutto o slacciare la cintura
dei piombi; ogni secondo passato in quell’angusto spazio
era una sfida alla morte, e a Stefano le sfide non piaceva-
no. Diede uno strattone al corpo che scese di un metro, mise la testa di Paolo tra le sue caviglie e tirandosi sulle sbarre infilò l’apertura, trascinando il cadavere. Mentre usciva,
il corpo di Paolo subiva degli strattoni; dapprima pensò
che si impigliasse, poi immaginò di chi fosse la colpa: era
la regina del relitto che non gradiva essere abbandonata
dall’ospite degli ultimi giorni.
Una volta uscito, Stefano lasciò la presa delle caviglie e
si voltò per recuperare il corpo rimasto bloccato tra le
sbarre e la sponda superiore del portello. Fu solo in quel
momento che Stefano rivide il volto di Paolo, o meglio il
cranio. Lula non aveva perso tempo, il viso era stato completamente scarnificato, gli occhi, il naso, le guance, le
labbra, tutta la carne lasciata scoperta dal cappuccio era
stata strappata e asportata dalla murena. Una volta sfilato il
corpo dalle sbarre, Stefano si accorse che anche le mani di
Paolo, che abitualmente si immergeva senza guanti, erano
state spolpate, tutta la pelle e la carne del palmo era stata
mangiata e anche tutte le dita mancavano ad esclusione del
pollice sinistro. Dai polsini della muta sporgevano solo dei
moncherini sbiancati e macerati dai giorni di immersione.
Se non fosse stato per la muta con la scritta Paolo sulle cosce, avrebbe potuto essere chiunque, invece era proprio il
suo amico.Alla vista di quello strazio, la respirazione si fece affannosa. Pinneggiando velocemente raggiunse il ponte elicotteri dove si trovava la sua riserva di gas e il suo
ascensore per la vita. Mentre trascinava Paolo sentiva ripetuti strattoni trasmessi dal cadavere alla sua mano, voltandosi solo quando aveva raggiunto la superficie sterminata
del ponte di atterraggio, vide Lula che assestava potenti
morsi ai polpacci di Paolo, tanto voraci da asportare parte
della muta oltre alla carne. Un rivolo di sangue verde usciva da ogni morsicatura.
Solo quando giunsero sul ponte Stefano decise che era
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arrivato il momento di affrontare quell’essere selvaggio,
che, seppure nel giusto delle regole della sopravvivenza,
ora stava mettendo seriamente in pericolo la sua vita.
Sempre tenendo una mano sul corpo di Paolo per impedire
che scappasse verso la superficie, prese il Poseidon e indirizzandolo verso la combattiva nemica sparò una bordata
di bolle.
Stefano sapeva di non poter continuare per molto con
quel giochetto; l’affanno gli aveva fatto consumare molto
gas e non aveva ancora avuto il tempo di guardare il manometro. Di fronte all’esibizione del vortice turbinante di
bolle, la sinuosa regina decise di abbandonare il duello e di
ritirarsi nella sua dimora, convinta di aver dato una sonora
lezione allo scocciatore di turno. Impiegò pochi secondi
per scomparire dalla vista di Stefano. Tutto quel movimento lo aveva fatto risalire di qualche metro, sgonfiò il gav fino a ridiscendere sul ponte della nave vicino ai suoi giocattolini. Tenne Paolo con la mano destra e con la sinistra
controllò il manometro, quaranta atmosfere.
Sei nella merda, sei nella merda, sei … Il pensiero del
momento ora era quello, poco gas per la risalita e doveva
ancora mandare su il corpo di Paolo. Non poteva lasciarlo
andare così, anche se positivo c’era il rischio che non raggiungesse la superficie. Si tolse velocemente il pallone da
dietro la schiena, era insaccato tra lo schienalino di metallo
e la muta, inguainato in una tasca di cordura e lo agganciò
col moschettone ad un anello dello spallaccio del gav di
Paolo. Per risparmiare aria decise di usare uno degli erogatori di Paolo. Svolse il pallone e avvicinò all’apertura a
becco d’anatra l’Abyss dell’amico, premette il pulsante
più volte ma non uscì aria. Solo allora, guardando il manometro, si rese conto che nella bombola del geologo non
c’era aria.
Senza perdere altro tempo diede una spruzzata di bolle
col suo poseidon e il pallone iniziò, sempre più velocemente a salire verso la superficie; di forma troncoconica e
alto più di un metro, lo avrebbero visto anche da terra.
Mentre il cadavere saliva, Stefano si voltò verso lo
Zeuxo, lo agganciò all’anello ventrale, prese con la mano
sinistra la bombola da deco e la fissò al D-ring dello spallaccio sinistro, poi si diresse a tutta velocità verso la cima
di risalita della boa rossa.
Mentre indirizzava lo Zeuxo, risalendo diagonalmente
verso la catena, prese il manometro con la mano sinistra e
ne lesse il valore, venti atmosfere, gli rimanevano dieci atmosfere di gas respirabili, il poseidon sarebbe andato in
erogazione continua con dieci atmosfere di pressione nelle
bombole.
Dai cinquantacinque metri del ponte di volo si portò a
quaranta metri in prossimità della catena, da lì avrebbe iniziato i deep stop di trenta secondi, respirando il meno possibile, nel frattempo aprì il rubinetto della bombola da decompressione con il nitrox cinquanta, si passò l’erogatore
dietro il collo lasciandolo penzolare sul lato destro, pronto
ad usarlo appena il trimix fosse finito.
Mentre risaliva, il corpo e la mente si rilassavano; decise di chiudere il rubinetto di destra, quello collegato al poseidon in modo da evitare la perdita delle ultime dieci atmosfere di prezioso gas. Ora il gav non poteva essere gonfiato e in superficie sarebbe stato di poco positivo, ma almeno aveva qualche minuto in più di trimix da respirare.
Se avesse avuto difficoltà a sostenersi avrebbe sempre potuto sganciare la zavorra.
Era arrivato a trentatre metri quando l’erogatore Apeks
andò in ventosa, segnalando la fine del gas disponibile.
Stefano si infilò in bocca quello collegato alla bombola di
alluminio contenente il nitrox cinquanta e continuò a salire. Se da un lato aprire la finestra a ossigeno a pressioni
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parziali più elevate del canonico 1,6 ata era produttivo ai
fini dello smaltimento del gas inerte, dall’altra esponeva a
maggiori rischi di intossicazione, ma Stefano non poteva
fare altro, quella immersione era iniziata male e poteva finire peggio.
Nel frattempo Almiro si accorse del cadavere e avvisò
la Capitaneria. I militari se ne erano già accorti, sorvegliavano infatti le operazioni col binocolo. Mise in moto il
gommone e si diresse verso il cadavere. Stefano notò che
non aveva calato la bombolina di ossigeno, come sempre
quando ti serve qualcosa nessuno te la dà.
Avrebbe respirato tutto il nitrox cinquanta e poi sarebbe
uscito, di più non poteva fare, se fosse sopraggiunta qualche complicazione in superficie, sarebbe andato in un centro iperbarico a farsi ricomprimere, alternativa seccante
ma necessaria in caso di embolia.
Visto che aveva iniziato a respirare la miscela iperossigenata ben oltre la profondità corretta, Stefano decise di rivedere il profilo decompressivo: sarebbe rimasto solo sei
minuti a ventuno metri, quattro a diciotto, due a quindici,
due a dodici, quattro a nove, dieci a sei e avrebbe consumato tutto il resto del gas risalendo lentamente, un metro
al minuto, dai sei metri alla superficie. Tutto sommato non
era grave che il compressorista non avesse lasciato la bombola di ossigeno sotto la boa. Avendo terminato il gas di
fondo non era possibile fare i lavaggi dei polmoni e il rischio di bruciarsi i polmoni con l’ossigeno era abbastanza
alto. Decise che avrebbe respirato dell’ossigeno in superficie, una volta in barca.
Quando ormai era a sei metri e il profondimetro digitale
misurava ormai il sessantaquattresimo minuto di immersione, il gommone tornò al suo ormeggio e Almiro, solerte
anche se in ritardo, calò la bombolina di ossigeno.
Stefano la ignorò. Se in superficie non avesse accusato
bruciore ai polmoni o riduzioni della capacità polmonare,
ne avrebbe ciucciato un po’ mentre tornava al porto. Negli
ultimi metri, a mente lucida, pensava a cosa raccontare alla
Capitaneria e al Magistrato sul ritrovamento del cadavere.
La situazione era complicata e non aveva una visione chiara della faccenda. Occorreva ragionarci sopra, ma non era
quello il luogo ideale per farlo, decise comunque di dire
che il cadavere era nello spazio del ponte ormeggi, contro
il soffitto, per quel motivo non era stato visto dagli altri, e
riguardo alle sbarre, ritenne che era il caso di non menzionarle. Sapeva che quello non era certo il comportamento
che ci si aspettava dal direttore del consorzio, ma in quel
momento ritenne che fosse la soluzione migliore.
Sbucò con la testa a un metro dal gommone, il gav lo
sosteneva con la bocca a pochi centimetri dalla superficie
ma il mare era quasi piatto. Si tolse l’imbracatura respirando gli ultimi litri di nitrox dalla bombola, poi avvicinò il
pesante bibombola ad Almiro che lo prese con una mano,
impedendo che si allontanasse, ma senza sapere cosa fare
di quel pesante fardello.
«Sono nella cacca fino alle orecchie; ho saltato un sacco di decompressione», disse Stefano, spaventando il barcaiolo, impreparato ad ogni tipo di emergenza subacquea.
«Tira su il bibombola, prendi la cintura e recupera la
bombola di ossigeno, io rimango in acqua un po’, poi mi
aiuti a uscire perché non posso fare sforzi. OK?»
La voce di Stefano era calma in totale contrasto con lo
stato di agitazione che assalì Almiro all’udire le disposizioni.
Il barcaiolo decise di cominciare dal bibombola che ormai aveva in mano, cercò un appiglio su cui fare presa e
poi tentò di issarlo a bordo, ci vollero tre tentativi prima di
riuscirvi. Dovette raccogliere tutte le sue energie e soprattutto rischiare una lesione alla colonna vertebrale. Il bi-
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bombola pesava circa quaranta chili, ma vi era attaccata la
bombola di nitrox che Stefano aveva dimenticato di sganciare e le fruste degli erogatori si impigliavano dappertutto. Intanto Stefano aveva già messo la cintura nel gommone e cercava di risalire dalla scaletta di fianco al motore
fuoribordo.
Una volta a bordo si tolse la maschera dalla fronte e il
cappuccio della muta, si tolse le torce i cui elastici, anche
se lenti, potevano impedire la circolazione e si sedette sul
tubolare, respirando a pieni polmoni. Nessuna sensazione
di bruciore lo attanagliava, nessuna riduzione della capacità respiratoria. Appena la bombolina di ossigeno fu nel
gommone, Stefano se la fece dare e iniziò la respirazione
del prezioso gas.
«Andiamo?» chiese Almiro.
Stefano oscillò la testa verticalmente.
«Vuoi che avviso la Capitaneria e facciamo arrivare
un’ambulanza?»
Stefano scosse la testa orizzontalmente diverse volte
continuando a sibilare attraverso l’erogatore.
«Ma siamo sicuri che è Paolo quello Lì?»
Stefano chinò lentamente il capo una sola volta e poi
chiuse gli occhi.
Almiro non disse altro. Ritto al posto di guida si diresse
in porto, non ci mise più di dieci minuti.
Prima di entrare in porto Stefano smise di respirare ossigeno; stava bene anche se si sentiva molto stanco e assonnato. Conosceva quei sintomi, erano dovuti alla cattiva
decompressione, e se l’immersione fosse stata fatta ad aria
a quest’ora qualche fitta lo avrebbe reso temporaneamente
storpio.
Alla banchina una piccola folla si era riunita. Era bastato vedere la motovedetta e il pallone rosso nel campo boe
per capire che il cadavere era stato trovato. Diversi soci del
consorzio erano presenti e tra questi anche qualche gestore
dei diving: tutti conoscevano Paolo.
Quando il gommone si avvicinò alla banchina alcune
delle guide si avvicinarono e chiesero dove era stato ritrovato il cadavere.
Stefano promise di rispondere a tutte le domande ma
chiese ai presenti di aiutare Almiro a scaricare il gommone
perché lui era troppo stanco e non riusciva a sollevare pesi.
I sub presenti capirono subito e sistemarono tutto quello
che era sul gommone nel locale del consorzio, smontando
le attrezzature e sciacquando gli erogatori.
Stefano fu aiutato a svestirsi. Si bevve quasi mezza bottiglia di acqua e poi, con la tuta da ginnastica e l’odore della muta addosso, raccontò una versione molto semplice del
recupero. Il corpo era a poppa, nel ponte ormeggi, mangiato dalla murena. Nient’altro.
Le stesse cose scrisse sul verbale della Capitaneria, di
cui il Magistrato avrebbe ricevuto copia. Malgrado nessuno dubitasse della versione dei fatti, una cupa sensazione
di mistero si insinuava, sotto forma di domande senza risposta, nella mente di Stefano. Nessuno dei presenti immaginava che quella tristezza sul volto del loro direttore
era l’espressione dissimulata di una rabbia che ribolliva all’interno, corrodendo tutti i principi morali che avrebbero
ostacolato la scoperta della verità.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per scoprire cosa era successo a Paolo. Perché era all’interno del relitto? Chi aveva
dissaldato le sbarre e perché? In poche parole, perché era
morto Paolo?
Quando Stefano tornò in ufficio erano già le diciassette
e trenta, l’impiegata stava andando via. Fortunatamente
disse che non vi erano documenti da visionare e che poteva rimandare tutto a lunedì. Sul cellulare vi erano sei chiamate senza risposta: Ruby, Tino, sua madre, gente del con-
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sorzio che desiderava informazioni, nessun numero che
iniziasse con il prefisso della Finlandia.
La stanchezza non diminuiva e, dopo aver controllato in
ufficio che non ci fosse qualche fax urgente, Stefano decise di rilassarsi per tutta la sera, il che voleva dire stare da
solo e vedere un bel film in videocassetta.
Nella casa di legno non c’era la televisione così decise
di uscire e andare al chiosco di fronte per comprare qualcosa da mangiare e tornare nell’aula corsi del consorzio e
vedere lì il film.
Per la serata particolare decise di gustare due panini
tonno e carciofini e una lattina di birra seguita da acqua
minerale a volontà.
«Due dei soliti, taglia orca assassina», disse alla ragazza del chiosco. Non c’era bisogno di aggiungere altro. La
taglia orca assassina prevedeva che lo sfilatino di pane invece di essere diviso in tre pezzi fosse farcito tutto intero
con gli ingredienti preferiti da Stefano, tonno e carciofini.
Tornato nella saletta dove si tenevano i corsi, si accomodò di fronte al video e fece partire la cassetta. Come
prima visione scelse Operazione Tunderball, uno dei primi
film con Sean Connery, girato alle Bahamas e con una
splendida Ursula Andress. Le immagini subacquee erano
spettacolari, per l’ambiente e soprattutto per come si muovevano i protagonisti.
A metà della cassetta la stanchezza e la digestione avevano già mandato Stefano in catalessi: mentre guardava lo
schermo era incapace di qualsiasi pensiero o azione.
Bastò una scena a dare una violenta scossa a tutto il sistema neurovegetativo. La reazione fu progressiva ma razionale; prima il pensiero e poi il corpo si destarono da
quel torpore, pronti a mettersi in moto.
In una delle scene finali del film si assiste a un combattimento subacqueo tra buoni e cattivi. La tecnica principe
degli uni come degli altri è quella di togliere la maschera e
l’erogatore di bocca all’avversario, costringendolo a riemergere. Nelle scene del film più di un erogatore ha preso
a funzionare in continua e a Stefano era venuto da pensare,
chissà quanto dura una bombola in un caso del genere.
L’immagine aveva innescato una reazione a catena involontaria, mentre il torpore lasciava spazio al pensiero, le
immagini si susseguivano nella mente e non erano quelle
del televisore.
Qualcuno aveva strappato la maschera e l’erogatore a
Paolo, ecco perché non erano sul viso, ecco perché la bombola era vuota. Mancavano ancora molti tasselli ma il
puzzle si stava componendo.
A Stefano venne in mente la gita fatta al Comsubin con
l’AIDMEN. Durante la visita aveva chiesto al comandante
della scuola se veniva insegnato il combattimento subacqueo e il militare rispose affermativamente, rimarcando
che le tecniche, seppur evolute, erano simili a quelle viste
nei film di 007.
Nel film che stava guardando, i buoni arrivavano a bordo di strani battelli subacquei e questo alimentava, nella
mente di Stefano, un altro sconcertante dubbio: e se chi
aveva tolto la maschera a Paolo fosse stato a bordo di un
mezzo subacqueo?
Purtroppo la razionalità non concepiva ipotesi sostenibili, a meno che dal minisub qualcuno fosse uscito e avesse attaccato Paolo. Il tutto appariva sempre più inverosimile. Non era possibile che in posto banale come Oneglia, su
un relitto appena affondato, avvenissero trame da film. La
spiegazione di tutto doveva essere più semplice, il concatenarsi di eventi eccezionali, nulla di più.
Al termine del film, Stefano lasciò vagare la mente liberamente, fissando il vuoto che si era formato intorno a lui,
isolato completamente dal luogo in cui si trovava. Il som-
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mergibile però transitava continuamente nelle visioni proposte da quello stato di meditazione.
Decise che era il momento di andare a dormire, per
quella sera non avrebbe visto altri film.
Mentre tornava a casa pensava a un modo per ottenere
informazioni dal centro di ascolto sottomarino di Capo
Noli. Forse quel tipo con i capelli da rasta poteva essergli
utile e, come un flash, gli venne in mente dove lo aveva visto: a bordo del gommone di Tino. Ora ricordava chiaramente di averlo visto più volte fare immersioni sul relitto.
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CAPITOLO VENTOTTO
CORVETTE IRACHENE
DA QUASI VENT’ANNI le corvette irachene Mussaben e Tark
Ibn Said galleggiano stantie nelle acque del porto di La
Spezia. La stessa sorte, ma nel porto di Alessandria
d’Egitto, è toccata al rifornitore di squadra Abdulla. Tutte
e tre facevano parte di una commessa da oltre tremila miliardi di lire, la più grossa mai ricevuta dalla Fincantieri.
Undici navi più un bacino di carenaggio, missili, siluri, elicotteri e addestramento degli equipaggi, una specie di
“chiavi in mano”. Negli anni ’80 la cantieristica navale italiana era leader nella costruzione di unità di medio tonnellaggio, corvette, fregate, cannoniere e navi da sbarco, fornite ai committenti stranieri con la formula “chiavi in mano”.
Un pool di società come Fincantieri, Fiat Aviazione,
Oto Melara, Elsag, Selenia, Marconi, per citare le più famose, cooperava per fornire il meglio della tecnologia occidentale.
Allora l’Iraq era un cliente di riguardo, un mercato su
cui scommettere. Ma ci si mise la guerra a rovinare i piani
di tutte le parti in causa. Il governo italiano non rinnovò i
permessi per l’export dei prodotti militari e bloccò la commessa Fincantieri. Dopo la guerra tra Iraq e Iran, iniziata
nel 1980, venne lo scandalo BNL-Atlanta, la vicenda del
supercannone di Saddam Hussein e in seguito l’embargo
ONU per la Guerra del Golfo. Le navi in Iraq non arrivarono mai.
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Il rifornitore di squadra Abdulla venne bloccato nel porto egiziano di Alessandria durante il trasferimento nel
Golfo Persico. Ora si trova incagliato in qualche angolo
per evitarne l’affondamento. La stessa sorte è toccata alle
due corvette, battenti bandiera irachena poiché debitamente consegnate e pagate, ma impossibilitate a rifornirsi di
carburante e munizioni. Da allora dodici marinai iracheni
comandati da un ammiraglio stazionano a bordo delle navi
in attesa di un improbabile ordine a muovere. Le due navi
mostrano tutta la loro vetusta età, anche a causa dell’assenza totale di manutenzione. La vernice da grigia tende sempre più al marrone ruggine, i denti di cane sulla chiglia assomigliano per dimensione a tante alette stabilizzatrici.
Anche se vecchie e decadenti, le navi sono territorio
iracheno e come per altre installazioni nella madre patria, è
negato l’accesso a ispettori di ogni nazionalità; una fortuna
questa più per alcuni personaggi italiani che per gli stessi
iracheni.
La Tarik Ibn Said e la Mussaben continueranno a celare
i vetusti quanto ormai inutili segreti elettronici abilmente
nascosti nelle apparecchiature di bordo.
Forse un giorno qualcuno racconterà …
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CAPITOLO VENTINOVE
DOMENICA
LA DOMENICA MATTINA, dopo una profonda dormita, tutta la
stanchezza dell’immersione del giorno precedente se ne
era andata. Nel letto mancava sempre la cosa più importante e Stefano decise di alzarsi per non pensarci. Dopo la
solita doccia e colazione a base di Pan Brioscè, marmellata, quattro Fiesta e caffèlatte, decise di coinvolgere il suo
piccolo mondo nelle indagini, in modo discreto naturalmente.
Prese il cellulare e digitò il numero di Tino: sperava
fosse già sveglio.
«Buongiorno», rispose Tino. Sul visore del cellulare era
apparso il nome STIX, così aveva memorizzato il numero
di Stefano.
«Bene, vedo che sei sveglio, per caso sei anche al tuo
diving?» chiese Stefano sperando in un briciolo di fortuna.
«Sì, dovevano venire in quattro da Torino per fare il BR
20 di Sanremo al posto del Vittorio Veneto, ma cinque minuti fa hanno rinunciato e io sono qui a menarmelo», rispose l’amico. I sub che disdicono all’ultimo momento sono l’unica cosa che manda in bestia Tino.
«Per caso hai un bombolone di ossigeno e uno di elio
pieni?»
«Si», rispose l’amico che già immaginava la richiesta
successiva.
«Sono lì tra mezz’ora, aspettami che ne ho bisogno.»
«Mi trovi al baretto, non ho ancora bevuto il caffè», disWrecker © 2003 by Pasquale Semeraro
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se Tino e chiudendo la comunicazione si avviò verso il
piccolo bar in fondo alla banchina. L’aspetto del locale era
orrendo; una qualsiasi ispezione sanitaria avrebbe portato
agli arresti il gestore ma in porto non si andava per il sottile. Tino chiedeva sempre ai sub che indirizzava al locale se
avevano già fatto l’antitetanica e l’antitifica, in caso affermativo nulla ostacolava la frequenza del bar.
Terminata la conversazione con Tino, Stefano chiamò
Ruby ma l’amico non rispose, nemmeno alla terza chiamata.
Sarà in catalessi pensò Stefano, come al solito.
Prima di lasciare la casa riempì le ciotoline di Diablo
con crocchette e acqua fresca. Da qualche giorno i due padroni di casa non si vedevano, ma le ciotoline vuote segnalavano il buono stato di salute del gatto.
Fermatosi al baretto, Stefano prese con Tino il primo
espresso della giornata, poi con il furgoncino raggiunsero
il diving. Il locale era l’unico del porto ad essere ordinato.
Gli anni passati all’estero tra arabi e maldiviani, avevano
sempre impedito a Tino di avere tutto in ordine e sotto
controllo; ora finalmente nel suo diving personale tutto era
al suo posto. Le guide venivano scelte in base alla loro predisposizione all’ordine oltre che a doti acquatiche e carismatiche simili a quelle di Tino. La rampa di miscelazione
di Tino sembrava quella della SIAD: decine di bomboloni
da quaranta litri di elio e ossigeno erano disposti in file ordinate, pronte a servire il loro comandante fino all’ultima
atmosfera disponibile. Tutte le bombole erano sistemate
con le rubinetterie girate in un senso, e lo spogliatoio sembrava nuovo, mai usato.
Tutto il locale richiedeva un riverito rispetto, l’ordine
regnava assoluto e chi avesse portato scompiglio sarebbe
stato immediatamente allontanato.
La vicinanza di Tino quella mattina era molto difficol-
tosa per Stefano. L’amico la sera prima aveva mangiato
due pizze alla marinara fatte secondo le sue specifiche, ovvero almeno dieci spicchi di aglio per pizza. L’unico odore
che Stefano non sopportava era quello dell’aglio; solo
quello provocava conati di vomito e nausea. Tino lo sapeva e fece di tutto per stare sottovento.
Per prima cosa rabboccarono i bombolini da tre litri di
ossigeno e elio del rebreather, Nico aveva usato una parte
del gas per la messa a punto in piscina prima di rompersi la
gamba.
Alla vista delle piccole bombole poco più grandi di una
bottiglia di Coca Cola da due litri, Tino disse: «Vedo che
hai un giocattolo nuovo, fai giocare anche me?»
«Quando lo avremo testato a dovere lo faremo provare
agli amici, non a tutti, solo a quelli idonei, e tu lo sei. Però
non avere fretta!» rispose l’amico sistemando le bombole
sul furgone.
«Cerca di fare attenzione con quel coso. L’anno scorso
è morto uno a Cagliari sul relitto del Romagna», ammonì
Tino; l’espressione del viso era passata da serena a triste e
questo voleva dire solo una cosa, conosceva lo sfortunato
deceduto con il rebreather. Anche Stefano sapeva di quell’incidente; ne aveva seguito gli sviluppi della perizia per
acquisire ulteriori informazioni sul quel tipo di macchina.
«Cosa devi fare oggi?»
«Niente che non potrei fare domani, se hai un programma migliore», rispose Tino guardando il mare per non intossicare l’amico con le esalazioni tossiche all’aglio.
«Vorrei provare il mio nuovo giocattolo nello specchio
fuori dal consorzio. Mi dovresti tenere d’occhio dalla superficie. Ci teniamo in contatto con una cima, io la strattono ogni trenta secondi. Se non lo faccio mi tiri su come un
salame.»
«Tutto qui?» chiese Tino.
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«No», disse Stefano, «tra i tuoi clienti non c’è mica un
tipo con i capelli da rasta, tutte treccine, biondastro, abbronzato? Mi sembra di averlo visto sul tuo gommone diverse volte.»
«Sì», rispose Tino con un’esalazione pestilenziale, «ma
i capelli da rasta non li ha più; è uno studente universitario,
di Genova mi sembra. Ha fatto da me tutti i brevetti, ultimo quello da divemaster. Vuole fare la guida sul relitto
perché non può pagarsi le immersioni, deve ancora venire
a ritirare il plastichino.»
«Mi puoi dare il suo telefono?» chiese all’amico sperando che si voltasse prima di rispondere.
«Vado a prenderlo, si chiama Fulvio», rispose Tino accompagnando le parole con una fetida bordata di alito all’aglio.
Mentre Tino si dirigeva verso il banchetto che fungeva
da scrivania, Stefano salì sul furgone e fece manovra sul
molo.
«Chiudi tutto», disse a Tino «ti riporto indietro nel pomeriggio.»
Il viaggio verso il consorzio, anche se di soli dieci minuti, fu una serie di conati di vomito dietro l’altro. Il finestrino aperto non migliorava la salubrità dell’aria, anzi la
peggiorava.
All’arrivo del Porter, una piccola folla assalì il minuscolo furgone; erano i vari gestori dei diving che volevano
conoscere le ultime novità sul sequestro del relitto.
Le domande dei seri visi erano facilmente immaginabili
e Stefano decise di attaccare prima ancora di essere attaccato.
«Allora, se non mi assalite e non mi fate domande stupide vi aggiorno sulla situazione.» Stefano disse quelle parole con aria seria e decisa. Tutti i membri del consorzio lo
rispettavano e chi aveva provato a comportarsi da rompi-
scatole era stato emarginato diplomaticamente da ogni attività.
