CLUB ALPINO ITALIANO Sezione Valdarno Superiore Via Cennano, 105 – 52025 MONTEVARCHI (AR) Tel./Fax 055900682 – Mobile 3425316802 - [email protected] – www.caivaldarnosuperiore.it Dicembre 2014 - Anno 13° - Num. 4 - Notiziario Trimestrale della Sezione Valdarno Superiore del Club Alpino Italiano Autorizz. del Trib. di Arezzo n. 12/2001 - Spedizione in A.P. Tariffe stampe Periodiche Articolo10 DL n.159/2007 conv. L. n. 222/2007 - DC/DCI/125/ SP del 06/02/2002 AREZZO GLI AUGURI DEL NOSTRO PRESIDENTE Ormai siamo vicini alla fine dell’anno e quindi è momento di consuntivi, è passato un anno dall’elezione del nuovo consiglio e devo ringraziare tutti i soci e i consiglieri per il contributo dato durante questo periodo. Tante sono state le cose fatte, penso al Gruppo Alpinistico molto attivo e pieno di iniziative, al Gruppo Mountainbike, giovane e bene avviato, a “Quelli del Martedì” ormai un gran gruppo, ai tanti soci che partecipano alle nostre gite, le quali, soprattutto quelle più importanti hanno avuto un gran successo. In maniera particolare mi piace rimarcare la collaborazione nata con le molte scuole, dalle elementari alle superiori perché sono state diverse le uscite con gli studenti nel nostro territorio, e questo è molto importante sotto tutti gli aspetti. Mi sembra doveroso spendere un ringraziamento a tutti quelli che hanno collaborato nell’organizzare la mostra fotografica della” Pievi nel Valdarno”, perché questa è stata un gran successo ed è stata veramente il fiore all’occhiello per la nostra sezione. Una nota stonata è il calo di soci registrato nel 2014, dopo due anni di crescita abbiamo avuto un regresso; nel prossimo anno speriamo di recuperare. In fine mi sento in dovere di fare sinceri auguri di Buon Natale e Buon Anno Nuovo a tutti i soci e loro familiari da parte mia e di tutto il Consiglio Direttivo. Il Presidente Mario Bindi 1 CASA RURALE IN TOSCANA (3° PARTE) Per la Toscana l’anno 1737 è stato una data determinante, muore Gian Gastone, ultimo granduca mediceo e la Toscana passa sotto il dominio di Casa Lorena, un’antica nobile casata imparentata con gli Asburgo. Le condizioni dell’agricoltura toscana sono misere, come misere in genere sono le case rurali, dei tuguri malsani che di abitazione hanno veramente poco. Soprattutto il secondo granduca lorenese, Pietro Leopoldo I, inizia una politica indirizzata verso realizzazioni pubbliche di ospedali, scuole, bonifiche e la riorganizzazione e il rafforzamento dell’intero assetto territoriale di strade e ponti (ancora oggi fanno bella mostra di se le “colonne granducali”, come nelle nostre parti la Colonna del Grillo e quella di Laterina). Con i Lorena nasce nel 1753 l’Accademia dei Georgofili che quest’anno (2014) ha iniziato il 261° Anno Accademico. Essa fu creata appositamente per trovare coltivazioni idonee zona per zona e applicare in agricoltura i nuovi ritrovati tecnici del progresso e delle scienze. I Granduchi di Lorena, ovunque in Toscana, hanno lasciato una larga traccia nella storia e nel tessuto sociale della nostra regione, una traccia connotata dall’impronta riformista di questi governanti che abolirono la pena di morte, la tortura e l’inquisizione, in linea con lo spirito del secolo che fu chiamato “Secolo dei Lumi”. Nel 1769 in seguito ad una indagine sullo stato delle abitazioni rurali fatta nella Fattoria di Altopascio, facente parte delle “Possessioni della Corona”, Pietro Leopoldo rimase impressionato dalle condizioni disumane di vita di tanti suoi contadini, per cui emanò una direttiva per risolvere i loro problemi abitativi. Questo provvedimento segnerà l’inizio della questione delle case coloniche che per oltre cinquant’anni vedrà coinvolti architetti, agrari, amministratori pubblici, proprietari, religiosi e politici. D’altra parte, questo era un problema già dibattuto all’Accademia dei Georgofili, tanto che verrà pubblicato un libretto dell’ing. Ferdinando Morozzi che aveva per titolo “Delle case dei contadini - Trattato architettonico”, un testo scaturito dalla volontà di organizzare le casa colonica allo scopo di razionalizzare la produzione del podere, assicurando al tempo testo la salute e il benessere della famiglia contadina. In questo libretto, il Morozzi, prende in considerazioni tanti fattori come l’esposizione favorevole della casa, la posizione idonea all’interno della proprietà, ampiezza, ubicazione delle stalle, della cantina, del granaio, della rimessa degli attrezzi, la facilità dell’approvvigionamento idrico, la luminosità, l’ampiezza e la