3.1.6.
I CAVALIERI DI EKEBU'
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Tancredi Mantovani, [Rassegna musicale], «Nuova antologia» LX/1268, 16.1.1925 - pp. 2167
Siano rese grazie a Santo Stefano! In quasi tutti i capoluoghi delle nostre provincie i teatri
si sono riaperti nella ricorrenza del tradizionale patrono delle scene liriche, salvo qualche
deroga, come quella fatta dalla “Scala”, che ha iniziato la sua “Stagione” a metà novembre, o
quella del “Regio” di Torino, che l’ha cominciata il 30 dicembre. Almeno così per due o tre
mesi avrà sosta il ritornello della lamentata “crisi del teatro”, una delle tante crisi che ci
travagliano, con scarsa probabilità di vederla risolta, stante che dipende dal costo
quintuplicato delle spese degli spettacoli, sopra tutto di quelle delle masse orchestrali e corali.
Certamente alla soluzione invocata non giovò la intromissione delle Camere del Lavoro,
né ora val meglio quella dei Sindacati orchestrali, che, specie nella gestione diretta d’imprese,
o per poca esperienza in materia, o per ragioni d’indole amministrativa, si sono risolte in
disastri economici e spesso anche artistici. Ma l’argomento, meritevole di essere studiato e
discusso a fondo, esorbita dai modesti limiti di una rapida rassegna, così per oggi dovremo
sorvolare, passando alla cronaca abbastanza lieta della “stagione” lirica in corso.
La “Scala” ha riaperto i suoi battenti con una ripresa del Nerone boitiano che poco prima
aveva ottenuto una magnifica accoglienza al “Comunale” di Bologna. Delle novità assolute
comprese nel “cartellone” scaligero ha già riportato, come tutti ricordano, un battesimo
complessivamente molto onorevole La Cena delle beffe di Umberto Giordano, sul testo,
necessariamente sfrondato, del notissimo poema drammatico di Sem Benelli. La seconda
delle nuovissime opere, attesa con eccezionale interesse, saranno I Cavalieri di Ekebù di
Riccardo Zandonai, sul libretto che Arturo Rossato ha tratto dalla Leggenda di Gösta Berling,
il bel romanzo della rinomata scrittrice svedese Selma Lagerlöf, il quale compendia un
seguito di novelle che s’intrecciano fantasiosamente con un carattere rapsodico tra un
bizzarro miscuglio di elementi umani e di soprannaturali. Non ostante che il dramma si svolga
in ben quattro atti a cinque quadri, Zandonai ci ha rassicurati che lo spartito avrà
complessivamente proporzioni e durata normali, avendo egli rinunziato di proposito a
digressioni o amplificazioni liriche, a preludî od intermezzi per lasciare il primato all’azione
drammatica, per fare esclusivamente “del teatro”. E niente estremismo orchestrale o
armonistico: una strumentazione molto leggera, che non soverchi le voci dei cantanti con le
pletoriche sonorità dell’orchestra, una trama armonica chiara, riposante su le consonanze,
senza il sistematico urto stridente spasmodico degli accordi eterogenei.
In vero abbiamo tutta la fiducia che un musicista geniale, maturo d’esperienza qual è
Riccardo Zandonai si sarà attenuto ai suoi propositi estetici. Del resto Riccardo Strauss, dopo
le sonorità orgiastiche della Salome, non ha forse dato “macchina indietro” fino a ritornare
alla limpidezza dell’orchestrazione mozartiana? E Igor Strawinsky non ha dunque scritto una
sua recente partitura teatrale con soli dodici strumenti in orchestra? Segni di una evoluzione,
se non di una reazione, di cui molti giovani compositori italiani votati all’estremismo
dovrebbero tener conto per non andar incontro a delusioni.
[...]
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Giorgio Barini, Alla vigilia dei “Cavalieri di Ekebù”, «L’Epoca», 27.3.1925 - p. 3, col. 5-6
3.1.6/1
Quando seppi che Riccardo Zandonai aveva scelto a soggetto del suo spartito «La Saga di
Gösta Berling» di Selma Lagerlöf, non conoscevo della forte scrittrice svedese che «Il
meraviglioso viaggio di Nils Hogersson a traverso la Svezia»: il libro di lettura per le scuole;
in esso le oche selvatiche, tra cui prima la vecchia Akka; e Jarro, l’onesta anatra, la quale,
avendo compreso che gli uomini vogliono valersi di lei come richiamo, pone in guardia gli
uccelli che accorrono; e Mirke, il gatto loico; e tutti gli altri animali si rivelano di così
equilibrata e razionale mentalità, mentre la Svezia appare a traverso le pagine della
popolaresca odissea la protagonista dell’opera geniale.
Lessi subito «La saga di Gösta», in cui vivono e si agitano i tumultuanti cavalieri di Ekebù;
e rimasi perplesso, non comprendendo come da quel libro denso e turbinoso, in cui i paesaggi
e le figure si agitano e le avventure si svolgono con una volubilità caleidoscopica
impareggiabile, fosse possibile ricavare lo schema sintetico e necessariamente scheletrico di
un dramma per musica.
Però, nella vicenda varia e agitata del romanzo, che rivelò al mondo la potenzialità
creatrice della poetessa illustre, un elemento appariva dominante, così da giustificare
l’attrazione del libro sul maestro: la potenza della musica, feconda, animatrice, inspiratrice di
attività buone, di gaiezza sana e forte, largitrice di sentimenti nobili, di scatti vigorosi: un
alito sonoro, vibrante conferisce alla rigida atmosfera scandinava inattese dolcezze, e alle
passioni una intensità travolgente: ma è la molteplicità delle persone, delle passioni, delle
visioni che non può stringersi nella rigida cerchia della scena lirica.
E poi, il protagonista, prete spretato a causa dell’abuso di bevande alcooliche, instabile,
violento, pur presentando innegabile fondo di bontà, di poesia, di eroismo, non è eroe lirico e
non può avvincere e commuovere se non a traverso una acuta e continuata analisi psicologica
quale può offrirci il libro mercé la riproduzione di episodii e pensieri e atti in cui si manifesta
e si definisce l’anima e il cuore di Gösta. Né il successivo suo appassionarsi per una non
breve serie di figure femminili, diverse ma ugualmente attraenti nella varietà profonda
dell’immagine, del sentimento, del carattere, culminanti nella adorabile contessa Elisabetta,
può trovare adeguata rievocazione scenica; sarebbe anzi causa di disagio e turbamento il loro
affermarsi, e lo spettatore disorientato e affaticato non sopporterebbe un problema
psicologico che il fatale schematismo degli scorci lascerebbe insolubile.
Che dire poi dei cavalieri di Ekebù, di quella dozzina di buontemponi, parassiti,
impenitenti adoratori di Venere e Bacco, le cui fisionomie appaiono oscillanti e livide a
traverso la fiamma azzurrastra del “punch”, creduli come fanciulli, entusiasti, crudeli, viziosi,
e poi redenti dalla sacra virtù del lavoro? Schiera tumultuosa, devota e ingrata di apostati, che
non esitano a sacrificare quella rude comandante la cui mano buona li sollevò investendoli del
cavalierato della sua terra, dando luce e sicurezza alla loro povera vita, turbati e convinti della
meschina finzione diabolica di Sintram, mentre dalla morte serena della donna redenta
riconquistano la vita propria, animatrice e gioiosa.
Sarebbe occorso un miracolo per accogliere nella pratica sintesi dello scenario
melodrammatico la fantasmagoria lussureggiante cui l’arte stupenda di Selma Lagerlöf ha
conferito così impetuosa ricchezza di vita, in una serie di evocazioni di paesaggi caratteristici
nei quali le persone acquistano rilievo nitido e colore brillante e caldo e si muovono e stanno
con naturale efficacia. Ho letto il libretto di Arturo Rossato; e, in verità, è da riconoscere che
egli ha ingegnosamente risoluto il difficile problema: è certo che ha dovuto rinunziare a
moltissimi elementi di grande importanza e interesse; ha limitato la attività erotica di Gösta
Berling al solo amore di Anna, la quale, nell’ultima parte, si sostituisce a Elisabetta
prendendone il posto e le intenzioni; ha fatto appena ricordare con brevi frasi l’epica scena
dell’accanito, terrificante inseguimento dei lupi nella gelida notte dietro la slitta pericolante;
ha dovuto sopprimere ogni menzione della inondazione e del crollo della diga; e tante altre
scene ed episodi indimenticabili. Invece ha dato inatteso sviluppo alla breve scena del quadro
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plastico, chiuso col bacio di Gösta, sostituita con una rappresentazione in cui v’è tutta una
scena di preparazione e poi un lungo dialogo amoroso con Anna, e quindi la ampia ripresa
delle espressioni appassionate di Gösta, dimentico della parte, prorompente in un inno
d’amore, interrotto dalle grida di Sintram.
Pertanto, da un lato può sembrare sia stato, più che quale base salda, adottato come
pretesto ad una azione esotica il romanzo-poema della Lagerlöf con la cernita dei materiali
adattabili al tipo di “libretto”, fatti rimanere insieme, saldati abilmente; ma non è stato
possibile eliminare l’intonazione alcoolistica, orgiastica, l’acre odore dell’acquavite, mentre
le figure, le macchiette originali, delineate con personale caratteristica evidenza, sono andate
ammassandosi, trasformandosi in un gruppo corale, con carattere di omogeneità, pure
presentando differenze d’abito.
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Giorgio Barini, “I Cavalieri di Ekebù” di R. Zandonai, «L’Epoca», 31.3.1925 - p. 3, col. 3-45
A ragione si è detto e ripetuto che Arturo Rossato è riuscito a compiere un lavoro che
poteva ritenersi impossibile, ricavando uno schema scenico organico da quell’ampio e
tumultuoso romanzo di Selma Lagerlöf «La leggenda di Gösta Berling» in cui si agita in una
stupenda molteplicità di figure e di visioni tutta l’anima della Svezia d’un tempo, eroica e
folle, intessuta di contrasti, poetica e volgare, sentimentale e alcoolizzata: da cui balza fuori
vivo e fremente, tutto ombre e luci, generoso e umiliato, Gösta, il «Signore dai diecimila baci
e dalle tredicimila lettere d’amore», il prete interdetto che nell’acquavite dorata cerca il sole e
la morte e procede, tra i sorrisi e le lacrime delle belle fanciulle, parassita ingenuo, poeta
avventuriero; ed al suo fianco la Comandante, tragica figura, ruvida e buona, che vide
soffocato il suo sogno d’amore e ne prese aspra vendetta, aspramente scontata: lavoratrice e
animatrice di lavoro, chiusa in una corta pelliccia, una pipa di creta fra i denti, un coltellaccio
nel corpetto, corti e rigidi i capelli bianchi.
Queste due figure giustamente campeggiano nel dramma musicale steso dal Rossato e
musicalmente espresso da Riccardo Zandonai: e con i due assume importanza Anna, in cui è
sintetizzato l’elemento femminile che a Giosta si volge, dandogli il cuore: le altre figure si
uniscono quasi in amalgama corale formando una specie di sfondo plasticamente sentimentale
dal quale si staccano Sintram, ciurmatore atteggiantesi a demonio; Cristiano, il capitano dei
cavalieri, spavaldo e buono. Costoro si aggirano in un paesaggio nevoso, gelido, dal pallido
sole: ed hanno atti e pensieri e tendenze che non rispondono ai nostri sentimenti, e, se pure ci
interessano destando la nostra curiosa attenzione, non si accostano al nostro cuore, alla nostra
anima. Assistiamo alle loro gioie tumultuose, allo scoramento, alla ribellione, alla redenzione
per il lavoro; ma soltanto come a spettacolo caratteristico, senza riuscire ad appassionarci e
commuoverci per le loro vicende.
Se dobbiamo lodare il Rossato per l’ingegnoso suo lavoro, ancor più è da ammirare
Riccardo Zandonai che ha avuto la forza di animare musicalmente e a far vive e colorite le
immagini disegnate dal librettista, scaldandole con l’ardore sonoro delle idee melodiche,
drappeggiandole nella ricca veste strumentale, avvolgendole in una atmosfera di armonie
vibranti e gustose. Nel nuovo spartito il maestro ci appare più semplice nella elaborazione,
più spontaneo e limpido nella ideazione, più sobrio e più significativo: e se ancora egli tende
a ricavare forza espressiva dal non raro impiego di prorompenti scatti di voce che ascendono
nel registro acuto tuttavia egli non vi insiste come nelle opere precedenti: ed ottiene efficacia
con l’accento e la flessibilità melodica più che col grido.
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Il primo atto si inizia con disegni e accenti ritmici e impasti strumentali che dànno
sensazione ben riuscita della rigidezza di una nordica notte, e il dolore di Giosta si fonde
plasmandosi nel gelido grigiore; lo sghignazzare sguaiato di Sintram, il garrulo cinguettare
delle fanciulle che scorrazzano tra le nevi in scarpette da ballo, spargono di riflessi lucenti e
arguti l’atmosfera invernale; Anna giunge e passa senza affermarsi, né ci commuove
l’episodietto della babbuccia slacciata; mentre nell’incontro con la Comandante, che solleva
Giosta dalla neve in cui giace e, narrandogli il dramma della propria vita, solleva anche
l’anima e il cuore del giovane, la musica si stacca dalla funzione coloristica fino allora
esercitata per assurgere ad espressione vitale e affettuosa: anche il tema ritmico da cui la
Comandante è caratterizzata è nella sua brevità plasticamente significativo.
Ecco finalmente la breve schiera dei cavalieri, i parassiti redenti della Comandante,
spavaldi e gioiosi, che intonano a gran voce la loro canzone: «vecchia terra d’Ekebù»... di
carattere popolare, irruente e squillante, rude al pari dei cavalieri, e che chiude l’atto con
sonorità festosa e tumultuante.
Il secondo atto, nell’ampia sala del Castello di Ekebù, si inizia con un nuovo brillante
episodio delle vivaci fanciulle: riappare il disegno e il colore che le accompagnava per via, tra
la neve: ed ancora l’irruzione di Sintram, che tombola giù per il camino, forma contrasto con
la gaiezza delle giovinette: le quali però ben riescono ad allontanare il padre di Anna che
vorrebbe portare via seco per strapparla all’amore di Giosta. Ed ecco ancora i cavalieri, che
intonano ancora la canzone «gaia e disperata»: e la investitura di Giosta, con la presentazione
dei cavalieri, ben caratterizzati da brevi commenti strumentali: e poi il primo duo fra Giosta
ed Anna, i quali, mentre debbono accordarsi a provare la breve azione scenica da svolgersi
durante la festa, esprimono il loro amore, che Anna vuol soffocare pel disgusto in lei destato
dall’avvilimento in cui ha visto scendere l’uomo amato, mentre egli vuole redimersi: accento
commosso, largo respiro melodico scaldano le espressioni di Anna; il sarcasmo spezza lo
slancio lirico.
Comincia la rappresentazione: l’orchestrina primitiva dei cavalieri, cui sovrastano le
fantasiose volute del violino di Liecrona, ha un carattere nettamente grottesco; e Giosta, dopo
le prime espressioni preparate per la recita, trascinato dall’impeto del cuore, prorompe in un
alato canto d’amore, ardente e sincero, che contrasta nettamente con le rudimentali armonie
dei cavalieri: è commosso e commuove, e, tra i commenti dell’uditorio stupìto e ammirato,
Anna, affascinata e vinta, si getta fra le braccia del giovane. Riappare, urlante e maledicente,
Sintram: questi è cacciato via, ma la Comandante, turbata dalle minaccie di lui, impone a
Giosta di ricondurre Anna alla sua casa, di amarla e di rispettarla: Giosta, per mostrare la
potenza e la purezza del suo amore, stende nel fuoco la mano; ed Anna lo trae via e stringe e
bacia la mano ancor calda, e piange e chiede: «perché?... perché?...».
Il secondo duo di Giosta ed Anna ha movenze e accenti tutto ardore; ma non si differenzia
dal primo: la declamazione musicale si stringe e svolge in linee melodiche vibranti: Riccardo
Zandonai ci offre idee di respiro più ampio di quelle che di consueto si incontrano nei suoi
spartiti: e più schietto e spontaneo è il suo linguaggio sonoro. I «perché» di Anna richiamano
alla mente i «perché» di Iris...
Il primo quadro del terzo atto ci presenta i Cavalieri aggruppati attorno alla caldaia del
ponce, coronata di azzurra fiamma, che fiocamente splende nella notte: festeggiano il Natale,
e l’ardente bevanda li ha già vinti; Liecrona ha l’ubbriachezza sentimentale: piange pensando
ai suoi, e suona il violino: e i Cavalieri pian piano intonano i dolci canti del Natale. Qui lo
Zandonai ha trovato gli accenti più intimamente commossi del suo spartito: un senso di
poesia anima il cantico sacro e si effonde con sottile dolcezza, e prende i cuori: lievi tocchi di
arpa e di celeste illuminano e infiorano la melodiosa ninna-nanna, limpida ed espressiva.
Sintram, camuffato da demonio, appare ad un tratto: nelle menti offuscate
dall’ubbriachezza getta terrore e risentimento, di cui è vittima la Comandante, la quale si
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allontana offesa e affranta, lasciando ai Cavalieri le ferriere di Ekebù, ma annunziando che,
lei lontana, aridità e carestia invaderanno il paese: e parte, ricordando la materna maledizione.
A questo quadro, efficace e significativo, sebbene il falso satanismo di Sintram non ci
convinca, ne segue un secondo in cui abbiamo ancora un duo d’amore tra Giosta ed Anna,
animato dal calore delle idee melodiche; e poi, dopo la vana preghiera della fanciulla cui non
si apre la porta sbarrata della casa paterna, i due giovani hanno una nuova diffusa espansione
amorosa, con cui termina l’atto. Non devesi nascondere che certi andamenti melodici, in cui
le idee dello Zandonai si rivelano animate da un ardore passionale più vivo e intenso,
presentano qualche riflesso di tendenze musicali non nuove: ma egli le esprime con
linguaggio suo proprio, e sa loro imprimere potenzialità emotiva con mezzi suoi: non si può
negare che i dialoghi d’amore tra Anna e Giosta cominciano a sembrare un po’ troppi.
Il quarto atto si inizia con i lamenti e le rampogne del popolo stremato dalla carestia,
cagionata dalla incuria, dalla dissipazione dei cavalieri, i quali, partita la Comandante, hanno
abbandonato il lavoro immergendosi nelle gozzoviglie: e qui sembra udire sorgere dalle voci
della folla e dal substrato strumentale un’eco lontana delle indimenticabili lamentazioni del
popolo nel «Boris» del Mussorgski. Ma Giosta giura che la Comandante sarà fatta tornare e
sarà ripreso il lavoro e la vita rifiorirà: i Cavalieri giungono e vanno alla ricerca della forte
donna, e Cristiano impone a Giosta di rimanere per consolare e sostenere sua moglie:
cosicché ne scaturisce un altro duo fra Giosta ed Anna, in cui risorgono le sensazioni che già
animarono le precedenti scene d’amore. Ma quando Anna sta per lasciare il marito si odono
voci che si avvicinano annunziando il ritorno della Comandante: la forte donna ha ottenuto il
perdono materno ed ha voluto rivedere Ekebù per morirvi, dopo aver reso la vita alla vecchia
sua terra, alle ferriere; eccola: essa lega in eterno i cuori di Anna e di Giosta; e, salutata dal
fragore delle incudini e del maglio enorme, che significa la resurrezione del lavoro e della
vita, muore serenamente, mentre la canzone dei Cavalieri prorompe con magnifica sonorità.
Il maglio cade ancora, nel silenzio, in onore della Comandante spenta: e il velario si chiude
rapidamente.
***
Il nuovo spartito è nel complesso degno fratello delle precedenti opere di Riccardo
Zandonai: vi si conferma la straordinaria abilità tecnica del maestro, la sicura padronanza di
ogni risorsa tendente alla migliore estrinsecazione scenica; e in pari tempo vi si rivela una
tendenza ad una più larga vena melodica, che, se pur non sempre originalissima nel fondo, si
atteggia però con notevole senso personale nella elaborazione: e se il temperamento del
musicista lo induce ad insistere in espressioni che tendono al conseguimento di effetti
immediati più che alla rivelazione dell’intima essenza di sentimenti indagati con profondità di
analisi, la sincerità del discorso musicale dimostra come egli intenda conseguire una
purificazione ed elevazione dell’arte sua, che gli fa onore.
***
La esecuzione che hanno avuto al Costanzi «I Cavalieri di Ekebù» è degna della massima
lode: ed anche per questo spartito il primo nome da farsi è quello di Edoardo Vitale, che lo ha
concertato e interpretato con vero amore ed alta intelligenza, riuscendo a dare una ammirabile
sensazione di unità ad un lavoro così vario, spezzato e diffuso, pur curando con acutezza e
diligenza eccezionali ogni minimo particolare. Francesco Merli ha impersonato il difficile
personaggio di “Giosta” con molta arte, facendo ammirare la bellezza dei suoi mezzi vocali
adoperati con sicura abilità; Maddalena Bugg è stata una eccellente “Anna”: è questa una
parte che si adatta più di ogni altra alla sua voce, al suo temperamento; Sara Sadun ha
eseguito con grande impegno la parte difficoltosa della “Comandante”; ottimo “Cristiano” è
riuscito Taurino Parvis, per voce robusta e intelligente interpretazione; lodevoli Alga [sic] De
Franco, Teofilo Dentale, Vittorio Julio; le ben riuscite schiere dei Cavalieri, tra cui il Nardi, il
Pellegrini [sic], De Petris, Uxa; e delle fanciulle, tra cui la Tesorieri, la Lauri, la Benincori, la
3.1.6/5
Caputo. Ottima l’orchestra, e sopra tutto eccellente Oscar Zuccarini, violino solista; assai
efficace e sicuro il coro istruito dal maestro Consoli: lodevoli gli scenari e gli abbigliamenti.
La cronaca della serata porta: al primo atto un applauso al Merli e scena aperta, e sette
chiamate alla fine di cui cinque allo Zandonai ed al Rossato; al secondo atto applausi a scena
aperta alla Bugg e sei alla fine di cui cinque agli autori; al terzo, nei due quadri, nove
chiamate delle quali sei allo Zandonai; al quarto otto chiamate di cui quattro all’autore: cogli
esecutori sono apparsi il maestro Vitale, festeggiatissimo, ed anche i maestri Consoli e Ricci.
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Guido Sommi, La prima dei “Cavalieri di Ekebù”, «L’Impero», 29.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3-4
La sala del Costanzi era invasa ier sera da quel senso di febbrile attesa che precede sempre
la prima di un’opera nuova, specie quando essa è l’ultima creazione di un musicista quale
Zandonai, che ha dato già alla scena lirica italiana melodrammi riusciti in un certo senso,
pieni di musicalità e di genio, tecnicamente costruiti con sapiente e sicurissima mano.
Teatro vibrante dunque, elegantissimo, contenente quanto di intellettuale, di mondano, di
politico e di artistico offre Roma capitale, fervida amica di tutte le manifestazioni artistiche
italiane.
Quando Edoardo Vitale giunge sul podio e la sala si spegne, il Costanzi si fa silenzioso
[ed] attento, pronto ad ascoltare, a giudicare e a applaudire. E i Cavalieri di Ekebù hanno
inizio.
Il libretto
Il libretto della nuovissima opera è tratto, come ormai già tutti sanno, dal poema di una
scrittrice nordica Selma Logerlöf [sic]: La leggenda di Gosta [sic] Berling ed è stato
sceneggiato con non poca fatica da Arturo Rossato, che da un romanzo poetico, pieno di
personaggi e di simboli e di episodii infiniti e diversi fra loro ha saputo ricostruire un
melodramma interessante, abbastanza conciso, non statico e non oscuro. E l’impresa non era
certo facile.
Siamo all’inizio del primo atto in un’osteria di Ekebù. L’inverno colora di bianco le strade,
gli alberi, le montagne lontane; la neve soffoca i rumori, avviluppa del suo freddo manto le
anime accese dei personaggi semifantastici.
Giosta Berling, giovane prete sconsacrato perché sempre ubriaco, erra di bettola in bettola.
Anima di poeta, egli è oppresso dalla sua stessa vita viziosa e sconclusionata. Deciso a
troncare la misera sua esistenza, giunge all’osteria ove spenderà le ultime sue risorse per
annegare la vita nel vino e nella morte. Ed ecco arrivare Sintram, personaggio strano,
mefistofelico, miscuglio di varii tipi che si riscontrano spesso nei racconti nordici, che offre a
Giosta del denaro onde questi si abbrutisca sempre più, si danni e si ammazzi, lasciando
Anna, la sua bionda figliola, di cui è innamorato, libera a contrarre nozze cospicue e
grandiose. Giosta, ubriaco, accetta e beve, finché cade bestialmente nella neve, vinto dalla
sbornia e dal sonno. Giungono allora al castello alcune ragazze fra cui Anna che, vedendo
Giosta, che pur ama, ridotto in uno stato umiliante, lo ritiene ormai completamente perduto e
si lascia trascinar via dalle compagne, ignare del suo amore.
Invece la Comandante di Ekebù, donna vecchia energica e generosa, decide di salvarlo e lo
raccoglierà come altri miserabili ella ha raccolto, nel naufragio della vita. Giosta le racconta
la sua triste storia e la Comandante rievocandogli la memoria di Anna, che egli potrà vedere
la notte istessa al castello, lo persuade a vivere. Giungono allora tutti i cavalieri (gaia brigata
di dodici spensierati lavoratori, rotti ad ogni fatica e ad ogni temerarietà agli ordini della
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Comandante); ad essi la vecchia presenta Giosta. Essi lo salutano con il loro grido di
esultanza. E Giosta diventa dei loro.
Il second’atto si svolge nella gran sala del Castello di Ekebù, dove si prepara la recita di
una commedia. Anna sta abbigliandosi per la rappresentazione, quando sopraggiunge Sintram
che vuole portar via la fanciulla per non lasciarla alla mercé di Giosta. Ma il vecchio è
cacciato via dalle fanciulle, che dopo d’aver aiutato Anna a vestirsi aprono le porte alla folla
per la rappresentazione. Entra Giosta, che deve giurare fedeltà allo strano statuto dei Cavalieri
e che dal capo di essi è consacrato dapprima, poi designato a recitare con Anna.
La commedia ha il suo inizio. Giosta, infervorandosi poco a poco in un vero dialogo
d’amore, dimentica che la sua è una finzione teatrale e le dice le cose più dolci che il suo
cuore gli detta. Anna gli risponde e, dinanzi alla folla stupita e ammirata, la scena amorosa ha
termine in un lungo ed infuocato bacio dei due innamorati.
A questo punto balza d’improvviso Sintram, che giura vendetta ai Cavalieri tutti e alla loro
Comandante che ha fatto sì che Giosta ed Anna potessero liberamente amarsi.
La Comandante, colpita da un tristo presagio, impone allora a Giosta di ricondurre quella
notte stessa Anna alla casa del padre. E tutti piegano il capo al volere della vecchia padrona.
Il terz’atto è diviso in due quadri: nel primo vediamo la fucina dei cavalieri di Ekebù, che
fanno baldoria per celebrare la notte di Natale. Cantano e bevono. Improvvisamente appare
Sintram camuffato da diavolo, che tale è creduto dagli avvinazzati cavalieri. Sintram allora,
giocando d’astuzia, riesce a istigarli contro la Comandante dicendo loro che questa vende a
Belzebù ogni anno una delle loro anime per conservare le ricchezze donatele in gioventù da
un amante. I cavalieri esplodono in una rivolta minacciosa quando ecco che entra la stessa
Comandante cui Cristiano (uno dei cavalieri) getta in viso, alla presenza del marito di costei,
l’accusa svelata da Sintram. La vecchia è vinta, il marito la scaccia ed ella si allontana altera,
lasciando le miniere ed il castello ma predicendo sventura agli ingrati suoi cavalieri.
Nel secondo quadro assistiamo al ritorno di Anna, ricondotta da Giosta, alla casa del padre.
Ma la povera ragazza invano batte alla porta sprangata da Sintram, che la scaccia e
l’abbandona sulla neve. Giosta allora la raccoglie e la conduce con sé.
L’ultimo quadro si svolge dinnanzi alle deserte fucine di Ekebù. I cavalieri senza più la
guida della Comandante hanno mandato tutto in rovina. La carestia regna. Si auspica al
ritorno della Comandante, che infatti ritorna, ma sorretta dalla folla che l’ha trovata morente
nella neve. Essa con delle parole di bontà e di pace perdona a tutti e chiama Giosta e Anna a
sé. Li benedice, li esorta ad amarsi e per sempre. Poi impartisce ordini per la ripresa del
lavoro nelle fucine. La sua voce fa il miracolo. La vita ritorna, i fuochi si riaccendono ed al
ritorno del maglio e dei martelli essa muore felice, mentre la folla canta e benedice. E l’opera
ha fine.
La musica
Non è possibile di parlare della musica della nuovissima opera di Zandonai in maniera
generale, ché il carattere del lavoro è assolutamente di frammentarietà: frammentarietà data in
gran parte dal libretto folto di episodi, di stati d’animo, di piccoli ma pur importanti dettagli
dietro cui il musicista ha dovuto accodarsi ed adattarsi con una sottigliezza da equilibrista
provetto. Bisogna perciò, per rendersi conto della musica dei Cavalieri di Ekebù, analizzarla
via via abbandonando un episodio ritmico coloristico per seguire immediatamente un brano
lirico, o prestare attenzione ad una frase ironica o ad un accenno eroico che d’improvviso si
presenta a chi l’ascolta.
Lo Zandonai in questa sua ultimissima opera si è trovato forse dinnanzi a questa difficoltà
non lieve di saltare di continuo da un argomento ad un altro e la fusione dell’opera d’arte ne
ha certo sofferto nel suo insieme, difficilmente costringibile entro una quadratura definita che
le desse un assetto ben geometricamente esatto.
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Gli slanci lirici sono sparsi in tutti e quattro gli atti di questa poderosa opera ma non hanno
modo di nascere da una emozione sottile che si ingrandisca a mano a mano per giungere ad
un apogeo di sentimento, generando uno stato d’animo ascendente e dilagante. E questo è
forse il difetto principale di questi Cavalieri cui manca una linea interna che ne sia uno
scheletro robusto.
Intorno dunque a questo colosso senza una visibile ossatura interna, l’autore di Francesca
ha lavorato di cesello e di bulino con, innegabilmente, molto talento. L’episodio di Sintram al
primo atto sottolineato da un sottile e stridulo movimento ritmico che interrompe la grigia
monotonia dell’inizio dell’opera è di un effetto originale, brillantemente messo in valore sia
dal punto di vista del colore esterno che del contenuto psicologico; l’entrata della
Comandante e la scena che ne segue (il racconto di Giosta di marca assai palesemente italiana
stile melodramma), il coro delle ragazze fresco [e] leggermente russeggiante, la Canzone dei
cavalieri, indovinatissimo brano sonoro di una bacchica e voluta pesantezza che chiude l’atto,
sono elementi riusciti dal punto di vista teatrale e pittorico ed hanno in sé delle qualità di
effetto assai rimarchevoli. Nel secondo atto il mosaico diventa ancor più fantastico e gli
episodii e i sottoepisodii (li chiamerò così perché sono parte degli episodii medesimi) si
rincorrono con una frenesia che abbaglia ma anche disturba la serenità di chi ascolta.
La scena del teatro è forse musicalmente la parte più riuscita dell’opera, dove Zandonai si
è lasciato andare a cantare assai liberamente senza freno e senza scrupoli. Questa scena
cantata da Anna e da Giosta, con un accompagnamento di striduli ottoni e di soffocati legni,
appena caricaturale, cui fa da contrasto un a solo cantabile di violino, è di un effetto
veramente originale, divertente e poetico, né le nuoce l’entrata di Sintram che l’interrompe e
il finale dell’atto in cui il sentimentalismo torna a far capolino leggermente più stanco.
Buono d’effetto il coro dei cavalieri della prima parte del terz’atto, adagiantesi tristemente
sulle modulazioni di un violino e sulle scalette della celeste; rumorosa e un po’ convenzionale
la scena di Belzebù impersonato da Sintram; superficiale invece e non vivificata affatto
dall’emozione del musicista quella seguente della Comandante e relativa rivolta dei cavalieri
avvinazzati ma improvvisamente divenuti, per grazia di Dio, moralisti, puritani e forse in
realtà solamente comunisti, al miraggio della proprietà delle miniere e dei beni della
Comandante.
La notte nevosa del principio del secondo quadro ha in sé elementi di bella poesia grigia e
nordica, e la breve scena di Sintram e della madre è di una robusta drammaticità.
Poi subentra l’elemento amoroso e sentimentale, ma questa volta non desiderato e non
sentito profondamente, sicché la romanza sulla porta cantata da Anna è di una pericolosa
debolezza.
Arriviamo così al quart’atto che musicalmente è forse il meno interessante, per quanto
però indubbiamente il più quadrato. L’invocazione di pace di Giosta è nondimeno di una
bella enfasi, il coro dei cavalieri si inquadra con molta sottigliezza nel clima dell’atto e
l’entrata della Comandante è di una certa efficacia.
Ma quello che rialza però le sorti dell’ultimo atto, fatalmente monotono perché statico e
non ricco d’azione, è il coro finale imperniato sulla canzone dei Cavalieri e validamente
corroborato dallo scatenamento di tutti i martelli e del grande maglio delle fucine di Ekebù
che rinforzano con i loro ritmi la pesante e lucente sonorità della pagina musicale più
significativa del nuovissimo spartito.
L’insieme dell’opera è dunque ricco di pregi, curato come sempre nello strumentale,
arricchito di cori ben condotti; i personaggi sono scolpiti con tratti sicuri (ad eccezion fatta di
quello della Comandante), ben individuati fra loro, drammaticamente e teatralmente riusciti,
vivi di una vita loro, vita convenzionale del teatro melodrammatico, ma non confondibili però
con quella delle tante larve che popolano oggi giorno stesso i palcoscenici della nostra lirica.