«Ma, si sa qualcosa di preciso o dobbiamo chiudere baracca e burattini?» chiese Antonio, uno degli anziani pescatori che si era convertito da pescatore a barcaiolo per
subacquei.
«Il relitto è ancora sotto sequestro. Tocca alla
Magistratura decidere quando dissequestrarlo; fino ad allora sono vietate tutte le immersioni, anche quelle scientifiche. È inutile fare pressione, più rompiamo le scatole e più
la fanno lunga per cui portate pazienza.» Mentre parlava,
la voce di Stefano era calma e sicura, ma con le spalle appoggiate al Porter, gli sembrava di essere inquisito per
qualcosa di cui non era certo colpevole.
Continuò dopo qualche secondo di pausa, non voleva
che qualcuno approfittasse di un silenzio prolungato per
fare domande che avrebbero minato il morale dei soci più
coinvolti del consorzio.
«Bisogna aspettare che l’indagine finisca. Il corpo è
stato ritrovato, ma questo lo avrete già saputo, Almiro è un
pettegolo. Attendiamo l’esito dell’autopsia, ma oggi è domenica per cui faremo riposo tutti. Chiaro? Rimandate le
immersioni fino a nuovo ordine, il comandante Santi ha
ordine di fermare e multare tutti quelli che entrano nel
campo boe e io non voglio essere richiamato per questo
genere di trasgressioni. Sono stato chiaro? Appena ci saranno novità sarete i primi a saperle. E adesso tutti al bar.»
Negli occhi dei più anziani vi era una luce di rabbia, difficile da celare. Finora tutto era andato nel migliore dei modi, ma ora bisognava attenersi a disposizioni ferree. Un tipo di subordinazione dalla quale si erano tolti andando a
fare i pescatori in proprio. Ma il capo aveva ragione, non si
poteva fare altro e nessuno dei presenti fece scene di isterismo sindacale.
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Tino rimasto dietro come un estraneo, assisteva a braccia incrociate al piccolo comizio. Quando fu terminato
stampigliò una specie di ironico sorriso a labbra strette e
scosse la testa in tanti piccoli cenni di assenso, poi avvicinatosi si congratulò con l’amico. «Dovevi fare il sindacalista», disse ridendo sotto i baffi.
Mentre i soci del consorzio, giovani e meno giovani, si
allontanavano, chi verso il bar della piazza all’angolo del
porto, chi verso le proprie urgenti occupazioni, Tino e
Stefano si accordarono sul programma della mattina.
«Vado su in ufficio a telefonare al tuo divemaster, vieni
su o preferisci andare con gli altri al bar?» chiese Stefano
all’amico.
«Vado al bar», rispose sollevando le spalle e infilando
le mani in tasca ai pantaloncini corti; anche se la temperatura consigliava un abbigliamento autunnale, lui aveva ancora gli short e i soliti sandali in gomma. Poi aggiunse: «Il
tuo ufficio senza Tarja deve essere di un triste! Meglio il
bar, così sento cosa ti dicono dietro.»
«Ecco sì, ci vediamo tra mezz’ora.» Le parole di Tino
non erano certo di conforto per continuare la giornata in
modo ideale, ma aveva ragione.
Da quando era stata inaugurata, la sede del consorzio non
era mai stata chiusa, quella era la prima domenica. Di solito già di prima mattina le persone di servizio si ritrovavano
fuori, pronte ad iniziare la giornata più intensa della settimana. Quella domenica nessuno era presente e a Stefano
quella desolazione dava ancora più angoscia; quel luogo di
vita rigogliosa, invaso da decine di persone nuove ogni giorno e dagli amici di sempre, ora gli mancava. Mai prima di
allora si era reso conto che tutto ciò che gli era causa di stress
era anche la sua gratificazione principale. Decise di non pensarci, occupando la mente con la pianificazione delle azioni
delle ore successive, prima di tutto chiamare il rasta.
Salito nel suo ufficio al secondo piano trovò una lunga
striscia rigurgitata dal fax; il bollettino meteo annunciava
l’ultimo giorno di tempo discreto prima di un peggioramento che sarebbe durato diversi giorni, a cominciare da
lunedì; una grossa perturbazione era in arrivo e la stagione
buona poteva ormai considerarsi conclusa; il giornalista
del Secolo XIX si prenotava per il martedì, voleva dettagli
sugli ultimi sviluppi del caso; una delle pagine meno chiare era di Billo che chiedeva di essere chiamato in associazione marinai; in ultimo il fax di Tarja.
Poche parole, come il carattere dei finlandesi: Air
France, BJ 304, 20.40 Nice, kisses Tarja e un grosso bacio
stampato col rossetto direttamente sul fax. Sulla copia di
Stefano la forma era un po’ sbiadita e scontornata ma inequivocabile.
Finalmente un rinforzo positivo pensò Stefano e guardandosi intorno come un adolescente in procinto di spiare
la sorella dal buco della serratura appoggiò le sue labbra su
quelle stampate sul foglio di carta termica.
Era ora di passare all’azione; si sedette alla scrivania e
digitò il numero del cellulare del tipo visto al centro ascolto sottomarino.
«Pronto?, Fulvio? Ciao, sono Stefano Tixera, ci siamo
visti ieri lì dove lavori, ti disturbo in questo momento?»
chiese Stefano con aria cortese e amichevole.
«Ah sì, buongiorno. No, sono di riposo, mi ricordo di
lei.» Fulvio attese che Stefano aggiungesse altri particolari
a quella chiamata, anche se immaginava dove sarebbe andato a parare.
«Senti, so che non sei stupido e che immagini già il motivo della mia chiamata per cui vengo subito al dunque.»
La scelta di dare del tu subito era rischiosa, ma, se funzionava, tra i due si sarebbe instaurato uno pseudo senso di
amicizia, quasi di complicità.
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«Abbiamo un problema: un ricercatore è morto e in
concomitanza di questo incidente si è verificata la presenza di un mezzo sottomarino nelle vicinanze del relitto. Ora
io non credo che ci sia una connessione tra i due fatti ma è
mio dovere verificarlo. Non credo che si tratti di un mezzo
militare, ma di qualcosa di più piccolo, forse un minisommergibile. Dalla faccia che hai fatto quando il dottor Sisti
ha detto che non erano passate unità subacquee credo che
tu possa aiutarmi. Sia chiaro non ti sto chiedendo di passare informazioni riservate, ma siccome temo che il sommergibile torni, voglio sapere quando passa dalla vostra postazione.» Al termine della dichiarazione Stefano attese qualche istante. L’interlocutore evidentemente stava pensando
a cosa rispondere per cui decise di rilanciare.
«So che ti piace fare le immersioni sul Vittorio Veneto,
per cui se mi dai un piccolo aiuto, in cambio ti offro la possibilità di fare il corso da guida e tutte le immersioni della
tua vita sul relitto completamente gratis, per sempre.»
Dall’altro apparecchio non arrivavano parole ma i rumori
di fondo segnalavano che Fulvio stava ascoltando.
«Mi basta una telefonata quando passa», aggiunse sperando che il piatto fosse abbastanza ricco.
Dopo qualche istante di silenzio il giovane prese a parlare: «Effettivamente è passato un mezzo subacqueo, nella
notte tra sabato e domenica, io ero di turno e ho registrato
la traccia anomala. L’abbiamo sentita in senso inverso dopo dodici ore circa. Di solito non possiamo parlare del nostro lavoro né tanto meno fornire informazioni ma dato
che lei mi fa una proposta molto interessante e soprattutto
perché avevo appena conosciuto Paolo al diving di Tino,
credo di poterla aiutare.»
«Bene», rispose Stefano, «dovresti chiamarmi, a qualsiasi ora, al numero che ti mando con un messaggino sul
cellulare. Mi raccomando, a qualsiasi ora.»
«D’accordo ci conti, chiedo ai miei colleghi di avvisarmi se passa quando non ci sono io e poi la richiamo. Per
l’autorizzazione come facciamo, mi fa una lettera?» Fulvio
non era certo uno sprovveduto.
«Va bene un fax?» chiese Stefano ancor più convinto
che il giovane lo avrebbe avvisato del passaggio.
«No è meglio una lettera; il fax potrebbero leggerlo in
ufficio. Lasci la lettera dal signor Corsi, passo io a prenderla uno di questi giorni.»
Entrambi erano soddisfatti dell’accordo.
Una certa soddisfazione abbracciò Stefano in quel momento, un po’ di fortuna ci vuole a questo mondo, pensò
mentre digitava il messaggino col suo numero di cellulare:
lo avrebbe spedito due volte, così tanto per essere sicuri.
Si era gia alzato dalla sedia quando si ricordò della richiesta di Billo, cercò sulla rubrica il numero
dell’Associazione Marinai di Milano e attese che l’amico
rispondesse. Era convinto di sentire l’odore del toscano,
come se viaggiasse attraverso i fili del telefono, che strani
scherzi fa la mente si disse tra sé.
«Marinai d’Italia», rispose la voce squillante di Billo.
«Ciao, sono Stefano, cosa è successo?»
«Oh ciao caro, niente. Senti ti interessano sempre le
storie sul tuo relitto?» chiese Billo sapendo gia quale fosse
la risposta.
«Certo.»
«Beh, ascolta questa, però con beneficio di inventario;
la fonte non è molto attendibile.» A quelle parole seguì il
riverbero di un tumulto popolare, percepito attraverso il telefono come lo starnazzare di un gruppo di oche.
Billo, sedata la rivolta minacciando i numerosi presenti
di espulsione dalla segreteria, riprese a parlare: «La storia
te la racconta Valerio, te lo ricordi quello che ha restaurato
le armi al museo navale?»
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«Sì, me lo ricordo, ma quanti siete lì?»
«Troppi», rispose Billo, «adesso ne elimino qualcuno,
intanto ti passo Valerio. Mi raccomando, beneficio di inventario.» Le ultime parole di Billo erano molto chiare per
Stefano, la storia raccontata poteva non essere vera.
«Uhè Valerio, cosa mi racconti?»
Valerio era emozionato, aveva raccontato quella storia
solo una volta e non era stato creduto, aveva accettato di
raccontarla di nuovo solo su pressione di Billo.
«Allora senti questa», disse Valerio al telefono con voce
tremolante. «All’ultimo raduno annuale sono finito al tavolo con uno sui quarant’anni di La Spezia, lavora al porto, ha una ditta di import export. All’inizio stava molto
sulle sue, era un tavolo di sfigati, praticamente non c’era
posto al tavolo del nostro gruppo e ci hanno messo in un
tavolo a parte, così nessuno conosceva gli altri. Dopo un
bel po’ di frizzantino, questo qui comincia a raccontare
una storia dicendo che non l’aveva mai raccontata a nessuno.»
«Valerio sii coinciso, stringi», disse Stefano.
«Ah sì, praticamente nel 1980 era imbarcato sul
Vittorio Veneto, elettricista. Erano in crociera in Mar Nero
e durante una sosta a Batumi in compagnia di un suo amico, viene sequestrato da un gruppo di brutti ceffi, lui viene
trattenuto e all’amico gli dicono in italiano ma con un forte accento arabo, di tornare sulla nave e dire al comandante Ablondi di andare da loro con quello che gli è stato dato
a Odessa o uccideranno il marinaio. Il marinaio libero corre dal comandante Ablondi e riferisce; questi gli chiede di
non dire nulla al comandante della nave e scende a terra
per andare dagli arabi. Quando arriva dai rapitori chiede
che venga lasciato andare il marinaio e il giovane, su ordine dell’ufficiale, ritorna immediatamente a bordo e dà l’allarme; il comandante della nave invia il marinaio sul posto
del rapimento con una squadra armata, ma del comandante
Ablondi nessuna traccia, sparito. Di quell’ufficiale non si è
saputo più nulla: per la Marina risulta disperso in alto mare
a causa del maltempo anche se tutti sanno che è stato ucciso dagli arabi.»
«Come hai detto che si chiamava l’ufficiale?» chiese
Stefano colto da una scarica di adrenalina sufficiente a resuscitare un morto.
«Ablondi mi pare», rispose Valerio.
«Interessante, molto interessante. Senti mi ripassi
Billo? Stai lì vicino che adesso ti chiederà qualcosa», disse
Stefano al marinaio in pensione.
«Prendila con le pinze», disse Billo appena ricevuta la
cornetta.
«Certo, naturalmente, però devi farmi un grosso favore,
cerca di rintracciare questo tipo, quello sequestrato che sta
a Spezia, poi controlla che cosa risulta su questo Ablondi
scomparso senza lasciare traccia.» Stefano era agitato, una
serie di coincidenze lo stava turbando. L’Ablondi scomparso sul Vittorio Veneto aveva qualcosa a che fare con
Marco, il costruttore dei minisommergibili o era solo una
coincidenza, un’omonimia? Occorreva fare luce.
«Dovrò ungere vecchi amici con pranzi e bottiglie di vino», disse Billo.
«Pago io», rispose Stefano ridendo. «Appena sai qualcosa mandami un fax o chiamami, ciao.»
La mattina cominciava a prendere una piega positiva.
Stefano si distese sullo schienale della poltroncina appoggiando le mani dietro la nuca, cercando di stirarsi le ossa,
proprio in quel momento Tino entrò dalla porta.
«Avevi detto mezz’ora», disse tenendo l’orologio tra il
pollice e l’indice della mano sinistra.
Stefano scattò in piedi e disse: «Hai ragione, andiamo.»
Lo stato d’animo era quello giusto per le prove che si ap-
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prestava a fare sulla sua creatura, anche se mille pensieri
erano in agguato, pronti a impadronirsi della mente se si
fosse distratto per un solo istante.
CAPITOLO TRENTA
HOT MAP
STEFANO accese il computer portatile e attese qualche se-
condo; non appena la macchina fu pronta, spostò il mouse
sull’icona di Hotmap e aprì il programma.
La schermata che si presentò era quella di una carta
nautica digitale della Liguria, molto dettagliata. Il programma di cartografia gli era stato consigliato dal wrecktutor dell’AIDMEN, perché era lo stesso usato per l’Archivio Relitti del Mediterraneo Centrale. Oltre alla normale cartografia nautica il programma permetteva di sovrapporre dei layout, come dei fogli trasparenti da appoggiare sulla carta, forniti con pacchetti software aggiuntivi;
ad esempio le informazioni meteo o le correnti marine. Alcuni pacchetti permettevano sofisticate funzioni di navigazione come il tracciamento di rotte e la navigazione costiera.
Il prodotto più utilizzato era la cartografia da pesca,
quella derivata direttamente dal lavoro svolto dal Comandante Fusco tra il 1950 e il 1970. Sulla cartografia
da pesca erano segnate tutte le informazioni che interessano a un sub, la conformazione del fondo, come posidonia, secche, scogli e soprattutto le afferrature, oggetti misteriosi che imprigionano le reti dei pescherecci a strascico. Nella maggior parte dei casi si trattava di relitti,
l’oggetto dei desideri del wrecker, il relittaro, categoria
di cui facevano parte Stefano e Bambinoricco. Le informazioni sulla carta non erano molto precise; a causa dei
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continui rimaneggiamenti cartografici degli editori, i punti avevano subito variazioni, ma con un attento studio Stefano era riuscito a calcolare un fattore di correzione da applicare ad ogni punto: con quel sistema la carta diventava precisa e fedele.
La cartografia istallata sul computer comprendeva oltre
alle carte da pesca anche il modulo per il tracciamento delle rotte, lo strumento che avrebbe usato per calcolare il
percorso del sottomarino.
Hot Map permetteva di visionare la carta nautica digitale a diverse scale, così Stefano iniziò a calcolare approssimativamente quanto era distante il cantiere di Varazze dal
suo relitto. Con lo strumento “compasso” cliccò una volta
sull’abitato di Varazze e successivamente nella zona del
relitto: con sorpresa scoprì che la distanza era di circa quaranta miglia, troppo per un piccolo sommergibile a propulsione elettrica.
Prima di proseguire recuperò le fotocopie che gli aveva
fatto Martino nella sede dell’Anmi; voleva rinfrescarsi la
memoria circa la forma e le caratteristiche del sommergibile.
La forma del minisub era quella di una bomba, con
un’elica dietro e corti timoni orizzontali e verticali. La forma dello scafo era bombata, a forma di goccia, nessuna sezione era cilindrica, sembrava un grosso pesce, di quelli
con le pinne piccole attaccate al corpo.
In una delle foto lo scafo era ripreso di profilo, mostrando la buffa ma idrodinamica silhouette, appoggiato a una
slitta di legno che serviva da stallo. La mente di Stefano
tornò all’immagine della forma vista sul fondo del mare,
qualcosa ora non quadrava. In un’altra foto il minisub aveva di fianco una persona e le proporzioni gli fecero capire
che l’orma vista sulla sabbia era molto più grande.
Nell’ultima pagina vi era una tabella con tutte le carat-
teristiche del VES 600, e scorrendole lentamente ebbe la
conferma di quanto immaginato.
Lo scafo era lungo 25,6 pollici, poco più di sette metri e
mezzo, ma l’orma che ricordava lui era molto più grande.
Il minisub avrebbe potuto farla strisciando con lo scafo,
ma non ricordava segni simili alle strisciate sulla sabbia. Il
letto era composto, netto, come stampato.
Tornò a scorrere le caratteristiche del mezzo subacqueo.
Altri dati non quadravano. L’autonomia del mezzo alla velocità standard era di sole venti miglia, riducendo la velocità a tre nodi l’autonomia saliva a settanta miglia, nemmeno sufficienti ad andare e tornare. Se fosse stato lui a
condurre i test in mare non avrebbe certo rischiato di arrivare al limite dell’autonomia, in caso di avaria la distanza
dalla base era notevole, a meno che non vi fosse una nave
appoggio nelle vicinanze. Troppi rischi, perché correrli, si
chiedeva. Senza una nave appoggio che segue in superficie, la gita diventava pericolosa; occorreva stare rannicchiati in un tubo largo poco più di un metro per circa
trenta ore, una prospettiva poco allettante. Perché mai poi
un collaudatore avrebbe dovuto correre tutti quei rischi?
Poteva incrociare fuori da Varazze e aspettare che le batterie si scaricassero; una volta in superficie chiamava un
battello per farsi riportare in porto e tutto era finito. Senza rischi.
Perché quel fottuto sommergibile era arrivato fino lì? Si
chiedeva Stefano. Ma alla domanda non sapeva dare una
risposta, nemmeno facendo uso della sua fantasia, e ne
aveva tanta.
Rimase qualche minuto a fissare la parete, aspettando
che qualche pensiero si impadronisse della mente, magari
un piccolo suggerimento all’enigma. Tutto inutile, tutto
ciò che passò davanti agli occhi erano le immagini del corpo di Paolo dilaniato dalla murena.
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Afferrò il mouse con la mano destra e selezionò lo strumento “mano” del programma, con quello poteva spostare
la carta sul monitor e controllare il tragitto da compiere.
Stefano iniziò a pensare ad alta voce: vediamo, io starei
tra la batimetria dei cinquanta e quella dei cento metri, così eviterei tutti gli ostacoli sommersi e ad una profondità di
quaranta metri me ne infischierei anche delle superpetroliere, ci passerei sotto, poi starei tra il miglio e le due miglia dalla costa, così eviterei tutte le piccole imbarcazioni,
pescatori, traghetti, eccetera, anzi seguirei la batimetria dei
cento metri.
Ingrandì la carta fino alla scala 1 a cinquantamila, poi
posizionò lo schermo sull’abitato di Varazze e selezionando col mouse lo strumento “matita” iniziò a tracciare
la rotta. Dunque, si disse riprendendo a parlarsi, fuori subito da Varazze per due miglia e mezzo, rotta centocinquantotto gradi, così evitiamo la zona con gli allevamenti, le zone di ripopolamento e la zona di raggruppamenti
rocciosi, poi viriamo per duecentotrentacinque gradi e stiamo fuori dalla zona di ancoraggio fuori da Savona; passando a due miglia da Capo di Vado risolvo tutti i miei problemi; dopo tre miglia e mezzo viriamo per duecento
venti gradi e stiamo fuori dalla zona affollata di Vado Ligure, via così per tre virgola otto miglia, poi all’altezza di
Bergeggi piego leggermente verso Capo Noli, non credo
che sappia del centro di ascolto sottomarino, altrimenti lo
avrebbe evitato anche la prima volta, Bergeggi-Capo Noli due virgola sette miglia per duecento dieci gradi. Da
Capo Noli dirigo fuori da Finale, tre virgola quattro miglia per duecentoventiquattro gradì, in questa zona non ci
sono ostacoli. A questo punto sono in 44° 09’ nord e 008°
23’ est, da qui con quattro miglia e mezzo per duecentoquarantatre gradi arrivo fuori da Loano. Cacchio lì c’è la
barriera artificiale, devo stare fuori di almeno un miglio e
mezzo. Da Loano piego a sud, rotta centonovantasette gradi via per sette miglia. Ormai ho passato l’isola della Gallinara posso dirigere per Capo Mele, quattro miglia per
duecentootto gradi; cavolo a Capo Mele ho già fatto trenta miglia.
Da Capo Mele punto subito a Capo Berta, sono quasi
arrivato, cinque miglia per duecentoquindici gradi, certo
che se quel tipo sa arrivare fino a qui in immersione è uno
con le palle. Io a Capo Berta riemergerei, se non altro per
fare il punto con il gps. Da lì con due segmenti si arriva al
relitto, non ci saranno più di tre miglia.
Ma chi cazzo glielo fa fare a quello di arrivare fino a
qui? È impossibile che venga solo per immergersi sul relitto.
Ora le immagini del Vittorio Veneto affollavano la mente stanca, le sbarre dissaldate, Paolo all’interno del relitto,
l’orma, qualcosa cominciava a concatenarsi ma il senso logico sfuggiva ancora. Chissà se tutti quegli eventi avevano
a che fare con la morte del padre di Marco Ablondi.
E se stesse cercando il cadavere del padre o delle prove? Si chiese Stefano in silenzio, quelle idee gli sembravano tanto stupide che nemmeno lui voleva sentirle.
«Ma allora sei scemo», si urlò specchiandosi nel monitor del PC.
Atteniamoci ai fatti si disse nuovamente col pensiero,
un fottuto sommergibile viene fino a qui per fare qualcosa
sul mio relitto, senza interpellarmi e causando non so come la morte di un amico.
Cazzo ma io questo qui lo faccio affondare nella sua
supposta.
Stefano era proprio incazzato, molto incazzato.
Riprese a tracciare una nuova rotta che partiva da Capo
Noli e arrivava sempre al relitto, seguendo i segmenti della
precedente.
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Una volta tracciata la rotta, chiese al software il tempo
di percorrenza alla velocità di tre nodi, il programma ci
mise dieci secondi a dare la risposta, nove ore e quindici
minuti, poi calcolò il tempo alla velocità di cinque nodi,
cinque ore e mezzo, infine lo ricalcolò alla velocità di otto
nodi, tre ore e mezzo. Le velocità erano quelle probabili
del sommergibile: se Kodó lo avvisava da Capo Noli, poteva con una certa approssimazione capire quando sarebbe
arrivato sul relitto.
Cosa avrebbe fatto ancora non lo sapeva ma qualcosa
avrebbe fatto, quella fottuta supposta e chi stava a bordo
gli doveva delle spiegazioni.
segnale, cosa molto strana. Probabilmente un’interruzione
momentanea pensò.
Mentre stava per uscire dall’ufficio squillò il telefono,
era già vicino alla porta, con il dito sul pulsante della luce
e quello squillo non se lo aspettava, a quell’ora poi.
Per qualche secondo rimase in bilico tra l’andare a rispondere e il chiudere la porta e andarsene, decise di rispondere, ma quando sollevò la cornetta era troppo tardi,
la comunicazione era stata interrotta. Stefano si chiese chi
era a quell’ora, si indispettì con se stesso per non essersi
deciso prima a rispondere.
Erano ormai le venti passate, era ora di riposarsi un po’,
la giornata di lunedì sarebbe stata pesante. Sicuramente ci
sarebbe stato un via vai di soci del consorzio desiderosi di
avere informazioni precise e Stefano era propenso a fare
una specie di riunione generale. Quella sera decise di cenare a base di gelato, due passi in centro alla gelateria Igloo e
una bella coppa di gelato alle creme. Già immaginava la
distesa di gusti e colori dietro la vetrina, i canditi annegati
nella cassata, i chicchi di caffè fatti col cioccolato sul gelato al gusto di caffè e il pan di spagna nella zuppa inglese
che ferito mortalmente dalla paletta perdeva rigagnoli di
alchermes.
Prima di uscire diede un’occhiata allo schermo del telefono cellulare: si accorse che era spento, lo accese, sperando che il gestore gli segnalasse l’arrivo di chiamate senza
risposta.
Nessun messaggio, il che era molto strano, di solito era
bersagliato dalle telefonate di tutti, amici, soci, subacquei.
Stefano aveva l’impressione che quella fosse la calma prima della tempesta, e i giorni successivi gli avrebbero dato
ragione. Si accorse anche che in quel momento non vi era
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CAPITOLO TRENTUNO
ARRIVA
per il centro passava di fianco al duomo di
Oneglia, la temperatura teneva ancora ma non era più
quella mite della settimana scorsa, l’aria calda proveniente
dall’Africa aveva smesso di riscaldare la Riviera e sebbene
di alcuni gradi superiore di molti gradi alla media stagionale, l’autunno era alle porte.
La gelateria era deserta, troppo presto per la processione di turisti che dopo cena visitavano quel luogo di culto
per golosi.
Avvicinatosi alla vetrina delle creme, scelse per quella
sera la supercoppa da tre euro, caffè, cassata siciliana e noce, con due cialde triangolari da usare come cucchiaino
finché non si fossero sciolte in bocca.
Aveva appena finito di pagare e messo via le due monete di resto quando squillò il cellulare nella tasca, la situazione richiedeva scelte veloci e precise.
Primo mettere via i soldi, secondo aprire lo Star tac e
vedere il numero, terzo e più importante prendere la coppa
e iniziare a mangiarla prima che colasse in un rivo semiliquido e appiccicoso. La supercoppa richiedeva due mani,
una per tenerla e una per mangiare il gelato abbastanza velocemente. La montagna di gelato superava la circonferenza della coppa di cartoncino plastificato, così se iniziava a
sciogliersi avrebbe colato sulla mano che la teneva. Ogni
due o tre cucchiaini occorreva, con fare esperto e preciso,
leccare il bordo della coppetta per evitare che le dita si tinLA
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STRADA
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gessero di colloso gelato. Stefano era un esperto nell’arte
della supercoppa ma con quella telefonata in arrivo la cosa
non era più tanto semplice, occorreva agire tempestivamente.
Lesse sul visore del cellulare il numero, cercando di tenere sotto controllo il livello di squagliamento del gelato;
il numero era un numero del cazzo, di quelli mai visti, comandato da un istinto primordiale aprì la comunicazione.
«Stefano? Ciao.»
Era Tarja, l’unico motivo per cui avrebbe gettato via il
gelato se ce ne fosse stato bisogno, ma vista la situazione
decise di salvare capra e cavoli. Velocemente si infilò nella
tasca dei pantaloni alcuni fazzoletti di carta e un cucchiaino di plastica pulito, poi sollevò la supercoppa e iniziò a
leccarla lungo il bordo affinché non colasse sulle dita.
«mmhhll, ciao», rispose cercando di non perdere neanche una goccia del prezioso nettare.
«Cosa fa tu?» chiese Tarja, aveva già capito che il compagno stava mangiando, ma era curiosa di sapere cosa.