posizione della cucina e delle camere…, il tutto per creare una casa funzionale. L’ing. Morozzi dirà che “si possono migliorare di più le case dei contadini, non per il lusso e per la magnificenza, ma affine di togliere alle medesime tanti errori, che sono molto funesti non solo alla vita dei medesimi contadini, quanto ancora di pregiudizio notabile all’interesse di chi possiede, che non ricava dalla possessione quel frutto compensativo, che egli si lusinga cavare”. La certezza del Morozzi è che si potevano benissimo coniugare fini umanitari e fini produttivi con una architettura migliore e più razionale della casa colonica e su questa base avrà inizio un periodo proficuo per l’edilizia rurale toscana, in quanto da quel momento la casa colonica sarà il frutto di una rigorosa progettazione architettonica. Il modello per realizzare le nuove case per i contadini viene preso dalle case padronali, molte delle quali ville costruite nel XVI secolo nelle campagne toscane che in genere sono costruzioni compatte a forma cubica con nel centro una piccionaia o torrino. Altre case con un torrino ai due angoli della facciata principale e con uno o due ordini di loggiati centrali si rifanno ancora di più ad un preciso tipo di ville rinascimentali che 2 soprattutto nel senese richiamano l’architettura delle ville di Baldassare Peruzzi e nel fiorentino quelle di Bernardo Buontalenti. Il Morozzi, con il suo piccolo trattato ebbe il pregio di essere il primo a portare in campo la questione della abitazione rurale nel contesto di maggiore comodità e più produzione agraria del podere; da quel momento chi costruiva una abitazione rurale non poteva esimersi di tener conto delle sue raccomandazioni. La proprietà terriera toscana accolse con pareri diversi queste novità di architettura colonica, alcuni proprietari, soprattutto latifondisti, fecero sue le idee del Morozzi e le raccomandazioni dei tecnici dell’Accademia dei Georgofili e allora sorsero, specialmente nelle nostre zone, quelle bellissime coloniche in mezzo ai cipressi e circondate da viti, olivi e spesso in posizione dominante e soleggiata, che fanno ancora oggi così bella la nostra campagna e sono che conosciute come “case leopoldine”. Il proposto Ignazio Malenotti, fautore della logica georgofila del rinnovamento edilizio, definiva “…avveduti, quei proprietari terrieri fortemente attaccati ai principi salutari della sempre crescente civilizzazione, che hanno edificate le loro nuove case coloniche in una forma la più lodevole, corredandole di tutti i comodi”. Numerosi però furono i proprietari terrieri che si opposero alla filosofia portata avanti dall’Accademia dei Georgofili non tenendo in nessun conto delle miserevoli condizioni abitative dei mezzadri, oltre che per una forma di capitalismo selvaggio, in molti proprietari era radicata la convinzione che la famiglia mezzadrile non dovesse vivere nelle comodità. Le innovazioni portate avanti dal Granduca tramite i Georgofili ebbero un percorso lento, tanto che per velocizzarlo ed invogliare i possidenti, nel 1784 Pietro Leopoldo I emanò una legge che prevedeva il rimborso della quarta parte della spesa a tutti quei proprietari che avessero costruito o restaurato le case coloniche secondo le direttive stabilite dall’Accademia dei Georgofili, che altro non erano che le considerazioni espresse dall’ing. Morozzi. L’inizio del XIX secolo ha portato poi in tutta Europa l’avvento una rivoluzione agraria, avente come scopo l’incremento dei valori produttivi, realizzato mettendo in atto tecniche nuove di coltivazione, nuovi strumenti e colture nuove che procureranno, anche in Toscana, un notevole accrescimento delle rendite ed un conseguente incremento degli investimenti per il miglioramento abitativo dei coloni a mezzadria. Questo principalmente primi decenni del 1800 e soprattutto nelle provincie di Firenze, Arezzo e Siena, tanto che le molte, bellissime case leopoldine che coronano la nostra campagna portano date che vanno dal 1790 al 1830. La nuova casa rurale o le vecchie case torri inglobate in grandi edifici nuovi, sono espressioni di quella storia contadina che, con sudore, sapienza e fatica, ha creato uno dei paesaggi più belli del mondo. Non c’è distacco fra la casa rurale e il nostro paesaggio di campagna, tutto è integrato benissimo e tutto è in perfetto equilibrio, un patrimonio comune che costituisce un insieme di valori per tutti. Ѐ un piacere ammirare il paesaggio toscano, un piacere della stessa specie e natura di quello che sentiamo quando ammiriamo