3.1.6/8
E i Cavalieri di Ekebù, se non sono un passo avanti nell’arte di Riccardo Zandonai,
rappresentano però certamente un nobilissimo lavoro che può degnamente stare al confronto
dei suoi fortunati predecessori.
Il grande successo
La tarda ora alla quale è finito lo spettacolo ci impedisce di parlare come vorremmo
dell’ottima esecuzione dell’opera nuovissima di Zandonai, che ci ripromettiamo però di
analizzare dopo la seconda rappresentazione.
Diremo solo che Edoardo Vitale, alle prese con la lunga e complessa partitura, si è
dimostrato ancor una volta l’animatore infaticabile dello spettacolo. A lui fecero degna
corona il Merli nelle vesti di Giosta, il Parvis ottimo Cristiano, la Bugg, il Dentale e la Sadun.
Buone tutte le parti minori, pur così importanti, disciplinati i cori, riuscite le scene, alcune
delle quali veramente belle.
Il successo si delineò fin dal principio magnifico. Applausi a scena aperta e alla fine di
ogni atto agli esecutori e all’autore, in numero tale che ci è impossibile di ricordarlo con
precisione.
S.A.R. il Principe Ereditario, che aspettava allo spettacolo, volle dopo il second’atto
congratularsi personalmente con Riccardo Zandonai chiamandolo in palco ed esprimendogli
la sua ammirazione per la riuscita di questi nuovissimi Cavalieri, che dovrebbero ora
cominciare a girare il mondo.
Il successo di Roma è certo un buon auspicio.
249
F[rancesco] P[aolo] Mulè, Il successo de “I Cavalieri di Ekebù” al Costanzi, «Il
Risorgimento», 29.3.1925 - p. 5, col. 3-4-5-6-7 (con la riproduzione di tre battute dell’inno
dei Cavalieri e firma autografa di Zandonai con la data «Roma, 27 marzo 1925»)
La sala del teatro è gremita in ogni ordine di posti; in mezzo al pubblico sono molte fra le
più note personalità dell’arte e della cultura romana; in tutti un’ansia di potere ascoltare la
nuova opera di Riccardo Zandonai: meritato omaggio al giovane e infaticabile maestro, sul
quale si fondano tante legittime speranze pel domani del nostro teatro lirico.
Seguendo la rappresentazione
Il primo atto
Dalle prime battute comincia a farsi palese la chiara semplicità della partitura. Le frasi di
Giosta, spontanee, istintive, rivelano il travaglio del giovane, il quale, sconsacrato da prete,
vuol morire e affoga il suo dolore nell’acquavite. Semplicità di declamato e
un’armonizzazione anch’essa semplice, che lo sottolinea con una proprietà che si conserva e
anzi si compie nella sobria colorazione che riceve dall’orchestra.
Sarà questo, salvo in qualche momento di maggiore espansione – in cui si avvertono delle
esuberanze vocali e strumentali – il carattere fondamentale dell’opera.
All’entrata di Sintram il sapore della musica cambia. Lo strano, il fantastico, il malefico
dell’astutissimo uomo che si vuol far credere – e vi riesce – il demonio, s’insinuano nella
tavolozza del desto musicista, che alla singolare figura dà delle frasi ambigue, con acri
armonie e non so che fosco nell’orchestra.
E semplicità, sempre. La quale ora acquista non so che candida dolcezza al sopraggiungere
delle fanciulle, giù dal sentiero. È il noto, felice pennelleggiare col quale Riccardo Zandonai
compone, a volta a volta, le sue atmosfere sonore. Il coro, nelle opere del maestro trentino,
oltre che esprimere il prorompere d’un sentimento collettivo, ha anche un felice ufficio
3.1.6/9
coloristico e riesce di notevole efficacia teatrale. Dopo l’accorato linguaggio di Giosta e
quello sinistramente cupo di Sintram, le garrule voci femminili punteggiano l’aria come uno
sciame di farfalle bianche.
Giosta è steso sulla neve, ebbro. Nel suo torpore ripete il nome di Anna la quale, venuta
con le altre fanciulle, gli si avvicina un istante, ma le compagne la trascinano con loro verso il
castello di Ekebù, dove si farà festa.
E giunge la salvatrice, la Comandante, padrona del castello e delle officine. È con
Samzelius, suo marito, un essere debole e vuoto, una larva d’uomo. Appena la Comandante
scorge Giosta, si propone di salvarlo. Si fa precedere dal marito al castello e si dà a confortare
il giovane. Siamo a una delle pagine più penetranti e più significative dello spartito. Pagina
musicale suggestivamente umana. La Comandante ne balza con un carattere di tutto rilievo.
Lo scorcio drammatico, nel quale è contenuta la storia del suo passato e del suo peccato
d’amore, nella musica acquista una maggiore ampiezza. Riccardo Zandonai qui è andato a
fondo. Ha trovato l’anima della Comandante e l’ha convertita con sincerità schiettissima in un
linguaggio musicale che ne ha tutto il calore e il dolore. La commozione della musica si
propaga negli spettatori. È tanta l’umanità di questa figura che al suo contatto Giosta ritrova
se stesso, nel suo intimo, e il suo riaffacciarsi alla vita è espresso con un discorso melodico
che nelle sue snodature, nelle sue inflessioni, nelle sue cadenze ne reca l’accoramento
profondo e insieme una trepida ma non confessata speranza. Riccardo Zandonai ritorna con le
sue virtù più insigni e con le voci più sue. Il consenso del pubblico è intero. Ed esso si
mantiene sino alla fine dell’atto. Si fa anzi più caloroso, ché siamo alla canzone dei cavalieri
di Ekebù, vibrata e spavalda in un imperioso ritmo di sanità popolaresca. Per intenderci:
quando dico popolo dico la più genuina ed alta sorgiva di canti, alla quale vorrei si
dissetassero tanti stitici e sudati accozzatori di soporifere esercitazioni cerebralistiche per
apprendere che cosa è essenzialmente la musica.
Il secondo atto
Siamo in una sala del castello di Ekebù. Le fanciulle abbigliano Anna per una
rappresentazione scenica. Il loro cicaleccio è un continuo rizampillare di frasi melodiche.
Melodia, dico. Come quella del buon tempo antico, ma di Zandonai. Il pubblico ne piglia un
sensibile diletto.
Un rumore strano, nel camino. È Sintram. Sa che sua figlia s’incontrerà con Giosta, salvato
dalla Comandante, e la vuole trascinare via. Frasi dure, crucciate, cui l’orchestra sottolinea
cupamente. Ma i cavalieri di Ekebù stanno per giungere, annunziati dalla loro canzone. Le
fanciulle spingono Sintram fuori della sala, nella quale irrompono i cavalieri seguiti dalla
folla. La loro canzone scoppia squillante e festosa. Si ha l’impressione di uno di quei
“concertati” all’antica, che mandavano gli spettatori in visibilio. Il pubblico è incatenato.
Ed ecco un nuovo aspetto dell’opera, che è merito di Arturo Rossato aver reso dinamica e
varia. I cavalieri di Ekebù consacrano Giosta loro compagno. Chi sono essi? Dei vagabondi
salvati dalla Comandante. Situazione grottesca. E grottesca si fa la musica. Un grottesco,
però, ottenuto con mezzi semplicissimi. Nessun tuffo nella tavolozza dei modernissimi.
Zandonai insiste nella sua chiarezza. Canta. Con intenzioni comiche e burlesche, ma canta.
Periodi melodici, sempre. Il grottesco vien su dall’orchestra, con certi suoi accordi
volutamente bislacchi, con certi suoi suoni volutamente striduli e sconcertanti. Una
preparazione al sapore musicale che avrà la rappresentazione.
Ma assistiamo prima all’incontro di Giosta con Anna. Ritorna l’autentico Zandonai, quello
delle migliori pagine della Conchita, quello della Francesca da Rimini. Un fraseggiatore
ampio, con un fondo quasi costante di malinconia. Nell’esprimere l’amore Riccardo Zandonai
è quasi sempre così, ed è lui. Non importa che qua e là si ravvisino modi mascagnani,
veementi, impetuosi. Esteriorità. L’anima del canto è diversa. In quest’ebbrezza c’è sempre
3.1.6/10
non so che dolore. Zandonai in fondo è un musicista elegiaco. Il dialogo d’amore scorre
fluido e vivo. Ma è interrotto. È l’ora della rappresentazione.
Siamo, secondo me, ad una delle pagine più singolari non soltanto di quest’opera ma di
tutta la produzione di Zandonai. Sul piccolo palcoscenico preparato nella sala la scena è
cantata da Giosta e da Anna, ma l’orchestra è formata dai cavalieri di Ekebù. Sulla scena
l’amore; in orchestra il grottesco. Ecco la difficoltà che a se stesso ha posto il compositore e,
a mio giudizio, egli l’ha superata felicemente. Era tutt’altro che agevole dare ai due amanti un
linguaggio appassionatamente melodico, d’un delicato sapore settecentesco, e fonderlo con le
petulanti dissonanze di cui lo condiscono implacabilmente i giocondi cavalieri. Ma la
difficoltà è stata, ripeto, superata, e la perfetta fusione appunto di due così diversi elementi –
l’uno serio e sognante, l’altro brutalmente realistico – va messa all’attivo del maestro.
Il terzo atto
Nella prima parte Sintram, volendo vendicarsi della Comandante, penetra nella fucina del
castello dove sono radunati, celebrando il Natale, i cavalieri di Ekebù. Il musicista,
naturalmente, gli ha dato degli accenti da Mefistofele, un Mefistofele però di mediocrissima
statura borghese, quale in realtà è Sintram. Comunque, i cavalieri, a quel suo sogghignante
schiamazzare, lo credono il diavolo e si ribellano alla Comandante, giudicandola la causa
d’ogni loro male. Il declamato musicale, nei sobrii chiaroscuri dell’orchestra, si incupisce. Le
frasi fiere ed accorate della Comandante diffondono un profondo senso di tristezza. Ma di
questa prima parte dell’atto ciò che musicalmente più mi piace è l’episodio nel quale i
cavalieri celebrano il Natale. Una celebrazione materiata di non so che accoramento
nostalgico. Uno dei cavalieri fraseggia patetico sul violino e gli altri cantano a coro una
ninna-nanna, ricordo dell’infanzia e delle loro case lontane. Un gioiello di musica squisita,
della nostra più bella tradizione e che va diretta alle anime.
Come, nella seconda parte dell’atto, commuove per la viva e incisiva umanità dei suoi
accenti l’invocazione di Anna dietro la porta della sua casa, alla quale Giosta, obbedendo alla
Comandante, l’ha ricondotta nella notte stellata e gelida. Quest’invocazione è sgorgata di
getto dalla sensibilità musicale di Riccardo Zandonai. Anche le altre scene, del resto, sono
pervase d’un lirismo che sale dall’intimo e che nel suo calore pare fonda per sempre le anime
di Giosta e di Anna, che, in odio al padre, si avvia con l’amante verso l’ignoto. L’orchestra
corona l’atto con un “pianissimo” penetrante come la gioia muta d’una carezza.
Il quarto atto
Dal giorno in cui la Comandante s’è allontanata, attorno al castello di Ekebù sono
piombate miseria e carestia. Le prime scene descrivono musicalmente l’angoscia del popolo.
L’effetto è raggiunto, perché frasi e periodi musicali si snodano veramente con inflessioni di
dolore. Ma io – me lo perdoni l’amico Zandonai – avrei preferito una maggiore contenutezza
e una più profonda intimità di accento. Più che la tragica desolazione d’un popolo che non ha
di che sfamarsi qui c’è una sua violenta e fragorosa rivolta contro i cavalieri. Comunque
l’effetto è raggiunto e in certo senso teatrale Zandonai ha forse ragione.
Efficacemente reso, nella travagliosa sobrietà dell’espressione musicale, il nuovo stato
d’animo di Anna, che si crede l’origine prima della pubblica sciagura e vuole troncare, pure
amandolo, i suoi rapporti con Giosta, che cerca dissuaderla con un declamato drammatico
pieno ora di dolcezza ora di ardore. Ed eccoci ad una delle scene capitali dell’opera. Torna la
Comandante, portata a braccia, moribonda. Ancora una volta, da lei si sprigiona un vivo
senso d’umanità che investe tutti gli altri. Pure trattata di scorcio, la Comandante assurge con
una ben definita fisionomia nella vita dei suoni, e sta tra le figure più recisamente
caratterizzate di Riccardo Zandonai. Con la Comandante torna il lavoro. Le fucine si
rianimano. La speranza rinasce in tutti. Il maglio batte sull’incudine. La passata miseria è
3.1.6/11
vinta dall’esultanza nuova. Un fremito possente passa nell’orchestra e si propaga sulla scena.
Canti di gioia. I cavalieri intonano la canzone spavalda. La folla si unisce a loro. Orchestra e
scena diventano un solo vulcano sonoro. È il trionfo dell’operosità umana. Una scena di
carattere impressionistico, nel quale puoi distinguere l’intensa macchia generale, non la
pennellata. Tanta la sonorità, che il ritmo, pure essendo così gagliardamente scolpito, si
distingue appena. L’effetto teatrale è completo.
Opera italiana
Allorché il maestro Vitale occupa il suo posto, si fa silenzio religioso.
Quale valore ha quest’ultima opera nella produzione di Riccardo Zandonai? Quali sono i
suoi caratteri? C’è un progresso sulle opere precedenti?
Risponderò a queste domande molto brevemente. Sulla Giulietta e Romeo la nuova opera
segna un progresso. Progresso specialmente di chiarificazione. La tendenza alla semplicità,
attuata nella Giulietta con melodie limpide e belle ma contrastanti con altri aspetti dell’opera
che perciò ne usciva un po’ squilibrata, qui domina in tutto lo spartito, che vuole essere da
cima in fondo un’affermazione d’italianità. Né il meccanismo di Wagner, né Strauss, né
Debussy, né l’elegante cerebralità degli ultimi francesi.
Nessuna astruseria, dunque, né armonistica né orchestrale.
La melodia parla, l’armonia ombreggia e illumina, l’orchestra contribuisce alla più intensa
espressione di questa e di quella con la sua colorazione varia e propria. I momenti d’enfasi
sono compensati dalla squisitezza di moltissime pagine.
Il compositore ha avuto cura di creare al dramma una ben determinata atmosfera sonora, e
in ciò è riuscito stupendamente.
Circa i caratteri dei personaggi, ne ho già detto qualche cosa seguendo il corso della
rappresentazione. Sono nettamente individuati la Comandante, Sindram [sic] e
complessivamente il gruppo dei cavalieri.
Giosta ed Anna fanno quasi unica persona, confusi e fusi nel sentimento del reciproco
amore.
Aggiungerò che con quest’opera, come già con la Francesca da Rimini, Riccardo
Zandonai si afferma uomo di teatro dall’istinto sicuro.
Il successo
Ecco la cronaca... numerica della serata.
Primo atto: un applauso a scena aperta (tenore Merli) e alla fine sette chiamate, delle quali
cinque all’autore e al poeta Rossato.
Secondo atto: due applausi a scena aperta (uno alla signora Bugg) e sei chiamate alla fine,
delle quali cinque all’autore col poeta.
Terzo atto: complessivamente nove chiamate, delle quali sei all’autore.
Quarto atto: otto chiamate, delle quali quattro all’autore.
L’esecuzione
Dirò in primo luogo che la presenza di Riccardo Zandonai e di Carlo Clausetti –
specialmente di quest’ultimo, che ha avuto occhio per tutto – è stata molto utile.
Si deve in gran parte a loro se l’opera ha avuto un’esecuzione che nel suo complesso non
lascia troppo a desiderare. Per fortuna il tenore Merli (Giosta) si è prodigato in tutti e quattro
gli atti con la sua bella voce e ha distratto dalle altrui deficienze.
Anche la signora Brugg [sic] (Anna) ha sostenuto una valida fatica canora, uscendone con
onore.
La signora Matilde Sudan [sic] (la Comandante) ha mostrato di possedere nel registro
grave una ben timbrata voce.
3.1.6/12
Il Dentale (Sintram) e il Parvis (Cristiano) non mancarono di efficacia.
Ammiratissimo il primo violino prof. Zuccarini in due difficili a solo. I cori, istruiti dal
valoroso maestro Consoli, molto intonati.
Il maestro Vitale ha concertato e diretto l’opera con vivo amore, raggiungendo,
specialmente al secondo atto, notevoli effetti. Ci consentirà il valente maestro
un’osservazione: vorremmo che i passi nei quali la partitura è in se stessa un po’ enfatica non
fossero, per giunta, esagerati dall’orchestra. Sono effetti di gusto discutibile e che danno
fastidio agli ascoltatori.
250
Roberto Forges Davanzati, “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai, «L’Idea nazionale»,
31.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3
I Cavalieri di Ekebù sono stati applauditi, sabato sera al Costanzi, da un pubblico folto che
gremiva la sala. La cronaca notarile ed onesta segna un applauso al racconto di Giosta,
cantato con dovizia e dolcezza dal tenore Merli, magnifico interprete; sette chiamate alla fine
del primo atto, chiuso dalla canzone fragorosa e ritmata dei Cavalieri, che il pubblico
accoglie con gran favore come una promessa di carattere, di robustezza, di vastità corale
dell’opera. L’esecuzione, sotto la guida animosa del maestro Vitale, si manifesta sicura,
colorita, fusa. La Bugg offre la sua grazia bionda e la sua voce nitida ad Anna. la Sadun è la
Comandante: manda talvolta il tra[ ] fra le note basse, ricche di sono[rità] e le note medie e
alte un po’ esili, [
] l’accento è vivo e chiaro e il personaggio è incisivamente segnato.
Parvis [
] perfetto capitano dei cavalieri: di[zi]one pura, canto ampio e timbrato,
a[zione] spigliatissima e dominatrice. Al secondo atto le chiamate sono sei. Il corale ripete la
promessa buona del finale del primo, ma non aggiunge novità caratteristiche. L’amore di
Giosta e di Anna si abbandona a grandi pienezze canore; ma la fine dell’atto sull’apparizione
di Sintram non ha efficacia. Il basso Dentale fa quanto è possibile, con intelligenza di attore,
per animare di mistero sinistro questo personaggio, ma Sintram, che dovrebbe essere il deus
ex machina della vicenda drammatica, vi resta estraneo. Il primo quadro del terzo atto, la
rivolta dei Cavalieri alla Comandante, è gustato musicalmente ma disorienta il pubblico, che
si sente allontanato da avvenimenti scenici poco chiari e niente affatto interessanti. Gli
applausi hanno lacune di incertezza. Il secondo quadro: paesaggio di cave, cielo stellato,
ululato di vento, appello disperato di Anna, canto d’amore di Giosta e Anna, ha un suo
fascino decorativo, ma gli manca una vera, toccante emozione. Gli applausi vincono tuttavia
qualche fugace resistenza e si ripetono unanimi. Sono nove chiamate per i due quadri. Al
quarto atto il corale domina e si dimostra la parte più robusta dell’opera. L’amore di Giosta e
Anna è, in quest’atto, una ripetizione canora e pleonastica. La morte della Comandante ha
finezze di particolari, ma non può toccare l’animo degli ascoltatori. L’atto dà una conclusione
all’opera col ritorno al lavoro che rinnova in una espressione più vasta e sonora e di alto
sentimento la canzone dei cavalieri. le chiamate – anche questa è una brutta parola del gergo
– sono quattro, dominate dalla fretta dell’[uscita] ma il finale è piaciuto.
L’esecuzione non ha mai velato l’opera del maestro trentino e del suo collaboratore
Rossato; anzi l’ha offerta al [pubblico] con chiarezza, con fluidità, con [ ],
per
merito
maggiore del maestro Vitale. I Cavalieri, bravi cantanti [che] il Costanzi ha saputo accogliere
e [man]tenere in questi anni per le parti minori; le Fanciulle amiche di Anna, [i] cori,
addestrati dal maestro Consoli, hanno gareggiato con i personaggi maggiori. In tutti slancio,
passione canora, [
]plicità di azione scenica. Il giudizio del pubblico ha potuto essere però
schietto, diretto, cordiale. E l’opera ha avuto il suo gran battesimo di applausi.
3.1.6/13
Questa cronaca lieta riconosce allo Zandonai virtù teatrali, melodrammatiche, e lo
riaccoglie in quella cordialità tra pubblico e autore che egli sembra essersi conquistata
largamente fra i musicisti della generazione post-pucciniana; non può tuttavia comprendere
un giudizio sicuro sulla vitalità dell’opera; tanto meno un riconoscimento aperto, clamoroso,
soddisfatto di quel desiderio di tempo nostro, di musica nostra, contemporanea, che è nel
tormento irrequieto dei nostri pubblici, disorientati dalle esperienze e dai tentativi riflessi,
culturali, intellettualistici, e assetati di fantasia e di ispirazione. Il maestro Zandonai ha il gran
merito, specie in paragone di molti suoi detrattori, di tener fede al melodramma e di non
mascherare la sua ansia di raggiungere l’anima degli ascoltatori con deviazioni di tecnica
decorativa, preziosa, estranea; con teoremi artistici privi di capacità realizzatrici. Ma il suo
merito non può annullare il vago, il fluttuante, il retorico di questo melodismo
contemporaneo, dal quale non sappiamo più uscire, e che è l’atmosfera falsa non soltanto del
nostro melodramma, sottolineato di ironie e di disprezzi da tanti novatori, ma anche del
modernismo sinfonico e vocale di uno Schönberg. Se mai, Zandonai che cerca contrasti
drammatici, espansioni liriche, personaggi definiti, quadrature episodiche, confessa
sinceramente, nella sua struttura strumentale e vocale, quanto sia difficile affettare questa
nebbia musicale e farne linguaggio canoro e sinfonico.
I Cavalieri di Ekebù non si perdono nel lirismo esasperato di Giulietta e Romeo, poiché
l’amore di Giosta e Anna non è parte assolutamente dominante della nuova opera; ma questo
amore anch’esso, nei tre atti che lo comprendono, è immobile, superficiale, sperduto in una
versificazione vacuamente imaginifica e in una musicalità diffusa, eccessiva, declamatoria,
senza schiette definizioni melodiche, nemmeno di quella modestia che è stata delle ultime
creazioni pucciniane; e soprattutto senza una vera umanità commossa. I personaggi appena si
avvicinano perdono carattere, vaniscono in un linguaggio astratto, canoro, in cui l’affanno
dell’espressione è al posto dell’espressione. I tre duetti di Giosta e Anna sono uguali, senza
ascesa, senza varietà di accenti. I personaggi, anche per colpa della vicenda, sono immobili e
ripetono, al principio come alla fine, una tristezza di nostalgia mortale. L’inesistente e quindi
incomprensibile commedia recitata dai due innamorati al secondo atto prima di perdersi
nell’esaltazione amorosa, ha alcuni fugaci accenti di dialogo melodicamente definito, seppure
non originale, e sono accenti che riposano, che si desidererebbe fossero continuati. La
Comandante avrebbe potuto essere dominante, di lineamenti incisivi e originali; ma qualche
robusta sottolineatura orchestrale e il canto della morte non possono correggere l’estraneità di
questo tipo bizzarro di donna che ha peccato e ha redento ma che non è mai in atto sulla
scena, non domina mai la vicenda ma la attraversa senza prospettiva, senza nemmeno
improvvise luci di cosiddette situazioni. Come, perché la Comandante racconti, nel primo
atto, a Giosta ubbriaco il segreto della sua vita; perché il Capitano dei Cavalieri, che sono o
almeno appaiono una compagnia di scrocconi beoni, l’accusi e la Comandante accetti subito
di andarsene quando potrebbe ridurli all’obbedienza: tutto questo non è chiaro, non persuade,
non interessa. E non v’è di peggio che persuadere il pubblico, a un certo momento, che non
valga la pena di capire. Poiché quando si è capito, e si è data anche una integrazione
personale alla vicenda scenica, si è capito soprattutto che non vale la pena di interessarsi
all’umanità di personaggi che son tanto lontano da noi, e che si raccolgono in quadri casuali.
Senza una vigoria, una logica, un impeto drammatico, sia pure esteriori; e senza nemmeno un
modesto al di là di intenzioni e di mistero. I cavalieri hanno un carattere vocale popolaresco:
robusto nella canzone, fine e accorato nella Ninna Nanna natalizia che luccica in sordina tra i
fumi dell’ubbriacatura; ma il grottesco della loro sfilata e dell’accompagnamento orchestrale
alla commedia e all’amore di Giosta e Anna è di una vivacità soltanto esteriore, ottenuta con
procedimenti anche strumentalmente massicci. Sono tuttavia, con le grazie acquarellate dei
cori di fanciulle e con i corali più vasti, specie nel quarto atto, i protagonisti di quest’opera
3.1.6/14
che in realtà non ne ha. Sono piuttosto una cornice che inquadra il melodramma, gl’impedisce
di cascare dalle varie parti disunite nel lirismo inconcludente: sono il meglio dell’opera. Di
Sintram, che dovrebbe essere il legame diabolico di questi casi nordici, ho già detto. I
tentativi musicali di dargli un carattere sono vani e superficiali: non c’è da ricordare che il
suono delle sonagliere della slitta che lo trasporta. Le sue apparizioni improvvise al secondo e
al terzo atto sono insignificanti.
Ma perché il maestro Zandonai s’è andato a cacciare in questo pasticcio scandinavo? Se
egli fosse un musicista gravido di secondi fini, cercatore di esotismi preziosi, preoccupato di
sperdere la realtà melodrammatica in un falso alone di significati più o meno profondi, si
potrebbe capire l’errore. Ma egli ha confessato assai semplicemente ad un collega che nella
fucina editoriale di Casa Ricordi c’era già allestita una traccia di libretto sul romanzo di
Selma Lagerloff [sic]; che, compiuta Giulietta e Romeo, Arturo Rossato, suo collaboratore,
gli aveva con fatica raccolti i cinque quadri dai molti episodi del romanzo, e che egli li ha
musicati. Sui nostri palcoscenici gira ancora la Vally [sic] di Catalani; per onorare Puccini è
stata rappresentata la sua prima opera: Le Villi; e altri esempi non mancano per persuaderci
che di tempo in tempo, non si sa perché, un po’ per obbedienza a mode letterarie, un po’ per
calcolo di colpire l’immaginazione credula dei nostri pubblici, un po’ per speranza di trovare
del nuovo scenico, si infliggono ai nostri musicisti, che se le lasciano infliggere quando non le
desiderino, queste pasticciose romanticherie nordiche, veramente mortificanti per il nostro
spirito semplice, solare, armonico. Ammessa questa fatalità cieca, non è il caso di discutere il
libretto di Arturo Rossato, il quale non avrebbe forse potuto farne uno diverso e migliore, ma
avrebbe dovuto non farne alcuno, da quel romanzo. E non c’è nemmeno il caso di porre un
problema estetico nell’incontro tra questa materia che si dovrebbe chiamar poetica e il
temperamento musicale di Zandonai. L’indistinto e l’indifferente dei personaggi non ha certo
giovato a correggere il melodismo lirico del maestro che in quest’opera, tenuta meditatamente
in linee più raccolte, ha parentele mascagnane e ha avvicinato il racconto di Giosta
all’“improvviso” dello Chénier. Molto invece s’è giovato il maestro dell’episodico e del
corale, trattati con un senso largo, spigliato, che fa sperare in un suo desiderio di robuste e
ampie costruzioni melodrammatiche. Nel canto permane l’amore agli ampi declamati, alle
tessiture un po’ esasperate, che uguagliano i personaggi; nell’orchestra un desiderio di
semplicità, di chiarezza, con finezze trasparenti, ma ancora con crescendi o scoppi di troppo
fragorose sonorità.
L’opera, nell’insieme, è fluida e piacevole. L’ascoltatore è continuamente richiamato ad
essa, senza stanchezze e senza incomprensioni. C’è una bravura musicale che colora i quadri,
ciascuno dei quali ha una nota particolare di rilievo. La banalità di qualche canto è sempre
corretta o sfumata o nascosta in abili cadenze, come nel coro delle fanciulle. C’è un segno
canoro in tutta l’opera che è ormai familiare del maestro e gli concilia subito l’attenzione del
pubblico. E poiché l’esecuzione è piena ed efficace, il pubblico accorrerà ad ascoltarla.
[...]
251
a[driano] b[elli], “I Cavalieri di Ekebù ” al Costanzi, «Il Corriere d’Italia», 31.3.1925 - p. 3,
col. 1-2-3 (con foto di Zandonai)
Avviso ai critici!...
Quando al secondo atto sta per iniziarsi la commedia nel teatrino del Castello di Ekebù,
Cristiano rivolto alla folla e agitando il corno che tiene in pugno grida: «Avviso a tutti i
critici...». E l’orchestra commenta con tre inarrivabili ragli di asino. Poi continua: «Chi
3.1.6/15
ciancia ha una cornata!», e giù, altra indovinatissima armonia imitativa da far venire i
brividi. Con questo avvertimento e con quel commento si rimane un po’ perplessi e... un po’
timorosi a scrivere intorno alla nuova opera di Riccardo Zandonai, e per cominciare
affrettiamoci a riferire la cronaca lietissima della serata che si riassume in sette chiamate al
primo ed applausi a scena aperta al racconto di Giosta; sei al secondo ed applausi all’aria di
Anna e al coro dei Cavalieri; cinque al primo quadro del terzo, quattro al secondo quadro; sei
chiamate alla chiusa dell’opera. Complessivamente dunque ben 29 chiamate, che
costituiscono un autentico successo di pubblico (e l’opera non si concede facilmente ad una
prima audizione), il che vale molto più del parere personale di questo o di quel critico.
E dopo questa premessa, parliamo un poco della nuova opera di Riccardo Zandonai,
cominciando dal libretto di Arturo Rossato.
Il libretto
L’argomento, com’è noto, è tratto dal romanzo La leggenda di Gosta [sic]Berling di Selma
Lagerlof [sic], la popolarissima scrittrice svedese premiata nel 1909 col premio Nobel per la
letteratura e il cui libro è considerato come un vero poema nazionale. Dalla farraginosa
narrazione di psicologia incerta [e] nebulosa, esuberante di episodi e di particolari folkloristici
Arturo Rossato è riuscito a compiere vera opera d’arte traendone un libretto scorrevole in
relazione al romanzo e pieno di scene di colore come si addicevano alla peculiare attitudine
del musicista. Manca certo di unità, e non pote[va] averne, ma non è esagerato affermare che
data la narrazione della Lagerlof non poteva trarsi lavoro migliore di questo.
Però tale libretto non è adatto per il nostro teatro, né per i nostri musicisti. Il soggetto
nordico punto si avvicina al gusto del nostro pubblico, che non riesce ad interessarsi a certi
personaggi né a comprendere certe situazioni. L’unica figura alla quale si può un poco
appassionare la nostra anima latina è quella di Anna, che con la sua femminilità e con la sua
bontà redime e trasforma Giosta, abbrutito dal vizio dell’alcool. Ma è fredda Anna, destinata
a compiere l’alta missione di cui ogni donna dovrebbe andare orgogliosa, quella cioè di
purificare, guidare e sostenere con la femminile dolcezza e con spontanei sacrifici l’uomo
amato – ed in questo Anna rassomiglia un poco a Minnie – [ma] non riesce, al contrario della
creatura pucciniana, a farci passare un brivido di commozione. Essa è fredda come la neve
che ovatta il suo paesaggio ed opaca come la pesante nebbia di quei paesi. Lassù si possono
anche concepire, attraverso le copiose necessarie libagioni, le fantastiche storie di diavoli e di
fattucchiere e dar vita a chimere e realtà alle apparenze. Ma da noi ove sfolgora il sole e l’aria
è tutta una vibrazione di fulgori si ama in altro modo e i nobili sacrifici e le alte missioni di
donne si compiono con slancio e calore, così che da noi personaggi siffatti non possono
appassionare né far nascere interesse.
E se questa è la impressione per Anna, la più umana dei fantocci che l’altra sera abbiamo
veduto agitarsi sul palcoscenico del Costanzi, è facile immaginare quale sia quella per gli
altri. Il nostro pubblico passa indifferente ed anzi si urta dinanzi alla Comandante, che ha
perduto ogni femminilità e fuma e parla a forza di scudiscio, e a quel branco di sfaccendati
che sembra che lavorino solo per procurarsi da che bere e ubbriacarsi, e all’incomprensibile
Cristiano che dopo averne fatto di tutti i colori si fa di un tratto scrupolo fino a cacciare la sua
padrona e protettrice.
La musica
A questo insieme di fantasioso, di superstizioso e di leggendario che forma l’essenza della
letteratura nordica, insieme cerebrale e punto interessante, Riccardo Zandonai ha cercato di
dar vita attraverso una vera fantasmagoria di suoni: tanto più che alcuni episodi ed alcune
scene si prestavano magnificamente per la sua prodigiosa tavolozza orchestrale. E ci è
3.1.6/16
riuscito, giacché l’attenzione [con la ] quale è stato seguito sino all’ultima nota il non breve
spartito è dovuta esclusivamente alla magìa del musicista.
Musica, questa dello Zandonai, più sostanziosa di intelligenza che non di cuore; musica in
cui è tutto un succedersi di sensazioni diremmo quasi visive, ora abbaglianti, ora pallide, ora
accese, ora smorte; un insieme di colori svariatissimi disposti con squisitissimo buon gusto,
con efficacia di contrasti, con varietà di toni, con rilievo di chiaroscuri. Come colorista
Zandonai non ha certo chi l’uguagli. Dalle scene in cui tutto sembra svanire in un’atmosfera
di irrealtà e di sogno, di forme indefinite e iridescenti, passa a quelle in cui l’arditezza della
forma e il cozzo dei colori più vivaci e disparati giungono all’iperbolico, con un equilibrio
mirabile. Arte, questa dello Zandonai, nella quale egli ha raggiunto la completa maturità.