«Mmhh Gelato, mmhh»
«Tu depresso e mangia gelato?» chiese l’amica schernendo Stefano indaffarato con alcune gocce indisciplinate.
Si era preparato mentalmente a quella telefonata, aveva
studiato con cura ogni parola, in modo che non trasparisse
la depressione per la mancanza di quella donna, ma erano
bastate poche parole e tutta le difese erano cadute mostrando il lato tenero dell’uomo.
«Sì, quando torni?» chiese, mentre premeva tra la lingua e il palato una grossa leccata di cassata, i canditi, ripuliti del gelato li avrebbe macerati sotto i denti per estrarre
il dolce aroma.
«Domani, io a te manca tanto?»
«Mmhhlbleuissimo, tantissimo», deglutendo velocemente.
Stefano moriva dalla voglia di sapere se Tarja aveva fatto sesso con il suo fidanzato ma non aveva il coraggio di
chiederlo, almeno non per telefono, lo avrebbe fatto di persona, anche se sapeva che a Tarja avrebbe dato fastidio.
Lo spettacolo che stava dando per la strada divertiva
molto i pochi passanti che circolavano a quell’ora, distribuendo l’attenzione tra il gelato e il cellulare, a seconda di
chi prevalesse per importanza. Se avesse sbagliato la sequenza avrebbe leccato con la lingua abrasiva il telefono e
messo il gelato nell’orecchio, proprio quello che si aspettavano i passanti da un momento all’altro.
«Tuto bene?» chiese la finlandese.
«Sì, abbiamo trovato il corpo di Paolo, domani ti racconto, la tua famiglia sta bene?»
«Molto bene, grazie, ora io va», la donna attese qualche
secondo poi ordinò: «manda me un bacio!»
La richiesta o meglio l’ordine faceva molto piacere a
Stefano, per lui significava essere presente ad ogni livello
nella mente della donna, da quello affettivo a quello sessuale, ma la richiesta lo imbarazzava, un bacio proprio lì,
in strada, con la bocca piena di gelato!
Fece finta di portare la coppa alla bocca e senza allontanare il cellulare schioccò un bacio, sperando che qualche
rumore di fondo della strada lo coprisse. L’aria innocente e
naturale non lo salvò, due giovani amici sull’altro lato della strada lo guardavano come se fosse nudo. Terminata la
conversazione ripose il cellulare nella tasca destra, farlo
con la mano sinistra non era molto agevole per via del neoprene biologico che fasciava l’addome come una pancera
del dottor Gibaud, ma con qualche contrazione addominale vi riuscì. Prese il cucchiaino dalla tasca sinistra e terminò la degustazione del gelato ridotto ormai a un sorbetto.
Alle nove era già nel Porter diretto a casa, anche quella sera la stanchezza della stagione cominciava a farsi sentire..
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La casa di legno lo attendeva vuota, ma la telefonata
con Tarja lo aveva arrapato, era indeciso se masturbarsi
prima di andare a dormire o lasciare le cose come stavano
fino a domani, esplodendo poi come una bomba.
La prima durerò al massimo tre minuti, disse tra sé e sé.
Decise di lasciare il carico ormonale intatto fino al giorno successivo, anche se sapeva che questo non lo avrebbe
fatto dormire. Un’erezione ininterrotta lo avrebbe accompagnato per tutta la notte.
Alle nove e quaranta era già sul letto, aveva riempito le
ciotole di Diablo con acqua e crocchette visto che da giorni non si cucinava in casa.
Si abbandonò vestito a quel genere di torpore che ti
chiede dieci minuti di riposo e se ne prende duecento.
Ancora vestito perse i sensi come svenuto. Riaprì gli occhi
pochi minuti dopo, secondo le sue sensazioni, dopo tre ore
secondo l’orologio al polso.
Il cellulare squillava. Stefano aprì il telefono a forma di
conchiglia e lesse il numero, era quello di Kodó.
«Pronto», rispose Stefano con voce cavernosa.
«Tixera?»
«Sì!»
«Forse ci siamo», disse il giovane con voce decisa, «è
appena passato qualcosa, un mezzo sottomarino, perché in
superficie non hanno visto nulla e nemmeno il nostro radar
lo ha individuato. Però c’è qualcosa di strano, il mezzo è
passato nello stesso punto dell’altra volta ma ha una segnatura acustica differente, solo il venticinque per cento
coincide con il precedente, questo qui ha un rumore strano,
come un motore diesel che funziona sott’acqua.»
Stefano rimase in ascolto senza interrompere.
Il giovane proseguì: «Non sono sicuro che sia lo stesso,
ma l’ho avvisata ugualmente, spero di non averla disturbata.»
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Stefano spostò il cellulare dall’orecchio, fissò il vuoto
della parete di fronte poi disse: «È lo stesso, me lo sento.»
«Mi sai dire direzione e velocità?» chiese al giovane.
«Cinque nodi costante, direzione sud», rispose Kodó.
«Grazie, richiamami se passa qualcosa d’altro o se ritorna indietro.»
«Va bene», rispose il giovane studente chiudendo la comunicazione.
Stefano guardò l’orologio, le zero quaranta, poi chiuse
gli occhi e rammentò i tempi di percorrenza da Capo Noli.
Cinque nodi, cinque ore e mezza, alle sei e dieci sarebbe stato sul relitto, sempre ammesso che fosse diretto lì.
La stanchezza non se ne andava anche se l’erezione
proseguiva, si diresse stancamente in bagno a tentoni, si
slacciò i pantaloni, pensava che facendo pipì la situazione
si sarebbe smollata un po’. Temendo gli scarti di direzione
dovuti al membro duro, decise di sedersi sulla tazza, non
era il caso di far trovare a Tarja il cesso lavato con l’urina.
Piegò l’asta verso il basso e cercò di rilassare la prostata,
cosa non certo facile in quello stato di eccitazione. Dopo
dieci minuti la situazione si era scaricata e tornò a letto.
Guardò di nuovo l’orologio e decise di concedersi altre
due ore di riposo, alle tre la sveglia avrebbe suonato e il
gioco poteva cominciare.
Si riaddormentò vestito con i pantaloni sbottonati.
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CAPITOLO TRENTADUE
MINISOMMERGIBILI
I VES, Veicolo Esploratore Sottomarino, erano minisom-
mergibili ideati e costruiti dalla TGO di Zingonia, nota
azienda italiana all’avanguardia nella tecnologia sottomarina, erede della cantieristica che sin dalla prima guerra
mondiale materializza la genialità propria degli uomini di
mare. Dell’azienda, leader occidentale assieme alla
Cos.Mo.S di Livorno, erano titolari due tra i migliori ingegneri della Galeazzi e della Sub Sea Oil Service, joint venture voluta da Shell e Micoperi, dal 1978 controllata completamente da quest’ultima.
La cantieristica italiana proponeva al mercato mezzi
subacquei destinati al lavoro, come il minisommergibile
della Fincantieri da 27 tonnellate, modificabile per l’impiego bellico, oppure mezzi prettamente militari convertibili all’uso civile come il minisommergibile Galeazzi da 8
tonnellate, con tre uomini di equipaggio o i modelli della
SSOS. Questi ultimi, lunghi dai 23 ai 27 metri, stazzavano
dalle 80 alle 120 tonnellate con allestimenti diversificati.
La versione OGP, Oceanographic General Purpose, può
essere adibita a ogni tipo di ricerca oceanografica come allo spionaggio sottomarino. Le versioni Light Weight
Torpedo e Heavy Weight Torpedo possono essere equipaggiate rispettivamente con 4 siluri leggeri o 2 siluri pesanti.
Tutti i modelli possono trasportare 2 mezzi subacquei con
equipaggio di due incursori ciascuno.
I due titolari Nerini e Diavoli, dopo anni passati a pro278
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gettare macchine diaboliche per le varie potenze occidentali, con la fine della guerra fredda l’azienda, decisero di
ripiegare sul settore civile, in particolare il ricco mercato
nautico nordamericano, una clientela capace di apprezzare
la tecnologia italiana nel campo dei minisommergibili.
Con l’inizio della perestroika, molte aziende sono rimaste senza commesse militari, costrette a reinventarsi una
produzione che potesse riciclare l’azienda sul mercato civile. Alcune ci riuscivano, altre no. Un esempio per tutte le
aziende fu quello dei cantieri finlandesi Wartsila, passati
dalla costruzione di sottomarini nucleari a quella di sommergibili turistici, i vari Tritone di Capri e Portofino.
Alla TGO tutta la tecnologia militare sviluppata nel
campo dei veicoli sottomarini è stata trasferita al mercato
civile, proponendo una qualità unica al mondo.
Il fiore all’occhiello era il VES 600, Veicolo
Esploratore Sottomarino, un minisommergibile lungo poco più di otto metri con un diametro di un metro e venti
centimetri, trasportava comodamente tre persone.
A scelta del committente era possibile trasportare un pilota e due passeggeri o un pilota e due sub. La versione
con due sub prevedeva l’uscita dal mezzo in immersione
tramite il portello lock in lock out, e la decompressione all’interno del mezzo, utilizzando il comparto come camera
iperbarica.
Il VES 600 aveva diversi giocattoli che lo rendevano
molto interessante ad un appassionato di relitti, sia moderni che classici. Un magnetometro rilevava ogni massa ferrosa fino a cento metri di distanza dal relitto, mentre un sonar, montato a prua, esplorava l’area davanti al sommergibile fino a cinquecento metri di distanza, fornendo un’immagine del fondo di qualità fotografica. Era disponibile
come optional anche l’istallazione di un side scan sonar, in
modo da scandagliare una lunga striscia di fondo.
L’autonomia era di circa centocinquanta miglia a tre nodi,
scendeva a novanta miglia a otto nodi o quaranta miglia a
cinque nodi. Un grosso oblò a prua, di poco meno di novanta centimetri, permetteva uno spettacolo sottomarino
da lasciare senza fiato; la superficie interna piana e quella
esterna bombata, annullavano la distorsione della vista dovuta all’acqua.
La forma del minisommergibile assomigliava a quella
di una bomba di aereo, con una grossa elica a cinque pale
del diametro di circa un metro. Una specie di siluro con a
bordo tre persone intente a divertirsi, anche se era stato
progettato per trasportare tre incursori pronti a violare un
porto o affondare navi nemiche ancorate in rada.
I VES 600, spopolavano tra i ricchi americani che utilizzavano i minisub per razziare i fondali del Mediterraneo
e dei Caraibi, ma non era il solo modello in catalogo alla
TGO.
Su commissione di un ricco olandese, era stato studiato
un minisub molto più grande del VES 600, operativo solo
fino a centottanta metri di profondità.
Il committente aveva chiesto un mezzo subacqueo altamente specializzato, lungo non più di dodici metri, con capacità operative ben al di sopra di un sommergibile per attività ludiche e ricreative. Il minisub avrebbe trasportato
un equipaggio di quattro uomini, un pilota, un secondo pilota addetto al compartimento lock in lock out addetto anche alla decompressione dei sub e due sommozzatori professionisti. La dotazione speciale comprendeva un compartimento di carico bagnato, ossia costantemente allagato
della capacita di un metro cubo, il solito compartimento
per la fuoriuscita dei sommozzatori ma con un portello più
grande, in modo da poter essere utilizzato anche con apparecchi rebreather, molto più ingombranti delle bombole e
in ultimo un sistema propulsivo diesel-elettrico, come
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quello dei sommergibili convenzionali, ma utilizzabile in
immersione. Una vera e propria sfida tecnologica.
Un VES 600 costava al ricco armatore americano circa
ottocentomila dollari; per la commessa del nuovo sommergibile, la TGO ricevette dal committente olandese quattro
milioni di dollari per costruire un prototipo, e se il modello
avesse soddisfatto il capitolato ne sarebbero stati costruiti
almeno altri due esemplari. La realizzazione del nuovo minisub non era un grosso problema per la TGO, anche se
immaginavano che il mezzo sarebbe servito per i traffici
poco leciti di qualche contrabbandiere o narcotrafficante,
ma gli affari erano affari. Il problema più grosso lo avrebbe dato il propulsore diesel subacqueo, non tanto per la
realizzazione, tra l’altro già sperimentata in ambito militare, quanto per la formazione del personale di bordo. Vi erano propulsori diesel che funzionavano ad ossigeno liquido,
ma la loro conduzione richiedeva esperienza e capacità
tecniche appannaggio dei militari, e il committente escludeva a priori l’uso di personale proveniente dalle forze armate. La TGO optò quindi per l’alimentazione ad ossigeno
gassoso, meno efficiente come rendimento ma più sicuro e
gestibile da parte del personale civile reclutato come equipaggio.
Il motore diesel Perkins, uno dei più robusti, fu dotato
di modulo UAPE, Underwater Auxiliary Propulsion
Engine, un sistema propulsivo a circuito chiuso alimentato
a ossigeno gassoso, consentendo un’autonomia, a seconda
della quantità di ossigeno stoccato di due-trecento miglia.
Con il diesel in moto il sommergibile non era certo silenzioso come quando usava il motore elettrico, ma non si
può avere tutto nella vita, al committente interessava
un’autonomia di diverse centinaia di miglia. Il motore diesel poteva essere utilizzato, in immersione come in superficie, per la propulsione diretta, per la ricarica delle batte-
rie, per la propulsione accoppiata, diesel più motore elettrico, uso previsto in caso di rottura della trasmissione diesel-elica.
Un altro piccolo diesel sempre a circuito chiuso, abbinato a un generatore, provvedeva alla ricarica delle batterie e ai servizi di bordo in caso di avaria o inutilizzo del
diesel primario.
Lo scafo era lungo dodici metri e trenta centimetri, per
un diametro di due metri, a prua vi era un oblò simile a
quello dei VES, un po’ più grande, circa un metro di diametro, i timoni di prua erano proporzionati al mezzo, e per
fare in modo che durante il ricovero o l’ormeggio non subissero danni, erano sollevabili, come quelli di un vero
sommergibile. I timoni posteriori erano a forma di X e
avevano abbondanti superfici, iniziavano poco dopo la rastrematura dello scafo e proseguivano fino a pochi centimetri dall’elica. Sette scimitarre di ottanta centimetri
ognuna, forgiate in lega SONOSTOM, formavano un vero
gioiello di metallurgia. Combinate alla forma perfetta dello scafo rendevano la costruzione subacquea uno squalo
estremamente silenzioso. A prua estrema, dietro l’oblò, vi
era il posto del pilota; sistemato perpendicolarmente, o per
baglio, come dicono in Marina, vi era il posto del secondo
pilota addetto al compartimento lock in lock out e ai sistemi di scoperta di bordo. Queste due postazioni occupavano il primo quarto di sommergibile, il compartimento per
l’uscita dei sub occupava il secondo quarto, il vano di carico occupava meno di un metro e venti della lunghezza del
sommergibile, tutto il resto era occupato dai motori elettrici, quello diesel, le varie trasmissioni idrauliche e meccaniche. Le batterie erano sistemate nel fondo del minisub,
isolate in un ambiente reso inerte con l’immissione di azoto. In un comparto a se, separato dalle batterie e dal combustibile, trovano posto le bombole da venti litri necessarie
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per il compartimento lock in lock out in funzione di camera iperbarica. Non occorreva molto gas per la decompressione dei sub; gli operatori, una volta entrati nel vano pressurizzato e asciutto, indossavano una maschera granfacciale collegata a un sistema di riciclo del gas, gestito dall’operatore iperbarico. Una specie di apparecchio simile ad un
rebreather forniva ai sub la miscela esatta per la deco, riciclandola. L’atmosfera della camera veniva realizzata miscelando quantità di gas allo stato puro, mantenendo la
percentuale di ossigeno al limite della respirabilità, in modo che se un sub doveva togliere la maschera granfacciale
non correva nessun rischio di ipossia. Anche la percentuale
di azoto della camera era mantenuta sotto la soglia della
narcosi aggiungendo elio; la dispersione termica non era
un problema, la camera era riscaldata a 35 gradi centigradi. A prua un rigonfiamento simile ad un grosso bernoccolo conteneva il sonar di scoperta OAS, Obstacle Avoidance
Sonar, con portata di cinquecento metri, lo stesso usato in
ambito militare per individuare gli ordigni esplosivi e gli
ostacoli alla navigazione sottomarina. Un periscopio di
due metri conteneva videocamera digitale con ingrandimento di 500X, sensore TTL a intensificazione di luce per
l’esplorazione ambientale notturna e antenna gps.
Uno squalo di acciaio dal cuore italiano si preparava a
solcare le rotte dei Caraibi e del Sudamerica: nelle sue viscere, ignobili confezioni di polvere bianca si sarebbero
trasformate in fruscianti narcodollari.
Ma prima di seminare terrore in acque tropicali, il metallico essere si fece le cartilagini nel Mare Nostrum: era
infatti il sottomarino che periodicamente visitava il relitto
del Vittorio Veneto, e non certo per rendere omaggio alla
gloriosa unità navale.
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CAPITOLO TRENTATRÈ
LUNEDÌ
QUANDO suonò la sveglia il membro era nella stessa condi-
zione di quando lo aveva lasciato, sapeva che se fosse andato in bagno a masturbarsi tutta la rabbia se ne sarebbe
andata e lui sarebbe tornato a letto.
Ma quel giorno aveva deciso di fottere qualcuno e al
bagno non ci andò.
Spalancò gli occhi e col cuore che batteva forte uscì di
casa.
Aveva tre ore di tempo per preparare il comitato di accoglienza. Tenne il cellulare acceso, se il sommergibile
fosse tornato indietro Kodó l’avrebbe avvisato.
Fu alla base mare in dieci minuti, la strada non era mai
stata così vuota.
Alle tre e trenta Stefano era intento nei preparativi per
l’immersione, la mano destra accarezzava il mento ispido
di una peluria ribelle, distribuita senza alcun ordine apparente sull’epidermide del viso. La sinistra reggeva il gomito destro all’altezza del fegato. Mentre guardava in ogni
angolo del locale adibito a diving del consorzio, mentalmente faceva un inventario di tutto quello che gli occorreva. Visualizzava ogni pezzo di attrezzatura e lo sistemava in una lista mentale, una specie di check list come quelle che si compilano sui jet prima del decollo. Muta stagna, OK. Sottomuta, OK. Maschera, cappuccio, mezzi
guanti, OK. Profondimetro, bussola, orologio, OK. Pinne
con le molle, OK. Bombolino di argon, OK anche se c’è
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l’aria al posto dell’argon. Rebreather, OK, l’ho resettato
nel pomeriggio. Scooter, ok, le batterie sono cariche, lo
chiudo subito e non ci penso più. Torce, OK. Porto solo
quelle piccole di riserva, altrimenti mi vedono da Diano
Marina. Bombole di back up. Bombole di back up un cazzo, si disse nella testa.
Cominciò a passare in rassegna tutte le bombole disponibili. In un angolo vide le due da sette litri di nitrox cinquanta, quelle usate nel recupero di Paolo. Una doveva essere piena e l’altra semivuota. Per sciogliere ogni dubbio
prese il manometro e l’analizzatore di ossigeno, per non
farsi male occorreva adottare procedure a prova di stupido
e lì di stupidi ne giravano parecchi.
Anche se ricordava perfettamente che la bombola ai
suoi piedi era quella piena, avvitò la filettatura DIN del
manometro sul rubinetto e lentamente lo aprì. Come previsto, era quella piena, ma anche se era sicuro che fosse piena di nitrox cinquanta decise di analizzarla. Accese il
Deox, l’analizzatore di ossigeno e attese che si calibrasse
sul valore di 20,9, la percentuale di ossigeno presente nell’aria. Tolse il manometro dal rubinetto della bombola e,
tarato lo strumento, indirizzò un leggero flusso di gas verso il sensore ceramico. I numeri digitali del visore scorsero
prima rapidamente, superando il valore del 42% in poche
secondi, poi lentamente si avvicinò al valore richiesto.
Dopo due minuti il led rimaneva fisso su 50,6%, il valore
dell’ossigeno era quello desiderato.
Il sibilo e la luce proveniente dal locale aveva intanto
attirato l’attenzione di un vigilante notturno. Tarchiato,
non più alto di un metro e settanta e massiccio nei suoi 98
chili, aveva un viso paffuto foderato da due insulsi e folti
basettoni lungo le guance. L’aria da mastino non gli mancava e quatto quatto si avvicinò alla porta semiaperta del
locale; la luce dei neon proiettava verso l’esterno ombre
geometriche, tra queste quelli di un gobbo riverso su se
stesso. Stefano intento a leggere il valore dell’analizzatore
era chino sullo strumento.
Il vigilante estrasse la pistola dal fodero di cordura nuovo e assestando l’arma nella mano destra e la mano destra
nella sinistra si preparò ad entrare in scena. La Colt King
Cobra in acciaio inox con canna da 4 pollici sembrava un
giocattolo nelle mani grosse con le dita gonfie come cotechini. Prima di tuffarsi nel cono di luce proiettato fuori
dalla porta si dimenò qualche secondo, ondeggiando come
un serpente, in quel modo tutte le pieghe e le pence della
divisa andavano al loro posto. Da quel momento non lo
avrebbero più infastidito. Il balletto era anche un potente
rito propiziatorio, il vigilante lo faceva ogni volta che doveva sparare al poligono e pare funzionasse, infatti riusciva sempre a colpire il cartellone. Al poligono per migliorare il punteggio utilizzava anche qualche gesto scaramantico, come autopalpazione delle zone più intime e un piccolo mantra da recitare in napoletano. Si attenne al rituale anche se non lo aveva ancora provato in una situazione reale
come quella.
Appena la divisa verde di cotone aderì al grasso che lo
imbottiva come un indumento antiproiettile si sentì pronto
all’azione.
Dalla fessura di luce tra la porta e la parete esterna vide
l’uomo chinato, l’atteggiamento gli parve minaccioso e il
fare aggressivo; il sospetto si affaccendava in attività illecite ai danni del privato cittadino e come vuole il regolamento si rendeva necessario un tempestivo intervento atto
a interrompere l’azione criminosa.
Il riverbero delle parole da utilizzare per il verbale confortavano il giustiziere che cominciava ad accusare una
leggera tachicardia e tremore diffuso in tutto il corpo.
Inspirò fino a lacerarsi i polmoni, una parte dell’aria in-
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spirata l’avrebbe usata per compiere il salto di 43 centimetri, sufficienti ad esplodere in tutta la sua magnificenza davanti alla porta del locale. La restante aria l’avrebbe utilizzata per scandire un forte messaggio sonoro, a metà tra
l’urlo e il tuono divino. Attenzione, operazione di vigilanza, restare immobili e identificarsi, attenzione, operazione
di vigilanza, restare immobili e identificarsi.
Ripeté mentalmente la formula da pronunciare mentre
teneva sott’occhio il sospetto. Strizzando le labbra diede il
via all’operazione.
Spiccò il salto.
I due anfibi caddero pesantemente a terra, pieni di quel
corpo imbottito di adrenalina e paura. Attese che il rimbombo delle scarpe si dissolvesse nel locale facendo sobbalzare il povero Stefano.
«Chi cazzo sei e che cazzo fai?» chiese il vigilante che
prendeva a respirare a narici dilatate assomigliando sempre di più a un cinghiale inferocito. All’udire le sue stesse
parole si morse delicatamente il labbro inferiore, la tensione gli aveva giocato un brutto scherzo, la formula legale
appresa durante il corso si era trasformata in uno sciatto
rimprovero.
Stefano rimase impietrito per qualche istante, ne seguirono altri che lo lasciarono muto e inebetito dinanzi a quella visione comica e terrificante allo stesso tempo.
La sagoma lucente dell’arma, un revolver Colt King
Cobra, stonava con lo sfondo, la caricatura di un porcello
facinoroso.
Ripresosi dallo spavento e dallo stupore, Stefano chiese
con voce decisa, quasi seccata di quell’intrusione: «Che
cazzo vuoi tu? Questo posto è mio.»
«Procedura di identificazione standard», disse il vigilantes, «nome cognome titolo.»
Mentre biascicava quelle parole il cinghiale armato to-
glieva la mano sinistra dalla destra, e cercava a tentoni,
senza distogliere lo sguardo, la radio alla cintura.
Presa la trasmittente la portò alla bocca e iniziò a bisbigliare. Teneva la piccola radio con le tozze dita madide di
sudore, sfiorava l’involucro di plastica con le grosse labbra
carnose come in un rapporto orale. Le due labbra sembravano un grosso nudibranco scarlatto, ondeggiavano scoprendo la grassa mucosa interna e ogni tanto la lingua faceva capolino, inumidendo le protuberanze carnose.
«Stefano Tixera, direttore del consorzio Vittorio
Veneto, la parola è VERDE», disse Stefano con aria sempre più seccata per la perdita di tempo.
L’uomo armato ripeté le parole alla radio, lo sforzo
compiuto nel parlare era tutto a carico delle labbra e delle
corde vocali, le guance paffute non si spostavano minimamente, e nemmeno la gola taurina collaborava.
«Bene signore, identificazione confermata, può continuare il suo lavoro», pronunciò con soddisfazione l’energumeno mentre portava la pistola nella fondina aiutandosi
ad inserirla con la sinistra, ancora occupata dalla radio.
Stefano fissò l’operazione quasi terrorizzato; l’uomo
non guardava dove stava infilando la pistola e per qualche
istante entrambi ebbero l’impressione che sarebbe accidentalmente partito un colpo verso il pavimento, attirando
tutta la popolazione di Oneglia. Al quinto tentativo l’arma
fu insaccata nell’involucro di cordura e il colpo non partì,
la guardia ciondolò la testa sorridendo, soddisfatto della
propria performance, aveva anche allacciato la cinghietta
che tiene ferma la pistola, senza nemmeno guardarla.
«Senta», disse Stefano prima che il vigilante se ne andasse, «devo fare un’immersione dalla scogliera, per cui
porterò la mia attrezzatura sul moletto, farò diversi viaggi,
la prego non mi faccia fare una dozzina di identificazioni.»
Stefano iniziava a sorridere, ma non era un sorriso di-
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vertito, il suo peggiore difetto stava per irrompere nella
stanza. Quell’uomo era un pirla e se non se ne andava entro qualche secondo lo avrebbe letto sul viso di Stefano attraverso una eloquente espressione. Se ci fosse stato abbastanza silenzio avrebbe sentito anche la parola pirla echeggiare prima nella testa di Stefano poi nella stanza.
«Non si preoccupi, questa notte la SECURPOL vigilerà
su di lei», rispose la guardia notturna con voce seria e rassicurante, poi salutò portando l’indice e il medio alla tempia destra, come se fosse un generale poi si voltò, andandosene.
Stefano rimase qualche secondo a guardare lo spazio
occupato dall’uomo pochi secondi prima, era sbalordito.
Ci mancava anche il giustiziere di Oneglia, pensò scuotendo la testa.
Riprese quello che stava facendo con più lena, l’episodio lo aveva svegliato completamente.
Bombola nitrox, OK, si disse mentalmente premendo le
labbra l’un l’altra.
Prese la seconda bombola e prima di mettervi il manometro la aprì delicatamente, era sicuro che fosse vuota, infatti un sibilo di circa dieci secondi, sempre più fievole,
confermò la diagnosi. La bombola era vuota.
Vediamo un po’, cosa ci metto? Si chiese guardandosi
intorno.
Le bombole da diciotto litri di Bambinoricco e di Tarja
erano piene di trimix diciotto quaranta, alla pressione di
duecentoquaranta atmosfere. Dovevano servire per accompagnare gli incursori sul relitto, ma non ce ne fu bisogno.