un’opera d’arte. Vannetto Vannini 3 LA TRE GIORNI IN PRATOMAGNO – DA GROPINA A VALLLOMBROSA Caro Leo Te la voglio raccontare… ...Molti di voi conoscono Leo, soltanto Leo perché anche al CAI dell'avv. Failli da tempo non ne vuole parlare; questo fatto all'epoca mi colpì e con molta improprietà mi venne spontaneo il paragone, il “...fui da Montefeltro io son Bonconte!” di Dantesca memoria. Con Leo nacque un amicizia, di quelle che capisci subito, a pelle, che sono destinate a rimanere tra le cose belle della vita; diversi tra noi e lui con molti più a suo favore, quello di minor pregio la differenza di età, non sembri un offesa perché di Leo è ammirevole il suo vissuto intenso extra professionale; ci accomunano aspetti il primo dei quali la curiosa attenzione alla natura nella quale immergersi con rispetto, ad armi pari, da conviverci con equilibrio per preservarla... Ma basta! so che questi che posson sembrare complimenti gli danno più fastidio che piacere! Da queste premesse traggo le ragioni per le quali mi fa piacere raccontargli, la piccola ma bella esperienza della traversata da Gropina a Vallombrosa, che in alcuni momenti faceva riaffiorare il nostro indimenticato Cammino di Santiago. Vorrei allargare la lettura anche ai soci che questa volta non hanno partecipato ed a quelli con cui abbiamo vissuto l'esperienza, perché penso farà piacere ricordarla, oltretutto saranno testimoni e critici del racconto. Si annunciava tempo incerto, ma quant'è bella l'incertezza specie quando il timore diventa inutile, visto che in fatto di clima meglio non ci poteva capitare: bello, mite, fresco e caldo ai momenti giusti, l'umidità mattutina ad esaltar colori e odori dei fiori e della vegetazione. PRIMO GIORNO Gropina è un gioiello quasi dimenticato nella natura, perché ha la fortuna di essere lievemente fuori mano; sono entrato nella Pieve con uno zaino di oltre dieci chili a cui dovevo fare abitudine, il segno della croce, una preghiera e l'ammirazione per quella sobria eleganza di un interno che invita al raccoglimento. Se passando in zona vi avanza un quarto d'ora fermatevi, sarà ben speso. Augurale foto di gruppo sul portone d'ingresso e si parte: 54 chilometri da percorrere, siamo in quindici. L'intero itinerario è esaltato dai profumi, tutto è in fiore; Romano ci fa conoscere quello del “succhia miele”, il mio analfabetismo botanico non consente l'identificazione della pianta selvatica che, a margine del sentiero, ci offre i suoi fiori violacei con i pistilli gialli (dolcissimi); non l'avevo mai notata. Raggiunta Chiassaia la maggior fatica era alle spalle (non solo per il peso degli zaini); sosta pranzo e dato che non reggo alle tentazioni, non mi son fatto mancare la schiacciata calda imbottita tanto che era più il companatico del pane! Per digestivo? il resto del percorso da fare in mezzo a castagni e faggi attraverso l'ampio semicerchio formato intorno al borro del Cinghio. Piacevole saliscendi per raggiungere presto il primo dei punti tappa alla Trappola, ci siamo sistemati nell'ostello della canonica mentre il cielo si apriva e l'aria si faceva frizzante, fatto che ha migliorato la visione del panorama circostante. L'aria pizzichina ci ha spinto all'interno del Vin de' nuvoli, quasi fosse un rifugio di alta quota, e come accade in quei casi, partono i racconti, le bevute in attesa della cena... Quant'è bello stare insieme! Il tempo vola, ci chiamano per la cena. In cucina si son fatti onore, per non deluderli ci siamo impegnati, è stata l'ultima piacevole fatica della giornata. SECONDO GIORNO Di buon ora le nostre fate sono scese per sorprenderci con una colazione da fiaba, pur in assenza del tovagliame di Fiandra, l'apparecchiatura era splendida, il caminetto acceso, il pane ad abbrustolire... Un bel quadro di una famiglia un po' numerosa. Ottimo inizio. Si parte, il gruppo è rafforzato da tre soci che si limiteranno all'escursione della giornata ed alla cena, rimane il mistero di cosa li abbia maggiormente attratti, ma le promesse per la seconda erano davvero ammalianti. Il gruppo aveva tutt'altro che voglia di rispettare il programma. Deciso! Si va anche alla Croce e figurati se si va per i sentieri noti; si trae spunto dal custode dell'ostello per una variante da fungaioli: si evita Pozza Nera e salendo gradualmente tra i faggi si arriva proprio sotto Poggio Masserecci... Non è la via dell'orto però è più agevole, comunque per salire alla Croce di tossine se ne spurga tante lo stesso. Nessuno si lamenta, d'altronde “mal voluto non fu mai