digital magazine | settembre 2014 | n. 119 r u s G r e t i e e n L a n g u a g e sommario > > > a r t i c o l i – p. 4 Interpol M OO S TROO Ghemon S e a m u s C at e r Ben Frost C o l d M e at I n d u s t r y Twenty for ‘94 Rustie G r i m e 2 . 0 P c M u s i c o lt r e skiantos > > > r e c e n s i o n i – p. 9 0 > > > r u b r i c h e – p. 1 6 2 #119 settembre Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Fabrizio Zampighi, Marco De Baptistis, Edoardo Bridda, Christian Panzano, Stefano Pifferi, Sebastian Procaccini, Stefano Solventi, Diego Ballani, Alessandro Liccardo, Giulio Pasquali, Gabriele Marino, Stefano De Stefano, Riccardo Zagaglia, Filippo Bordignon, Andrea Tabellini, Marco Braggion, Marco Boscolo, Federico Pevere, Tommaso Iannini, Gaspare Caliri, Andrea Macrì, Giulia Antelli, Daniele Rigoli, Elia Galli, Stefano Gaz, Antonello Comunale, Andrea Murgia, Lorenzo Costa, Alessandro Pogliani, Teresa Greco, Eugenio Goria, Alessia Zinnari, Marco Frattaruolo Copertina Rustie Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare. I n t e r p o l N u o v i c o l o r i s o u n d d i p e r N e w i l Y o r k Quattro anni fa uscì l'ultimo lavoro degli Interpol con il bassista Carlos Dengler nella line-up; nel frattempo Paul Banks ha inciso un disco solista e la band ha curato una deluxe edition di "Turn On The Bright Lights" in una deluxe edition celebrativa. "El Pintor" segna il ritorno di un gruppo in ottima forma. >>>Testo di Alessandro Liccardo Il chitarrista degli Interpol racconta il nuovo album “El Pintor”, ci anticipa un sideproject che ascolteremo nel 2015 e anticipa qualcosa del prossimo tour. Sono passati quattro anni da quando gli Interpol hanno pubblicato il loro quarto album omonimo, l’ultimo con il bassista Carlos Dengler nella line-up. Paul Banks, il frontman, ha interrotto il silenzio dando alle stampe il suo secondo album solista (stavolta senza celarsi dietro l’alter ego Julian Plenti) nel 2012, anno che ha anche visto la ripubblicazione del primo album Turn On The Bright Lights in una deluxe edition celebrativa. La band è tornata in ottima forma con El Pintor, il materiale inedito più convincente da Our Love To Admire. In esclusiva la nostra chiacchierata con 4 Daniel Kessler, chitarrista e membro fondatore di un gruppo che, in dodici anni, continua ad essere ancora oggi un riferimento per l’intera scena indie rock. Ci attende anche un suo side project, dopo El Pintor? Ecco cosa ci ha raccontato. El Pintor è un titolo misterioso, significa “il pittore” in spagnolo ma, pensandoci bene, è anche l’anagramma del nome del gruppo. Cosa c’è dietro la sua scelta? È vero, è l’anagramma di Interpol ma ha anche un suono suggestivo, e un significato più astratto e arty - avrai notato sicuramente le mani in primo piano in copertina. Mi è piaciuto richiamare in maniera astratta l’immagine del pittore, anche se poi in realtà è sia una sintesi di entrambe le ipotesi, sia un modo per lasciare aperta ogni interpretazione. Ho trovato il nuovo disco più compatto e coerente rispetto alla vostra ultima prova in studio, che, al contrario, aveva alcune ottime canzoni ma funzionava meno bene nel complesso. Ricorda molto Antics. È cambiato qualcosa nella scrittura dei brani, dopo l’uscita di Carlos Dengler? È un lavoro più “concettuale” e atmosferico rispetto al precedente, e ci piace l’idea di avventurarci ogni volta in qualche strada mai percorsa in precedenza: a volte la scrittura può essere lineare, altre volte va invece in direzione opposta. La scrittura qui è più diretta, ed è vero che il disco scorre bene dall’inizio alla fine. È un album “vero”. C’è una miscela di elementi nuovi e “classici” del vostro sound, sento una grande attenzione per le melodie ma anche per le texture. In studio a New York hai lavorato con Brandon Curtis dei Secret Machines, Rob Moose (Bon Iver) e Roger Joseph Manning jr: queste persone hanno contribuito a far entrare qualcosa di nuovo nel sound degli Interpol? Si tratta di amici con cui abbiamo collaborato anche dal vivo. Con Roger ci siamo conosciuti tempo fa ed è un ottimo tastierista; anche Rob ha dato il proprio apporto, ma le canzoni avevano già preso vita quando gli ospiti hanno registrato i propri contributi. Alcuni brani risalgono al 2012, altri al 2013. Il fatto che si sentano molto il basso e la chitarra è perché volevamo un disco che suonasse più rock del precedente, che invece aveva orchestrazioni più complesse e molte tastiere; riesco a suonare molti brani con la sola chitarra. Daniel, sei un membro chiave della band, anche in virtù del tuo precedente lavoro alla Domino. Per un’edizione particolare di questo disco vi siete rivolti alla piattaforma Pledge Music; com’è cambiato, da Turn On The Bright Lights, il modo di proporre nuova musica al pubblico? Di certo il music business è molto cambiato, ma quando debuttammo non sapevamo davvero cosa aspettarci; le scelte di marketing al tempo furono molto tradizionali, e riuscimmo a farci spazio lentamente, spesso grazie al passaparola. Era più facile, nel 2002, che qualcuno comprasse il disco, anche per l’artwork; ora si finisce di registrare, passano quindici giorni ed è tutto già reperibile in rete… Siamo emersi all’inizio della digital age, in fin dei conti, ma chiaramente allora non c’erano i social media e oggi con le piattaforme dedi- 5 cate agli streaming è tutto a portata di mano, non è più indispensabile recarsi in un negozio di dischi. Come insegna il caso di In Rainbows dei Radiohead, molto è cambiato anche nel modo di proporre e vendere la propria musica. Da una parte è vero che si vende meno, dall’altra notiamo che la musica diventa disponibile più facilmente anche a chi altrimenti sarebbe propenso ad ascoltare solo i nomi che propongono i grandi network radiofonici. E la cosa mi piace. Parlando di social media, quando è uscito il video di All The Rage Back Home su SENTIREASCOLTARE ci siamo accorti di quanto, dopo oltre dieci anni di attività, un vostro nuovo disco sia ancora un evento attesissimo. Di certo ne andrete molto orgogliosi. Prima tutti avevano fretta di incasellarvi, eravate il “nuovo suono di New York” ma allo stesso tempo dei post-punk revivalists. Siete diventati un “classico” che ha fatto scuola e ha influenzato la scena indie-rock per 6 tutto il decennio successivo… Siamo entusiasti della reazione positiva dei lettori del vostro magazine in Italia. Sì, inizialmente ci hanno etichettati in molti modi, in primis revivalists perché alcuni suoni, alcune atmosfere, erano presenti in dischi di un’altra epoca, soprattutto inglesi ma non solo. Ma è un qualcosa di cui oggi, davvero, mi curo assai poco. Non penso molto in termini di “categorie”, e se ci sono influenze è perché in fondo quelle rappresentano ciò che sono e il mio percorso che mi ha portato fino a qui. A proposito di Italia, mi sono accorto che alla fine del settimo brano del nuovo album, Breaker 1, c’è un frammento di una conversazione in italiano con un forte accento del Sud. Da dove è stato tratto? Eh, qui se permetti mi piace mantenere un alone di mistero! È stata una decisione presa all’ultimo minuto, abbiamo scelto di utilizzare una parte parlata in italiano perché “musicalmente” ci piace la vostra lingua. Il frammento ha una qualità cinematografica, proprio l’effetto che si desiderava trasmettere. Ci sono molti episodi in El Pintor con un forte potenziale radiofonico. A un primo ascolto mi ha colpito My Blue Supreme così come Everything Is Wrong e Tidal Wave. È sbagliato, a tuo avviso, considerare questa nuova prova discografica meno “dark” e con più sprazzi di luce rispetto al passato? Abbiamo cercato di tirar fuori il carattere da ogni singola canzone, da soli e in gruppo, affinché ognuna avesse una funzione precisa all’interno dell’album. Nel caso di My Blue Supreme, che hai citato, volevamo qualcosa quasi di “esotico”, al contempo potente e interessante, e tutto è partito da un riff di chitarra che avevo in testa. Il brano ha preso forma dopo, ho fatto ascoltare la mia idea ai ragazzi e loro poi l’hanno trasformata insieme a me. Ma non è raro che si parta da un particolare, si tratti di una linea di basso oppure di un’armonia vocale; e spesso si tratta proprio delle canzoni che alla fine amo di più. El Pintor esce per Matador, come i vostri primi due album. Our Love To Admire venne pubblicato da Capitol, oggi etichetta della Universal; avete più libertà oggi o non hai avvertito poi questa grande differenza tra le due esperienze? Siamo ancora in ottimi rapporti con lo staff, fu un lavoro molto curato e ti posso assicurare che non abbiamo mai avuto particolari pressioni. Consegnammo il terzo disco alla Capitol, loro ci dissero “ok, thank you very much”. Sapevano che cosa volevamo. Poi purtroppo ci sono stati dei cambiamenti all’interno dell’etichetta, come spesso capita all’interno delle major. Gli Interpol, dicevamo, sono il “suono di New York”. Tu però sei londinese, un Englishman in New York. Quanto di inglese, e di europeo, c’è nel tuo background e nella tua cultura musicale? Non amo categorizzare la musica che amo in termini di nazionalità. Considera poi che ero ancora un quattordicenne quando arrivai negli States… e provai subito interesse per la scena underground. Gli altri membri degli Interpol hanno lanciato progetti paralleli o pubblicato dischi solisti. Hai qualcosa in cantiere anche tu, oltre all’attività con la band? Ci puoi anticipare qualcosa? Inoltre, visto che a gennaio vi vedremo sul palco anche a Milano, sarà dato spazio a tutti gli album o ci sarà un’enfasi su una particolare fase della vostra carriera? Sì, ho anch’io il mio side project. Si chiama Big Noble, il disco è praticamente pronto e uscirà nel corso del 2015. Si tratta di una collaborazione con un caro amico, l’artista Joseph Fraioli, che compone musica elettronica come Datach’i. Sarà molto strumentale e atmosferico, qualcosa di molto diverso da ciò che faccio con gli Interpol. La selezione per le future setlist, lo garantisco, saranno bilanciate: suoneremo brani da tutti i nostri album. 7 M OO S TROO L'essenzialità dei suoni propagandati dai Moostroo diventa una sorta di patente per un messaggio disturbante e che non fa sconti, tanto abile nel delineare lo squallore di un certo tipo di modello sociale (il nostro), quanto capace di arricchire il nucleo postpunk con dettagli inediti e surreali anch'essi. Abbiamo intervistato la band >>>Testo di Fabrizio Zampighi 8 C e n t r i g r a v i t a z i o n a l i d i p r o v i n c i a Dalla patchanka band Jabberwocky al post-punk allargato dei Moostroo: Dulco Mazzoleni (voce e chitarra), Francesco Pontiggia (basso) e Igor Malvestiti (batteria) danno vita due anni fa a un progetto musicale che mescola suoni taglienti e (auto)critica sociale, plasmando il tutto nell’omonimo esordio discografico pubblicato nel 2014. Il punto di vista è peculiare fin dalla strumentazione, con un compendio di chitarra classica elettrificata, basso a due corde e drum kit ridotto all’osso che fa il paio con le storie a sonagli propagandate dall’album, in cima a tutte una Silvano Pistola che sembra mimare un Bowling a Columbine della provincia bergamasca. L’essenzialità dei suoni diventa una sorta di patente per un messaggio disturbante e che non fa sconti, tanto abile nel delineare lo squallore di un certo tipo di modello sociale (il nostro), quanto capace di arricchire il nucleo post-punk con dettagli inediti e surreali anch’essi. Compresa una can- 9 zone d’autore tatuata nell’anima e che non t’aspetti, richiamata alla bisogna tra un De Andrè riletto in altre sedi e un songwriting wave di buona attualità. La nostra intervista al gruppo. L’idea che ci siamo fatti del vostro progetto è che tutto orbiti attorno a una critica sociale “disturbante” che sembra un po’ il filo conduttore dell’immaginario (testuale ma anche sonoro) del gruppo, a partire da una ragione sociale piuttosto particolare. E’ così? Chi è il Moostroo? Per essere onesti con noi stessi possiamo rispondere così: il nostro progetto, ovvero il trio MOOSTROO, è il centro gravitazionale intorno a cui ha orbitato il disco omonimo. In questa formazione è il primo, ma contiamo di proseguire, insomma di farci orbitare attorno altri dischi. Venendo alla domanda, questo primo disco, senza dubbio, ha una connotazione critica rivolta alla società, di cui noi – ovviamente – siamo parte. Ci fa piacere che l’abbiate colta. Quindi potremmo meglio dire che il disco è anche autocritico: non si limita al piano politico, ha a che fare anche con la dimensione individuale. Pensiamo che presumere di poter mettere all’indice ciò che eticamente non funziona nella società significhi contemporaneamente guardarsi allo specchio e darsi un bel ceffone per rinsavire. Ha per noi la funzione di mantenerci svegli e coi piedi per terra, perché ciò che ci spaventa è la mostruosità della narcolessia del quotidiano, degli automatismi e dei meccanicismi inconsapevoli, della routine sovrapensiero che ci rende miopi, sordi, facilmente manipolabili e quindi politicamente impotenti. In sostanza il 10 Moostroo siamo noi, ciascuno di noi in un gioco di specchi. La provincia bergamasca (che conoscete per ragioni biografiche), ma in generale anche quella italiana, è davvero così “mostruosa” come la descrivono brani come Silvano Pistola? Che influenza ha avuto il luogo da cui provenite sui contenuti di Moostroo? L’immaginario di provincia continua ad essere per noi un tema florido per diverse ragioni, prima fra tutte, il fatto che ci siamo nati. Associare però il concetto di mostruosità a quello di provincia è per molti aspetti profondamente ingiusto. Poi, purtroppo, i fatti di cronaca trasformano gli immaginari mostruosi in realtà – posto che i mostri sono ovunque e agiscono ovunque. La merda (per usare un francesismo) che subiamo a livello sociale, politico, ma anche esistenziale, trova in noi dei sicuri responsabili, già solo per il fatto di subirla passivamente, ma dall’altro lato ci è imposta dalle cosiddette stanze del potere centralizzato, là dove ha più valore il potere dell’umanità. Non c’è niente di nuovo in tutto ciò. Non siamo certo secessionisti. Facciamo semplicemente musica e cantiamo parole da questa nostra prospettiva, che fatalmente assomiglia alle prospettive di tante altre provincie d’Italia. Il fatto di essere lontani dal centro ha dei vantaggi: si percepisce meglio, perché molto più evidente, l’illusione del benessere, la retorica della produttività ed il potere soggiogante dell’ignoranza. Noi siamo anche orgogliosi di essere di provincia: gran parte di ciò che è prodotto nella Popular Music italiana, per noi degno di nota, è figlio della provincia. Anzi, a ben vedere, la cultura italiana ha prodotto gran parte dei suoi capolavori a partire proprio dalla provincia. C’è qualcosa di poco artefatto e di più genuino lontano dai centri di produzione. Resta il fatto che il profondo Nord Italia, che è quello che conosciamo meglio, sta perdendo la propria identità inseguendo ideali di benessere insostenibili e disumanizzanti. Basso a due corde, chitarra e batteria: quanto c’è dell’essenzialità creativa del post-punk nel vostro suono e quanto, invece, di altri linguaggi musicali? Il giro armonico di Silvano Pistola, in fondo, potrebbe essere un blues, i suoni della batteria ricordano i Nirvana prodotti da Steve Albini, brani come Autocomplotto suonano come una sorta di cantautorato new wave. Cosa ha determinato le scelte che avete fatto sugli strumenti e sull’estetica del disco? La line-up del trio non dipende da una scelta a priori del genere musicale. Post- punk è una definizione che ci è stata appiccicata addosso. Post-punk vuol dire tante cose. Non sappiamo se ciò che abbiamo prodotto sia ortodossamente fedele alla linea. E’ l’attitudine, forse, che ci fa assomigliare di più a quella definizione. Almeno fino ad ora abbiamo cercato l’essenzialità, nei suoni, nell’arrangiamento, nella scrittura. Abbiamo avuto un’urgenza di immediatezza (cosa che sembra andare di moda tra molti gruppi contemporanei, evidentemente per motivazioni comuni). Tutte le osservazioni che ci fai sono comunque corrette. Il blues c’è (è la radice), Steve Albini è per noi uno dei riferimenti quando si entra in produzione e la new-wave è la sorellastra del post-punk. C’è anche altro, tutto ciò che ci ha portato collateralmente fino qui: i Beatles, Dylan, David Byrne, Frank Zappa. Il risultato finale – come sempre – dato in pasto alle recensioni, inizia ad avere un’identità che magari non sogna- 11 vi neppure di ottenere. A noi non spetta recensirci, ma le recensioni sono fondamentali per comprendere che cosa recepiscono gli attenti ascoltatori. Il disco è venuto fuori così, innanzitutto perché abbiamo dovuto metabolizzare 15 anni di precedente progetto in cui noi tre, insieme ad altri otto (i Jabberwocky), abbiamo suonato con una ricchezza di strumenti e arrangiamenti che ora non ci è più consentita. In secondo luogo, i testi sono stati scritti in un periodo scuro, con una visceralità evidente. Ma oltre a ciò, dalla nostra c’è l’ironia che è un meraviglioso viatico per ridimensionare l’autocommiserazione e vedere il Re nudo. Inoltre, abbiamo avuto il bisogno di essere immediatamente comprensibili, perché l’intenzione è stata quella di comunicare, e le parole sono importanti, altrimenti perché usarle? Il lavoro di arrangiamento ha seguito due piste: asciuttezza strumentale e urgenza espressiva. L’estetica segue questa strada: i disegni che accompagnano il disco o la scenografia che ci portiamo dietro, ricalcano esattamente tutto ciò, ammorbidendolo con un tocco di ironia naïf. Negli anni ‘80 il post-punk nasceva anche come risposta all’edonismo e alla cultura dell’apparire che l’epoca thatcheriana/reaganiana aveva imposto a livello mondiale. Paragonati al momento storico che stiamo vivendo in cui marketing virale, hype, immagine ed egocentrismo da web 2.0 la fanno da padrone, quegli anni sembrano però un prototipo nemmeno troppo riuscito. La musica può avere un peso “politico” anche in una società come la nostra, in cui tutto viene bruciato in funzione dell’usa e getta 12 “internettaro” e non? Questa è per noi una domanda difficile. Apparteniamo alla generazione dei ‘90. Se consideri che l’icona pop di quegli anni si è sparato in bocca, puoi immaginarti il cortocircuito che si crea con l’edonismo contemporaneo. La nostra difficoltà sta nel fatto che questo bisogno di sovraesposizione “internettara”, come tu dici, ci sta contagiando. La fruizione della musica è cambiata velocemente. Prima ci si scambiavano audiocassette, passando i pomeriggi a creare compilation (le compile) o disegnando le locandine a mano, adesso se non fai un video e non lo piazzi su qualche social network nessuno ti presta attenzione. La musica oggi ci sembra che non abbia più un peso politico. I musicisti noti preferiscono tutelare la propria privacy e difficilmente si mescolano al loro pubblico. Se queste sono le premesse come possiamo pensare che la Popular Music abbia lo slancio eversivo che ebbe decenni fa? Adesso è moda, ma forse lo è sempre stata. Vediamo molta più politica in coloro che si sbattono per organizzare eventi, piuttosto che nei gruppi musicali, ed è da questi ragazzi che stiamo attingendo idee, energie e visioni di mondo. In quegli anni c’era uno zoccolo duro di ascoltatori che premiava (soprattutto all’estero) certe produzioni, anche per questioni ideologiche, di approccio, culturali. Oggi ci si scanna su facebook (soprattutto in Italia) tra tifoserie musicali avverse, di solito per motivi risibili e che poco hanno a che vedere con la musica. Non è che, in fondo, l’unico atto sovversivo che rimane a una band come la vostra (e in generale all’artista serio) è l’atto creativo in sé, in un soggettivismo autistico che nega il senso di “comunità” che si sviluppava un tempo tra pubblico e band? Noi facciamo solamente canzoni. Gli aspetti antropologici di ciò che stiamo facendo ora non ci interessano (magari ci interesseranno quando ci si imbiancheranno le barbe). Pensiamo solo che di sovversivo, in questo grande cerimoniale della Popular Music, non ci sia più nulla. A volte anche l’atto creativo è condizionato dalle mode del momento e dall’urgenza di piacere al proprio pubblico. Io penso che nei rituali legati al rapporto tra pubblico e band oggi prevalga il narcisismo edonistico e i veri atti sovversivi vadano cercati altrove: in chi occupa le case, in chi si accampa fuori dalle aziende che esternalizzano l’intera produzione, in chi coltiva sui balconi, in chi semina le aiuole pubbliche o va al lavoro in bicicletta… Non prendiamoci in giro: con le canzoni non si fanno rivoluzioni, diceva un tale. Aggiungeremmo però che le canzoni possono aiutare a farsi delle domande e sviluppare il senso critico e la capacità di scelta. Sono già due obiettivi salvifici. Di informazione oggi ce n’è a profusione, per questo occorre sapersi orientare per non essere manipolati, anche nelle scelte estetiche. La tensione epidermica che sviluppa il vostro disco mi ricorda quella veicolata dalle ultime cose dei Luminal, anche se lo stile è differente. Come vedete la scena musicale italiana e quali artisti stimate di più al suo interno? Non abbiamo uno sguardo così acuto da comprendere tutto ciò che sta girando in Italia. Conosciamo ciò che ha più spazio, ma pensiamo ci siano veramente molti progetti che meriterebbero di emergere, e alcuni li stiamo conoscendo solo ora. In provincia di Bergamo ci sono moltissimi interessanti progetti musicali. Per citarne alcuni: Le Capre a Sonagli, i Gea, Barachetti/Ruggeri. In Italia seguiamo Capovilla, gli Appaloosa, Calibro 35, i TARM, gli Arbe Garbe… e molti altri. Che c’entra Il bombarolo (cover del brano di Fabrizio De Andrè inserita nella compilation Storie di un impiegato) con i Moostroo? Che rapporto avete con il cantautorato nostrano? Beh, se vuoi cantare in Italia in italiano di sicuro devi fare i conti con De André, ma siccome i conti con De André sono sempre in perdita, ciò che ti puoi limitare a fare è omaggiarlo rammaricandoti che non sia ancora vivo per regalarti visioni di mondo veramente sovversive. E poi, a dirla tutta, uno tra noi ha un braccio tatuato con le parole di Faber, essendo cresciuto a pane e De André. 