Stefano decise di utilizzare quelle per caricare la seconda
bombola da sette litri. La miscela non era molta, ma serviva solo per arrivare alla quota di deco in caso la sua creatura avesse fatto i capricci. A quota deco si sarebbe ciucciato
tutto il nitrox e al massimo sarebbe tornato sul relitto dove
vi erano le altre 5 bombole con erogatore disseminate in
punti strategici, così per ogni evenienza.
Collegò la bombola di alluminio al primo bombolone
da diciotto litri con una frusta di travaso, aprì i due rubinetti e attese il caratteristico rumore di equilibrio. Quando la
pressione tra le due bombole sarebbe stata quasi uguale, la
frusta di travaso avrebbe emesso un rumore caratteristico,
tipo quello di un serpente a sonagli ma con i sonagli metallici. Fece lo stesso con la seconda bombola. La pressione
nella sua bombola era ora di centottanta atmosfere, sufficiente per gli usi che doveva farne. Il trimix diciotto quaranta era ottimale fino a sessanta metri di profondità, oltre
ci sarebbero stati seri problemi di tossicità dovuta alla
pressione parziale dell’ossigeno.
Sempre meglio che niente, si rispose sottovoce.
Sulla parte finale delle bombole di nitrox cinquanta, secondo le specifiche DIR, era stata applicata una decalcomania con la quota di utilizzo per la miscela, 21 m, che
stava per ventuno metri. Per distinguere le due bombole,
Stefano avvolse del nastro di carta gommata sul numero
della bombola di trimix, in modo da cancellare il numero
ventuno. Un po’ rozzo ma efficace come sistema per la
marcatura di emergenza.
Era arrivato il momento di portare tutto sul moletto; anche se era illuminato quasi a giorno, Stefano prese la lampada portatile Beghelli. La lampada al neon avrebbe fatto
una luce più amichevole di quelle ai vapori di mercurio dei
lampioni stradali.
L’aria frizzante della sera era di sollievo; anche se erano
meno di cento metri dalla base mare al moletto, il tragitto
andava percorso diverse volte, con il rebreather, con lo
Zeuxo, con le due bombole e per ultimo con i piombi, le
pinne, la maschera e il cappuccio. Le torce erano già fissate al rebreather. Terminati i viaggi, Stefano si concesse die-
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ci minuti di riposo all’aria fresca, il cellulare non squillava, il nemico stava arrivando. Prima di mettersi la sottomuta di thinsulate e la stagna, Stefano diede un’occhiata in
giro per vedere se c’era qualcosa che poteva essergli utile.
Lo sguardo cadde sugli oggetti ricevuti in dono da Bino.
La bomba termica lo richiamava come le sirene di Ulisse,
e lo stesso faceva il bottiglione di un litro e mezzo di eosina, il colorante arancione. Solo con i suoi pensieri, in un
momento di lucidità, si chiese: ma se mi trovo davanti il
sommergibile che faccio?
Stefano sapeva come fare a rispondere a quel genere di
domande, non bisognava fare assolutamente nulla, non
pensare, e la soluzione sarebbe arrivata come un fulmine,
una luce. Diresse lo sguardo vuoto verso il mare, appoggiato allo stipite della porta del locale, rimase catatonico
per un minuto. La visione che lo travolse era chiara. Il
sommergibile ha una grossa elica: qual è il peggior nemico
delle eliche?
«Un cavo», si rispose ad alta voce.
Rientrò nel locale, cercò uno spezzone di catena avanzato dagli ancoraggi. Era di ottimo acciaio inox, il consorzio
non aveva badato a spese in fatto di qualità. Lungo poco
più di due metri, lo spezzone pesava circa tre chili. Da qualche parte doveva esserci un lucchetto di scorta, di quelli usati per i cancelli subacquei sul relitto. Lo trovò in una scatola di plastica sul banchetto degli attrezzi. Il lucchetto era nuovo, con le chiavi lucenti, le inserì e provò l’apertura e la chiusura diverse volte, poi vi inserì alcune gocce di olio. Mise il
lucchetto, la bomba e l’aranciata, in una borsa di rete, ci stavano appena, fuori dall’acqua pesavano parecchio, ma in
mare l’unico peso sarebbe stato quello della catena e del lucchetto. Aggiunse un grosso moschettone per fissare la borsa ad un anello del rebreather.
In quindici minuti si vestì e si diresse sul moletto. Il cie-
lo stava schiarendo, il crepuscolo stava iniziando il preludio di un’alba eccitata dal mare che ingrossava e il vento
che rubava molecole di iodio alle onde.
Nel bacino creato dalle tre scogliere l’acqua era quasi
calma, mentre appena fuori le onde frangevano sui massi
componendo un ritmo ripetitivo, quasi ipnotico.
Indossare l’attrezzatura fu un’altra sudata, se l’operazione risultava veloce con l’aiuto di un compagno, da soli
occorreva il triplo del tempo e uno sforzo immane. Stefano
adagiò la sua “creatura” su una delle rocce della scogliera
a pelo del mare, indossò maschera e pinne e entrò in acqua. Lentamente infilò le braccia nei cinghiaggi e si caricò
la macchina sulle spalle. Dopo aver stretto le fibbie si riposò per alcuni minuti, l’operazione era ben più faticosa del
giorno precedente quando fu aiutato da Tino. Quando il respiro si regolarizzò iniziò la calibrazione della macchina
aspirando dai corrugati ed espirando dal naso. Quando i
valori dell’ossigeno raggiunsero il set point iniziò a respirare nel corrugato. Prima di immergersi agganciò le due
bombole di alluminio agli anelli di sinistra, il maialino all’anello ventrale e si immerse.
Rimase per qualche minuto nella vasca naturale formata dalla scogliera artificiale: scrollava l’attrezzatura, controllava il panel retroilluminato e respirava cercando di
sentire ogni minima anomalia. Quando fu certo che la
macchina funzionasse a dovere, si diresse verso l’apertura
tra gli scogli e il mare aperto.
Da subito si accorse che la creatura necessitava di una
modifica sostanziale: il sacco posteriore rendeva difficoltosa la respirazione con il trascinatore subacqueo, il prossimo prototipo avrebbe avuto delle vesciche anteriori per facilitare la respirazione mentre si pinneggia o si è trascinati.
Ridusse la velocità al minimo, in modo da non affaticarsi.
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Trovare il relitto non sarebbe stato difficile, bastava
uscire fuori dalla scogliera e seguire il cavo giallo, anzi
verdognolo, che portava la corrente elettrica alle boe e il
segnale delle webcam al consorzio. Il filo arrivava intero
fino a prua e da lì proseguiva smembrato per le varie destinazioni.
L’acqua non era molto profonda fuori dalla scogliera,
ma la luce del crepuscolo era troppo poca e sotto la superficie era notte profonda.
Con la piccola torcia legata al polso sinistro, illuminò
il fondo di pietre a quaranta centimetri di distanza. Una
volta individuato il cavo bisognava solo seguirlo, illuminandolo. Ad intervalli di circa tre minuti controllava il
panel portandolo vicino alla maschera e premendo il tasto dell’illuminazione. Tutto era OK, la macchina funzionava a dovere. Ci vollero tredici minuti per arrivare alla prua del Vittorio Veneto, dovette cercare due volte il cavo sfuggito alla vista. Il fondo di sassi dei primi cento metri aveva lasciato spazio alla distesa di sabbia, lì il cavo
ogni tanto spariva, inghiottito dalla rena finissima. Riappariva qualche metro più avanti come un verme che indisturbato prosegue le proprie faccende. Non fu necessario
seguire il cavo fino al relitto, ad un certo punto la sottile
guaina di kevlar gialla incrociava la possente catena dell’ancora di prua, filata al momento dell’affondamento
per circa quaranta metri. Bastava seguire la pesante traccia fino a quando iniziava a sollevarsi dal fondo, in quel
punto, dieci metri più avanti, il bulbo della nave attendeva minaccioso. Stefano vi scivolò a sinistra, al riparo
dalla corrente che investiva l’altro lato del relitto. Ci vollero altri tre minuti per percorrere tutto il relitto fino a
poppa. Ogni minuto Stefano si fermava e zitto e immobile ascoltava i rumori del mare. Man mano che si avvicinava alla poppa, pinneggiando sul ponte di volo, sentiva
un ticchettio sempre più nitido, aumentava sempre di più
e quando fu a poppa estrema si manifestò come l’inconfondibile rumore di martellate su metallo. Stefano conosceva bene quel rumore, nelle sue immersioni sui relitti
della seconda guerra mondiale, portava sempre con se un
martello tutto in acciaio inox, lo usava per saggiare il
metallo e ripulire tutti quegli oggetti che potevano servire all’identificazione della nave. Non aveva mai asportato niente, nemmeno la targhetta del cannone da settantasei-quaranta dell’Equa, affondata per collisione fuori
dallo scoglio Ferale. Era stato lui a scoprirla, cosa facile
per chi visitava il museo della Scienza e della Tecnologia
di Milano, lì ce n’era uno uguale e la targhetta col numero di serie era in bella mostra sotto la canna, a due terzi
di altezza dell’affusto. Fu però un’altra persona a toglierla, uno che era con lui in immersione e che la settimana
dopo si affrettò a rimuoverla.
In prossimità del passaggio che dal ponte di volo porta
al ponte degli ormeggi, si liberò dello scooter e lo parcheggiò di fianco alla scala. Doveva fare meno rumore possibile, l’acqua amplifica ogni suono, pur essendo difficile stabilirne la direzione.
Pressione parziale ossigeno OK, pressione bombole ossigeno OK, pressione diluente OK, profondità 50,2 metri,
run time 16 minuti. OK. Si va. L’ordine mentale arrivò deciso.
Scese nello spazio sotto il ponte di volo lungo la scala
del passaggio sullo sterminato ponte, e si diresse verso le
sbarre di ferro dissaldate sul portello di sinistra. Non erano
nella stessa posizione di quando le aveva lasciate dopo il
ritrovamento del corpo di Paolo, erano state abbassate ulteriormente, come se un sub molto più ingombrante richiedesse più spazio per passare.
La visibilità era ottima, l’acqua trasparente priva di se-
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dimento lasciava immaginare che chiunque ci fosse nel relitto ci stesse già da almeno dieci minuti, se non di più.
Il cuore batteva forte già da diversi minuti, da quando si
era calato giù per la scala. Anche la respirazione sembrava
quella di un pivello neobrevettato. La tensione e la paura si
facevano sentire sotto forma di tremolio, leggero, ma diffuso in tutto il corpo.
Ma chi cazzo me lo fa fare, si chiese Stefano.
Era indeciso se sbirciare nel locale, illuminarlo per vedere che cosa ci fosse o infilarcisi e vedere cosa succedeva. La sua filosofia di vita gli consigliò di non andare a
cercarsi altri problemi, quegli che gli sarebbero caduti addosso erano sufficienti. Ogni cinque secondi si voltava a
destra e sinistra. Ad ogni istante qualcuno poteva apparire
e aggredirlo, magari lo stesso che aveva strappato la maschera a Paolo.
Decise di stare lontano dal portello, aprì la borsa di rete
e ne tolse la bottiglia di eosina, tolse il tappo e cominciò a
pompare il liquido, strizzando ritmicamente la bottiglia,
verso l’interno del locale. Quando la bottiglia fu mezza
vuota e piena di acqua la lasciò cadere all’interno. Nuvole
vaporose di liquido arancione danzavano nell’acqua, in
realtà non sembrava arancione ma marrone, solo illuminandolo sarebbe apparso in tutta la sua naturale cromia.
L’apertura del portello era tutta avvolta dalla nube, impedendo di vedere all’interno. Stefano si dispose verticalmente e abbassandosi sulle ginocchia si appoggiò una delle sbarre alla spalla. Le bombole da fianco continuavano a
cozzare l’un l’altra, scampanellando a tutti la presenza del
sub. Con uno sforzo di glutei e lombari, riuscì a raddrizzare la stecca. L’intruso all’interno avrebbe faticato parecchio ad uscire, sempre che ne fosse stato capace. Ancora
pochi minuti e la visibilità all’interno sarebbe stata prossima a zero.
Stefano si allontanò subito dal portello, la visione di
una mano che spunta dalla nebbia arancione e strappa la
maschera e il corrugato gli arrivava dalla mente come una
premonizione. Mentre riprendeva fiato controllò ancora
una volta il panel, tutto a posto. Si diresse sul ponte di volo
per prendere lo Zeuxo. Lo agganciò col moschettone all’anello centrale della cintura e si diresse ancora giù per la
scala, trascinato dal mezzo subacqueo, verso il portello di
destra, quello con le sbarre intatte. Vi appoggiò la punta
dello Zeuxo e premette il pulsante di marcia.
Lo scooter premeva contro le sbarre senza spostarle di
un millimetro, ma il flusso dell’elica aspirava dall’interno
verso l’esterno una grande quantità di acqua. Dopo un minuto, apparve acqua tinta di arancione, la corrente causata
dallo Zeuxo aveva aspirato il liquido colorante dall’altra
parte del locale, saturandolo di nebbia colorata.
«Fottuto», disse Stefano nel corrugato, anche se invece
di nitida voce uscì un suono gutturale. Ora tutto il locale
era impestato di eosina e per uscirne fuori occorreva essere
un sub con i controcazzi, come si usa dire in gergo militare.
Invertì la direzione dello scooter e si fece trascinare
fuori attraverso le grandi sfinestrature dello scafo. Dovette
compensare due volte prima di raggiungere il fondo a sessanta metri di profondità, erano ormai venti minuti che era
in acqua, e la deco da fare cominciava a diventare parecchia.
Era il momento di occuparsi del suo ospite, il
Leviatano.
La luce in profondità diminuiva; anche se non era paragonabile a quella del pieno giorno fu sufficiente a rivelare
una forma oscura, quasi nera in quell’orizzonte sottomarino blu notte. Sembrava una balena addormentata ma era
facile immaginare che specie di cetaceo fosse. Stefano vi
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si diresse contro. Alla distanza di quaranta metri si fermò,
si guardò le spalle e decise di avvicinarsi pinneggiando.
Dispose lo scooter a destra per bilanciare la resistenza con
quella delle bombole da fianco e cominciò a pinneggiare.
Allo sforzo fisico si aggiungeva il fiatone da paura, e più si
avvicinava allo squalo di acciaio più aumentava. L’ultimo
tratto lo percorse lentamente, le gambe dolevano per lo
sforzo benché fosse allenato alle lunghe pinneggiate. Il
sommergibile non era quello che aveva visto sulla rivista,
già a prima vista le dimensioni erano maggiori. Virò verso
la poppa, appena ne riconobbe la forma. L’elica la vide solo quando era a dieci metri di distanza, sottili e affilate, le
sette scimitarre incutevano timore e rispetto. Perse alcuni
minuti ammirando quell’essere affascinante e regolarizzando il ritmo respiratorio diventato troppo corto. Se quel
sommergibile non fosse la causa dei suoi problemi lo
avrebbe accarezzato come la creatura più bella del mondo.
Con una scossa si distolse da quella profonda ammirazione
e si mise all’opera. Non c’era molto da fare contro una bestia del genere, l’equipaggio all’interno presto si sarebbe
accorto di lui.
L’elica aveva un diametro pari quasi all’altezza di
Stefano. Messosi verticalmente dietro all’elica notò che
erano alti uguali, o quasi. Era indeciso sul da farsi, ma occorreva decidersi in fretta. Poteva applicare la bomba termica ad una pala e sperare che lo shock la spezzasse o
quanto meno la piegasse causando un grave danno.
Oppure poteva annodargli lo spezzone di catena, in modo
che durante il moto colpisse ripetutamente le pale, rovinandole. Certo è che stare fermi davanti all’elica non era
salubre, se il pilota avesse messo in moto avanti sarebbe
stato spinto violentemente verso dietro, ma se avesse messo la marcia addietro sarebbe diventato carpaccio per i
dentici che stanziavano a poppa del Vittorio Veneto.
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Decise per la catena, anche se l’operazione gli dava una
certa inquietudine. Occorreva far passare la catena attorno
ad una pala e poi chiudere il lucchetto, lasciando uno spezzone il più lungo possibile.
La pala a forma di foglia di banano, larga al centro ma
rastremata in punta e alla base, non avrebbe perso la cravatta fatta con la catena, anzi in moto avrebbe frustato le
altre pale vicine e la parte posteriore dello scafo.
Stefano prese coraggio, infilò la mano tra le pale e fece
passare un capo della catena, poi infilando l’altra mano
dall’altra parte della base la recuperò, sfilò dalla tasca della muta il lucchetto con le chiavi infilate, lo aprì e, tremando come affetto da morbo di Parkinson, lo richiuse, lasciando un dormiente di circa un metro pendere come un
ciondolo. Ne prese l’estremità e delicatamente la fece scivolare oltre le pale, in modo che durante il moto finisse
aspirata dal vortice.
Fu la voce di Paolo Molli a distoglierlo dall’operazione.
«Voltati, voltati, cazzo, voltati», gli parve di sentire, come
se l’amico gli stesse urlando nelle orecchie.
Stefano si voltò a sinistra e lo vide.
Nero completamente, con le mani minacciose protese in
avanti, anche lui con due corrugati, anche lui con un rebreather, molto più grosso del suo, anche lui incazzato.
Era a dieci metri di distanza quando lo vide e per qualche secondo Stefano si dimenticò di respirare e far pulsare
il cuore. A tentoni cercò la manopola dello Zeuxo, non al
primo ma al secondo tentativo la sentì pronta nella mano
destra.
Attese ancora un secondo, quel tanto che bastava per
farlo avvicinare e vedere di che colore aveva gli occhi.
Erano verdi? Come quelli di chi, fingendosi amico, lo aveva ingannato fin dal primo momento?
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Marroni e incazzati, molto incazzati. La verifica rischiava di costargli caro. Quel tizio sporco di arancione e
con le braccia pronte ad afferrarlo si era avvicinato troppo.
L’intenzione era palese, strappare il corrugato.
Chi usa un rebreather sa che strappare il corrugato vuol
dire condannare il sub a morte certa. E quel tipo non aveva
intenzione di andare per il sottile.
Stefano riempì i polmoni fino a scoppiare poi premette
il pulsante dello scooter appena in tempo per sfuggire col
viso dalle mani del maledetto, ma il tipo era uno con i controcazzi, lo aveva già dimostrato uscendo dal relitto in
condizioni di cecità. Mentre Stefano scivolava via l’essere
lo afferrò per una pinna, rimanendovi attaccato. La scena
pur sembrando comica era di una certa gravità. Stefano
cercava di allontanarsi dal sommergibile mentre quell’essere combattivo cercava, riuscendoci, di risalire lungo il
suo corpo sino alla gola.
La presa delle mani avanzava di alcuni centimetri sulla
pinna, così Stefano decise di liberarsene, con il calcagno
del piede sinistro fece scapolare la molla che teneva la pinna al suo posto e con essa si sganciò anche la diabolica remora. Lo Zeuxo ebbe un sobbalzo e una violenta accelerazione, ma ora Stefano poteva riprendere a respirare. Più
l’affanno diminuiva e più si incazzava, quel tipo aveva
cercato di farlo fuori, come probabilmente aveva fatto con
Paolo. Non era il caso di andare tanto per le buone maniere. Visto che quel tipo non aveva uno scooter, decise di approfittare di quel vantaggio tattico.
Tornò indietro verso il sommergibile, quel tipo minaccioso stava trafficando attorno all’elica, prima o poi avrebbe liberato le pale, ma intanto era indaffarato, situazione
ideale per andare a prua e vedere chi ci fosse alla guida
della supposta di metallo. Stefano si avvicinò allo scafo
del sommergibile, controllando continuamente attorno a
lui. Non era improbabile che qualcun altro uscisse dal ventre dello squalo d’acciaio.
A prua vi era un oblò simile a quello della versione minore del sommergibile VES, quello mostrato dal servizio
sulla rivista americana. L’oblò dalla doppia superficie di
plexiglass, permetteva di vedere all’esterno, correggendo
la distorsione dell’immagine, ma non era possibile il contrario e i due volti che Stefano vide erano deformati dalle
aberrazioni ottiche. Quando quello al posto di pilotaggio
vide il sub, non si rese subito conto che non era il compagno di missione, poi guardando meglio si accorse di qualche particolare diverso e per esserne più sicuro avvicinò la
faccia all’oblò. Il volto vicino all’oblò acquistò per
Stefano una fisionomia familiare, gli occhi verdi e i capelli
biondi, anche se sudati e spettinati, erano di una sua vecchia conoscenza. Non resistette e avvicinò il medio, inguantato fino a metà di neoprene, alla sporgenza trasparente e agitandolo avanti e indietro, informò i presenti a bordo
del sommergibile che qualcosa stava per succedere alle loro chiappe.
Estrasse la bomba termica dalla sacca di rete, strappò
l’anello che trascinando con sé la protezione di carta metallica, scopriva il rettangolo di collante appiccicoso e la
spiaccicò proprio al centro dell’oblò.
Non sentiva più il tintinnio della catena, mossa dalle
mani del sub nemico che tentava di toglierla.
Probabilmente vi era riuscito oppure stava arrivando.
Quando lo vide era già a metà scafo, Stefano doveva andarsene o il sub si sarebbe accorto del regalino sull’oblò.
Con uno scatto dello scooter si allontanò dalla prua; il sub,
appena lo vide schizzare via si fermò, sapeva che non poteva raggiungerlo. Si voltò e si diresse all’elica a terminare
il lavoro intrapreso.
Stefano decise che era il momento di chiudere il conto
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con il sub assassino, attese che fosse di spalle poi gli si
buttò contro. Lo colse di sorpresa e lo afferrò per il corrugato di sinistra. Invano il sub tentò di liberarsi, invano tentò di prendere la mano di Stefano e costringerlo a mollare
la presa. Con lo Zeuxo imballato alla massima velocità,
Stefano lo trascinava verso la prua, davanti all’oblò, in
modo che gli occupanti vedessero la fine del loro amico.
La fine era imminente, il corrugato si stava sfilando e una
volta strappato per il sub non c’era altro da fare che morire, a meno che ci fosse qualcuno pronto ad intervenire con
una fonte d’aria alternativa, ma l’unico che poteva farlo
era Stefano e non ne aveva nessuna intenzione.
Dieci metri dinanzi alla prua del sommergibile successe
il patatrack, appena staccato il corrugato, l’uomo iniziò a
sussultare e tossire. Il canister del filtro, una volta allagato
rende il rebreather molto pesante, negativo di circa ventiquattro chili a seconda del modello, inoltre se al posto della calce sodata si usa idrossido di litio il cocktail diventa
talmente caustico da uccidere il sub prima che anneghi.
Quando Stefano sentì il corpo diventare pesante lo lasciò
agli abissi. Sprofondando roteò verso l’alto, mostrando il
volto del sub con gli occhi chiusi, le mani alla gola ad impedire che l’acqua irrompesse nella trachea e il torace in
convulsioni.
Un ronzio elettrico destò Stefano dalle sue occupazioni,
non era del suo scooter e preoccupato diresse lo sguardo
verso il sommergibile. Da dove si trovava, a dieci metri di
distanza dall’oblò di prua, non riusciva a vedere se l’elica
era in moto, ma vide una nuvola di sabbia sollevarsi dal
fondo come sbuffata da un toro inferocito.
Il rumore era quello delle pompe di svuotamento del comparto lock in lock out, ora le possibilità erano due, un altro
sub sarebbe uscito a recuperare il compare morto o il sommergibile si sarebbe spostato, con chissà quale intenzioni.
Stefano decise di tentare il tutto per tutto, si diresse a
tutta forza verso la prua del sommergibile, doveva assolutamente strappare l’anello che dà inizio alla reazione
esplosiva. Incrinando l’oblò, il sommergibile sarebbe stato
costretto a riemergere.
Rimase a circa sette metri dal fondo in modo da vedere
altri sub diretti verso di lui.
Da molti minuti non guardava più il profondimetro ne il
panel, aveva perso la cognizione del tempo, non sapeva
nemmeno quanto gas era rimasto nelle bombole e continuava a tremare, senza capire se fosse per il freddo o la
paura.
Lo stato di eccitazione in cui si trovava gli aveva fatto
perdere il lume della ragione, aveva appena causato la
morte di un sub e non poteva nemmeno fermarsi a riflettere su quello che aveva causato. L’ossessione di attivare l’esplosivo gli occupava la mente.
Si diresse a prua del sommergibile che nel frattempo si
era sollevato leggermente dal fondo, mancava infatti il peso del sub uscito e tutto il suo equipaggiamento e i calcoli
per compensare con le casse assetto non erano stati eseguiti con precisione.
Il momento era critico; due erano le ipotesi che potevano presentarsi: un sub come quello appena schiattato che
riprendeva la battaglia persa dall’amico, oppure il minisommergibile si sarebbe mosso in chissà quale direzione.
A Stefano non parve vero, il minisub si staccò dal fondo
di altri venti centimetri e, con un forte ronzio simile a quello di uno sciame di api incazzate e accompagnato da uno
scampanellio natalizio, si diresse contro di lui.
Deviò di qualche metro sulla sinistra per sottrarsi ma i
pochi metri di distanza non gli permisero di fuggire. La
prua investì Stefano sul fianco sinistro, spiaccicandolo come un insetto contro l’oblò. L’impatto non fu violento ma
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lo spostamento di acqua premeva il corpo di Stefano contro la prua come un moscerino sul parabrezza, la velocità
aumentava e il respiro si faceva sempre più corto, anche se
il flusso di acqua premeva sul sacco polmone facilitando la
respirazione. Se la macchina fosse andata in tilt il panel si
sarebbe messo a lampeggiare e un bip bip continuo avrebbe informato della situazione critica. Fortunatamente per
Stefano nessuno dei due allarmi era entrato in funzione.
La bomba era ancora al suo posto e premeva sullo sterno causandogli un dolore acuto. La situazione peggiorava.
Anche se il corpo di Stefano occupava quasi tutta la visuale dell’oblò il pilota dirigeva il mezzo subacqueo sempre
più in profondità. L’intenzione era quella di far perdere i
sensi a Stefano, l’annegamento avrebbe fatto il resto.
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CAPITOLO TRENTAQUATTRO
FOTTUTO
FOTTUTO, pensò in quel momento Stefano.
Fottuto, pensò nello stesso istante Marco Ablondi.
La pressione aumentava e le orecchie facevano male,
Stefano sapeva che da lì a pochi secondi avrebbe perso conoscenza così decise di tentare la sorte.
Fece scivolare la mano tra il torace e l’oblò e strappò la
linguetta della bomba.
Ricordò le parole di Bino, e cercò di vincere la pressione
dell’acqua che lo investiva per staccarsi dalla prua del sommergibile. Lo sforzo era troppo e non riuscì a spostarsi. Si
rese però conto che lo scooter pendeva a bandiera da un lato opponendo una resistenza tale da compensare quella del
corpo, era la causa del bilanciamento che lo opprimeva sull’oblò. Infilò nuovamente la mano tra lo stomaco e il plexiglass e sganciò il moschettone che tratteneva lo Zeuxo al sottocavallo. Appena sganciato, lo scooter fu inglobato nel flusso di acqua diretto all’elica del sommergibile e colpì violentemente due delle pale; il mezzo subacqueo subì un violento scarto sul proprio asse longitudinale. Stefano tolse la
linguetta, poi fu trascinato di lato e scivolò anch’egli lungo
il corpo del sommergibile inglobato dal flusso diretto all’elica. Le pinne dei timoni direzionali lo allontanarono dallo
scafo facendogli sfiorare l’elica di schiena, toccando le pale con l’esterno del guscio di acciaio del rebreather e le bombole. Il rumore fu simile a quello di una breve raffica di mitra; ogni volta che le pale toccavano qualcosa di metallico,
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un rumore sintetico, simile a quello di una martellata su una
campana, invadeva lo spazio circostante.