troppo”. Gran giornata, il panorama, la brezzolina, il sole, breve sosta alla Croce anche per ringraziare chi ci da la forza per arrivarci e si riparte sullo “00”. Al Varco alla Vetrice ci raggiunge nella sosta pranzo Luigi, anche lui s'è fatto una bella sgropponata, dato che era partito poco sopra Castelfranco... di Sopra. Era prevista la prosecuzione sullo 00 fino al Poggio dell'Uomo di Sasso; se ne fosse azzeccata una delle previsioni! Al bivio per Massa Ladronaia si va a prendere il sentiero dei fungaioli che Montrago arriva al Varco di Gastra, si monta sullo 00? Macchè! Si prende il traverso che da lì ci porta direttamente sopra il Poggio di Castelluccio dove la nostra guida Alessandro Simonti lascia 4 a me le consegne; non a caso lì finisce la valle del Resco Simontano. Anche se non si entra in quella del Resco Morandino, francamente di qua sono molto a casa, do subito sfogo a questa dimestichezza ricordando la trecentesca presenza del sistema difensivo dei conti Guidi (Poggio alla Regina, Torre del Monte Acuto e l'ultima torretta sul Poggio - per questo motivo di Castelluccio) andata anch'essa interamente distrutta, per mano dei fiorentini, dopo la vittoria di Campaldino. Si va a terminare la discesa al Romitorio di Ponticelli, punto sosta un po' improvvisato, decisamente decoroso, tutto fila bene come da programma... e da fuori programma. Abbiamo un “catering” retto da “cavalli di razza” la cena è abbondante all'insegna della genuinità ed il buon vino, il vinsanto, i dolci ci hanno spinto all'allegria. Bel momento conviviale, il dopo cena “recitato” da Vincenzo emulo di Totò nel declamare “A Livella” che ha trovato degno contraltare nell'Armando “consigliere dell'Opera di Ponticelli” con i sonetti di Trilussa, rigorosamente recitati a memoria. La stanchezza ha presto posto fine alla veglia, saluti e a letto, ...oops al sacco a pelo, sopra i materassi distesi nello stanzone laterale alla sala di cucina. ULTIMO GIORNO La colazione non poteva essere da meno di quella del giorno precedente, marmellate casalinghe e copiose dolcezze genuine hanno messo gli stomaci al riparo dalle crisi di zuccheri per un bel pezzo! Davanti al Romitorio si forma il gruppo per l'ultima tappa, i tre soci usciti sono sostituiti da tre nuovi, quindi in pari forza si parte per la foresta di Sant'Antonio (area protetta) che si dispiega per l'intera vallata del Resco Reggellese. La sapienza dei carbonai ha nei secoli disegnato una rete di sentieri che rende accessibile quest'aspro contesto vallivo; “leggendo” questa sapienza abbiamo usato un tracciato piacevole che “ricamando” l'orografia della foresta ci ha portato fino alla pista della forestale, imboccata la quale saremmo arrivati alle case di Sant'Antonio per giungere poi fino alla Macinaia... Saremmo, ...ma ti pare che andasse bene. “O perchè un si va a ‘i faggione?? Dai, via, portaci!” Va bene si cambia. E' vero il faggione di Prato a Marcaccio è il faggio “matricina” più imponente della montagna. Un tempo il faggio (legno da ufficio) veniva usato per sedie, scrivanie etc. per cui era un legno di medio pregio ed il suo taglio nelle foreste era sistematico; vengono chiamate matricine le “piante da riproduzione” tanto che mal volentieri venivano lasciate dai tagliatori, il paesaggio era molto diverso e di tale diversità ne sono prova i toponimi come “Pratopiano”, Pratelli dell'Oncina”, “Prato di dietro” e appunto “Prato a Marcaccio”. Nella foresta quindi s'incontravano frequenti ampie aree prative dove, dalla primavera all'autunno, pascolavano le pecore all'alpeggio. Marcaccio era probabilmente un pastore che dette il nome all'area prativa del proprio gregge; la ormai famosa matricina del faggione, se l'osservate bene, in realtà deriva dall'accoppiamento di due faggi troppo vicini e non buoni per l'uso mobiliero; come spesso van le cose nel mondo, lo scarto del tagliatore è divenuto un albero maestoso, tanto che, come tanti, ha incuriosito anche i nostri escursionisti. La variante di percorso, dopo la sosta pranzo al faggione, ci ha obbligatoriamente fatto ritornare sul crinale al varco della Croce al Cardeto, il più era andato. Il resto del percorso ormai non presentava più asperità e piacevolmente abbiamo attraversato fino alla casa di Macinaia per scendere alla meta (Abazia di Vallombrosa). Caro Leo, ...essere stati tre giorni appena sopra a casa poteva sembrare banale, ma come hai capito non lo è stato. Se penso al privilegio che hanno avuto le nostre generazioni nel rincorrere il turbinoso e splendido progresso