Nelle scene con le quali si apre l’opera quei suoni incerti e indefiniti dànno una nota così
realistica che giungiamo quasi a vedere il quadro di un melanconico tramonto nell’ampia
distesa delle nevi; e così si [ ]nca della notte del Natale. Tanto le piccole scene in cui alcune
pennellate di colore dànno a quel quadro indimenticabili iridescenze di colori, come ad
esempio i soavissimi contrappunti della celesta all’[assolo] di violino; quanto la strana e
impressionante poderosa scena dei cavalieri al primo atto e quella magnifica della ripresa del
lavoro alla chiusa dell’opera sono scritte da Grande. Ma quella che è riuscita un vero
capolavoro di arditezza è l’insuperabile commento del teatrino. Lo Zandonai è così padrone
dell’arte sua che alle volte dà l’impressione di quegli acrobati che si divertono a far
rabbrividire gli spettatori dinanzi ai loro pericolosissimi esercizi. Egli infatti attacca quella
scena che sembra quasi pazza per la sua arditezza e la svolge, l’[
] fino al parossismo.
Cammina come sopra un filo sospeso su paurosi baratri, e sembra non accorgersi di nulla. va
avanti con una disinvolta padronanza da sbalordire. Le regole armoniche non esistono più. Il
p. Martini che rabbrividiva a due quinte di seguito si sarebbe suicidato! Eppure quella musica
così veristicamente stonata attraverso l’arte di questo Mago vi appare come la più intonata
musica che possa esistere, e il quadro non solo non urta il vostro udito ma vi prende e vi
trascina.
Oltre queste pagine inarrivabili che potrebbero davvero definirsi “musica per gli occhi”, i
Cavalieri di Ekebù contengono brani in cui lo Zandonai si è abbandonato alla melodia larga e
ampiamente svolta. Si è voluto a questo proposito osservare che egli, specie al secondo atto,
si sia voluto avvicinare alla forma melodica mascagnana. Niente di più errato. Là Giosta
improvvisa la parte della commedia e il suo canto non poteva essere che quel declamato
melodico in cui la frase segue esattamente la musicalità della parola e del periodo. Ma v’è un
abisso tra la melodia di Mascagni e quella dello Zandonai. Certo dal lato lirico, almeno come
intenzioni, Zandonai è in progresso.
Il racconto di Giosta al primo atto è veramente umano e riboccante di passione. Diverso
per condotta e sviluppo è il racconto che segue della Comandante, ma non per questo meno
pregevole del primo. L’aria di Anna al secondo è bella e di squisita fattura e così il duetto e
così il canto della nostalgia al terzo; ma sono troppo poche pagine queste per una partitura
così voluminosa. I dialoghi sono troppo frequenti e lunghi; la parte di Cristiano (ad eccezione
della canzone che canta con i Cavalieri) ad esempio è tutto un declamato, e così quella di
Sintram, e così via. Un effetto di commozione profonda che dilaghi dalle scene nella sala, un
lampo di grande ispirazione, un fremito intenso e vibrante, un grido veramente umano che
scuota e faccia provare il brivido, si attende invano durante le tre ore in cui durano i
Cavalieri. In Francesca Zandonai trovò quei momenti, e così in Giulietta, ma in quest’ultimo
lavoro non poteva trovarli perché l’azione non glie ne presentava l’occasione. Nei Cavalieri
abbiamo una serie di scene e di quadri trattati con salda mano e con insuperabile abilità
strumentale, ma mancano quell’equilibrio organico e quel calore che pur avevano Francesca
e Giulietta ed anche Conchita.
3.1.6/17
Si è parlato tanto in questi giorni di successioni, ebbene sia; ma occorre che il genialissimo
maestro trentino ricordi in qual modo il suo predecessore sceglieva i libretti e come si
maturavano le opere nel suo studio e con quale pazienza venivano limate. Il libretto deve
contenere passione che si comunica nella sala, deve contenere un soggetto che commuova
profondamente e senza artifici; e solo a questa condizione si deve scrivere. Piuttosto che dare
vita musicale a delle cose che lasciano il pubblico freddo e indifferente è preferibile non
scrivere, proprio come faceva quel grande scomparso1.
I Cavalieri, come osservavamo in principio, non si concedono ad una prima audizione,
vanno ascoltati di nuovo perché contengono pagine pregevolissime di colore e buoni slanci
lirici. L’opera appare un po’ lunga. Una revisione e opportuni ma coraggiosissimi tagli alla
seconda metà dell’opera si impongono per la vitalità e la fortuna dell’opera stessa.
Date a Riccardo Zandonai un libretto umano, nostro, sentito, passionale; un libretto
organico, non eccessivamente lungo, in cui vicino al colore degli episodi e dello sfondo
vivano in primo piano creature che sentano e soffrano come soffriamo e sentiamo noi, e lo
Zandonai ci darà il capolavoro.
La esecuzione
La esecuzione è stata veramente eccellente; sul palcoscenico è stata una vera gara fra gli
artisti maggiori e minori perché l’opera nuovissima venisse posta nella sua giusta luce.
Riccardo Zandonai non poteva sperare migliore collaborazione.
Vogliamo porre in prima linea Edoardo Vitale che è stato un meraviglioso animatore di
particolari. Niente ha trascurato perché la varia, ricca, difficilissima partitura venisse posta in
quel rilievo che meritava. Tutti gli effetti che alle volte nella musica dello Zandonai sono fine
a se stessi sono stati dall’illustre direttore curati con quello scrupolo artistico che è sua
caratteristica e riusciva a rendere nel giusto equilibratissimo tono. E dove poi la frase si
elevava con respiro più ampio o la scena assumeva slancio e vigorìa la bacchetta del Vitale
sapeva trarre dall’orchestra e dalle voci sonorità piena senza abusi e senza asprità, con una
comunicativa che è valore e vanto del grande direttore. Il pubblico comprese tutto questo e
salutò il grande direttore con applausi ed ovazioni piene di entusiasmo.
Maddalena Bugg nelle vesti della dolce e appassionata Anna fu di una toccante umanità.
Cantò con voce bella, uguale, estesa, con una dizione di una chiarezza ammirabile, con una
emissione ricca di risorse, con un calore pieno di efficacia. E nella scena seppe essere gaia e
spensierata, dolorante e appassionata, guidando il suo canto e le sue controscene con un
intuito artistico e con una intelligenza di cui ci ha dato sempre prova ma che più che mai ha
messo in valore nella nuovissima sua interpretazione.
Giosta Berling ha trovato nel tenore Merli un interprete superiore ad ogni elogio. Cantante
che non conosce difficoltà di tessitura e di emissione, in possesso di una resistenza
invidiabile, di una intelligenza superiore e di grande calore comunicativo, ha avuto l’altra sera
momenti felicissimi così che l’opera per merito suo si arricchì di un elemento veramente
prezioso.
Sara Sadun è tornata graditissima fra noi dopo una sua malattia, e per suo mezzo la parte
della Comandante ha avuto un’interpretazione eccellente. Tutto quello che di rude, di forte, di
maschio è contenuto in questa parte strana e lontana dal nostro temperamento è stato reso
dalla valorosa artista in modo veramente reale. La Sadun, che ha una dizione di una
impareggiabile chiarezza ed una voce che nel registro basso si amplia con risonanze
baritonali, è stata molto ammirata e festeggiata.
Il baritono Parvis (a proposito, rallegramenti cordialissimi per la meritata onorificenza di
cui volle di motu-proprio insignirlo S.M. il re) era Cristiano e, diciamolo subito, il valoroso
1
È evidente in quest'ultimo capoverso l'allusione a Giacomo Puccini.
3.1.6/18
artista ha reso il personaggio con giusta rudezza ed ha cantato perfettamente, e non poteva
essere diversamente.
Teofilo Dentale sia con la voce sia col giuoco scenico sia con la sua non comune
intelligenza ha dato al personaggio di Sintram il giusto rilievo.
Il Nardi ha reso benissimo la parte di Licerona [sic], e la De Franco è stata una perfetta
ostessa e madre. Ottimi i Cavalieri di Ekebù di Marcotto, Pellegrino, Tega, e Petri [sic], Uxa,
Giusti, Soffiantini, Pastocchi e Freitas; e così le fanciulle: Tesorieri, Lauri, Benincori,
Gualda2 e oltre le tutte.
Benissimo i cori difficilissimi, istruiti dal M.o Consoli.
Non dobbiamo dimenticare Oscar Zuccarini che nei due difficilissimi a solo di violino è
stato pari alla sua grande fama per cavata, precisione e ritmo; e l’infaticabile M.o Luigi Ricci
che ha preparato tutti gli artisti in modo da essere come sempre un vero, prezioso e
insuperabile collaboratore dello spettacolo.
Belli gli scenari eseguiti sui bozzetti del Carelli.
[...]
252
M[atteo] Incagliati, Il successo de “I Cavalieri di Ekebù” al Costanzi, «Il Giornale d’Italia»,
31.3.1925 - p. 7, col. 2-3-4-5 (con un ritratto a matita di Zandonai
L’aspetto magnifico, imponente, sfolgorante che aveva assunto l’altra sera la sala del
Costanzi – non un posto vuoto – conferiva da solo il tono all’avvenimento teatrale che è senza
dubbio il più notevole dell’annata. Non mancava il Principe ereditario, rivelatosi ormai
sensibile a ogni nobile manifestazione d’arte e in particolar modo di quella musicale.
Dinanzi a così eletto e numeroso uditorio la nuova opera di Riccardo Zandonai, già accolta
or son venti giorni alla Scala da un grande successo, fu riconsacrata alla benigna fortuna; e
così, per una volta tanto, in questa nostra Italia che spesso pare divisa spiritualmente, il
pubblico delle due maggiori metropoli si è trovato d’accordo nel giudicare un’opera d’arte,
tanto d’accordo che la cronaca di Milano della prima rappresentazione dei Cavalieri è quasi
simile a quella dell’altra sera al Costanzi.
I Cavalieri di Ekebù seguono dunque la loro marcia con il loro inno giocondo e spavaldo,
sorretti da una sorridente ed amica stella. Al Costanzi la cronaca segna ben trenta chiamate
alla ribalta, alle quali parteciparono con Riccardo Zandonai il librettista Arturo Rossato, il
maestro Edoardo Vitale e tutti gl’interpreti, e applausi a scena aperta lungo il corso della
rappresentazione.
L’opera d’arte
Per quale fascino musicale i Cavalieri di Ekebù conquistarono il pubblico della Scala,
dove la nuova opera si continua a replicare dinanzi a pubblico affollato e plaudente, è troppo
noto ai lettori del Giornale d’Italia – ché su queste colonne intorno alla geniale partitura fu in
quell’occasione largamente, diffusamente scritto3.
Certo perché questo fascino abbia esercitato la stessa influenza sul pubblico romano
bisogna che l’opera d’arte abbia insito in sé tali elementi di bellezza e tali fattori di teatralità
da vincere ogni prova.
Considerata così come un affresco dove campeggiano strane figure sullo sfondo di un
nevoso triste paesaggio e dove si agita la folla, la nuova opera di Zandonai rivela con tipica
2
3
Ossia Caputo.
v. in Appendice 1 i nn. 360 e 362.
3.1.6/19
ed espressiva rappresentazione musicale tre aspetti diversi, ai quali la fantasia dell’artista ha
impresso una nota di suggestiva originalità: l’ambiente – il paesaggio della leggenda da cui il
Rossato ha tratto il libretto –, l’amore di Anna e Giosta, il gruppo dei dodici Cavalieri.
L’ambiente. La facoltà coloritrice di Riccardo Zandonai si rivela con tratti di originalità in
ogni sua opera e in particolar modo nella Conchita, nella Francesca, nella Giulietta e in
ultimo nei Cavalieri. Gli è che il senso di espressione di una determinata epoca e di un
determinato paesaggio è tratto artisticamente dalla propria fantasia, senza ricorrere al folklore.
Nei Cavalieri era facile impresa ricorrere alla espressione dell’esotismo. Invece Zandonai ha
creato un mondo caratteristico e poetico con la sua musica, per cui l’ambiente della nuova
opera è stato descritto attraverso singolari motivi musicali, senza attingere ad altra fonte che
alla fonte della sua genialità. E così il paesaggio boreale si delinea a chiari segni sin
dall’inizio dell’opera con un movimento eguale dei bassi nei quali par che pianga la natura
desolata e fredda su cui si scioglie un lento e spezzato disegno dell’oboe. E poi l’ambiente è
ravvivato dal guizzo sinistro di una sonagliera e da un leggiadro canto di fanciulle. La nota
nostalgica non s’interrompe mai come i due amanti, Anna e Giosta, popolano la scena, e si
insinua poi nell’anima della Comandante quando la sciagura si abbatte su di lei, e vince
perfino il gruppo dei cavalieri quando la notte di Natale smorza ogni allegrezza. Ed è così con
un intreccio di temi e attraverso una chiara nitida trama sinfonica che il senso del paesaggio si
rivela e si disegna e par quasi che si ripercuota nelle voci dei vari personaggi. È la nota
indeterminata e vaga rievocante il contenuto poetico di un mondo lontano, un mondo che la
fantasia di Zandonai ha tradotto con la fantasia.
La parte descrittiva è costruita dunque non sulla facile e comoda falsariga della musica
nordica a cui pure avrebbe potuto attingere l’operista, ma attraverso gli scatti e i guizzi della
genialità dell’artista. E così la parte lirica e la parte caricaturale – i due aspetti fondamentali
della nuova opera – non seguono che la stessa traccia, recanti i segni e gli accenti espressivi
di una individualità ormai ben delineata che la maturità dell’ingegno e dell’esperienza ha reso
tipica. Onde lo stile di Zandonai può ormai considerarsi quale esso è: lo stile di un operista
che parla con un suo linguaggio, con un’agile [e] potente fantasia. E in un’epoca nella quale
l’opera dilaga e divaga negli stagni della più monotona esercitazione cerebrale, se pure spesso
non rimanga ammorbata dai miasmi della imitazione esotica, è buona ventura per le sorti del
melodramma che vi sia chi nella tradizione verdiana non si mostri né insensibile né tetragono.
La vicenda d’amore. È un lirismo di schietta marca zandonaiana. Se Francesca e Paolo
cantano una loro melodia d’amore, e Giulietta e Romeo palpitano di una vita melica tutta
illeggiadrita da un ideal sogno di poesia, Anna e Giosta evocano dalle loro anime ritmi e
motivi che la passione turba ed esalta. E l’amore qui – così nel secondo atto, come nel terzo,
come nell’ultimo – ha una forma d’espressione con un insistente richiamo a quella melodia
che, per quanto facciano e scrivano gli anemici e i balbuzienti degli aspiranti a battere con i
loro piedi claudicanti le tavole del palcoscenico, Zandonai non pare sia di parere di ripudiare.
Altri può ormai averle dato l’ostracismo e può averle detto addio vistala in fuga
dall’abbaino o dalla porta della propria fantasia sorda e muta: non così chi nei Cavalieri si è
rivelato cantore con tutta la gioia e l’esultanza di un artista capace di inebbriarsi alle voci
dell’umanità, allo spirito delle passioni, a quel pathos senza di cui l’opera teatrale rischia di
essere un... poema sinfonico.
I Cavalieri. Com’essi si preannunciano al finale del primo atto, con la gaia fanfara,
l’ambiente si rischiara, si ravviva. È la nota gioconda del dramma posta a contrasto col
grigiore dell’ambiente nordico. E come essi appaiono sulla scena, l’inno: Vecchia terra di
Ekebù, sorretto da un’idea melodica di ampia sonorità, squillante, vivace, ben marcata,
saldamente costruita, a larghi intervalli, si spande d’intorno e rispecchia tutta la festosità, tutta
la pomposa rudezza mista al grottesco di questa piccola brigata di buontemponi. Ma, con
un’intuizione felice, Zandonai – e in ciò si rivela la grande arte di lui – ha inserito in
3.1.6/20
quest’inno un lieve senso di malinconia, quasi a preparare la tragedia che esploderà alla fine
dell’opera. La visione dell’artista si è realizzata con una sintesi musicale di alto rilievo. In
quest’inno è incluso tutto un dramma di allegrezza e di sciagura. Tutto il secondo atto – un
atto di forte potente originalità, in cui è la trovata, la sorpresa di cui sono capaci solamente i
grandi operisti – si riflette nella figurazione del gruppo dei Cavalieri. Arte senza dubbio
grande questa di Zandonai, di avere cioè impostato una scena sul comico, sul quale s’innesta
la nota lievemente sentimentale. Quale spirito non anima la grottesca rappresentazione dei
Cavalieri? È un modello del genere in cui alla vocalità s’inserisce la pompa caricaturale
strumentale. Com’è un modello di ben diversa fattura e di ben diversa ispirazione il canto di
Natale nel primo quadro del terzo atto, un canto a quattro parti di tenori e bassi intrecciato
dalle volute bizzarre e patetiche ad un tempo di un violino.
I Cavalieri rappresentano l’anima, la luce, il palpito di questa opera. E tutto l’ultimo atto,
così pieno di commossa umanità, echeggia del canto del Cavalieri. Il dramma della folla si
delinea e si disegna nettamente. Il coro diventa così personaggio e popola la scena con i suoi
vari atteggiamenti musicali. Il senso della teatralità ha il suo risalto netto. Come l’opera volge
alla fine questo personaggio, il coro e il gruppo dei Cavalieri, assume sempre più aspetto
determinato. La musica ha tratti ben marcati. La gaia canzone dei Cavalieri riprende il suo
ritmo, i fiati in orchestra urlano, esultano gli archi e gli strumentini, e tutta la sinfonia
echeggia di suoni prodotti dai colpi di maglio e di martelli.
Ma non passi inosservato questo: che la canzone dei Cavalieri, in ultimo, muta di
consistenza espressiva, così come l’azione drammatica richiedeva, e par quasi che meno
spavalderia, meno gaiezza la sorregga, sorretta com’è da un senso di pietà e di poesia per la
morte della Comandante. E in ciò Zandonai ha ben risposto al consiglio della sua genialità se
è riuscito ad ottenere questo effetto di verità teatrale pur conservando all’inno dei Cavalieri le
note e il movimento.
Tale, secondo i dettami del De Sanctis, l’opera considerata in blocco: avremo tempo e agio
di notare qualche menda.
L’opera d’arte che ha tali elementi di bellezza musicale giustifica l’accoglienza avuta
l’altra sera al Costanzi, così come già l’ebbe alla Scala.
Lo spettacolo
Ed occorre dir subito che la riproduzione della nuova opera è riuscita al Costanzi quale le
tradizioni del massimo teatro della Capitale lasciavano prevedere. L’esecuzione è stata di
quelle che non si dimenticano.
Il maestro Edoardo Vitale ha prodigato per i Cavalieri tutte le sue eminenti doti di grande
artista e di versatile musicista. Questa sua interpretazione, questa sua nobile fatica non teme
confronti. L’orchestra sotto la sua guida ha suonato con una morbidezza, una nitidezza, una
vivacità di suoni e di ritmi come la partitura richiedeva. La vita musicale della nuova opera si
è sprigionata dall’orchestra in piena fulgida luce. Mirabili di effetto le sonorità piene e
vibranti, senza che mai il tono di esse fosse calcato su una facile volgarità per accrescere
l’effetto dinamico; soffusi di poesia tutti gli squarci lirici, e con tale espressività che il canto
poté sempre sciogliersi in armonico disegno associato al comento orchestrale. Edoardo Vitale
ha veramente sentita quest’opera e ne ha rivissuta l’intima essenza musicale con
un’intelligenza e una sensibilità di cui mostrò intendere la portata, la significazione l’illustre
autore, che volle al prezioso suo collaboratore dimostrare il vivo grato animo con parole che
rappresentano la migliore critica, il migliore omaggio.
Né da meno furono gli interpreti della scena. Maddalena Bugg, nelle vesti di Anna, cantò
con una poesia accorata e con accenti deliziosi. La sua voce ebbe agilità e risonanze di così
gradevole effetto che pareva l’anima del personaggio si confondesse con l’anima melica.
Ogni suo canto si illeggiadrì del bel suono della sua voce, cui accresceva fascino un senso di
3.1.6/21
accorata espressione. E con quelle sue modulazioni, con quella profondità di sentimento ella
rese di Anna ogni moto dell’anima, tutto lo spirito musicale. Dopo la romanza ebbe molti
applausi.
La Sadun fu una Comandante forte e rude e con le sue note basse conferì al personaggio
un tono di fierezza. Nell’ultimo atto trovò accenti di accorata mestizia.
Il tenore Merli può associare il clamoroso successo conseguito in quest’opera a quello
dell’Aida. “Radamès” quale egli si rivelò senza emuli. Di Giosta intese il dramma e lo rivisse
col canto e con la interpretazione mirabilmente. La sua voce così spontanea, così generosa,
così educata e così insinuante ubbidì alle asperità dell’ardua tessitura docilmente, e ne trionfò.
La espressività del suo canto non fallì mai e si cimentò vittoriosamente in tutti i brani, così in
quelli lirici come in quelli drammatici. Espressività di patetico abbandono e di esultanza, che
trovarono l’ugola preziosa sensibile e capace di spandere il canto in armonia dal suono. I suoi
acuti magnifici pareva si spandessero con una facilità tanto prodigiosa da produrre un
godimento di cui l’arte vocale da qualche tempo non è più prodiga. E così è giustificato
l’applauso clamoroso che l’interruppe dopo il racconto al primo atto, ch’egli rese con tutta
l’anima e la possanza della gola; e dopo il duetto con Anna al terzo atto, nel quale la voce
trovò accenti di largo ampio respiro.
Un Cristiano di superbo rilievo fu il baritono Parvis, che come sempre rivelò di non sapere
dissociare l’arte del canto da quella dell’interpretazione. Egli scolpì il personaggio con tratti
di tipica rappresentazione, conferendovi un che di rude e di forte. Il suo canto parve dare un
tono di vivacità espressiva alla interpretazione. Non un segno, non una pausa, non un
particolare sfuggì allo studio e all’intuizione di questo artista che onora la scena lirica col suo
temperamento versatile e con il suo spirito di cantante.
Di Sintram il basso Dentale rese la vivacità diabolica con intelligenza e misura. Tutti i
tratti dello strano personaggio furono riprodotti con il canto e la mimica ottimamente. E del
personaggio intese l’aspetto umano e quello fantastico.
Olga De Franco, nella duplice veste di Ostessa e di Madre, si fece molto onore, artista di
sensibilità e dalla intonata e morbida voce di mezzo soprano, eguale e armoniosa nei vari
registri. Nella drammatica scena al terzo atto ella cantò con così commossi accenti che
produsse un vero brivido, quel brivido di cui sono capaci le artiste che cantano con l’anima.
Bene il basso Iulio.
Caratteristico il gruppo dei Cavalieri, e cioè: Nardi, Marcotto, Pellegrino, Tegi [sic], De
Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi, Freita [sic].
Lodevoli: Dorina Tesorieri, Laura Lauri, Margherita Benincori, Gualda Caputo.
Il coro, istruito dal maestro Consoli, cantò con un impeto e una intelligenza che
suscitarono la più viva ammirazione. Il Consoli è stato un collaboratore prezioso del successo
che ha arriso alla nuova opera.
I due “a solo” per violino furono resi dal prof. Oscar Zuccarini con maestria e con
penetrante spirito musicale zandonaiano e sovratutto con una purezza di suono e una perfetta
intonazione che valsero all’insigne strumentista la più ampia lode. Né bisogna dimenticare i
maestri Ricci e De Fabritiis, che cooperarono [con] il maestro Vitale durante le prove.
La messa in iscena fu curata, oltre che dalla signora Emma Carelli, dal comm. Carlo
Clausetti, l’autorevole dirigente della Casa Ricordi. Il Clausetti, che alla vivida cultura
musicale unisce buon gusto ed esperienza teatrale, è riuscito a far muovere le masse con una
verità sorprendente e a non trascurare nessun particolare scenico perché l’opera avesse il
risalto che il libretto consigliava.
Le scene caratteristiche sono state ispirate dai bozzetti dell’illustre pittore comm. Augusto
Carelli.
La cronaca della serata
3.1.6/22
Ed ecco poche note di cronaca sulla serata.
Alle ore 20.35 il maestro Edoardo Vitale dà inizio allo spettacolo. Nella sala buia si fa un
silenzio religioso. L’attenzione è viva ed intensa. I primi applausi scoppiano calorosi e si
prolungano per qualche minuto dopo il racconto di “Giosta”, cantato dal tenore Merli con
foga appassionata. Come l’atto si chiude, con la canzone dei Cavalieri dal ritmo marcato e
spavaldo, nella sala risuona l’acclamazione, che come appare il maestro Zandonai, evocato a
gran voce, si eleva di tono, e le chiamate all’autore, al Rossato, al maestro Vitale e a tutti gli
interpreti raggiungono il numero di sette.
Il secondo atto interessa per la vivacità e per la originalità con cui è stato ideato. Dopo la
scena della presentazione dei Cavalieri, alla chiusa del coro, vibrante e altisonante, la sala
prorompe in un applauso; altro applauso dopo la romanza di “Anna”. Alla chiusa dell’atto
Zandonai col Rossato, con Edoardo Vitale che vuole accanto a sé, [con] il maestro dei cori
Consoli, un collaboratore prezioso del successo conseguito dalla nuova opera, e con tutti
gl’interpreti, è evocato alla ribalta sei volte.
Il terzo atto, come è noto, è diviso in due parti: in complesso si sono avute nove chiamate.
Nella prima parte suscita viva commozione e profonda impressione il canto di Natale, reso
dal gruppo dei Cavalieri con bella espressione e impeccabile intonazione. Nella seconda parte
il duetto tra “Giosta” e “Anna”, cui il tenore Merli e la Bugg accrebbero fascino con la
vivacità degli accenti e con tutta la passione delle loro voci.
L’ultimo atto si inizia con un coro impetuoso che è applaudito, e si svolge poi con un
duetto tra il tenore e il soprano che è tutto pervaso di una patetica mestizia. L’addio della
“Comandante” impressiona per gli accenti pieni di abbandono e di angoscia, con melodia di
schietto sapore italiano e dall’ampio respiro. Il finale dell’opera, colla canzone dei Cavalieri, i
colpi di maglio, gli squilli dei martelli, impressiona per la sonorità e la genialità con cui il
maestro Zandonai è riuscito a ideare, a costruire, a realizzare una scena che onorerebbe
qualsiasi grande musicista.
Gli applausi, le acclamazioni si prolungano e si intensificano: e Riccardo Zandonai con il
Rossato e con tutti gli interpreti, a capo dei quali è il maestro Vitale, è indotto a presentarsi al
proscenio otto volte.
Un successo dunque che ha la sua schietta significazione nel numero delle chiamate alla
ribalta: in complesso – a parte gli applausi a scena aperta – ben trenta.
Il successo, dunque, di Milano alla Scala si è ripetuto al Costanzi.
Dopo il secondo atto il Principe ereditario ha fatto invitare nel suo palco il maestro
Zandonai e Arturo Rossato. Il Principe ricordò al Maestro di aver parlato con lui dei Cavalieri
di Ekebù a Rovereto, compiacendosi di vederli ed ascoltarli ora, proprio così come Zandonai
glieli aveva descritti. Osservò sorridendo che egli, il maestro, aveva pur dato un po’ di sole
italiano tra le nebbie del Nord e gli chiese quanto tempo aveva impiegato per condurre a
termine l’opera. Il maestro rispose che aveva impiegato quindici mesi, perché quando egli
lavora è tenace come le sue montagne. Parlando dell’opera il Principe soggiunse che essa lo
interessava molto e si congratulò vivamente anche col Rossato per il libretto che gli era
piaciuto molto come gli era piaciuto il romanzo di Selma Lagerlof [sic].
253
m[atteo] i[ncagliati], “I Cavalieri di Ekebù” al Costanzi, «Il Piccolo», 30.3.1925 - p. 6, col.
1-2-3
Lo spettacolo - Zandonai e il Principe Ereditario - Trenta chiamate
La sala del Costanzi, per la prima dei Cavalieri di Ekebù del maestro Riccardo Zandonai,
su libretto di Arturo Rossato, aveva l’altra sera l’aspetto delle occasioni solenni: non un posto
3.1.6/23
vuoto, una vera moltitudine. Nei palchi, nelle poltrone, nelle poltroncine le più belle e
leggiadre dame, fra cui un numero eccezionale di straniere. Nel palco di Corte si notava il
Principe ereditario, in un palco di prim’ordine il Commissario senatore Cremonesi e in
poltrona il sottosegretario di Stato on. Mattei-Gentili.
Alle ore 20.35 il maestro Edoardo Vitale dà inizio allo spettacolo. Nella sala buia si fa un
silenzio religioso. L’attenzione è viva e intensa. I primi applausi scoppiano calorosi e si
prolungano per qualche minuto dopo il racconto di “Giosta”, cantato dal tenore Merli con
foga appassionata. Come l’atto si chiude, colla canzone dei Cavalieri, dal ritmo marcato e
spavaldo, nella sala risuona l’acclamazione, che come appare il maestro Zandonai, invocato a
gran voce, si eleva di tono, e le chiamate all’autore, al Rossato, al maestro Vitale e a tutti gli
interpreti raggiungono il numero di sette.
Il secondo atto interessa per la vivacità e per la originalità con cui è stato ideato e che ha
rivelato una tipica originalità della fantasia del musicista. La parte caricaturale si fonde alla
parte lirica, soffusa questa di una tenera leggiadra melodia erotica. Dopo la scena della
presentazione dei Cavalieri, alla chiusa del coro, vibrante e altisonante, la sala prorompe in un
applauso; altro applauso dopo la romanza di “Amia” [sic]. Alla chiusa dell’atto Zandonai con
Rossato, con Edoardo Vitale che vuole accanto a sé il maestro dei cori Consoli, un
collaboratore prezioso del successo conseguito dalla nuova opera e con tutti gl’interpreti, è
evocato alla ribalta sei volte.
Il terzo atto, come è noto, è diviso in due parti: in complesso si sono avute nove chiamate.
Nella prima parte suscita viva commozione e profonda impressione il canto di Natale, reso
dal gruppo dei Cavalieri con bella espressione e l’impeccabile intonazione. Nella seconda
parte il duetto tra “Giosta” e “Amia”, cui il tenore Merli e la Bugg accrebbero fascino con la
vivacità degli accenti e con tutta la passione delle loro voci.
L’ultimo atto si inizia con un coro impetuoso che è applaudito, e si svolge poi con un
duetto tra il tenore e il soprano che è tutto pervaso di una patetica mestizia. L’addio della
“Comandante” impressiona per gli accenti pieni di abbandono e di angoscia, con melodia di
schietto sapore italiano e dall’ampio respiro. Il finale dell’opera colla canzone dei Cavalieri, i
colpi di maglio, gli squilli dei martelli impressiona per la sonorità e la genialità con cui il
maestro Zandonai è riuscito a ideare, a costruire, a realizzare una scena che onorerebbe
qualsiasi grande musicista.
Gli applausi, le acclamazioni si prolungano e si intensificano: e Riccardo Zandonai con il
Rossato e con tutti gli interpreti, a capo dei quali è il maestro Vitale, è indotto a presentarsi al
proscenio otto volte.
Un successo dunque che ha la sua schietta significazione nel numero delle chiamate alla
ribalta: in complesso – a parte gli applausi a scena aperta – ben trenta.
Il successo, dunque, di Milano alla Scala si è ripetuto al Costanzi.
Dell’opera diremo stasera con miglior agio, per quanto della première svoltasi alla Scala in
queste colonne si parlò con ampiezza.
In queste affrettate e rapide note di cronaca basterà segnalare dopo il successo, cui si è
fatto cenno più innanzi [!], alla vibrante esecuzione che fu quale non è facile immaginare per
diligenza e per genialità dei singoli interpreti, primo fra tutti l’illustre maestro Vitale,
animatore vigoroso [e] appassionato dello spettacolo, collaboratore quale egli si rivelò
fraterno dell’autore, e poi: il tenore Merli, la Bugg, la Sadun, il baritono Parvis, il basso
Dentale, Olga De Franco. Caratteristico il gruppo dei Cavalieri, e cioè: Nardi, Marcotto,
Pellegrino, Tega, de Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi, Freita [sic].
Lodevoli: Dorina Tesorieri, Laura Lauri, Margherita Benincori, Gualda Caputo.
Il coro, istruito dal maestro Consoli, cantò con un impeto e una intelligenza da suscitare la
più viva ammirazione. Il Consoli è stato un collaboratore prezioso del successo che ha arriso
alla nuova opera.
3.1.6/24
I due “a solo” per violino furono resi dal prof. Oscar Zuccarini con maestria e con
penetrante spirito musicale zandonaiano e sovratutto con una purezza di suono e una perfetta
intonazione che valsero all’insigne strumentista la più ampia lode. Né bisogna dimenticare i
maestri Ricci e De Fabritiis, che cooperarono il maestro Vitale durante le prove.
La messa in iscena fu curata, oltre che dalla signora Emma Carelli, dal comm. Carlo
Clausetti, l’autorevole dirigente della Casa Ricordi. Il Clausetti è riuscito a far muovere le
masse con una verità sorprendente e a non trascurare nessun particolare scenico perché
l’opera avesse il risalto che il libretto consigliava.
Le scene caratteristiche sono state ispirate dai bozzetti dell’illustre pittore comm. Augusto
Carelli.
Dopo il secondo atto il Principe ereditario chiamò nel suo palco il maestro Zandonai e il
Rossato. Con l’illustre operista il Principe parlò a lungo di musica e dei Cavalieri.
Domani sera, in 2a d’abbonamento, i Cavalieri si replicheranno, a prezzi meno alti della
première.
L’autore assisterà alla rappresentazione.