13 G h e m o n I d e e e O r c h i d e e Album nuovo di zecca per Ghemon, figura importante per l'hip hop italiano degli ultimi anni. Tra riflessioni sul passato e approfondimenti sul presente, abbiamo messo sotto torchio il rapper/cantante di Avellino, in occasione dell'uscita del suo ultimo album, Orchidee. >>>Testo di Sebastian Procaccini 14 Ghemon è una figura molto importante del rap in lingua italiana, sia per un caratteristico approccio conscious, che per una mai celata voglia di offrire un approccio elegante e diverso da buona parte dei colleghi. Tra critiche e apprezzamenti, e collaborazioni anche di stampo mainstream (si veda l’ultima con Sirya), la carriera di Ghemon è ormai giunta a una tappa cruciale e questo ultimo disco sembra esporlo ulteriormente. Attratti dal suo percorso e anche dall’illustre schiera di nomi che hanno collaborato alla realizzazione di Orchidee, ci siamo soffermati con lui a parlare di moltissime cose, dalla gestazione del disco alle classificazioni fin troppo facili a cui viene sottoposta la sua musica. Prima di fare questa chiacchierata ho dato una spulciata a Facebook e ad altri social network, e ovviamente ho avuto vari scambi di opinioni con ascoltatori abituali della tua musica e dell’hip hop. Mi sembra che l’idea più diffusa sia quella di considerarti uscito definitivamente dall’hip hop, o dal rap che dir si voglia, e con un taglio netto rispetto a quanto fatto prima. Qualcosa di simile al percorso di Neffa, insomma. Ora, pur ritenendo da sempre il livore scatenato contro il primo Neffa “canterino” del tutto ingiustificato, credo che nel tuo caso si faccia un po’ di confusione. Chi ti ascolta da un po’ di tempo sa che il percorso è stato assolutamente graduale. Ti va di darmi qualche impressione sulle reazioni scatenate dal tuo lavoro? Sì, sono d’accordo, e sono contento che tu mi faccia questa domanda, è la prima volta che mi viene posta e mi fa molto piacere. Al di fuori di ogni polemica, credo che l’esigenza di mettere la musica in scatole, cioè le classificazioni, sia tipico di chi ascolta i dischi. Da parte mia posso dire che conosco esattamente il mio percorso, come dici tu io ho sempre cercato di infilare nei miei dischi elementi che mi piacevano, come appunto il cantato, con tutti i limiti tecnici del caso. Il cantato appariva già in E all’improvviso impazzire, che risale a 5-6 anni fa; anche se non c’erano ancora pezzi interamente orientati al canto, i due elementi si mischiavano. Quindi, sì, questo disco può anche essere definito trasversale, ma in fondo i pezzi senza rap sono due, e c’è un solo brano con un ritornello rappato, perciò direi che il cambiamento c’è stato e non c’è stato allo stesso tempo. Va però detto che di certo non sono il primo: se prendi Mos Def vedrai che non si è comportato diversamente. Andando invece in Italia, e tornando alla tua domanda, posso dire che sono sempre stato accom- pagnato da falsi miti e improbabili accostamenti: vedi ai miei inizi, in cui venivo immediatamente associato a Common, e vedi ora, che si parla di somiglianze con Neffa. Se mi trovassi a cena con Giovanni (Pellino, cioè Neffa, ndSA), proverei sicuramente imbarazzo sapendo di scopiazzarlo spudoratamente, visto che poi la missione originale dell’hip hop era appunto quella di non copiare. Capisco però la necessità dell’accostamento: altri artisti che abbiano avuto una virata altrettanto black non ce ne sono. Al massimo si cambia direttamente genere, mentre direi che in quella direzione forse ci siamo solo io e lui. Se la cosa aiuta a far capire chi sono e cosa faccio, comunque, direi che posso anche accettarla. Parlando del disco in sé, mi ha colpito l’approccio alla scrittura, specie per le parti cantate, che sono piuttosto complesse nonostante tu abbia cercato di renderle più melodiche possibili. É stato difficile curare questo aspetto? Direi che non è stato difficile come si potrebbe pensare. La vera difficoltà è nel trovare una soluzione di continuità tra le due cose, evitare che risultino completamente disarmoniche. Sicuramente ho concentrato l’attenzione sul togliere materiale, piuttosto che sull’aggiungerne, dato che il rap tende a farti eccedere sempre nelle parole; quindi ho soprattutto lavorato su questo aspetto e sul mettere al punto giusto le pause, elemento più che fondamentale nella musica. Sono andato a tentativi nel corso degli anni, è stato un gioco, impegnativo ma pur sempre un gioco, ed è stato piacevole. Passando dalla forma al contenuto, 16 sbaglio o questo disco è anche più personale degli altri, malgrado possa essere ascoltato da un pubblico più ampio? Sì, certamente è un album molto personale. Ho semplicemente pensato che raccontare la mia vicenda personale potesse essere più interessante rispetto a raccontare vicende altrui, magari mettendomi a parlare di cose come se fossi lì su un pulpito a giudicare. Dare lezioni di vita non è uno dei miei obbiettivi, anche se ammetto che in passato potrei aver dato questa impressione. É un altro dei grandi fraintendimenti legati alla mia persona, ci convivo da sempre, si tratta più di una foga appassionata tipica del rap, ma ho cercato di togliere quel tono lamentoso che in passato avevo. In realtà nemmeno nei dischi precedenti volevo fare il Gesù Cristo, puntavo piuttosto a dare lezioni a me stesso. Credo di essere arrivato comunque a un punto in cui ho abbandonato quell’aspetto, che ormai non mi interessa più. La mia posizione, a proposito di un atteggiamento che può essere sembrato da “predicatore”, è facilmente spiegabile: trovandomi di fronte a tantissimi che si presentavano come incazzati, sporchi e hardcore, sentivo il bisogno di mostrarmi in un modo differente. Per farlo e per non essere sottovalutato o ignorato, era necessario che lo rimarcassi anche con forza, assumendo posizioni forti che magari potevano far pensare a una mia presunzione. L’obbiettivo è sempre stato quello di non proporre qualcosa di diverso dalla vita di tutti i giorni. Se sono stati fatti errori, spero vivamente di non ripeterne. Dal contenuto al suono, forse il nucleo di questo album. Chiunque frequenti un po’ la musica anche al di fuori dell’hip hop, riconoscerà un sacco di nomi vedendo i musicisti con cui hai collaborato (membri dei Calibro 35, Rodrigo D’Erasmo, Patrick Benifei e altri). Si tratta di artisti con un percorso particolare, non di semplici turnisti (senza ovviamente nulla togliere alla categoria). Com’è stato l’impatto con figure dalla personalità artistica così spiccata? L’impatto è stato super. Io ho sempre 17 fatto musica che in qualche modo si è tirata dietro gli strumenti; è capitato più volte ai miei concerti che qualcuno caldeggiasse l’introduzione di questi elementi nella mia musica. Una cosa, tuttavia, era immaginare questa innovazione, un’altra era attuarla davvero, entrando in contatto con l’ego e la visione musicale di altre persone. Ogni volta che ne parlavo con Tommaso o con Fid Mella mi sembrava che fosse semplicissimo, ma iniziando a portare il tutto in una dimensione concreta, ho capito che tipo di interazione sarebbe stata, ed è stato davvero magico. Ho avuto a che fare non con semplici turnisti, ma con persone che sono state coinvolte da me e da Tommaso e hanno accettato con entusiasmo, mettendoci la propria faccia. Non si fa questo solo per soldi, se si è raggiunto un certo livello. Il rapporto con loro mi ha arricchito in più di un’occasione e credo e spero di essere cresciuto e di poter usare in futuro quello che ho imparato. Grandi assenti di questo album sono i feat. con i tuoi colleghi e amici, usanza a cui ci hai abituati nei tuoi lavori precedenti. Come mai una scelta così radicale? Detto in modo pulito, pulito: non me ne fregava nulla. Ho fatto tonnellate di brani con artisti o perché erano miei amici, o perché li stimo, ma questo era un progetto di tipo diverso. In quel modo non avrei potuto raccontare le cose degli ultimi due anni e soprattutto mostrare quello che è diventato ora il mio senso dello sviluppo della canzone, l’essere cioè uscito dalla tipica struttura di strofe da 16 barre con ritornello, featuring e scratch. 18 Dunque i feat. potrebbero tornare in un altro progetto o dovremo abituarci alla loro assenza? Non lo escludo, ma quello che ho ottenuto maggiormente da questo disco è la spontaneità, il coraggio di fare ciò che mi va, a patto che non ci sia una pianificazione, con discorsi artistici mirati a fare scalpore. Non mi sento di escludere nulla per il futuro, potrebbe accadere qualsiasi cosa. Come è andata la gestazione dei brani, dal punto di vista musicale? Tutta la parte di preproduzione è stata affidata a Marco Olivi e Fid Mella, ma come in passato ho avuto il mio ruolo anche in quell’aspetto. Per quello che riguarda invece le melodie, il lavoro è attribuibile in larga parte a me e alla mia tastierina, su quello non ci sono stati grandi apporti dall’esterno. E ansie da prestazione nel collaborare con altri musicisti? Ne hai avute? No, ma devo dire che è stato soprattutto grazie a loro se non le ho avute. Hanno avuto un atteggiamento molto aperto, sapevano che ero sia appassionato che preparato, ed è stato possibile avere un confronto senza che ci fosse alcun disagio. Salto di palo in frasca e ti faccio una domanda che vorrei farti da anni, visto che si tratta di un elemento fondamentale nel tuo modo di fare il rap: la pausa. Tu sei bravissimo a farne, è una cosa che ho sempre ammirato del tuo approccio. Come ti poni nei confronti di una scena che tendenzialmente sembra ricevere apprezzamenti più per un flow serratissimo, che appunto per le pause? In realtà è una domanda che nasce più da una mia curiosità personale che da altro… A parte dirti “bravo” per l’attenzione ai particolari, ci tengo a dire che non credo esista un solo modello “giusto”: nel rap americano posso amare Twista, l’anti–pausa, così come Q–Tip che invece ne piazza una ogni due parole. A volte, di fronte a chili di parole senza una pausa, mi trovo tuttavia un po’ a disagio; se pensi che il rap è un’espressione vicinissima all’idea del jazz, ti accorgi della differenza nel momento in cui un musicista fa un’assolo di un’ora senza una pausa: gli ascoltatori solitamente lo mandano a cagare, perchè sono preparati. Le pause sono sicuramente importanti, non credo che una sovrabbondanza di parole renda automaticamente buono un determinato brano. Sì, siamo d’accordo. Ma da cosa nasce questa grande precisione? Stavo pensando a un rigoroso computo sillabico ma dimmi tu… Direi che sicuramente mi hanno aiutato il tempo e l’ascolto di tanto rap americano. Gli ascoltatori più giovani spesso non fanno i conti con una grande verità: il flow è un elemento ritmico. L’inglese ha delle tronche che aiutano in termini di ritmicità, con l’italiano le cose si complicano, ed effettivamente ci ho dovuto lavorare parecchio, anche contando le sillabe come dici tu. Era una sfida per andare oltre quelle due o tre soluzioni che avrei adottato senza studio. Ti faccio la classica domanda finale, o quasi: qualcosa da consigliare come ascolti? Rischio di essere di parte: Big Joe e Johnny Marsiglia (compagni di Ghemon in Unlimited Struggle, NdSA) hanno una visione dell’hip hop underground avanzata, stanno facendo un discorso interessante dal punto di vista sonoro, adottando spesso soluzioni “squantizzate” come quelle che usavo io o anche Mista e Shocca. Mi piacciono moltissimo. Po ti direi che mi piacciono un sacco anche gli Smania Uagliuns, soprattutto per attitudine. Infine, per quanto non abbia bisogno della mia pubblicità, dico Salmo, artista distantissimo da me ma di cui apprezzo la coerenza. Di straniero invece? Fatima, Yellow Memories, il buon vecchio Prince che non stanca mai, il disco di Pharaoe Monch, quello dei Roots. Sono i principali ascolti di questo periodo. 19 S e a m u s C a t e r E c u m e n i c o e b i z a n t i n o La sua è una tutela dell'immaginario musicale anglosassone e un coerente recupero che sfugge al riciclo e alla fredda pattumiera postmoderna. >>>Testo di Christian Panzano 20 Seamus Cater è un poli-strumentista inglese che mescola contemporaneità e tradizione attingendo dalla sua terra d’origine, da musiche del mondo o da altri spazi sonori. Ha un’attitudine a sintetizzare, a rendere all’osso una melodia, un suono, una gamma di perifrasi che da altre parti troverebbero sfogo in formule più contorte. Eppure la sua telegrafica produzione quanto la sua infinita agenda lavorativa non concedono spazio a pause, risultando degne di un performer a tutto tondo. Da poco edito per la sua Anectodal records, Lunora, oltre ad attestare una peculiarità, è banco di prova per ogni suo vezzo artistico. Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore. I tuoi lavori sono spesso un tuffo nel passato, nella ricerca appassionata delle radici. Cosa ti spinge a guardare indietro? Molte delle canzoni scritte in Anectodes erano ritratti di persone nate tra la fine dell’800 e i primi del ‘900; è vero che è stato un tuffo nel passato, ma erano storie stimolanti. Da poche canzoni che avevo sono diventate una serie, mi sentivo ispirato e ho cercato di esplorare aneddoti o storie delle loro vite, vestendo i loro panni e narrando le vicende come se le avessi vissute in prima persona. Come l’effetto di un’eco, questi loro aspetti risuonano effettivamente in quello che cerco di rendere vivo oggi. Parlami del tuo amore per la concertina. Sembra riesca ad evocare una musica istintiva e personale… Sai, molta gente aggiunge sempre più strati di orchestrazione quando compone, facendo leva su una scala di valori che tende a sommare più che a sottrar- re. Io lavoro dal lato opposto della scala: prendo un elemento, delle parole, uno strumento o una tecnica, e vi aggiungo lievi strati fino a quando il pezzo non sembra funzionare. Poi mi alleno molto per trovare il giusto tipo di energia o di movimento, in modo tale da rendere tutto udibile col minor numero possibile di elementi. Mi sto impegnando molto nello studio della concertina, la presenza del suo suono è determinante e in futuro lo sarà sempre di più. A cosa o a chi ti ispiri quando fai musica? Se penso a quello che sto facendo adesso, è tutto ispirato da una combinazione di musica primitiva e musica sperimentale. Musica folk britannica, anche un sacco di roba etnica, africana, americana, asiatica, musica abbastanza semplice e con molta energia. Inoltre, roba sperimentale contemporanea, sia composta che improvvisata, di solito piuttosto concettuale a dire il vero. In questo momento sto ascoltando molta musica elettronica. Lunora, il tuo ultimo lavoro, fa esplicito riferimento a J.G. Ballard, scrittore britannico morto di recente. 21 Perché ti sei rifatto a lui? La vita di Ballard è affascinante e credo che questa cosa abbia reso la sua scrittura incredibilmente umana ed estrema. Mi è sempre piaciuto come riesce a descrivere certi stati d’animo, che ad altri sarebbero probabilmente sfuggiti. Come è stato lavorare con Uncle Woody Sullender e Viljam Nybacka? Come, invece, riesci a lavorare da solo? Con Woody abbiamo usato semplicemente i nostri strumenti base, armonica e banjo, esplorando lo stesso genere di cose, io ad Amsterdam e Woody a New York. È avventuto tutto in maniera naturale, abbiamo iniziato partendo da semplici strutture per poi improvvisare. Con Viljam, invece, ho scritto le canzoni e insieme abbiamo lavorato sull’orchestrazione dei brani inseriti in Anectodes. Volevo trovare un nonbatterista e Viljam era un bassista le cui abilità erano quelle che cercavo per la ritmica di batteria. Ora sto preparando una registrazione in solo: ci lavoro ogni giorno, anche se le canzoni sono sostanzialmente pronte, e credo che inizierò a registrare a breve. Ho scoperto che nel corso del tempo le canzoni cambiano. Se registro la stessa canzone ogni giorno per quattro giorni, la sensazione sarà diversa. A volte, dopo un mese, l’idea iniziale che avevo viene nettamente modificata. Lunora è il risultato di un tour svoltosi in Italia qualche mese fa. Ti è piaciuta come esperienza? Ho registrato Lunora al Lift Series di Attila Faravelli a Milano. Un piccolo spazio studio, il pubblico era composto da 20 persone, uno spettacolo molto 22 intenso, soprattutto perchè era la fine di un tour lungo 5 mila chilometri. Mi è piaciuta molto l’Italia, ci tornerei, ma devo imparare meglio la vostra lingua e poi trovare un concerto base intorno a cui costruire un nuovo tour. Hai accennato alla lavorazione di un tuo prossimo album. Altri progetti per il futuro? Sì, sarà un LP di concertina e voce, credo uscirà alla fine di quest’anno. Inoltre, posso già anticiparti che uscirà a breve un lavoro con Kai Fagaschinski (The International Nothing, The Magic I.D.), bravissimo clarinettista che vive a Berlino con cui collaboro da un po’. 23 B e n F r o s t D i s i n t e g r a r s i n e ll a m u s i c a 24 All’indomani dell’annuncio del tour in Italia, il prossimo novembre, facciamo il punto con uno dei personaggi più seguiti e iconici dell’intorno musica elettronica, postindustrial e contemporanea >>>Testo di Edoardo Bridda Ben Frost è certamente uno dei produttori di elettronica più dibattuti degli ultimi mesi. Ha grandi sostenitori ma, specialmente dopo la pubblicazione di A U R O R A, ha sollevato qualche perplessità circa la capacità di rigenerare la propria produzione dalla pietra miliare di Theory Of Machines (del 2007). È quello che succede spesso alle figure che riassumono su di sé una scena intera, a coloro che diventano, per scelta o per vicende artistiche e biografiche, rappresentativi di un periodo, di un modo di fare musica che raccoglie altri esponenti. All’indomani dell’annuncio delle quattro date che vedranno Ben Frost attraversare l’Italia a inizio novembre – a Bologna per RoBOt Paths, a Torino per il Club To Club 2014, a Roma per Europa Festival e a Bari per Time 25 Zones – approfittiamo del momento per restituire il punto che abbiamo fatto con il diretto interessato, in un’intervista che ci vede sviscerare la sensibilità del musicista e coglierne la spiccata coscienza del proprio ruolo, anche grazie a paragoni senza protagonismi con alcuni colleghi (quelli della medesima koinè di cui Frost fa parte, ma anche quelli che l’artista ha intercettato nella sua carriera, da Michael Gira a Oren Ambarchi). Ben è un conversatore cortese, disposto a guardarsi dall’esterno, predisposto alla maieutica dell’intervistatore. Ci ha stupito, tra gli altri aspetti, la consapevolezza che ha dei propri limiti – ad esempio quando si pone nei confronti di Tim Hecker e ne apprezza la superiorità come creatore di astrazione elettroniche. Di Hecker Ben invidia la capacità di lavorare creativamente nel caos, di scompaginare le carte. È come se invece Frost vedesse sé stesso come un musicista quasi-sperimentale: non di certo reazionario, ma neanche in grado di mettere in discussione le “regole” (e a volte i tic) della produzione elettronica odierna. Con grande lucidità, ma anche con ammirevole e disarmata consapevolezza, Frost ci svela il trucco che permette al pubblico di associare un carattere sperimentale alla sua musica, nonostante, sotto sotto, stia accondiscendendo e confermando le aspettative di quello stesso pubblico. In A U R O R A è chiaro un procedimento che trascina l’ascoltatore nell’onda emotiva del compositore. Ben Frost ci spiega anche questo: è un romantico, ma trascina perché è lui il primo a essere trascinato. La musica è spazio 26 di immaginazione emozionale, inteso come un gesto romantico radicale. Il sogno è risalire a quel momento aurorale (coerente con il titolo del nuovo album) dove l’uomo non si era mai visto “fisicamente” dentro, e poteva sperare nella presenza dell’anima. La sua musica – ci suggerisce – è una diretta conseguenza della ricerca di una nuova possibilità che esista un’intangibile. Per farlo ha bisogno di emozioni umane, riconoscibili e rassicuranti. Ben Frost non ha smania del controllo, non si presenta come un centellinatore di suoni, per quanto il suo output sia raffinato. Forse perché non fa musica per mettere al centro il suo ego, ma per dimenticarsene, in un processo di condivisione a cui va riconosciuta proprietà di mezzi e linguaggio. Leggendo le risposte alle nostre domande, ci attraversa il dubbio che non sia uno sforzo umano di resistere all’indifferenza della natura. Niente di più lontano dalle avanguardie figlie di Cage, semmai qualcosa di abbastanza vicino al rituale collettivo del ballo. A quel ballo a lungo disdegnato ma che di fatto ha dato stimoli basali alla genesi dell’album, come leggerete. Ma andiamo con ordine, e caliamo Ben in questa chiacchierata di oltre 40 minuti partendo dall’aspetto più emerso e noto della sua attività, l’imponente massa sonora dei live. Hai iniziato il tour di Aurora e suonato al Sónar di Barcellona. Ho letto che spesso ti si chiede dei volumi da decollo aereo che utilizzi durante i live; a me interessa sapere di più sugli aspetti tecnici con i quali ti presenti agli show. Siete in tre sul palco giusto? Beh, per la precisione ci sono 4 persone: io, il mio ingegnere del suono Daniel Rejmer, con il quale lavoro da dieci anni ormai (è un elemento importantissimo per i miei concerti; sai non è proprio un sound engineer normale, è proprio uno della band), poi ho due batteristi, ovvero, Greg Fox e Shahzad Ismaily. Tre sul palco e uno ai bottoni. Una curiosità: Aurora nella copertina del disco è scritto così, con gli spazi tra le lettere, c’è una ragione particolare dietro a questa scelta? Non particolarmente è una decisione della grafica, Rebecca Mendez. Lavoro con lei da un paio di lavori ormai, ha un modo molto specifico e personale di fare le cose. Ci piaceva come era rappresentata la scritta proprio così tutto in maiuscolo e con gli spazi. Sembrava avere un qualche tipo di senso. Prima di intervistarti ho letto un bel po’ d’interviste. So che l’album è stato influenzato dalle esperienze e il lavoro che hai condotto in Congo. Le session del lavoro sono state influenzate anche dal breve tempo che avevi per lavorarci e dal fatto che per ricaricare le batterie del laptop dovevi raggiungere dei potenti generatori nei villaggi non sempre accessibili. Come ti ha cambiato la vita quel viaggio? Wow è un domandone. Durante gli ultimi anni ho sviluppato un’esigenza mia. Volevo avere accesso diretto, non mediato, a tutto ciò che la televisione mi passava a proposito di differenti tipi ti culture, lunguaggi, cibo e donne ecc. Non volevo che la mia comprensione del mondo fosse un mero risultato del news feed della BBC. Volevo vede- re e capire con i miei occhi e le mie orecchie. Penso che aver trascorso del tempo nell’Africa centrale mi abbia dato la possibilità di parlare di una situazione nazionale dal mio punto di vista, di raccontare un sacco di cose alla gente che non ha visto e sentito. Inoltre, come musicista e compositore, dipendere da un generatore per fare la tua musica ha senz’altro cambiato la mia prospettiva, anche solo rispetto all’uso dell’elettricità. Al senso dell’elettricità per un musicista che fa musica elettronica. Al fatto che il Congo è ancora una colonia e io ne sono parte e ne siamo tutti parte e questa è un’inconfutabile realtà di cui devo ancora indagare completamente il significato. La mia prima intervista è stata con Michael Gira nel 2002, gli chiesi qual’era la differenza tra corpo e anima nella sua musica ma non volle rispondermi, era un concetto troppo personale e profondo, al tempo, per lui. Che ne dici se ti faccio la stessa domanda? Vivi la musica, la tua musica, in senso più fisico, materiale, o in un modo più spirituale? Dove ti collochi? E che tipo di connessione senti con la musica degli Swans? Credo che lo scopo della mia musica sia un disseppellimento della mia identità, come se cercassi di raggiungere un nucleo di senso interiore dentro di me. Credo che sia anche la natura di tutte le arti questa, ma fondamentalmente, ha anche a che fare con l’incomprensibilità dell’io, il