Il vortice e i colpi delle pale avevano fatto roteare il corpo di Stefano sconvolgendo il suo senso di orientamento, aveva inoltre perso la maschera, asportata dal flusso di acqua.
Pochi secondi dopo il sommergibile aveva raggiunto la
piana abissale, lì la parete scendeva dritta fino a 300 metri.
Terminate le giravolte Stefano non fu in grado di capire
se era stato colpito dalle pale dell’elica, aveva sensazioni
di calore in tutto il corpo ma la narcosi che ormai cominciava a farsi sentire impediva la percezione del proprio
corpo. Lo sentiva pesante, sprofondava nel blu.
Non appena sentì cambiare il flusso di gas nel corrugato lo
sputò di bocca, non voleva certo farsi ustionare le budella.
L’elica aveva tranciato uno dei corrugati e il filtro aveva
iniziato ad allagarsi.
La macchina sulle spalle non dava più segni di affidabilità e senza maschera non era in grado di vedere la strumentazione. Il buio aumentava e con esso la fame di aria.
Portò la mano sinistra sul fianco sinistro, dove dovevano esserci le bombole da deco e quella di trimix diciotto
quaranta: c’erano.
Agguantò il primo erogatore che gli capitò in mano e se
lo mise in bocca, seguì la frusta fino al rubinetto e lo aprì.
Appena in tempo, doveva compensare e senza maschera non era certo piacevole. Le orecchie continuavano ad
avvertire che stava scendendo sempre di più. Azionò il comando del gav fino a riempirlo a palla ma l’unica cosa che
riuscì a fare fu di rallentare la discesa. Lentamente ma inesorabilmente stava scendendo verso l’inferno.
Gli appariva minaccioso, nero, e gli stava venendo incontro.
Rimaneva una sola cosa da fare e pochi secondi per farla. Stefano slacciò la cintura ventrale e il sottocavallo,
compensò nuovamente, poi infilò il braccio destro nello
spallaccio destro e sollevando quest’ultimo e tirando con
la mano sinistra il D-ring scapolò la spalla. Prima di fare lo
stesso con la spalla sinistra, staccò le due bombole dagli
anelli a sinistra e le passò nella mano destra. Le bombole
erano praticamente neutre. Prima di abbandonare la sua
creatura diede una grossa pompata alla muta stagna che ormai era incollata addosso, la gonfiò il più possibile, era
sempre in tempo a scaricare il gas in eccesso. Fatto questo
lasciò che il rebreather scapolasse dalla spalla sinistra e cadesse verso il fondo. Dovette compensare ancora e con le
due bombole tenute per i moschettoni tentò di pinneggiare
lentamente verso la superficie, ma con una sola pinna riusciva solo a girare su se stesso.
Non sapeva se stava respirando nitrox cinquanta o trimix, mentre risaliva sollevato dalla muta, avvicinò le bombole agli occhi e gli parve vedere che quella da cui respirava era quella col nastro isolante intorno, quella giusta, ma
non ne era sicuro. Non poteva fare altro che risalire e respirare. La bombola non sarebbe durata tanto e avrebbe
dovuto usare l’altra per forza. Una sensazione lo rincuorava, il gas respirato entrava veloce nei polmoni, senza il bisogno di succhiarlo. Probabilmente era quello giusto.
La velocità di risalita aumentava, decise di scaricare un
po’ di aria dalla muta, intanto la prima bombola stava finendo, lo sentiva dall’erogatore che si induriva sotto gli ultimi respiri. Aprì il rubinetto dell’altra, ne prese l’erogatore, svolse la frusta lunga un metro e venti e iniziò a respirare. Il nuovo gas era più denso, la narcosi ricomparve all’istante. Il blu intorno si schiariva sempre di più e lentamente la sensazione di stordimento lo abbandonava per lasciare posto ad una serie più preoccupante di sintomi. Le mani
e gli avambracci cominciavano a formicolare, a diventare
insensibili e doloranti.
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Stefano sapeva cosa stava accadendo, la risalita senza
decompressione si stava evolvendo in una malattia da decompressione. Conosceva quei sintomi, diversi sub gli
avevano raccontato come si manifestano e ora li stava provando in prima persona.
Lasciò andare la bombola vuota che ormai leggera si diresse verso la superficie; chiuse la valvola di scarico della
muta stagna, la muta si sarebbe gonfiata al massimo e in
superficie lo avrebbe tenuto a galla anche se paralizzato.
La sensazione di torpore e formicolio si estendeva alle
gambe, scendeva dalla nuca lungo la colonna vertebrale fino ai piedi, fino al fondo del mare. Ormai non sentiva più dove finiva. Un altro problema lo accompagnava durante la risalita, il rumore di una imbarcazione abbastanza grossa rimbombava nelle orecchie, sempre più forte, sempre più vicina.
Porca puttana pensò, scampo al sommergibile e finisco
tritato da un peschereccio del cazzo.
Il colore dell’acqua era ormai azzurro e uno spruzzo di
schiuma bianca lo accolse in superficie. Spuntò come un
turacciolo di sughero e per caso si ritrovò sulla schiena.
Se fosse riemerso a faccia in giù non sarebbe durato che
pochi minuti, giusto il tempo di finire la bombola.
Tenne l’erogatore stretto in bocca, ma tirava tutto da
una parte come se la bombola volesse strapparglielo e lo
fece, la bocca era senza forza, come tutto il corpo. Tutto
quello che vedeva, disteso sul mare, era il cielo nuvoloso e
le onde che lo schiaffeggiavano.
Non capiva in che posizione fossero gli arti, non li vedeva e non poteva muoverli.
Non aveva nemmeno idea di dove fosse, che ora fosse e
dove la corrente lo stesse portando. Sapeva solo che senza
aiuto da lì non sarebbe uscito vivo.
Le ultime energie le avrebbe utilizzate per respirare,
non poteva fare altro.
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CAPITOLO TRENTACINQUE
LA STESSA ORA VISTA
DA DENTRO IL SOMMERGIBILE
PER INDOSSARE l’attrezzatura Zav ci mise mezz’ora.
Attraverso il piccolo oblò i due uomini in tuta nera videro il loro compagno scomparire nel gorgo di acqua che
irrompeva e lo avvolgeva.
«Portello esterno aperto», disse Remo.
Dopo pochi secondi Zav apparve fuori dall’oblò di
prua, con il pollice e l’indice ad anello fece il consueto segnale di tutto okey. La missione proseguiva come da tabella di marcia. Solo sei minuti di ritardo.
Zav si diresse verso il relitto, ormai lo conosceva bene,
ci era già stato e aveva studiato i disegni fino a stamparseli
in mente.
Il rebreather che utilizzava era un Dragher alienato dopo i test e ottenuto in cambio delle consulenze fornite all’azienda su un prototipo molto simile all’MK 16 della
Carleton Tek Inc. Il modello ormai superato funzionava
perfettamente. Il segreto era nella continua manutenzione,
ad ogni immersione seguiva una revisione maniacale, retaggio di un passato militare negli incursori della Marina
Militare e di una carriera come collaudatore di apparati di
immersione presso le Dragher.
Figlio di genitori ucraini, arrivati nel dopoguerra,
Vladimir Zaviroff era già benestante quando decise di dedicarsi solo al mare.
Il padre aveva impiantato una fabbrica di fiammiferi
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nella provincia di Novara e negli anni sessanta l’aveva ceduta ad una multinazionale che lo aveva nominato amministratore delegato. Quel posto sarebbe toccato al figlio se
avesse dimostrato le minime capacità manageriali necessarie alla direzione. Ma così non fu, l’unico suo figlio decise
di lasciare tutto e dedicarsi al mare.
Trasferitosi in pianta stabile ad Andora, dove i genitori
avevano una piccola casa per le vacanze, Zav aveva iniziato a fare il corallaro. Non era stato facile per uno di città
entrare in un ambiente ristretto e diffidente come quello
dei corallari, ci erano voluti anni. Fu proprio in quell’ambiente che conobbe personaggi bizzarri quanto straordinari, alcuni di questi non erano solo corallari, lavoravano come altofondalisti sulle piattaforme petrolifere e il corallo
lo facevano solo per tenersi in allenamento e per cambiare
l’automobile.
Tramite uno di loro si iscrisse poco più che ventenne ad
un corso OTS organizzato dalla regione Liguria e da quel
momento svolse la professione di altofondalista per molti
anni. Le immersioni duravano quindici giorni a profondità
tra i cento e i centoquaranta metri, con tuffi eccezionali a
centottanta. La decompressione durava più o meno lo stesso periodo. A causa di una forte otite mal curata si concluse la sua carriera di altofondalista e si dedicò al collaudo di
nuove attrezzature per una nota ditta tedesca.
Nel tempo libero, e ultimamente ne aveva tanto, si dedicava alla barca appena acquistata che di navigare proprio
non ne voleva sapere. Il natante necessitava di ogni genere
di riparazione e se avesse fatto bene i conti, con gli stessi
soldi spesi per rimetterla in sesto ne avrebbe acquistata
una più piccola ma nuova.
Il suo secondo passatempo era collezionare informazioni, libri e foto sulle imprese dell’Artiglio. La sua barca, infatti, la chiamò Artiglio.
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L’altro passatempo, quello in cui investiva pochissime
risorse economiche ma che ne meritava molte di più, erano
le donne.
Con loro non andava molto per il sottile, se dopo i primi
incontri non scattava l’amplesso selvaggio metteva tutto in
stand by, come diceva lui, a sedimentare. Le scuse che trovava erano talmente impossibili che le donne capivano subito che era il momento di abbandonare il rampollo, visto
che mostrava interesse solo per la parte fisica e lussuriosa
del rapporto. D’altronde non aveva molti argomenti su cui
conversare, immersioni, relitti, attrezzature subacquee,
barche. Gli unici libri che leggeva erano quelli
sull’Artiglio e i manuali tecnici. Gli unici film che vedeva
in continuazione erano quelli a argomento subacqueo,
Abissi con Nick Nolte e Jacqueline Bisset, Abyss di
Cameron, La Croce del Sud, un vecchio film di cacciatori
di tesori sommersi.
Pinneggiando vigorosamente con l’ausilio di una semplice bussola seguì la rotta fino alla poppa del Vittorio
Veneto, ma la avrebbe trovato anche senza lo strumento.
La direzione da seguire era perpendicolare alle piccole ondulazioni della sabbia sul fondo, inoltre un bersaglio di
centottanta metri non lo avrebbe potuto mancare.
La distanza non era molta e con la forte muscolatura
delle gambe ci arrivò senza affaticarsi. Durante i periodi di
imbarco nei mari del nord quando non era in saturazione
passava molte ore ad allenarsi e seppur pesante centouno
chili poteva esibire addominali da pugile.
Zav ritrovò l’apertura di sinistra, le sbarre non erano come le aveva lasciate, era evidente che il cadavere era stato
recuperato. Notizia tra l’altro appresa dai giornali.
Non voleva che quel curioso morisse, voleva solo andarsene indisturbato. Fu una tragedia ma lui non ne sentiva
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la colpa. Quel tipo non doveva trovarsi lì, le immersioni
quel giorno erano vietate, avevano controllato prima di
partire collegandosi alle webcam. Quel tipo si era trovato
nel posto sbagliato al momento sbagliato e di tutto ciò era
il solo responsabile. Se invece che aria avesse respirato trimix non sarebbe morto, infatti doveva essere bello narcotizzato, era bastato strappargli la maschera e l’erogatore
per ucciderlo, cosa che invece avrebbe dovuto essere solo
un banale contrattempo. Evidentemente la lunga pinneggiata fino alla poppa, la profondità di sessanta metri e la
sorpresa di trovarsi di fronte un sub che sembra un marziano lo avevano stressato eccessivamente.
La giostra di pensieri serviva a non demonizzare il suo
operato, una sorta di purificazione prima di tornare sul luogo del delitto, anche se agli occhi di Zav di delitto non si
trattava. Era solo un fottuto incidente.
Si intrufolò nel corridoio laterale di sinistra della nave,
quello che portava ai depositi, lì lo aspettava un lavoro da
fare.
Il labirinto di corridoi non lo intimoriva per niente, da
sempre lavorava in ambienti chiusi e sommersi. Né il buio
né il chiuso avevano su di lui alcuna presa.
Dopo mezz’ora passata a martellare sulla lamiera di
uno scambiatore di calore decise che era il momento di ritornare, il lavoro lo avrebbe finito la prossima volta.
Occorreva un’altra mezz’ora di lavoro e il malloppo sarebbe stato “predato” nella migliore tradizione dei palombari
viareggini.
L’acqua era ormai color cioccolata e dal piccolo locale
Zav sarebbe uscito a tentoni, come un cieco che esplora un
ambiente sconosciuto.
Nel corridoio la visibilità era tornata buona, il sedimento aveva avuto il tempo di depositarsi.
A metà del corridoio si accorse del muro di sangue
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arancione, puntando la torcia in avanti vide la nuvola
avanzare lentamente fino a inghiottirlo. Lo stupore durò
qualche secondo, il tempo di capire di cosa si trattasse.
Non era sangue vero, per tingere tutta quell’acqua ne
avrebbero dovuto versare tonnellate.
Era eosina e questo voleva dire che qualcuno li aveva
scoperti.
Veloce, veloce, si ordinò mentalmente Zav, sapeva che
prima tornava al sommergibile prima se ne potevano andare. Ormai il lavoro era quasi terminato, rimaneva poco da
fare.
Uscire non sarebbe stato un problema, doveva solo fare
attenzione a non infilarsi per sbaglio in un passaggio trasversale della nave. Ci mise un minuto in più di quanto
avrebbe impiegato se la visibilità fosse stata normale.
Il colorante aveva saturato anche il ponte degli ormeggi
e una nuvola rosa-arancio avvolgeva tutta la poppa del relitto.
Zav si diresse veloce verso il sommergibile nel quale lo
attendevano i compagni.
«Marco, rumori metallici a poppa», bisbigliò Remo
Repossi pinzando delicatamente con le dita il braccio sinistro del pilota.
«Ho sentito», rispose Marco con un filo di voce calma e
tranquilla, «deve essere Zav, aspettiamo che si presenti all’oblò, poi lo facciamo entrare. Da quanto è fuori?»
«Trenta minuti, se entra in tre minuti lo facciamo decomprimere in meno di un’ora.»
Marco non disse nulla e diresse lo sguardo verso l’oblò
in attesa che il sub si mostrasse e facesse vedere il bottino.
Solo allora un fremito di gioia avrebbe trapassato quell’essere gelido e calcolatore.
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Remo Repossi era un sottufficiale della Marina Militare
passato all’industria civile. Specializzato in sistemi d’arma
subacquei aveva fatto con Marco Ablondi un corso alla
Comex come tecnico iperbarico. Remo era addetto al compartimento allagabile del minisub e in caso di bisogno poteva sostituire il pilota. Anch’egli come gli altri due era un
sub, brevettato presso il Comsubin e successivamente destinato al nucleo SDAI di Brindisi. Nella sua carriera aveva fatto brillare decine di ordigni.
La missione aveva preso una piega che non gli piaceva,
erano troppo lontani dalla base e il piano di navigazione
era stato falsificato, inoltre lo scopo della missione non
aveva i presupposti di onestà che lo avevano animato fino
a quel momento.
La situazione in cui si trovava non gli piaceva ma non
aveva scelta se voleva intascare il compenso di sessantamila euro concordati per la messa a punto del minisub.
Per pararsi il culo, espressione usata spesso dal padre,
aveva chiesto e ottenuto da Marco Ablondi, il capo missione, una lettera di scarico della responsabilità in caso di incidenti, sinistri e controversie legali di qualsiasi tipo. Ma
quel pezzo di carta non era sufficiente a tranquillizzarlo.
Quel tipo poi, Zav il sub, non gli piaceva, i suoi lineamenti
duri, la sua sicurezza, la fiducia nei compagni anche se visti per la prima volta lo intimoriva. Sembrava un incrocio
tra un rozzo pescatore e un mercenario. La cosa che più lo
infastidiva era che probabilmente lui sapeva perché fossero lì.
Il loro compagno non si faceva vedere ma all’improvviso un ronzio elettrico ruppe il silenzio a bordo del minisub.
Un ronzio forte, amplificato dall’involucro metallico e dall’acqua circostante. Sembrava il rumore di un grosso trapano fatto girare a vuoto alla massima velocità. Il ronzio
destò dal torpore dell’attesa i due membri dell’equipaggio,
entrambi sapevano che quel rumore proveniva da un altro
mezzo subacqueo, non erano più soli.
Marco Ablondi si avvicinò all’oblò, sperava di vedere
qualcosa. Vide un sub che si avvicinava, aveva un rebreather, ma non era il suo amico.
«Cavolo non è Zav», disse avvicinandosi fino ad appoggiare il naso al plexiglass per vedere meglio.
«Non è Zav», urlò talmente forte da far sobbalzare il
suo collega.
La stessa agitazione che colpisce un bambino sorpreso
mentre falsifica la pagella di scuola si impadronì dei due
uomini a bordo. Occorreva darsi da fare ma nessuno sapeva cosa fare. Né avevano idea di dove fosse il loro compagno.
Quando videro il sub fuori dall’oblò mostrare il medio
eretto davanti alla lente di plexiglass capirono che le cose
si stavano mettendo male; quando videro quel tipo appiccicare la lattina sul plexiglass capirono che le cose si stavano mettendo molto male.
«Che cazzo è sta roba, Remo», urlò Marco.
«Non lo so, non ne ho mai vista una», rispose l’ex sottufficiale.
«Dai cazzo, andiamo via, spostiamoci.»
«Dobbiamo aspettare che entri Zav e svuotare il compartimento, altrimenti strisceremo sul fondo invece di navigare in assetto», rispose il collega addetto al compartimento, infastidito dalla continua agitazione del suo capo.
«Se ne è andato, è lui che ha lo scooter, ne senti altri?»
chiese Marco mentre preparava il sommergibile a muoversi.
«Sento solo quello, ma a poppa ci sono ancora rumori
metallici.»
«Aspettiamo due minuti, se non arriva Zav svuotiamo il
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compartimento allagato e ci spostiamo, lo recuperiamo dopo», disse Marco visibilmente alterato. La situazione era
molto complicata, erano stati scoperti, e nessuno dei due
aveva un quadro preciso della situazione all’esterno del
battello. Quanti erano, cosa facevano, e chi erano. Se fosse
stata la Marina Militare non rimaneva molto da fare se non
arrendersi e subire le conseguenze. C’era una piccola probabilità che la cosa fosse insabbiata, a Marco e allo zio le
conoscenze nell’ambiente non mancavano.
Il ronzio dello scooter di Stefano continuava a invadere
lo spazio circostante, sembrava arrivasse da ogni direzione. Quando videro Stefano trascinare per il corrugato del
rebreather il loro compagno, i due a bordo del minisub capirono che non rimaneva altro da fare che eliminare l’intruso.
«Cazzo noo, se si strappa il corrugato Zav è fottuto,
preparati a uscire e a recuperarlo», disse Marco al suo subalterno.
«Non è possibile, abbiamo una sola attrezzatura e l’ha
indosso Zav», rispose Remo seccato dalla stupidità della
richiesta, «non posso mica andarci in apnea.»
«Si è rotto, cazzo, annega», urlò di nuovo Marco colpendo il solo punto delle pareti cilindriche dello scafo che
non avesse pannelli di comando.
L’agitazione che si era impadronita dei due novelli capitan Nemo si manifestava con una copiosa sudorazione.
Senza che Marco glielo ordinasse Remo iniziò a svuotare il compartimento; il rumore vorticoso del getto d’aria
che prendeva il posto dell’acqua, coprì per alcuni istanti
quelli provenienti dall’esterno. Dall’oblò dritto davanti a
loro si vedeva il corpo ormai inerte del loro compagno
adagiato sul fondo. Pochi metri più in alto il suo uccisore
attendeva che la corrida iniziasse.
Lo svuotamento del compartimento terminò con uno
spurgo di aria verso l’esterno e un leggero sobbalzo.
Alleggerito di più di una tonnellata di acqua il minisub ora
era pronto per navigare.
Marco diede una pompatina alle casse assetto, anche se
dal peso del sommergibile mancavano i circa centosettanta
chili del sub e della sua attrezzatura, decise di staccare lo
scafo dal fondo prima di azionare l’elica. Non voleva certo
rovinare quel capolavoro di metallurgia tritando il fondo.
Bastò girare una manopola per dare corrente al motore
Siemens, imprimendo un’accelerazione tale da squilibrare
i due all’interno del minisub, la lancetta dell’amperometro
oscillò alcune volte prima di stabilizzarsi.
«Non vorrai mica andargli addosso», urlò Remo a
Marco che non lo ascoltò neppure.
La strategia era semplice, investire quel figlio di puttana, trascinarlo più a fondo fino a farlo svenire, la velocità
avrebbe generato una pressione sul corpo tale da impedirgli di respirare.
«Occhio per occhio», mormorò Marco mordendosi le
labbra. Gocce perlacee di sudore grondavano dalla fronte
dei due nel sommergibile, alla debole luce rossa accesa all’interno la faccia di Marco sembrava quella di un demone
intento a vendicarsi dell’anima appena sottrattagli.
«Crepa bastardo», grugnì Marco a denti stretti.
«Che cazzo sta facendo, vuole togliere quella roba che
ha attaccato prima.»
Marco non immaginava cosa fosse quel cilindro appiccicato sull’oblò ma di certo non gli piaceva, qualunque cosa fosse.
Il sommergibile ebbe un sussulto e aumentò la velocità
anche se di poco, sembrava che si fosse alleggerito di colpo. La collisione dello Zeuxo contro le pale fece capire il
perché di quello scatto, il tipo impastato sul parabrezza
aveva abbandonato il suo mezzo di locomozione subac-
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quea il quale era passato a salutare l’elica e i timoni di coda.
Il corpo del sub da quel momento aveva preso a divincolarsi e Marco vide chiaramente la mano che strappava
faticosamente una linguetta dalla lattina appiccicata al plexiglass.
Il fatto che quel tipo fosse disteso sul plexiglass, dava
una certa sicurezza, qualsiasi cosa fosse successo, quel sub
sarebbe stato il primo a subirne le conseguenze.
«Potrebbe essere un localizzatore sottomarino», disse
Marco preso da un insano ottimismo.
«Non credo», rispose Remo, «perché avrebbe dovuto
metterlo sul plexiglas? Io l’avrei messo sullo scafo, sotto,
in modo che non ce ne saremmo accorti. Non mi piace
quel coso. Speriamo che si stacchi insieme a quello stronzo.»
Lo stronzo in effetti si stava scrostando ma la bomba
termica rimaneva al suo posto.
Stefano, spostatosi di alcuni centimetri, era ora investito da un flusso di acqua asimmetrico, maggiore sulle gambe e sempre meno sul tronco. Da lì a poco il flusso lo
avrebbe strappato dalle fauci dello squalo metallico.
Il minisub ebbe un altro sussulto quando il corpo di
Stefano si staccò dall’oblò di prua, e pochi istanti dopo un
rumore metallico, combinato con uno scarto assiale, informò i presenti che il corpo era passato dall’elica e dai timoni con chissà quali successi.
«Pronti a virare, autoreverse», gridò Marco al compagno. Autoreverse sostituiva nel loro gergo il comando invertire la rotta di centottanta gradi.
Lo squalo non molla la preda se non è morta.
«Cazzo, guarda, l’oblò si sta appannando; cazzo, si sta
crepando, emersione, emersione.» Le urla di Remo arrivarono tardi. Anche se Marco aveva intuito cosa stesse avve-
nendo appena la lattina iniziò a sprigionare bolle, e aveva
iniziato la manovra di emersione non ci fu scampo per l’equipaggio.
Il plexiglas dapprima diventò bianco opaco ed infine
iniziò a deformarsi.
Quando videro le infiltrazioni di acqua tra la lente concava e quella piana all’interno del sommergibile capirono
che era questione di pochi minuti, solo un miracolo avrebbe potuti salvarli. Ma i miracoli si avverano solo se ci si
crede ciecamente.
Il minisub aveva iniziato la risalita di emergenza e per
qualche metro si era diretto verso la superficie ma alla prima infiltrazione di acqua non ci fu più nulla da fare.
«Siamo fottuti», gridò rabbiosamente Remo Repossi,
colpendo Marco con un pugno a martello sul torace. La
rabbia in quel momento poteva scaricarsi solo con un ultimo gesto violento diretto verso colui che con la sua cupidigia aveva trascinato i propri compagni verso una morte ingiusta e prematura. Non ci fu tempo per un secondo pugno
o altre parole, il rigagnolo di acqua divenne un torrente impetuoso che allagò l’abitacolo, prima comprimendo l’aria
presente e forando i timpani dei due uomini poi mandando
in cortocircuito tutto l’impianto elettrico.
Marco perse i sensi quasi subito, la massa di acqua lo
aveva sbalzato contro il portello di apertura, proprio sopra
la testa. Battuta violentemente la nuca non sentì la morte
liquida riempirgli i polmoni. Per Remo fu più traumatico,
l’acqua saliva velocemente all’interno dell’abitacolo metallico, causando narcosi istantanea. Prese l’ultima boccata
di aria quando l’acqua arrivava alle spalle e attese che il
sommergibile fosse pieno. Di stare lì ad aspettare di morire
con le mani in mano non gli era possibile. Tentò di raggiungere il portello sopra il posto di guida di Marco,
aprendolo sarebbe sfilato fuori e poi chissà!!
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Ma l’amico, colpito con rabbia pochi secondi prima,
anche se inerme decise di vendicarsi e si oppose col corpo,
ostruendo il passaggio in quell’angustio spazio. L’aria
mancava, la testa scoppiava e le orecchie facevano un male cane. Il diaframma cominciava a dare le prime scariche,
piccoli colpi come quelli della tosse ai quali sarebbero seguiti quelli più potenti, la richiesta di un nuovo respiro.
Non fu aria quella che entrò nei polmoni, e non bastarono i
colpi di tosse convulsi a risolvere la situazione, anzi la terminarono. Quella dell’annegato deve essere una delle morti più brutte, sempre ammesso che esista una morte piacevole.
Un concerto di strani rumori accompagnò il sommergibile verso il fondo, appruato notevolmente dalla massa
d’acqua penetrata all’interno, dirigeva cavitando su se
stesso come un siluro istupidito. L’elica continuava a girare investita dal flusso dell’acqua come se il mezzo volesse
suicidarsi piuttosto che cadere in mano nemica.
Il sommergibile si era allontanato dalla zona del relitto
raggiungendo la prima delle scarpate che portano alla piana abissale. Là sotto c’erano trecento metri di mare su un
fondo che a detta delle carte nautiche doveva essere fangoso. Metri e metri di colla grigia pronta ad inghiottire qualsiasi cosa vi si appoggiasse.
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CAPITOLO TRENTASEI
LUNEDÌ
DOVEVA farsi perdonare l’assenteismo di quei giorni e così
Ruby alle sette di lunedì mattina era già nel parcheggio vicino alla sede. Aveva lasciato lo scooter Honda nella piazzola più vicina alla strada.
Non c’era nessuno di sua conoscenza anche se sul molo
lungo alcuni pescatori erano intenti ad esibirsi, onorando
Priapo. Con le loro lunghe verghe appoggiate all’inguine
restavano in estatica attesa. A prima vista era difficile capire chi vincesse la gara, era il primo chi perdeva la rigidità
sotto i colpi di una languida e conturbante quanto insignificante preda? O era primo colui che imperterrito resisteva
immobile col membro di carbonio eretto fino alla fine della giornata.