Allo spettacolo assisteva dal palco di Corte il Principe Ereditario. Dopo il secondo atto il
Principe ereditario ha fatto invitare nel suo palco il maestro Zandonai e Arturo Rossato. Il
Principe ricordò al Maestro di aver parlato con lui dei Cavalieri di Ekebù a Rovereto,
compiacendosi di vederli ed ascoltarli ora, proprio così come Zandonai glieli aveva descritti.
Osservò sorridendo che egli, il maestro, aveva pur dato un po’ di sole italiano tra le nebbie del
Nord e gli chiese quanto tempo aveva impiegato per condurre a termine l’opera. Il maestro
rispose che aveva impiegato quindici mesi, perché quando egli lavora è tenace come le sue
montagne. Parlando dell’opera il Principe soggiunse che essa lo interessava molto e si
congratulò vivamente anche col Rossato per il libretto che gli era piaciuto molto come gli era
piaciuto il romanzo di Selma Lagerlof [sic].
254
Alberto Gasco, “I Cavalieri di Ekebù” di R. Zandonai al Costanzi, «La Tribuna», 31.3.1925 p. 3, col. 2-3-4 (con un ritratto a matita di Zandonai)
La situazione nella quale Riccardo Zandonai si trova rispetto all’arte lirica italiana è
singolare. Il fecondo, energico, abilissimo compositore trentino ha saputo guadagnarsi una
meritata fama: comunque, sebbene il suo nome sia sulla bocca di tutti, la sua musica non può
dirsi popolare. La folla canta e ricanta i motivi del Mascagni, del Puccini o del Giordano, ma
quando vuol rievocare qualche melodia della prediletta Francesca da Rimini resta
imbarazzata. Nessun frammento delle opere di Riccardo Zandonai apparisce nei programmi
dei concerti ordinari. Orbene, nella nostra canora Italia, affinché una produzione lirica possa
aspirare ad una vita rigogliosa, deve contenere qualche “pezzo” che il pubblico sia in grado di
afferrare immediatamente e distaccare dalla compagine del lavoro: legge curiosa ma rigida.
Ci sono altresì opere che sono state per così dire rimesse a galla e rimorchiate da una
semplice romanza: citiamo la Wally, che deve i nove decimi del suo successo all’aria Ebben,
ne andrò lontana e la Madama Butterfly che, dapprima incompresa e maltrattata, è riuscita a
vincere le generali diffidenze in virtù della patetica romanza Un bel dì vedremo, trionfante nei
salotti borghesi.
Ciò premesso, non è da stupirsi se lo Zandonai – lottatore perspicace – abbia tentato nei
suoi ultimi lavori di contentare la massa dei frequentatori degli spettacoli lirici cambiando il
tono del suo discorso musicale, abolendo le fratture melodiche e rinunziando a quelle
minuziose cesellature che rendevano molto caratteristiche le sue prime opere ma che
stancavano e persino disorientavano gli ascoltatori meno diligenti e amorevoli. Per diventare
3.1.6/25
più gradito alla folla, il musicista di Giulietta e Romeo non ha esitato a deviare risolutamente
verso il melodramma e a valersi dell’elemento popolaresco: la sua melodia, breve e piena di
fremiti delicati, è diventata a mano a mano ampia e alquanto enfatica, alla maniera
mascagnana. C’è stato, in questo, un reale progresso d’arte? Non oseremo affermarlo: però
dobbiamo riconoscere che, mentre la gentilissima Conchita, abbandonata dal pubblico, era
ridotta a menare una vita da crittogama, la Giulietta, fastosa ed anche ampollosa, passava da
un palcoscenico all’altro e riscuoteva complimenti infiniti.
Nei Cavalieri di Ekebù – che sabato sera il magnifico uditorio del “Costanzi” ha acclamato
giocondamente – l’adesione dello Zandonai alle forme del melodramma italiano moderno
(Fanciulla del West, Isabeau, ecc.) è ben chiara. Ci sono vari “pezzi” nitidamente configurati,
conclusi da una cadenza à sensation e seguiti da una pausa per dare al pubblico il tempo di
applaudire. Qualcuno di questi pezzi è realmente degno di essere assai applaudito e perciò si
può vaticinare un giro fortunato alla nuova opera. La musica dei Cavalieri fluisce
egregiamente: non ci sono, nella ponderosa partitura, ombre moleste o asperità irritanti. Il
maestro vuol convincere, facendo mostra di una relativa semplicità e cantando l’amore e il
dolore con accento esaltato. Ma più che nei brani lirici, ove l’influenza del Mascagni tende a
diventare preoccupante, noi lo amiamo in quelli descrittivi, nei “quadretti di genere”, che
spesso sono assolutamente deliziosi. Riccardo Zandonai è un colorista originale e sapiente. La
sua orchestra ha mille voci e passa senza fatica dalle violenze orgiastiche alle iridescenze
idilliache; la sua tavolozza armonica è ricca perché in essa si trova opportunamente mescolato
l’antico al moderno ed anche all’ultra-moderno. Ad esempio, nella scena grottesca del
teatrino al secondo atto, quando i Cavalieri improvvisano un’orchestrina a base di corni e
violini miagolanti, ci sono dissonanze temerarie come in qualche passo del Renard di
Strawinski e – si noti bene – l’effetto, lungi dall’essere urtante, risulta singolarmente
gradevole. Lo Zandonai, musicista di solida cultura e uomo di teatro dotato di finissimo
intuito, sa risolvere quasi tutti i problemi tecnici con una disinvoltura che sbalordisce:
soltanto di fronte al problema sentimentale egli resta talora esitante...
In complesso, la partitura dei Cavalieri merita un profondo riguardo. Non tutto in essa è
oro e neppure argento: non riluce ovunque la fiamma dell’ispirazione geniale, ma ci sono
numerose pagine brillanti e melodiche. In qualche momento l’opera diventa addirittura
maestosa per il dispiegamento delle massime forze corali e orchestrali.
Prima di elencare i passi più felici dei Cavalieri accenneremo ai pregi e ai difetti del
libretto che il valoroso Arturo Rossato ha desunto dalla «Leggenda di Giosta Berling» di
Selma Lagerlöf. Diciamo anzi tutto che l’aver tentato di condensare in quattro atti e cinque
quadri alcuni degli episodi salienti di questo romanzo – alatamente poetico ma
tremendamente caleidoscopico e farraginoso – è stata una impresa quasi disperata. Il
librettista, per raggiungere l’intento, non ha esitato a eliminare alcuni indimenticabili
personaggi della Lagerlöf e a mutare i connotati di altri: l’unica figura che non abbia subìto
alterazioni di sorta è quella della “Comandante”: invece “Anna”, costretta a compendiare in
se stessa le varie donne amate da Giosta, finisce per non rassomigliare ad alcuna di esse.
Peggio anche, Giosta ha perduto l’aspetto che aveva nel romanzo. Egli – il più forte e il più
debole degli uomini –, eroico e triviale, superbo e pieno di abnegazione, beone e aggraziato
seduttore, vizioso e pur capace di atti di suprema bontà, prete sconsacrato e poeta irresistibile,
è diventato nel libretto un semplice tenore che non si stanca mai di cantare in tono di elegia. Il
“Sintram” del Rossato – che risulta dalla fusione di “Sintram” e di “Melchiorre”, le due
anime perfide della terra di Ekebù – conserva per fortuna il suo carattere originario ed anche
la combriccola degli spregiudicati Cavalieri è resa con fedeltà ed evidenza. Ma questi
Cavalieri usurpano gran parte del posto che spetterebbe alla “Comandante”, ad “Anna” e a
“Giosta”. In effetto, la Comandante al secondo atto diventa una semplice comparsa. La
padrona di casa, prima di essere materialmente cacciata fuori della porta (ciò che accade al
3.1.6/26
terzo atto) è già esautorata. Nella Leggenda della scrittrice scandinava la situazione è molto
diversa...
Comunque, può darsi che il Rossato non sia stato impari al difficile compito assunto. Se il
poema drammatico dei Cavalieri di Ekebù manca di spina dorsale, non è povero viceversa di
scene interessanti e di scorci pittoreschi. L’azione non languisce mai e qualora il monotono
secondo quadro del terzo atto – che ci mostra il vano ritorno di Anna alla casa paterna – fosse
tolto o ridotto al minimo e per contro la scena della tragica partenza della Comandante
potesse essere sviluppata sino ad acquistare quella solennità di cui difetta nella versione
attuale, il libretto acquisterebbe un forte potere di seduzione.
Lo Zandonai ha sfruttato con saggezza e circospezione quanto il testo drammatico gli
offriva. La descrizione del triste paesaggio nordico invernale è sobria e di ottimo gusto. Il
coro delle fanciulle piace per l’onda di benefica melodia che riversa sugli ascoltatori
sitibondi; il lungo racconto di Giosta, un po’ viziato di retorica, termina con una indovinata
variante del Te Deum e quello della Comandante ha accenti di rude nobiltà. Ottima l’entrata
dei Cavalieri: il motivo Vecchia terra d’Ekebù è più da operetta che da dramma lirico ma
piace perché plastico, vigorosamente ritmato e orecchiabilissimo. Lo Zandonai ne trae, più
d’una volta nel corso del lavoro, effetti impressionanti.
Nel secondo atto, a parte la ripresa del coro dei Cavalieri, presentato con lusso di sonorità,
non c’è da notare che la scena del teatrino, prima umoristica e poi sentimentale. A parer
nostro, l’inizio val meglio che la fine. Giosta ed Anna non riescono a dire nulla di peregrino.
Invece i corni stonati dei Cavalieri e gli arabeschi del violino del rapsoda Liecrona si
combinano in una sinfonia di acre sapore caricaturale.
Il terzo atto comincia squisitamente. I Cavalieri cantano una tenera canzone sul Natale,
mentre il violinista improvvisa una melodia in cui si alternano accenti languidi e disegni
capricciosi. Qui c’è del sentimento veritiero e perciò comunicativo. Il quadro, blandamente
nostalgico, ha un sicuro valore d’arte: rare volte lo Zandonai è stato più ispirato e commosso.
La venuta del mefistofelico Sintram, tolti alcuni guizzi orchestrali, non ci reca sorprese e la
culminante scena della rivolta dei Cavalieri contro la Comandante e la partenza di costei dalla
fucina, per quanto ben condotta, non desta nello spettatore una particolare emozione. Della
seconda metà dell’atto abbiamo detto che essa ci sembra superflua o, se non altro, prolissa.
Però il motivo che l’orchestra svolge alle parole di Anna: Addio, vorrei tornar dolce e
bambina deve esser colto come un asfodelo fiorito in una melanconica radura.
L’ultimo atto è ben inquadrato e procede senza soste oziose. La morte della Comandante,
mentre la fucina riprende il suo ritmo gagliardo, costituisce un episodio teatrale di
prim’ordine. Lo Zandonai ha messo in opera tutti i suoi mezzi di strumentatore. La canzone
dei Cavalieri si ripercuote stentorea fra il rombo delle incudini e del maglio. Il brano è vivo,
palpitante e di sostanziale originalità. Nessuno può resistere a tanto ardore drammatico e
musicale. Infatti, calata la tela sull’ultima scena dell’opera, le ovazioni del pubblico che
gremiva la sala del “Costanzi” sono state assai clamorose. Riccardo Zandonai, il librettista
Rossato, il direttore d’orchestra Vitale, il maestro Consoli, istruttore del coro e i principali
artisti sono stati evocati sette od otto volte al proscenio. In tutto si sono avute circa trenta
chiamate, di cui le più spontanee al primo e al quarto atto. Dunque un eccellente successo,
che avrà una sicura influenza sul destino teatrale dei Cavalieri.
***
Esecuzione unanimemente elogiata per l’equilibrio, il brio e l’esattezza. Lo Zandonai ha
espresso con infiammate parole la sua riconoscenza al maestro Edoardo Vitale che,
dispensando tesori di ingegno e di operosità, ha compiuto in modo esemplare la concertazione
del nuovo lavoro. Il Vitale ha tratto il possibile dall’orchestra poderosa e disciplinata; il primo
violino Oscar Zuccarini, nei vari a solo dell’opera, si è comportato da vero maestro.
3.1.6/27
Tra i cantanti, la Bugg ha emerso per la sua grazia soave e per il suo ottimo virtuosismo.
Pieno di slancio e sempre invidiabilmente sicuro il tenore Merli, la cui voce ampia e di
bellissimo timbro si è mantenuta fresca sino alla fine dello spettacolo, malgrado l’improba
fatica sostenuta. Il Parvis è stato come sempre un cantante ed attore di rara potenza. Nella
parte della “Comandante” la signora Matilde Blanco-Sadun ha avuto modo di dare novella
prova della sua vivace intelligenza. Il Dentale è stato un “Sintram” genialmente malizioso.
Lodevoli le parti minori dell’opera: il manipolo dei Cavalieri ha esilarato il pubblico con i
suoi atteggiamenti faceti.
Coro sontuoso, diretto dal valente e instancabile maestro Consoli; scenari di grande effetto,
dovuti alla fervida fantasia del pittore Augusto Carelli e movimento scenico impeccabilmente
regolato sotto l’alta guida del comm. Carlo Clausetti.
Le repliche dei Cavalieri di Ekebù saranno certamente numerose. La prima è fissata per
domani, martedì.
255
Ferruccio Rubbiani, I Cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, «La Voce repubblicana»,
30.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3-4
In un teatro gremito si è data sabato sera la prima rappresentazione della nuova opera di
Riccardo Zandonai: I Cavalieri di Ekebù.
La cronaca della serata è questa. Al primo atto: un applauso a scena aperta e sette chiamate
alla fine, delle quali cinque all’autore e al librettista.
Al secondo atto: due applausi a scena aperta e sei chiamate alla fine, delle quali cinque
all’autore.
Terzo atto: complessivamente nove chiamate, delle quali sei all’autore.
Quarto atto: otto chiamate, delle quali quattro all’autore.
Adempiuto così all’esattezza della cronaca proverò di dire perché I Cavalieri di Ekebù
siano un’opera mancata.
Il libretto
Arturo Rossato ha tratto l’argomento del libretto da una saga di Selma Lagerlöf intitolata
«Gösta Berlings Saga», un libretto che può non piacere per la nostra sensibilità diversa da
quella dei popoli nordici – ma è poi vero che la sensibilità sia diversa soltanto perché noi
siamo più loquaci e quelli più taciturni? – ma che ha un valore spirituale altissimo.
Nientemeno che l’autrice, comprendendo nel suo significato una leggenda passante di bocca
in bocca e immortalante con la saggezza del popolo una verità se non denegata misconosciuta
dai cosidetti colti, ha preteso di giustificare una tesi di questo genere: non c’è peccato che non
[si] redima con l’amore e con il lavoro. Ed è andata a pescare – o meglio il popolo che è
saggio l’ha pescato – un peccatore eccezionale: un prete, Gösta è precisamente un prete
scacciato dalla sua chiesa e dalla sua comunità per il suo peccato; peccato – notate come sia
significativa questa ricerca – di gola ché egli non sa vincere il desiderio di bere. Come si
salva? Ridonandosi all’amore di una dolce fanciulla che aveva abbandonata – nei paesi
protestanti non è proibito, come è noto, ai preti di amare – e nella incapacità a muoversi di
altri sacerdoti coraggiosamente continuatore di un lavoro fecondo malauguratamente
interrotto.
Il Rossato più che dalla significazione, in verità un po’ difficile, della saga è stato tratto
dalla drammaticità degli episodi ed ha costruito il suo libretto su questo difetto iniziale,
perché non è possibile in un argomento del genere scindere gli episodi dall’idea che li lega e
legandoli li vivifica. Gösta, il prete, è rimasto, ma ahimè! altro che sconsacrato!... Infatti
3.1.6/28
l’autore ha intitolato il libretto: I Cavalieri di Ekebù. Se sono questi i protagonisti, il primo
atto serve soltanto per introdurci nel loro regno. È nel primo atto tuttavia che noi veniamo a
sapere – non avendo letto la saga di Selma Lagerlöf – come Gösta, ribattezzato in Giosta, sia
stato scacciato per il suo peccato di gola dal presbitero, come abbia amata e poi abbandonata
Anna e come sia costretto ad andare vagabondando, naufrago della fede, dell’amore e della
vita. Caduto sulla neve, ubbriaco fradicio, lo trova, mentre si reca al suo castello, la
Comandante, padrona del castello e delle miniere di Ekebù. Lo solleva, lo ridesta, gli fa
confessare la sua storia dolorosa e lo invita, per non morire, ad arruolarsi tra i cavalieri che la
servono e la temono.
Chi sono? Dice la Comandante: «...Raccolgo da quel giorno i deboli e i perduti che Iddio
mi manda intorno, dò loro la letizia, la fede ed i piaceri, li chiamo i Cavalieri. Sono i miei
Cavalieri»; e più avanti si legge nel libretto, nel momento nel quale Giosta è consacrato
cavaliere: «Odi fratello Giosta: da prode Cavaliere - vuoi tu tutta la vita gozzovigliare e bere?
- e odiar sempre il lavoro - sedurre le fanciulle e disprezzare l’oro - e morire libero, lieto,
ubbriaco e puro - lasciando il cielo al diavolo e il corpo ai lupi?».
Tali sono i cavalieri di Ekebù, la canzone dei quali fa crescere le rose sulle squallide
miniere dalla bocca sgangherata, seduce le spose della vecchia terra, dà la giovinezza, dà le
sonagliere dalla garrula risata. La regina? Una donna che ha amato molto ed ha avuto in dono
castello e miniere dal suo amante ed ora vive accanto al marito inconsapevole, fiera, strana e
capricciosa. Nel secondo atto siamo dunque in questo regno di lavoro, di orgia e di amore.
Giosta è consacrato cavaliere e vi incontra Anna, la fanciulla abbandonata, lì presente per
festeggiare il Natale. Trova così l’amore l’occasione per riprendere la sua tela, che troncata
del resto non fu mai ad onta delle apparenze e della ostilità del vecchio padre di Anna,
Sintram, il quale, irritato, minaccia burla per burla, pianto per pianto, pianto ai cavalieri,
pianto alla Comandante.
Nel terzo atto la minaccia del vecchio incomincia a realizzarsi. È la notte di Natale. I
cavalieri banchettano, sono allegri e bevono, bevono da prodi. Uno di loro piange. Ha male al
cuore, tanto male: pensa alla sua casetta laggiù tra le foreste e al suo piccino biondo che
attende col Messia il ritorno del padre vagabondo. Invidiato dai compagni che lo lasciano
andar via. Ecco Sintram ad interrompere la scena patetica. Pianto alla Comandante, ha
minacciato. È lì per farla piangere. Raccontando ai cavalieri la storia del suo amante, egli
aggiunge aver stretto un patto con lei per il quale ogni anno, in cambio di fedeltà e di potere,
gli viene ceduta l’anima di un cavaliere. Li aizza così contro la Comandante che è scacciata e
piange perché vede avverarsi una predizione della vecchia madre che ella un giorno percosse
e per cui fu da lei maledetta.
Intanto Anna è ricondotta da Giosta alla casa paterna, dove la madre l’attende. Invano! ché
Sintram non consente il suo ingresso. Scampata ai lupi – più buoni essi degli uomini o
immune lei pel suo talismano d’amore – Anna non troverà scampo se non tra le braccia di
Giosta.
Cammineremo incontro al nuovo sole sempre così, tenendoci per mano... lontan lontano...
e spunteranno viole su dalla terra tepida che odora. Sei la mia aurora, la mia dolce aurora
ch’io porterò sempre nel cuore. La minaccia di Sintram si infrange così lungo la via? No. Egli
ha detto: Pianto ai cavalieri.
Nel quarto atto infatti li troviamo piangenti. Tutti i cavalieri, Anna e Giosta. Che è
avvenuto? Poiché la Comandante ha lasciato Ekebù ecco quello che è rimasto. Canta la folla:
Cavalieri della morte! Cavalieri del dolore! - Dove siete? Non udite? Siamo il popolo che
muore - Le fucine sono spente! La miseria è già alle porte - Non udite, Cavalieri della morte?
- Strugge il vento il nostro grano! Strugge il pianto il nostro cuore! - Non udite, non udite,
Cavalieri del dolore? - Come voi sperdete i giorni, Dio vi sperda sull’istante - Torni qui la
Comandante! Torni la Comandante! -
3.1.6/29
La folla ha capito dunque perfettamente quello che manchi alla vita di Ekebù. Ma perché
se la prende allora coi due poveri amanti, Anna e Giosta, facendoli responsabili del disastro?
Perché c’è di mezzo il peccato. Sintram ride dunque ancora da lontano, bieco. Anna se
n’andrà via da Giosta che vive tra l’amore e il male, sacrificandosi per gli altri. Ma i cavalieri
hanno capito che senza la Comandante non valgono nulla e sono disposti a richiamarla.
Perché dunque Anna se n’andrà? Ecco che il riso satanico di Sintram si spegne. Il segno che
ha chiesto Giosta al cielo viene. L’amore ha redento il peccato. La Comandante ritorna.
Stenne [?], sfinita, moribonda, ne ritorna. E perdonata dalla madre sua. Anche lei redenta
ritorna strumento di redenzione. «Come mia madre, la mia vecchia madre - posò la mano - su
questo capo, ecco la poso anch’io - sul capo vostro. benedetti i baci - nell’amore di Dio.
Amate! Amate!»
Nella gloria d’amore il lavoro riprende. Le fucine si infocano, il maglio cade, ritorna il
ritmo delle opere feconde. Ekebù rivive, mentre la Comandante muore. Eredi del suo regno
sono Anna e Giosta.
La musica
Mi sono sforzato di ridurre ad una certa unità di ispirazione il racconto così come è reso da
Arturo Rossato nel suo libretto, per cercare di rendermi conto dell’opera d’arte di Zandonai e
per offrire un criterio obbiettivo e sereno di giudizio. Non trovo che l’opera del musicista
guadagni ad essere vista così. La frammentarietà del libretto è passata tale e quale nella
musica con questa differenza: i frammenti che sono nel libretto valgono poco, quelli che sono
nella musica hanno un valore infinitamente superiore. Ma sono frammenti; e come negli
episodi ci sono frammenti di cose, nei personaggi ci sono frammenti di uomini.
Io non ho l’abitudine di chiedere confessioni estemporanee ad alcun autore perché ritengo
prima di tutto che non sia ad esso vantaggioso, in secondo luogo che sia suo compito
confessarsi intieramente nella sua opera d’arte e non tra una tazza di thè ed un biscotto. Ma se
avessi avuto la fortuna – si dice così! – di incontrare Riccardo Zandonai per una di quelle
strade della Roma antica che fanno dimenticare la Roma degli hôtels e dei salotti, perché il
silenzio ed i ricordi invitano ad una sincerità immacolata, avrei dovuto chiedergli: Ma voi
l’avete letta, maestro, la saga di Selma Lagerlöf? E avendola letta ci avete pensato su? Avete
pensato a quello che significhi? Avete pensato che c’è lì dentro, attraverso la ingenuità della
creazione popolare, una interpretazione originale del fenomeno, tutto spirituale, della
redenzione? Sapete che cosa voglia dire per un prete – e badate che il popolo nella sua
leggenda l’ha assunto a simbolo – essere sconsacrato? E sapendolo, avete pensato che Giosta,
prete sconfessato per il suo peccato, deve essere riconsacrato dall’amore? Che si tratta cioè
veramente di far Dio l’amore? E quel Liutram [sic] come ve lo figurate? Demone o uomo? O
demone e uomo?
Non avendo avuto la fortuna di incontrare Riccardo Zandonai in luogo tanto propizio alle
serene confessioni, ho cercato una risposta alle domande sopradette, ieri sera... No; non è
neppure il caso di farlo. La sua comprensione dell’argomento non va oltre più in là di quella
del librettista. Non c’è nel libretto il senso della collettività creatrice di ogni leggenda:
neppure nella musica c’è. Nessun spiraglio sul mistero per il quale il popolo ha fatto
camminare sulle nevi bianche e la figura di Giosta e quella di Anna e quella della
Comandante, e quella dei cavalieri. Sintram cos’è? Un padre irato soltanto o qualche cosa di
più? Mistero. In un momento egli ha un grido ed un riso satanici, gravidi di avvenimenti. È
una lotta che s’inizia; lotta tra chi? Fra un padre burlato ed una figlia caparbia? La posta è
sproporzionata, perché la posta è la rovina di Ekebù. Allora è la lotta eterna tra il bene e il
male che può assumere, come in questo caso, le forme più legalmente umane, tra la rigidità
tradizionale di una morte che non sa perdonare e la libertà dell’amore che perdona e redime.
Ebbene nella lotta egli perde. Chi si accorge che abbia lottato? Sarebbe bella che quel grido e
3.1.6/30
quel riso satanici fossero una trovata del bravo basso Dentale, che è del resto un artista
intelligentissimo!
Discorso non molto diverso si dovrebbe fare sul trionfatore che è Giosta. Intanto non è
gran merito e non c’è proprio bisogno di chiamare in soccorso cielo e terra per vincere un
nemico quale è Sintram... ma lasciamo andare!
A sentire il librettista, Giosta beveva per confortarsi dalla solitudine e dalla tristezza della
sua chiesetta e per rispondere a domande di questo genere: non ride il sole? non fioriscono
dunque le viole? l’estate, calda di frumenti d’oro, lieta di vento, ebra di stridi e d’ale, non
canta più coi miei vent’anni in coro? Non danza più per le sonanti sale, delle campagne,
allegre di lavoro? Non so quale pastore di Svezia o di Norvegia si porga tali domande. Ma
supponiamo che qui veramente Giosta sia assunto a simbolo, con una significazione più
ampia. Non essendogli conteso l’amore, per inserirsi nella vita non aveva che un mezzo: il
lavoro, sostanza, nelle molteplicità dei suoi aspetti, della vita stessa. Soltanto in questo modo
egli avrebbe potuto riattaccare la sua mistica e religiosa alla complessa esperienza umana.
Trascina invece per tutto il dramma la sua vicenda d’amore che avrebbe potuto benissimo
concludere nel piccolo presbitero. Al musicista non è parso vero di presentarlo così come
glielo ha presentato il librettista. Un momento ha pensato di cambiargli sembiante. Accortosi
che le ragioni per le quali il giovane prete si sentiva a disagio nella chiesetta di Bro erano
molto tenui, ha cercato di dare al suo petto un più largo respiro, di trasportarlo in
un’atmosfera di misticismo nella quale deve pure aver vissuto. Gli fa cantare l’inno alla vita
nel ritmo del «Tedeum». Ahimè! ché egli se n’è scordato in seguito! Giosta restando... Giosta
di Rossato, quel «Tedeum», trattandosi di un prete protestante, finisce con l’essere una
stonatura artistica molto banale.
***
Opera allora mancata I Cavalieri di Ekebu? Finché nel giudicare di un’opera d’arte
varranno criteri estetici precisi, nessun dubbio che questa sia la peggiore delle opere di
Zandonai. Se invece ci si affida a quella certa soddisfazione superficiale per cui si concedono
tutte le attenuanti possibili pur di non fare alcuna fatica a cercare le aggravanti, l’opera potrà
anche essere giudicata la migliore di quante il musicista trentino abbia composte fin qui.
Tutto sta ad intendersi sul criterio col quale giudicare. Io sono d’avviso che una propria logica
interna debba guidare ogni opera d’arte. Avendo accennato in principio ai caratteri di
frammentarietà de I Cavalieri di Ekebù potrei dire senza timore di contraddirmi che quasi
tutti i frammenti possono piacere: il piccolo coro delle fanciulle nel primo atto, la canzone dei
cavalieri, il racconto di Giosta, l’altro della Comandante, e i duetti d’amore tra Giosta e Anna,
e il coro della folla nell’ultimo atto. La canzone del Natale che i cavalieri cantano nel terzo
atto è certo una graziosissima cosa.
Questo non vieta tuttavia di dare dell’opera d’arte un giudizio negativo.
L’esecuzione
Sotto ogni riguardo ottima è stata l’esecuzione. Il maestro Vitale ha collaborato
generosamente, con la sua esperienza consumata e la sua intelligenza, con l’autore. Il tenore
Merli ha profuso magnificamente la sua voce in una parte di notevoli difficoltà di tessitura.
La Bugg è stata un’Anna piena di Passione e di candore, cantando scherzando e sospirando
perfettamente. La Sadun, intelligentissima sempre, ha rivelate dolcezze alle quali la sua voce
robusta non ci aveva abituati. Il Parvis ha riconfermato le sue doti di signore della scena e
della voce, mentre del basso Dentale ho detto più sopra.
Dopo aver lodati incondizionatamente i cori e per essi il loro bravo istruttore maestro
Consoli, darò una lode speciale ai cavalieri che erano Nardi, Manetto4, Pellegrino, Tega, De
4
sic per Marcotto.
3.1.6/31
Petris, Nsca5, Giusti, Soffiantini, Pastocchi e Freitas. Oscar Zuccarini ha suonato gli a solo
del violino con la perizia già nota e Augusto Carelli, con bel lavoro d’arte, ha dipinto le
scene.
Riccardo Zandonai non può certo rammaricarsi della edizione romana dei suoi Cavalieri di
Ekebù!
256
Giulio Marchetti Ferrante, I Cavalieri di Ekebù - Il libretto di Arturo Rossato, «Il Popolo»,
29.3.1925 - p. 3, col. 1-2-3-4
M’accinsi a leggere la «Gösta Berlings Saga» di Selma Lagerlöf a Stoccolma, in una sera
di alta neve che pareva indicata per un tal libro.
Il primo capitolo espone il dramma del giovane pastore luterano Gösta Berling che, in una
piccola parrocchia lontana, ha cercato nell’acquavite un farmaco alla propria malinconia e,
denunziato il vescovo pel suo vizio, deve in presenza di questi, nella chiesa ove s’affollano i
suoi accusatori, pronunciare un’omilia, l’ultima, dopo la quale, com’egli presente, sarà
pronunciata la sua condanna.
Già si vede vergognosamente scacciato, bandito dal seno della chiesa e pur comincia a
parlare. In quell’ora disperata è colto da un’esaltazione inattesa, la sua parola diviene
eloquente, il suo pensiero ispirato. Egli si sente sollevato in una sfera trascendentale, il
soffitto opprimente del tempio si dischiude offrendogli la visione del cielo, e dimentico di
tutto Gösta Berling favella come un veggente. Poi l’estasi dilegua e l’oratore torna a
discendere a poco a poco dalle nubi alla regione della realtà, per scoprire innanzi a sé la folla
dei suoi giudici penetrata, commossa, decisa al perdono.
Non dura però a lungo la conversione di Gösta Berling. Il demone dell’ubbriachezza non
tarda qualche settimana dopo a riafferrarlo, ed allora la differita condanna si abbatte più
severa sul suo capo. Espulso dalla sua parrocchia perché sconsacrato, egli è ridotto alle
condizioni di quei vagabondi che vivono al margine della società, finché una sera – la sera di
Natale – batte affranto alla porta di un’osteria sulla strada che conduce al castello di Ekeby, e
abbrutitosi con un ultimo bicchiere di liquore, si lascia cadere sulla neve, attendendo la morte.
Vedremo in seguito da chi e come Gösta fu salvato, poiché a questo punto comincia
l’azione che Arturo Rossato ha rappresentato nel suo dramma lirico, posto in musica da
Riccardo Zandonai.
Voglio invece ricordare come, alla lettura di quel primo capitolo della «Saga», Selma
Lagerlöf mi apparisse come una figlia prediletta di Dostoiewsky.
L’incanto non fu però di lunga durata: ho dovuto riprendere il libro non so quante volte, in
epoche diverse, e raccogliere tutta la mia perseveranza per giungere alla fine.
Una “Saga” non è un romanzo ma una specie di poema in prosa e, come avviene per le
epopee, più che di seguito deve esser letta poco alla volta, in episodi. Ne basta uno per
accompagnare le lunghe notti iperboree. Pur stabilita una cosiffatta disposizione di spirito,
essa non toglie che il genere letterario prescelto da Selma Lagerlöf in questa ed in altre sue
opere – cito ad esempio quella che passa per il suo capolavoro, «Jerusalem» – riesca a noi
Latini invincibilmente tedioso. La prolissità, le divagazioni di abbellimento, l’estenuante
metodo analitico, quel voler esporre tutto, pedantemente, sino all’ultima sillaba senza lasciare
alcun compito all’immaginazione del lettore può corrispondere, anzi corrisponde certamente,
alla psicologia del lettore nordico, il quale si lascia condurre attraverso le pagine come un
docile fanciullo, non alla nostra.
5
sic per Uxa.
3.1.6/32
È una delle principali ragioni per cui gli scrittori scandinavi come Selma Lagerlöf non
sono adatti alla mentalità italiana, ed anche più difficilmente possono esser gustati in una
traduzione, rimanendo in tal caso spogliati anche di quei pregi di forma che costituiscono
un’attrattiva per chi può conoscerli nella lingua originale. Pur trovandomi in questo caso
fortunato, non sono riuscito, come dissi, a interessarmi eccessivamente alla «saga di Gösta
Berling».
Selma Lagerlöf mi piace nelle cose brevi come il suo volumetto delle «Cristus legender»,
però se devo leggere per divertirmi un libro in lingua svedese preferisco lo stile nervoso e
moderno di Heidestamm.
***
Mi cagionò pertanto non poca sorpresa l’apprendere che da un lavoro come la «Gösta
Berlings Saga» uno scrittore italiano aveva tratto il soggetto di un libretto ed un compositore
della notorietà di Riccardo Zandonai l’ispirazione per un’opera lirica.
Né le mie perplessità erano infondate.
Della “saga” dell’autrice svedese – conosciuta evidentemente di seconda mano, cioè in una
mediocre versione – il librettista Arturo Rossato ha rafforzato in modo ingenuo ed arbitrario
qualche episodio, svisandola, togliendole quasi ogni rilievo originale.