rimuovere il tuo ego dalla situazione e fare qualcosa che trascenda le banalità della condizione umana. Questo è ciò che fa ogni buona forma d’arte, obiettivo che non mi sento parti- colarmente bravo ad ottenere. Certo, ci sono dei momenti passeggeri, ma credo che ci voglia un lungo viaggio per raggiungere dei punti fermi, un equilibrio, quando vedi nel tuo lavoro qualcosa che ti riflette ed è più grande di quello che hai messo dentro tu. Sai, è un po’ come la ricerca di qualche tipo di nuova energia, un combustibile fossile che, bruciando, ti restituisce sempre più di quello che è bruciato. C’è sempre un dispendio di energia e quello che cerchiamo facendo arte è esattamente quello che cerchiamo nella ricerca di nuove energie: che ci diano di più di quello che abbiamo investito. Che generino un of feedback-loop che esista e si potenzi al di fuori di te. Per quanto riguarda Michael, penso che condividiamo alcune idee sulla musica. Siamo due persone distinte, chiaro. Lui è più vecchio di me e viene da una condizione socio-politica che non riesco molto a comprendere, e non pretendo di averne una conoscenza. Siamo connessi sonicamente in molti modi ma credo, ecco, che le ragioni per le quali siamo qui siano differenti. Credo che il mio interesse sia per la potenza del suono, della musica, la parte scientifica e politica di tutto ciò. Sono affascinato dalla proprietà del suono, il suo potenziale nel trascendere la sua stessa natura e condizionare la psiche umana. Sempre parlando delle differenze tra te e Gira, credo che lui si metta al centro della sua arte. Controlla veramente di tutto ciò che gli accade attorno. Sentendo Aurora, è come se tu lasciassi che certe cose accadano e altre crescano… Penso che tu abbia ragione. Sin dalla na- 28 scita della musica digitale, l’intera genesi della produzione musicale elettronica al tempo in cui il computer fu inventato e portato negli studi di registrazione ha avuto a che fare con l’amalgamare e il rimpiazzare la tecnologia analogica preparando una situazione dove potevamo avere tutto sotto completo controllo. Tutto diventa un controllare parametri, che sia sincronizzare un nastro, armonizzare una voce o rendere un ritmo perfettamente metronomico o una linea di basso esattamente allineata ecc. Il punto è che lo abbiamo ottenuto ed è tutto troppo facile. Quello che vogliamo dalla tecnologia oggi è il caos. Lo vedi già nei nuovi synth e nelle drum machine e negli effetti a pedale. Tutto il feticismo riguardo a queste nuove macchine non riguarda il controllo ma il suo opposto, bottoni senza nome, effetti random, tutte opzioni per rimettere il caos dentro il sistema. Ed è tutto quello che rende una musica eccitante alla fine dei conti. Capisco quello che dici quando affermi che gli Swans sono la creatura di Micheal ma è anche vero che si è circondato di gente dall’ego imponente, ottimi musicisti che non sono sotto il suo completo controllo. Lui li conduce e stimola la loro interazione reciproca. Ci sono un sacco di cose che lui fa per incanalare le cose senza controllarle. Non voglio parlare per lui ma penso sarebbe d’accordo con me su questo. Vogliamo essere sorpresi. E’ quello che ho voluto fare con Aurora. Portarci dentro gente senza dirgli esattamente cosa doveva fare. Volevo il loro contributo. Volevo la loro ispirazione ed essere sorpreso a mia volta da loro. A proposito di sorprese, ho letto su Wire (che ti ha dato la copertina) che una notte sei salito su un vulcano in Islanda dove vivi e hai fatto l’esperienza di un senso di paura particolare. Questo mi riporta alla dicotomia della domanda precedente tra corpo e anima. Mi domando: può la paura rappresentare l’unica strada da percorrere per un qualche tipo di spiritualità in questi giorni? Se sei religioso, ok, questa cosa la raggiungi per altre vie, immagino, hai altri strumenti, ma in un mondo come il nostro, e lo vediamo anche nell’arte, la gente sta ricercando esperienze primarie e ancestrali per raggiungere qualcosa di sconosciuto e più vero. Avere paura di morire inghiottito dalla lava potrebbe essere un buon punto di partenza in questo senso… Certo, più siamo disincantati e più è difficile raggiungere qualcosa di sconosciuto e fuori del nostro controllo non credi? A maggior ragione iniettare caos è importante in questo mondo plastico e sterilizzato. Stando in cima ad un vulcano hai una sensazione molto papabile di essere alla mercè di qualcosa a cui non frega nulla di te. Non è interessato a te. Non riguarda te. La cosa che mi impressiona della religione e delle religioni è quanto infonda narcisismo nella gente. Quanto siamo ossessionati da noi stessi, tanto che abbiamo la spocchia di credere che c’è un Dio a cui interessa cosa 29 ci sta accadendo. Ma davvero? E chissenefrega? Proprio come piccole rocce che girano attorno a piccole stelle nel mezzo di un fottuto universo infinito, ripeto, a chi frega qualcosa di ciò che ci sta accadendo? Siamo così insignificanti, e proprio per questo ci mettiamo al centro di questa illusione. Siamo così annichiliti dalla realtà, shockati dal venir dimenticati. Credo che quest’aspetto sia presente in Aurora. Ma c’è dell’altro. Ci sono elementi narrativi, barriere, calma ed esplosioni di colore nelle tracce. Forse riflettono i colori all’infrared usati per le foto e il video girato in Congo? Avevi questi colori in mente quando componevi? Certo, assolutamente. Sono una persona orientata al visivo. Penso per immagini. Più passo il tempo a parlare con altri musicisti e più parlo loro della mia musica, più comprendo che il mio modo di vedere la musica è differente dagli altri. Per me, vedi, è una cosa profondamente visiva e fisica. Posso vedere quei suoni, hanno sfumature, hanno texture e colori. Tutto acquista un certo senso quando lo tari su questi parametri, arrangi un certo spazio in questo modo. E’ molto facile per me pensare in questi termini. Se hai una palette di colori in testa, poi la traduci in musica in un certo modo. Mi viene facile anche se non sempre funziona. Allo stesso modo cerco e trovo suoni che danno vita a un certo tipo di colore, a particolari sfumature. Mi stai dicendo che hai esperienze sinestesiche? Certe persone hanno innate queste capacità. Traducono senza pensare un suono in un colore… Beh no, per me non è una cosa così 30 diretta. E’ per ragioni che non riesco a spiegare. C’è un modo particolare in cui i suoni devono stare, per aver senso per me, per star bene e avere un senso preciso. Cercare queste cose nella musica di altri è sempre frustrante. Ecco perché faccio quello che faccio. Il mio lavoro è arrangiato in un modo soddsfacente e non turba il mio equilibrio interiore. Argomenti come musica e colori, mi portano a un altro tema di cui mi piacerebbe parlare con te, che è il romanticismo che attraversa la tua carriera fino all’ultimo album… Beh, diciamo che l’essenza delle cose che faccio non è documentaristica, non è un riflesso di una fottuta mondanità in cui siamo calati. E’ una manifestazione del mondo immaginata da me, o forse un nuovo tipo ti spazio, e proprio quest’ultima affermazione credo racchiuda l’essenza del romanticismo, immaginare spazi e realtà altre. E questo potrebbe semplicemente ridursi all’immaginare due idee divergenti che esistono nello stesso tempo e spazio, come si riconciliano queste cose in un unico spazio. Certo, è un gesto romantico, di sicuro lo è. Possiamo anche dire che il romanticismo è l’opposto del caos, così riassumendo i concetti che ci siamo detti prima, il tentativo è gestire contemporaneamente romanticismo e caos nella tua musica… Guarda, io credo che la morte del romanticismo sia accaduta quando abbiamo aperto per la prima volta con un bisturi il corpo umano. Non è uscito nessun magico fascio di luce. Non abbiamo anima. Non c’è nessuna fottuta palla luccicante di luce… … [tono scherzoso] Ti è per caso capitato di vedere 2001 Odissea Nello Spazio di recente? Tipo la scena iniziale con le scimmie: la celebrazione della fine di uno stato se vuoi romantico che dà l’avvio a una fase dove belligeranza e progresso sono unite inscindibilmente… [ride, NdSA] No, non l’ho visto di recente, ma, ripeto, l’idea è nello smembrare il corpo. La fine del romanticismo sta lì. Nel momento in cui iniziamo ad analizzare le ossa dei nostri corpi animali, facciamo l’esperienza di “hey questo è soltanto un’altro fottuto animale”. Non siamo differenti dal maiale che sta nel tavolo accanto. C’è un modo molto romantico e umano di sentenziare la morte del romanticismo. Voglio dire, prendi un uomo, lo fai a brandelli, quando finisce la sua umanità? Continuiamo ad arrovellarci su queste cose mentre non abbiamo ancora trovato un equilibrio in questo crescente caos sistemico di intelligence e consapevolezza. Non credo che il caos della natura e l’organizzazione siano concetti divergenti, sono randomizzati semmai. Come non credo che il romanzo possa esistere solo nell’assenza di caos. Altri musicisti con i quali sei stato paragonato, come Christian Fennesz e Tim Hecker – con il quale hai lavorato – hanno affrontato alcuni di questi stessi temi durante la loro carriera. Cosa ammiri nel loro lavoro e come vedi il tuo lavoro in rapporto al loro? Penso che il percorso di Tim sia un po’ più avanti rispetto al mio. Ha lavorato più di me. Si è spostato in un mondo d’astrazione. Non ho ancora abbastanza appigli per provare a fare qualcosa del genere. Tim è un maestro in questo. E’ un signore del caos! Proprio come il sistema con il quale s’approccia alla musica, è come se fosse in guerra, è una fottuta battaglia a terra con lui che traffica con teconologie che non vogliono essere controllate. E’ una cosa impressionante da vedere in evoluzione, esserne stato parte è stato importante per me. Non ho altro che ammirazione per lui. Per quanto riguarda Christian, beh i suoi primi lavori sono incredibilmente importanti. Sono dei landmark nella musica digitale. All’inizio della tua carriera suonavi la chitarra e usavi i layer proprio come Fennesz. Proprio lui mi raccontava in un’altra intervista alcune strategie che aveva usato per sabotare la tecnologia… Veniamo da differenti background. Il mio uso della chitarra al tempo era il gioco di un ragazzo che veniva da ascolti dei Metallica. L’inizio della mia avventura digitale è coincisa con me che, stanco di provare a convincere altre persone a formare una band, iniziavo a fare la mia musica in solitaria. Dunque è stata una necessità, più che una scelta. Ed inoltre non è stata un’evoluzione personale partita dal movimento dance, aspetto quest’ultimo che mi distingue dalla grande maggioranza dei producer e act con i quali mi trovo a dividere il palco. Hai suonato in una band con Oren Ambarchi però. Suonavi con lui nel passato giusto? Beh quella era la sua band. E sì, abbiamo suonato assieme un periodo. Vorrei tornare a fare qualcosa con lui ma le distanze influenzano molto. Lui vive 31 ancora in Australia, io in Islanda. Non è proprio facile. Tornando all’album e in un certo senso alla dance culture accennata prima, è vero che per quest’ultimo lavoro ti sei costretto ad usare soltanto synth da mercatino al posto del piano e della chitarra? Ho letto anche che lo hai fatto in reazione ad anni di dance music che ti sei sorbito nei festival ai quali ai partecipato in veste di musicista in questi anni… Beh la musica complessa ha spesso origini semplici. E questo è un fatto con Aurora. All’inizio ero io che provavo a fare qualcosa di dance, è iniziato tutto così per poi evolversi in qualcosa di molto differente e complicato. Quella semplice idea è diventata una piccola parte di un immagianrio molto più grande. Hai comprato roba nuova? Hai usato dei plug-in? Ho un sacco di differenti abiti, all’inizio trafficavo con tutto ciò che mi capitava facendomi prestare anche strumenti da altra gente. Non ho rispetto per alcuno strumento, neanche quelli vecchi. Non li feticizzo e idolatro, sono solo strumenti, mezzi per far musica. Provavi a fare dance music… lecito chiederti se hai iniziato a frequentarla a qualunque livello… Penso che ci siano molte regole non scritte nella musica di qualsiasi genere. C’è gente che fa dance o rock e non mette mai in discussione nessuna di queste regole tacite. Come dire: una drum machine deve stare a un certa frequenza e tempo, la techno deve avere certi bpm. Ci sono così tanti pre-set nella musica contemporanea che veramente poca 32 gente ha intenzione di metterli in discussione senza entrare in un mondo di un certo tipo di sperimentazione, quello cioé dove un ascoltatore deve attraversare un ponte verso un qualcosa di alienante e disturbato. Non credo che il mio lavoro sia particolarmente ostico ed è sempre sorprendente apprendere come venga descritto dalla gente come qualcosa di massicciamente sperimentale. Non credo proprio che sia un’osservazione accurata. Piuttosto credo che sia un tentativo d’ingannare l’orecchio, presentargli una cosa che non è. Con la gente che allo stesso tempo reagisce a questa musica a un livello viscerale. Hai sempre sottolineato in altre interviste il valore della sottomissione al suono e i tuoi live hanno volumi non proprio bassi. Penso anche all’uso che i Throbbing Gristle fecero dei loro impianti per mandar via un accampamento di nomadi o agli esperimenti dei Pan Sonic nei bunker. Sono da sempre molto affascinato da questo approccio alla musica… Sono un grande fan dei Pan Sonic e adoro ascoltarli. Dei TG ho un grande rispetto ma non sono per nulla legato a quell’idea belligerante e sadica dell’esperienza sonora. Quello che cerco di fare nella mia musica è trascendere lo spazio, tendere all’estasi a un certo punto, creare qualcosa che sia più grande di quando è iniziata. Che cresca anche al di fuori di me e dell’audience e che nei suoi momenti più belli esista al di fuori del tempo. Voglio perdermi nella musica. La sottomissione è tanto dalla mia parte, quando da quella di chiunque altro. Non voglio vedermi al centro di quella musica. Voglio disintegrarmi in essa. Puoi raccontarmi qualcosa dei tuoi lavori per le compagnie di danza? Sono sempre stato interessato dalla danza e dal corpo. In un altro mondo forse, avendo fatto altre scelte, probabilmente avrei potuto essere anch’io un ballerino. Ho soltanto trovato un altro modo di esprimermi. Ho fatto qualcosa per Ewan Mcgregor e Akron Kahn. C’è qualcosa di rigoroso nei loro lavori, un tipo di astrazione fisica ma applicata al mondo reale. Il loro è un lavoro che ha un’interazione diretta con il corpo e la gente. E’ una cosa che mi affascina molto. Loro puntano alle stesse cose: la disintegrazione dell’io in favore di qualcosa di più grande, e di sicuro all’interno di restrizioni. Ad esempio quelle dettate dal corpo stesso, limiti che cercano sempre di valicare. E’ affascinante far parte di tutto questo. Vedere come la mia musica possa lavorare con o contro queste situazioni o creare un dialogo che abbia effetto sull’audience in un modo mai banale. Quando ti è stato commissionato di arrangiare sezioni d’archi come te la sei cavata? E’ un processo veloce per te comporre questa musica? No, sono un terribile musicista in quel senso. E sono anche un scarso compositore. Ecco perché chiedo aiuto a un sacco di gente per molti di questi aspetti. E’ un po’ come dire: arrangiare archi non è proprio la mia lingua madre. Non la parlo fluentemente. D’altro canto ho le mie idee, so come dovrebbe funzionare questa cosa. So cosa vorrei dire e posso avvalermi di un buon numero di amici che sanno occuparsi degli aspetti tecnici molto meglio di me, per cui chie- dere aiuto è la cosa più giusta da fare. Non sono solo su un’isola. E questo vale anche musicalmente. Non sono quel compassato genio solitario che ha bisogno di far tutto da solo. Sono un collaboratore. Riconosco tutti i miei errori, che sono molti, ed ecco perché amo lavorare con gente che è migliore di me. Penso di aver costruito una carriera circondandomi di gente migliore di me. Non voglio essere il tipo in vista, piuttosto un piccolo lavoratore. Mi stimola a lavorare più duramente. E rende anche le cose più dure. 33 C o l d M e a t I n d u s t r y ( 1 9 8 7 - 2 0 1 4 ) R . I . P. 34 La label svedese Cold Meat Industry, stando alle parole del suo fondatore Roger Karmanik (Roger Karlsson), ha cessato definitivamente le sue attività. Ne ripercorriamo storia e successi. >>>Testo di Marco De Baptistis La label svedese Cold Meat Industry, stando alle parole del suo fondatore Roger Karmanik (Roger Karlsson), ha cessato definitivamente le sue attività. In questo articolo ripercorreremo la storia e i successi che hanno portato l’etichetta ad essere un faro per tutti gli appassionati di musica industriale e post-industriale. Vedremo anche come l’influenza imprescindibile degli artisti della CMI, ancora tutti in attività, sia viva e pulsante anche oggi in molte realtà musicali dedite a sonorità Noise, Industrial, Neofolk, Martial Industrial, Dark Ambient e non solo. Di seguito, il comunicato ufficiale di Roger Karmanik sulla fine della CMI uscito il 07 febbraio 2014: “Cold Meat Industry is Dead! I thought you ought to officially announce this…, and I should have told you long before…. But briefly: it has been hard to admit it… and to let it go! I am confident of my decision. I had a lots of fun during the years of creating CMI and I’ve learned it made a massive impact on the music scene. Being in the middle of this creative storm I got personally drained, it emptied my body 35 of strength, and happiness. It caused me deep depression, alcoholism, and misery. I, who thought I was invincible… It was hard to admit to me, and also to all people around me. Now, I am finding the way back to my innerself, and exploring life again – and music! I am proud of what I have done, but will not rest with that! Ashes to ashes, dust to dust, the Familygrave is sealed!” [La Cold Meat Industry è morta! Ho pensato di annunciarlo ufficialmente... e avrei dovuto dichiararlo molto prima... ma è stato difficile ammetterlo... e lasciarla andare! Ho fiducia nella mia decisione. Mi sono diverto molto durante gli anni della creazione della CMI, la quale ha avuto un impatto enorme sulla scena musicale. Essere nel mezzo di questa tempesta creativa mi ha personalmente svuotato, mi ha lasciato senza forze e infelice. Mi ha anche causato profonda depressione, alcolismo e miseria. Io che pensavo d’esser invincibile ... è stato difficile ammetterlo, anche per tutte le persone attorno a me. Ora, io sto ritrovando me stesso, voglio esplorare di nuovo la vita - e la musica! Sono orgoglioso di quello che ho fatto, ma non mi fermerò a questo punto! Cenere alla 36 cenere, polvere alla polvere, la tomba di famiglia è sigillata!] Vi sono label che hanno fatto la storia della musica alternativa e certo non si esagera affermando che la svedese Cold Meat Industry, fondata nella piccola cittadina di Linköping (solo 94.298 abitanti), sia stata una di queste. Se pensate a ciò che è stata la musica industrial e post-industrial negli anni ‘90, il peso internazionale che ha avuto la “fabbrica della carne fredda” risulta subito evidente: Arcana, Brighter Death Now, Coph Nia, Deutsch Nepal, In Slaughter Natives, Folkstorm, Ordo Rosarius Equilibrio, Puissance, Raison d’être, Rome, solo per citare un po’ di nomi, spaziando tra Industrial Noise, Power electronics, Neofolk, Martial Industrial/Neoclassical e Dark Ambient, che hanno esordito e/o hanno affidato alla label svedese i loro più oscuri capolavori. Lontanissimi anni luce dalla deriva commerciale dell’Industrial Metal americano o dall’Harsh EBM/Aggrotech più plastificato, la CMI ha rappresentato la resistenza dello spirito underground della musica industriale nordeuropea, nei suoi aspetti più radicali e senza compromessi; una forma di resistenza anarchica, alternativa sia al mondo della musica mainstream, sia al bel mondo della musica post-rock e “indie” patinata che piace tanto a una certa critica musicale. La CMI ha rivoluzionato anche il modo di concepire la musica industriale e non solo. Dall’esordio della label svedese nell´ormai lontano 1987, sino alla sua recentissima dipartita nel 2014, la CMI ci ha regalato una serie di capolavori immortali e, soprattutto, ha mostrato il lato oscuro che alberga nel cuore di tutti noi, costringendoci a guardare in faccia le nostre paure e i nostri desideri più nascosti. Da questo punto di vista, tutti gli artisti della label hanno introiettato – e se possibile anche estremizzato – lo spirito della provocazione presente nella prima ondata industriale (Throbbing Gristle, SPK, Monte Cazazza etc.) mettendo in luce che “il Male” non è sempre “banale” come spesso viene mostrato dai mass media. La messa in scena d’immaginari cruenti, nelle mani di artisti veri, può mostrarci altri mondi, persino aprire gli occhi sul nostro esser(ci) al mondo, avendo magari anche una salvifica funzione catartica. Nella terra socialdemocratica del “politicamente corretto” (il paese del “lagom”, che in svedese significa “attitudine media e moderata che rifiuta gli estremi”) la CMI ha rappresentato un bellissimo rogo luminoso nella notte in cui tutti i gatti sembravano grigi; basti solo pensare alle provocazioni estreme cui ci ha esposto, nel corso degli anni, Brighter Death Now, progetto solista Noise/Power Electronics di Roger Karmanik, fondatore e anima tormentata della label svedese. La prima uscita dell´etichetta è proprio un sette pollici di Karmanik (in questo caso sotto l’alias di Lille Roger), Undead del 1987, che mette subito in chiaro che non si faranno prigionieri. Ascoltando i classici dei Brighter Death Now come la trilogia Great Death, o Innerwar del 1996, si capisce subito quale sia stata la forza “eversiva” della CMI: temi scomodi come dittatura, pedofilia, sadismo e psicosi, urlati in faccia all’ascoltatore su un tappeto di musica distorta oltre ogni umana sopportazione o affogati in un mare di funereo e tetro Dark Ambient. Non a caso, s’incominciò a parlare di “Death Industrial” per descrivere la musica prodotta da Karmanik e soci. La CMI non si è limitata solo a sonorità noise estreme ma ha cercato sempre di far evolvere il suono industriale, accogliendo anche sonorità e iconografie di derivazione Black Metal, una forma di espressione musicale ed esistenziale che in quegli anni attraversava e metteva a ferro e fuoco (letteralmente) le terre scandinave. Henrik “Nordvargr” Björkk (già fondatore del gruppo EBM svedese Pouppée Fabrikk) con i suoi Maschinenzimmer 412, poi Mz.412, riuscì a mettere insieme harsh noise industriale, ambient rituale e atmosfere Black degne di Burzum in cattività, regalandoci perle indimenticabili come Burning The Temple Of God del 1996. Oltre ad una “pars destruens” noise/nichilista (ma quanto è molto più nichilista e inconsapevole di esserlo la società (post)moderna e – come si diceva una volta – “piccolo borghese”, nascosta dietro le sue ipocrite maschere democrati- 37 Deutsch Nepal che?) nella CMI c’era anche una “pars construens” aperta a forme di spiritualità che affondavano le mani nel passato, nella storia, nella tradizione e nei miti dei