Regole sibilline condizionavano quello sport che Ruby
ammirava per la perseveranza con cui gli adepti si misuravano rispettosamente ogni giorno, ogni stagione.
Il mare cominciava ad alzarsi, come era stato previsto
dai meteorologi. Il sole era basso sull’orizzonte e il cielo
leggermente nuvoloso ne esaltava l’amalgama di luce azzurra e arancione. Spruzzi di quel colore riflettevano su
ogni materiale lucente, i vetri, le cromature, la pelle.
Ruby rimase immobile qualche istante ad ammirare lo
spettacolo, quel sole che sorgendo colorava il mare di
arancio lo avrebbe immobilizzato per l’intera giornata se
non avesse avuto sette miliardi di cose da fare.
Si tolse il casco amaranto su cui aveva incollato due
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orecchie di pelo arancione striate di nero, un vezzo che lasciava trasparire la tenerezza di cui sarebbe stato capace se
solo qualche donna gli avesse concesso l’opportunità di
esprimerla. Peccato che tutte alla vista di quelle appendici
pelose scoppiassero a ridere.
Dall’ufficio del secondo piano lo spettacolo dell’alba
catturava ancora di più.
La scia disegnata dal sole sul mare leggermente mosso
seguiva una forma fantasiosa, diversa da quelle viste in
precedenza, il colore era incoerente con la forma come se
un’aurora boreale si fosse formata sotto la superficie dell’acqua.
Lasciò aperte le finestre e dopo aver a lungo contemplato la splendida mattina nascente, Ruby si diresse al fax, il
bollettino del mare non era ancora arrivato. Mentre si avvicinava alla sua postazione del computer dal quale avrebbe
aggiornato il sito e controllato tutta la rete del consorzio,
vide sul tavolo di Stefano il fax di Tarja, non resistette alla
tentazione di leggerlo, così come non resistette alla tentazione di appoggiare la propria bocca sulla forma delle labbra, inconfondibili.
Il bacio sul leggero foglio di carta termica durò pochi
secondi, il timore che l’amico lo vedesse era molto forte.
Fu rimettendo a posto il foglio che colse con lo sguardo lo
strano riverbero arancione fuori dalla finestra. Il sole si era
alzato di qualche grado, staccandosi nettamente dall’orizzonte, e la scia che si rispecchiava in mare aveva qualcosa
di anormale.
Ruby si posizionò sul balcone fissando insistentemente
la strana scia, aveva l’impressione che aumentasse e più la
guardava più era sicuro che non era il riflesso del sole.
Tornò nell’ufficio e prese dal marsupio il cellulare, digitò il numero di Stefano e attese che rispondesse. Niente,
il telefono squillava ma non rispondeva.
Sempre per caso notò la lampada di emergenza che di
solito stava nel locale diving, era sugli scogli, davanti al
consorzio. Era quella del consorzio, ne era sicuro, non aveva visto a nessun altro quel modello. Decise di andare a
prenderla e riportarla al suo posto.
Con passo svelto, cosa non abituale per lui, scese i due
piani di scale, si diresse agli scogli e prese la lampada. La
macchia aumentava ancora e copriva metà del campo boe.
La cosa cominciava ad apparire strana anche a uno che
non si affatica molto nell’interpretazione dei misteri della
vita.
Mentre si dirigeva alla base mare Ruby richiamò il cellulare di Stefano, lo fece squillare diverse volte e quando
fu fuori dal locale diving lo sentì trillare all’interno.
Quando entrò nel locale fu colto da agitazione anche se
non ne capiva il motivo.
Il cellulare di Stefano era su una delle panchine e squillava ancora.
Ci volle qualche minuto perché il cervello di Ruby, ancora intorpidito dal sonno, concepisse un’idea passabile, il
meglio che gli venne in mente fu di chiamare Tino, tanto si
alzava sempre presto e poi gli doveva dire due paroline a
proposito di certi preservativi.
Da buon genovese usò il telefono di Stefano per chiamarlo.
«Avanti», rispose Tino con una voce squillante, «sei
operativo?»
«Operativo un par de coioni, belin, io e te dobbiamo
parlare.»
Tino riconobbe la voce e si sforzò di non esplodere in
una risata: «Huè ciao, andavano bene i preservativi?»
«Belin questa me la paghi, non so come, ma me la paghi. Senti un po’ te», proseguì Ruby, «qui c’è qualcosa che
non va, il cellulare di Stefano era chiuso nel diving, la lam-
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pada Beghelli era sugli scogli e sul campo boe c’è una
macchia arancione che sta arrivando a Savona.»
Tino si fece serio, dal suo diving non poteva vedere il
campo boe ma immaginava che qualcosa era accaduto al
loro amico, qualcosa di grave.
«Cerca sul telefono di Stefano il numero di Bino, quello
di Savona, e poi richiamami.»
Ruby interruppe la comunicazione e cercò nella rubrica
del cellulare il numero di Bino. Era tra i primi.
Ora doveva richiamare Tino, ma se lo avesse fatto di
nuovo con il cellulare di Stefano il numero di Bino sarebbe
scomparso e così con sofferenza usò il suo.
«Dettami il numero.» Tino aveva già preso carta e penna e scrisse il numero. «Mettiti una muta e stai pronto, sto
arrivando col gommone, andiamo a cercarlo.»
Chiuse la comunicazione senza salutare e digitò il numero di Bino.
«Pronntoo», fu il saluto che Bino regalava ai numeri
che non facevano parte della sua rubrica, un numero sconosciuto poteva sempre essere un nuovo cliente e la cortesia era d’obbligo per lui.
«Sono Tino Corsi.»
La presa sul telefono sfiorò la pressione massima ammessa dal carico di rottura della lega leggera con cui era
costruito. «Che vuoi?» ruggì Bino colto dall’irrefrenabile
voglia di mordere qualcosa o qualcuno.
Tino sapeva che aveva pochi istanti per parlare e che se
le prime parole non fossero piaciute al suo interlocutore
non ci sarebbe stata una seconda opportunità.
«Stefano è scomparso, penso in immersione sul campo
boe, stiamo andando a cercarlo…»
Tino non aggiunse altro, era inutile, attese che l’altro dicesse qualcosa.
«Andiamo anche noi», furono le sole parole che udì pri-
ma che la comunicazione terminasse, non si aspettava certo ringraziamenti ma se c’era una emergenza subacquea
Bino era la persona più qualificata per risolverla.
Tino si infilò una felpa poi saltò sul gommone ormeggiato proprio fuori dal diving e si diresse verso il molo lungo di Oneglia, li lo attendeva Ruby per dare inizio alle ricerche.
Quando la telefonata di Tino raggiunse Bino, il Bolivia
era appena arrivato nelle vicinanze di Diano Marina dopo
una breve navigazione notturna. Il mare era un po’ troppo
incazzato ma nel calendario dei lavori non c’era posto per
una seconda missione sul condotto fognario, il lavoro andava fatto in quei giorni stabiliti.
«Comandante pronti a virare; dirigere sul campo boe
del Vittorio Veneto.»
L’ordine di Bino fu prontamente eseguito dal comandante del Bolivia, un capitano di lungo corso con venti anni di esperienza sui rimorchiatori di altomare e ora saltuariamente al servizio della Mako Sub Service.
Tutto l’equipaggio era in cambusa, sotto la timoneria a
sorseggiare il primo caffè della giornata.
«Tutti in coperta, ricerca e recupero di uomo in mare,
non è una prova, facciamo sul serio, tu, tu e tu, la muta addosso in tre minuti, gli altri di vedetta.» Le parole di Bino
sembravano buoni consigli paterni più che ordini ma l’effetto fu una valanga umana che si precipitava fuori e si
preparava per il compito assegnatogli.
Il mare non era dei migliori, la brezza mattutina iniziava ad alzarsi e le piccole onde anche se non infastidivano il
pesante rimorchiatore rendevano difficoltoso l’avvistamento del sub.
«Andiamo sul campo boe del relitto», disse Bino a tutti
i ragazzi presenti in coperta. Tra questi c’era anche il figlio
Marietto, futuro erede della Mako.
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«Cerchiamo Stefano. Lo conoscete quasi tutti. Fate attenzione in superficie: se vedete bolle o qualcuno a galla,
non perdetelo di vista e date la posizione dell’orologio.»
Uno dei ragazzi si stava preparando indossando l’attrezzatura da sub, se necessario sarebbe sceso sul relitto.
Tutti gli altri erano di vedetta, se qualcuno l’avesse visto
avrebbe gridato la direzione seguendo il sistema dell’ora.
Ore sei poppa, ore dodici prua, ore tre di traverso a tribordo e così via.
«Una grossa macchia di colorante sul campo boe e un
gommone in caccia», disse il comandante a Bino.
«Stiamo fuori dal campo, a batterlo ci penseranno loro
col gommone, fai grandi spirali verso il largo», urlò Bino
al comandante e timoniere.
La macchia arancione si espandeva sempre di più, ora
appariva impressionante.
Il Bolivia prese a compiere giri all’esterno del campo
boe, sempre più ampi.
«Uomo in mare, a ore nove», gridò uno dei ragazzi del
lato di babordo, «è saltato fuori ora come un tappo.»
«Non perderlo di vista e indicalo col braccio», urlò
Bino dalla plancetta dietro la timoneria.
Più che un uomo in mare sembrava una boa rossa e nera,
sbatacchiata dalle onde, senza controllo e senza volontà.
Il Bolivia passò a pochi metri da Stefano, due sub si tuffarono in acqua e lo raggiunsero con poche violente pinneggiate.
Gli sollevarono la testa e lo trascinarono verso il rimorchiatore. A bordo avevano già preparato la barella di alluminio con il ragno, la stessa che usano i mezzi della croce
rossa ma con un galleggiante per non farla affondare.
I due sub in acqua sistemarono la barella a contatto della parte posteriore di Stefano, poi fissarono le fasce di velcro attorno al corpo, la testa, le gambe e le braccia.
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Tutti i movimenti erano resi difficoltosi dal mare che
sballottava gli uomini in acqua.
Bino aveva fatto dare dal comandante due colpi di sirena, i due a bordo del gommone capirono che il loro amico
era stato trovato e si diressero vicino al Bolivia. Si accostarono fino a cinquanta metri, videro la barella che veniva issata e attesero che qualcuno facesse un cenno.
Fu Bino ad alzare il braccio e salutare, Tino Corsi sarebbe salito volentieri a bordo per stare con l’amico ma sapeva che non gli era possibile, il rancore tra lui e Bino non
si era ancora dissolto, nemmeno dopo tutti quegli anni. Si
limitò ad alzare il braccio e tornare in porto. Il suo amico
era nel posto migliore in cui poteva trovarsi.
A bordo del Bolivia la frenetica attività di salvataggio
procedeva secondo gli ordini di Bino.
«Comandante! A Porto Maurizio, Voi togliete la muta,
tagliatela.»
Si avvicinò a Marietto, il figlio maggiore e con voce
calma e tranquilla gli disse: «Prepara la camera, bisogna
portarlo subito a cinquanta metri, è conciato male.»
Mentre i ragazzi si davano da fare con le forbici Bino
prese il cellulare e dopo un grosso respiro chiamò una sua
vecchia conoscenza che gli doveva un favore.
Era arrivato il momento di ricevere quando dato in precedenza.
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CAPITOLO TRENTASETTE
EMBOLIA
l’ammiraglio! È un’emergenza», ringhiò Bino
a denti stretti nel cellulare, cercando di smorzare lo stato di
alterazione in cui si trovava, inoltre, all’altro apparecchio,
chi rispondeva, pur essendo un attendente, era un capitano
di corvetta e non voleva essere scortese.
«L’ammiraglio mi deve un favore, e mi occorre adesso,
subito, entro 3 minuti», aggiunse, tentando di essere convincente, educato ma fermo.
Stefano sentiva la conversazione, sapeva che Bino era
in credito di un favore dall’ammiraglio Arena. Il fatto che
avesse deciso di consumarlo per lui, invece che per se stesso o uno dei suoi figli, da un lato lo onorava, dall’altro lo
preoccupava, d’altronde la situazione appariva in tutta la
sua gravità.
Stefano viveva quei momenti come se fosse dissociato
dal corpo, del quale non aveva più nessuna percezione. Era
come se assistesse alla scena in disparte, in un angolo del
rimorchiatore, per non intralciare i ragazzi, indaffarati intorno al suo corpo, inerte, immobile. I ragazzi di Bino lo
stavano liberando dalla muta stagna, regalatagli dal suo
staff. Tagliavano a brandelli il trilaminato rosso e nero,
strappavano i lembi, i polsini di lattice, il colletto, ma soprattutto controllavano attentamente che Stefano respirasse, e come ci riuscisse, nessuno lo sapeva.
«Ammiraglio sono Falchi», disse al telefono Bino, già
pronto a rinfrescare la memoria dell’ufficiale su quanto av«LO
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SVEGLI,
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venuto in passato. Era il momento di riscuotere quanto dovutogli. Non ce ne fu bisogno, dal tono della voce l’ammiraglio Arena aveva intuito che si trattava di un’emergenza.
«Cosa posso fare per lei?» rispose l’ammiraglio prestando la massima attenzione a quanto avrebbe udito negli
attimi successivi. La sua mente da ufficiale di Marina, addestrata da ore di simulazioni e reali allarmi, lo metteva in
grado di reagire prontamente, anche dopo pochi secondi
avere aperto gli occhi.
«Sono a bordo del Bolivia, 2 miglia al largo di Imperia,
sto dirigendo in porto, ho a bordo un sommozzatore embolizzato», riferì Bino al suo interlocutore. Prima di continuare, si voltò verso Stefano, per aggiornarsi sulla situazione. Quando lo vide il suo volto si increspò di rughe,
quelle miriadi di rughe scavate dal sole e dal mare che
scomparivano quando era sereno, ma riapparivano minacciose come il mare agitato ogni volta che era preoccupato.
Dopo una breve interruzione Bino proseguì i ragguagli
per l’ammiraglio: «Il sommozzatore è grave, tetraplegico,
ha respirato elio, è risalito velocemente da circa 70 metri.
Lo infiliamo immediatamente nella nostra camera iperbarica con mio figlio che lo assiste, lo portiamo a 50 metri e
iniziamo una tabella Comex XX, lo lasciamo in camera
finché non esce con le sue gambe.» Bino aveva una grande
esperienza di lavori subacquei e di incidenti annessi, essere nelle sue mani era il posto migliore in cui trovarsi in casi come quello, ma la situazione si faceva sempre più precaria, lo si poteva leggere sul viso di tutti, anche di chi non
aveva l’esperienza di Bino.
Dopo un’occhiata alla situazione, Bino proseguì con le
istruzioni: «Vorrei che contattasse il centro iperbarico del
Varignano e che mi inviasse immediatamente in elicottero
un ufficiale medico in grado di seguire il trattamento in camera con un adeguato supporto farmacologico. Vorrei
inoltre che durante l’ospedalizzazione fosse seguito da
personale del COMSUBIN fino al completo recupero del
paziente.» Bino tirò un sospiro al termine del messaggio e
attese le parole dell’ammiraglio Arena.
«Bene signor Falchi», rispose quest’ultimo, «tra 4 minuti partirà un elicottero con a bordo un ufficiale e un operatore iperbarico, atterreranno sul molo. Avviso la
Capitaneria che mettano a disposizione un mezzo per portare il capitano alla vostra nave. La richiamo a questo numero tra 30 minuti. Mi richiami se serve altro.» Con la
precisione e la chiarezza che distingue gli uomini di
Marina i due si erano accordati sul da farsi. Bino aveva
chiuso la comunicazione pronunciando un sentito “Grazie
ammiraglio”, ma, l’ammiraglio Arena aveva già chiuso la
comunicazione, quel grazie non era necessario.
Da quel momento Bino cominciò ad occuparsi di
Stefano, o meglio di quel cadavere con un filo di vita che
aveva le sue sembianze. «Avete tolto la pelle viscida?»
chiese ai suoi ragazzi, così Bino chiamava le mute stagne,
esternando un nutrito dissenso per quell’indumento subacqueo. Non ebbe risposta dai ragazzi, ma la vista della sottomuta in thinsulate lo informò che le disposizioni erano
state eseguite. «Lasciate il pagliaccetto solo se è asciutto,
lo terrà caldo in camera», aggiunse con la tranquillità di
chi chiede del prosciutto cotto al salumiere. Poi si rivolse a
Marietto, il più grande dei suoi figli e l’unico presente a
bordo, il futuro dirigente della Mako Sub Service.
«Adesso lo mettiamo in camera e partiamo subito con
una tabella Comex XX, qualcuno deve andare con lui, e tu
sei l’unico che può farlo, dovrai starci dentro un bel po’,
non possiamo tirarlo fuori se non riprende a muovere le
gambe. Te la senti?»
«Va bene papà», rispose Marietto mentre continuava i
controlli sulla camera iperbarica bianca.
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Bino appoggiò una mano sulla spalla di Marietto, imprimendo una leggera rotazione, e invitandolo a girarsi
verso di lui aggiunse: «Se smette di respirare devi rianimarlo, appena sta meglio fallo bere, se non piscia entro 2
ore devi mettergli il catetere, ti ricordi come abbiamo fatto
con Giovanni?»
Marietto annuì, continuando ad ascoltare le istruzioni
del padre che aggiunse: «Sta arrivando un capitano medico
del COMSUBIN, porterà dei farmaci da iniettare, dirà lui
se intramuscolo o endovena, sei capace di farle? Vero?»
Marietto rispose abbassando lo sguardo che fino a quel
momento aveva riflesso in quello del padre, e dopo un attimo di silenzio pronunciò un sì, soffocato da un groppo allo
stomaco.
«Conto su di te», disse Bino strizzando il braccio di
Marietto all’altezza del bicipite, con quella dita callose e
dotate di forza bionica. Marietto sentì la scossa della presa
arrivare al cervello e si riprese immediatamente da ogni risentimento, poi si voltò verso Stefano e strizzò l’occhio sinistro.
Bino si era avvicinato, mentre gli altri ragazzi legavano
l’infortunato alla barella, evitò di toccarlo, sapeva che in
quelle condizioni ogni pressione avrebbe aggravato il decorso dell’embolia. Si avvicinò fino a una spanna dal viso
e disse: «Faremo il possibile per rifarti nuovo, anche se sarà un po’ lunga, abbiamo però bisogno della tua collaborazione, per cui fammi il favore di fare queste tre cose fino a
nuovo ordine. Primo, non smettere mai di respirare, secondo, non addormentarti finché non sei uscito dalla botte,
terzo non morire finché non te lo dico. Chiaro?»
Bino attendeva una risposta, e per qualche istante attese
che l’amico parlasse o facesse un segno, ma l’unica smorfia che riuscì a fare, a costo di una tremenda fatica fu di
strizzare gli occhi, per qualche istante. Fu sufficiente a
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Bino. Ordinò che lo infilassero in camera, per primo entrò
Marietto, al quale passarono il lato con la testa della barella che sosteneva Stefano. Pochi minuti dopo il tonfo del
portello diede inizio alla terapia fatta di sibili, caldo, e tanta attesa.
Lo spazio interno induceva claustrofobia ed era buio,
una vera bara.
La pressione aumentava e Marietto stringeva il naso di
Stefano e il proprio per compensare, la temperatura saliva,
ben presto sarebbe stata di trenta gradi. I rumori erano amplificati, come se le capacità dell’udito fossero aumentate.
Per l’equipaggio del Bolivia si preparava una giornata diversa dal solito, una giornata che tutti avrebbero ricordato.
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CAPITOLO TRENTOTTO
IN OSPEDALE
LE SEDUTE in camera iperbarica si susseguirono al ritmo di
una al giorno per tutta la settimana.
Il medico che aveva in cura Stefano ripeteva ogni giorno: «Lei è una persona molto fortunata, l’abbiamo presa
per i capelli!»
La fortuna quella volta aveva le sembianze di un rude
uomo di mare che con la sua nave si era trovato nel posto
giusto al momento giusto.
Di tutte le visite che ricevette in ospedale quella di Bino
fu la più piacevole. Anche perché fu l’unico che non fece
storie o domande su quello che era successo. Si presentò
nel primo pomeriggio, al di fuori del normale orario delle
visite.
Si avvicinò al giovane amico addormentato e gli prese
delicatamente il polso. Il semplice contatto fu sufficiente a
svegliare Stefano.
«Come ti senti?»
Prima di rispondere appoggiò i palmi delle mani sugli
occhi e premette sulle orbite stirando la pelle fino alle
orecchie.
«Bene, mi sento come se avessi salvato il mondo.»
Bino sorrise strizzando gli occhi stropicciati di rughe e
ciglia grigie.
«Ma… Senti un po’! C’è gente che sta cercando un
sommergibile fuori Varazze. Pare sia andato perso durante
un collaudo. Ne sai qualcosa tu?»
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L’espressione di Stefano virò velocemente da un sogghigno di autocompiacimento appena abbozzato a una tetra maschera di colpa.
«Tirami un po’ più in su», chiese all’amico.
Bino lo aiutò a sistemarsi seduto sul letto, da solo non
ci sarebbe riuscito. Ogni movimento era un festival di dolori, ogni articolazione che si muovesse, ogni muscolo o
lembo di pelle doleva dannatamente.
Respirò velocemente per qualche minuto, fissando la
parete di fronte, sforzandosi di anestetizzare i dolori.
Quando la morsa si attenuò riprese a parlare con un filo di
voce.
«Se ti ingaggiano per cercarlo fai un giro col side scan
sonar un po’ più al largo di dove mi hai ripescato, potrebbe
essere il tuo giorno fortunato.»
Bino si avvicinò, incrociò le braccia toccandosi il mento poi chiese: «Tutti morti?»
Stefano fece un cenno con la testa. Bino si pinzò la base
del mento, attese qualche secondo poi incalzò con un’altra
domanda.
«Credi siano stati loro a far fuori Paolo?»
«Ne sono sicuro», rispose rabbioso fissando l’amico,
«ma non posso provarlo in nessun modo.»
Stefano avrebbe raccontato in quel preciso istante tutta
la storia a Bino ma proprio in quel momento entrò Tarja.
Andava a fargli visita due volte al giorno e nei pomeriggi
di libertà si fermava diverse ore dal suo uomo.
La valchiria diede un bacio sulla guancia a Bino che
imbarazzato ma gratificato si fece in disparte, poi si avvicinò a Stefano, gli sistemò i capelli spettinati e lo baciò teneramente.
La bionda finlandese polarizzò l’attenzione dei due uomini, per l’occasione aveva indossato un tailleur grigio
con camicetta rosa e scarpe con tacco di vernice nera. Da
buona nordica non indossava ancora le calze, benché l’autunno fosse ormai iniziato. Rossetto rosso e matita evidenziavano i punti del viso più caratteristici, gli occhi a mandorla e la bocca spigolosa. Gli zigomi rosa, dovuti alla
rampa di scale scalata fino al terzo piano, la facevano assomigliare a una bambola.
Lo stato di salute di Stefano, molto vicino a quello di un
moribondo, aveva fatto in modo che tutti coloro che gli facevano visita non insistessero con richieste di spiegazioni
sulla dinamica dell’incidente. Tuttavia col passare del tempo e il miglioramento del suo stato, tutti avrebbero chiesto
spiegazioni e chi più chi meno con dovizia di particolari.
Primi tra tutti il magistrato Andrea de Corti e il capitano
Santi della Capitaneria di Porto.
Man mano che migliorava fisicamente perfezionava il
suo racconto e aggiornava l’elenco a cui raccontare la propria versione dei fatti. Solo a pochi avrebbe raccontato la
verità.
L’ultima settimana dei 33 giorni di degenza passati in
ospedale furono un vero e proprio tour de force, decine di
persone gli facevano visita, guide del consorzio, clienti,
soci e collaboratori, di alcuni non ricordava nemmeno il
nome.
La madre voleva trasferirsi per tutto il tempo della convalescenza, ma, dopo aver conosciuto Tarja e constatato di
come si prendeva cura di Stefano, decise che era in buone
mani e si accontentò di fargli visita una volta alla settimana nei week end.
Una persona premeva per rivedere Stefano, una persona
lontana.
Ormai si sentiva guarito, anche se per ogni ora passata
in piedi o a camminare doveva riposarsi un’ora, stando seduto o sdraiato. I movimenti erano lenti e goffi nonché dolorosi e per camminare faceva uso di bastoni. Poteva co-
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munque considerarsi fortunato, altri al suo posto erano rimasti paralizzati a vita dalla lingua in giù.
Erano le undici quando dimisero Stefano dall’ospedale,
Tarja era andata a prenderlo con la Golf.
La deambulazione non era perfetta, Stefano camminava
come un bradipo, una di quelle scimmie che per scendere
dalla pianta ci mette una settimana.
I movimenti erano scoordinati e ogni azione era maledettamente complicata, ma almeno stava uscendo sulle
proprie gambe.
Tarja, Bambinoricco e Ruby portavano avanti le faccende del consorzio. Le immersioni erano riprese il sabato e la
domenica. Ma lui di riprendere a lavorare non ne aveva
proprio voglia, ogni movimento gli costava una fatica immensa e l’unica cosa che gli riusciva di fare era niente, assolutamente niente.
Una cosa però lo tentava, voleva a tutti i costi parlare
con quel marinaio che era stato sequestrato in Mar Nero a
causa del comandante Ablondi.
In tutto quel tempo passato a letto non gli era passato
altro per la mente, forse la chiave era lì.
Appena a casa avrebbe chiamato Billo per sapere se
avesse scoperto qualcosa.
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CAPITOLO TRENTANOVE
A CASA
quella mattina gli parve il più bel posto
del mondo. Diablo, stranamente, era in un angolo del giardino, seduto e vigile, come se un presentimento gli avesse
annunciato l’arrivo dell’amico. La famigliola si era riunita.
Tarja aiutò Stefano a uscire dalla macchina. Sembrava
un vecchio di settant’anni. Lo accompagnò sulla veranda
di casa e gli chiese: «Cosa vuoi oggi per mangiare?»
«Pollo arrosto e patatine», rispose Stefano con la stessa
lentezza con cui camminava.
«Bene io va a prendere, dopo noi mangiare.»
Stefano annuì con la testa per risparmiare le energie
della risposta. Si sedette sotto il portico della casetta in legno e attese il ritorno della compagna. Non appena la Golf
si dissolse tra gli ulivi prese il cellulare e chiamò l’amico
Billo.
«Ciao, sono Stefano, ti disturbo?»
«Carissimo ciao, come stai? Non disturbi mai tu, sto apparecchiando, oggi sono di corvè», rispose l’amico, gagliardo come sempre.
«Ma! Ho visto tempi migliori. Hai saputo qualcosa di
quel tipo di cui raccontava Valerio?»
«Poco», riferì Billo, «il marinaio si chiama Felice Tonelli, ha una ditta al porto di Spezia. Su Ablondi ho scoperto che era di Livorno e che è scomparso per incidente in mare, ma su di lui non riesco a ottenere altro, anzi mi hanno fatto un sacco di domande sul perché volevo informazioni.»
LA CASA DI
LEGNO
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«Per favore fammi un fax con l’indirizzo di la Spezia;
se scopri qualcos’altro chiamami.»
Billo smise di posizionare le posate.
«Certo, lo faccio nel pomeriggio. Quando ci vediamo?»
«Appena posso guidare vengo a trovarti, però fammi un
favore, chiedi a qualcuno dell’associazione di Livorno se
sanno qualcosa su Ablondi e se puoi trova l’indirizzo della
moglie, controlla se si è risposata con Martelli, quello
morto da poco, secondo me si tratta dello stesso Ablondi.