che esponenzialmente ci propina novità che a volte rendono obsoleto l'inventato del giorno avanti, che senso ha andare a piedi portandosi dietro anche il necessario per la toelette personale? Non era certo per dare un senso alla vita, vana gloria la conquista fatta! Al più un pizzico di soddisfazione, se, magari dalle colline del Chianti, rimirando la catena del Pratomagno si potrà dire: oh, l'abbiamo attraversata tutta per davvero! Per me un senso ce l'ha e credo di averlo anche letto negli occhi dei nostri compagni di viaggio: è la soddisfazione di essere stati insieme e da soli anche a riflettere, con l'incertezza e l'improvvisazione con cui spesso dobbiamo affrontare la vita. Forse m'illudo, ma le esternazioni ricevute dai partecipanti non mi sono sembrate di circostanza. Questo per me e credo anche per Alessandro, era il vero obiettivo, la “moneta” che speravamo di ricevere. A presto, augurandomi di poter percorrere altre “banalità” simili a questa. Reggello, Agosto 2014 Federigo Morandini 5 …Dal Direttore Responsabile. Questo numero del nostro giornalino sezionale è stato elaborato dalla nuova redazione costituita dopo il ritiro di Matilde Paoli, che non può più seguire i lavori di “Quel Mazzolin di fiori”. A Matilde, che è stata il cervello e lo starter del giornalino iniziato 6 anni fa, va veramente la riconoscenza mia e di tutti i soci CAI per l’impegno e la professionalità dimostrata. Senza di lei “Quel mazzolin di fiori” non avrebbe mai avuto l’elevato indice di gradimento che, sia fra i nostri soci che fuori sezione, la nostra pubblicazione ha raggiunto. Sono entrati nel corpo redazionale Ermanno Carnieri e Gisella Fabbrini, ai quali auguro buon lavoro ed esprimo loro i miei più grati ringraziamenti per l’impegno che si sono presi per la continuazione della pubblicazione, che il prossimo anno compie venti anni di vita. Mi preme comunque comunicare che, nel nuovo assetto organizzativo, i soci che hanno materiale da pubblicare lo devono inviare solo a questa e-mail: [email protected] Vannetto Vannini Fiori dei Monti Sibillini Peonia selvatica: appartiene alla famiglia delle Paeoniaceae e il suo nome scientifico è “Paeonia officinalis”. Ѐ una pianta bellissima, perenne e con portamento eretto, alta in genere fino a 60 cm, ma che alcune volte può raggiungere altezze fino a 120 cm. Presenta un rizoma legnoso con tuberi sotto terra molto profondi. La pianta è imponente e presente in alcune zone dell’arco alpino e appenninico; sta diventando sempre più rara perché in un passato-recente c’è stata una raccolta indiscriminata dei fiori, impedendo così la formazione dei semi e la proliferazione della pianta: per questa ragione è protetta in modo assoluto. Il fiore, dal profumo poco gradevole è unico e molto appariscente sia per le dimensione (da 2 a 10 cm) che per il colore dei petali che varia dal rosso cremisi al rosa acceso. Fiorisce da maggio a Giugno a secondo l’altezza. Nei Monti sibillini si trova soprattutto in Val Canatra e nelle pendici del Monte Lieto. Fiordaliso: la pianta appartiene alla famiglia delle Asteraceae e il nome scientifico è “Cyanus Segetum”, il nome Cyanus deriva dalla parola greca Kyanos (sostanza colore blu azzurro), il nome Segetum deriva dalla parola latina “segetis” (dei campi di grano- seminato) come riferimento al suo abitat più usuale che sono i campi di cereali. Ѐ una pianta annuale che supera la stagione avversa sotto forma di seme. Il blu intenso dei capolini di fiordaliso era nel passato una visione comune nei campi di cereali, ma ora è diventata “rara” perché considerata una “malerba da estirpare”. Resiste molto bene nei Monti Sibillini, soprattutto nel Piano Grande nella cui fioritura estiva il fiordaliso è uno dei componenti più belli e romantici. Cresce nell’Asia Occidentale da cui è originaria e nel bacino orientale del Mediterraneo e può nascere fino ad una altezza di 1600 m, fiorisce da Giugno a Settembre. 