Ha cominciato collo stroppiare i nomi del titolo e dei protagonisti: Ekeby è diventato un
Ekebù sonoro come un rullo di tamburi (“by”, pronunciato coll’u francese significa in
svedese villaggio), pertanto come chi dicesse Frescoti invece di Frascati.
La proprietaria del castello e delle miniere di Ekeby porta secondo l’uso svedese il titolo
del marito, il maggiore Samzelius. È la “majorskan”. Questo titolo legittimo, grammaticale
nella lingua di Svezia, è tramutato abusivamente in quello buffonesco della “comandante”,
Gösta è divenuto Giosta, e così via.
La scarsa curiosità del Rossato pei particolari della vita svedese, per citare un esempio fra i
tanti, arriva al punto che egli ci ammannisce un agape dei Cavalieri a base di ponce fumante,
mentre il ponce svedese, il liquore nazionale altrettanto comune nel paese di Gustavo Adolfo
come da noi il vino di Chianti, è una specie di rosolio che si sorseggia freddo, alternandolo
con acqua gazzosa gelata.
Questi spropositi non costituendo che particolari d’importanza del tutto secondaria, sarei
disposto a perdonare al librettista le sue fantastiche falsificazioni del costume, se egli non
avesse altro sì rimaneggiato a suo modo l’essenza stessa del soggetto, alterando gli episodi
che gli è piaciuto prendere dell’opera originale, con un procedimento che a me sembra
artisticamente illecito, poiché v’introduce elementi e situazioni cui l’autore dell’opera
originale medesima non ha mai pensato.
E ciò è dimostrato dallo svolgimento ch’egli ha dato al suo dramma lirico.
***
Abbiamo lasciato Gösta all’osteria presso Ekeby, mentre egli chiede insistentemente altra
acquavite. S’odono le sonagliere di una slitta ed entra Sintram, un proprietario dei dintorni,
padre di Anna6, la fanciulla che Gösta amò, riamato, ciò che è concesso – com’è noto – ad un
pastore luterano.
Per la sua bruttezza diabolica, Sintram è comunemente scambiato per Belzebù. Anche
Gösta cade nell’errore, e l’altro finge di comprare l’anima sua per poche monete; poi, mentre
il presunto demonio si allontana, l’ex prete cade sfinito sulla neve. Ed ecco sopraggiungere
uno sciame di fanciulle che si recano al castello per festeggiarvi il Natale. Cantano madrigali,
intrecciano carole, perdono le babbucce sulla neve, come se fosse una notte italiana di
6
In realtà, in Lagerlöf Sintram è il padre di un'altra donna.
3.1.6/33
primavera. Fa parte del gruppo Anna, la quale riconosce Gösta, scambia con lui brevi parole
di obblio e prosegue il suo cammino. Allo sciagurato non resta davvero che morire.
Per sua fortuna si trova a passare la Comandante di Ekeby. Il Rossato ce la presenta così:
«ha una pipa di terra in bocca, indossa una corta pelliccia di montone, calza grossi stivali; il
manico del coltello le spunta fuori del corpetto, i capelli bianchi coronano il suo volto di bella
vecchia». Le cammina al fianco il tetro Samzelius, suo marito.
La Comandante fa accogliere Gösta, mezzo assiderato, nell’osteria e gli domanda la sua
storia. A sua volta, narra la sua, e in tutto questo non vi sarebbe di criticabile che l’espediente
scenicamente infelice di due racconti che si susseguono. Senonché la Comandante rivela a
Gösta – ch’è per lei il primo venuto – il terribile segreto del suo onore e della sua vita. Amò
un uomo che era povero e dovette partire. Fu costretta a sposare il maggiore Samzelius;
l’altro tornò ricco. Ella ne divenne l’amante e ne accettò in eredità il castello e le miniere di
Ekeby. Inoltre commise anche un altro peccato: schiaffeggiò sua madre che le rimproverava
la sua vergogna, e fu da lei maledetta.
Nella «Gösta Berlings Saga» tale segreto, su cui si basa una delle scene culminanti, non è
conosciuto che assai più tardi, ma nel libretto la Comandante prova il bisogno di divulgarlo
immantinente, scontando in anticipo l’effetto di una interessante situazione ulteriore, e tutto
ciò allo scopo... di cantare la sua aria del primo atto.
Terminate le sue compromettenti confidenze, la Comandante propone a Gösta di entrare
nel novero dei suoi cavalieri. Ella raccoglie i deboli e i perduti che Dio le manda attorno, dà
loro la letizia, la fede ed i piaceri, li chiama Cavalieri, i suoi Cavalieri.
Gösta rifiuta ma al nome di Anna, che la Comandante gli rammenta, cangia pensiero ed
accetta.
Irrompe a questo punto sulla scena la gaia schiera dei Cavalieri che intonano la loro
caratteristica canzone:
Vecchia terra di Ekebù
chi fa crescere le rose
sulle squallide miniere
dalla bocca sgangherata?
La canzon dei cavalieri
sempre gaia e disperata.
Heissan! Heissan!
E tutti insieme si avviano al castello.
Nel secondo atto ci troviamo appunto in una sala del Castello di Ekeby, ove si prepara una
rappresentazione. Gösta ed Anna saranno i protagonisti della commedia. La folla attende
impaziente, e mentre le fanciulle finiscono di adornare Anna, Sintram se ne scende per la
cappa del camino su cui arde un gran ceppo – inverosimile discesa – e tenta invano di condur
via la figlia. Entrano la Comandante, i Cavalieri, gl’invitati. Gösta è presentato solennemente
ai suoi undici scioperati e spensierati colleghi, poi è lasciato solo con Anna per preparare la
rappresentazione, e ne segue naturalmente un duetto di contrastato amore. Tornano gli altri e
la rappresentazione incomincia, accompagnata dall’orchestra grottesca dei cavalieri.
Similmente a quanto era accaduto in precedenti melodrammi da «Amleto» ai «Pagliacci», la
commedia si muta però in realtà. Il duetto d’amore – il secondo nello stesso atto – diviene
appassionato e incalzante, senonché compare il solito guastafeste Sintram e scaglia minaccie
e maledizioni. Tutti si allontanano. Rimangono soltanto Anna, Gösta e la Comandante, la
quale, non avendo avuto quasi nulla da fare durante quest’atto, invita Gösta a ricondurre la
ragazza presso suo padre.
3.1.6/34
Il terzo atto è diviso in due quadri. Ci troviamo dapprima nella fucina di Ekeby, ove i
Cavalieri hanno celebrato con larghe libazioni il Natale. Presi da malinconia, cantano una
“Ninna-nanna” ed uno di essi, invaso dalla nostalgia della casa abbandonata, chiede ai
compagni che lo lascino andar via per farvi ritorno. Mentre gli altri lo dissuadono, presso il
fornello sorge la solita figura di Sintram. Questa volta egli ha preso davvero il costume del
diavolo, venuto com’egli assicura a rinnovare colla Comandante il contratto mediante il quale
quest’ultima gli garantisce annualmente l’anima di uno dei Cavalieri. A tale rivelazione gli
ubbriachi divengono furiosi. Chiamano la Comandante, la coprono di insulti e, in presenza
del marito, le rinfacciano la storia del suo amante e del dono di Ekeby, storia che gli spettatori
conoscono sino dal primo atto ma il consorte della Comandante ignora... perché non si
trovava in scena. Costui scaccia allora la moglie, la quale, senza proteste, si rassegna al suo
destino e parte.
Il secondo quadro raffigura lo spiazzo di una foresta bianca di neve, ove sorge la casa di
Anna.
Una delle pagine palpitanti della “saga” descrive la corsa notturna di Gösta ed Anna7 nella
notte gelida, mentre una torma di lupi affamati insegue la loro slitta ed essi sono sul punto di
esser sbranati. Non era possibile rendere liricamente la scena. Assistiamo soltanto al ritorno di
Sintram, che trova la moglie sulla porta in attesa di Anna e brutalmente le impone di rientrare
nella casa, di cui spranga la porta, annunziando che Anna non tornerà più perché è morta.
Anna giunge invece col suo amato e, mentre la logica vorrebbe che si precipitasse, nel suo
orgasmo, contro quella porta chiusa impetrando di esser accolta e perdonata, ella si trattiene
all’aperto per scambiare con Gösta ancora un duetto d’amore a base di ricordi fanciulleschi.
Finalmente si decide a battere. Ahimè, la porta rimane inesorabilmente serrata. Invano ella
invoca – ed è questo il punto veramente drammatico dell’opera –, scongiura. Una finestra
s’illumina e s’affaccia la madre. Sintram non vuole che ella apra, se vedesse la figlia
l’ucciderebbe. Il padre brutale compare infatti, trascina via la moglie e la casa ricade nelle
tenebre.
Anna sarebbe perduta se Gösta non avesse atteso in disparte. Corre a sollevarla; la porterà
con sé:
Apri i begli occhi ancora,
o della vita mio piccolo fiore.
È la grande ora
invocata da Dio
E Dio ti dona a me.
Guarda è l’aurora.
***
Il quarto atto ci trasporta nella corte del castello di Ekeby, di cui i cavalieri sono rimasti
padroni. Anna pure è là, insieme a Gösta. Tuttavia dalla partenza della Comandante ogni cosa
è caduta nell’abbandono e nello squallore. Le fucine son mute, la gente intorno al castello
muore di fame e attribuisce tanta jattura al fatto che Anna vive in peccato con Gösta.
S’affollano questi miserabili nella corte di Ekeby imprecando, ed anche in questa scena, ch’è
una delle più vibranti di umanità, non mi par dubbio che Selma Lagerlöf abbia inteso
l’influenza degli scrittori russi. Il Rossato l’ha facilmente riassunta nel suo libretto.
7
Nel romanzo non si tratta di Anna bensì di Marianne Sinclaire.
3.1.6/35
Gösta cerca di placare la folla, i Cavalieri non veggono che un rimedio a tanta sventura: il
ritorno della Comandante. Anna vuole anch’essa separarsi dal suo amato, il quale
dolorosamente invoca il Signore:
Signore! Ascolta! Toglimi la vita
o dammi un segno della tua bontà.
Il miracolo avviene. Voci confuse e liete annunziano il ritorno della Comandante. Ella
entra sorretta dai cavalieri. È sfinita, è morente, ma ha ottenuto il perdono di sua madre e
viene a chiuder gli occhi nel suo vecchio Ekeby.
Le sue ultime parole sono tutta una invocazione alla pace, al lavoro, all’amore. Ella
benedice Gösta ed Anna, poscia domanda perché le fucine non lavorino più.
Per uno di quei prodigi riservati ai libretti d’opera, all’istante medesimo si riaccendono le
vampe gioiose nei fornelli, il maglio torna a percuotere l’incudine, il lavoro festoso a cantare
il suo ritmo. Mentre la canzone dei cavalieri riprende solenne, s’ode un grido: la Comandante
di Ekeby è spirata.
Così termina il quarto atto che è senza dubbio il più efficace dell’opera.
***
Chi ha letto la complessa «Gösta Berlings Saga» può intendere quale pallido riflesso il
Rossato, ad onta dei suoi sforzi, sia riuscito a fissarne in questi suoi «Cavalieri di Ekebù». Il
suo torto è stato, a parer mio, di aver tentato l’impossibile: i personaggi del suo libretto
rimangono ombre scolorite. Solo del gruppo dei Cavalieri, di questi gaudenti e lacrimevoli
déracinés, il poeta ci ha presentato uno scorcio fedele, sentito e vigoroso.
L’opera era così ardua che non si può essere severi con lui, tanto più che ad onta delle
lacune, a dispetto di qualche verso claudicante, egli ha trovato forme molto più colorite ed
eleganti di quelle che solitamente ci offre la pedestre mediocrità dei libretti d’opera
contemporanei. Auguriamo ad Arturo Rossato di dedicare prossimamente il suo ingegno ad
un soggetto che risponda alle sue aspirazioni d’artista meglio che i «Cavalieri di Ekebù».
Giudicheremo questa sera l’espressione musicale che ha dato loro Riccardo Zandonai.
257
Giulio Marchetti Ferrante, I Cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, «Il Popolo», 31.3.1925
- p. 3, col. 1-2-3
La carriera di Riccardo Zandonai non fu facile né coronata di molte rose. Tralasciando i
penosi tentativi della sua giovinezza, può dirsi che anche negli anni più fervidi della sua
affermazione d’artista abbiano prevalso le spine.
È che Riccardo Zandonai è uno spirito irrequieto, uno di quei musicisti che si sentono
attirati verso la luce della perfetta creazione ma devono lottare diuturnamente contro gli
ostacoli del volo.
Anima sensibile, piena di delicatezze e di gusto, lo Zandonai non ha potuto ancora
dispiegare mai queste ali in tutta la loro ampiezza, sia che gli manchino le penne maestre o,
come sarei incline a ritenere, la pienezza del respiro. I suoi tentativi, tutti nobilissimi, rivelano
il tormento delle aspirazioni di lui. Ma la sfera sublime, quella ove il genio trova la sua piena
consacrazione, egli non l’ha ancora raggiunta.
L’inizio della sua maturità di operista non avrebbe potuto essere più promettente. I due
primi atti della sua «Conchita» (1911), troppo presto dimenticata, racchiudono pur sempre la
più felice manifestazione del suo estro. E se il primo atto di «Francesca» (1914), per quanto
3.1.6/36
di genere diverso, sta in pari altezza con quelli di «Conchita», il suo ingegno non si è
sollevato di più né si è sensibilmente accostato a quella vetta che sembrava vicina.
La colpa, o la fatalità, di questa stasi è insita nell’errore o nella difficoltà dei compositori
moderni di saper scegliere un soggetto corrispondente al proprio temperamento.
Zandonai non si accorse che la peccatrice crudele e perversa del romanzo di Pierre Louys
«La femme et le pantin» o la morbida e svenevole «Francesca» del dramma dannunziano non
corrispondevano, per eccesso l’una e per difetto l’altra, alla sua individualità creatrice.
Pertanto egli non riuscì a produrre due opere omogenee e complete ma si esaurì in
«Conchita» nel perseguire forme eccessivamente vigorose per il suo mite ingegno.
In «Francesca», abbandonato il concitato polifonismo della prima opera, si perdé invece in
sdolcinature melodiche alla Tosti o in un preziosismo settecentesco, privo però di quella
freschezza e fluidità che ha guadagnato in questo ultimo genere così vivo successo al WolffFerrari [sic].
Terzo tentativo, e tentativo di nuovo stile, l’opera «Giulietta e Romeo», costruita tutta
artificiosamente, cerebralmente, senza una vera polla sorgiva d’ispirazione e pertanto, a
dispetto della perizia tecnica sempre più raffinatasi nel maestro, assai più scarsa di contenuto
musicale delle due precedenti sue creature.
Quanto abbia contribuito a diminuire l’esito di queste tre prove la mancanza di
discernimento nell’adozione dei tre libretti, non è chi non veda. Se a quello di «Conchita» e di
«Francesca» può rimproverarsi un’esuberanza di elementi drammatici che lo Zandonai non è
stato capace di afferrare ed esprimere, il libretto di «Giulietta e Romeo» è invece, nella sua
vacua pretenziosità verbale, spoglio di ogni vibrazione lirica.
Lo Zandonai non seppe pertanto in queste opere che plasmare in parte, di scorcio, i suoi
personaggi o ridurli, nell’ultimo caso, a pallide e scolorite parvenze cui nessun espediente
poteva dare contorni e sostanza.
La musica
Era da attendersi che, ammaestrato dall’esperienza, il compositore cercasse una materia
più adatta per un nuovo tentativo. Chi mi ha usato la cortesia di leggere l’analisi che sabato
sera feci su questo foglio del libretto dei «Cavalieri di Ekebù» si chiederà perché mai un
artista del valore dello Zandonai sia andato a perdersi in un simile labirinto.
Nello scarno libretto che il Rossato ha cercato di trarre dalla prolissa e complicata “saga”
di Selma Lagerlöf, per quanto ridotte a pochi accenni, rimangono tuttavia tre diverse
situazioni drammatiche che il musicista si trovava costretto a seguire ed a svolgere
parallelamente, pure conglomerandole in un unico sfondo: il dramma del prete sconsacrato
Giosta Berling colla sua alternativa d’ombre e di luci alla Dostoiewsky, complicato dalla
passione dello stesso Giosta e di Anna; il dramma segreto che arrovella il cuore pieno di
rimorsi e di coraggiose volontà della Comandante di Ekebù; il dramma, non meno imponente
nella sua lacrimevole varietà umana, degli undici Cavalieri, naufraghi della società, ridotti
allo stato di parassiti, i quali cercano di dimenticare nei sollazzi la ferita interna di ciascuno,
la ruina vergognosa della propria esistenza.
In verità era troppo per un estro così tenue come quello di Riccardo Zandonai.
Eppertanto egli non è pervenuto che a darci il senso di uno solo di questi drammi, quello
dei Cavalieri ch’egli ha espresso in un senso collettivo ma efficace, robusto, originale. I
Cavalieri, anzi il gruppo dei Cavalieri, sono i soli personaggi dell’opera che esistano
plasticamente, musicalmente. Quando essi intonano la loro caratteristica canzone «Vecchia
terra di Ekebù», un fremito passa nell’uditorio, il pubblico prova la sensazione di trovarsi
finalmente di fronte a qualche cosa di vivo immezzo al tedio crepuscolare onde il linguaggio
degli altri personaggi pervade il resto dell’opera. Nella frase dei Cavalieri squillante con
accento vigoroso su quel “sol naturale” fortissimo che scende all’ottava e, con larghe pause,
3.1.6/37
risale e torna a scendere come una ostentazione della fittizia gioia e confessione del buio
dolore di quegli spavaldi e pur tristi gaudenti, lo Zandonai ha raggiunto tale espressione del
suo valore di musicista che basterebbe quel brano – quello solo – a darci la misura della sua
potenzialità. Del resto tutta la parte dei Cavalieri si mantiene costantemente vigorosa,
spiccata, omogenea.
Pertanto s’accresce in noi lo stupore allorché la raffrontiamo alle altre parti manchevoli
dell’opera, poiché non si concepisce come un musicista capace di tanto possa peccare
d’ineguaglianze così gravi.
Tolta la figurazione musicale dei Cavalieri non rimane nella partitura che qualche episodio
pregevole, che attesta qua e là l’eleganza personale del compositore.
Quello che anzitutto fa difetto nei «Cavalieri di Ekebù» è l’elemento emotivo.
Nei prolissi quattro atti non s’incontra una frase che riesca a toccare le nostre fibre. Anche
nei rari punti in cui la drammaticità della situazione è posta in qualche rilievo nel libretto, la
musica non perviene ad esprimerla. Cito a caso. Nella scena in cui Anna, innanzi all’uscio
inesorabilmente chiuso della casa paterna, invoca la madre, la frase «Mi piegherò sopra il tuo
cuore» è tenera ma non straziante.
La stessa morte della Comandante all’ultimo atto risulta imponente per l’insieme degli
elementi, specie il frastuono della fucina e le grida del coro e dei Cavalieri, fusi in esso in
modo stupendo, tuttavia non commuove.
E come potrebbe[ro] commuovere quelle ombre evanescenti che sono i personaggi dei
«Cavalieri di Ekebù»?
Eccettuati, come dissi, i Cavalieri e considerando a parte il convenzionalismo della figura
diabolica di Sintram, questi personaggi cantano tutti sullo stesso accento. Basta considerare
per persuadercene qualche spunto preso a caso nella riduzione per canto e pianoforte che ho
appunto sotto gli occhi (complimenti alla Casa Ricordi per la nitida e bella edizione).
Giosta è un tenore innamorato, come potremmo incontrarne in qualsiasi spartito romantico.
Dove è la lotta di quest’uomo che celebrò i misteri della fede sull’altare e fu pastore di anime,
fra le sue aspirazioni al bene e il suo vizio ripugnante?
La virago raffigurata da Selma Lagerlöf nelle sembianze della Comandante è ridotta ad
una fugace, pedestre apparizione cui è affidata una parte relativamente secondaria. Nell’atto
secondo non si sa che cosa ella stia a fare sulla scena; nel terzo si lascia scacciare con
mansueta rassegnazione. Solo nell’ultimo, al momento della morte, acquista un qualche
risalto.
Anna non offre nulla di caratteristico, né drammaticamente né musicalmente.
Al compositore è mancata persino la malizia: avrebbe altrimenti compreso la poca
simpatia che dovevano destare sulla scena le figure di un beone e di una vecchia.
Dei duetti d’amore è meglio parlare il meno possibile: l’uno è più scialbo, insignificante
dell’altro. Nel secondo atto siamo costretti ad udirne due di seguito, ed in essi il plagio
ingenuo e certo involontario – ho troppo considerazione per la probità artistica dell’Autore
per pensare altrimenti – risulta continuo, poiché l’alterazione di alcune cadenze non basta a
mutare il carattere intrinseco di una frase.
Verdi, Puccini, Ponchielli, Giordano, Denza, Tosti, Wolff-Ferrari [sic] vi sono profusi a
piene mani.
Lo stile di Mascagni (Arioso del tenore al primo atto) vi è riprodotto con una identità
sorprendente.
Le sviolinate dolciastre, le “ninna-nanna” insipide, le dissonanze ricercatamente originali
dell’orchestra dei Cavalieri, le leziosaggini delle danze delle “Fanciulle” al primo atto, la
banalità del coro di esse al secondo e certi insopportabili lenocini come nella presentazione
dei Cavalieri, nella canzone del Diavolo, infine in mezzucci vecchi, stantii delle campane,
3.1.6/38
delle sonagliere, degli arpeggi di “celeste”, pesano inesorabilmente sul bilancio passivo
dell’opera.
Scarsissime compaiono in essa le frasi di un lungo respiro.
Dalla tenuità di poche battute melodiche si passa continuamente ad accenni frammentari
che non hanno carattere definito, che non costituiscono neppure il cosidetto declamato
musicale. Dànno l’impressione di una ininterrotta ricerca di qualche cosa che il compositore
non trova. Ne porge un esempio il quadro dell’agape nell’officina di Ekebù ove il lavoro
notevolissimo della tecnica non riesce a dissimulare la povertà del pensiero.
Di quando in quando uno sprazzo di luce, come nel coro superbo degli affamati all’ultimo
atto, come al finale grandioso, impressionante dell’opera.
Quel coro, qual finale, la canzone dei Cavalieri ci dicono che, se neppure questa volta la
battaglia è stata vinta, Riccardo Zandonai può accingersi con coraggio ad affrontarne un’altra.
Egli possiede la capacità necessaria per compiere un’opera degna del suo ingegno.
L’esecuzione
È una singolare fortuna per un operista il poter affidare la sua creazione all’ingegno di un
direttore come Edoardo Vitale. Oltre la sua perizia grandissima e riconosciuta, egli reca
nell’interpretazione di ogni nuovo lavoro – ch’è sempre un’ardua battaglia – una preziosa
qualità: le doti generose del suo cuore. Edoardo Vitale cerca con cura fraterna, con paziente
studio nell’opera altrui quanto vi può essere di più pregevole perché non rimanga nascosto.
Infonde in quest’opera, per quanto è possibile, un calore di vita, una dignità d’arte, in modo
da far tesoro di ogni elemento di successo. Conoscitore perfetto degli stili e dei temperamenti
musicali, egli indovina per così dire il linguaggio appropriato di ogni composizione: intuito
geniale che fu il maggior pregio dei grandi direttori d’orchestra italiani, da Mariani a Faccio a
Mancinelli.
Chi ha assistito sabato sera alla prima rappresentazione dei «Cavalieri di Ekebù» può
essere testimone di quanto Riccardo Zandonai debba ad Edoardo Vitale. E accanto al maestro
vanno ricordati, come è giusto, i suoi collaboratori: il De Angelis8, il Consoli, che istruì la
massa dei cori, il Ricci, preparatore infaticabile, il quale stabilì l’affiatamento perfetto dei
Cavalieri e delle Fanciulle. Infine la meravigliosa orchestra del Costanzi, in seno alla quale si
fece notare particolarmente nei «Cavalieri di Ekebù» il violinista Zuccarini.
Fra i singoli interpreti il successo principale della serata fu senza dubbio quello riportato
dal tenore Francesco Merli, la cui dolce, duttile voce ha infuso nel personaggio di “Giosta
Berling” tutto l’accento di passione che esso comportava, data la sua configurazione
musicale. Artista intelligente e colto, il Merli si è poi studiato di riprodurre scenicamente
l’aspetto del prete sconsacrato cui tormenta il contrasto fra il vizio, l’amore e le migliori
aspirazioni. Fu nel primo atto un ubriaco misurato, senza esagerazioni di volgarità; negli atti
seguenti l’ardente innamorato che nella passione profonda del suo cuore cerca la redenzione.
Dei due applausi a scena aperta che si udirono risonare nella serata, uno andò a lui alla fine
del racconto del primo atto, l’altro al coro pieno, impetuoso del secondo.
Accanto al Merli diede una nuova prova del suo valore artistico il Parvis, che impersonava
“Cristiano”, il duce dei Cavalieri. Il Parvis cercò di mostrarci più che una delle solite figure
convenzionali della scena un personaggio caratteristico, vivente. E vi riuscì e, a sua volta, il
pubblico apprezzò il suo sforzo.
Sara Sadun, indisposta, non si trovava sabato nella pienezza dei suoi mezzi. Doveva inoltre
sentirsi sacrificata in una parte così scarsa di risorse come quella della “Comandante”, parte
che non le permetteva neppure di far valere la venustà della sua figura. Fece quanto può
un’artista del suo valore in un’opera non adatta alla sua voce.
8
Forse lapsus per De Fabritiis.
3.1.6/39
Il continuo alternarsi di due registri in ottava senza, per così dire, note intermedie non
poteva risultare a suo favore. Però anche in tali condizioni la Sadun riuscì a farsi applaudire.
Non mi sembra di aver trovato in Maddalena Bugg l’interprete ideale della parte dei
“Anna”. La sua voce bianca e fredda è risultata in armonia col paesaggio invernale, ma non
ha vibrato in corrispondenza al caldo amore di Giosta. L’arte di questa bionda e rosea
bambola alsaziana rivela l’artificiosità della scuola scenica francese; noi italiani amiamo più
naturalezza e spontaneità.
Ciò non significa che la Bugg non meriti elogio, e in particolare per il modo in cui cantò al
terzo atto.
Il Dentale volle imitare il Parvis, e non a torto. Egli diede anzi troppo rilievo al sinistro
personaggio di Sintram. La De Franco si disimpegnò bene nella doppia parte a lei affidata. Né
il Julio poteva far di più che mostrarsi in quella del tetro Samzelius.
Rammentate le quattro fanciulle, Dorina Tesorieri, Laura Lauri, Margherita Benincori,
Gualda Caputo, tributiamo un caloroso elogio ai Cavalieri, impersonati nei signori Nardi (che
fu però alquanto lamentoso), Marcotto, Pellegrino, Tega, De Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini,
Pastocchi, Freitas.
Pittoresche le scene per quanto riproducessero, piuttosto che la terra di Svezia, paesaggi di
fantasia. Il castello di Ekebù appariva al primo atto somigliante ad un grande albergo
svizzero. Anche meno svedesi i costumi.
La cronaca della serata, messa la descrizione della sala gremita e sfolgorante, si riassume
in poche righe. Alla fine di ciascun atto parecchie chiamate agl’interpreti, al Vitale, allo
Zandonai. Il pubblico volle anche salutare i maestri Consoli e Ricci ed il librettista Arturo
Rossato.
Piacquero soprattutto il finale del primo atto, il coro “in pieno” del secondo, quello degli
affamati al quarto ed il finale dell’opera. Complessivamente un successo di stima e di
simpatia.
258
Ettore Montanaro, Il successo dei “Cavalieri di Ekebù” di R. Zandonai, «Musica» XIX/7,
15.4.1925 - p. 2, col. 2-3-4 / p. 3, col. 1
Il romanzo che sotto il nome di Leggenda di Giosta Berling corre il mondo dal 1891
vorrebbe essere una specie di epopea nazionale svedese, ed ha come tale tutte le
caratteristiche speciali di quel popolo.
Ambiente: nebbia, caligine densa, lunghissime notti, tristezza infinita, neve che attutisce i
rumori e intorpidisce gli animi. L’ubriachezza che per noi, ricchi di sole, è sordido vizio, per
quel popolo è sorgente di calore per il corpo, di fiamma per la fantasia.
Le leggende s’intrecciano, si avviluppano alla realtà; realtà ed immaginazione sono
talmente fuse da non distinguerle più.
Il compito di Arturo Rossato, di togliere cioè da quel groviglio di motivi lirici e
drammatici, da quel fluttuare delle narrazioni e delle immagini, situazioni drammatiche che
manifestassero forze in conflitto per tesserne un libretto, è stato arduo.
Come e perché Riccardo Zandonai abbia poggiato le radici della sua ispirazione su questi
elementi per farne sorgere un dramma musicale a noi poco può interessare; interessa solo il
fatto che il dramma è sorto rapidamente, e rapidamente parla al pubblico.
Questi Cavalieri di Ekebù ci rivelano a priori uno Zandonai tranquillo, sereno e sicuro.
Serenità e sicurezza che derivano precisamente da quel processo di maturazione a cui
l’artista è giunto, in quest’opera, attraverso un coscienzioso lavoro di riflessioni e di
rassodamenti.
3.1.6/40
Con questa ultima e nobile fatica, il M° Zandonai, muovendo speditamente verso una
forma di chiarificazione nell’opera, ha saputo raggiungere effetti di squisito sapore lirico, che
rivelano in lui l’artista di gusto e l’uomo dotato di un vero senso di teatro.
Diciamo uomo di teatro poiché (è dolorosa la constatazione) la schiera degli operisti veri
va assottigliandosi sempre più, non so se per fatale decadimento del nostro melodramma che
consiglia ai giovani di volgere altrove i loro sforzi o se per un eccesso di ossequi a sistemi
cerebro-sentimentali importati da paesi lontani che nulla finora, o quasi, ci dicono – non
discuto qui tali idee, saranno magari nobilissime; certo si è che talvolta assistiamo a fenomeni
veramente strani se non addirittura pietosi!
Né intendiamo affatto pensare che scrivendo oggi per il teatro si debbano fedelmente
ricalcare le linee dell’antico melodramma e rimanere imprigionati in tutti i suoi
convenzionalismi: non siamo dei reazionari!
Molto cammino si è fatto da allora fino ad oggi, e molto ancora – siamo certi – se ne farà;
ma chi questo cammino crede di affrettarlo fino al punto di sconvolgere ogni cosa, praticando
d’improvviso sistemi del tutto inusitati e mal tollerati per il solo capriccio di volere ad ogni
costo fare del nuovo, negando così all’opera di teatro le sue esigenze, per introdurre sul
palcoscenico fardelli di elementi estranei, compirà, secondo il nostro modesto parere, fatica
vana.
Ad un artista dunque quale lo Zandonai, che in questi «Cavalieri» ha saputo con fervida
fantasia ideare, disegnare e realizzare con mano esperta quadri densi di situazioni vive,
distribuendo laddove si rendeva necessario momenti musicali di tale squisita fattura che
lasciano del tutto dimenticare l’irrealismo di cui è manierata l’azione, non si può non
riconoscere qualità eminenti che fanno insieme l’uomo di teatro e l’artista nobilissimo.
***
Molto lungo sarebbe seguire le vicende di tutta l’opera. Ci limitiamo solo a una rapida
ricapitolazione.
Al primo atto siamo in una radura nevosa. È sera. Giosta Berling, prete sconsacrato perché
dedito al vino, erra vagabondo, accasciato dai fumi dell’alcool e moralmente disfatto per
essere stato scacciato dalla chiesa. Deliberato a finirla con la vita, si arresta a spendere le
ultime sue monete chiedendo ancora dell’acquavite. Dopo un breve dialogo con l’ostessa,
sopraggiunge, annunziato dalle sonagliere, Sintram, essere strano che molti credono sia il
diavolo. Giosta, mezzo ubbriaco, lo scambia per Belzebù, vuol vendergli l’anima; Sintram gli
getta alcune monete perché beva ancora e si danni e si ammazzi. Scompare. Salgono la
collina le fanciulle che vanno al Castello per la festa della notte di Natale, guidate da Anna, la
bella figlia di Sintram, la quale scorgendo Giosta buttato in mezzo alla neve vorrebbe
indugiarsi presso di lui, ma è condotta via dalle compagne.
Qui il M° Zandonai schizza un quadretto lirico di una freschezza sinuosa che rompe
l’atmosfera caliginosa.
Entra la Comandante delle miniere e del Castello di Ekebù, energica e maschia figura di
vecchia che, scorgendo Giosta condannato a morire sulla neve, decide di salvarlo ad ogni
costo. Ella racconta le vicende buone e cattive della sua vita, mentre Giosta racconta la triste
sua storia per cui è deciso a morire. Ma la Comandante, rievocando la figura di Anna che egli
potrebbe rivedere la stessa notte nel suo castello, lo persuade a vivere.
Il duetto tra i due procede vivo e serrato, avvolto da un’onda lirica scorrevole che si eleva
in certi punti in frasi melodiche di ampio respiro attraverso le quali il maestro vuole e riesce a
delineare i due caratteri.
Sopraggiunge la matta compagnia dei Cavalieri cantando la loro spensierata canzone, di
ottimo sapore popolare.
3.1.6/41
La Comandante presenta loro Giosta, il poeta del Warmland, nuovo cavaliere. Essi lo
salutano con il loro grido di esultanza: «Heissan! Heissan!» mentre da lontano traversa la
strada Sintram lanciando la sua risata sarcastica.
***
Al secondo atto siamo nella sala del Castello di Ekebù in festa.
Si prepara la recita di una commedia. Anna triste si abbiglia circondata dalle fanciulle. La
scena è resa maggiormente spigliata da un fresco motivo, semplicissimo, in tempo tre ottavi
sulla luminosa tonalità di mi maggiore.
Si ode il rumoreggiare della folla che attende fuori del Castello e, da lungi, la canzone dei
Cavalieri che stanno per giungere.