Ciao ciao.»
«Contaci», rispose il baffuto furiere.
La semplice telefonata come quella con Billo richiedeva lo stesso sforzo di un trasloco, in quelle condizioni tutto
era faticoso, anche aspettare il pollo con le patatine.
Due giorni dopo Tarja e Stefano andarono a La Spezia,
zona porto, non avevano avvisato della loro visita, contavano sull’effetto sorpresa.
La sede della EFFETI Spedizioni era poco più di una
casetta ad un piano con annesso un capannone destinato a
magazzino, ma dalla mole di scartoffie e computer il lavoro svolto doveva essere parecchio. La EFFETI spediva
qualsiasi cosa in qualsiasi posto del mondo. Stefano e
Tarja chiesero di parlare con il signor Tonelli e, credendo
che fossero clienti, gli impiegati condussero cortesemente
i due dal titolare.
Felice Tonelli dimostrava molti meno anni di quanti ne
avesse, il fisico asciutto e l’aspetto ordinato lasciavano trasparire un passato da atleta e una cura della persona comune a tutti gli ex appartenenti delle Forze Armate. Anche se
indossava una Lacoste e un paio di pantaloni di Canvas,
sembrava avesse addosso una divisa, nessuna piega fuori
ordinanza, nessun bottone slacciato, ogni centimetro dei
vestiti era imbottito di muscoli e ossa. Felice accolse i due
con modi affabili e un gran sorriso, credendoli clienti, ma
quando Stefano chiese di parlare del comandante Ablondi
l’espressione del volto cambiò, ombrandosi di ricordi ormai lontani.
«Chi è lei precisamente?» chiese Tonelli a Stefano assumendo un’espressione di diffidenza verso i due. Ora li osservava con più attenzione, quasi volesse scovare un qualsiasi difetto o motivo per rifiutare quella conversazione.
Stefano attese qualche secondo, incerto se rispondere
dicendo la verità o inventare al momento un balla che permettesse di ricevere qualche risposta in più. Decise per la
verità o qualcosa di molto simile. Spiegò chi era e accennò
all’incidente di Paolo Molli, tacendo la perdita del sommergibile e tutto il resto.
Poi, dopo una breve pausa aggiunse: «Ritengo che
quanto accaduto in Mar Nero nell’80 sia pertinente e di
aiuto all’indagine che sto conducendo sulla morte del geologo Paolo molli», raccontò Stefano cercando di essere
persuasivo.
«Mar Nero, millenovecentottanta, allora sapete già
qualcosa?» ribatté Tonelli, impassibile.
Stefano raccontò quanto gli era stato riportato da
Valerio, il sequestro e la scomparsa del comandante
Ablondi. Tonelli ascoltò in silenzio, anche se l’espressione
sembrava di pietra, imperturbabile, dentro qualcosa lo stava divorando e non era l’ennesimo attacco di gastrite.
Attese mezzo minuto prima di parlare, mezzo minuto in
cui tutti e tre rimasero in silenzio, fissando ciascuno un
punto della stanza. Poi Tonelli parlò.
«A Odessa solo uno degli arabi parlava un po’ di italiano; disse al mio compagno di fare in fretta e andare a chiamare il comandante mentre gli altri quattro mi tenevano
con un coltello alla gola. La cosa mi sembrava molto strana e temevo che non ne sarei uscito vivo. Dopo mezz’ora il
comandante arrivò, da solo, e ordinò che mi lasciassero.
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Gli arabi non volevano lasciarmi ma il comandante tolse
un pacchetto di tasca e disse che se non mi lasciavano andare lo avrebbe gettato nell’acqua, eravamo su una banchina.» L’uomo non aveva nessuna esitazione nel raccontare
la storia, segno evidente che la stessa lo aveva accompagnato per molte notti insonni. Proseguì.
«Quando gli arabi mi lasciarono il comandante mi ordinò di ritornare a bordo della nave, non disse altro, e questo
mi fece preoccupare. Se avesse detto qualcosa tipo non dire nulla, oppure vai a rapporto dal comandante, sarei stato
più tranquillo. Ma non disse niente, come se sapesse cosa
sarebbe successo dopo pochi minuti. Mi ero allontanato di
circa duecento metri, ogni tanto mi giravo indietro a guardare cosa stava succedendo, ad un certo punto sento un
tonfo in acqua, come un grosso sasso. Ablondi aveva lanciato il pacchetto in acqua e gli arabi gli erano saltati addosso accoltellandolo, non so quante glie ne abbiano date
ma erano in quattro e ognuno lo colpì diverse volte, poi si
accorsero che li avevo visti e due di loro iniziarono ad inseguirmi, di corsa. Mi precipitai a bordo e invece di stare
zitto andai subito dal comandante. Nel suo ufficio c’era già
il mio compagno arrivato da poco e una squadra armata
era già pronta per andare a controllare cosa stesse succedendo. Li guidai io dove avevano accoltellato il comandante ma non lo trovammo, c’era solo una pozza di sangue. Le autorità cercarono il corpo in acqua ma non lo trovarono mai più.»
Stefano aveva ascoltato immobile la storia, cercando
qualche incoerenza, qualche piega che spiegasse l’assurdità degli eventi. Poi fece qualche domanda.
«Ma cosa c’era nel pacchetto che minacciava di gettare
in mare, cosa volevano quegli arabi?»
Tonelli dondolò la testa a destra e a sinistra prima di rispondere: «Chi lo sa! Ci fu un’inchiesta militare ma non si
scoprì mai nulla, La morte di quel comandante fu imbarazzante e per quel che ne so io, lo dettero disperso in mare,
probabilmente per evitargli il disonore della diserzione.»
«Ma lei lo vide cadere a terra, era morto o fingeva di essere stato ucciso?» chiese Stefano animato da un nuovo
dubbio.
«E se il comandante Ablondi avesse simulato il suo
omicidio per passare ai russi? L’Unione Sovietica pagava
bene i consulenti militari stranieri.»
Tonelli non ebbe un attimo di esitazione nel rispondere.
«La stessa domanda me la fece la commissione di inchiesta. Allora come adesso non posso rispondere, ero a
duecento metri di distanza, sentii le grida, vidi il corpo cadere a terra, poi cominciarono a rincorrermi e non mi voltai più indietro fino a quando fui sul barcarizzo del Veneto.
Non lo so se fu veramente ucciso!» Tonelli spostò lo
sguardo verso la finestra dell’ufficio, distraendosi per un
attimo con le navi che affollavano la rada.
Stefano nel frattempo formulò la domanda successiva,
mancava un pezzo importante del puzzle e senza di quello
non si poteva proseguire, forse l’uomo di fronte poteva
aiutarlo.
«Ma, il comandante Ablondi aveva qualche amico particolare imbarcato in quella stessa missione?» Stefano sapeva che a bordo si formano delle amicizie che durano una
vita, anche dopo il periodo di ferma.
«Martelli!», fu la risposta decisa, «erano quasi sempre
insieme, erano amici già da prima di imbarcarsi. Anche lui
fu torchiato parecchio dalla commissione di inchiesta.
Forse pensavano che fossero complici.»
Un sussulto colse Stefano quando sentì pronunciare
quel cognome.
Non aveva bisogno di sentire altro.
Era quasi ora di pranzo quando uscirono dalla EFFETI.
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Prima di infilarsi in una trattoria, Stefano chiamò Billo,
chiese di procurargli urgentemente l’indirizzo della vedova Martelli.
Rimase stranamente silenzioso a tavola, fino a quando
Tarja chiese cosa volesse fare nel pomeriggio. Prima di rispondere alla domanda della donna rispose alla chiamata
del cellulare. Billo, efficiente come un incursore, in pochi
minuti aveva ottenuto dal suo omologo di Livorno l’indirizzo richiesto. Oltre all’indirizzo, da Billo aveva avuto
conferma del suo sospetto, la vedova Martelli era anche la
vedova Ablondi.
«Mi porti a Viareggio?» chiese Stefano alla compagna
che colta di sorpresa si rifiutò di rispondere immediatamente, nascondendo il viso arruffato dietro il menù.
L’uomo lasciò che il broncio si dissolvesse, ci vollero
pochi minuti di silenzio e qualche sorso di birra gelata.
«Io porta te a Livorno ma tu racconta a me tutta storia,
chi è Ablondi? Chi è Martelli? Se tu non parla io non guida», la donna incrociò le braccia e attese la risposta.
«Va bene», disse Stefano, «durante il viaggio ti racconto
tutto, chiama il consorzio, avvisa che torniamo domani.»
«Domani? Molto lontano Viareggio?»
«Sì è lontano, ci arriveremo nel tardo pomeriggio, stasera dormiamo in albergo.» Stefano immaginava già cosa
avrebbe detto la sua donna.
«Ma noi non ha cose per hotel, cose per cambiare!»
L’uomo sorrise, tutte uguali queste donne, pensò:
«Laviamo le mutande e le lasciamo ad asciugare di notte
così domattina sono pulite e compriamo due spazzolini in
autogrill, non ci serve altro.»
Tarja si mordicchiò le labbra, poi emise una specie di
ruggito sommesso mostrando i denti, era il suo modo di
accettare e contemporaneamente dissentire sull’idea.
Durante il viaggio Stefano con grande fatica raccontò
tutta la storia, compresa la corrida con il sottomarino e la
morte dei tre uomini. Tarja passava dallo stupore alla collera alternando i due stati d’animo a seconda della pericolosità delle azioni di Stefano.
Non credeva alle sue orecchie, quello che sembrava un
cucciolone, tenero e giocondo, si rivelava parola dopo parola, pericoloso e spietato come un terrorista. Mai avrebbe
pensato che Stefano fosse capace di una cosa simile.
Anche Stefano pensava la stessa cosa prima che gli accadesse.
Al termine del racconto Stefano dovette subire l’ennesimo “ribaltone”. Tarja per meglio rimproverarlo si era fermata in una piazzola di sosta e scesa dalla macchina disse
al suo uomo tutte le parolacce che conosceva in italiano,
poi quelle in inglese e infine un’interminabile sequenza di
insulti in finlandese. Anche se non capiva le parole in finlandese a Stefano il senso del discorso era chiarissimo e
per tutto il tempo non disse niente. Nulla di sensato gli veniva in mente e pensandoci bene la sua compagna aveva
proprio ragione, era uno stupido. Aveva rischiato la vita
senza un motivo valido e soprattutto aveva causato la morte di altri che certo non meritavano quella fine, ma la situazione era degenerata.
Tarja voleva tornare indietro, quella storia l’aveva sconvolta, non fu facile convincerla a proseguire, ma alla fine
Stefano la ebbe vinta.
Gli ultimi chilometri prima di entrare in città li percorsero in silenzio. Fu proprio la bellezza di Viareggio a ravvivare l’umore della donna. Si fermarono a un’edicola e
acquistarono una pianta della città. A Stefano non piaceva
chiedere le indicazioni, preferiva trovarsi la strada da sé.
La casa della vedova Martelli dava sulla statale e si trovava molto fuori dall’abitato, una vecchia casa divisa tra
quattro famiglie, un giardino incolto che sembrava la ri-
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produzione del sottobosco della foresta amazzonica e un
cancello in ferro battuto verniciato l’ultima volta in occasione delle Colombiadi del 1992. Al di là della statale il
mare.
Prima di suonare il citofono Stefano chiese a Tarja di
parlare lei per prima; era convinto che la voce di una donna avrebbe ben disposto la vedova Martelli, nonché vedova Ablondi, nonché madre di Marco.
«Cosa dice io?», chiese Tarja un po’ preoccupata.
«Dille che siamo amici di Marco e che non lo sentiamo
da un po’ di settimane e siccome siamo a Viareggio siamo
passati a vedere se è a casa, poi parlo io.» L’aria di Stefano
era serena e tranquilla cosa che convinse Tarja ad acconsentire alla richiesta di complicità.
La vedova fece salire i due al secondo piano senza indagare troppo, li attese spiando dalla porta con il catenaccio
inserito, pronta a sbattere la porta in faccia se i due non le
fossero piaciuti.
Stefano ci mise dodici minuti per salire i quarantadue
gradini, arrivò in cima con le gambe e le braccia che gli
tremavano vistosamente, e forse fu proprio per il suo stato
che la donna li fece entrare dopo un semplice buongiorno.
Il contatto con la sedia fu per Stefano appagante come
un orgasmo, mai sollievo fu più gradito in vita sua. Ci volle mezz’ora perché passasse tutto lo stato di spossatezza.
«Che cosa le è successo», chiese l’anziana signora.
«Incidente subacqueo», rispose con molta fatica.
Tarja capì che era arrivato il momento di dare una mano
al suo uomo, almeno fino a che non si fosse ripreso. Dopo
le presentazioni chiese di Marco.
«Noi tanto tempo che non vede Marco, oggi noi a
Viareggio, passati per vedere se lui in casa.» Sapeva che
doveva sedurre la donna con la sua personalità, altrimenti
non avrebbero avuto informazioni.
«Da quanto conoscete Marco? Lui non parla mai dei suoi
amici, infatti non viene mai nessuno qui a trovarlo; è strano
che vi abbia dato questo indirizzo, di solito non lo da mai a
nessuno.» La donna era molto sorpresa di quella visita.
Tarja rincarò la dose: «Noi fatto con Marco tante immersioni su Vittorio Veneto, noi vuole salutarlo.»
«Quel cazzo di Vittorio Veneto», disse la donna quasi
vomitando il nome.
«Lei sapere cosa è Vitorio Veneto?» chiese Tarja stupita
da quella espressione.
«Certo che lo so, ho perso il mio primo marito su quella
nave», rispose la donna mordendo con rabbia l’unghia del
medio destro. Da quel momento la donna cadde in depressione.
«Volete qualcosa da bere», chiese e senza aspettare risposta avvicinò una bottiglia di Chivas e tre bicchieri, posandoli sul tavolino del salotto attorno al quale i due si erano accomodati. Versò un dito abbondante di whisky agli
ospiti e mezzo bicchiere abbondante per sé.
Ne ingoiò quattro sorsi prima di rivolgere lo sguardo all’uomo e alla donna che, per compagnia, bagnarono le labbra nel liquido alcolico.
Ad ogni sorso la luminosità del viso della madre di
Marco sarebbe diminuita, fino a spegnersi completamente,
ricordi lontani tornavano e l’alcool era l’unico modo che
Ada conosceva per scacciarli.
«Marco mai parlato di questo fatto», disse Tarja alla
donna.
«Non ne parlava con nessuno e da quando era ragazzo
non ci aveva più pensato, ma da sei mesi a questa parte,
dopo la morte del mio secondo marito, aveva ricominciato
a chiedere spiegazioni sull’accaduto, era ossessionato dalla scomparsa del padre.» La donna inondò l’esofago con
altri sorsi di Chivas.
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Tarja cercò di non far perdere lo slancio alla conversazione e approfittò della bevuta di Ada per parlare di
Marco.
«Marco molto bravo come sub, anche molto gentile.»
«Gentile! Balle! Se è gentile con qualcuno lo è perché
vuole qualcosa, se è stato gentile con voi allora vi ha usati.» Ada disse quelle parole con estrema calma, come se
non avesse timore di essere smentita e lo sguardo che si
scambiarono Stefano e Tarja le diede ragione. La donna lo
colse attraverso il fondo del bicchiere di cristallo, anche se
durò pochi attimi.
«Marco era un figlio di puttana, sapeva come ottenere
quello che voleva dalle persone e senza troppa fatica.»
«Noi è molto tempo che non vede lui. Dove adesso?»
chiese Tarja.
«Che ne so», rispose la madre, «sono sei mesi che non
lo sento, si è fatto vivo solo una volta, per il funerale del
patrigno. Gli avevo detto che Martelli aveva lasciato un
diario dove forse c’era scritto come fosse morto il suo vero
padre e l’ultima volta che si presentò lo prese e lo portò
via; da allora non ho più visto quel figlio di puttana. Mi ha
lasciata sola, proprio quando avevo bisogno di lui.» Ci
vollero altri sorsi di Chivas per placare l’arsura, ma non la
rabbia.
Alla parola diario i due si guardarono, poi Stefano timidamente fece la prima delle sue domande.
«Ma perché dice che è un figlio di puttana, non era suo
figlio legittimo? Era di Martelli?» Cercò di dirlo seriamente senza nessuna espressione che potesse equivocare la domanda.
«Era mio figlio, un vero figlio di puttana.»
Stefano prese la bottiglia di Chivas, riempì a metà il suo
bicchiere e quello di Tarja, che lo fulminò con un’occhiata
di sbieco. Poi riempì per tre quarti quello della donna e
disse: «Perché non mi racconta tutta la storia?» Prese il
bicchiere e tracannò un lungo sorso.
Anche Ada prese il bicchiere e bevve altri sorsi, il viso
ormai era rattristato dall’alcool e gli occhi cominciavano a
diventare lucidi.
«La storia è molto lunga», disse, impaziente di sollevarsi raccontando quello che da mesi le toglieva l’appetito, il
sonno, il sorriso. Quelle persone erano il confessore ideale,
l’indomani non le avrebbe mai più viste.
«Noi ha tempo», disse Tarja sempre più coinvolta dalla
storia. Stefano annuì.
Prima di cominciare a parlare la donna inumidì abbondantemente le labbra col Chivas, lasciando pochi millimetri di liquido nel bicchiere, poi chiuse gli occhi per qualche
secondo e iniziò a raccontare.
«La madre del mio primo marito rimase vedova da giovane; aveva poco più di vent’anni ed era molto attraente
così si risposò subito con un altro vedovo, un gioielliere di
Livorno, molto famoso, vedovo anche lui e con un bambino piccolo a cui accudire. Era un uomo maturo e prese in
casa la donna e il suo bambino trattandolo come un secondo figlio. I due ragazzi crebbero insieme, erano coetanei,
anche se il fratellastro del mio primo marito dimostrava un
carattere più autoritario, dominante e il fratello in un certo
modo ne era influenzato. Ablondi aveva una specie di ammirazione per il suo fratellastro.»
La bocca asciutta richiese altro Chivas.
«Quando io e mio marito ci sposammo la sua famiglia
ci accolse in casa, di spazio ce n’era e decidemmo di stare lì fino a che la casa che avevamo deciso di costruire non
fosse ultimata. Ablondi era spesso imbarcato, così io rimanevo sola per molti mesi, ero molto giovane e commisi degli sbagli. Sbagli di cui mi sono pentita per tutta la
vita.»
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Ada prese il bicchiere e prosciugò le ultime gocce di
Chivas: sembrava intenzionata a non proseguire il racconto. Gli occhi erano velati da enormi goccioloni che rendevano scintillanti i grossi occhioni verde malinconia, sperduti su quel viso scarno e pallido.
«Nessun errore commesso in gioventù deve tormentare
per tutta la vita, sta a lei perdonarsi perché le persone che
ama lo hanno già fatto.» Stefano non sapeva dove avesse
preso quelle parole, fu sorpreso nel dirle come lo fu Tarja
nell’ascoltarle.
«Le persone che amavo!» puntualizzò Ada sistemando i
capelli mesciati in una messa in piega che proprio non si
addiceva al suo viso.
«Alcune volte mi sentivo sola e piangevo nel mio letto;
una volta venne mio cognato a controllare se stavo bene e
gli chiesi di dormire con me. Dormì altre volte e una notte
cominciammo a fare l’amore. Io non lo amavo ma chiudevo gli occhi e mi sembrava di essere con mio marito.
Rimasi incinta alcune settimane prima che mio marito tornasse e così nessuno capì che il figlio non era suo. Ci trasferimmo qui che Marco aveva dieci mesi e mio marito si
imbarcò sul Vittorio Veneto. Non lo vidi mai più e non
seppi mai come era morto, nessuno lo seppe. Avevamo un
amico di famiglia, Martelli, che ci aveva prestato anche
dei soldi per comprare la casa. Ablondi scherzava sempre,
diceva che se gli succedeva qualcosa avrei dovuto sposare
Martelli per risarcirlo dei soldi che ci aveva prestato e l’amico scherzando diceva che ci avrebbe guadagnato.
Quando Ablondi morì veramente io e Martelli ci sposammo, anche se mio cognato era contrario. All’inizio non ero
innamorata di Martelli, mentre lui praticamente già lo era.
Aveva fatto un giuramento a mio marito, si sarebbe occupato di me e di mio figlio in caso di morte e così fece per
tutti questi anni anche se ….»
«Anche se?» ripeté Stefano pregandola di proseguire.
«Mantenne fede al giuramento anche quando scoprì che
il figlio non era di Ablondi ma del suo fratellastro. Il bambino crescendo assomigliava sempre di più a mio cognato
e siccome erano fratellastri e non fratelli di sangue era palese chi fosse il vero padre. Anche se Martelli non mi amava più come prima continuò ad occuparsi di noi. In Marina
sotto fatti così, l’onore prima di tutto, per loro una promessa fatta a voce vale di più che un contratto scritto.»
Stefano vide la donna guardare il bicchiere e senza attendere ordini lo riempì, attingendo a tutte le sue forze per
compiere il lavoro in un tempo decente.
«Da quando ci trasferimmo qui non frequentai più mio
cognato, ma quando Marco divenne adolescente ricominciò a farsi vivo. Tra lui e mio figlio c’era un feeling particolare, sembrava sapessero di essere padre e figlio.
Martelli non era contento di questo, ma io non riuscivo a
impedire che mio figlio e mio cognato si vedessero.
Questa era la causa per cui io e Martelli non andavamo
molto d’accordo ultimamente.»
«Quando è morto Martelli?» chiese Stefano.
«Alcuni mesi fa», rispose Ada, «tumore allo stomaco.»
«E del diario cosa mi dice?»
«Non sapevo che ne avesse uno; anzi in realtà erano
molti, ma il primo era quello che aveva scritto quando era
imbarcato sul Vittorio Veneto. Quando lo trovai iniziai a
leggerlo incuriosita e scoprii che alcune cose, riguardo alla
morte del mio primo marito, non me le aveva mai raccontate.» Gli occhi di Ada ormai si erano asciugati e l’alcool
appesantiva le palpebre ombrate di blu.
«Ricorda qualcosa di particolare?» chiese Stefano.
Tarja seguiva il dibattito con attenzione, cercando di
non perdere nessuna parola.
«Non riuscii a leggerlo tutto, Marco arrivò e se lo portò
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via. Ero arrivata a un punto in cui Ablondi va da Martelli
che è di servizio e gli dice che ha fatto una puttanata e che
deve scendere a terra. Poi gli chiede di promettergli di occuparsi di me e del bambino se gli dovesse succedere qualcosa mentre è a terra. Alla fine del servizio Martelli torna
nella sua cabina e trova un biglietto e un pacchetto sulla
cuccetta.» Ada scosse la testa per far capire che non ne sapeva di più.
Quando sentì parlare di un pacchetto Stefano accese
tutta l’attenzione di cui disponeva, il whisky aveva peggiorato la sua situazione fisica, ma il cervello continuava a
funzionare anche se lievemente intorpidito.
«Cosa c’era nel pacchetto?» chiese alla donna.
«Non lo so, il diario se lo prese Marco prima che finissi
di leggerlo. Non ho idea di cosa contenesse. Martelli non
ne parlò mai con me.» Ada era stanca e chiuse gli occhi appoggiando la testa sullo schienale della poltrona.
Tutti e tre rimasero in silenzio, Tarja e Stefano si scambiarono un’occhiata furtiva.
Fuori il tramonto era ormai al termine, così come la visita.
Ma se l’alcool annebbia i pensieri e annega i ricordi, a
volte ne riporta a galla degli altri, rimasti assopiti per molti anni in qualche angolo buio.
«Ricordo di una volta», disse Ada strizzando gli occhi,
«in cui mio cognato e Martelli discussero animatamente di
un pacchetto che Ablondi doveva dare a mio cognato.
Martelli disse di non sapere niente allora, ma pensandoci
bene ora so che aveva lui quel pacchetto. Chissà cosa conteneva?»
Stefano scosse leggermente la testa con gli angoli della
bocca arricciati verso il basso.
Ada continuò: «Magari su quel fottuto diario c’era
scritto come è morto Ablondi. A me dissero che era caduto
in mare durante la navigazione notturna, stronzate. Se torna quel figlio di puttana farà meglio a riportarmi il diario.»
Ada era convinta che il figlio sarebbe ritornato. Stefano
non aveva il coraggio di dirle che era morto e col passare
del tempo si sentiva sempre più un ladro. Un ladro di vite
umane. Si era intrufolato in casa di quella donna a cui aveva causato la morte del figlio e ne aveva carpito i segreti
più intimi. Alla depressione creata dall’alcool si aggiungeva quella del momento e la considerazione che aveva di sé
stesso non era una delle più umane. Decise che era arrivato
il momento di andarsene. Tarja lo aiutò a sollevarsi dalla
sedia. Ada rimase seduta, per lei la stanza stava iniziando a
ondeggiare.
«Grazie di tutto», disse Stefano, «e ci saluti Marco.»
La donna strinse debolmente la mano ai due e chiese di
restare seduta, la porta dell’appartamento era proprio alle
spalle di Stefano e Tarja.
Stefano si diresse lentamente verso la porta, Tarja gli
stava vicino con l’intenzione di sostenerlo se avesse iniziato a barcollare.
Mentre i due aprivano la porta, Ada spremeva le ultime
gocce di Chivas dalla bottiglia, dopo di che prese il bicchiere di Tarja, ancora pieno e lo versò nel suo.
Prima di andarsene Tarja disse a Stefano: «Tu chiede
dove è cognato, lui sa cose importanti!»
Quella frase fu come un lampo nella mente di Stefano,
si voltò lentamente verso la madre di Marco e chiese:
«Come si chiama suo cognato? Dove posso trovarlo?»
Ada continuò a sorseggiare per qualche secondo, attese
che il gusto del Chivas si dissolvesse dalle papille poi rispose.
«Si chiama Augusto Vegni, è il direttore di una rivista di
Livorno, non mi ricordo come si chiama ma finisce con
navale.» Ada con quelle parole aveva dato fondo ad ogni
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sua risorsa, fissò i due che uscivano tenendo il bicchiere
con due mani sulle ginocchia ossute.
La discesa dei due piani di scale fu meno faticosa della
salita ma a Stefano parve infinita. L’alcool ingerito anche
se in minima quantità lo aveva rimbambito completamente
a causa dei medicinali che aveva preso fino al giorno precedente.
CAPITOLO QUARANTA
LA FINE
PER SUA FORTUNA Tarja si occupò di tutto: cercò l’albergo, lo
portò in camera e lo mise a letto. Come toccò il materasso
Stefano cadde in un sonno profondo, alimentato, a causa
dell’alcool, da funesti incubi. La lotta con il sommergibile
gli tornava in mente ogni notte e ogni notte si svegliava in
una pozza di sudore.
La mattina seguente si svegliarono presto, la sera precedente non avevano cenato e la colazione parve la migliore
della loro vita. Toast, brioche e caffelatte.
Stefano attese che Tarja terminasse prima di avanzare la
sua richiesta, sperava che lo stomaco pieno predisponesse
la donna ad una risposta affermativa.
«Andiamo a Livorno?»
«Hhahha! Io sa già che tu vuole andare a Livorno!», il
tono era serio, ma il viso di Tarja aveva l’espressione rassegnata di chi, malvolentieri, acconsente.
La città di Livorno digerisce istantaneamente e con voracità i mezzi che la penetrano.
Il ritmo frenetico della città di mare si mischia a quello
rilassato tipico della regione Toscana. Attraversando la città si passa da una zona dove il traffico trascina il turista in
un percorso obbligato ad una dove il tempo cessa di scorrere, ed è facile perdere ogni riferimento.