6 KRONOS L’evoluzione della specie umana non è dovuta soltanto alla sua intelligenza, non essendo l’uomo l’unico animale ad esserne dotato. La molla che lo ha spinto ad andare sempre avanti è stata quella potentissima della curiosità. L’uomo è stato sempre un animale curioso oltre che intelligente, si è sempre guardato dentro e intorno a sé, si è sempre posto domande alle quali ha sempre cercato di rispondere. E se molte di esse attendono ancora una risposta è perché, come diceva Platone, ciò che vediamo non sono che ombre proiettate all’interno di una caverna. Chi o cosa le proietta non ci sarà mai dato sapere. La religione, quale che essa sia, nasce dall’esigenza di dare risposte a domande che risposte non hanno. “L’uomo creò Dio col fango, polvere della sua vita, acqua della sua mente”. Fu così che gli antichi greci crearono l’Olimpo e i suoi Dei che altro non erano che la trasposizione in chiave tutta terrena dell’ignoto, creando divinità a misura d’uomo, che dell’uomo possedevano pregi e difetti, con le quali potersi rapportare dando una dimensione all’incommensurabile e cercando un tramite con l’infinito. Anche le tre grandi religioni monoteiste non sfuggono a questa esigenza. Maometto fa da tramite con Allah. Gesù, incarnato e fatto uomo, con Dio. Intanto dall’Olimpo, sul quale il mondo greco aveva proiettato a sua immagine e somiglianza divinità litigiose e bizzarre, venivano i fulmini di Zeus, i venti di Eolo… il tempo di Kronos. Kronos, o Saturno per i romani, che nella mitologia classica impersona il tempo, temendo di essere detronizzato dai suoi figli e seguendo lo scellerato esempio di suo padre Urano, si diede ad ingoiarli appena nati. Sua moglie Rea, afflitta per tanto scempio, ne volle salvare almeno uno così, quando fu prossima a darne alla luce un altro, si rifugiò nell’isola di Creta ove segretamente nacque Zeus. Tornata da Kronos fece finta di partorire ma ciò che avvolse nelle fasce e che Kronos ingoiò nelle sue fauci snaturate fu solo un sasso. Kronos, il tempo che divora i suoi stessi figli, stinge i capelli, rende vizza la pelle, toglie forza e turgore, spietato, crudele, eppure magnanimo allorché ti si concede trafilando giorni da avvolgere alla conocchia della vita. E sarà ancora un sasso che salverà non già l’uomo ma il segno tangibile del suo cammino nella storia. Sarà la Cupola del Brunelleschi così come l’ultima delle Pievi. Sarà il Campanile di Giotto così come il più piccolo degli antichi borghi. Sarà Palazzo Vecchio così come la più sparuta torre medioevale. Come un’Araba Fenice l’umanità rinasce ogni volta dalle sue stesse ceneri crescendo come un albero la cui chioma, folta e lussureggiante, si protende verso il cielo e le cui foglie, via via che cadono, diventano l’humus che lo nutre. Ma le sue radici affondano e traggono linfa vitale dal suo passato e il nostro è orgogliosamente costellato da ben il 70% del patrimonio artistico mondiale, un’eredità preziosa ed ingombrante, testimonianza della grandezza del Genio umano ad offuscarne la sua miseria morale. Ecco perché essa andrebbe salvaguardata tutta, dalla Cupola del Brunelleschi alla più piccola delle Pievi. Dal Campanile di Giotto al più piccolo degli antichi borghi. Da Palazzo Vecchio alla più sparuta Torre Medioevale. Ecco perché, andando a camminare un martedì, l’agonia della Casa Castello di Melosa ci strinse il cuore mentre ci rallegrò vedere come un vecchio convento fosse diventato un suggestivo ed accogliente agriturismo. Ce ne rallegrammo perché questo patrimonio prezioso ed ingombrante che abbiamo ereditato, se tutelato e protetto, sarà quel sasso che solo potrà fermare le snaturate fauci di Kronos. Pina Daniele Di Costanzo 7 UN ARBUSTO UMILE MA INTERESSANTE: IL PRUGNOLO SELVATICO. Il Prugnolo selvatico (“Prunus Spinosa”), chiamato anche Susino selvatico, è un alberello conosciuto da tutti e che nessun escursionista vorrebbe trovare in forma di siepe di traverso al sentiero. L’arbusto appartiene alla famiglia delle Rosacee ed è una specie molto rustica, nasce e cresce bene nei terreni aridi, sassosi e poveri, nei bordi dei coltivi, dove spesso assume la forma a macchia, nei terreni incolti e abbandonati; può raggiungere una altezza massima di quattro metri ed è una pianta a foglia caduca. A primavera si riveste di piccoli fiori bianchi a mazzetti prima di mettere le foglie, tanto che molto spesso viene scambiato per Biancospino (Crataegus Monogyma), essendo anche quest’ultimo arbusto appartenente alla famiglia delle Rosacee, i frutti del prugnolo sono delle drupe tondeggianti di colore blu, mentre quelle del biancospino sono più piccole e rosse. Ѐ diffuso in Asia occidentale, Africa settentrionale e in tutta Europa ad eccezione nell’estremo Nord. In Italia lo troviamo in pianura, in collina e in montagna fino a 1500 m di quota. Talvolta viene usato per siepi divisorie interpoderali o di protezione fra le zone a pascolo e quelle coltivate perché forma dei cespugli fittissimi e praticamente impenetrabili a causa delle sue lunghe e numerose spine; questa particolarità è preziosa per moltissimi piccoli animali del bosco che trovano rifugio sicuro