popoli scandinavi e non solo. Al di là del versante noise “oltranzista”, degnamente rappresentato da Brighter Death Now, Megaptera, Folkstorm, IRM, etc, nella CMI c’era anche un lato gothic noir-folk con gruppi seminali come gli Arcana di Peter Bjärgö, dediti ad evocative atmosfere medieval-ambient e neoclassiche (il loro debutto per la CMI del 1996 Dark Age Of Reason, è diventato una pietra miliare della musica “gothic”), e gli Ordo Rosarius Equilibrio (Tomas Pettersson e Rose-Marie Larsen), uno dei gruppi neofolk svedesi 38 più famosi, molto apprezzati anche in Italia, soprattutto per le loro collaborazioni con gli Spiritual Front di Simone Salvatori. Gli Ordo Rosarius Equilibrio, come molti artisti della CMI, con la loro unione di elementi contrastanti, tra sacro e profano, sembrano aver fatto loro la celebre legge di Thelema, elaborata dal mago e occultista britannico Aleister Crowley: “Do what thou wilt shall be the whole of the Law. Love is the law, love under will”. Il nome del gruppo deriva anche dall’Ordo Templi Orientis, organizzazione religiosa iniziatica fondata nel 1979, dedita alla preservazione e alla diffusione del sistema magico-religioso di Thelema. La CMI dopo aver scoperto e fatto conoscere all´estero diversi gruppi svedesi, fa esordire molti altri progetti neofolk europei come gli ormai celebri Rome del lussemburghese Jérôme Reuter, pubblicando i suoi primi tre album Nera (2006) Confessions D’Un Voleur D’Ames (2007) e Masse Mensch Material (2008). Altra uscita degna di nota, è stata il progetto del danese Thomas Bøjden, Die Weisse Rose che esordisce nel 2009 proprio per la CMI con A Martyrium Of White Roses. Come Rome, anche loro si concentrano su temi attinenti la storia del Novecento e sugli eventi tragici della seconda guerra mondiale. Da menzionare, sempre in ambito neofolk, l’imprescindibile live dei Blood Axis, Blót: Sacrifice In Sweden (1998), registrato dal vivo in Svezia nel 1997 per il decimo anniversario della nascita della CMI, uno dei massimi picchi del genere, con l’indimenticabile copertina che riporta il celebre dipinto di Carl Larsson “Midvinterblot”, realizzato nel 1915 per la sala della scala centrale del Nationalmuseum di Stoccolma. Il dipinto raffigura una leggenda dalla mitologia norrena che narra di come il re svedese Domalde fu sacrificato dagli Dei, all’interno del tempio di Uppsala, per porre fine ad una lunga carestia; un mito che è sempre bene non dimenticare in tempi di crisi. La CMI è divenuta famosa anche per aver prodotto diversi capolavori Dark Ambient. Uno dei principali baluardi del genere, nonché fonte di ispirazione per molti musicisti svedesi ed internazionali che si sono dedicati a queste particolari sonorità, è sicuramente stato (ed è tutt’ora) Peter Andersson, meglio conosciuto come Raison d’être, grande appassionato di filosofia orientale, buddismo tibetano e tecniche di meditazione. Enthralled By The Wind Of Loneliness, uscito nel 1994, è stata una delle massime vette del genere, un disco intenso e metafisico come pochi. Raison d’être Mortiis, alias Håvard Ellefsen, ex bassista del gruppo norvegese Black Metal Emperor, realizzerà in Svezia (tra il 1994 e il 1995) due dischi per la CMI di atmosferico dark ambient inquietante e malinconico, Ånden Som Gjorde Opprør e Keiser Av En Dimensjon Ukjent, influenzando diversi musicisti che si dedicheranno a forme eteree di Ambient Black Metal. Mortiis era membro del famigerato “Black Metal Inner Circle” che in quegli anni riempiva le pagine della cronaca nera locale e approdò alla CMI dopo la sua precipitosa fuga dalla Norvegia per problemi giudiziari. I paesaggi evocati da Mortiis sono quelli delle terre scandinave in inverno: freddi, affascinanti e in gran parte disabitati dall’essere umano; ottimi posti per stare da soli con se stessi, ascoltando la voce di quello che nella mitologia nordica si chiamerebbe “hugr”, ovvero, il nucleo essenziale del proprio essere, del proprio spirito, che può incarnarsi, a volte, anche in forme animali. Progetto importante è anche quello dei Desiderii Marginis di Johan Levin, capaci di spaziare dall´ambient più oscuro ad atmosfere liriche e contemplative. Altro fronte “freddo” della CMI da non dimenticare, è quello “Martial Industrial” che annovera gruppi seminali come i Puissance di Henry Möller 39 (proveniente anch’egli dall’ambiente Black Metal e, in seguito, fondatore degli Arditi assieme a Marten Björkman) e Frederik Söderlund, con il loro capolavoro Back in Control del 1998. Fondamentali per l’evoluzione del Martial Industrial, sono stati anche gli In Slaughter Natives di Jouni Havukainen, e i Coph Nia di Aldenon Sartorial: entrambi propongono robuste e decise ritmiche marziali con atmosfere apocalittiche, temi medievali ed esoterici. Il nome Coph Nia deriva dal “Liber AL vel Legis” (ll Libro della Legge) scritto nel 1904 da Aleister Crowley, il principale testo sacro del Thelema. The Dark Illuminati: A Celestial Tragedy In Two Acts del 2007 fotografa bene gli interessi di Coph Nia, tra citazioni di Crowley e inni a Lucifero visto come “Stella del mattino” e angelo ribelle. Molto importante è stata anche la collaborazione dei Ordo Rosarius Equilibrio con i tedeschi Triarii, una “liaison” martial-neofolk, in equilibrio tra amore e guerra, che darà vita al progetto TriOre con il buon disco Three Hours del 2009. Quella della CMI è musica che non sfigurerebbe come colonna sonora de “Det sjunde inseglet” (Il settimo sigillo) di Ingmar Bergman, il cui finale con la “danza della morte” viene rievocato anche nel layout del CD del 2004 di In Slaughter Natives, Resurrection, curato da Karmanik, come tutti gli aspetti grafici della label, dalle copertine, alle locandine, sino ai flyer. Infine, come non citare Deutsch Nepal, ovvero Peter Andersson (non la stessa persona dietro al progetto Raison d’être! – gli svedesi non hanno molta 40 fantasia con i nomi, e ancor meno con i cognomi, ma, in compenso, hanno molta creatività con i soprannomi) alias “Lina Der Baby Doll General”, co-fondatore assieme a Karmanik della Cold Meat Industry. Il suo lavoro come Deutsch Nepal consiste in un affascinante ambient industriale con sensuali venature marziali e derive etno-psichedeliche, accompagnato da ritmiche ipnotiche e coinvolgenti, da campionamenti vari e dalla particolare voce dello stesso “Lina Baby Doll”; celebri, del resto, anche le sue collaborazioni con gruppi come The Moon Lay Hidden Beneath A Cloud e Der Blutharsch. Il nome “Deutsch Nepal” viene dal brano omonimo realizzato nel 1972 dal famoso gruppo tedesco di krautrock Amon Düül II, come a sancire un fecondo connubio tra sonorità kraut e industriali, le cui tracce affiorano abbastanza evidenti nelle composizioni dell’artista svedese. Ma il vero motivo per cui è doveroso oggi ricordare la label svedese (oramai definitivamente chiusa, stando alle parole del fondatore Karmanik) è che la CMI è stata una sorta di ponte che ha avuto l’indiscutibile merito di collegare l’industrial degli esordi, con tutto il suo spirito iconoclasta e dissacratorio, con il lavoro di molte piccole label indipendenti di oggi, come ad esempio la canadese Cyclic Law che continua a pubblicare i nuovi dischi di molti artisti della CMI. In Svezia piccole realtà indipendenti come, ad esempio, Beläten e Ideal Recordings, hanno ammesso di avere più di un debito con l´esperienza della Cold Meat Industry. Joachim Nordwall, musicista poliedrico, fondatore della Ideal e anche membro dei The Skull Defekts, ad esempio, ha dichiarato proprio in un’intervista apparsa recentemente su una webzine italiana, d’essere stato molto influenzato dagli artisti della Cold Meat Industry, soprattutto per i suoi lavori solisti (Ignition 2010 e Psychic Propaganda 2013) o in coppia con Mika Vaino dei Pan Sonic (Monstrance del 2013). Anche all’estero etichette come Black Horizons, Aufnahme + Wiedergabe e Posh Isolation, hanno fatto tesoro dell’oscura resistenza industriale portata avanti negli anni ‘90 dalla label svedese, riuscendo, anche per questo, a cavalcare molto bene la nuova onda Noise/ Dark Occult/Low-fi. In Italia Atrax Morgue, alias Marco Corbelli, uno dei musicisti italiani noise/industrial più famosi e conosciuti all’estero (purtroppo prematuramente scomparso nel 2007), fu un grandissimo estimatore della Cold Meat Industry. Sempre in Italia, oggi piccole e pregevoli label come la romana Angst (Negativeself, A Happy Death, Compoundead, L.C.B.), portano avanti l’ardente fiaccola della famosa e stimatissima (sempre all’estero) scuola industriale italiana (Maurizio Bianchi, Mauthausen Orchestra, Sigillum S, etc etc.) ma devono moltissimo anche alle sonorità di Brighter Death Now e di tutta la scena Noise Industrial scandinava, soprattutto nell’attitudine e nello spirito provocatorio/iconoclasta. In un certo senso, il cerchio sembra chiudersi, dato che molti artisti svedesi della Cold Meat Industry erano grandi appassionati della scena Industrial italiana degli anni Ottanta e delle cassette, come quelle prodotte dalla “Old Europa Cafe” nei suoi primissimi anni di attività. Volendo, persino in alcuni artisti “mediterranei” odierni, nei progetti più oscuri dell’Italian Occult Psychedelia (come Mai Mai Mai, Heroin in Tahiti, etc), si potrebbero trovare delle tracce dell’ascolto di gruppi provenienti dal profondo nord, come Deutsch Nepal e un certo Dark Ambient svedese stile Raison d’être… I semi piantati sembrano stiano dando i loro frutti: una nuova era oscura (Another Dark Age per citare il titolo di un famoso pezzo degli SPK) sta forse arrivando? Nonostante la chiusura della CMI, molti gruppi storici sono ancora in piena attività, compreso il famigerato e sempre estremo progetto di Karmanik Brighter Death Now; niente revival per loro, dato che hanno continuato imperterriti e senza particolari interruzioni nel corso delle loro lunghe carriere. Molti gruppi della defunta label vengono apprezzati da un pubblico di appassionati sostenitori nelle loro (sempre troppo rare) coinvolgenti performance live, capaci di provocare e far discutere i benpensanti. Nuove leve, ispirate dalla label svedese, sono al lavoro: speriamo che non sia solo un’infatuazione superficiale e “iconografica” per certe sonorità estreme, ma questo si scoprirà solo con il passare del tempo. La Cold Meat Industry è morta? Lunga vita alla Cold Meat Industry e a chi ne continuerà l’opera! 41 T w e n t y f o r ‘ 9 4 I v e n t i m i gl i o r i a lb u m d e l 1 9 9 4 Venti dischi usciti nel ‘94 per celebrare il ventennale di un anno ricco di ottimi album 42 Venti dischi per un ventennale. Il 1994 ha rappresentato un anno chiave in quel decennio fondamentale nello snodo musicale tra mainstream e underground. L’apertura del primo nei confronti del secondo – sì, c’entra Nevermind e l’esplosione del grunge –, accolto dagli AandR di mezzo mondo come un grasso pollo da spennare, si tramutò da subito in una sorta di inconsapevole cavallo di Troia pronto a far compiere il primo passo verso il baratro del non-ritorno all’industria musicale. Innegabile, però, che ci siano stati dei vantaggi in questa dinamica di “accoglienza” nei canali di diffusione standard delle numerose tendenze dell’underground. In primis, la possibilità di far circolare artisti e dischi in maniera capillare e worldwide a fronte di una inevitabile chiusura nei circuiti di genere; cosa che nel mondo preinternet non era così scontata. In secondo luogo, l’esplosione di una serie di fenomeni discografici che rendevano evidente il fatto che il livello medio degli album fosse cresciuto a dismisura, specie per questioni quantitative e non solo qualitative. Allargando la platea di potenziali gruppi e dischi, aumentava di conseguenza anche il numero di ottimi lavori. Così, guardandoci indietro – proprio come facemmo per il decennio intero col Back To The 90s pubblicato un paio di mesi addietro – eccoci di nuovo a “giocare” con quello che è un listone, più che una classifica, ma pur sempre arbitrario e sindacabilissimo, dei 20 migliori dischi usciti nel 1994. Scelta ardua, dato che quell’anno fu particolarmente prolifico su vari versanti, tra conferme più o meno 43 piacevoli ed esordi indubbiamente da ricordare, anch’essi nel bene o nel male. Nella prima categoria da ricordare Il Communication dei Beastie Boys, il morbido Experimental Jet Set… dei Sonic Youth, il fondamentale Let Love In di Nick Cave, Toward the Within dei Dead Can Dance, Selfless dei Godflesh, Far Beyond Driven dei Pantera, l’epitaffio Sky Valley dei Kyuss, il fiacco Betty degli Helmet, I Could Live in Hope dei Low, Under the Pink di Tori Amos, No Need to Argue dei Cranberries, Same as It Ever Was degli House Of Pain, Brutal Youth di Elvis Costello, la doppietta ISDN / Lifeforms dei Future Sound of London, i Manic Street Preachers di The Holy Bible, Lisa Germano di Geek The Girl, Loved dei Cranes, il pesantissimo Sleeps with Angels di Neil Young and the Crazy Horse, American Recordings di Johnny Cash, etc… mentre nella seconda come non inserire il discusso Portrait of an American Family della macchietta Marilyn Manson, l’omonimo dei crossoveristi Korn e quello degli Ska-P, Burn My Eyes dei Machine Head, Blunted On Reality dei Fugees, il manifesto del black metal De Mysteriis di Mayhem, il più che buono Ruby Vroom dei Soul Coughing, Sixteen Stoone dei finti Bush, il disco blu dei Weezer, i Lambchop di I Hope You’re Sitting Down, i Sunny Day Real Estate di Diary, Ready to Die dello sfortunato Notorius BIG, Emmerdale dei Cardigans, tanto per fare dei nomi. Nello stesso fluviale modo, anche le tendenze cominciavano a mischiarsi, facendo emergere sul versante chitarristico riesumazioni plasticose e television-friendly (il punkettino più o meno annacquato di Dookie dei Green Day e Smash degli Offspring, contrapposto a quello altrettanto gioioso ma più “integro” di Punk in Drublic dei NOFX e How to Clean Everything dei Propagandhi), e traiettorie post-grunge di un certo interesse (l’Unplugged in New York dei Nirvana, Live Through This delle Hole, Jar of Flies degli Alice in Chains, Vitalogy dei Pearl Jam, Purple degli Stone Temple Pilots, Hungry for Stink delle riot grrrls L7, ecc…) che avrebbero presto cortocircuitato underground e mainstream, mostrando al secondo mondo le potenzialità commerciali e radiofoniche del primo. Non è un caso che in quell’anno videro la luce colonne sonore made in Hollywood come quelle de Il Corvo, Natural Born Killers, Pulp Fiction e Clerks. L’underground era ormai, e lo sarebbe stato sempre di più, questione da mainstream. Insomma, il 1994, di carne al fuoco – per ogni fuoco, fosse esso crossover o alternative, radio-friendly o di ricerca – ne mise 44 moltissima. Tocca a noi vedere ora, quali e quanti dischi hanno resistito al passare del tempo, quanti hanno segnato traiettorie ancora in auge vent’anni dopo, quanti sono stati sopravvalutati o sottovalutati con una cernita (soffertissima) da cui abbiamo scelto 20 album esposti rigorosamente in ordine alfabetico. Piccola nota a margine prima di concludere: visto che ci piace giocare non solo con la musica, ma pure con le parole, ecco che il titolo Twenty For ‘94 diventa per assonanza anche “twentyfour”, dato che ai venti titoli dell’anno che abbiamo scelto per questo divertissement aggiungiamo anche una piccola sezione da bonus tracks contenente quattro album usciti in quell’anno all’interno dei confini italici, altrettanto importanti per comprendere gli sviluppi “rock” di casa nostra. (SP) A phex Twin – Selected Ambient Works Volume II SAW2 è un totem osannato sia dai seguaci dell’elettronica, che dai rockers più incalliti. Non appartiene a nessun genere, svolazza sulle pianure dell’ambient, dello stupore IDM e del ricordo dell’era del rave, che proprio in quell’anno veniva abortita dal Public Order Act. L’ordinanza inglese costrinse gli organizzatori di party all’aperto a chiudere o a ridimensionare le dimensioni delle proposte, destinandole a trasformarsi in un prodotto mainstream e più blindato, e consegnando la carica rivoluzionaria delle zone temporaneamente autonome all’oblio del ricordo. La spensieratezza di Aphex Twin viaggia su uno stadio prenatale, amniotico, puntando su sensazioni indefinite che risolvono la trance rave con un autismo di contemplazione, uno sballo postumo di rilassamento continuo. Per alcuni il disco è l’apice della carriera del musicista (peraltro non ancora conclusa), per altri è un tradimento alle sperimentazioni più acide che aveva portato avanti fino a quell’anno (e che poi avrebbe comunque portato avanti con la serie Analord). Ascoltandolo oggi sembra che il tempo non sia passato, il disco mantiene la sua aura di classico ed esce dal tempo. Le tracce senza nome (a parte una) poi rinominate dai fan sui forum, la cura del design di copertina che impone il logo di Aphex come un marchio di fabbrica e molti altri particolari costruiscono una qualità che fa alzare l’asticella della reputazione del musicista non solo per quanto riguarda la parrocchia extra-colta, ma anche sui lidi della classica tout court. Le sensazioni di quest’album verranno riprese in seguito da molte delle correnti dell’elettronica, siano 45 esse ambient, chill, electro, new age o anche dubstep. Indefinibile, magico, spiazzante e sempre attuale: SAW2 non stanca mai, chiede solo di essere ascoltato con l’innocenza della prima volta. Stupefacente. (MB) Bark Psychosis – Hex Per lo meno in termini di vendite, questo esordio (e insieme quasi epitaffio) targato Bark Psychosis è un disco minore. Ma è anche un disco di indubbia rilevanza, a guardarlo a venti anni di distanza. In primo luogo per il suo innegabile status di culto che ancora oggi lo rende punto di riferimento sotterraneo. In secondo luogo per essere stato indiretto responsabile – ma manco troppo, a leggere in giro le dichiarazioni dei quattro, specie in merito alla dicotomia vuoto/pieno e all’interesse per il silenzio e la sottrazione – della nascita di una definizione di genere (non di un genere musicale, si badi bene, ma di una tra le tante definizioni con le quali cataloghiamo le musiche) che è ben presto divenuta una tra le più utilizzate e storicizzate degli ultimi decenni. È infatti nella recensione di Hex apparsa nel numero di marzo ‘94 di Mojo che un giovane scribacchino di nome Simon Reynolds coniò il termine “post-rock” per identificare una musica che era sì, rock, in quanto prodotta da un quartetto (grosso modo) standard, ma superava il rock per cristallizzarsi in forme sfuggenti e volatili (“using rock instrumentation for non-rock purposes”, ad esser precisi). Le osservazioni di Reynolds erano ovviamente centrate, dato che ci si trovava di fronte ad un disco notturno e gloomy, umorale e ondivago, evanescente e urbano, sfuggente e sfumato; concentrato sulla rarefazione piuttosto che sull’aggregazione di suoni, ma al contempo in grado di costruire visionarie microsuite (manco tanto, a giudicare dal minutaggio: sette tracce per più di 50 minuti) del calibro di The Loom, Absent Friend o della splendida chiosa pastorale di Pendulum Man. Sfortunatamente, Hex fu insieme capolavoro e canto del cigno, raggrumando in sé un destino beffardo simile a pochi altri lavori in tutta la storia del rock. (SP) B eck – Mellow G old Con un singolo intitolato Loser (già pubblicato off-album, con poca convinzione e in poche copie viniliche, nel marzo 1993), introdotto da un riff di chitarra slide (mandato in loop), con dentro un inserto di sitar e una batteria breakbeat ante litteram (cam- 46 pionata da un brano di ruvido, paludoso southern rock), il tutto guidato da un rapping svagato e da lyrics non-sense (ma con un inciso corale che recita cristallino “Soy un perdedor / I’m a loser baby / so why don’t you kill me?”), Beck Hansen non poteva finire che con l’essere identificato, a partire da questo suo primo album per una major (una costola della Geffen), come una delle figure più emblematiche della popular music degli anni Novanta. Gli elementi chiave dell’epoca, quando ancora – per poco: c’era già stato il 1991 – l’indie era un’alternativa al mainstream, ci sono tutti: lo scazzo slacker (ma a Beck l’associazione con la Generazione X non è mai piaciuta), l’alt-folk (Out of Range di Ani DiFranco esce qualche mese dopo), le suggestioni esotico-psichedeliche (sintetizzate qualche anno dopo dai Cornershop con la complicità di Fatboy Slim), la metabolizzazione bianca dell’estetica hip hop (l’hardcore newyorkese aveva già partorito i Beastie Boys di Rick Rubin), la patina lo-fi (l’esperienza dei Pussy Galore di Jon Spencer era terminata nel 1990), ma anche la – ubiqua – lezione arty/cantautorale dei Velvet Underground. Beck continuerà a definire il suono dei Novanta con Odelay (1996) e Mutations (1998), proiettandosi poi, sempre all’insegna del sincretismo, nei Duemila (Midnite Vultures, 1999), decennio che ha in qualche modo preparato, ma non dominato. (GM) B lur – Parklife Pochi dischi hanno saputo raccontare uno spaccato dell’Inghilterra come Parklife. Assimilati i postumi dalla sbronza post Stone Roses di Leisure e dopo il più convincente Modern Life Is Rubbish, che iniziava pian piano a farci capire con chi avevamo a che fare, i Blur bevono l’elisir di lunga vita con la terza carta. Un ritratto a volte autentico e a volte caricaturale di Londra, tinteggiato con il pennello ironico e corrosivo di Damon Albarn, (che infatti cita come ispirazione il romanzo London Fields di Amis): sedici trame che dipingono gli usi e i costumi della middle class britannica, tramite l’utilizzo di personaggi inventati eppure così veritieri. Dallo storico giro di basso di Alex James sulle tastiere di Girls and Boys, che narra il “vizietto” sessuale di tanti inglesi in vacanza, al riff killer della title track con la presenza del simbolo dei mods Phil Daniels aka Jimmy di Quadrophenia, tra strofe parlate in marcato accento cockney e un ritornello devastante che canta la bellezza della vita all’aperto, possibilmente con tante persone, ovviamente mano nella mano. Un viaggio nella tube, che vede anche soste più malinconiche come la splendida To 47 The End, l’epica This is A Low e la riflessiva Clover Over Dover. Appoggiati fedelmente da Stephen Street (uno che ha lavorato con gli Smiths, mica chiacchiere), stupendo regista di una produzione al limite dell’impeccabile, i quattro non si lasciano sfuggire qualche momento di goliardico divertissement come il trapano di Magic America e le rovinose pistole giocattolo su Jubilee. Il vero bignami del Britpop, che vede nelle note a piè di pagina i Kinks del periodo d’oro, gli XTC (Tracy Jacks e London Loves) e il David Bowie berlinese (Trouble In The Message Centre), prontissimo a tracciare il solco con i rivali Oasis: solo un anno più tardi arriveranno a sfidarsi per decretare il migliore in terra d’Albione. Anche nei viaggi più belli però arriva l’ultima fermata, questa volta dal nome Lot 105, una rapida ed esilarante strumentale dai toni ska per avvertirci che è ora di scendere. Poco male, sediamoci ed aspettiamo che ripassi il treno. (DR) J eff Buckley – G race La storia di Grace inizia nel