Dopo di che le fanciulle, fattesi coraggio, strappano Anna a Sintram, lo spingono via ed
aprono le porte alla folla ed ai Cavalieri, i quali irrompendo nella sala accolgono poi
gioiosamente il nuovo cavaliere Giosta, che entra al braccio della Comandante.
L’effetto corale, con il rincorrersi dei vari motivi affidati ai singoli gruppi, è ottimo e rivela
nell’autore una perizia non comune senza cacciarsi, per questo genere polifonico vocale, nei
banchi della scuola.
Interessante la musica della presentazione dei Cavalieri, fatta dal Capitano Cristiano a
Giosta, con la quale il M° Zandonai sottolinea e caratterizza assai felicemente i vari
personaggi.
Il nuovo cavaliere è designato a recitare nel teatrino del castello la commedia con Anna,
che contiene una scena d’amore. Anna è riluttante, ma è lasciata alcuni momenti sola con
Giosta il quale le ripete il suo antico amore che può solo redimerlo. Ella piangente lo
respinge: è un maledetto! Tutti ora rientrano e la rappresentazione incomincia.
Siamo al momento più saliente dell’atto: il duetto d’amore che l’autore ha costruito
solidamente affidando ai due protagonisti frasi di alata fattura, armonizzate magistralmente
con la musica grottesca eseguita dai cavalieri i quali con i loro strumenti disposti in
orchestrina accompagnano il canto sulla scena.
La scena tra i due finisce con un lungo bacio: Anna ammaliata dalle infocate parole
d’amore dette da Giosta cede e si abbandona tra le sue pagine [!]; qui scoppia l’uragano:
Sintram, entrato silenzioso nella sala, balza su un tavolo e giura, urlando, vendetta contro la
Comandante e contro i Cavalieri.
La Comandante colpita da un triste presagio impone a Giosta di ricondurre quella notte
stessa Anna alla casa paterna.
***
Il terzo atto è diviso in due quadri: nel primo siamo nella fucina del Castello di Ekebù; si
fa baldoria dai Cavalieri, riuniti a cena per celebrare la notte di Natale. Un punto qui ci piace
segnalare: il canto del cavalieri: una nenia nordica, che è fatta di nostalgia e di aspirazione
alla bontà.
È un canto semplice, schietto, denso di colorito con interludi di violino: una delle pagine
più belle scritte dallo Zandonai.
***
L’opera si chiude con un quadro su uno sfondo denso di umanità.
Le fucine sono deserte; la folla affamata per la carestia che regna in paese dopo la cacciata
della Comandante, implora che questa torni a dare lavoro e prosperità. Appare Giosta il quale
giura che la Comandante tornerà. Eccola, sorretta dai Cavalieri che l’hanno trovata morente
per via. Essa vuole che la vita torni, e come per incanto i fuochi si riaccendono, il maglio
riprende il suo ritmo pesante, e mentre i Cavalieri intuonano di nuovo il loro canto, la
Comandante muore.
L’autore fa qui appello al suo talento di forte operista e riesce a costruire un momento
denso di suggestione che desta grande interesse; così l’opera si chiude trionfalmente.
3.1.6/42
***
In linea generale, la musica dello Zandonai si è semplificata rispetto alle sue opere
precedenti. Gli spunti descrittivi, le ricercatezze del suo tecnicismo – interessante – hanno
lasciato il campo a un discorso melodico e dritto. Egli lascia scorrere l’onda musicale senza
frenarla. Forse gli è rimasta in alcuni punti una certa maniera solenne ed accademica nei
declamati e certi accenti forzati drammatici. Ma qui tagliamo corto con le osservazioni e gli
appunti. L’autore ha salutato i critici con un triplice raglio d’asino in orchestra all’aprirsi del
teatrino al secondo atto! È un avviso di cui bisogna tener conto.
Zandonai è un grande compositore già da qualche lustro.
I Cavalieri di Ekebù sono un’altra nobile manifestazione della sua arte e da lui altre ancora
ne attendiamo.
***
Lo spettacolo è stato allestito con ogni cura e sfarzo.
Il M° Zandonai dovrà essere molto grato al M° Vitale che ha concertato e diretto l’opera
prodigandovi affettuosamente tutto il suo altissimo valore, realizzando, nella sua giusta
misura da grande direttore quale egli è, tutti gli effetti contenuti nella difficilissima partitura.
Il movimento scenico è stato personalmente curato in maniera brillante dal Comm.
Clausetti della Casa Ricordi.
Agli artisti tutti, che hanno lodevolmente cantato con slancio e impegno l’opera,
chiediamo scusa se lo spazio ci obbliga a rinunziare ad una singola segnalazione.
259
Vice, “I Cavalieri di Ekebù” al Costanzi, «Il Tevere», 30.3.1925 - p. 3, col. 1-2 (con un
bozzetto di scena e, in sovrimpressione, un ritratto di Zandonai)
Della nuova opera di Zandonai che un pubblico compatto ha voluto accogliere lietamente
la parte che maggiormente secca è il libretto.
La leggenda di Giosta Berling che ha inspirato questi Cavalieri di Ekebù è tutta vaporosa e
tenue: i personaggi hanno una inconsistenza fiabesca e le azioni si svolgono come nei libri
delle fate, in una atmosfera tutta nebbie che sfalda i contorni e dà ai più inverosimili incontri
ed alle più strambe avventure un sapore veramente poetico. Arturo Rossato ha voluto
trasformare la leggenda in un episodio qualunque di vita, senza pensare che tutto quel mondo
trasportato dal regno dei sogni nella ben definita cerchia di una Ekebù storica sarebbe
apparso, nella migliore delle ipotesi, per lo meno ridicolo. E difatti i 12 Cavalieri di Ekebù
con quel loro particolare attaccamento agli strumenti musicali ed il grande amore per il vino e
l’acquavite assomigliano terribilmente ad uno qualsiasi dei circoli di divertimento che
fioriscono nei quartieri popolari di Roma; la Comandante per quanto si sforzi di fumare la
pipa e di assumere un tono autoritario non si comprende bene cosa ci stia a fare sulla scena;
Sintram ha un brutto e bilioso carattere; Giosta ed Anna poi sono tormentati da una curiosa
tristezza e spesso pronunziano parole cupe e disperate.
Quale azione possa nascere da simili personaggi non si comprende bene ed infatti le
vicende cui assistiamo non hanno nessuna ragione di essere, ché seguono a cause e premesse
assolutamente arbitrarie. Per questo allorché sentiamo parlare di morte non riusciamo a
prendere la cosa molto sul serio, né ci impressionano le molte parole e le troppe frasi che
sentiamo pronunziare durante i quattro atti. Diremo a conclusione che tutto quanto vediamo
svolgersi appare così esterno e voluto da non interessare affatto e da apparire anzi
terribilmente noioso.
La musica che Zandonai ha posto intorno al libretto di Arturo Rossato non si allontana da
quei canoni che sono stati dichiarati, non si sa bene da chi, caratteristica del melodramma
3.1.6/43
italiano. Per seguire questi canoni che sono la salvaguardia del nostro più puro
tradizionalismo (così dicono alcuni), Riccardo Zandonai si è lanciato a capofitto nel recitativo
più aperto e spampanato che si possa immaginare; quando rimangono soli in scena soprano e
tenore le urla arriveranno al cielo, gli acuti saranno brillanti e seduttori ma la musica non
apparirà mai con i suoi caratteri più veri quali il ritmo e la melodia.
Grandi suoni, un grande affaccendarsi lungo le scale diatoniche e cromatiche, un
arrampicarsi ed un discendere continuo, così, senza nessuna ragione attraverso tutte le
possibilità canore, mai il nascere di una espressione che richiami intorno a sé interesse e
simpatia. Questa, a detta di alcuni, è la vera musica italiana, a noi essa appare invece una
brutta corruzione del recitativo continuo wagneriano.
Nei Cavalieri di Ekebù dominano due elementi: quello cui abbiamo già accennato ed un
altro più vivo e meno informe che accompagna i movimenti di masse, gli scherzi delle
fanciulle, tutto quello insomma che vorrebbe avere un carattere gaio e spensierato. In questi
elementi Zandonai pur non arrivando mai ad assumere un carattere ed uno spirito personale fa
pensare alle sue cose migliori quali Conchita ed alcune parti della Francesca: nuoce però la
preoccupazione di seguire la vicenda che fa deviare la musica dalla via che dovrebbe
percorrere diritta e sicura. Non staremo ad illustrare uno per uno gli episodi musicali del
melodramma: diremo solo che vediamo affiorare qualche attimo di vera vita musicale in quei
momenti dove dominano gli elementi di colore.
E così il coro dei cavalieri nei primo atto ha qualche buon accenno ed il coretto sopra la
melodia del violino sa dare una certa commozione musicale; il finale dell’opera invece appare
retorico e manierato.
A conclusione diremo che «I Cavalieri di Ekebù» ci appaiono nella stessa atmosfera della
Giulietta e non segnano certo un passo avanti nell’arte del maestro Zandonai.
***
L’esecuzione è stata ottima e tale da essere ascritta a lode dell’impresa del Costanzi. Il
maestro Vitale ha curato con grande amore e coscienza la concertazione dell’opera aiutato dal
maestro Consoli che ha istruiti i cori con grande perizia e buon gusto.
I Cavalieri hanno costituito un gruppo straordinario per affiatamento ed abilità. Loro capo
era Taurino Parvis che ha come sempre dimostrata grandissima abilità ed intelligenza, ed i
suoi colleghi Nardi, Marcotto, Pellegrino, Tega, De Petris, Uxa, Giusti, Soffiantini, Pastocchi
e Freitas hanno ben tenuto il loro posto.
La Comandante era la Blanco Sadun che ha fatto di tutto per dare vita ad un personaggio
di stoppa, affermandosi come sempre ottima cantante.
Giosta ed Anna erano impersonati dal tenore Merli e da Maddalena Bugg e può dirsi che
esecutori migliori non era possibile trovarli: i due artisti hanno curato con grande amore la
loro parte ed hanno sfoggiato una voce capace di infinite possibilità.
Bene la De Franco ed il basso Dentale che era Sintram.
Il violinista Zuccarini ha sfoggiato come sempre le sue ottime virtù nella canzona di
Liliecrona9.
Belle le scene ed i costumi dovuti ad Augusto Carelli.
Il successo è stato non molto caloroso ma ha procurato all’autore ed agli interpreti circa
venticinque chiamate.
260
9
Propriamente Liecrona: Liljecrona è la dizione che si trova nel romanzo originale di Lagerlöf.
3.1.6/44
I “Cavalieri di Ekebù” n’ajoutent rien à la renommée du maestro Zandonai, styliste
prestigieux, «L’Italie», 31.3.1925 - p. 4, col. 5-6
Nous commencerons une fois par la fin, puisque c’est de l’inspiration des décors que nous
partirons pour parler du nouvel opéra du maestro Zandonai.
Le créateur des scènes a essayé en effet de donner à son œuvre une valeur purement
lyrique à travers des jeux de lumières et des rayons bleus, verts et violets. C’est par ces
moyens qu'il a réalisé la nuit ne Norvège [!], cette nuit que les livres de écoles élémentaires
appellent la “nuit blanche”. Ainsi l’atmosphère est saccagée malgré un effort sérieux et la
Norvège n’y gagne rien. C’est seulement dans la seconde partie du troisième acte que l’effet
semble un peu mieux saisi, mais il est trop tard. Il en est de même des autres scènes (celle du
château qui rappelle trop Moncalieri, qui n’est précisément pas la Norvège).
La musique nous a laissé la même impression. La riche instrumentation dont Zandonai a
toujours embelli son œuvre est portée ici à ses limites extrèmes et atteint une rare perfection
technique: éblouissante pour les technisiens mais qui ne dit rien à l’oreille du profane.
L’ensemble en souffre et devient monotone et sans expression, même si de nombreux détails
harmoniques peuvent vous intéresser et vous émerveiller.
C’est une “stylisation” orchestrale, mais qui n’a qu’un canavas trop mesquin pour
s’imposer – ce qui n’empêche pas certains fresques tableaux d’égayer l’esprit. Les sensations
parfaitement traduites par la riche sensibilité musicale de Zandonai ont souvent des effets
éclatants, mais sans profondeur d’émotion: telle les harmonies imitatives vigoureusement
fouillées, le sentiment du grotesque rendu par l’opposition des violons et des cors, l’étincelant
tableau des forges, qui dans les cadences rythmiques fait surgir les étincelles du marteau aussi
bien à travers l’orchestre que sur la scène, voilà tant de réels bijoux de cet opéra.
Mais tout ces éléments se perdent dans la grande ligne de la partition qui ne brise jamais le
cadre purement technique. Il faut être des compétents de musique pour s’intéresser à cette
partition, pour suivre avec curiosité les étranges combinations des flûtes et des instruments
profonds, pour prendre en examen avec un intérêt purement scientifique cette instrumentation
mécanique et complexe. Le public ne peut goûter cet effort.
Evidemment le maestro Zandonai a accompli un travail des plus difficiles; mais son tort
est d’avoir choisi un livret aussi vide et sans âme que les Cavalieri d’Ekebù, dont la réduction
(tirée du roman de Selma Lagerloff) nous fait perdre tout respect pour le Prix Nobel accordé à
cette œuvre.
Ce choix nous étonne d’autant plus que l’histoire italienne offre tant de sujets grandioses à
un musicien (et Zandonai l’a vu lui-même avec la Francesca da Rimini, Giulietta e Romeo,
Conchita, etc.). Quel besoin de recourir à des légendes sans signification, telle que celle de la
commandante?
L’effort du maestro Zandonai (de même que celui du metteur en scène) a été énorme, mais
sans résultats. Son talent n’en est pas moins éclatant et plein de possibilités étincelantes.
–––––L’exécution a été excellente de la part de tous les interprètes, qui ont donné à cet opéra
toutes les resources de leur talent.
Le maestro Vitale, mis aux prises avec une partition si âpre et si longue, a su s’en tirer
avec son habituelle compétence et sa fine intuition musicale.
M. Merli a dessiné avec une grande vigueur musicale le rôle de Giosta ed Mme Bugg a
chanté avec une ravissante souplesse. Excellente Mme Sadun dans le rôle de la Comandante
et plein d’intuition M. Dentale qui a réalisé un Sintram réussi. Tous les autres rôles ont
trouvés des interprètes vigoureux et saisissants.
Très fêté aussi le Maestro Consoli qui a dirigé les chœurs avec une grande vigueur.
3.1.6/45
Le succès a été chaleureux et le maestro Zandonai a dû se présenter maintes fois à la rampe
entouré de ses vaillants interprètes.
–––––Assistait S.A.R. le prince héritier, qui a vivement félicité l’auteur.
Dans les loges de la Cour nous avons remarqué: amiral Bonaldi, marquise Campanari, don
Giuseppe et don Alighiero Giovanelli.
Dans la salle on notait de nombreuses personnalités, entre autres le baron Acerbo. On
remarquait aussi: marquise Spinola, comte et comtesse Taverna, marquis et marquise
Carrega, prince et princesse Borghese, duchesse et Mlle di Roccapiemonte, comte et comtesse
Sommi, M. et Mme Masier, Mme Dettori, si élégante dans sa vaporeuse toilette blanc et rose,
Mme Arrivabene, comte Piccolomini, Mme Sleiter très fêtée, aussi que la comtesse [R]olli,
princesse Ruspoli, comtesse Rossi, Mme Carrettoni, Mme Martinez, princesse Aldobrandini,
comte Macchi di Cellere, Mme Zarii, comm. Ravasini, etc. etc.
261
La seconda de “I Cavalieri” al Costanzi, «Il Piccolo», 1.4.1925 - p. 6, col. 2
Iersera, al Costanzi, dinanzi ad una sala affollata di pubblico sceltissimo, si è avuta la
seconda dei Cavalieri di Ekebù, la nuova opera del maestro Zandonai. Assisteva allo
spettacolo anche Umberto Giordano che si associava agli applausi con vivo fervore.
Il successo si è rinnovato nella recita di iersera con lo stesso fervore e con la stessa
unanimità di consensi della première; anzi spesso è stato più caloroso e alla fine dell’opera
entusiastico.
Dopo il racconto del tenore Merli si sono avuti i primi applausi. Alla fine del primo atto
che si conclude con il gaio e spavaldo coro dei Cavalieri, tutto il pubblico si abbandona al più
schietto entusiasmo. Il maestro Vitale e gli interpreti sono evocati alla ribalta. S’invoca a gran
voce l’autore. E Zandonai apparve al proscenio tra il maestro Vitale, la Bugg, il tenore Merli
e il baritono Parvis. Si sono avute sette chiamate.
Il secondo atto interessa per la vivacità e l’originalità della musica e per la costruzione
della scena intonata al grottesco, in cui s’insinua una lieve onda melodica col duetto tra tenore
e soprano. La cronaca segna un vivo applauso dopo il potente e fastoso coro a metà dell’atto –
e dopo la romanza della Bugg. In fine il maestro Zandonai col Vitale e tutti gli interpreti deve
presentarsi alla ribalta sei volte.
Del terzo atto il primo quadro, che contiene le più belle e geniali pagine di questa forte e
ispirata partitura, impressiona per lo spirito musicale e suscita profonda commozione. Alla
fine molti applausi con tre chiamate agl’interpreti e al violinista Oscar Zuccarini che ha reso
l’a solo con vera maestria e sommo spirito musicale. Il secondo quadro interessa vivamente
per la vicenda drammatica e suscita consenti di ammirazione fra il teenore e il soprano. Alla
fine Zandonai ha otto chiamate.
L’ultimo atto, costruito così saldamente e pervaso da un senso di umanità, è seguito con
intensa attenzione. Dal coro iniziale tutto impeti, attraverso il duetto tra i due amanti e l’addio
dolente della Comandante, fino al finale in cui la canzone dei Cavalieri si eleva come un inno
mentre la fucina riprende il ritmo del lavoro tra i colpi formidabili di maglio e il festoso
battere dei martelli, in una sinfonia di suoni – non una scena passò senza che fosse accolta
con favore.
Chiusosi il velario, tutta la sala scatta in un’acclamazione che non tende a terminare, tanto
che Zandonai è indotto a presentarsi alla ribalta ben sette volte. In ultimo un’ovazione saluta
l’operista illustre.
3.1.6/46
L’esecuzione è stata mirabile per valentia dei singoli interpreti e per fusione di tutti gli
elementi vocali e orchestrali. Furono perciò ammirati e applauditi la Bugg, la Casazza10, la De
Franco, il tenore Merli, il baritono Parvis, il basso Dentale e tutto il gruppo dei Cavalieri.
Superbo per slancio e impeccabile per intonazione il coro. Il maestro Edoardo Vitale fu il
trionfatore dello spettacolo per la genialità con cui diresse e animò ogni scena.
Con il successo di iersera I Cavalieri di Ekebù hanno ormai saldamente e definitivamente
assicurata la loro fortuna. [...]
262
Gaffurius, [Vita musicale romana], «Rivista nazionale di musica» VI/187, 3.4.1925 - p. 1035
Il bilancio della prima rappresentazione de I Cavalieri di Ekebù al Costanzi è costituito da
26 o 27 chiamate alla ribalta – oltre 3 applausi a velario levato durante lo spettacolo –
all’autore Zandonai, al librettista Rossato e agli interpreti, fra i quali sono stati applauditissimi
il tenore Merli, il soprano Bugg, il baritono Parvis, il violinista Oscar Zuccarini, la massa
corale ben preparata dal Consoli, la magnifica orchestra e, primo e al disopra di tutti, l’illustre
direttore Edoardo Vitale, che ha penetrato e diretto l’opera con sensibilità, sapienza e
fraternità artistica tali che qui a Roma si è potuto giudicarla ancora più avvedutamente della
Scala, ove Toscanini non era riuscito a dare al secondo atto tutto il rilievo dovuto e possibile,
emerso invece con piena efficacia al Costanzi. La Sadun, che può fare sfoggio ancora di belle
note centrali e basse, non ci è apparsa a suo agio nella parte della “Comandante”, che richiede
il possesso di acuti squillanti e a cui non ha dato il carattere di figura rigorosamente in
predominio su tutti gli altri personaggi della leggenda drammatizzata.
[...]
263
Adriano Lualdi, “I Cavalieri di Ekebù” di Riccardo Zandonai, «Il Giornale d’Italia»,
7.1.1938 - p. 3, col. 3-4
Riascoltata dopo dieci o dodici anni dalla sua prima edizione scaligera, l’opera di Riccardo
Zandonai riconferma, in generale, le impressioni già prodotte.
Ad esprimere con maggiore fedeltà il senso di lontananza leggendaria, di sogno vicino alla
realtà e di realtà vicina al sogno che son proprii della Leggenda di Giosta Berling di Selma
Lagerlöf, sarebbe stata utile, nel congegnare il libretto, una maggiore libertà rispetto alle
buone regole tradizionali della struttura melodrammatica, più coraggio nel tracciare lo
schema della vicenda scenica, meno timore di correre qualche rischio.
Nel romanzo della Lagerlöf, l’amore ha certamente una larga parte; ma più nel senso dello
spazio che in quello della profondità. Non sono i fatti amorosi che, nel libro, più ci hanno
preso e interessato e commosso. Ci ha colpito, bensì, il forte odore di acquavite – “l’odore
ambiente” –, le credenze popolari, gli intermezzi lirici, i costumi paesani, quei Cavalieri di
Ekebù che sono zingari ma attaccati alla loro terra; guasconi ma incapaci di generosità e di
eroismo; scavezzacolli ma pieni di scrupoli; «avventurieri, ragazzacci da frustare», come li
considera la Comandante, ma non indegni di perdono. Gli episodi d’amore sono molti, ma
non di grande rilievo: sembrano narrati più per dimostrare un fondo di rettitudine in tutti
questi personaggi dalle apparenze spregiudicate che per magnificare l’onnipotente forza della
10
Non si comprende se la citazione (unica in tutti gli articoli consultati) di Elvira Casazza in questa produzione sia da
considerarsi una svista da parte dell'articolista o se segnali una eventuale sostituzione della titolare avvenuta in una delle
repliche.
3.1.6/47
passione amorosa. Nella Leggenda, gli affetti familiari hanno quasi più importanza, a
giudicare dai fatti. E tutto in essa si svolge in un mondo fantasmagorico, vicino, più che al
romanzo, al poema.
Al teatro fuori della tradizione di cui, dato l’ingegno del compositore e quello del
librettista, avremmo forse potuto avere un bel saggio; al teatro più lontano dalle abitudini del
pubblico ma più prossimo alle ragioni dell’arte e più vicino allo spirito della leggenda, lo
Zandonai ha preferito il teatro della tradizione e degli schemi e dei motivi scenici più comuni.
Alcuni episodi sono stati scelti da lui e dal Rossato come base dell’azione; i personaggi ridotti
notevolmente nel numero e alcuni fusi in uno solo; l’amore di Giosta e Anna eretto a nucleo e
legame della vicenda teatrale. Quanto ai Cavalieri, essi ci appaiono quasi soltanto dal lato
festaiolo, sì che quando la Comandante invita Giosta ad entrare nella decurie dei suoi protetti
parlando di “redenzione” non si capisce bene di quale redenzione parli. Sinclair e Sintram del
romanzo divengono, nel libretto, una persona sola: Sintram, il quale però è Mefistofele per
due; la Comandante rimane, nel trapasso dal libro alla scena, molto fedele all’originale;
Cristiano e Anna sono, tra le figure secondarie, le più vive.
***
Il senso del teatro, l’estro decorativo, la ricerca della chiarezza e della semplicità nel modo
di esprimersi musicalmente sono le qualità che meglio risaltano in questo spartito di Riccardo
Zandonai.
Tolto molto opportunamente il secondo quadro del terzo atto, che nella prima edizione
milanese era apparso del tutto pleonastico sia dal punto di vista drammatico che da quello
musicale; alleggerita qualche altra scena, l’opera mantiene desto l’interesse dello spettatore,
sia per la varietà e quel che c’è di colorito nel suo tessuto musicale che per la relativa
speditezza del suo procedere: relativa perché non giova ad essa quel molto che c’è di retorico
e di enfaticamente stantio in più di una scena e in più di una situazione. La cosa più notevole
della partitura è, a mio modo di vedere, la scena iniziale del terzo atto, di Liecrona con i
Cavalieri. Liecrona suona sul violino una canzone nostalgica e i Cavalieri rispondono in coro,
sommessamente. Il brano, e specialmente quello corale che ha l’andamento e il potere
suggestivo di un antico canto di popolo, è non solo d’effetto ma veramente bello. Il più bello
di tutto lo spartito. Negli altri atti c’è da ricordare la scena delle fanciulle, nel primo,
convenzionale ma non priva di grazia, il racconto della Comandante, l’arrivo dei Cavalieri, di
sicuro effetto. Nel secondo, il fresco e grazioso inizio della rappresentazione nel teatrino e la
scena dell’apparizione di Sintram, condotte con molta abilità. Nell’ultimo, la prima scena e
quella che segue, fra Cristiano e i Cavalieri, e la fine dell’opera, quando la Comandante
muore tra il frastuono dell’officina nella quale ricomincia a pulsare il ritmo del lavoro: pagina
di poesia e di indubbia efficacia.
***
Ottima è stata l’esecuzione di insieme offertaci da Tullio Serafin di quest’opera.
L’orchestra ha suonato magnificamente sotto la sua bacchetta animata e vibrante: è stata
potente nelle grandi sonorità, delicatissima nelle pieghe liriche. L’insieme dello spettacolo ha
recato ancora una volta il segno della grande aristocrazia artistica del suo primo animatore.
Benissimo ha cantato il coro istruito dal M.o Canca [sic], bene si sono portati gli artisti nel
loro complesso: più lodevoli come insieme però, per la sicurezza e la cura e la serietà dello
studio di cui hanno dato prova, che per le qualità individuali che alcuni hanno mostrato. La
signorina Giuseppina Sani, la Comandante, a parte l’impostazione gutturale che toglie
volume e metallo alla voce e chiarezza e forza alla dizione, ha eseguito come meglio ha
potuto la sua parte; ma certo non le ha dato quella autorità e quella energia di accenti che
sarebbero state necessarie. Al polo opposto, il baritono Benvenuto Franci, Cristiano, che
dispone di quei ricchi e sicuri mezzi vocali che da tempo ammiriamo, ha forse ecceduto in
violenza. bene ha reso, però, il carattere del personaggio. Lodevole è stato José Luccioni nella
3.1.6/48
lunga faticosa parte di Giosta Berling. Egli ha dimostrato ricchezza e forza di mezzi vocali,
ha avuto una dizione abbastanza chiara, è stato scenicamente assai efficace. Molto bene anche
la signorina Pia Tassinari nella parte di Anna, alla quale, sia col canto che con la scena, ha
conferito un appropriato carattere di poesia. Benissimo il Romito nel personaggio di Sintram,
per voce e scena; eccellente Alessio De Paolis, Liecrona, che nella prima scena del terzo atto
è stato, oltre che pregevole cantante, attore perfetto nell’episodio della violinata. Benissimo
tutti gli altri: il Pacini, la Dubbini, il Marucci, il Bianchi, il Titta, il Giusti, il Mazziotti, il
Romano, lo Sbalchiero, il Conti, il Taddei.
Discrete le scene su bozzetti di Giorgio Quaroni dipinte da E. Polidori, ma specialmente la
prima e l’ultima di un carattere novecento che legava male coi costumi di Veniero Colasanti
pretto 1930: precisazione di epoca che, dato il libretto, sarebbe forse stato meglio non
sottolineare.
Il successo dello spettacolo è stato molto caloroso, con cinque o sei chiamate alla fine di
ogni atto a tutti gli artisti, al M.o Serafin, all’autore, al regista Piccinato e al Colasanti.
264
Mario Rinaldi, I Cavalieri di Ekebù al Teatro Reale dell’Opera, «La Tribuna», 7.1.1938 - p.
3, col. 2-3
Il dramma lirico I Cavalieri di Ekebù fu tratto, da Arturo Rossato, dalla Leggenda di Gösta
Berling di Selma Lagerlöf, vincitrice del premio Nobel per l’anno 1909. Sarebbe nostro
dovere esaminare se tanto il Rossato quanto lo Zandonai abbiano interpretato a dovere il
pensiero della illustre scrittrice; ma il lavoro non è nuovo. Ci limiteremo perciò a fare poche
considerazioni di carattere generale.
Zandonai, lo si è detto mille volte, è un romantico, ma il romanticismo, nel Cavalieri di
Ekebù, non si manifesta tanto nel lato amoroso quanto in quello fantastico. La leggenda
originale esigeva questo. In Francesca e in Giulietta tutto è avvolto nell’amore, in
quest’opera invece tutto è pervaso di mistero. La Comandante è soltanto apparentemente
l’animatrice dell’azione; ma sopra di lei, nell’ombra, c’è il genio malefico di Sintram. E
questi ha una certa parentela con Samiel, il “Cacciatore nero” del Freischutz [sic].
Romanticismo...
Nei Cavalieri di Ekebù le parti d’assieme sono nettamente superiori agli a soli e ai duetti.
Basterebbe citare, per convincersene, l’allegra masnada dei buontemponi ospitati e sfamati
dalla Comandante. L’amore tra Anna e Giosta può interessare, ma non appassiona e non
avvince. Chiunque altro avrebbe portato in primo piano questa coppia sfortunata e felice.
Zandonai invece ha preferito dare un carattere ad ogni singolo personaggio, imprimere un
colore ad ogni atto. La prova evidente di questa affermazione ce la forniscono principalmente
la figura della Comandante e tutto il terzo quadro. Senza l’aiuto di temi e di astruserie
orchestrali il musicista ha impresso alla parte della donna un carattere di superiorità che la
leggenda originale esigeva. Nell’assistere al terzo atto – compatto, organico, ardito nella
concezione – ci sono venuti alla mente i nomi di Velasquez e di van Tilborgh: così Borodine,
nel descriverci nel suo Principe Igor le orgie di Galinski, non ha attinto da diversa fonte.
Dovremmo ancora ricordare l’entrata delle donne al primo quadro, l’apparizione dei
cavalieri con il loro festoso inno, l’appassionata rappresentazione del secondo atto, la morte
della Comandante, ma lo spazio ce lo vieta.
L’opera ha certamente i suoi difetti, qua e là manca d’ispirazione, al primo atto procede un
po’ indecisa, ma nel complesso appare quale produzione d’un musicista esperto, padrone
dell’orchestra e conoscitore del teatro. Abbiamo ragione di ritenere, inoltre, che Zandonai
3.1.6/49
sarebbe stato ancora più convincente se il Rossato avesse saputo cogliere con più grande
evidenza le parti di maggior effetto del testo originale.
L’interpretazione dell’opera da parte del maestro Tullio Serafin è stata felicissima: coloriti
perfettamente impastati, sonorità ben dosate, slanci sicuri ed efficaci. La massa orchestrale ha
secondato il suo direttore con encomiabile accortezza. Nella difficile parte della Comandante
si è fatta ben notare, per la sua intensa drammaticità, Giuseppina Sani, la quale ha suscitato
emozione ed impressione nei due quadri della partenza dal castello e della morte. Gentile e
amorosa si è rivelata ancora una volta Pia Tassinari (Anna) che ha avuto momenti di estrema
dolcezza, particolarmente nel duetto del secondo atto. Il tenore José Luccioni ha dato tutto se
stesso nella parte di Giosta: ci è molto piaciuto, nella bella scena del primo quadro, sia come
cantante che come attore. Benvenuto Franci conosce a meraviglia la parte di Cristiano: ieri
sera attirò più volte su di sé l’attenzione del pubblico; il suo canto è sempre generoso e la sua
dizione è sempre chiarissima. Nella terrificante parte di Sintram abbiamo applaudito Filippo
Romito, artista non troppo noto a Roma, ma che qualcuno ricorderà in una avvincente
esecuzione del Boris al Teatro Quirino. Il Romito – beato lui – sta sul palcoscenico come in
casa propria e vanta una voce forte e ben timbrata. Una parola di lode va anche diretta ad
Alessandro [sic] de Paolis che è stato cantante e... violinista di prim’ordine: molti spettatori
hanno avuto la precisa sensazione che fosse lui a suonare l’istrumento di Paganini, ma dietro
le quinte, invece, c’era il professor Rovere che... pensava al resto. Ricordiamo inoltre il Pacini
e la Dubbini e il gruppo dei Cavalieri.
Ottimo il coro diretto dal Conca e suggestivi, con caratteri di sana novità, i bozzetti scenici
di Giorgio Quaroni, realizzati dal Polidori; additiamo in modo particolare la desolante scena
del primo atto e il colorito quadro della fucina al terzo. Ricchi, vari e pittoreschi i costumi di
Veniero Colasanti. Efficace e brillante la regìa del Piccinato, il quale ha impresso un carattere
di personalità al bellissimo quadro della notte di Natale.
Tullio Serafin e i suoi collaboratori sono stati fatti segno a numerose chiamate alla ribalta;
si è anche presentato Riccardo Zandonai che il pubblico romano ha riveduto e applaudito con
vero piacere.
265
Notte d’Epifania
«... Appena si spensero le luci in sala per l’inizio del quarto atto, le signore
incominciarono nel buio a manovrare cautamente le mani sotto gli abiti preziosi, senza
distogliere l’interesse dallo spettacolo. Si udiva un fruscio di sete e di rasi che sembrava un
mormorio di primavera.
Mancavano pochi minuti alla mezzanotte: le signore pian piano si sfilarono una calza che
con una spilla od un fermaglio di brillanti venne assicurata al davanzale del palco o al
bracciolo della poltrona. Poi, nella sala, si stabilì un’aria di trepida attesa.
Quando si riaccesero le lampade, era mezzanotte e un quarto: la Befana era passata a
cavallo alla sua scopa e le calze erano colme di gioielli, di conti della sarta pagati, di buoni
per ascoltare gratuitamente le voci di Gigli e di Lauri Volpi, della Cigna o della Tassinari...