Per puro caso Stefano vide una grossa edicola con uno
spazio sufficiente a fermarsi senza ostacolare il fiume di
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auto che seguiva. Scesero e chiesero all’edicolante se aveva delle riviste di tecnologia navale o roba simile. Se la rivista era stampata a Livorno molto probabilmente qualche
edicola la vendeva, e quella era sicuramente una delle più
grosse. Furono fortunati: tra le riviste proposte dall’edicolante vi erano due titoli che potevano essere papabili,
Automazione Navale e Tecnologia Navale. La seconda
portava nel colophon il nome di Augusto Vegni come direttore responsabile e direttore editoriale. Acquistarono la
rivista, una cartina di Livorno e cercarono la via.
La palazzina corrispondente all’indirizzo sembrava più
un palazzo residenziale che la sede di una rivista ma a volte l’apparenza inganna.
Tecnologia Navale era una di quelle riviste fatte da poche persone, factotum a cominciare dal direttore che si occupa della redazione, della correzione delle bozze, delle
traduzioni, delle recensioni, di quasi tutto insomma. A
fianco del direttore, due grafici addetti all’impaginazione e
all’elaborazione grafica. La rivista era tutta lì.
Augusto Vegni era un ingegnere elettronico. Assunto
subito dopo la laurea alla Marconi, era specializzato in telecomunicazioni criptate, era infatti il padre dei primi
scramblers costruiti in Italia. Lasciata la Marconi per diventare consulente nel campo delle telecomunicazioni,
aveva rapporti con la maggior parte degli enti civili e militari addetti alle telecomunicazioni. Nel 1992 dovette ritirarsi a vita quasi privata a causa di uno scandalo relativo a
certe bustarelle ricevute per “consulenze” fornite ad alcuni
cantieri navali del Sud Est asiatico in occasione di importanti commesse navali a marine militari. Per quelle accuse
non fu mai condannato ma il buon senso e velate minacce
convinsero Augusto Vegni a ritirarsi a vita privata. Fu così
che decise di fondare una rivista.
La palazzina ospitava al piano strada un grande bar con
entrate ai due angoli. Il locale lussuoso arredato in mogano
e ottone invitò Tarja e Stefano a prendere un caffè.
Un cartello alle spalle del barista avvertiva gli avventori che la specialità del locale era il caffè shakerato e i due
cedettero alla tentazione.
Il barista capì subito che la preparazione dei due caffè
sarebbe stata complicata, anni di quel mestiere lo avevano
erudito sui gusti dei clienti e con l’esperienza che aveva
avrebbe potuto scrivere un trattato sulla “psicosomatica
dei gusti”, sottotitolo, “lasciati guardare e ti dirò cosa bevi”. Indovinò, Stefano lo voleva dolce e con l’Amaretto di
Saronno, Tarja lo voleva amaro e con la vaniglia.
Dopo il caffè si intrufolarono nel condominio. Il portiere era assente ma una targa a fianco delle scale e dell’ascensore indicava il piano sede della rivista. Al primo
piano sulla porta di fronte all’ascensore un’altra targa
graficamente più accattivante identificava gli uffici della
rivista.
Aprì la porta una delle due grafiche addetta all’impaginazione, gli uffici erano solo due grandi stanze e un bagno
tenuto pulito dalle due donne.
«L’ingegner Vegni non è in ufficio al momento. I signori hanno un appuntamento?» chiese la donna che aveva
aperto la porta.
«Non abbiamo appuntamento ma vorremmo ugualmente parlare con l’ingegnere. Arriviamo da Savona e partiamo nel pomeriggio. Sarebbe così cortese da rintracciarlo e
chiedergli di riceverci?» Stefano era scettico sul risultato
della richiesta e già si chiedeva come superare il problema,
ma voleva a tutti i costi parlare con lo zio di Marco
Ablondi, o meglio, il padre.
«Non so se sarà possibile incontrare l’ingegner Vegni,
per quale motivo desidera conferire?» La donna alta e
magra con un un’espressione seria e indifferente stampa-
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ta sulla faccia sembrava assuefatta a simili seccature, era
stata addestrata a eludere tutti i rompiscatole di questo
mondo.
Stefano sentiva di avere solo una chance e decise di rischiare, fu telegrafico: «Ho notizie di suo figlio Marco.»
Fu allora che la donna in piedi di fronte ai due lanciò
una fugace occhiata all’altra donna rimasta seduta al tavolo e indaffarata ad impaginare chissà cosa, fu allora che
Stefano capì di aver toccato la corda giusta.
La donna che sino a quel momento era rimasta barricata
dietro al proprio computer facendo finta di non ascoltare si
alzò e con aria autoritaria disse: «Aspettate qui.»
Uscì dalla porta dalla quale erano entrati i due e dopo
pochi minuti riapparve, entrando dalla porta alle spalle
delle scrivanie.
«Prego seguitemi.» La donna li accompagnò nella seconda stanza, piena di scaffali riempiti di faldoni, raccoglitori e scatole, risme di carta e scatole di cartucce per le
stampanti. Da lì passarono in un’altra stanza che con le
precedenti non aveva niente a che fare. La stanza era grande come le due appena attraversate, alle pareti alti scaffali
foderavano i muri di libri e riviste, una grossa scrivania in
legno con il piano ricoperto di pelle in tinta con quella della poltrona occupava la parte centrale dello studio, una
poltrona dallo schienale altissimo, foderata di pelle amaranto attendeva qualcuno imponente. Nell’angolo di sinistra un mobile fatto su misura conteneva una dozzina di
trofei, coppe grosse come bidet, statue di bronzo plasmate
a forma di vela, di timone, di barca a vela. Erano gli unici
oggetti a non essere impolverati oltre al posacenere.
Dalla porta di fronte alla scrivania apparve l’ingegner
Vegni, la sua presenza captò subito l’attenzione di Stefano
e Tarja. La somiglianza con Marco Ablondi era impressionante, stessa altezza, stessi lineamenti del viso, solo un po’
più consumati, stessi capelli, tutti bianchi invece che biondi, lo stesso fisico, solo un po’ di pancetta e un sedere appiattito che non riempiva bene i pantaloni in gabardine blu
con le pence. Le spalle erano ancora larghe, malgrado gli
anni passati dietro a una scrivania, segno che in passato il
tempo libero era dedicato allo sport. Sembrava di vedere
Marco invecchiato di trent’anni.
Dopo aver stretto la mano ai due seccatori Vegni disse
alla donna rimasta in attesa: «Grazie Marta può andare,
non voglio essere disturbato.»
«Non vuoi che resti?» chiese la donna. Più che un invito alla riflessione quella era una chiara richiesta.
L’atteggiamento dei due era discordante e la cosa non
sfuggì a Stefano. Se Vegni manteneva le distanze mantenendo una parvenza distaccata dalla donna, la stessa lasciava trasparire una comunione con l’ingegnere ben più
intima della vicinanza tra ufficio della rivista e l’appartamento del direttore.
«No. Vai pure, dopo vengo di là!» Vegni aprì la porta
dalla quale gli ospiti erano arrivati e la donna rassegnata se
ne andò.
«Accomodatevi», fu l’invito che rivolse a Stefano e
Tarja accompagnato da un’occhiata di compiacimento per
la donna.
Mentre gli ospiti si sedevano il padrone di casa accese
un sigaro, senza nemmeno sognarsi di offrirne uno ai due
seccatori. Prese da uno dei cassetti uno zippo in oro con incise finemente le sue iniziali e rosolò il fondo del sigaro fino a che non si accese. Diede quattro boccate e diresse il
fumo verso l’uomo momentaneamente disabile. La scena
parve familiare a Stefano.
La prima domanda la diresse verso Stefano a cavallo di
una nuvola di fumo azzurrognolo
«Mi dica, ha notizie di Marco, mio nipote?»
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L’aria arrogante di quell’individuo cominciava a infastidire Stefano ancora di più del suo sigaro. Quel tipo spaparanzato nella sua poltrona da imperatore con quell’aria
da onnipotente proprio non gli andava giù. Decise di andare pesante.
«Non siamo qui per parlare di suo nipote, ma di quell’altro Marco Ablondi», disse guardando dritto negli occhi
l’uomo di fronte che in segno di spregio continuava a intossicarlo col fumo pestilenziale.
«Un altro Marco Ablondi?»
«Sì! Suo figlio.»
A quelle parole Vegni aspirò una quantità maggiore di
fumo, fino a riempirsi le guance, lo sputò fuori subito senza degustarla come le precedenti, saettando maledizioni
con gli occhi infuocati di rabbia, poi ficcò il sigaro nel portacenere di alabastro, insaccandolo con forza contro il fondo fino a quando esalò l’ultimo sbuffo di fumo bluastro.
Gli occhi non erano più distratti e sprezzanti, ora divoravano l’uomo di fronte, inerme nella sua convalescenza.
Anche se Stefano rimase impassibile, Tarja fu preda di
sgomento, la presenza di quell’uomo la terrorizzava.
«Continui», disse digrignando i denti.
Stefano si sentì in leggero e momentaneo vantaggio,
pensò che forse era riuscito a spiazzare il suo avversario:
«Voglio sapere cosa conteneva il pacchetto che il comandante Ablondi diede a Martelli, voglio sapere dove si trova
e voglio sapere perché è morto Ablondi.»
«Nient’altro? Non vuole sapere quanto dichiaro al fisco, quante volte mi faccio la segretaria, quanti peli ho sul
culo?» L’uomo era rimasto calmo mentre parlava, ma era
una calma apparente, la collera traspariva sottopelle, pronta a esplodere come un uragano nucleare.
«Perché dovrei dirle queste cose?» aggiunse, fissando
Stefano.
«Perché io so dove è affondato il sommergibile con suo
figlio Marco. Non è dove tutti lo stanno cercando e quando
lo troveranno insieme a un certo diario lei dovrà dare delle
spiegazioni a molte persone.» Anche Stefano rimase impassibile, attese che la tempesta si manifestasse in tutta la
sua furia.
L’uomo si alzò lentamente dirigendosi verso il mobile
con i trofei, prese la coppa più grossa, quella al centro e
avvicinatosi alla scrivania la sbatté violentemente sul piano di pelle consumata. Il rumore secco fece sobbalzare sia
Tarja che Stefano.
Dalla coppa saltò fuori un libricino in pelle marrone,
con le pagine ingiallite e sporcate da mani unte ansiose di
violarne i segreti. Ghermì il diario con la mano come per
impedire che qualcun altro lo prendesse, cosa improbabile
vista la situazione di Stefano, l’unica cosa che avrebbe potuto prendere era un meteorite se gli fosse piombato addosso.
«Idioti», disse Vegni, «sono andato a recuperarlo appena ho saputo dell’incidente.»
Gettò il diario di nuovo nella coppa poi aprì un cassetto
e tolse la boccetta metallica contenente il liquido di ricarica dello zippo, sollevò il beccuccio e schizzò il diario di liquido infiammabile, poi fulmineo gli diede fuoco con lo
zippo.
La vampata avvolse la copertina e le pagine rimaste semiaperte per via della forma della coppa. Stefano tentò di
alzarsi per prendere il diario ma non riuscì, Tarja invece
fulminea si drizzò in piedi pronta a gettarsi sulla coppa infuocata. Ma, più fulmineo di tutti fu Augusto che afferrò la
pistola dallo stesso cassetto in cui aveva preso il liquido
infiammabile e che aveva lasciato volutamente aperto.
Tarja aveva una mano appoggiata sulla scrivania e si
stava allungando verso la coppa per ribaltarla e prenderne
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il contenuto quando l’ingegnere le puntò contro la pistola
paralizzandola.
«Seduta! Puttana!»
La donna sgranò gli occhi alla vista di gelido attrezzo
che subito dopo si rivolse verso Stefano. Il quale capì.
«Siediti Tarja e non muoverti.»
Vegni si spostò dietro la poltrona per meglio controllare
i due e frapporre una distanza di sicurezza.
«Ci sono delle fotocopie», disse Stefano cercando di
destabilizzare la posizione in cui si era cacciato.
L’attenzione ipnotica per la pistola gli aveva come congelato il cervello, non era la prima volta che veniva minacciato, ma vista da vicino, quell’arma lucida e brillante aveva una bocca che proprio non la faceva assomigliare ad un
giocattolo. La Colt 1911 Gold Cup in acciaio inox è una
tra le pistole più grosse e la bocca della canna calibro
45ACP incute un riverito terrore.
La situazione era degenerata e per la prima volta sentiva che gli sfuggiva di mano, ma quello che più non si perdonava era di aver coinvolto anche Tarja, che nonostante
tutto se ne stava calma al suo posto.
«Balle», disse Vegni, «Marco non fece fotocopiare il
diario nemmeno a me. Dove è affondato il sommergibile?»
chiese puntando la Gold Cup verso Stefano.
«Risponda alle mie domande e glielo dico», ribatté
Stefano senza essere tanto convinto di aver detto la cosa
giusta.
Vegni afferrò il carrello della pistola con il pollice e
l’indice sinistri, lo fece arretrare e poi lo lasciò di colpo
producendo un doppio rumore metallico. Anche se Stefano
non era un esperto di armi da fuoco sapeva cosa era successo, l’arma che fino a quel momento aveva il caricatore
inserito, ma senza il colpo in canna, ora era pronta a uccidere.
Le fiamme nella coppa continuavano ad ardere cambiando colore in base al materiale incendiato: fiamma blu
per la copertina di pelle, fiamma gialla per le pagine, fiammella rossa per il cordino segnapagina. Ormai era rimasto
solo il dorso del volume con pochi centimetri di pagina attaccati. L’aria era viziata da un odore acre e il fumo creava
uno strano alone attorno alle luci.
Vegni guardò i due in silenzio, e mentre decideva il da
farsi iniziò a raccontare la storia.
«In quel pacchetto c’erano zaffiri del Kashmir per duecento carati, allora valevano cinquecento milioni, adesso
sei volte di più. Li avevo acquistati da un faccendiere curdo per trecento milioni versando i soldi in un conto svizzero, li avrei rivenduti in Italia a quasi il doppio, senza pagare dazi o tasse. Mio fratello doveva ritirare gli zaffiri in
Mar Nero. Una piccola parte sarebbe stata sua. Ma le cose
andarono male probabilmente qualcuno dei suoi commilitoni lo seguì e scoprì cosa aveva fatto, cercarono di impossessarsi delle pietre e lo uccisero. Prima di morire senza
che nessuno lo scoprisse, lasciò il pacchetto a Martelli
chiedendogli di consegnarmelo. Ma lui non lo fece, nascose gli zaffiri nella nave e dal diario pare che siano lì ancora.» Vegni si rilassò per qualche secondo, impugnava mollemente la pistola lasciandola fluttuare nell’aria senza puntarla con precisione.
«Stronzate», gridò Stefano facendo trasalire l’uomo di
fronte «non è andata così, queste sono balle.» Da anni conosceva ufficiali di marina e quella era la fandonia più assurda che avesse sentito.
La tensione nell’uomo armato esplose in una smorfia di
rabbia e in una pericolosa presa sulla pistola, il dito infilato nel ponticello, minacciosamente appoggiato sul grilletto
pulsava ritmicamente lasciando presagire quanto la situazione rischiasse di precipitare.
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Vegni puntò la pistola contro Stefano e grugnì rabbiosamente: «Tu stai firmando la tua condanna a morte, tua e
della tua puttana.»
La pistola tremava nervosamente e la cosa intimoriva
ancora di più delle parole.
«Gli zaffiri erano il pagamento per delle apparecchiature elettroniche vendute all’Iraq, erano state montate sulle
due corvette in allestimento vendute alla marina irachena,
un sistema di intercettazione all’avanguardia. Con quello
le vedette potevano intercettare e decriptare le comunicazioni americane in tutto il golfo Persico, ci sarebbero voluto almeno sei mesi prima che gli Stati Uniti si accorgessero
di essere ascoltati.» Si interruppe per qualche secondo, ma
le domande di Stefano incalzarono quasi subito.
«Perché uccisero suo fratello, cosa centrava nell’affare?» chiese Stefano.
«Mio fratello non centrava nulla, gli avevo chiesto di ritirare gli zaffiri dicendogli che era un affare tra avventurieri che avevo conosciuto, io li pagavo in Italia e lui portava
le pietre a casa. Le pietre erano il modo migliore per non
essere scoperti, nessun conto corrente, nessun bonifico,
nessuna grossa valigia piena di soldi, niente che potesse
essere rintracciato.»
Stefano ascoltava immobile ma con attenzione.
«Non mi ha ancora detto perché uccisero suo fratello!»
«Erano in crociera col Vittorio Veneto in Mar nero, ad
Ankara ritirò il pacchetto con le pietre ma i trafficanti pochi giorni dopo furono avvertiti che le corvette sarebbero
state sequestrate dal governo italiano a causa dell’embargo
e quindi le apparecchiature non sarebbero arrivate in Iraq,
quindi decisero di recuperare le pietre, attesero la nave allo
scalo successivo, sequestrarono un marinaio e dissero al
compagno di mandare da loro mio fratello. Lui ci andò ma
senza pietre e lo uccisero.»
Attimi interminabili di silenzio gelarono il sangue dei
presenti, poi Vegni continuò spontaneamente il racconto.
«La Marina Militare aprì un’inchiesta, era convinta che
mio fratello avesse disertato, che fosse passato ai russi, anche se la guerra fredda stava finendo tutto era comunque
possibile. Prelevarono campioni di sangue dal luogo dell’uccisione e lo confrontarono con quelle di suo figlio per
confermare l’ipotesi che fosse stato ucciso, ma Marco non
era suo figlio e la marina credette che quello sul molo di
Odessa fosse il sangue di un altro, non di mio fratello. Il
corpo non fu mai trovato e anche se dal nostro servizio informazioni non ricevemmo mai conferma della diserzione
per lo stato maggiore quella morte fu un vero casino, dissero che era disperso in mare.»
«Ma perché zaffiri? Come faceva suo fratello ad essere
sicuro che non fossero briciole di vetro colorato?» chiese
ancora Stefano sempre più incuriosito.
«Nostro padre, mio padre naturale, era un gioielliere
specializzato in pietre colorate. Ad entrambi aveva insegnato come riconoscere le pietre nella speranza che uno
di noi continuasse la sua strada, mio fratello poi era molto bravo; ma nessuno di noi rilevò l’azienda di famiglia.»
Vegni si stava rilassando e raccontare quella storia, vecchia di anni, gli costava sempre meno fatica.
Stefano approfittò di quella debolezza per fare altre domande. Ormai era in ballo e voleva conoscere tutta la storia.
«Perché suo fratello non rese le pietre ai trafficanti?
Magari non lo uccidevano.»
«Non so perché le tenne, anzi le lasciò a Martelli. Forse
era convinto che qualcuno volesse rubare le pietre e far cadere la colpa su di lui. Credeva veramente che erano state
acquistate da me, non avrebbe mai immaginato che provenivano da un traffico di tecnologia, altrimenti non le
avrebbe mai ritirate. Era un boyscout, un vero marinaio,
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come lo era Martelli. Quella testa di cazzo.» Vegni riprese
ad agitarsi, il solo nome lo mandava in collera.
«E così Martelli si tenne le pietre per sé?»
L’uomo armato riprese a disegnare nell’aria strani e funerei diagrammi di morte con la pistola mentre rispondeva
alla domanda.
«No, cazzo! Se se li fosse tenuti li avrei recuperati, a
costo di ribaltargli la casa. Lo curai per anni, attesi che uno
solo di quegli zaffiri finisse sul mercato, ma in tutti questi
anni non se ne è mai visto uno in Versilia. Quel figlio di
puttana li nascose nella nave, nella sala macchine. Lo scoprimmo solo quando Marco lesse il diario. Fu un colpo per
lui, e anche per me.»
«L’idea di recuperarli fu sua o di Marco?» Stefano sapeva che l’unica cosa che importava ora era di guadagnare
tempo.
«Fu sua. Dove si trova il sommergibile?» chiese l’ingegnere ormai consumato dal racconto.
Quella domanda gelò il sangue a Tarja e Stefano. La resa dei conti era arrivata.
«Due miglia fuori da Imperia.»
«Lo ha visto?»
Stefano pensò che era meglio non raccontare cosa fosse
successo realmente, altrimenti Vegni avrebbe giustiziato
entrambi sul posto.
«Non io», rispose Stefano, «una barca da lavoro lo ha
visto emergere per qualche secondo e poi scomparire.»
Vegni puntò la pistola verso Stefano e la impugnò saldamente mentre formulava la domanda successiva.
«Quante pale aveva l’elica? Tre o quattro?»
Stefano sapeva che i sommergibili hanno un numero
dispari di pale: tre, cinque o sette. La domanda nascondeva
qualcosa. Vegni voleva sapere se si trattava del sommergibile di Marco.
«No. Ne aveva di più, sei o sette, penso sette, così mi è
stato detto.»
«Chi altri conosce la posizione?» Vegni strizzo gli occhi mentre faceva la domanda e Stefano sentì che quella
era proprio l’ultima.
Attese qualche istante prima di rispondere, istanti che
sembrarono anni. Anche se si sforzava di pensare cosa fosse giusto rispondere non gli riuscì di escogitare qualcosa e
disse più o meno la verità.
«La posizione la conosce una ditta di lavori subacquei
che era sul cantiere nella zona, credono che si trattasse di
un’esercitazione e nessuno ha dato l’allarme, nessuno ha
ufficializzato la scomparsa del sommergibile ma appena
sarà fatto comunicheranno la posizione alla Magistratura.»
Gli costava fatica mentire ma la posta in gioco era troppo alta. Attese gli eventi preoccupato più per Tarja che per
sé stesso.
Vegni fissava il vuoto frapposto tra lui e la figura di
Stefano; pareva aspettasse un movimento falso per fulminarlo. Poi esplose.
«Fuori! Fuori di qui!»
Quel fuori avrebbe potuto significare molte cose, dalla
fine della prigionia al trasferimento verso un altro luogo,
più consono all’esecuzione, magari una cantina.
«Da quella porta», disse l’uomo, indicando quella da
cui erano entrati, attraversarono la stanza ingombra di raccoglitori e giunsero in quella con i computer.
La tensione degli ultimi momenti e la posizione scomoda in cui rimase seduto riempirono di dolori le articolazioni di Stefano. Fece del suo meglio per uscire in fretta da
quella stanza.
Marta era ancora alla sua postazione, mentre l’altra
donna era uscita per il pranzo.
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«Marta. I signori se ne vanno, si assicuri che trovino
l’uscita. Non voglio essere disturbato fino alle diciotto.»
L’uomo attese che la donna si alzasse e aprisse la porta
invitando i due ad andarsene.
Stefano raccolse tutte le sue forze, ma era rimasto rattrappito sulla poltrona per troppo tempo e inoltre lo stress
lo aveva stancato ancora di più. In ultimo, il caffè aveva
contribuito a riempire la vescica e la cosa che desiderava
di più in quel momento era il bagno di casa sua.
Usciti in corridoio la donna chiamò l’ascensore e vi entrò insieme ai due, senza nemmeno degnarli di uno sguardo. Raggiunto il pian terreno invitò con la mano a uscire.
Stefano senza nemmeno guardarla le disse: «Vada da
lui, è sconvolto.»
La donna altezzosa, senza rispondere, premette il bottone con il numero uno e scomparve dietro le porte scorrevoli.
Fu proprio in quell’istante che il boato si diramò in tutto
lo stabile. Trapassò tutto, i muri, il condotti di aerazione, la
tromba dell’ascensore, quella delle scale e il cranio di
Augusto Vegni. Fu l’unico momento della sua vita vissuto
con dignità.
I due sobbalzarono per l’ennesima volta nella giornata.
Lentamente si diressero all’automobile mentre alcuni inquilini uscivano dagli appartamenti e si chiedevano cosa
fosse successo.
Il viso di Stefano si faceva sempre più cupo; altre spiegazioni da dare al magistrato, pensò mentre a fatica saliva
in auto.
Tarja rimase impietrita, il rumore dello sparo le aveva
gelato il sangue.
«Torniamo a casa», disse Stefano con calma, «per lui
non possiamo fare più niente.»
Il viaggio di ritorno lo fecero in tre fino quasi a La
Spezia, Stefano, Tarja e il silenzio.
Si fermarono a un Autogrill dove presero un caffè.
Nessuno dei due aveva fame. Il caffè risvegliò dal torpore
e distolse dai pensieri, che nel caso di Stefano andavano
dal cosa raccontare circa la scomparsa del sommergibile a
cosa raccontare sull’incontro con Vegni e la sua successiva
dipartita. Tutte le congetture che faceva alla fine risultavano insostenibili, per cui decise di raccontare i fatti come
realmente li aveva vissuti, sempre ammesso che fosse obbligato a raccontarli, altrimenti sarebbe stato zitto.
Risaliti in auto le richieste di delucidazioni non tardarono ad arrivare.
«Cosa fare tu ora?» chiese Tarja impaziente.
«Niente», rispose Stefano.
«Come niente? Tu non vuole cercare saffiri?»
«Zaffiri! No, non li voglio cercare», rispose l’uomo
scuotendo la testa e cercando di accomodarsi meglio sul
sedile, il lungo viaggio lo aveva stancato e ormai tutto il
corpo gli doleva.
«Ma perché tu non vuole saffiri?»
Stefano guardò la bionda donna intenta a guidare come
se fosse al rally Tour de Corse. Poi, appoggiando la testa al
sedile, spiegò le sue motivazioni.
«Quelle pietre non sono nostre, e inoltre provengono da
un traffico illecito. Martelli deve aver pensato la stessa cosa, deve aver capito che le pietre, oltre a essere la causa
della morte dell’amico, provenivano da un traffico losco e,
sebbene fossero una somma ingente, decise di non impossessarsene. Forse anche per riscattare Ablondi, che ingenuamente si era lasciato coinvolgere.»
Stefano si spostò di qualche millimetro sul sedile di destra cercando di smorzare le smorfie di dolore, poi riprese.
«Avrebbe potuto gettarle in mare aperto, ma probabilmente non lo fece perché immaginava che se i trafficanti
fossero arrivati a lui o alla famiglia di Ablondi sarebbe sta-
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to costretto a restituire le pietre e, in un modo o nell’altro,
avrebbe potuto recuperarle dalla nave.»
«Ma dove nascosto pietre in nave?» chiese Tarja. Uno
strano bagliore illuminò i suoi occhi e non sfuggì a
Stefano.
«Penso in sala macchine, il locale è molto grande e ci
sono un sacco di posti dove nasconderli. In quel locale,
poi, durante la navigazione non ci andava nessuno perché
la propulsione veniva gestita in modo remoto da una centrale.»
«Romoto cosa è?» chiese Tarja.
«Telecomandata.»
«Ah, capito! Tu vuole che cerca io sàffiri?» un’altra
saetta di cupidigia illuminò gli occhi verde bottiglia della
bionda.
«No. Ovunque siano non si toccano. Dal Vittorio
Veneto non si porta via niente.» Stefano era categorico su
quel punto, che si trattasse di una targhetta di ottone o di
una manciata di pietre preziose dai relitti non si porta via
nulla.
«Io capito, tu non vuole tesoro.»
Stefano allungò la mano sinistra e l’appoggiò sulla coscia di Tarja palpando la massa carnosa.
«Io il mio tesoro l’ho già trovato.»
La donna rispose con un sorriso enigmatico, Stefano
non capì mai se quel complimento aveva lusingato la sua
compagna o se agli occhi della donna nordica era apparso
come uno sprovveduto sentimentale boyscout.
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