settembre del ‘93, con Jeff Buckley, Mick Grondhal (basso) e Matt Johnson (batteria) che si danno appuntamento per le prime sessioni programmate al Bearsville Recording studio di Woodstock. Finisce un anno dopo con la pubblicazione e un milione di dollari di costi di lavorazione sulle spalle di Don Lenner della Columbia. Altri ospiti sono Gary Lucas, coautore delle prime due tracce, e il chitarrista jazz Michael Tighe, presente in So real. Ne esce fuori un bulbo di canzoni tese fra il senso accorato della spiritualità e la dissociazione nell’amore terreno. Buckley non volle lasciare nulla al caso e curò ossessivamente le parti vocali, facendo sua la chanson, il soul, le reminiscenze classiche combinate al cantautorato jazz, da ultimo il rock. Levigando ogni brano riuscì nell’intento di conquistare una trama lirica fuori dal comune e difatti il disco possiede ancora oggi una forza seduttiva che in pari modo indaga brandelli di abissi e processi di luce; brani come Halleluijah, con l’allungo finale che diventa preghiera recondita, So real, un manifesto esile, o la stessa Grace che sottende il disinganno dell’amore e il brivido degli anni. In altre tracce si può palpare il feeling che il gruppo toccò in tutte quelle sessioni: Dream Brother è il trip raga cedevole con tabla di Misha Masud, Eternal Life il morso grunge-rock, Lover, You should’ve Come Over, col prologo d’organo di Loris Holland, un madrigale accorato, Lilac wine, un oblio beato, Corpus Christi Carol l’epitome scolpita nel marmo dei secoli, l’incantevole e fiammingo contrappunto di melodie. Cosa resta? Mojo Pin, Last 48 Goodbye e Forget Her hanno il pregio di essere canzoni senza un particolare peso, tra psichedelia e pop rock. Profumano però degli attimi migliori di una vita e testimoniano i passi, purtroppo perduti, di un grande interprete. (CP) C odeine – The White Birch È l’ultimo album per un gruppo che ha avuto il merito di definire un genere come lo slow core e ha influenzato diversi illustri colleghi, a partire dai Low, che nello stesso 1994 pubblicavano l’ottimo I Could Live in Hope. E come il genere anche i Codeine si posizionano sostanzialmente in area “post-rock”, con la differenza che il trio di Stephen Immerwahr e John Engle non rinnega la forma canzone e il canto, ma dilata i tempi e le armonie dall’interno delle canzoni, al punto di avvicinarle alle dinamiche astratte di gruppi prevalentemente strumentali. L’iniziale Sea, che si protrae per la durata di sette minuti, potrebbe essere una super ballatona grunge al rallentatore o un brano alla Slint con l’aggiunta del canto, spesso catatonico e in balia delle progressioni strumentali. È al punto d’incontro tra la canzone folk e qualcosa di diverso che i Codeine colgono la chiave per trasformare la materia del rock nell’immagine di una nuova ansia espressiva, evocando stati mesmerici e un vago senso di trance nel portare avanti – più che nello sviluppare in senso stretto – le loro melodie, e lasciando ai crescendo strumentali il compito di sublimare un certo impeto trascendente, arrivando a riff che sfiorano l’hard rock. Rispetto all’esordio Frigid Stars, uscito per Sub Pop ma lontanissimo dal rock di Seattle (anche dall’eccezione degli ultralenti Earth e Melvins),White Birch ha brani meno statici, e questo lo rende più classico in tutti i sensi del termine, ideale tanto per rappresentare un lavoro pionieristico, quanto per renderlo più potabile. (TI) d E US – Worst Case Scenario Una delle più evidenti prove di quella apertura citata in apertura d’articolo furono indubbiamente i belgi dEUS. La formazione di Anversa, capitanata da Tom Barman, proveniva infatti dalla periferia di un rock all’epoca ancorato ad una dimensione prevalentemente anglosassone; ciò tuttavia non impedì loro la giusta esplosione, ratificata oltre che dalla critica, anche da un buon successo di pubblico, non solo nel natio Belgio dove WCS fu disco d’oro. L’apertura, fatta eccezione per una breve Intro, era affidata a Suds and Soda, il cui violino strapazzato spezzò cuori dal primo passaggio in tv, facendo intuire da subito l’accattivante melange 49 in cui il quintetto – oltre al citato Tom Barman a voce, chitarra e piano, in formazione c’erano Rudy Trouvé, Stef Kamil Carlens, Klaas Janzoons e Julle de Borgher e uno stuolo di ospiti a viole, violini, piano, ecc. – trasformava le influenze più disparate: l’indie-rock coevo, ovviamente, ma anche spruzzate di Velvet, follia strumentale, sguardi ai sixties, folk atipico, iniezioni noise-rock, svisate jazzistiche, retrogusto prog, slanci mitteleuropei, reminiscenze da cabaret e ambientazioni circensi in un frullatone arty che univa ricerca e easy listening, con una certa attenzione per la reiterazione ciclica e una evidente impronta minimale. Perle come la malinconica Hotellounge (Be The Death Of Me) con quel pathos da spleen che caratterizzerà molto indie dell’epoca a venire, la caracollante e oscuramente velvettiana W.C.S. (First Draft), il sing-a-long acceso di Via o l’ossessivamente emotiva Let’s Get Lost sono, a vent’anni di distanza, non solo una ottima testimonianza del tempo che fu, ma anche un piccolo bignami del suono un tempo detto “alternative”. Peccato si siano persi un po’ per strada, limando le asperità arty che contraddistinguevano W.C.S. per rendersi più intelligibilmente indie. (SP) M ark Lanegan – Whiskey For T he H oly G host Non era facile smarcarsi dal dominio estetico e stilistico del grunge in quei primi Novanta, soprattutto per chi del grunge era tra i principali attori. Eppure tra il ‘90 e il ‘94 Mark Lanegan licenziò due album che, pur non ostentando la sfacciata intenzione di prendere le distanze dal Seattle sound, ne rappresentarono una coniugazione palpitante e aliena. Tuffandosi in una dimensione assieme intima, archetipa e acida, il vocalist degli Screaming Trees gettò il cuore oltre le proprie dipendenze (tra droghe e alcool non si faceva mancare nulla, a quanto pare) e s’incarnò in un Buckley sanguigno ed etereo per The Winding Sheet, concedendo il bis tre anni più tardi con un Whiskey for the Holy Ghost infarcito di dannazioni appena più terrene, quel tanto che bastava ad indicare la via verso la ricerca nel ventre scuro dell’Americana che caratterizzerà i suoi anni migliori da solista (fino al capolavoro Field Songs del 2001), elevandolo a musicista di riferimento degli anni Zero ed oltre. (SS) M assive Attack – P rotection Era chiaro sin da subito che non sarebbe stato facile incidere il seguito di Blue Lines, l’album con il quale il collettivo di Bristol inaugurò gli anni Novanta all’insegna di un’innovativa miscela di 50 rap, soul, dance e reggae. Così, per Protection, i Massive Attack decidono di riscrivere subito le regole: se la squadra vince, almeno un po’ la si cambia. L’artwork conserva alcuni elementi dell’esordio seminale, a partire dai font; ma se resta Horace Andy, in Spying Glass e in una caotica versione live di Light My Fire, al posto di Shara Nelson ci sono due altrettanto gradite ospiti. Tracey Thorn (che qui anticipa di un anno il nuovo corso degli Everything But The Girl verso sonorità più dancefloor-friendly) ha la classe infinita che da sempre la contraddistingue nella titletrack – malinconica e sinistra, che prosegue per oltre sette minuti tra tappeti di tastiere e un indovinato sample di James Brown – e Better Things – elettronica, jazzata, semplice e lussuriosa, a metà strada tra Sade (Love Deluxe) e la coetanea It Could Be Sweet dei Portishead. Nicolette dona un’interpretazione sognante in Three e convince ancora di più in Sly, che Craig Armstrong riproporrà insieme a Weather Storm nel proprio album The Space Between Us pochi anni dopo e che scrive le coordinate che porteranno al successo la Bjork di Isobel e di Homogenic, gli Hooverphonic e i primi Morcheeba. MTV si innamora del video di Karmacoma, eccentrico e noir, con le voci di Tricky e Robert del Naja che si alternano al microfono nel pezzo più ipnotico dell’intero lavoro, ma non sfigurano Euro Child, pronta per una di quelle serie TV che ci avrebbero appassionato negli anni a venire, e Heat Miser, il tipo di strumentale che farà la fortuna di Moby qualche anno dopo, introdotto da Armstrong con una melodia al piano che ricalca Tubular Bells e Profondo rosso. Protection ha ancora oggi un fascino meno sfacciato del predecessore, ma è invecchiato meglio ed è da considerare un tassello fondamentale per capire l’evoluzione del sound, ancora più cupo e cinematografico, che avremmo ascoltato in Mezzanine; si tratta anche di un album di grande successo commerciale, che conquista le masse e spinge Madonna a lavorare con loro per una cover di I Want You di Marvin Gaye (AL) M otorpsycho – T imothy’s Monster È esistita una scena grunge europea? Ovviamente non c’è nulla che si possa paragonare a Seattle nel nostro continente. Però l’ondata rock alternativa/mainstream d’oltreoceano ha ispirato risposte originali anche su suoli più vicini al nostro rispetto al Nordovest americano. Oltre ai belgi dEUS, sono stati i norvegesi Motorpsycho a filtrare in maniera efficace e personale quel suono duro e sporco ma armonico, arricchendolo con un eclettismo che superava i confini del genere, e che li ha portati a spaziare lungo 51 tutto l’arco della carriera con un’ispirazione qualche volta altalenante ma spesso felice. Timothy’s Monster, per contenere la cui inventiva è stato necessario un doppio CD di materiale inedito, mesi prima che Billy Corgan sganciasse il suo Mellon Collie and the Infinite Sadness, è la summa del primo periodo del gruppo di Trondheim. Va un passo oltre il Demon Box uscito appena nel ‘93 non solo nel rifrangere mille sfumature caleidoscopiche sullo stesso canovaccio psych(o)hard che ha influenzato pure Kyuss et similia (dai Black Sabbath agli Hawkwind), ma anche nello svariare con una leggerezza inusuale per un gruppo di rock pesante. Si esalta la capacità camaleontica del complesso scandinavo nel replicare e mescolare un buon numero di stili: folk rock, pop acido, indie rock, prog, psichedelia retro’, ballate moderne (Wearing Yr. Smell) e le solite sfuriate hard. Ci ammorbano piacevolmente con una pièce de resistance intitolata The Wheel e si destreggiano tra ruvidezze armoniche e timbriche e immediatezza melodica. (TI) Nine Inch Nails – T he Downward Spiral Non è un fulmine a ciel sereno il successo di The Downward Spiral in ambito industrial rock. Le prime avvisaglie del potenziale commerciale insito nel genere erano già arrivate con Skinny Puppy e Ministry, da cui Trent Reznor trae ispirazione accoppiandoci l’eclettismo targato Foetus e le dichiarate influenze Bowie periodo Low. Ma un boom del genere rimane comunque inaspettato. D’altronde, oltre la musica, qui rimane impressa moltissima cultura 90s: primo il disagio esistenziale autoreferenziale che sarà un must della decade (vedi i Korn e il new metal in generale), e poi le citazioni cyberpunk che proprio in quel periodo iniziavano ad assurgere con i connotati di pop culture. Questo è il quadro generale. Nello specifico, invece, The Downward spiral è un concept album sul rapporto uomo-macchine, uomo-sistema, uomo-autodistruzione, che non lesina un estremismo dai tratti sensazionalistici. Così è per il porno-singolo dal trucco funk Closer (i want to fuck you like an animal i want to feel you from the inside), per l’anti-religiosità di Heresy, passando per l’anarchia della serratissima March of The Pigs e una Big Man With a Gun che farà la fortuna del primo Marilyn Manson. E’ però nel finale che viene alla luce il talento poliedrico di Reznor: l’ambient di A Warm Place, le de-strutturazioni di Eraser e The Dowward Spiral che sono già base per il successivo The Fragile e ancora per la velenosissima Reptile, prima della catarsi finale di Hurt, materia 52 buona anche per Johnny Cash, a dimostrazione di come questo album sia entrato a pieno titolo tra gli American Recordings dello scorso secolo. (SG) Oasis – D efinitely Maybe Sugli Oasis se ne possono dire tante: egocentrici, scontrosi, arroganti come pochi. Eppure nessuno può mettere in dubbio che Definitely Maybe sia stato uno degli esordi più folgoranti della storia della musica. I fratelli-coltelli Gallagher, rudi componenti della workin’ class di Manchester, hanno dato voce al sentimento di una “gioventù perduta” che vedeva un presente senza eroi, ma senza cadere nel nichilismo autodistruttivo di un grunge che dava gli ultimi colpi di coda. Si appropriano dei fasti del passato senza nascondersi, ma lo fanno bene. Suonano in ogni traccia con devozione totale verso i Beatles, rigurgitando i flussi punk dei Sex Pistols (Columbia). Noel è uno che con la penna ci sa fare, non ha l’ironia borghese di Damon Albarn, e neanche l’aristocratico humour di Jarvis Cocker, eppure scrive in maniera quasi imbarazzante una mole di classici. Prende senza permesso il riff di Get It On dei T-Rex, e lo trasforma nella devastante Cigarettes And Alcohol, unica filosofia di tanti giovani che non avevano nulla da chiedere alle loro giornate. Ha un taglio spesso no sense (Shakermaker, Supersonic), è capace di fare una dichiarazione d’amore (Slide Away), ma non disdegna episodi meno impegnati (Married With Children). Gli Oasis sanno cosa vogliono, non ci girano intorno: Rock’n’Roll Star è una dichiarazione d’intenti, e dalla teoria alla pratica stavolta il passo è davvero breve. Non inventano e non spostano nulla, tecnicamente non sono delle cime e la differenza artistica con i rivali Blur è evidente, ma hanno al microfono un certo Liam Gallagher, vocalmente impeccabile su Live Forever, ancora oggi inno che ha segnato una generazione. Il successivo (What’s the Story) Morning Glory? sarà il passo definitivo, per poi iniziare una parabola discendente da cui non si riprenderanno mai più. Potranno essere bistrattati, ipercriticati, ma con la loro voglia di riscatto, con uno sguardo alla realtà ma aggrappandosi con forza al potere dei sogni, sono diventati un simbolo: cinque disoccupati, cresciuti facendo a botte con la vita, che nonostante tutto ce l’hanno fatta. (DR) Pavement – Crooked R ain, Crooked Rain Quando esce nel 1994 Crooked Rain, Crooked Rain, i Pavement sono già passati attraverso la piccola tempesta economica (inte- 53 sa come scarsità di mezzi) dell’estetica lo-fi. La band di Stephen Malkmus ha già tirato fuori un album come Slanted and Enchanted, manifesto di un modus operandi che usa l’estetica dello scazzo per porgere piccole gemme di songwriting annegate in feedback e registrazioni poco curate. Al secondo album, avviene un piccolo passo che germina un capolavoro. Fuori da un suono povero ma non del tutto (Fillmore Jive e Hit The Plane Down portano ancora quei segni), i Pavement tirano fuori un album che è un omaggio ad un modo nuovo e scintillante di fare canzoni. Le melodie, ad esempio, ci sono e sono splendide, ma vengono spesso destrutturate in cambi di tempo (Silence Kit) o in derive post rock (Stop Breathin’), la voce porta con sé sia dolcezza che debolezza, le chitarre sono sia armi (Unfair) che rifugi (Heaven Is A Truck). Ci sono ironia a palate e giustapposizioni testuali al limite del nonsense. C’è – più di tutto – un modo di fare musica non ancora lasciatosi andare alla deriva fantasiosa-forse-troppo del successivo Wowee Zowee, ma che regala perle che stanno lassù, tra le vette del migliore indie rock così com’era un tempo. (AM) P lastikman – Musik Plastikman, leggendaria creatura techno del dj e produttore Richie Hawtin, nasce nel 1993. Siamo agli antipodi rispetto a molti grandi, che costruiscono mistero rimanendo nel completo anonimato, immaginando storie e mondi paralleli oppure giocando a manipolare la propria identità, come Drexciya, Aphex Twin, Daft Punk. Hawtin è figura essenziale, trasparente. Aiutato dalle sue esibizioni dal vivo, sempre più imponenenti, dici Hawtin e nello stesso istante vedi l’immagine – un uomo, senza maschere – e senti la musica. Musik segue Sheet One, pubblicato l’anno prima, e un paio di EP solidissimi. Quelle marcate Plastikman sono storie techno di seconda generazione detroitiana, sprazzi acidi su ritmiche austere, scintille di TR-303 tra guizzi luminosi e giochi di oscillatori. Le percussioni ossessive, già spedite in orbita con la seminale Spastik (1993), tornano in Fuk, e si intersecano alla cassa dritta, quasi ad unire idealmente Africa e cosmo, passato e futuro, radici e utopie (Koception, Ethnik, Kriket). Marbles è techno pura, marziale, che si distende sull’arpeggio nascosto dai filtri. Le macchine risorgono a nuova vita, parlano (Outbak), poi disegnano ritmi spezzati e nuovi fraseggi sintetici (Plastique, Lasttrack). Stockhausen, nella celebre intervista per BBC Radio 3, prevedeva una parabola commerciale molto breve per le suggestioni del canadese, costruite su ripetizioni poco sofisticate, 54 estremamente votate alla pista. Si sbagliava. La vena creativa di Hawtin continuerà, almeno fino alla fine dei Novanta, e con rinnovata prospettiva – non da tutti apprezzata – produce risultati ancora oggi. (EG) P ortishead – Dummy Un disco che entra ed esce dal trip hop senza allontanarsi mai dal suo centro focale, e cioè il downbeat. I Portishead sono la cantante Beth Gibbons e Geoff Barrow, un tutto fare fra rhodes, hammond, batteria e programmazioni. A loro si aggiungerà anche il chitarrista/bassista jazz Adrian Utley che apporterà non pochi lumi alla stesura dei brani. A riascoltarlo dopo anni si ha la stesso presagio di gioco onirico indotto dal Bristol dub, di sradicamento narcotico dato dal basso umbratile (Pedestal) e dall’idea di orchestrazione d’archi (Roads) perorata da Barrow e dallo stesso Utley nonchè da Dave Mcdonald, il tecnico del suono responsabile delle registrazioni. Merito al canto che si misura con un soul à la 4AD con tracce di timida consonanza (It Could Be Sweet, It’s Fire ), carico di angst (Mysterons), di vacuità chimica e teatralità (Numb), sciantoso, noir e sempre in bolla (Sour Times). Ma il resto lo fanno i vari scratches, i tanti samples presenti in Glory Box, in Strangers, in Wandering Star e via dicendo, che a lungo andare incidono sull’espressione. Barrow trafuga mezza discografia di casa e vi riversa il suo infinito amore per i compositori di colonne sonore degli anni Settanta in B movies, per il campionario di junky style e per il twang. Ne scaturisce una radiografia sporca di quei retromaniaci primi anni ‘90 e un disco/compendio a dir poco seminale per le future generazioni. (CP) S hellac – At Action Park Minimalismo, noise, destrutturazione, paranoia, claustrofobia: sono questi gli strumenti con cui si analizza spesso la musica degli Shellac (of North America), creatura del chitarrista, cantante e vate dell’underground statunitense, Steve Albini. La verità è che non bastano quelle categorie a rendere giustizia ad un disco che ha anche altre frecce nel proprio arco. Al di là del rumore, ciò che fa spavento degli Shellac è la coesione, quella di un suono allo stesso tempo compatto eppure distinto: ogni strumento riesce sempre a distinguersi dall’altro, eppure ognuno riesce a fondersi in una muraglia che è anche mitraglia. Ed è un miracolo, se si pensa a quanto suono noise spesso “la butti in caciara” perché impossibilitato alla compattezza. E infatti molti preferiscono, e 55 preferivano, fare rumore nei limiti temporali dell’hardcore. Ma non è tutto qui: c’è anche la grandezza di un album che non ha altro da dire che sé stesso, portatore di un’estetica che non è estetica, in cui non vi è chiacchiericcio ma ruggine, in cui non vi è sovrastruttura ma solo naturalezza (è suonato live). E in cui – e questo in pochi paiono dirlo – c’è una scrittura che, per come unisce suoni, arrangiamenti, ritmo e atmosfera, ha pochi eguali negli anni Novanta, per complessità e risultati. Sempre sia lodata. (AM) S oundgarden – Superunknown Il germe di Superunkown – classico imprescindibile nell’epopea grunge – è Spoonman, brano inserito nella colonna sonora di Singles, (discutibile) film del ‘92 diretto da Cameron Crowe e ambientato a Seattle, con una colonna sonora giocoforza strepitosa. Rielaborando un bel riff hard rock Cornell e soci si sono superati: un’impresa, considerando l’eredità ingombrante del precedente Badmotorfinger. Le session per l’album, licenziato da AandM Records e celebrato quest’anno con una ricca ristampa con inediti e demo, si tengono ai Bad Animals Studio di Seattle sotto la guida – severa – del producer Michael Beinhorn: “Non era un sergente di ferro – ricorda il chitarrista Kim Thayil – ma di sicuro era un vero rompipalle. Se ci ha motivato è riuscito a farlo senza influenzarci troppo.” Alla quarta prova in studio i Soundgarden hanno raggiunto l’apice della loro carriera. Dopo, reunion a parte, solo il colpo di coda di Down On the Upside, un testamento sonico più schizoide ma meno incisivo. Superunknown, concentrato perfetto di hard rock, psichedelia, orientalismi e affini, si apre con Let Me Drown, una botta d’adrenalina sorretta dai riff incendiari di Thayl. Dopo la parentesi heavy di My Wave, c’è il blues di Seattle di Fell on Black Days, sofferto emblema dello spleen del cantante, mentre Mailman rallenta i battiti, ibernando il drumming di Matt Cameron sotto una cappa densa di heavy metal (l’influenza dei Sabbath e dei Led Zep è innegabile) che si dissipa per una manciata di secondi nel riuscito chours. In ogni episodio Cornell regala interpretazioni perfette, urlando la propria rabbia (The Day I Tried to Live). In questo senso Limo Wrech è una prova di forza incredibile, con una maestosità malata e disturbante. Il disco regala anche Like Suicide (una seducente suite di 7 minuti, un sinistro crescendo culminato con un assolo di rara bellezza), 4th of July (ballad nera intrisa di disperazione e sofferenza) e Black Hole Sun, la canzone più conosciuta della band. (LC) 56 T ortoise – Tortoise Tra il 1994 e gli anni immediatamente successivi le due capitali del post-rock a stelle e strisce, Louisville e Chicago, non fanno che scambiarsi continuamente il testimone delle proposte più innovative, impegnate a ridefinire il rock nella sua dinamica compositiva e strumentale. Nel 1991 è stato Spiderland degli Slint a dare per primo le coordinate del suono post-rock americano. Tre anni dopo a Chicago i Tortoise rimescolano le carte e offrono una propria ipotesi allo stesso tempo affine e diversa. Rispetto ai portabandiera di Lousville (dai Rodan ai June of 44), i Tortoise, così come i Gastr del Sol, allentano i legami con il post-hardcore da cui pure erano partiti – al nucleo originario formato da John Herndon e Douglas Mc Combs si sono aggiunti infatti Bundy K. Brown e John McEntire, sezione ritmica degli ottimi Bastro di David Grubbs, un gruppo che partendo dalla scia Big Black era arrivato a intavolare una prima ipotesi di math – schierando sulla carta una formazione con ben due bassisti e tre batteristi/percussionisti e allargando il campo in maniera più eclettica e, oseremmo dire, progressiva. Magnet Pulls Through, per esempio, riprende l’andamento strumentale di un brano degli Slint mettendo in primo piano la