Era la befana offerta dai cavalieri, non di Ekebù, ma dai cavalieri e commendatori che
avevano accompagnato iersera al Reale le rispettive splendenti consorti, la befana offerta
dalla direzione del magico Teatro alle sue belle fedeli. Con piccole grida di gioia, le calze
ricolme vennero ritirate dalle proprietarie che giubilando e applaudendo si affrettarono
all’uscita con una calza alla gamba e l’altra in mano come se avessero fatto la spesa al
mercato delle meraviglie.
Belle e luccicanti come fate, le signore iersera meritavano simili doni e avevan diritto di
credere ancora al sogno nutrito in una non troppo lontana fanciullezza...».
3.1.6/50
Invece non è stato così. Non è accaduto nulla di tutto ciò: cavalieri, commendatori e
direzione del teatro non hanno riempito nessuna calza.
Chi crede più alle favole ed ai miti dell’infanzia?
Chi.
266
m[atteo] i[ncagliati], I Cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, «Il Messaggero», 6.1.1938 p. 5, col. 3-4
I Cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai non venivano riprodotti sulle nostre massime
scene da diciassette11 anni. Nel farne ritorno, è parso che la lunga assenza sia da addebitarsi a
un errore di miopia. Perché un’opera come questa, di tale e tanta spiccata originalità, meritava
di essere tenuta d’occhio.
I quattro atti – e duole che in questa edizione sia stato soppresso quello del Natale, di così
profonda e sentita nostalgia – rappresentano tanti distinti ambienti, ché in ognuno di essi
l’autore ha saputo trovare un clima di evidente suggestione, clima che è generato da una
sensibilità in stato di commozione, di grazia. Appunto, per ciò, tutta l’opera è segnata da uno
spirito e da una fantasia di schietta profondità espressiva e figurativa. V’ha in essa un tale
slancio drammatico e una tale effusione di lirismo che può ben dirsi che tutta l’opera si elevi a
un grado di eccellenza psicologica e teatrale. Ed era compito codesto ben difficile a tradurre
in forma, se si pensa che la favola si svolge in terra straniera, nella Svezia, in un’epoca
lontana. Ora con i ritmi e il colore, opportunamente ideati e sviluppati, i Cavalieri di Ekebù
hanno un vibrante risalto sia nella struttura sia nelle oasi di profonda incisione sulle fonti o
sulle tenere emozioni suggerite dalla vicenda. E sono incisioni di schietta [e] ardita fantasia.
Nella scena del “teatrino” al secondo atto, il lirismo zandonaiano culmina nella maggiore
espansività; ed è forse, dei quadri con il richiamo della musica antica, sottolineata da tutto un
substrato di modernità, il più caratteristico. Senza dire degli altri quadri, è da mettere in
chiaro questo: che nei Cavalieri di Ekebù Zandonai ha raggiunto il giusto equilibrio tra gli
elementi della scena e quelli dell’orchestra, e, secondo le opportune incidenze sceniche, con
tale misura che emerge ora l’uno ora l’altro. Sotto l’aspetto dei vivaci contrasti si notano,
egualmente disciplinati, il pittoresco, lo spirito drammatico, quello descrittivo, quello lirico.
A un’opera così complessa, Tullio Serafin, che già l’aveva diretta al Metropolitan di New
York, ha prodigato tutta l’energia della sua maestria, tutto lo spirito della sua fantasia, tutta
l’effusione della sua tempra d’artista. Si è riconosciuto iersera una vigorosa commossa
dedizione nel nobile intento di portare al successo l’opera, un tale equilibrato slancio
drammatico e un tale abbandono di verace lirismo, che è parso suo scopo precipuo
d’infondere ai Cavalieri di Ekebù una risorgente vita scenica.
Primeggiò sulla scena il baritono Benvenuto Franci che al finale primo sfoggiò con ardita
espressività le ampie folgoranti note del registro alto; e poi nel secondo atto modulò il canto a
dolcezza di mezza voce, attraverso una incisività di sillabazione in particolar modo lodevole.
Ché questo grande artista segue i precetti del suo glorioso maestro, Toto Cotogni, che
gl’insegnò che a ben cantare bisogna mettere in valore la parola, l’accento, la espressività.
Senza di che è come cantare in un imbuto. Facendo onore al prezioso insegnamento il Franci
disegnò e animò la figura di Cristiano con tocchi di potente rilievo e con gradassi
atteggiamenti.
Nella figura complessa e arditamente espressiva della Comandante, Giuseppina Sani cantò
con tutti i moti di un’anima in tumulto: bella, armoniosa voce, squillante e di bel colore nelle
11
In realtà tredici.
3.1.6/51
note acute, e sillabazione incisiva. È da aggiungere che all’efficacia del canto, ella associò
uno spirito interpretativo di eccezionale rilievo. Fu dunque una Comandante che scolpì il
personaggio, e con la voce di questo concorse a esprimere con potente risalto i vari agitati
stati d’animo.
Pia Tassinari cantò nel secondo atto con dolcezza e effusione di caldo lirismo. Il tenore
José Luccioni s’infervorò, emettendo forti acuti, nei punti drammatici, ma la sua voce difetta
di quei chiaroscuri che valgono a dar varietà di colori al canto. Il basso-baritono Filippo
Romito conferì alla sua parte incisività d’accenti.
Con responsabilità assolsero il compito loro tutti gli altri: Adolfo Pacini, Alessio de Paolis,
Agnese Dubbini, Millo Marucci, Mario Bianchi, Enzo Titta, Blando Giusti, Nino Mazziotti,
Salvatore Romano, Bruno Sbalchiero, Gino Conti e Giuseppe Taddei.
Il coro, istruito dal valoroso infaticabile maestro Giuseppe Conca, cantò con intonazione e
con bell’accento, e con fusione colorita, recando all’opera il concorso di una efficace
collaborazione. La messa in scena, affidata a Carlo Piccinato, fu intonata all’ambiente; e ben
distribuite, pittoresche apparvero le figurazioni della massa corale. Pericle Ansaldo, con
quella sua versatilità così pronta e agile, parve assurgere a un deus ex machina della
complessità dell’allestimento scenico. Il maestro Luigi [parte illeggibile] festa di colori, i
costumi, su figurini del Colasanti.
Cronaca lieta: molti intensi applausi a fine di ogni atto con circa venticinque chiamate
complessive al Serafin, agli interpreti di canto e all’autore, festeggiato e acclamato.
267
L[uigi] C[olacicchi], “I Cavalieri di Ekebù” di Riccardo Zandonai, «Il Popolo di Roma»,
6.1.1938 - p. 5, col. 6-7
Fra gli operisti italiani viventi, per così dire, a grande tiratura, Riccardo Zandonai è il più
giovane ma non il meno quotato. Non lo battono in popolarità che i maestri della “giovane
scuola” Mascagni e Giordano, e, fino a un certo punto, Cilèa. Ma Zandonai sembra a molti il
più “moderno” di tutti, il più aggiornato tecnicamente, e insieme il continuatore di una
tradizione che, partendosi da Wagner e dai veristi, giunge fino a noi senza urtare negli scogli
dell’“avanguardia” contemporanea. Zandonai ha insomma un suo pubblico che vede in lui il
genuino rappresentante della modernità bene intesa.
Ecco, per l’appunto: la “Sana modernità”. Zandonai è precisamente l’operista della “sana
modernità”; che sa trattare con scaltrezza l’orchestra, arricchendola di tutti i ritrovati della più
avanzata strumentazione, nel mentre sa esprimersi melodicamente mediante un linguaggio fra
passionale e sensuale, fra enfatico e raffinato, che ricorda in qualche modo il verismo e il
wagnerismo, senza che sia né l’uno né l’altro, e senza tuttavia che riesca a definirsi con
caratteri fortemente personali. È esso un linguaggio, comunque, non privo di commozione,
che è quanto dire di facoltà liriche; specie quando descrive sentimenti torbidi o repressi o
indistinti, oppure certe atmosfere grigie e malsane. Non è il linguaggio della gioia e del
luminoso amore, come c’insegnano «Francesca», «Giuliano» e «Giulietta e Romeo»; e ben lo
definì il Rossi Doria allorché trovò che “anche l’accordo perfetto di do maggiore non suona
gioioso o compiutamente sereno. Vi si ha sempre il dubbio di sottintesi...”. Quando infatti
questa musicalità si schiarisce e si alleggerisce, ossia nella «Farsa amorosa», si ha un altro
Zandonai, meno autentico anche se più fresco e grazioso.
Da quanto si è detto, è facile immaginare che il soggetto tra fiabesco e allucinato dei
«Cavalieri di Ekebù», che ben potrebbero chiamarsi cavalieri di Belzebù per quel clima
diabolico che alita intorno ad essi e alla loro Comandante, è un soggetto tipicamente
zandonaiano. E invero ci sembra che il nostro compositore vi abbia trovato materia
3.1.6/52
sufficiente per farvi risaltare la sua natura; una materia così fosca opaca pesante, che al
musicista non ha concesso che raramente di abbandonarsi a quei voli melodici violenti quanto
esteriori che si notano invece di frequente in «Giulietta e Romeo» e più ancora in «Giuliano».
In «Ekebù» la vena sarà forse meno ricca e densa che in queste opere e in «Francesca»; ma
nei «Cavalieri di Ekebù» ci pare di scorgere una maggiore nobiltà di linea, un composto
equilibrio di tutti i suoi elementi teatrali e musicali.
Per certi motivi di ambiente, per certa compattezza di forza descrittiva, per certi interventi
corali, per certo martellamento ritmico scoperto o sotterraneo, i «Cavalieri di Ekebù» ci fanno
pensare un poco al «Dibuk»12, meno realizzato. Vogliamo dire che ci troviamo pressappoco
sullo stesso piano operistico con personaggi dalla psicologia complessa e insondabile, avvolta
nelle nebbie dell’alcool o nelle brume di un passato procelloso. Si tratta naturalmente di
impressioni fugaci, suscitate più che altro da analogie momentanee, e alle quali non
vorremmo si desse troppo peso. Resta comunque il fatto che, pur con mezzi musicali più
modesti delle altre sue opere, vale a dire con minore ricchezza e slancio di melodia, i
«Cavalieri di Ekebù» sprigionano egualmente un certo potere emotivo: più sensibile, ben
inteso, quando siano valori di pura musicalità ad assorbire e dominare il dramma.
In questi casi la felice impressione che può destare il buon taglio d’una scena,
l’accostamento di due episodi contrastanti, l’abile distribuzione del colore ambientale, è fatta
più viva e immediata dal riflesso che tali coefficienti di teatralità hanno nella musica. Come
avviene, ad esempio, nel finale corale del primo atto in cui il tema ritmico dei Cavalieri si
afferma imperiosamente, nel finale lirico del secondo, tenero, sentito e notturno come i più
toccanti momenti di «Francesca», nel coro a voci sole del terzo, trapunto dagli svolazzi d’un
violino, nel duetto di Giosta e Anna dell’ultimo atto e nel ritorno della Comandante, pure di
quest’atto. Il finale dell’opera, con la ripresa del lavoro al ritmo delle incudini, è invece
alquanto esteriore, e ci sembra che non adempia nemmeno alla sua funzione teatrale.
Opera complessa e difficile, i «Cavalieri di Ekebù» offrono numerose possibilità di
spettacolo. E l’allestimento che ne ha curato ieri il Teatro Reale dell’Opera è stato dei più
adeguati che si potesse desiderare, e senza dubbio uno dei più attraenti dell’attuale stagione.
Efficientissima la realizzazione musicale, affidata a Tullio Serafin, che ha penetrato a fondo
lo spirito della partitura, mettendone in luce ogni elemento vocale o strumentale che avesse
una sua ragione di particolare rilievo. Efficientissima anche per la partecipazione di cantanti
valorosi e appropriati quali Giuseppina Sani, che è stata una Comandante di risorse
ragguardevoli, dalla voce adatta a quel personaggio e in ispecie dal gioco scenico plastico,
possente, efficacissimo, che denota un’intelligenza interpretativa di prim’ordine; Pia
Tassinari, in Anna, che è il personaggio lirico femminile, aderente e commovente; José
Luccioni, Giosta, ieri sera in pieno possesso dei suoi robusti mezzi canori come non mai; e
Benvenuto Franci, il sempre possente Franci dalla voce di bronzo, semplicemente perfetto nel
Capitano dei Cavalieri.
Assai bene anche Filippo Romito. A una simile efficienza musicale ha infine portato il suo
contributo il coro istruito dal maestro Conca: un coro che ha molto da lavorare, ed ha assolto
egregiamente il suo compito, risultando intonato e vigoroso.
Quanto alla parte scenica dello spettacolo, vi hanno cooperato il regista Carlo Piccinato,
che ha trovato nella molteplicità dei quadri d’insieme, di cui l’opera abbonda, materia adatta
alla sua sensibilità e alle sue possibilità di affreschista pittoresco; lo scenografo Giorgio
Quaroni i cui bozzetti realizzati dal Polidori sono parsi indovinati soprattutto nel primo e
nell’ultimo atto: questo, che rappresenta l’officina e il cortile del castello di Ekebù immerso
in una luce livida da miniera nordica; e finalmente il direttore dell’allestimento Pericle
12
Opera di Ludovico Rocca (1934).
3.1.6/53
Ansaldo, che ha offerto un’ennesima prova della sua fertilità in fatto di trovate sceniche e di
“meccanismi” d’ogni sorta.
Lo spettacolo, al quale assisteva un pubblico numerosissimo, è stato accolto da crescente
successo, concretatosi in venti chiamate complessive all’autore, ai cantanti, al maestro Serafin
e al regista.
268
Vice, “I Cavalieri di Ekebù” di R. Zandonai al Teatro Reale dell’Opera, «Il Tevere», 67.1.1938 - p. 3, col. 4-5
La leggenda di Gösta Berling di Selma Lagerlow [sic] che nell’adattamento librettistico di
Arturo Rossato ispirava l’estro di Riccardo Zandonai (1925) subito dopo Giulietta e Romeo
(1922), è tornata dopo tredici anni a rivivere sulle scene del Teatro Reale, sotto la direzione di
Tullio Serafin. La strana Comandante delle miniere di Ekebù con lo scudiscio in mano e la
pipa in bocca, l’amore di un ex-prete sognatore e bevitore di acquavite per la bionda figlia di
un uomo-demonio, il fare grottesco dei Cavalieri minatori, gli urli di una folla fanatica
imprecante contro il pastore evangelico amante, possono attrarre ed entusiasmare il popolo
svedese che attraverso quelle figure rivede i personaggi tipici delle leggende nazionali, non
noi mediterranei che dallo spirito di quelle leggende siamo molto lontani, pronti ad
entusiasmarci invece per ben altri episodi, in cui la passione umana, innanzi tutto, trovi motivi
più adeguatamente realistici per esplodere e giustificarsi, sia pure in tema di leggenda.
Facendo dunque astrazione dall’episodio romanzesco e fermando l’attenzione sulla parte
musicale, bisogna riconoscere che il maestro trentino ha intuìto perfettamente lo spirito
drammatico del libretto e l’ha ritratto con mano sicura, dando ad un’azione così frammentaria
una unità di costruzione che la sorregge ed inquadra nei confini dell’opera in musica. La
stessa scena romantica della commedia – teatro nel teatro – che si svolge nel castello di
Ekebù è incastonata così meravigliosamente nel secondo atto dell’opera da formare con
quello un tutto organico. È questa, senza dubbio, la pagina più bella dello spartito, nella
quale, attraverso l’amore dei giovani amanti, lo Zandonai rivela il suo temperamento caldo e
appassionato quale era già apparso in Francesca e in Giulietta. Il contrasto tra la musica dei
Cavalieri – la parte finta della commedia – e la musica dei protagonisti – la parte reale della
commedia stessa – è reso con tale potenza espressiva e con tale unità di stile da far pensare ad
un vero miracolo di tecnicismo musicale.
Se la parte episodica dei Cavalieri di Ekebù e l’assenza di una vicenda drammatica più
intensamente umana – e quindi musicale – potrebbe consentire un’attenuante sulla rarità delle
rappresentazioni dell’opera nei teatri nazionali, non così invece il lato artistico dell’opera
medesima, che rivela una costruzione solida e vitale per una chiara impronta di originalità che
il compositore ha saputo dare alla sua melodia.
***
Tullio Serafin ha condotto l’orchestra con robusta animazione, penetrando la partitura con
animo sempre aderente allo spirito caricaturale, poetico e drammatico della nordica leggenda.
Pia Tassinari ha interpretato la parte di Anna con appassionato fervore e con voce sicura e
pieghevole ad ogni effetto. José Luccioni ha dato molta enfasi alla parte del pastore
evangelico (Gösta) supplendo così alla debolezza del registro medio della sua voce. Ha
espresso il racconto al primo atto con esuberanza passionale e la dichiarazione amorosa nel
duetto del secondo atto con impeto drammatico. Giuseppina Sani nella difficile parte della
Comandante si è rivelata un’artista ricca di risorse interpretative, benché la voce non
possegga potenti vibrazioni sonore. Superiore ad ogni elogio Benvenuto Franci che nella
veste di Cristiano ha sostenuto la duplice parte caricaturale e drammatica dando ad ognuna un
3.1.6/54
potente efficace risalto. Anche Filippo Romito nella veste di Sintram si è fatto molto
ammirare per la chiara dizione e la voce ampia e sicura. Una lode ad Alessio De Paolis che,
oltre a confermare le sue notevoli qualità di cantante, ci ha dato l’illusione perfetta di un abile
violinista. Al coro istruito dal maestro Conca spetta un particolare elogio. Gli applausi
numerosi alla fine di ogni atto, rivolti al maestro Serafin e agli interpreti, sono divenuti più
intensi e calorosi quando al proscenio è comparso il maestro Zandonai.
269
Giorgio Prosperi, “I Cavalieri di Ekebù” di Zandonai al Teatro dell’Opera, «Il Piccolo»,
6.1.1938 - p. 3, col. 7
Il maggior titolo di merito di quest’opera è senza dubbio quello d’aver imposto
trionfalmente in vari paesi il nome di un musicista italiano; da Riga a Stoccolma, dove essa è
considerata ormai come opera nazionale. Sotto questo punto di vista la nostra gratitudine
verso lo Zandonai è veramente vivissima; l’illustre maestro tuttavia non ce ne vorrà se
continuiamo a preferire la sua Francesca e la sua Giulietta, le quali assieme ad una quantità
innegabilmente superiore di invenzione musicale realizzano un clima secondo noi più affine
allo spirito dell’autore.
La leggenda nordica, con la uniformità dei suoi ghiacci e delle sue nebbie e il fuoco
nascosto dei suoi diavoli, si fonde dolcemente al tepore mediterraneo, senza crolli e senza
sussulti; più d’una volta il dramma prende il sopravvento sulla musica, scendendo più in giù
del recitativo fino al declamato: e qui certo niente di male; ma il gelo del fiordo assidera i
contrasti sentimentali fino a risolverli per naturale liquefazione.
Tuttavia, se non proprio l’unghia del genio, senti qua e là l’esperienza e la classe: il finale
del maglio è uno strumento scenico di prim’ordine. Il primo coro dei cavalieri non manca di
potenza e di effetto. Occorrerebbe forse, per valutare tutto nella sua giusta misura, una
esecuzione eccezionale sotto ogni punto di vista; quella di iersera fu purtroppo solo normale,
che non è poco date le difficoltà della partitura; ma non è nemmeno moltissimo. Il tenore
Luccioni, attore eccellente disciplinato, volonterosissimo, possiede una voce di ottimo timbro
ma di eccessiva uniformità: i suoi interventi si somigliano tutti, senza distensione [?]; Pia
Tassinari e Benvenuto Franci furono le due figure più a posto: ottima voce, ottima scena
specie il Franci che la dominò in lungo e in largo col canto e coi movimenti; Giuseppina Sani,
che dispone di mezzi senza dubbio adattissimi alla figura di Comandante, attese gran parte
del primo e del secondo atto per metterli totalmente in valore; Filippo Romito, Sintram,
alternò momenti di pieno convincimento a qualche ritardo dell’azione sul canto. Eccellente
sotto ogni punto di vista fu la compagine dei Cavalieri e delle Fanciulle. In compenso di
qualche perdonabile incertezza nella schiera dei protagonisti, registriamo invece stavolta con
piena soddisfazione il perfetto allestimento dello spettacolo. Eccellenti le scene del Quaroni,
specie quelle del primo ed ultimo atto, d’un lievissimo senso fiabesco; ben inquadrata ed
equilibrata la regìa di Piccinato; il maestro Tullio Serafin fu il consueto forte trascinatore del
complesso vocale e orchestrale. In complesso uno spettacolo più che soddisfacente, che il
pubblico mostrò di gradire sinceramente, se si considerano i numerosissimi applausi e le
calorose manifestazioni di simpatia tributate personalmente all’autore.
270
Francesco Mecheri, “I Cavalieri di Ekebù” triomphent au Royal dans une admirable édition,
«L’Italie», 7.1.1938 - p. 1, col. 1-2-3-4
3.1.6/55
Devant un public d’exception, la Direction du Royal nous a présenté hier une édition
superbe de ces «Cavalieri di Ekebù» du maestro Riccardo Zandonai, opéra qu'on avait le tort
d’oublier pendant trop de temps, puisqu’il ne parissaît plus sur nos scènes depuis dix-sept13
années.
Certes, le livret que l’illustre compositeur de Rovereto a choisi pour l’enrichir de notes
suggestives – et que le poète Arturo Rossato a tiré avec un sens aigu d’une légende
norvégienne [!] de Selma Lagerlöf – présente des difficultés insurmontables, tellement il reste
loin de notre sensibilité latine.
Car les personnages qui vivent cette espèce de “saga”, même s’ils sont campés avec une
vigueur puissante, nous laissent en général indifférents pour tout ce qu’ils font, et bien
rarement arrivent à nous émouvoir.
Comment pourrait-on admettre chez nous qu’un ivrogne tel que ce malheureux Gösta
Berling puisse frapper le cœur d’une âme câline et douce, de cette Anna – la figure la mieux
réussie du drame? C’est vrai qu'avant d’arriver à un tel état de compréhension, il y a entre les
deux – au deuxième acte, dans la scène du “teatrino” – un dialogue dont il serait injuste de ne
pas reconnaître la ravissante chaleur. Et puis, dans cet acte nous trouvons un Gösta
admirablement transformé par les soins de cette curieuse héroïne qu'est la “Commandante”.
Mais tout cela est-il suffisant pour enflammer d’amour une jeune fille si pure et rêveuse?
Nous nous permettons de ne pas le croire. Et ces drôles de types que sont ces chevaliers, ne
vous paraissent-ils pas assez ingrats envers leur bénéficatrice – car, au fond, ils sont des ratés
– lorsqu'ils l’insultent et la menacent de mort, jusqu'au point de la forcer à abandonner le
champ?
Nous estimons vivement à cet égard que l’œuvre de rédemption entreprise par cette
Commandante – qui, d’ailleurs, est une femme dans le vrai sens du mot, et non pas une sainte
– ne peut pas avoir fait d’eux des êtres séraphiques, capables de la renier au moment où ils
connaissent l’origine de toutes ses richesses. Nous ne voyons en eux que des ingrats! Et pour
l’admiration que nous avons pour le réalisme sur la scène, nous préférons de ne pas vous
parler de cette ignoble figure de Sintram, le père d’Anna – le personnage le plus obscur que
nous ayons jamais vu – qui nous fait tout simplement rire, tellement son apparition soudaine
en diable nous laisse au troisième acte incrédules.
L’unique belle scène du drame – nous entendons le drame en prose, non le livret de M.
Rossato, qui d’une matière si âpre a tiré un vrai “miracle” d’adaptation lyrique – reste à notre
avis la mort de la Commandante. Ici, enfin, nous nous trouvons en présence de personnages
humains: ici nous commençons à comprendre la beauté trop cachée de cette œuvre. Un peu
tard, si l’on veut!
Le sujet donc est d’une froideur glaciale. Tout autre musicien que M. Zandonai n’y aurait
pas vu son affaire. Mais notre illustre compositeur s’est senti plus sûr que les autres, a fait la
tentative et avec ses mélodies harmonieuses et fougueuses en même temps a sauvé l’opéra.
Il y a, en effet, dans cette partition, des pages d’une beauté supérieure, où vous pouvez
facilement vous apercevoir jusqu'à quel haut degré peut arriver la veine inépuisable d’un
musicien de génie.
En M. Zandonai – nous sommes heureux de le constater une fois de plus – plusieurs talents
sont réunis ensemble. Car non seulement ce maestro a une sensibilité particulière au point de
vue mélodique, mais il est aussi un symphoniste d’une puissance unique et de même un
savant polyphoniste.
En outre, il connait à la perfection l’orchestre et sait quels miracles on peut avoir de tour
instruments, soit seul soit à l’unisson.
13
Cfr. nota 11.
3.1.6/56
Quelques pages, telles que la “Chanson des Chevaliers” au premier acte, le duo d’amour
entre Gösta et Anna au deuxième, l’invective des Chevaliers et la réponse de la
Commandante au troisième, et enfin la sublime scène le ma Mort de celle-ci, ne peuvent
d’aucune façon laisser indifférent tout esprit doué d’un minimum de sensibilité, mais au
contraire enthousiasment ceux qui comprennent les vraies beautés d’une musique originale et
toujours chaude ed émouvante.
L’exécution que le Royal nous a offerte nous a parue digne de son nom. Mme Giuseppina
Sani a été une Commandante douée d’une énergie virile et a chanté constamment avec un
équilibre propre de sa haute classe; Mme [!] Luccioni a été de son côté un Gösta efficace et
riche en expressions romanesques et dramatiques. Mme Pia Tassinari a donné une nouvelle
preuve de son talent multiforme d’artiste consciente de sa noble mission.
Nous ne pouvons absolument dire aucun bien de M. Franci, qui n’a fait que crier et
gesticuler d’une façon horrible, sans jamais donner l’impression d’avoir pénétré le rôle qu'on
lui avait confié.
M. Tullio Serafini [sic] a dirigé les “Cavalieri” avec le zèle qui lui est habituel et qui fait
de lui la meilleure baguette que nous ayons désormais chez nous.
M. Carlo Piccinato a été un régisseur qui a bien mérité nos louanges.
Dignes d’éloges sont aussi les décors de M. Polidori et les costumes sur manchettes de M.
Colasanti.
L’auteur a été évoqué plusieurs fois à la rampe avec les interprètes et les autres
organisateurs de cette belle soirée.
[...]
271
Mario Rinaldi, [La musica a Roma - Teatro Reale dell’Opera], «Rassegna dorica» IX/4,
20.2.1938 - p. 69
Riccardo Zandonai è tornato al Teatro Reale con i Cavalieri di Ekebù, opera che non si
rappresentava a Roma da vario tempo ma che possiede pagine di valore come quella della
recita al 2° atto e come tutto il 3° atto che, nel suo complesso, forma un quadro di interesse
musicale non comune. Il romanticismo dello Zandonai si palesa in questo lavoro più nel lato
fantastico che in quello sentimentale e questo va a onore dell’autore il quale avrebbe
certamente meglio espresso musicalmente il romanzo originale se il Rossato avesse compiuto
una rifusione più fedele. Ottima l’esecuzione diretta con calore dal Serafin. Sono stati
applauditi la Sani, la Tassinari, il Luccioni e il Franci.
272
Renzo Rossellini, I Cavalieri di Ekebù, «Il Messaggero», 15.1.1954 - p. 3, col. 7-8-9 (con una
foto di Gianna Pederzini in costume di scena)
Esiste anche il “caso Zandonai”: quello di un compositore, ossia, che aveva tutti i titoli e
tutte le qualità per essere uno dei provvidi continuatori della tradizione operistica italiana. A
venticinque anni era già un autore noto: con il «Grillo del focolare», sua prima fatica, più
ancora con «Conchita», si era rivelato musicista agguerrito, di idee personali, d’un fiuto
teatrale infallibile. A ventotto anni Zandonai già dava il suo capolavoro: la «Francesca da
Rimini», che è una grande opera, una delle più belle dei nostri tempi. Poi, pur con alterna
fortuna ma sempre con maestria di linguaggio, vennero altri spartiti a testimoniare la
ricchezza inventiva del compositore. Ebbe sostenitori autorevoli, amici fervidi, un editore che
3.1.6/57
credette in lui; le sue opere stavano già entrando nella coscienza e nel gusto del pubblico,
quando, a poco a poco, ogni cosa rientrò nell’ambito della normalità, si andò sbiadendo il
nome che aveva suscitato sicure speranze, vivaci interessi.
Ecco il “caso Zandonai”: rientra come un modellino, aderisce come uno stampo a tutti gli
aspetti della crisi teatrale italiana. La decadenza di Zandonai cominciò di colpo appena si
modificarono le strutture organizzative del nostro teatro, quando dalla iniziativa privata si
passò a forme differenti di amministrazione, dove gli interventi presero altra fisionomia,
nuovi criteri si sostituirono a quelli esistenti e l’individuo soggiacque alla collettività. Da
allora, nel nostro teatro, la confusione dei valori, con la conseguenza – che proprio gli autori
contemporanei maggiormente soffrirono – di livellare ogni nome, ogni opera, di rendere tutto
indifferente al pubblico e molte cose spesso intollerabili. Il fatto più deprecabile nel campo
dell’arte è la politica del contentino, quella politica che, attraverso la “rotazione”
indiscriminata di opere e di autori, senza tenere in debito conto il valore, è divenuta la
pericolosa regola dei nostri teatri.
Lunga premessa per venire a parlare dei «Cavalieri di Ekebù» e che varrebbe per non
poche opere del repertorio moderno italiano. Perché, appunto, uno spartito come questo, che
dovrebbe normalmente familiarizzare col pubblico, rappresenta invece un avvenimento di
carattere sporadico, sul quale si possono ancora accendere delle discussioni. Da un
consuntivo tanto magro il critico è costretto a trarre argomento per la sua azione divulgatrice,
nella speranza sempre che le cose finiscano per modificarsi nel senso indicato dalla giustizia.
Ed eccoci dunque a parlare di un lavoro che ha una lunga ed anche gloriosa storia, ormai
ignorata.
Settimo dei lavori teatrali di Riccardo Zandonai, lo spartito dei «Cavalieri di Ekebù» vide
la luce al Teatro alla Scala nel 1925, sotto la direzione di Arturo Toscanini che ne fu il primo,
genialissimo interprete. L’argomento dell’opera, ricavato da un famoso romanzo di Selma
Lagerlof [sic] – la «Leggenda di Gösta Berling» – se presentava da un lato alcune lacune
nella caratterizzazione e fisionomia dei personaggi, a volte contraddittori nei loro sentimenti,
offriva al musicista larghe possibilità per cementare, in una partitura di grande impegno
coloristico, la somma delle sue esperienze di uomo di teatro e di sinfonista.
I «Cavalieri di Ekebù» furono per il loro autore una cosciente prova delle proprie forze, un
tentativo ponderato e risoluto di dare un nuovo impulso, pur conservando le linee tradizionali
di una espressione fondata sul canto, al melodramma italiano. La volontà di allargare gli
orizzonti delle vedute teatrali è evidente: la scrittura si fa intensa e complessa di elementi
fioriti dalle più certe esperienze della musica del tempo. Una coralità che quasi potrebbe dirsi
alla Moussorgsky, alimentata da un sinfonismo che sembra distillato dalle migliori vinacce
straussiane, prepara il tessuto sonoro sul quale va ad impiantarsi il canto, d’una coerenza e di
una schiettezza tipicamente nostrane. Gli aspetti salienti e vari del teatro musicale moderno
sono dunque riassunti nel tentativo estremo di cementarli attraverso una concezione unitaria
dell’opera lirica. Impresa degna di un musicista che preferiva ai facili successi del
conformismo i rischi e le incognite di un cammino solitario, da percorrere con passo ardito
fino alla mèta.
Il valore dei «Cavalieri di Ekebù» è tutto qui: possono i personaggi dell’opera, attenuati
dalle poetiche nebbie di questa saga nordica, essere più o meno conseguenti, diciamo anche
più o meno simpatici, quindi comunicativi al gran pubblico, può l’azione risultare distante
dalla sensibilità realistica del nostro mondo, ma la musica si afferma e si espande con un
vigore straordinario, esprime la certezza dei sentimenti, il calore di un umano, sentito
linguaggio. Trascorrono le ore dello spettacolo piacevoli e rapide: l’interesse non langue mai,
l’emozione arricchisce le suggestioni che scaturiscono dalla coloritissima partitura. E poi
bastano la scena del “Teatrino”, il Natale dei Cavalieri, la morte della Comandante a garantire
la ricchezza dell’opera, il suo diritto alla vita.
3.1.6/58
Esecuzione amorevole, appassionata, convinta: a cominciare dal maestro Oliviero De
Fabritiis, che è stato un concertatore stupendo della complessa partitura, un animatore
intelligente, sensibile ed ispirato dello spettacolo, tutti gli interpreti hanno soddisfatto la
complessità dei ruoli loro affidati. Gianna Pederzini nella parte della “Comandante” che è
figura preminente dell’opera, ha offerto un’altra suggestiva prova del suo talento drammatico,
della sua dedizione all’arte: è stata felice in ogni gesto e per ogni accento. La giovane Rina
Malatrasi ha cantato con calorosa emozione ed ha avuto emissioni di bello smalto e sicura
musicalità. Pieno di dignità vocale il tenore Mirto Picchi; efficaci per la gustosa
caratterizzazione dei personaggi il Malaspina ed il Cassinelli. Il coro ha magistralmente
cantato: il merito del suo vigoroso intervento va anche all’autorevole istruttore maestro
Giuseppe Conca. Successo caloroso, con applausi a scena aperta, numerose chiamate al
termine di ciascun atto.