dentro le sue siepi, tanto che la pianta, in alcune zone d’Italia, è chiamata “Strangolacani”. Il Prugnolo nelle nostre zone viene ancora usato come portainnesto, in quanto risulta compatibile con il susino e l’albicocco, ben sapendo che questo “trapianto” porta con se un piccolo inconveniente: a “innesto preso” crescono più i rami che il tronco, e ciò poiché il Prugnolo è un arbusto a lento accrescimento. Non a caso i nostri contadini dicono che “cresce più il domestico che il selvatico”. Il “Prunus Spinosa” è un arbusto abbastanza longevo, può vivere in media sessanta - settant’anni ed particolarmente “ribelle” alla cultura e soprattutto al trapianto, per questo motivo gli viene attribuito un particolare simbolismo in quanto il prugnolo è simbolo di “indipendenza”. Nelle antiche credenze popolari era considerato una albero magico poiché all’interno del suo impenetrabile intreccio di rami poteva ospitare sia il bene che il male, veniva piantato in prossimità della casa, la proteggeva dal fuoco e dai fulmini, mentre ne preservava gli abitanti dalle malattie. Sempre nelle antica tradizione popolare, portare addosso un ramoscello di prugnolo allontanava il male, le calamità, i demoni e le negatività. Essendo un arbusto con accrescimento molto lento ha un legno parecchio duro, ottimo come legna da ardere e per fare al tornio piccoli utensili da cucina. Il tronco di prugnolo era assai apprezzato dai contadini per farne bastoni da passeggio, chiamati “bastoni di spino” perché si credeva che proteggessero il viandante dalle forze del male e siccome nella tradizione popolare si è sempre pensato che portasse fortuna, ancora oggi molte delle bacchette dei direttori d’orchestra sono realizzate con legno di prugnolo. Durante l’ultimo periodo bellico, anche nella nostra zona, le foglie del prugnolo venivano tostate e usate come surrogato del tè. La corteccia ed i fiori, che però bisogna utilizzare con cautela per della presenza di tracce di Acido Cianidrico, vengono impiegati in alcune applicazioni d’erboristeria. Il prodotto più di maggior pregio della pianta sono però i frutti. Essi hanno un buon contenuto di tannino e possono essere consumati perfettamente maturi. La perfetta maturazione delle drupe, che arriva nel periodo tardo-autunnale e invernale, è rivelata oltre che dall’appassimento, dalla morbidezza che si sente schiacciando il frutto con le dita e poi, spremendolo in bocca, dalla gradevolezza del gusto. Oltre a questo, l’impiego più comune e interessante del frutto del prugnolo avviene nella preparazione di caratteristici liquori. Dalla nostra drupa si ottiene un liquore molto alcolico detto “Bargnolino” o più comunemente “Prunella”, sia per fare la grappa di prugnolo che la grappa al prugnolo 8 che sono due tipi diversi. Il “Bargnolino” è soprattutto conosciuto sui due versanti dell’appennino Tosco-Emiliano e Tosco-Romagnolo. Per la sua preparazione, i frutti vengono raccolti dopo la prima gelata, schiacciati e macerati in alcol a 95°, al quale viene aggiunto del vino bianco, per abbassarne a piacimento il grado alcolico. La macerazione in alcool della drupa, manda in soluzione le ricche sostanze salutari, tonificanti, digestive, astringenti, gli acidi organici, i tannini e gli zuccheri della polpa. Viene inoltre aggiunto un po’ di zucchero, miele e cannella e lasciato riposare. Lo si può gustare dopo sei mesi, però posso assicurarvi che è ottimo anche dopo un solo mese. Per coloro che non sopportano alte gradazioni alcoliche, è possibile prepararlo eliminando l’alcol e facendo macerare le drupe nel solo vino, aggiungendo poi gli altri ingredienti. Il frutto del prugnolo veniva e ancora viene, soprattutto nei Balcani, usato per fabbricare grappe. Sempre nei Balcani, da solo o insieme alle prugne, viene usato per fare un distillato chiamato “Rakji”, che in Albania è il liquore nazionale .La polpa senza nocciolo viene macerata a caldo per favorire la conversione dello zucchero in alcol, il quale viene poi estratto per distillazione. La grappa ottenuta dal “Prunus Spinosa” è una acquavite rara, bianca, aromatica e …molto, molto buona! Agli inizi del secolo scorso veniva prodotta in Val Pusteria dalla leggendaria “Ezian-Tresl”, la “Teresina della Genziana”, locandiera di un rifugio alpino nei pressi di Dobbiaco. Come dicevamo, anche nelle nostre zone, ma soprattutto nell’Appennino Romagnolo, la drupa matura del “Prugnolo” è utilizzata per aromatizzare grappe di produzione casalinga. A questo proposito il consiglio che mi sento di dare, sia da “Vecio Alpino” che da chimico di professione, è questo: occorre fare molta attenzione con le grappe fatte in casa, infatti essendo queste distillate (…e spesso ri-distillate!) con alambicchi arrangiati ed artigianali, nonostante l’eliminazione della testa (alcoli bassobollenti) e della coda (alcoli alto-bollenti) esse hanno spesso un sapore acuto e pungente. Ciò è dovuto a un certo grado di tossicità che in esse rimane, pur con tutte le precauzioni prese, per la presenza nel prodotto finito di tracce più o meno consistenti di metanolo e di altre simili sostanze. Tornando alla Nostra pianta, un altro suo singolare pregio è che spesso, nelle sue vicinanze immediate, possiamo trovare un fungo molto ricercato dagli appassionati, la “Calocybe gambosa”, chiamata comunemente “prugnolo” proprio perché nasce nei pressi di questo arbusto. Dunque una pianta rustica, scostante e pungente, ma che saputa conoscere, alla fine viene anche apprezzata e che ha avuto, insieme alla “Rosa Canina” una certa importanza durante le carestie medievali, facendo parte di quel gruppo di arbusti che spesso integrava l’alimentazione dei poveri. D’altra parte appartiene alla famiglia delle Rosacee e, come si sa, in questa famiglia botanica, non c’è rosa senza spine. Vannetto Vannini LE RICETTE DI... DANIELA Noi del CAI, "PESTIAMO" in lungo e in largo il territorio e per questo ho pensato di condividere con voi, oltre alle camminate, anche alcune ricette che possono tornarvi utili, quando gli amici rimangono inaspettatamente a cena." E ora cosa cucino?" Niente panico!!! Prendete le foglioline di salvia senza picciolo, circa 1 hg, altrettanti pinoli, altrettanto formaggio che avrete senza dubbio in fondo al frigo, uno spicchio d'aglio e tritate velocemente il tutto, aggiungete olio quanto basta e condite la pasta, o il riso, o direttamente sul pane arrostito. Farete un figurone, ve lo assicuro!!!Tutti fanno il pesto con il basilico, ma viene buonissimo anche se lo fate con grumoli di cavolo nero e noci, o barbe di finocchio (le foglie verdi che noi buttiamo via quando li puliamo) e mandorle, e per i più selvatici provate a farlo con l'acetosa (Sallecciola), aggiungendo oltre alle mandorle un cucchiaio di semi di girasole. Io ricordo sempre l'escursione che abbiamo fatto tempo fa sui monti di Sansepolcro, dove abbiamo trovato foglie di aglio orsino, tornati a casa ho fatto il pesto e vi assicuro che tutti hanno fatto il bis. Continuate a "PESTARE" il territorio con uno sguardo a terra! La natura ci regala sempre qualcosa!!! I miei migliori auguri di Natale e per l'anno prossimo vi auguro tante escursioni!!!! Daniela Venturi 9 (RI) CONOSCERE I FUNGHI LE VESCE e GLI SCLERODERMA 10 di Vincenzo Monda Attività Sezionale GENNAIO– MARZO 2015 Ogni martedì si svolgono escursioni infrasettimanali, solitamente di tipo “E” e sempre con mezzi propri, sul territorio regionale; il programma delle escursioni è visibile, aggiornato mese per mese, nella sezione PROGRAMMA del sito, in sede e presso le varie ProLoco. Si raccomanda a tutti gli interessati (soci e non soci) di contattare il referente della singola esc ursione (nome e recapito telefonico nella circolare) il pomeriggio del lunedì per avere conferma. Sabato 14 Dicembre Sabato 21 e Domenica 22 Febbraio PRANZO SOCIALE LIGURIA: Riomaggiore—Portovenere Pullman *** Domenica 11 Gennaio DIFFICOLT A’: percorso di tipo E PRATOMAGNO: Invernale in Pratomagno Accompagnatori sez.: Romano RESTI — Stefano COLASURDO *** Mezzi propri Domenica 8 Marzo DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Accompagnatori sez.: Romano RESTI — Gabriele Piccardi RAPOLANO: Anello di Villa Boninsegna MTB *** Pullman Domenica 25 Gennaio FIGLINE (RESTONE) - LA GARZAIA DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Mezzi propri Accompagnatori sez.: ROGHI — Mario CARBONAI *** DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Sabato 14 Marzo Accompagnatori : Luciano ROMANELLI — Lorenzo BIGI *** ASSEMBLEA ORDINARIA DEI SOCI Domenica 8 Febbraio *** Domenica 22 Marzo CHIANTI: Anello del castello di Strozzavolpe Mezzi propri SIENA MONTAGNOLA: Sovicille—Villa Cetinale DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Pullman Accompagnatori sez.: Vannetto VANNINI — Luigi CARDELLI DIFFICOLTA’: percorso di tipo E Accompagnatori sez.: Marcello MANCINI — Franca DEBOLINI EDITORE DIRETTORE RESPONSABILE REDAZIONE Lorenzo Bigi Ermanno Carnieri Gisella Fabbrini Mario Bindi Vannetto Vannini COLLABORATORI Daniele Menabeni Vincenzo Monda A Voi Tutti Buon Natale Buon Anno 11