sezione ritmica, invece della chitarra. Grande protagonista il basso che arpiona sul riff di Spiderwebbed, punto di riferimento per l’intero disco (genere?) con il suo intreccio di minimalismo alla Steve Reich, postpunk e percussioni afrobeat. Ai picchi chitarristici del dopo Slint i Tortoise preferiscono un’eleganza noir e swingata (Ry Cooder) o divagazioni ambientali condite di tracce tech-dance sconnesse e assoli di batteria (Onions Wrapped in Rubber); nel complesso è qualcosa di più atmosferico e indefinibile, una miscela di jazz, funk, dub e pulsazioni elettroniche che prima di diventare di maniera li porterà sulle vette di Millions Now Living Will Never Die. (TI) T he Prodigy – Music For The Jilted Generation Nel 1991 i Prodigy erano già uno dei gruppi di hardcore rave inglese più importanti insieme a N-Joi, Bizarre Inc e Shades of Rhythm. Con questo secondo disco escono dalla nicchia di genere utilizzando le tecniche ravey (voci in elio, tastierine in ostinati iperveloci, percussioni d’n’b) e imbastardendole con qualche gigioneria pseudopolitico-rivoluzionaria per attirare il teen disorientato, con l’hip-hop e soprattutto con i chitarroni distorti, che riportano il rock sul dancefloor e consegneranno qualche anno dopo la band 57 alla storia pop con Smack My Bitch Up e Firestarter. Secondo il frontman della band, Liam Howlett, la generazione jilted (letteralmente: piantati in asso) è quella che è cresciuta con la Tatcher e che non aveva altro per cui vivere se non la droga e la musica dance. A detta di Simon Reynolds, in Inghilterra la cosiddetta generazione E (per Exstasy) sarebbe l’equivalente americano del grunge, e questo disco ne costruisce di fatto la colonna sonora. L’album oggi suona un po’ datato, ma i quattro singoli di punta – Poison, Voodoo Dance, One Love e soprattutto, per chi scrive, No Good (Start The Dance) – restano una testimonianza indimenticabile di un suono storicizzato e taggato indelebilmente come anni Novanta. Un “come eravamo” necessario per capire lo zeitgeist del tempo. (MB) Underworld – Dubnobasswithmyheadman Primo album degli Underworld post-folgorazione dance. Karl Hyde e Rick Smith suonano synth-pop come Freur fino al 1987. Diventano Underworld al giro di decennio, ma il progetto sembra naufragare. Poi, l’incontro con il dj Darren Emerson, e la decisiva svolta verso un ibrido tipicamente britannico tra elettronica e rock, ritmi tribali e slanci techno. Dubnobasswithmyheadman è successo di critica e vende bene (numero dodici in classifica UK). C’è la cassa regolare, l’intento della pista mai nascosto, ci sono i sintetizzatori e le chitarre effettate, i testi surreali destinati a diventare marchio di fabbrica. Mmm Skyscraper… I Love You, Dirty Epic e Dark and Long sono viaggi mistici, fraseggi persi in un apparente stream of consciousness, sorretti da strutture ritmiche solidissime, quasi a tenere a bada le intromissioni schizofreniche di Hyde. Poi Cowgirl, agitazioni da steroidi sull’arpeggio distorto, le atmosfere intime a bassa battuta di River Of Bass, gli umori electro-pop di M.E., le desolazioni pastorali di chitarra in delay e vocoder di Tongue. L’album che apre la stagione degli Underworld in trio, dagli stessi ribattezzata fase MK2, è un lavoro di portata assoluta. È materia progressive house monumentale, epica, in perfetto equilibrio tra fragilissime costruzioni emotive e violenti rilasci di tensione. Continui rimandi a storie diverse, al punk, ai rave, agli infiniti meticci elettronici d’oltremanica. Crossover fondamentale per avvicinare certo pubblico rock al mondo del dancefloor. (EG) 58 Bonus Tracks: CSI - Kodemondo Il passaggio di cui all’introduzione (e quello “geopolitico) è ben identificato dall’esordio dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti, ma anche Comunità degli Stati Indipendenti dell’ex URSS). Dall’irriverente punk filosovietico dei CCCP a Ko De Mondo, in cui la trasformazione sintetizza al meglio le aperture di Epica, Etica, Etnica e Pathos, facendo assurgere Ferretti and Co. a leader spirituali di una certa ala del non più underground italiano. Tante piccole gemme che reggono benissimo il passare del tempo e che, volenti o nolenti, hanno segnato il rock italiano a venire. (SP) Marlene Kuntz – Catartica Il disco d’esordio (n.1 anche del Consorzio Produttori Indipendenti) e forse il migliore, per genuinità e mancanza di “poserismo”, di una band cresciuta a “gioventù sonica e cattive sementi” capace di sintetizzare ruvidezza e poesia. In Catartica Godano e soci infilano melodie e chitarre rumorose che filano via come un treno, tra ballatone elettriche (Trasudamerica) e piccoli inni generazionali (Festa Mesta, Sonica) per il nascente “rock alternativo italiano”. Allora, c’era ancora una fiammella di speranza. (SP) Fluxus – Vita in un pacifico mondo nuovo Il rovescio della medaglia del rock in italiano è un concentrato di chitarre e impegno socio-politico di raro impatto e potenza. Una chiamata alle armi a forza di anthem e chitarre, tante chitarre e tutte taglienti e rovinose, messo su da una formazione spesso a tripla chitarra come a dimostrare la voglia di sputare in faccia all’ascoltatore rabbia e disillusione, disagio e rivendicazioni. Un lavoro che è esemplare nell’unire impatto strumentale con testi nettamente al di sopra della media e ideale trait d’union tra integrità hc e nuove forme espressive. (SP) Sangue Misto – SxM Con un nome eloquente biglietto da visita preso dai Napoli Centrale, i bolognesi d’adozione Deda, Neffa e Gruff fotografano i pigliati male, i cani sciolti che nel clima di tensione dell’Italia xenofoba post-yuppie/pre-Berlusconi si rifugiano nelle posse, nella fattanza della porra. Questi grezzi, narcotici blues urbani incarnano una prima idea matura di hip hop italiano: è il dopoJovanotti. Neffa, già batterista punk, uno dei più originali rapper nostrani, passerà poi al pop da classifica. Fino a prendere un Due di picche con Suor Cristina. (GM) 59 R u s t i e 60 Raggiungiamo Rustie al telefono a Parigi al press day per il suo nuovo album, “Green Language”. In mezzora di chiacchiere il producer ci racconta di musica e amici, influenze e di una vita passata davanti ad un laptop >>>Testo di Edoardo Bridda G r e e n L a n g u a g e Rustie, ovvero Russell Whyte, per trasversalità e abilità nel miscelare ritmi e melodia, è senz’altro uno dei producer più rappresentativi di questi anni. La sua musica è stata al centro dei crocevia più interessanti della musica elettronica e per l’esordio, Glass Swords, possiamo già tranquillamente spendere le parole di “uno degli album più importanti di quest’ anni ‘10 in perenne transizione”. Eppure all’interno di questi ampi e interessanti scacchieri e in riferimento alla più classica delle domande, ovvero “dove sta andando la musica elettronica?”, Whyte, che raggiungiamo via Skype alla press day parigina di Green Language, suo secondo album atteso per fine agosto, è forse la persona meno indicata a rispondere. Ragazzo piuttosto timido e riservato cresciuto a Glasgow in una famiglia di musicisiti e appassionati di musica, Rustie è quel tipo di nerd che ha trascorso almeno gli ultimi dieci anni della sua vita davanti a uno schermo LCD. La sua prima produzione ufficiale, 61 ci ricorda, è del 2007 ma, non ancora pubbliche o tolte da myspace, “esistono tracce della metà degli anni ‘00” in cui, ci dice, “già armeggiavo con simulatori e compressioni timbriche alla 808”, e questo molto prima delle produzioni di Lex Luger, Waka Flocka Flame e compagnia. Rustie ha inoltre un trascorso di interviste davvero telegrafiche con la stampa. E’ cordiale, dicono quelli di Fact e Dummy, ma non spiccica più di una o due frasi per ogni risposta alle domande che gli vengono fatte. Parliamo ovviamente di qualche anno fa ormai e, di fatto, il ragazzo nella nostra chiacchierata mostra di aver fatto decisi passi avanti. Non sarà diventato un chiacchierone come FaltyDL o Zomby, tantomeno un’intellettuale come Ben Frost o Synkro degli Akkord ma, di sicuro, oltre alla proverbiale disponibilità, al nostro dialogo aggiunge quel minimo d’affabilità che rende la chiacchierata ben di più di un gentile interrogatorio. Russell è un glaswegiano e producer britannico doc, ovvero, uno che davanti a limitazioni di budget e tecnologia, zitto zitto ha cercato, trovato e poi sviluppato un suo modo di mettere assieme i suoni e le influenze musicali. Già dagli esordi, mentre lo spirito affine Joker si inventa il purple sound, lui – che raggiunge grossomodo allo stesso tempo una sufficiente autonomia stilistica – parla di aquacrunk o crunk, insomma, della sua roba. Citiamo il bristoliano non a caso perché i modi di Rus e di Liam sono complementari a un elettronica basata su synth colorati e melodici circondati da ritmi sincopati dai forti legami con l’hip hop (chiamateli, se volete, wonky). Dunque, parlare degli aspetti esterni alla musica, di dove va que- 62 Attivo dal 2007 e, fin dagli esordi, autore di un preciso incastro melodico ritmico, Russell Whyte, in arte Rustie, è uno dei principali protagonisti di una colorata elettronica laptop based che sa far ballare l’intellighenzia wonky / hip hop quanto catturare l’attenzione dei dreamer da cameretta cresciuti a videogiochi, retromania e sovraesposizione mediatica. Il suo approccio, che Simon Reynolds ha ricondotto, tra le altre cose, al calderone massimalista che ha contraddistinto molte produzioni elettroniche a cavallo tra noughties e primi anni ’10, è pop come hip hop, melodico ed emotivo, senza rinunciare alla padronanza dei ritmi di estrazione britannica (i continuum, la dubstep, il bass sound, la narrativa grime) ma anche americana (la scena di Los Angels capitanata da Flying Lotus e, indietro, il southern hip hop e la miami bass). Whyte inizia a produrre e dilettarsi nel fare il dj all’età di 15 anni, prima ancora era un indie kid innamorato dei My Bloody Valentine e dei compaesani Mogwai. Dunque, prima di Fruity Loops, c’è stata una chitarra e il sogno da rock band, anche perché la famiglia, come afferma lui sta o quella corrente, è esattamente ciò che non ha senso fare con Rustie, oltre al fatto che nessuno meglio di lui può raccontarci nei fatti come inseguire passioni di lungo corso coltivate in famiglia e miscelate con gli stimoli provenienti dagli amici – spesso incontrati non fisicamente, ma via MySpace e Skype – e una buona dose di talento, possa portare molto lontano, contribuendo realmente ad accellerare o addirittura a cambiare certi corsi sonici. E’ successo, nel 2012 per esempio, quando un essential mix del Nostro catalizza un montante di fermenti che sta per far dilagare la trap del citato Luger (e produzioni a lui legate come Flockaveli di Waka Flocka Flame) in un cavallone di produzioni dancefloor internazionali. In quella scaletta finiscono brani ancora inediti di TNGHT (ovvero gli amici di Rus Hudson Mohawke e il canadese Lunice) e altri virus altramente contagiosi come la Harlem Shake di Baauer e la City Car dello stesso Whyte, che formano un set ideale per una deflagrante modalità d’intendere le serpentine, gli scalci della 808 e profondi bassi. “Tutta questa musica è parte di quello che faccio da parecchio tempo… …già nel primo EP che ho pubblicato, Jagz The Smack c’era Response, una traccia che mescolava quell’effetto su un ritmo dubstep e grime. Poi l’ho utilizzato nella collaborazione con Joker nel pezzo Tempered e svariate altre volte”, ci racconta “Al tempo tutto quel fermento stava giusto per esplodere, un po’ per l’accumulazione di tutti i differenti stili coinvolti, un po’ perché era nell’aria. Riguardo al mix, Radio 1 è un grande amplificatore, una grossa piattaforma che molti dj ascoltano assiduamente, e quel mix riassumeva per la prima volta molte di quelle produzioni, tutte assime in una volta sola”. Riguardo all’EDM trap – ma possiamo allargare il discorso anche all’altro grande caso discografico, ovvero il wonky, e prima di esso alla dubstep – Russell si è trovato al posto giusto nel momento giusto, non per calcolo, ma per una serie di concause e situazioni dove gusto e sensibilità personali hanno sempre giocato un ruolo fondamentale. Con gli amici del giro della Numbers, serata che ha messo assieme molte persone con gusti e idee simili in città, e un po’ con i tipi di LuckyMe, stanziati più che altro ad Edimburgo, e quindi sentiti via internet, Rustie non parla di grandi discussioni ma di un “hey listen to this or listen to that” e, allo stesso modo, i suoi live, da sempre, si compongono al 90% di produzioni proprie e per il restante 10% di un misto di rap americano mainstream come underground, qualche produzione delle citate label locali scozzesi (ad esempio S-Type) e qualcun’altra di Darq E Freaker, stesso a Dummy, è da sempre dentro la musica; il padre era un chitarrista e la madre una grande appassionata e collezionista di prog e fusion, generi quest’ultimi che influenzeranno direttamente alcune produzioni future (“Amo la Mahavishnu Orchestra e la fusion, e il prog in generale. John McLaughlin, i King Crimson di Robert Fripp e i Soft Machine di Allan Holdsworth sono tra i miei chitarristi preferiti - quest’ultimo è anche il preferito di Eddie Van Halen - La band preferita di mia madre sono gli Yes, e sono un grande fan anche di loro” ha dichiarato a Fact nel 2010). La prima produzione ufficiale di Rustie risale al 2007 e s’intitola Jagz The Smack. La traccia omonima è una take tech-step con un alito sci fi sullo sfondo, il resto si muove tra hip hop, glitch, grime e electro, tracce a cui Rustie affibbia la tag aquacrunk (anche semplicemente crunk) e che vengono accolte tra gli addetti ai lavori con un autentico boato. Modeselektor, Plastician, Anthony “Shake” Shakir, Flying Lotus e Alex Smoke vanno letteralmente in visibilio per questo 12” prodotto in sole 400 copie. Su Bookmat lo fotografano come “un perfetto mix tra gli stru- 63 grime producer britannico che, mi ricorda Rustie, “è parte del collettivo Nu Brand Flexxx e ha prodotto la famosa traccia Blueberry con il feat. di Danny Brown”. Del resto, quale miglior esempio di Glass Swords, l’acclamato esordio sulla lunga distanza, per misurare la distanza di Rustie dalle mode e dal mondo. Il disco, nel 2012, si guadagna il podio di molte classifiche dell’anno per un misto di influenze prog e fusion passate ai videogiochi, un portato d’ascolti ed esperienze che si riavvolge fino all’infanzia, agli ascolti in famiglia e alla passione per Allan Holdsworth dei Soft Machine, suo chitarrista preferito. Un lavoro pensato con una modalità se vogliamo rock e che appunto per questo riceve paragoni con altre icone transdance come Daft Punk, pur ancorandosi saldamente a un’urgenza dallo stampo assolutamente riconoscibile, tra cangianti melodie e contaminazioni di ritmi US come UK. Green Language, il suo secondo ed atteso lavoro in uscita sempre via Warp il 25 agosto 2014, prosegue lungo queste traiettorie mettendo ancor più l’accento sulla libertà d’espressione. “E’ un lavoro molto più personale questo” mi confessa “anche perché ho avuto il controllo totale di fare ciò che volevo quando per Glass Swords, al contrario, ci sono stati lunghi botta e risposta con la label. [I tipi della Warp] mi dicevano ciò che a loro non piaceva e ciò che volevano sentirci o dovevo sottolineare”, sbotta serioso, ma senza troppe polemiche Whyte, uno che oltre a voler fare a modo proprio ama non rivoluzionare troppo il proprio impianto di lavoro, a partire dagli strumenti che sono ancora una volta uno e uno solo, il laptop. Nonostante un lavoro che presenta vari ospiti al canto, anche in questa occasione – sembra incredibile – tutto è avvenuto via skype. Con Danny Brown, ad esempio, per il quale Rustie ha prodotto alcune tracce del suo ultimo Old, ed è ospite nel singolo più potente del disco, Attak, l’incontro dal vivo si riassume finora in una volta sola, ad un concerto. La norma, ci racconta, a parte per il giro locale di LuckyMe e Numbers, è lavorare scambiandosi file via internet. Anche con Joker, alcuni anni fa, a parte un’unica session dal vivo e assieme, è andata così. Continuando a fare di testa propria, Rustie finirà – chissà – per essere inserito in un’ondata di produzioni più ambientali e minimali, come ad esempio quelle uscite più o meno in contemporanea a Green Language come Joined Ends di Dorian Concept e In The Wild e FaltyDl. E sempre parlando di paralleli, ad esempio con il sound dei My Bloody Valentine di cui la press fa 64 mentali di Dabrye e Flying Lotus, gli sviluppi bass della dubstep e le furbate ritmiche dei Modeselektor” e c’è da dar loro ragione. Numbers, che all’epoca è una club night di Glasgow che si occupa anche di mix (e non ancora label), inizia da subito a dare eco al nuovo fenomeno. E sulla coda di quest’entusiasmo, alla fine del 2007, esce un mix per Andrew Meza su BTS Radio che, oltre a editi di Dabrye, J Dilla e Flying Lotus, Jay Z, Usher e Snoop Dogg, contiene anche inediti e remix dello spirito affine Hudson Mohawke e dello stesso Rustie. Nel 2008, Rustie e HudMo sono già oggetto di un discreto hype anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Martin Clark (Blackdown della Keysound) scrive un articolo su Pitchfork dove li elogia e inserisce all’interno del microcosmo wonky, una nuova/vecchia etichetta che cerca di riassumere un trasversale movimento di producer al di qua come al di la dell’Atlantico. Nel frattempo, il ragazzo ha prodotto l’ottimo remix per Zomby (Spliff Dub), quello per Rod Lee (Let Me See What U Workin’ With) – entrambi con tocchi trap – e soprattutto quello per i Modeselektor – la cui menzione (band di cui Whyte è un gran fan), il Nostro parla di un “more atmospheric sort of sound, more washed out reverb”, ovvero di un suono che, soprattutto nelle parti strumentali, è maggiormente atmosferico, dai riverberi sbiaditi ma organici. In più l’accento sulla produzione è stato posto su un sound hyperreale, “ben rappresentato dalla copertina”, mi suggerisce, ovvero con meno insistenza su “suoni sintetici e noise” abusati in passato in favore di un “escapismo verso qualcosa di più naturale… …come quando per rilassarti un attimo spegni il telefono e vai a farti un giro in un parco”. “Mi sento così quando penso al fare musica The Black Block riceve un trattamento acquacrunk – e ancora il Jamie Lidell di Another Day vestita di purple sound. Il tutto con un occhio ben attento a ciò che si muove in ambito allargato wonky. Sempre dello stesso anno è l’entrata nel giro LuckyMe, etichetta di base sempre in città che inaugura il catalogo proprio con un 12” dell’amico (HudMo – Ooops), e la prima collaborazione con il bristoliano Joker, autore di un personale sound, il citato purple sound appunto (o purple wow), un altro ragazzo con il quale Russell condivide la passione per l’hip hop, i trucchetti da overload di 8bit, e la melodia ai sintetizzatori, oltre che per il funk e la soul music degli 80s. Sull’etichetta di quest’ultimo esce il 12” Play Doe / Tempered, due tracce sospese tra i debiti all’electro funk degli ’80s del primo e l’acqua (nel senso proprio di rubinetto che gocciola) crunk del secondo, che condisce con guizzanti bassoni grime. A completamento dell’annata: un 12” sull’etichetta di Jackmaster Wireblock (Zig Zag), per la quale è stato co-prodotto anche l’esordio di HudMo, e una collaborazione con il duo 215 The Freshest Kids formato dai rapper Buddy Leezle e 65 in questo momento”, mi fa sereno. In questa direzione, vanno senz’altro i field recording utilizzati per alcuni suoni del disco e, peraltro, mi specifica, “utilizzati per la prima volta”, come a volermi rimarcare che qualche cambiamento di metodo è contemplato. E’ probabile che questa piccola transizione sia dovuta al ri-trasferimento da Londra alla natia Glasgow. E le ragioni del ritorno a casa sono semplici: il costo astronomico degli affitti nella capitale, unito a uno stile di vita casalingo al pc o in tour, si possono agevolmente convertire in una residenza magari più grande e più vicina alla famiglia e agli amici. E come dargli torto. La nostra chiacchierata prosegue in libertà tra un banale ma sempre efficace “Producer e tracce preferite al momento?”