273
Guido Pannain, I cavalieri di Ekebù di Riccardo Zandonai, «Il Tempo», 15.1.1954 - p. 3, col.
8-9
Nella vita artistica di Riccardo Zandonai, il periodo che segue immediatamente la
Francesca da Rimini segna un momento di particolare disagio. L’artista, che nel teatro lirico
aveva mostrato di poter dire una sua parola schietta, avrebbe dovuto raccogliersi, attendere,
meditare. Invece fu trascinato ad operare da interessi pratici e professionali che sono, per
definizione, contrastanti con quelli dell’arte. Così che, d’allora in poi, egli si trovò in perenne
conflitto con se stesso: l’anima d’artista ch’era in lui, tolta alla tranquillità della
contemplazione e spinta ad attingere méte a cui repugnava; l’uomo di teatro, il professionista
del teatro, vòlto alla ricerca di risultati utilitari, in ogni caso estranei alla sfera dell’arte.
I Cavalieri di Ekebù risentono di questo interiore e drammatico disagio. È un’opera
sostanzialmente mancata perché manca d’interiore necessità, ma è insieme ricca di pregi
musicali. E questa non sembri una contraddizione, perché l’artista ch’era nel fondo, pur
sonnecchiando (quandoque bonus...) non poteva mancare di essere vigile e presente ad
attingere, a tratti, risultati considerevoli.
Nel modo in cui fu ridotta a opera di teatro, la Leggenda di Giosta Berling diventa un
dramma incoerente. I personaggi e le situazioni che hanno luogo per loro hanno una vita
scenica priva di nessi e di spirituale consistenza. Ognuno va per conto suo e nessuno trova la
via di un’adeguata rappresentazione. La Comandante ha un suo dramma, che è un dramma
morale, e Anna e Giosta anche ne hanno uno proprio, che è un dramma di amore. Tra questi
due drammi, messi l’uno accanto all’altro senza ragione estetica, non c’è rapporto: o meglio
ce n’è uno, ma in superficie, artificioso e distaccato, che non incide sull’anima onde il
personaggio rimane sospeso nel vuoto, senza vita, come un manichino. Le faccende della
Comandante non interessano Anna e Giosta e viceversa; e non interessano, cioè non
commuovono, lo spettatore e neppure il musicista. Anzi, meno di tutti il musicista; come altra
volta, invece, lo avevano interessato e commosso il travaglio nevropatico di Conchita e «la
pietà dei duo cognati» che, grazie alla musica, si configurarono in dramma. E andrei anche un
tantino indietro perché del buono c’è anche nella dimenticata Melenis.
Ora è appunto il musicista, nei Cavalieri di Ekebù, che, più avveduto dell’uomo di teatro,
non si lascia fuorviare dalla falsa retorica librettistica e, abilmente aggirandola, volge la sua
attenzione al particolare e all’episodio e se lo lavora con innamorata raffinatezza di artefice.
Così elabora un tessuto orchestrale di tale efficace sobrietà e colorita varietà da valere di
modello e d’insegnamento. E venne fuori un canovaccio di episòdi deliziosi quali l’inizio
dell’opera, degno della tavolozza di Rimsky-Korsakof; la pittoresca scena della
3.1.6/59
rappresentazione nel Castello di Ekebù, con la stupenda intuizione timbrica d’un violino che
s’inserisce armonicamente fra timbri eterogenei; il Coro del Natale, anch’esso cullato al
suono del violino di Liecrona (pensare che il librettista l’aveva chiamato «il suon delle
budella conce»!); il tragico coro del derelitto popolo di Ekebù al quarto atto, sorretto da uno
svolgimento sinfonico di singolare ampiezza. Invece quanta retorica nell’amoroso sgolarsi di
Giosta e Anna, quanta precarietà di atteggiamenti nella parte della Comandante, quale vacuità
d’accenti nell’esibirsi di un preteso diavolo che né meno nel cuore dell’indulgentissimo
Papini, credo, troverebbe clemenza.
L’opera di Zandonai ha avuto, al Teatro dell’Opera, un’accuratissima e forbita esecuzione
soprattutto per quanto riguarda la concertazione e la direzione del maestro Oliviero De
Fabritiis che, secondato dalla valorosa orchestra, ha presentato la mirabile partitura in tutta la
sua cesellata raffinatezza. Gianna Pederzini è stata, nella parte della Comandante, la vigorosa
attrice che abbiamo sempre ammirata. Sempre opportuna di atteggiamento e di pronunzia,
guardatela, al finale, disfatta e morente, come ella appare trasfigurata. La parte di Giosta ha
trovato nella voce di Mirto Picchi accenti puri e generosi, e il basso Antonio Cassinelli ha
fatto il possibile per dare consistenza al diabolico Sintram, con robustezza vocale di raro
pregio. Esuberante Cristiano il baritono Malaspina; opportunamente intonato Mariano Caruso
nella parte di Liecrona. Per non turbare l’armonia delle lodi dovrei tacere della parte di Anna,
affidata a Rina Malatrasi, un sopranino dalla voce diseguale e sgradevole. Del coro basterà
dire che è stato istruito dal maestro Conca.
274
Nino Piccinelli, Nevi di Svezia sulle avventure dei “Cavalieri” - L’opera di Riccardo
Zandonai ha avuto sulle scene romane la superba interpretazione di Gianna Pederzini,
«Momento Sera», 16.1.1954 - p. 3, col. 6-7-8-9 (con un disegno che ritrae G. Pederzini nel
ruolo della Comandante)
Dal romanzo della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, La Saga di Gösta Berling, Arturo
Rossato trasse il libretto dei Cavalieri di Ekebù, mentre Riccardo Zandonai diede espressione
musicale alla poesia nostalgica della poetessa svedese.
L’eroe della vicenda, Gösta Berling, è l’uomo che incarna tutta la fantasia sbrigliata:
pronto in un momento d’oblio, sotto l’impulso delle libazioni, della musica e della danza, a
sfrenarsi e ad essere vittima delle tentazioni, per soffrire poi di tutta la tristezza e di tutti gli
scrupoli che le brume invernali nordiche sanno destare nell’anima svedese dai multipli
aspetti, nelle ore di riflessione.
Il filo che unisce l’azione è costituito dagli avventurosi Cavalieri di Ekebù, galanti e
spensierati, armoniosa coincidenza di «simbolismo e di lirismo, di attaccamento al suolo della
patria e nello stesso tempo di spirito di avventura, il tutto dominato da quell’indolenza e
noncuranza incorreggibile che fu la causa maggiore della devastazione di tanti patrimoni di
famiglie aristocratiche svedesi».
La leggenda è dominata dalla figura di una donna, vera discendente delle eroine delle
antiche Saghe, fatta di forza, di spirito di organizzazione e nello stesso tempo dama e donna:
vera incarnazione di un personaggio nazionale che ha il suo posto nella storia della Svezia.
Vestita di pelliccia di montone, stivali e frustino, energica Comandante, Signora delle
ferriere, quindi donna benefica e donna di società festosamente banchettante: capace oggi di
odio e di disprezzo, capace domani di mettere a nudo il pentimento del suo cuore.
Il trasparente tessuto che fa da sfondo all’azione dei personaggi è un intreccio delle
pittoresche Saghe della nevosa Svezia: racconti dove l’anima svedese, inquieta, silenziosa,
allucinata da chimere, impasto di fantasia e di realtà, vi è espressa in tutta la sua complessità.
3.1.6/60
L’umanità di Gösta, con tutti i suoi errori e le sue follie, la bizzarria dei Cavalieri,
bohémiens diseredati e sperduti, l’amore di Gösta e di Anna e soprattutto l’imponente ed
energica figura della Comandante – «creatura mai doma, che un bel giorno, scacciata dalle
sue officine, vi ritornerà morente, portando ancora in sé il fuoco sacro che ridarà calore e vita
alle miniere deserte, e riaccenderà la speranza nel cuore dei Cavalieri» – hanno
particolarmente interessato la fantasia musicale di Riccardo Zandonai; e non avendo potuto
attingere dal folklore la sostanza musicale per ambientare la vicenda, egli tentò – e in parte vi
riuscì – di creare la necessaria atmosfera dove potessero respirare tutti i complessi personaggi
della Saga.
L’elemento lirico pervade e agita tutta la partitura e i pezzi d’assieme sono quelli che
maggiormente predominano. Il discorso musicale è chiaro, anche se talvolta tende alla
esaltazione melodica. Di bell’effetto la soave nenia di Natale e di giusto equilibrio sonoro
l’invocazione collettiva che precede il ritorno della Comandante morente: un inno grandioso
che si eleva e prende forza al ritmo del maglio sull’incudine ed al rianimarsi delle officine ed
al moto delle macchine.
I Cavalieri di Ekebù furono rappresentati per la prima volta, sotto la direzione di
Toscanini, alla Scala la sera del 7 marzo 1925, e nella stagione successiva vennero dati a
Roma14.
In occasione della recente riesumazione dell’opera fatta a Trento per celebrare il geniale
musicista, in una nostra nota15 consigliavamo gli Enti lirici a togliere dall’immeritato ed
ingiusto oblìo un lavoro tuttora vitale.
Il ritorno dei Cavalieri sulle scene del Teatro dell’Opera è stato salutato ieri sera dal vivo
consenso del pubblico.
Sotto la direzione vigile e sensibile del maestro Oliviero De Fabritiis, la partitura
zandonaiana ha trovato la sua adeguata e chiara potenza espressiva.
Gianna Pederzini, nelle vesti della Comandante, ci ha offerto un altro saggio del suo
eccezionale temperamento di cantante-attrice, trasfondendo nel complesso personaggio
l’inesauribile ed inconfondibile gamma espressiva della sua sensibilità artistica e musicale:
potente e prepotente nell’atteggiamento del comando, ardente e accorata nell’invettiva, dolce,
suadente, sofferente nel pentimento e trasfigurata nella morte.
Il lirismo del linguaggio zandonaiano ha trovato nella bella voce di Rina Malatrasi (Anna)
piena rispondenza di calore e di colore. Ecco un’artista che vorremmo riascoltare sulle nostre
scene. Mirto Picchi è stato un efficace Giosta, anche se un poco discontinuo nel canto.
Esuberante più nell’azione scenica che nella voce Giampiero Malaspina; abbastanza composti
Antonio Cassinelli, Vito Susca, Gianna Borelli e Mariano Caruso.
Buona in complesso la regìa di Riccardo Moresco; ma nel finale, quando, all’arrivo della
Comandante morente, le officine e il maglio si rianimano, e al canto dell’incudine si eleva
l’inno alla vita, al lavoro, il movimento delle masse non ha certo assecondato l’esplosione
sonora dell’orchestra. Ottimo il coro istruito dal maestro Conca. Molti applausi a scena aperta
e alla fine di ogni atto.
275
Luigi Pizzuti, “I Cavalieri di Ekebù”, «Il Paese», 15.1.1954 - p. 3, col. 6-7-8
Gli epigoni wagneriani nostrani, fra i quali indubbiamente è Zandonai, non hanno mai
saputo separarsi completamente dalle radici del melodramma ottocentesco. Il melodramma,
14
15
La prima rappresentazione romana avvenne invece nello stesso mese di marzo 1925.
La nota non risulta essere comparsa su «Momento Sera».
3.1.6/61
per intenderci, che Wagner con malanimo soleva chiamare “Donizetti & C”. Si sono mossi
così in un permanente equivoco, fra un sistema male acquisito e peggio adottato, difforme
alla natura loro e l’amarezza di chi guarda alla cosa ripudiata con nostalgia. In fondo, ma non
per tutti o almeno in vario grado fra i tanti della schiera, una insufficienza si denuncia quale
origine del loro disorientamento ed è quella di non saper cantare con abbandono ben educato,
con stile. A complicare vieppiù le cose, Zandonai, questo Zandonai dei «Cavalieri di Ekebù»,
per aspirazione a modernizzare i procedimenti compositivi a specchio con quello che si
mostrava altrove con ben altra validità, introduce nuovi elementi nella miscela che se ne
raffredda e insipisce.
Che cosa ci dice lo Zandonai dei «Cavalieri di Ekebù»? Parole, parole, parole. Alla fine
dell’opera nulla rimane se non una gran noia. La leggenda di Giösta [sic] Berling di Selma
Lagerlöf, spoglia di quella sua misteriosa poesia nordica, presta una trama banale per una
mera successione di episodi, unica evidente aspirazione dell’operista. La musica dovrebbe
almeno colorire, sottolineare gli episodi cruciali del dramma, creare l’ambiente lirico, invece
si pregia in una stagnante minuteria di suoni in preziosità di moda, con una inesorabile e
compunta continuità da mortificare la pazienza del più rassegnato degli spettatori. È inutile
attendere il momento culminante, un risveglio purchessia, un elemento di rilievo, qualcosa
insomma che ti scuota dal sopore col quale sei impegnato in una strenua lotta.
Ora si dirà: ma perché il Teatro dell’Opera mette in scena tali opere? Noi non lo sappiamo.
Non è la prima né l’ultima: altre se ne annunciano. Congetture se ne fanno tante, ma chi può
affermare qualcosa? Viene notato solo che la Direzione dell’Opera sembra essere animata da
una pietosa mania soccorrevole verso le cose di poco conto, che è lodevole disposizione di
animo, ma solo per il fine caritatevole. Non finirà il Teatro dell’Opera per diventare un Pio
Istituto per il soccorso dei minori? La rappresentazione, costosa rappresentazione di molti
milioni, ha avuto come concertatore e direttore Oliviero de Fabritiis, ben noto al pubblico di
Roma perché si debba spendere parole in favore della sua accortezza; maestro del coro, che si
è ben distinto, Giuseppe Conca, e regista Moresco, il quale non sempre si è sforzato di
rendere quella possibile elementare verosimiglianza che sempre occorre raggiungere per non
mettere a dura prova l’amore per il melodramma con il buon senso. Dalle scene, curate dal
Cruciani, abbiamo riportato la sola ammirazione della serata, quella che ci è venuta dalla
scena della fucina del castello di Ekebù, abbozzata da G. Giacomo Colombo nella visione di
una pittura fiamminga del seicento. No, bisogna aggiungere che anche Gianna Pederzini si è
fatta ammirare per quella sua capacità scenica disinvolta e appropriata, talvolta un po’ cachet
ma indubbiamente efficace per stile, vivacità e prontezza, specialmente se si riferisce ai modi
comuni degli altri attori, che tuttavia, occorre dirlo, in questo caso sono stati in un livello
abbastanza dignitoso. Citiamo dunque Mirto Picchi che è stato un ottimo Giösta Berling e
Rina Malatrosi [sic] nella dolce parte di Anna, ambedue generosi per rendimento vocale e
tutti gli altri dal Cassinelli al Malaspina, dal Susca al Caruso e alla Borelli nelle parti di
fianco.
L’opera ha riscosso un successo di stima che si è manifestato con applausi al Direttore e
agli interpreti.
276
G. Sciacca, “I Cavalieri di Ekebù”, «Il Quotidiano», 15.1.1954 - p. 5, col. 6-7
Si direbbe che il Teatro dell’Opera abbia voluto, quest’anno, giocare dei brutti tiri ai nostri
musicisti da poco scomparsi.
Dopo il cattivo servizio reso a Wolf-Ferrari con la rappresentazione de «I gioielli della
Madonna», la sua unica opera veramente fallita fra le tante graziosissime da lui composte –
3.1.6/62
anche prescindendo dal suo capolavoro «I quattro rusteghi» –, ecco che ora è la volta di
Riccardo Zandonai, con la ripresa de «I cavalieri di Ekebù».
Riccardo Zandonai non fu certo un musicista di talento quanto Wolf-Ferrari ma anch’egli,
tuttavia, fra le diverse opere scritte, ne ha alcune che, pur non potendosi definire capolavori
del teatro lirico, sono pur sempre rappresentabili per una certa dignità di mestiere che in esse
traspare.
Se, per ovvie ragioni, si è a volte costretti a mettere in scena opere di dubbio successo di
compositori viventi, ciò non ha più ragione di essere quando il compositore sia, purtroppo,
morto. Allora ci si domanda: perché andare volontariamente incontro ad un sicuro, già
sperimentato, inutile insuccesso?
Certe imprese sono dannose, soprattutto, alla memoria degli stessi musicisti che si
vogliono ricordare; dannose al buon nome del nostro teatro in particolare, e dell’opera italiana
in generale.
Anche volendo mettersi coscienziosamente alla ricerca dei pregi musicali che appaiono
qua e là nella partitura de «I cavalieri di Ekebù», mai tali pregi potranno essere sufficienti per
giustificarne l’intera rappresentazione. In ogni caso si tratta di qualità più sinfoniche che
drammatiche o liriche. Tutte le creature della leggenda, infatti, appaiono come fantocci di
stracci, nessuno ha una sua vera voce, anche quando l’orchestra riesce a sollevarsi dal fondo
di un quasi costante, rumoroso nulla.
Tutti gli interpreti hanno fatto del loro meglio per rendere sopportabili le rispettive ingrate
parti. Gianna Pederzini con le sue eccellenti qualità drammatiche e la giovane Rina Malatrasi
con la purezza del suo canto. Così Mirto Picchi, il Cassinelli e gli altri. Bene istruiti, come
sempre, i cori del Conca; vigile la direzione di Oliviero De Fabritiis.
277
R. F., I Cavalieri di Ekebù, «Il Momento», 15.1.1954 - p. 3, col. 9
Riccardo Zandonai fu uno dei nostri ultimi operisti di valida tempra. Come tutti gli artisti,
pur nella sua breve esistenza, creò un capolavoro: la Francesca da Rimini. Fatta questa
premessa, è chiaro che poter conoscere altri frutti della sua invenzione è certamente
interessante, soprattutto per i cultori di cose musicali, ma è anche a priori scontato che niente
più si potrà scoprire di peculiarmente edificante nell’ambito della personalità zandonaiana,
tanto meno in quello della produzione operistica di questo ultimo periodo.
I cavalieri di Ekebù (ultimo lavoro di teatro di Zandonai [?], Scala 1925) è una leggenda
nordica genericamente affibbiata a “un’epoca lontana” in terra di Svezia. Ma è una leggenda
che di leggendario ha, sì e no, l’indispensabile zampino guastafeste di Belzebù; ma ha più
della vicenda terrena, per non dire terra-terra, con il difetto di non essere stata raccontata con
il crisma di una sofferta umanità. Probabilmente Zandonai, imbarcatosi nel lavoro, a un certo
punto dovette sentire che dei fatti della Comandante, di Giosta Berling e compagnia non gli
importava un gran che. E allora è venuta fuori l’opera ragguardevole per taluni aspetti, ben
costruita, molto elegante specie nello strumentale per non piacere, ma poco spontanea e
sentita per poter suscitare entusiasmo. Un guizzo genuino si accende al secondo atto al duetto
della duplice rappresentazione al castello di Ekebù tra il pastore protestante Giosta e la
giovane Anna. Molto riuscito e di felice esito teatrale l’intreccio comico-sentimentale tra i
cavalieri che commentano la scena, ironici, con i corni, e il dolce dialogo del violino che
sostiene l’ardente dichiarazione di amore dei due. La cerimonia dell’investitura e tutti i cori
scritti per i cavalieri; l’assolo del violino al terzo atto; e il ritorno alle fucine al quarto atto,
vanno segnalate come le pagine più vive che mantengono desto l’interesse del pubblico.
3.1.6/63
Gianna Pederzini è un’attrice sempre molto sicura del suo prestigio scenico e quindi è stata
una autorevole Comandante. Mirto Picchi, Giosta Berling, affinato nel canto, generoso nel
volume; fresca e corretta la voce di Rina Malatrasi, Anna. Bravo Antonio Cassinelli, Sintram
e a posto Giampiero Malaspina, Vito Tusca [sic], Mariano Caruso e Nella Borelli. Ha diretto
con fermezza Oliviero De Fabritiis.
278
I cavalieri di Ekebù, «L’Unità», 16.1.1954 - p. 3, col. 2-3
Accolta da applausi a scena aperta e alla fine di ogni atto, l’opera I cavalieri di Ekebù che
Riccardo Zandonai, il valoroso musicista trentino, scrisse una trentina d’anni orsono
valendosi di un soggetto tratto dal romanzo La saga di Gösta Berling di Selma Lagerlöf, ha
rivisto ier l’altro, dopo tempo, le scene del Teatro dell’Opera. Pur non essendo una delle
creazioni più riuscite di Zandonai, come la Francesca da Rimini per esempio, questo lavoro è
una chiara dimostrazione del gusto e delle nobili aspirazioni del compositore, oggi relegato in
una zona d’ombra che non merita. Musicalmente l’opera non è certo tutta di prima mano; si
avvertono qua e là varie influenze, assorbite magari, ma sempre evidenti. Ciò porta
naturalmente a discontinuità le quali nuocciono alla narrazione. Il clima stesso poi nel quale si
trovano a muoversi i personaggi è talvolta dispersivo, anche se le intenzioni che stanno dietro
le sagome dei protagonisti vorrebbero significare più di quanto non si veda. Non mancano
però pagine nelle quali la mano di Zandonai ha trovato un ritmo felice, aderente alla sua
sensibilità, pagine che suonano in maniera piacevole ed efficace.
Tra gli interpreti va ricordata per prima Gianna Pederzini, la quale ha animato anche
scenicamente la figura della Comandante. Mirto Picchi ha sostenuto la parte di Gösta
brillantemente. Buoni nelle loro parti Antonio Cassinelli, il Malaspina e Mariano Caruso.
Rina Malatrasi, nella parte di Anna, ha dimostrato le sue possibilità vocali. Oliviero De
Fabritiis ha guidato lo spettacolo con l’esperienza teatrale che ben sappiamo.
279
E[ttore] Montanaro, “I cavalieri di Ekebù” di Zandonai riaccolti festosamente dal pubblico
romano, «Il Popolo», 15.1.1954 - p. 2, col. 2-3-4-5-6
Il Teatro dell’Opera ha ricordato il maestro Riccardo Zandonai con una pregevole
esecuzione de «I cavalieri di Ekebù» che tornano fra noi dopo lunga assenza. Il pubblico
romano si è mostrato lieto di questo nuovo incontro con l’opera del maestro trentino ed ha
applaudito con entusiasmo ad ogni atto. Accoglienza festosa dunque, che rende impenetrabile
il fitto mistero sull’ostinato oblio cui è stata tenuta per lungo tempo la partitura.
Il suo lento cammino per i teatri nazionali sembra quasi l’espiazione di una colpa che può
ravvisarsi nella ricchezza dei valori espressivi che l’opera racchiude.
A distanza di tanti anni dalla sua nascita, la partitura conserva inalterati tali valori con la
vitalità, la freschezza melodica e l’impeto drammatico. Quel linguaggio zandonaiano del
quale molto si è parlato e discusso, ancora oggi tende i fili di una curiosa polemica.
«I cavalieri di Ekebù» segna una svolta importante nella produzione lirica di Zandonai.
Il lavoro di rinobilitamento del melodramma verista, così felicemente iniziato dal maestro
con la «Conchita» – e che in «Francesca da Rimini» assume aspetti di singolare
significazione – trova ne «I cavalieri di Ekebù» la più brillante affermazione. L’opera
perviene a una nuova e significativa conquista. Il raggiungimento degl’ideali fortemente e
appassionatamente sognati dall’artista, premiano la sua nobile fatica.
3.1.6/64
Inseritosi nella scala dei valori dei grandi operisti italiani senza allontanarsi dal solco
tracciato, Zandonai, nel tradurre personali concezioni, procede arditamente verso la méta
desiderata, con una musicalità pulsante, satura di emozioni, ricca di fioriture suggestionanti.
Con «I cavalieri di Ekebù» la produzione melodrammatica di Zandonai riceve nuovo
impulso, prende più ampio respiro umano e, collocatosi in una linea di grande nobiltà, segna
– si è detto – nuovi confini sul piano dell’opera lirica.
Gli schemi in uso apparivano ormai logori: bisognava sostituirli con mezzi modernizzati. Il
vecchio “mannequin” balbuziava: occorreva modificarne la disegnatura e rinvigorirne il
linguaggio.
L’ansia di scoprire un mondo nuovo s’era fatta bruciante.
Incappato nella lettura delle avventure romantiche di «Giosta Berling», singolare tipo di
libero pensatore, il maestro si sentì preso come in una rete di lusinghe.
I pittoreschi luoghi nordici lo esaltarono. Le figure simboliche che vagano per questi
luoghi eccitarono la sua fantasia. Il desiderio di dare palpito umano a queste figure costituiva
il tema assillante, la prevalente ragione della vita del compositore. Il suo spirito si placò
quando dalla rinverdita fantasia scaturirono nuove creazioni.
Zandonai seppe, con felici procedimenti, fondere e armonizzare il sentimento e il carattere
nordico con il gusto e la sensibilità latina. Senza formalizzarsi nella documentazione di un
folclore di maniera, è riuscito a dare alla sua musica un vigore lirico di ampio respiro umano.
Scavando nelle intimità dell’animo del popolo nordico, Zandonai ha portato nel campo
musicale un mondo lontano e ricco di suggestioni. La particolare sensibilità dell’artista ha
consentito al compositore insigne di esprimere l’ambiente della Svezia leggendaria scaldata
dalla fiamma tradizionale del nostro teatro lirico.
Il Teatro dell’Opera ha obbedito a questa celebrazione come a un sacro rito, allestendo lo
spartito con paterna premura senza nulla lesinare alle esigenze della partitura.
Guidato dal gesto animoso del maestro Oliviero De Fabritiis – la cui profonda esperienza
direttoriale e il grande amore che sa porre in tutte le cose gli hanno consentito di mettere in
giusto rilievo tutti i particolari della difficile partitura – un gruppo di artisti ha recato un
apporto considerevole.
Gianna Pederzini, nelle vesti della “Comandante”, che è al centro dell’azione, è stata una
interprete stupenda. La reincarnazione del personaggio ha trovato nella Pederzini un’artista
vibrante, sensibile, magnifica.
Pieno di espressione e ricco di sentimento il canto di Rina Malatrasi, nella parte di “Anna”.
Umberto [sic] Picchi, alle prese con un ruolo non facile (Giosta Berling), si è disimpegnato
con onore. Efficacissimo Sintram il basso Cassinelli. Preparato dall’abile maestro Conca, il
coro ha collaborato bravamente. L’esito è stato – si è detto – vivo e copioso.
280
Vice (RC), I Cavalieri di Ekebù, «La Voce repubblicana», 17.1. 1954 - p. 3, col. 2-3-4
I Cavalieri di Ekebù è un’opera che si riallaccia alla tradizione melodrammatica
dell’ultimo ottocento. Il testo poetico è stato tratto da A. Rossato dalla famosa opera La
leggenda di Gösta [sic] della scrittrice svedese Gelma [sic] Lagerlöf, composizione che
appartiene a quel mondo romantico fantastico leggendario, a tinte fosche e denso di
drammaticità, così caratteristico della letteratura nordica. La trama di questo dramma giuoca
sugli eterni temi e vicende dell’animo umano: sublimazione e purificazione attraverso la
sofferenza e il dolore in un’atmosfera di velato misticismo ove a tratti incombe, come una
macchia oscura, il pauroso senso dell’ignoto.
3.1.6/65
L’opera di Zandonai non si discosta, come si è detto, dai modelli tradizionali. Essa risulta,
infatti, da un ben congegnato susseguirsi di recitativi, ariosi, cori, duetti, ecc. Il sistema
musicale è pur sempre quello diatonico-tonale, con qualche sporadico impiego della scala
esafonica, di cui l’A. si serve per dare un carattere al personaggio di Sintram. Tradizionali le
armonie, se si eccettua qualche accordo dissonante un po’ complesso che risulta dall’aggiunta
di note estranee ad armonie comuni.
L’opera è concepita melodicamente. Zandonai tende con tutte le forze verso il canto puro e
verso un’originalità di canto, ma l’adesione (o imprigionamento) a vecchie formule
melodiche ed un’ispirazione che non si eleva mai a grandi altezze gl’impediscono di
realizzare il suo sogno. Nei momenti di maggiore intensità lirica (racconto di Gösta al primo
atto, duetti fra Gösta ed Anna al secondo, terzo e quarto atto, ecc.) sembra a volte che il canto
prenda quota, s’innalzi, ma sono sprazzi di luce per ricadere assai spesso.
I recitativi sono invece quasi sempre di un’efficacia espressiva e di un’incisività notevole,
specie quelli della Comandante. Notevoli i cori: ben caratteristico quello della canzone dei
cavalieri, con un tema incisivo, forte, ben ritmato, virilmente imponente, e di una efficace
potenza drammatica i cori della folla, soprattutto quelli nella scena della miseria e
dell’invocazione al ritorno della Comandante (ultimo atto). Lo strumentale vivo, esuberante,
colorito, ben aderente alla scena ed al canto, crea spesso un’atmosfera suggestiva a colori
oscuri. Preciso il taglio dei singoli pezzi. Si sente in tutto il ferrato mestiere di un musicista di
buona tempra.
Il personaggio meglio espresso è quello della Comandante nella sua dolorosa solitudine e
sotto il peso di un triste passato che né l’abitudine ad una pratica di altruismo né le distrazioni
di una laboriosa e forte occupazione valgono a soffocare, [...] Coerenza stilistica, incisività
dei temi che ne caratterizzano la psicologia, aderenza della musica al testo poetico.
Musicalmente scialbe ed anonime invece le figure di Gösta (il personaggio principale) e di
Anna, e troppo simili l’uno all’altra. Il loro canto tuttavia, sebbene imbrigliato da vecchie
formule melodiche, non è privo di coloriture ed inflessioni romantiche e di dolci e delicate
espressioni idilliache e simpatiche risonanze. Ben caratterizzata la tenebrosa, sghignazzante
figura di Sintram con uno strumentale efficace poggiante su formule esafoniche. Anche il
personaggio di Cristiano ha buon rilievo.
Citiamo alcune fra le migliori parti dell’opera: primo atto: all’inizio un movimento cupo ai
bassi a cui si aggiunge il lampeggiamento nel registro medio di una quarta discendente,
creano un’atmosfera pesante e misteriosa che ben c’introduce al dramma della disperazione di
Gösta. Ben delineata sotto lo sfondo di accordi aspri dissonanti e mediante l’impiego di
formule melodiche esafoniche la figura sghignazzante, lugubre di Sintram.
Non trascurabile è il coro delle fanciulle su un motivo fresco e vivace di carattere
popolaresco. Efficace lo strumentale che accompagna il racconto di Gösta, movimentato,
denso, con dolci mormorii e cinguettanti note ribattute di una freschezza primaverile. Ben
caratteristica la Cantata del Natale, con un bel tema di carattere dolce e agreste di una
toccante semplicità.
Notevole il coro della Canzone dei Cavalieri di Ekebù (tema gagliardo, incisivo, che si
ripete spesso durante il corso dell’opera, sostenuto da uno strumentale nutrito, pieno di
slancio ma in alcuni tratti anche strepitoso, effettistico). Secondo atto: simpatico l’inizio con
un tema fresco, vivace, ben ritmato, ritornante, che crea un’atmosfera festosa. Caratteristiche
la presentazione dei cavalieri a Giosta (pochi tocchi che abbozzano assai bene le grottesche
figure) e la sviolinata di Liecrona sopra il gustoso e bizzarro motivetto dell’orchestrina dei
cavalieri. Terzo atto: armonioso, dolce, pervaso di tristezza il coro dei Cavalieri, a cui fa da
efficace controcanto o si alterna il patetico violino di Liecrona. Ben concitata e drammatica la
scena dell’espulsione della Comandante in un crescendo efficace e vigoroso; commovente
l’addio della stessa che si conclude efficacemente con il melodico singhiozzo lugubre di
3.1.6/66
Samzelius. Quarto atto: efficace inizio con il coro della folla che invoca il ritorno della
Comandante con sempre crescente drammaticità, sopra un ondeggiante, tumultuoso,
irrequieto movimento dei bassi. Di una certa potenza la scena della ripresa del lavoro dei
cavalieri, dietro l’incitamento della Comandante: un coro robusto, incalzante verso il
fortissimo, sostenuto da uno strumentale nutrito e prorompente, finché si ode il tonfo possente
del maglio. Ben segue la canzone dei cavalieri, mentre l’orchestra è sempre agitata (quartine
rapide di violini, persistenza del suono metallico del maglio, strappate vigorose ai bassi.
Crescendi impressionanti sulle parole sciogli! tuoni! Giù!). E sotto il martellante infuriare
dell’orchestra che ricanta una tragica frase in minore, muore la Comandante.
La presente edizione di quest’opera si può definire molto soddisfacente. Buono il
complesso dei cantanti: efficace Gösta Mirto Picchi, ben intonato alla parte e stilisticamente a
posto (voce di buon timbro ma piuttosto povera di risonanze). Una dolce e gentile Anna Rina
Malatrasi (piccola voce, dolce, simpatica, ben impostata). Ben scolpito il personaggio della
Comandante dalla Pederzini, sia per la incisività e drammaticità della recitazione che per la
straordinaria espressività del suo canto, solo un tantino turbata negli acuti da oscillazioni della
voce. Ottimi il Cassinelli nella parte di Sintram e G. Malaspina in quella di Cristiano.
Commovente Liecrona il Caruso. Abbastanza bene gli altri. Magnifici i cori diretti da G.
Conca. Sobrie, ben fatte le scene e con una tonalità di colori di buon gusto e ben appropriata.
Ha diretto con molto impegno e calore Oliviero De Fabritiis. Molti calorosi applausi alla fine
di ciascun atto.
Un appunto: nella presente edizione offerta dal Teatro dell’Opera è stata eliminata la
seconda parte del terzo atto, la quale contiene alcune fra le pagine più belle e commoventi
dell’opera, come quelle dell’inutile e triste tentativo di Anna di far ritorno alla madre. Tale
taglio non ci sembra sia giustificato.
3.1.6/67
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3.1.6. I cavalieri di Ekebù - Biblioteca civica di Rovereto