. A cui lui risponde con un trittico di 808 Mafia, Young Chop e ancora Lex Luger, il gusto nel fare i remix (“Mi piacciono molto anche perché non devi pensarci su troppo, puoi sperimentare cose nuove, e puoi pure sbagliare, fare cose che normalmente non faresti”) e un’interessante parentesi sulla footwook, dato che Whyte ha di recente editato (e bene) la Back Seat Ho di Machinedrum. “Seguo la footwork da un po’, diciamo da 3 o 4 anni e mi è dispiaciuto molto apprendere della morte di Rashad”, mi confessa, “penso che Rashad e Dj Spinn siano incredibilmente bravi e mi abbiano influenzato molto. Certo non è un’influenza diretta ma credo pure che ciò che hanno fatto sia stato molto importante”. “Ti piacerebbe fare qualcosa a 160bpm?”, gli faccio, “Om Unit, 66 Cerebral Vortex, prime tracce che vedono la presenza di vocalist nella sua discografia (Cafe De Phresh). Il 2009 è l’anno del wonky ma anche un periodo di transizione per un vasto schieramento di produttori che gravitano attorno al mondo dubstep. Il glaswegiano firma per Warp (etichetta alla quale consegna, per una compilation, la traccia Inside Pikachu’s Cunt pubblicata in origine sul suo My Space), sforna in free download un ottimo re-fix della r’n’b starlette Keyshia Cole (Shoulda Let You Go) e inizia a preparare le tracce per l’esordio. Quell’anno esce soltanto Bad Science, un 12” con 3 sincopati inediti dal taglio hip hop, tastieroni saturi e cascate d’effettistica 8bit. Si chiamano Tar, Bad Science e Shadow Enter e in quest’ultima è evidente il tocco (simulato) della drum machine Roland 808, un portato di lungo corso dell’analogica del ghetto tipica del trap rap, del sounthern rap e ancor prima della Miami Bass. Lex Luger, giusto qualche mese dopo, ne innescherà una rinascita – tutta plugin laptop e bassi – attraverso la produzione del Flockaveli di Waka Flocka Flame a cui seguiranno decine di altre produzioni. mescolando jungle e footwork, ha tracciato interessanti vie per la musica elettronica non credi? “Ho fatto tracce così”, mi risponde con il solito accento scozzese “ma non le ho mai pubblicate. Non voglio pestare i piedi a nessuno se comprendi quel che dico. E poi non voglio sembrare quello che copia le cose di qualcun’altro”. La nostra chiacchierata si conclude con l’inevitabile botta e risposta su futuri live nel nostro Paese (oltre al Club To Club, sono previste altre date italiane? “Forse, forse a settembre” mi fa) e una piccola, gentile, provocazione: Non è che per caso eri in uno dei co-co-co producing credit di Yeezus di Kanye West, un album al quale hanno partecipato connazionali come Hudson Mohwake e un Evian Christ? “Purtroppo non è ancora successo”, fa Rustie in tono standard, “mi sarebbe piaciuto, ma non è accaduto”. “Non è accaduto, ancora…”, rimbotto sardonico. Entrambi scoppiamo a ridere. Quindi un “good luck with your album” e la nostra mezzoretta di conversazione finisce nel migliore dei modi. Qualcuno le criticherà come parodie del trap stesso, ma questi espedienti produttivi sono il perfetto combustibile per l’affamato dancefloor EDM. Sunburst EP, pubblicato nel 2010, segna l’ingresso ufficiale del producer nel roster Warp, una svolta non solo contrattuale per Rustie. Rispetto al materiale uscito precedentemente, l’accento si sposta sull’assolo e la melodia. Bucano il mix possenti tastiere (o pseudo tali) dall’appeal rock/fusion o fatte di nervoso minimalismo che, passate sotto divertite spoglie videogioco, si ricollegano direttamente agli ascolti prog fatti durante l’adolescenza in famiglia, un aspetto questo che caratterizzerà la cifra stilistica del Nostro presso gli appassionati d’elettronica della storica label, da anni ormai spostata su un asse di contaminazioni a 360°. Eppure brani come Neko o Beast Night, con i riff da guitar hero in dialogo fusion, oppure l’ancor più maschio singolo Dragonfly con il suo farfuglio di note grezze, non perdono il contatto con i sincopati, le vocine in elio e gli altri trucchi produttivi del sempre più osannato giro di LuckyMe, Numbers e, dall’altra parte dell’Atlantico, Brainfeeder, l’etichetta di Flying Louts, pure lui, come Hudson Mohawke, accasati su Warp da qualche anno. Quelle di Sunburst sono le prove generali per l’esordio lungo, un lavoro che, dopo un faticoso botta e risposta con Warp (che valuta e rispedisce più volte indietro il materiale con consigli e ammonizioni) arriva finalmente nei negozi nel 2011. Alla sua uscita, Glass Swords viene paragonato a Discovery dei Daft Punk e, di fatto, i paralleli con certi aspetti e approccio dei due parigini – elettrock, pop, assoli, 80s, disco, l’uso del vocoder, cultura cartoon – sono fattibili come è indubbio che la scrittura di Rustie, da queste parti, abbia raggiunto un nuovo livello di padronanza e qualità. Fermo restanto tutto ciò che finora il producer ha portato avanti, troviamo nella tracklist una maturata sensibilità pop e padronanza nel trattare la materia della fine degli anni ’70 e il principio degli ’80. Paragonato a un altro disco massimalista e citazionista come il Cosmogramma di Flying Lotus, Glass Swords finisce in molte classifiche di fine anno e per Simon Reynolds è uno dei migliori esempi di musica fatta al laptop onnivora, colorata e luccicante, tipica di una generazione digitale e internettara agli antipodi con il minimalismo e l’oscurità di techno, dubstep e di molta elettronica da ballo. Nel disco, non manca un dialogo con il nascente fermento trap che sta divampando negli USA, con una City Star in grado d’unire l’ardkore britannico con la 67 possanza del ghetto americano. Un episodio isolato all’interno di un album che è già un instant classic degli anni ’10. Nel 2012, a partire dalla primavera, la nuova trap innescata da Luger divampa e sia Rustie che HudMo passano il producer americano nei loro dj set. Rustie, che da sempre omaggia l’estetica del southern rap, e qualche mese prima aveva remixato a suo modo la Brand New di Gucci Mane senza rincorrere ai popolari trucchi produttivi, viene additato come propulsore della scena. E i motivi ci sono tutti: le intuizioni del brano City Star, riproposto nell’essential mix pubblicato ad aprile per la BBC assieme a cruciali dubplate come Harlem Shake di Baauer e Goooo di TNGHT, sono i collanti autoriali di un fenomeno che, a partire da giugno, viene assorbito da grossi potentati come Mad Decent e oggetto di survey da parte del giro AEI media (All Trap Music). L’annata è comunque trascorsa in giro per il mondo a suonare, su modello del citato mix, prevalentemente proprie produzioni e l’esordio Glass Swords. Niente live, solo missato. A livello produttivo non molte uscite: una nuova versione di Surph (storpiatura di surf, traccia dal retrogusto daftpunkiano contenuta nell’album) con il feat. della fidanzata Nightwave, l’inedito After The Light con il feat. di Aluna George e un altro paio di remix sempre di brani cantati, Love in Motion di SebastiAn feat. Mayer Hawthorne e Lose Yourself (Rustie Remix) di Surkin con feat. di Ann Saunderson. E grosso modo va così anche nel 2013 dove, oltre al remix della Trouble on My Mind di Pusha T con il feat. di Tyler, The Creator, e due produzioni commissionate da Danny Brown per l’album Old, di Rustie esce comunque un ottimo singolo per Numbers con Triadzz / Slasherr, due nuovi brani che sembrano ricondurre l’ondata EDM trap nell’alveo rave britannico. Arriviamo al 2014 ed è tempo di un nuovo album composto interamente a Glasgow – dove il Nostro è tornato ad abitare dopo una costosa, a suo dire, parentesi a Londra – e senza impedimenti da parte di Warp. Il lavoro arriva a fine agosto dopo un remix di un pezzo footwork di Machinedrum (Back Seat Ho), genere che Rustie ama e privatamente compone, come ci rivela lui stesso in un’intervista telefonica. Green Language viene presentato come un lavoro molto più personale del precedente, e di fatto al massimalismo dell’esordio, soprattutto negli strumentali, subrentra un approccio più disteso e trasognato, e persino minimalista. In Paradise Stone sembra di sentire i Tortoise innamo- 68 rati di Steve Reich e anche il brano omonimo ricorda certa folkronica onirica. Nel nuovo album però, oltre alla take daftpunkiana Velcro, dove tornano gli assoli chitarristici, sono i 4 brani cantati, posti al centro della scaletta, a rappresentarne il cuore ritmico. Gli ospiti sono perlopiù rapper, il duo Gorgeous Children, Danny Brown e D Double E (quest’ultimo molto simile a Brown è un rapper conosciuto ai tempi di My Space), ma non mancano i feat. in area r’n’b con Redinho e un’altra ospite non accreditata (Dream On), tutta gente con la quale, come di consueto, Rustie ha scambiato mail e file. L’unica novità tecnica, ci racconta Whyte, si riassume nell’utilizzo di alcuni – invisibili – field recording che conferiscono alla tracklist un profumo bucolico e campestre, ma anche nuovi strati in saturazione. Green Language non avrà lo stesso eco e peso di Glass Swords, ma fotografa un producer con il dono della comunicatività emotiva e senz’altro il brano con il feat. di Danny Brown finisce in antologia. G r i m e 2 . 0 P c M u s i c o lt r e . Dall’ambient cinematica ai flauti di pan sintetici, dall’r’n’b all’r’n’g, l’ondata della new wave of grime non si placa. Anzi, abbraccia la sfida melodica per trovare nuova linfa e ispirazione. D’altro canto c’è già chi mette lo sguardo su un ampio spettro di possibilità, unendo - in un mix - la cinematica di Kuedo alle giovani leve della post-ringtone music. >>>Testo di Edoardo Bridda “Certamente c’è stata vita prima del Boxed”, sentenzia beffardo il comunicato del Fabric che accompagna il mix introduttivo di Murlo alla sua grand entré live, l’8 agosto 2014, al Fabric di Londra. Lui in consolle sale sponsorizzato dai ragazzi della crew Butterz capitanata da Elijah & Skilliam, etichetta, slot fisso su Rinse e soprattutto faro della comunità grime londinese (e britannica tutta) prima che la citata serata di culto, nata lo scorso anno, scuotesse vingorosamente, rinvigorendolo e ringiovanendolo, l’intero comparto. Già perché alcuni dei tune più rappresentativi di questa entusiasmante nuova ondata grime 2.0, analizzata in uno speciale su queste pagine, “alcuni dei pezzi più carismatici”, continua pimpante la nota, “che Slackk, Mr Mitch e Logos hanno passato nelle loro serate”, sono proprio di questo ragazzo. Il toni sono ovviamente propagandistici ma non lontani dalla realtà: a parte Mumdance, che 69 è un po’ il fuoriclasse della situazione, il ragazzo delle Midlands è uno dei nomi più caldi emersi negli ultimi mesi tra le serate del club dell’East London e le pagine di Fact Magazine. Se c’è da fare un nome è proprio il suo. L’altro, a ruota, è Dark0, e naturalmente ce ne sarebbero anche altri che esulano dalla nostra analisi. Restringiamo qui il campo ai citati e a Inkke, Slackk, Mr. Mitch, Moleskin, con le relative uscite, perché, a nostro avviso, sono i più rappresentativi di ciò che si sta muovendo in ambito allargato grime e, ciò che più conta, i più indicativi riguardo ai segnali più forti che provengono dalla sempre affollata e competitiva scena. Ancora Murlo è importante per essersi posto nel mix in questione - e in quello pubblicato per Fact a inizio anno - come un ponte tra i progressisti del Boxed e Butterz, e dunque tra grime, UK funky e radici garage correlate. Da un forte impianto di UK funky, del resto, vengono moltissimi nuovi producer come Beneath, Alex Coulton e, non a caso, Inkke, Slackk, Murlo. Diverso il caso di Moleskin, che in passato si è dato anche a rivistazioni Baltimore oltre che refix di Wiley, e qui, con Satin House, rientra perfettamente nel cerchio. Tra i suoi trascorsi, peraltro, anche 70 l’r’n’g (unione di r’n’b e grime, sub genere che condivide con i ragazzi della sua Goon Club Allstar - vedi anche MissingNO) e, su quest’ultimo versante, torniamo a citare Dark0, altro appassionato di hip hop e storie americane. L’aspetto più interessante che accomuna tutte queste energie e, in media, buoni (se non ottimi) dischi, è il gusto per un’esplorazione melodica ai sintetizzatori che travalica gli steccati di genere e apre nuove prospettive, strade personali d’espressione, via all’immaginazione oltre che alla memoria. E’ musica che parte dal grime e magari qui ritorna - perché è salutare sapere da dove vieni e dove puoi tornare - ma è anche musica che semplicemente diventa espressione di sé e non solo ricerca del pezzo che spacca all’interno di un noto gioco di regole. Ecco perché non risulta affatto azzardato tracciare ponti con le narrative idm e lo sci fi dei 90s, con la musica dei 70s già ripresa da Kuedo o con quella degli 80s inforcata da Mike Paradinas e, proseguendo lungo lo spettro, con quel lungo e inesorabile avvicinamento all’r’n’b e al pop americano (vedi anche Hyperdub 10.2) che possiamo grossomodo far iniziare con Timbaland e la fine dei ‘90. Paradinas torna nella nostra analisi sia per un 12’’ sotto Mu-Ziq, Rediffusion, sunto di un mixtape uscito nel 2013 ricco di ottime melodie sotto forma di ricordi d’infanzia, e soprattutto per un mix pubblicato per XLR8R, il 12 agosto di quest’anno, che non solo contiene tracce inedite del citato Mr. Mitch e Kuedo (entrambi anche sotto Planet Mu tra le altre cose), ma apre a tutta una serie di proposte che dalle trasognate spiagge (post-) glo-fi, portano al post-ringtone, alla soundcloud label Pc Music e alla candy pop music da cameretta, musica quest’ultima fatta da giovani producer laptop dipendenti che hanno trovato nel giro di Glasgow - e magari nella trap fanciullesca dei Purity Ring - una via immediata alla pennata melodica sporcata d’elettronica cheap e trash (manca Sophie, chiaro, ma per i ritorni a Window Licker ci sarà spazio più avanti...). Dal sinogrime e dalle riprese dell’eski del 2012-2013, arriva dunque una nuova fase per il grime schiumato dal Boxed e da label quali Glacial Sound, Lost Codes, Oil Gang, Goon Club Allstar e Gobstopper, una lingua che parla ancora di flauti di pan sintetici à la Fatima Al Qadiri, carica ancora varie armi e pistolame su sincopati molto dodge, ma torna con molta più attenzione al discorso melodico, alle possibilità narrative e al melange r’n’pop. Palm Tree Fire di Slackk, il producer che negli ultimi mesi si è più documentato sui nuovi producer grime sfornando mix a cadenza mensile, è una stanza di specchi, un labrinto di etniche flore e cinematiche faune, la più solida e matura tra le proposte qui trattate. 16 episodi in esplorazione ad ampio spettro tra oriente sinogrime e i 70s, dalla uk funky alla vaporwave, il tutto pensato per bene, lasciato sendimentare. Un disco di sintetiche melodie e ritmi spezzati, senza tempo, non facile e fuori dalle mode (7.1/10). Sempre sul versante world citiamo Grime Light di Jt The Goon, producer di cui si sa davvero poco, che su Twin Warriors EP (7.0/10) sperimenta tocchi sitar e altre perlustrazioni attorno al mondo a base di r’n’g. Succede anche nell’EP collaborativo con Murlo, Garden of Eden EP (7.0/10). Inkke, invece, è piuttosto eclettico passa da pezzi synth sci fi a pastoralismi gansta nel buon Crystal Children EP (7.0/10). E spostando lo sguardo e le orecchie dove la melodia è sempre più in primo piano, ecco che Strict Face propone un buon dittico di sognanti pa- esaggi: Fountains / Highbury Skyline (7.1/10). Per questa via, Dark0, con Fate, un EP ispirato da hip hop e videogame, non può mancare in discografia quest’anno. Ottimo il lavoro sui suoni della tracklist tra l’altro. Il suo è uno dei 12’’ meglio prodotti in quest’ambito finora ed inoltre, grazie al suo distinto gioco ritmico grimey, l’avvicinamento alle rotondità pop, alla cinematica e al continuum idm melodico, è l’ideale ponte per tornare sul mix di Paradinas (7.2/10). Il boss di casa Planet Mu è uno che quattro anni fa accendeva la miccia footwork e oggi - anche con la moglie in Heterotic - è immerso nelle possibilità del linguaggio dei synth e nei profumi del pop degli 80s. In scaletta, tra le arie adulte di Konx-om-Pax (l’inedito Last Jam Forever) e Kuedo (con ben 5 brani inediti) in cui s’inserisce perfettamente la pensosa proposta simil-overture dell’EP Satis House di Moleskin, in uscita su Keysound, non sorprende trovare gli zuccheri “o li ami o li odi” di Pc Music, cricca che sta alzando un certo buzz negli ultimi mesi e che qui comprende quattro produzioni di A. G. Cook (Close Your Eyes), Hannah DiAmond (Attachment e Pink and Blue), Danny L. Harle (Broken Flowers). Un terreno d’azione su perno pop assaltato da break-sincopati, elettronica giocosa e infantile, house memorabilia FM come se dietro agli schermi LCD ci fossero i corrispettivi femminili di Rustie e, al posto dei continuum elettronici dei ragazzi, ci fosse un misto di twee, karaoke à la Lost In Translation ed elettronica commerciale dei 90s. La post-ringtone è in un certo senso il complemento del grime 2.0, un disimpegno comprensibilmente fastidioso ma anche un sano momento frivolo/distensivo all’ingegno dei grimer di nuova generazione. 71 Skiantos Sbagliando nota. Parte quarta 72 L’ultima parte della storia degli Skiantos vede il gruppo fare un doppio album, riunirsi estemporaneamente con i vecchi membri, andare in tv, continuare a litigare con i discografici, riprovare inutilmente ad andare a Sanremo, e infine sciogliersi. Intanto il leader, Freak Antoni, ha una figlia, si innamora di Satie, finisce in radio, fonda una nuova band a suo nome, prova inutilmente ad andare a Sanremo e infine lascia questa valle di tante lacrime e poche risate. Testo di Giulio Pasquali T roppo avanti La parte conclusiva della storia segue binari ormai chiari: i Nostri continuano ad essere un gruppo “di tabernacolo”, che fa buoni dischi ma che fatica a farli ascoltare, che continua a litigare con i discografici (più con chi non li promuove: a cambiarli, ormai, non ci prova più nessuno), fa concerti seguito da fan e curiosi, mentre i titoli in discografia aumentano non tanto per gli album in studio (tre più 2 EP), quanto per raccolte celebrative, live (benché il revival li abbia toccati poco: meno per esempio di Federico Fiumani) e i vari progetti di un Freak Antoni sempre “incontenibile”. Un andazzo da normale fase tarda di carriera, finché nel 2012 non arriva la notizia-bomba che Freak Antoni, per la seconda e definitiva volta, è uscito dal gruppo. Andando con ordine, dopo l’infelice progetto di Skiantologia vol. 1, il silenzio discografico dura fino al 1999, quando esce addirittura un doppio album: dopo sei anni e il disco mancato per Mescal, il repertorio ammonta a una quarantina di canzoni (e una decina rimangono fuori). Preceduto dal singolo Gratis (con Nicola Arigliano), sigla dell’omonima trasmissione, e con un blister con due supposte (che altro?) in copertina, Doppia dose (Alabianca-Stile Libero/CGD) si divide in due dischi. Per il Disc-one – Il solito trionfo i Nostri chiamano a raccolta amici, colleghi, compagni di strada degli anni ruggenti di Bologna ed estimatori vari: Samuele Bersani per la bella Non sono un duro (guarda come piango), 73 Michele Serra per Ero buono (notevole rilettura del vecchio classico) e altri, da Marco Carena ai Montefiori Cocktail, ai Gang (ovviamente Canzone per Che, che degli Skiantos ha pochissimo), a Shel Shapiro, al ritrovato Johnson Righeira, persino Vasco e Lucio Dalla ai cori di un pezzo. Il risultato è un lavoro piacevolmente eterogeneo che a partire dal groove rock della spaccona Troppo avanti passa dalla house alle ballate (la gucciniana Io dentro), dalla techno (Il sesso è peccato farlo male, coi Datura) a un omaggio a Petrolini (Uomo peso), con qualche puntata negli usuali canoni rock. Né mancano satira e sguardo tra allarme e profezia, con Nuovo Medioevo, Polli (notevole performance della Banda Osiris) e I ragazzi del coro (sul conformismo e il neooscurantismo contemporaneo). Gli anni di pausa sono evidentemente serviti a raccogliere e focalizzare le idee, al cui servizio troviamo, anche grazie alle collaborazioni, la più ampia varietà musicale riscontrata in un loro album. Sul “Disc-one secondo” invece la formula è più classica, ma c’è un motivo: M’hai cotto il razzo è infatti realizzato dai membri della formazione ‘77ina del gruppo, riunita estemporaneamente. Riascoltiamo così Stefano Sbarbo che si sdilinquisce in Kommessa e lo svenevole Jimmy Bellafronte nella geniale Non serve (devi morire), fatalistica seconda puntata del filone escatologico scandita da cori da stadio, nonché in Diventa geometra (un passo avanti rispetto a “diventa demente”? Chissà…), alla fine della quale compare un carabiniere che lo arresta per crimini contro il bel canto. Il piacere di ritrovarsi dà benzina ai neuroni, e il canovaccio rock alla Stones con tanto di variazioni soul e funky (Ti frugo nel frigo, o la scorretta Amore istantaneo) e puntate psichedeliche (Gran viaggione), viene svolto a dovere con la giusta sfrontata freschezza. Il R’n’B polemico di Sono 2000 è (giustamente) più Sergio Caputo che James Brown, e non manca l’oltraggio di turno alla ballata romantica con Pene d’amore, né una ghost-track di rara turpitudine (Body music). In generale, qualche veniale caduta di tono qua e là nell’arco dei due dischi non cancella lo splendore di un’ispirazione che regge bene la lunga durata. Dandy and Freak su Doppia dose: Nel disco si sente anche una grandissima varietà musicale, dovuta credo in parte anche agli ospiti… Dandy: “Sì soprattutto a questo, ma anche per il fatto che era un momento in cui stavo molto attento a quello che succedeva, allora mi piaceva un po’ tutto quello che ascoltavo. Non tutto, ma avevano cominciato a piacermi tutti i generi musicali, se erano fatti bene, 74 ero in quella fase lì (nella quale sono ancora, peraltro), per cui è venuto fuori un disco molto eterogeneo. Però c’è un filo conduttoreSkiantos in tutto il disco, che lega tutto. Io esagero ma secondo me è uno dei più bei dischi che abbiamo fatto. Ci abbiamo lavorato su otto-nove mesi. A fasi alterne, man mano che gli ospiti arrivavano modificavamo… per esempio un pezzo in cui canta Luca Carboni: ne ho sei versioni, prima di trovare il vestito a quella canzone lì ci abbiamo messo una vita… mi sono sfogato, insomma. Ho lavorato come un assassino, per cui alla fine io ero sempre in studio e gli altri Skiantos arrivavano a fare le loro cose. Nuovi, vecchi… Dandy:”Con quelli vecchi no, abbiamo fatto proprio alla vecchia: in una settimana abbiamo registrato e mixato tutto. Il disco dove ci sono gli Skiantos attuali, quello è stato molto più elaborato, ci abbiamo messo molto più tempo a farlo. E’ un disco molto curato, mi era preso così”. Freak: “Un disco con ospiti clamorosi come Lucio Dalla che canta insieme a noi, Samuele Bersani, Luca Carboni, Shel Shapiro dei Rokes, veramente… Enzo Iacchetti, Vasco Rossi che rilascia una dichiarazione per noi, insomma un disco ricchissimo di contributi senza la minima promozione, senza il minimo lancio, senza il minimo sostegno. Questa è la nostra storia, veramente. A volte è come lottare contro un gigante che è dieci volte la nostra statura, 75 come nuotare controcorrente, come lottare contro i mulini a vento: è faticosissimo”. Ancora sovversivi Come dichiara Freak Antoni, però, le cose vanno come al solito: poca promozione, successo relativo, fine del rapporto con l’etichetta (né ha aiutato, nel momento in cui Gratis passava in tv, metterne sull’album solo una versione strumentale lasciando quella cantata al singolo). E silenzio discografico, interrotto nel 2002 dall’EP Virus (Sonicrocket/Venus), quattro tracce carine ma non indimenticabili, tra cui la richiesta di un Vitalizio, cui il gruppo ritiene di avere diritto dopo 25 anni di onorata carriera (era già ghost track di Il solito trionfo). È anche l’ultimo disco che vede al basso Marmo Nanni, col gruppo dal 1990 e sostituito da “Maxmagnus”. Poi a un certo punto gli Skiantos sembrano finalmente aver trovato, se non il porto sicuro, perlomeno un’etichetta discografica decisa a lavorare con loro come si deve: si tratta de Latlantide, un nome appropriato visto che trovarne una con queste caratteristiche sembrava un’impresa da romanzo di fantasia. I Nostri si aggiungono così alla lista (che comprende nomi di culto come XTC, Violent Femmes, Stan Ridgway, da un po’ addirittura i Toto) dei gruppi che, scottati/scaricati da grandi e medie etichette, decidono di rivolgersi a quelle indipendenti per lavorare magari con meno mezzi, ma con molta più tranquillità. La nuova etichetta parte subito bene, celebrando finalmente in modo degno la storia del gruppo con l’antologia La Krema (Latlantide, 2002). All’interno l’inedito in stile house-Doppia Dose Perché la notte m’inviti a casa tua e poi mi lasci dormire sul sofà, la rara Natale è (ripescata da un’oscura compilation del ‘96, di nuovo le feste) e una buona scelta di classici, sia pure con qualche stranezza (vedi le scelte da Doppia Dose, ma anche Frontale, certo non il pezzo migliore di Saluti…): nonostante il titolo, infatti, dal famigerato Ti spalmo la crema c’è Canzone per l’estate ma non il brano omonimo… Il lavoro sul passato prosegue, e nel 2004 rovistando tra cassetti e compilations, i Nostri mettono insieme Rarities (Latlantide, 2004). Tra i reperti, l’incriminata Fischia il vento, una Bocca di rosa che non avrà fatto i fans di De Andrè molto più felici dei partigiani, la tirata (ma un po’) retorica Pacifisti oltranzisti, la declamazione blues di Invasione di campo di Sgalambro, un road rock canonico e vagamente d’atmosfera come Tormento al tramonto, un omaggio completamente folle a Sandro Pertini con 76 Babbo rock del 1983, l’elegia sulla decadenza di Bologna di Angolo B (insieme a Claudio Lolli, scritta dieci anni prima ma invecchiata zero) e un affettuoso omaggio (ma “oltraggio” sarebbe più esatto, e “affettuoso” non sembra, checché ne dicano loro…) ai “nemici” Elio e le Storie Tese con una cover di Mio cuggino (col testo cambiato, va da sé) decisamente ostile. Una riuscita “collezione di sabbia” non priva comunque di una certa unità, che include anche qualche interessante testimonianza (stavolta davvero) live: scopriamo per esempio una Signore dei dischi blues e ascoltiamo una Italiano ridens dal vivo col pubblico coinvolto. In apertura del disco c’è anche la nuova Col mare di fronte, un notevole r’n’r con una batteria stile Lust for Life e uno stacchetto di cori byrdsiani che, con penna ispirata, prende di nuovo di mira le vacanze. Si prova a sfruttare le buone potenzialità di questa canzone, che farà anche da sigla a Colorado Cafè Live, facendone un EP (con ulteriori rarità, come una Gelati dal vivo dall’88 – con bell’assolo di sax di Carlo “Charlie Molinella” Atti – e come ghost-track una testimonianza di Freak Antoni che declama dal vivo alcuni dei suoi epigrammi con tanto di risposte del pubblico) e inserendola nella compilation Demential Rock vol. 1 (nella quale, riuniti sotto la sigla Prosthathas, tornano nomi noti quali Stefano Cavedoni, Andrea Setti e Andrea Della Valle con una Sono giovane che a livello di ispirazione conferma il suo titolo; purtroppo l’esperimento non ha un avuto seguito). Ma, singolo a parte, nessun segno di materiale nuovo. L’ incontenibile Freak Antoni In realtà anche Latlantide lavora su nuovo materiale: lo stesso anno Freak Antoni unisce la sua voce recitante al piano d’avanguardia di Alessandra Mostacci e incide IroniKontemporaneo (Latlantide, 2004), poesie sue su musiche di giovani compositori contemporanei (a parte la notevole Furgoncino di Di Bernardo, recitata su una gymnopedia di Satie). Operazione insolita e felice di unione tra una musica per lo più delicata (poco somigliante all’idea comune di “musica d’avanguardia”) e la poetica del Nostro, la cui espressività è messa ulteriormente in evidenza dall’inedito contesto musicale. Piano e voce ci conducono tra omaggi a John Cage (Ouverture) e al maestro Luigi Mostacci, padre di Alessandra, e il gioco dadaista di – per l’appunto – Dadaismi. Particolarmente interessante la sequenza che vede in fila Cito Majakovskij e sogghigno (dove Antoni cita anche se stesso), unico pezzo senza la pianista e uno dei vertici del disco, cui segue appunto 77 La blusa del bellimbusto di Majakovskij (poesia citata in Pompeo), e di conseguenza Disforica Uno, dedicata a Andrea “Pompeo” Pazienza. Anche la scelta dei testi, in gran parte già apparsi sul libro Non c’è gusto…, risulta azzeccata nell’alternanza tra la ricerca di strade nuove e la rielaborazione di temi già usati (Eroe senz’eroina e i suoi giochi verbali, la satira passivo-aggressiva di Scusami se esisto). Freak: “IroniKontemporaneo è un progetto che parte dalla suggestione della musica contemporanea, la mia nuova scommessa. Musica contemporanea della quale io sono stato edotto per merito di questa pianista, concertista classica che è appunto Alessandra Mostacci, la quale mi ha aperto uno spiraglio su questo mondo. Che sembra un po’ un pleonasma nel titolo, perché la musica contemporanea di per sé ha molte valenze ironiche, no? Si voleva sempre ribadire però questo approccio abbastanza divertito, e possibilmente divertente, alla musica contemporanea, anche se è un disco piuttosto serio. Ma è il punto di partenza di un percorso che stiamo ancora facendo. Pesca a piene mani dalla suggestione delle avanguardie storiche, dal lavoro fatto da tutte le avanguardie contemporanee, quindi il lavoro di tutti i musicisti contemporanei ci ha molto ispirato, ci ha addirittura elettrizzato ed eccitato in molti casi. Parlo per me e per la pianista Alessandra Mostacci, che è diplomata al conservatorio, da anni fa concerti di musica classica, però ha sempre avuto questo orecchio aperto ed interessato alla musica contemporanea, passione che mi ha trasmesso. E io direi che ho aderito soprattutto per la parte sperimentale, nel senso che mi sto ancora documentando, quindi è un work in progress, è un lavoro che si sta ancora svolgendo, sull’opera dei contemporanei. La sequenza che dici era voluta, certo. Gli omaggi ad Andrea “Pompeo” Pazienza e a Majakovskij sono molto accorati, molto sinceri, molto onesti e molto sentiti. Perché Majakovskij è stato un poeta a me molto caro, io ritengo che sia stato una figura di intellettuale importantissima per il mondo legato all’ex-Unione Sovietica, per quel mondo credo che rappresenti quello che da noi è il mito di Che Guevara: voglio dire sono entrambi due grossi miti che hanno pagato fino in fondo il prezzo della loro onestà, il prezzo della loro utopia e della loro ricerca. E poi naturalmente al grande Andrea Pazienza che ha saputo, con la sua arte, raccogliere perfettamente l’immaginario di una generazione, ha saputo riprodurre perfettamente un’epoca, uno stile, un periodo, quello appunto del movimento studentesco fine anni ‘70-inizio anni ‘80”. Nel 2007 uscirà anche il secondo volume, che prosegue nel 78 tentativo non solo di “spiegare l’avanguardia alle masse” (vedi il Manifesto tendenzialista), ma anche di far capire che la stessa avanguardia può essere giocosa e divertente, con musiche sia dei giovani italiani del primo volume, sia dei contemporanei “storici” (Ligeti, Satie e Cage), e uno brano della stessa Mostacci (l’Hal 9000 di Videogame 2001). Oltre a proporre la ripresa di Cito Majakovskij e sogghigno, accompagnata stavolta dal piano, il disco spiega bene l’origine primonovecentesca dell’ironia di Freak Antoni, e presenta accenni a una maggiore varietà strumentale. In Leggero (su Le onde di Ludovico Einaudi), il gioco tra ironia e delicatezza raggiunge anche un certo pathos, un po’ inatteso in un progetto come questo, che si snoda tra la turpe Il gigante e il nano e le ricette dada di Poesia tendenzialista. Tra i vertici, l’omaggio di Freak a sua figlia con Margherita blues, che si distacca nettamente dalla tradizione delle canzoni dedicate ai figli (che raramente evitano quel velo di retorica), e la teologia sui generis di Giuda. Un C olorado al centro di Milano Nel 2004 succede anche di rivedere gli Skiantos in TV: vengono infatti chiamati a partecipare a Colorado Cafè Live, di cui curano anche varie sigle (una darà il titolo al nuovo disco). Esperienza 79 buona finché dura. Freak Antoni: “È stata molto positiva, ci siamo trovati molto bene. A partire dalla richiesta di partecipazione, che abbiamo saputo poi è venuta da alcuni estimatori Skiantos interni a Mediaset che ci ha lusingato, ci siamo sentiti apprezzati fin dall’inizio, ma anche per il rapporto ottimo, intenso, di reciproco rispetto e stima che ha comportato uno stimolo a vicenda nel lavoro con gli altri cabarettisti: poiché noi lavoriamo da sempre sull’ironia, sulla comicità, sul sarcasmo e sull’autoironia, di conseguenza ci siamo trovati benissimo con i comici di Colorado Cafè Live. Poi però… noi abbiamo partecipato a tutte le edizioni e per tutte ci hanno detto “ragazzi, l’Auditel ci gratifica con risultati sempre in crescita, quindi vedrete: arriveremo alla prima serata e sarà un premio per tutti”. Quando poi è successo, datosi la smania di continui cambiamenti, non ci hanno riconfermati, così come non hanno confermato altri cabarettisti e il programma è diventato una specie di varietà patinato da sabato sera un po’ miserino, ed è andato molto male. Noi facevamo le nostre canzoni in forma di assaggio, non potevamo fare altro perché era una trasmissione di cabaret e noi eravamo ospiti musicali, quindi non potevamo avere spazi enormi. La trasmissione aveva come assunto base un ritmo veloce, non ci si poteva soffermare ad ascoltare una canzone di tre o quattro minuti, per cui erano tutti scampoli di brani ma queste erano le regole che noi abbiamo accettato fin dall’inizio”. Sullo stesso tono Dandy Bestia: “Sono stati loro a chiamarci, con gran nostro stupore, credo che fosse stato proprio il direttore di rete Tiraboschi a volerci. All’inizio, è stato molto divertente anche perché ci hanno lasciato abbastanza libertà. Chiaramente non ti concedevano di fare canzoni come “Largo all’avanguardia, pubblico di merda”, poteva essere offensivo, però in generale ci hanno lasciato molto liberi. È stato, finché è durato, carino. Poi come tutte le belle cose, eh eh, finiscono, perché hanno voluto fare il salto in prima serata. Era così carina quella trasmissione, perché ci si poteva permettere di dire molte cose perché andava in onda tardi, verso le 11-11 e mezza, a volte anche mezzanotte. E quindi a quell’orario puoi fare un pochino quello che vuoi, è stato bello anche per questo. Poi il salto in prima serata, e noi ovviamente non siamo stati più chiamati, anche perché in prima serata ci voleva qualcosa di più nazional-popolare. E infatti poi lo è diventato: ho visto qualche puntata dell’ultima tornata ed è né peggio né meglio di tutti questi varietà e contenitori televisivi che ci sono adesso in giro, tipo Zelig o compagnia bella. Finché era in onda in tarda serata, lo ripeto, era 80 più divertente”. Essendo i Nostri in TV, la EMI si fa convincere da Guido Elmi a produrre il loro primo album completamente nuovo dai tempi di Doppia dose. Sei anni dopo, però, la dote è singola e il gruppo, se si escludono gli ultimi due brani, ha abbandonato la sfavillante varietà musicale del doppio per tornare al rock classico. In un decennio in cui, revival ‘80 a parte, mancano dei veri generi dominanti, i Nostri, che alla musica dei tempi erano sempre stati piuttosto sensibili, a chi cercava segnali rispondono in questi termini: barra dritta sul rock, al limite qualche ballata (genere che comunque in quella tradizione c’è sempre stato) e, appunto, un paio di deviazioni. I risultati di Sogno Improbabile (EMI – “che non ha fatto niente per promuoverlo”, 2005) sono buoni, nonostante qua e là la trovata di costruire del buon rock prendendone in giro i luoghi comuni funzioni meno (Riprendiamoci la Corsica è manierismo Skiantos e Troppo toasti per te è carente anche come testo). E se le satire/provocazioni di Canzone contro i giovani (sugli accordi di Wonderwall o, visto che parla di giovani, di Boulevard of Broken Dreams) e de La ballata del cantautore triste, pur dense di spunti 81 interessanti, in qualche punto sembrano perdersi, La maggior parte degli artisti e la potentissima apertura di Lardo ai giovani risultano più centrate. Ma il disco non risparmia davvero momenti memorabili: vedi, oltre a quelli citati, la geniale Sanissimo (terzo capitolo sulla morte), il surrealismo lirico della bellissima title-track e di Fossile del Pleistocene, l’esplosiva Il proibizionista, nonché il folle pastiche musicale che oscura qualche crepa del testo di Diverso delirio. Mentre solo la classe della band, il tono della recitazione e la musica tra Mertens e Sakamoto (?!?) riesce a fare di Tarzanelli qualcosa di più e di meglio della goliardata che avrebbero tratto dall’argomento, per dire un nome a caso, Elio e le Storie Tese. E forse queste due ultime canzoni, pur rimanendo nel campo di un’avanguardia gia vista, una qualche risposta sul futuro riescono a suggerirla. Dandy Bestia:”Certo, è più rock, perché poi alla fine l’amore fondamentale è quello. Ma è pieno di rock anche Doppia Dose, non è che non ci sia del rock: ci sono più variazioni, ci sono più tentativi, più esperimenti, ma di fondo è il rock che la fa da padrone comunque, sempre, anche perché è il linguaggio che conosciamo meglio, quello attraverso il quale ci esprimiamo meglio”. Freak Antoni:”I due brani 82 terminali (sic), appunto Tarzanelli e l’altro, Diverso delirio, sono state proposte mie che provengono da quell’esperienza di IroniKontemporaneo, del parlato sul musicale, per sperimentare una strada un po’ diversa, una strada inusuale anche per gli Skiantos”. Ma ancora una volta si ripete il copione del rapporto tra il gruppo e le major, e il breve legame con la EMI termina tra le recriminazioni. Freak sui discografici: “I discografici appena sentono odore di interesse alzano i prezzi e come! Non gliene frega niente del prodotto, lo lasciano marcire nei loro archivi, però appena c’è uno che mostra un minimo d’interesse le sparano grossissime. Faccio un esempio: noi abbiamo collaborato, così, in forma di complicità musicale con un film che si chiama Fratelli d’Italia, autoprodotto da un regista bolognese che si chiama Roberto Quagliano, che si era innamorato del nostro disco, era stato incaricato da Guido Elmi di venire a videoregistrare alcune nostre performances in studio mentre registravamo. È venuto, ha sentito i pezzi del disco, gli sono piaciuti parecchio, e ha trovato una sintonia con il suo film. Per cui ha chiesto di poter utilizzare quel materiale e noi tutti gli abbiamo detto di sì (tra l’altro lo abbiamo visto tutti e ci è piaciuto, un film molto ruvido sul problema dell’handicap). Dopo di che si è messa in mezzo la EMI che ha subito chiesto cinquemila euro per l’utilizzo di due canzoni, per l’utilizzo di tutto il disco diecimila, cifre che il regista, essendo una produzione indipendente, non aveva. Alla fine si è messo in mezzo Elmi, tira, tratta, alla fine il regista ha pagato mille euro per due canzoni. E il film era veramente bello, noi lo abbiamo sostenuto a spada tratta, abbiamo chiesto che la EMI non facesse ostruzionismo, eppure niente, alla fine si è accontentata – dicono i dirigenti – di mille euro, che per una piccola produzione non è una cifra insignificante. E questo quando la EMI non ha fatto niente, assolutamente NIENTE, per promuovere questo disco, proprio nulla di nulla. I signori della EMI si erano in qualche modo entusiasmati perché quel furbone del produttore Guido Elmi aveva fatto intravedere loro la possibilità della promozione televisiva attraverso Colorado Cafè. A un certo punto noi dovevamo fare un video, un tour radiofonico promozionale: poi, quando per l’ultima edizione la direzione di Colorado Cafè ha pensato bene di non rinnovarci il contratto, la EMI ha perso ogni interesse e non ha più fatto nulla e si è rimangiata in un attimo le promesse con la massima nonchalance, compreso il produttore Guido Elmi che non ha fatto una piega, è passato ad altro, e quindi il disco non ha avuto promozione. I discografici sono veramente la morte della musica, purtroppo 83 è così. Noi infatti abbiamo scelto di lavorare con una piccola etichetta, che è Latlantide, perché almeno sono giovani ma onesti: forse quando hanno iniziato erano un po’ inesperti, ma certamente molto civili e sinceri, e in quest’ambiente la sincerità e l’onestà sono proprio impagabili, perché sono tutti squali, squaletti, piovre dedite al loro solo guadagno e al menefreghismo più totale per quanto riguarda il resto. Quindi è un ambiente allucinante quello della discografia in Italia, non ci si deve meravigliare che sia in una crisi irreversibile anche a livello internazionale perché si muove facendo passi maldestri con un’arroganza e con una supponenza che forse gli deriva dagli incassi degli anni ‘60 e ‘70, che oggi non esistono più né potranno mai tornare, ma se non lo capiscono loro… del resto è un settore in crisi, quindi i manager migliori non si indirizzano nella discografia ma vanno in altri settori della produzione, quindi noi lavoriamo sempre con delle teste molto mediocri. Così, questa è la nostra esperienza personale” A zzeccando nota Conoscendo un po’ la storia del gruppo, le schermaglie con la EMI potevano essere ampiamente prevedibili. Quello che inve- 84 ce sorprende davvero è il disco del 2006 (ma registrato prima di Sogno improbabile): Skonnessi 1977-2005 (Latlantide) è nientemeno che uno sfavillante unplugged, dagli splendidi suoni rotondi di chitarra, sitar, dobro, basso acustico, contrabbasso, spazzole e altre bellezze, non ultima l’ariosità bilanciata delle dinamiche e soprattutto il modo in cui il gruppo suona e riarrangia. Per la scaletta, accanto ai classici (anche un medley tra Eptadone e Permanent Flebo), la scelta si orienta verso le “canzoni” vere e proprie: tre pezzi da Troppo rischio…, non a caso (tra cui una Blues degli orti metropolitani perfettamente a suo agio in questo contesto), il filosofeggiare di Io dentro (con tanto di introduzione con citazione di Seneca) e di Non hai vinto ritenta e Pene d’amore, ma viene anche ripescata Meglio un figlio ladro che un figlio frocio in versione Bo Diddley. Dei nuovi arrangiamenti non beneficiano soltanto quelle canzoni a loro tempo penalizzate dalla produzione (per quanto il confronto tra questa versione di Ti voglio così e l’originale, o la versione di Skiantologia, sia impietoso): anche Gelati levita riletta così sommessamente e con la lunga, suggestiva, coda strumentale, come del resto Nostalgia della miseria, e Gran viaggione è un altro brano che dà modo al gruppo e agli strumenti di esprimersi e suonare come sanno. Così, tra citazioni di Celentano (finale improvvisato di Sbagliando nota), Lou Reed (in Pene d’amore) e Nino Rota (Col mare di fronte), il disco, con l’inedito Sesso pazzo in linea col resto (un’altra confessione ironica di inadeguatezza con momenti notevoli e altri meno), scorre illuminando da un angolo nuovo la carriera degli Skiantos e rivelandone sfumature inedite. Esce anche un DVD (con la registrazione di un unico concerto, mentre il disco selezionava e mescolava varie serate), decisamente interessante non solo per i brani in più (Io ti amo da matti e Non sopporto il Capodanno): intanto vale la pena vedere questo “Frac” Antoni in versione elegante, appurato che dal video poi non sono stati tagliati né i momenti di interazione con il pubblico, né le poesie di Freak, né l’introduzione in cui Dandy Bestia dice infine esplicitamente che Permanent Flebo e Eptadone sono praticamente uguali. Sono stati lasciati anche quei due-tre errori che, invece di smentire l’idea che il gruppo suoni bene, danno un’aura di genuinità informale al tutto: in fondo sono sempre gli Skiantos e non i Toto, e l’imprecisione fa parte del rock dal vivo. Dandy Bestia: “Skonnessi è un esperimento venuto bene. Pensa che io non ci credevo granché, poi Freak mi ha rotto talmente tanto i coglioni… “facciamo ‘sto acustico” e io “ma non siamo un gruppo 85 da acustico” “ma proviamo”, ci siam messi lì e alla fine mi ci sono appassionato anch’io, è venuto molto bene in effetti”. Ma questa cosa degli strumenti forniti dai negozi? Dandy Bestia: “Avendo da sempre pochi soldi… dovendo fare un disco live acustico c’è in realtà bisogno di più materiale che per un disco elettrico, ci voleva una varietà di strumenti seria, tutta una serie di cose che noi non avevamo e che comprare sarebbe costato una fortuna. Per cui mi misi a cercare fra tutte le case di produzione e i negozi di strumenti musicali che conosco, e ne conosco parecchi, degli sponsor: gli ho detto “guarda, ti cito in copertina, se mi presti questa cosa qua ti metto in copertina, ti pago al limite un noleggio”. E trovai le porte tutte aperte, per cui facemmo questa cosa, grazie anche all’interessamento di Stanzani, Tomassone e di Fontanot Verona, e di Davoli a Parma, insomma una serie di amici che conoscevo da una vita e si sono prestati… ci hanno prestato – la maggior parte delle volte assolutamente gratis, devo dire, devo ringraziarli ancora – gli strumenti che hanno fatto sì che potessimo realizzare il disco con i suoni che ci volevano, perché secondo me i suoni sono molto belli. Le chitarre sono molto belle perché sono chitarre molto buone, strumenti notevoli. Conta anche il gruppo, sono suonati molto bene, perdonami la poca modestia”. Quindi alla fine li avete restituiti… Dandy Bestia: “Alcuni sono stato così pazzo da comprarli”. C ontinuando allegro a fischiettar Mentre Freak Antoni finisce in radio tra i conduttori di Pane burro e rock’n’roll e su fumetto con Freak (miniserie in 5 numeri in cui disegnatori diversi illustrano una strana storia in cui si mescola biografia di Antoni e un’indagine su un serial killer di cantanti famosi), mentre il Nostro collabora qua e là con gruppi vari (tra cui gli Altera, coi quali realizzerà la sua ultima registrazione), proseguono sia i suggestivi concerti di Ironikontemporaneo con Alessandra Mostacci, sia l’attività del gruppo principale, che riceve un inatteso aiuto nientemeno che da una ditta di cioccolato di Cremona, la Wal-Cor. I proprietari, infatti, grandi appassionati di rock, dopo essere entrati nella produzione di alcune tournée italiane di Lou Reed, decidono di organizzare non solo una reunion live dei vecchi Skiantos con tanto di scaletta d’epoca (benché quei pezzi non siano mai mancati ai concerti) e piena di ospiti (tra cui una disfida-chiarimento con Elio), ma anche di co-produrre il nuovo album, che beneficia addirittura della distribuzione Universal e che conferma l’ultima frase espressa da Freak Antoni in 86 un’intervista a Guglielmi del Mucchio, e cioè che gli Skiantos moderni continuano a fare dischi interessanti cui dare una chance. Per Dio ci deve delle spiegazioni (possibilmente convincenti), (Universal, 2009) rimandiamo alla recensione, osservando che, oltre alla buona ispirazione, il disco conferma la scelta rock di Sogno improbabile, con le sperimentazioni liscio-metal di Senza vergogna, una potentissima versione funk-rock della Merda d’artista già in Ironikontemporaneo 2 e un inno come Odio il brodo, nato in ambito basket e che contiene un distico tra i più belli dell’opera di Freak: “non sopporto il detestarmi / ma detesto il sopportarmi”, che nell’apparente demenza in realtà esprimono quella ricerca e quello slancio di cui parlerà la figlia di Antoni nella già ricordata orazione funebre. Lo stesso anno esce anche l’EP Phogna – The dark side of the Skiantos (Universal, 2009): si tratta di 4 canzoni che, secondo le note, non hanno trovato posto in Dio… perché di tematica “seria”. La cosa viene presentata come una novità (quando in realtà già Troppo rischio… aveva segnato un passo del genere), e in realtà non manca l’ironia neanche qui (come d’altra parte non mancava la serietà nella demenza). È questo l’ultimo vero disco degli Skiantos, e se sembra una conclusione minore, quella vera lo è ancora di più. Una vita spesa … A questo punto, infatti, iniziano i dissapori anche con Latlantide: il gruppo contesta la copertina coi pinguini di Sesso pazzo, l’etichetta sostiene che le ristampe in vinile di MONOtono e Kinotto della Spittle non sono autorizzate perché la licenza è loro – secondo gli Skiantos la licenza è scaduta – e in generale il gruppo è scontento non solo dell’etichetta, ma anche della fatica che fa in generale, tra la label di Vasco che non risponde alle richieste di licenza per ristampare i tre dischi di fine anni ‘80, un management di cui la band non è soddisfatta e un nuovo tentativo, ovviamente fallito, di andare a Sanremo. La canzone proposta è Allegretto ma non troppo, riflessione esistenziale insieme amara e divertita come da titolo, la cui articolata struttura melodica è opera della Mostacci: una chiusura di carriera più che degna, se si guarda alla canzone in sé, ma il modo in cui viene pubblicata è indicativo di qualche questione in ballo al momento. Latlantide la pubblica sull’EP Balla la pace (2009) e su La Kreme (1977-2010): il primo è un EP che oltre a due versioni di Allegretto… ne contiene tre di Shalom Salam, una canzone dance con testo pacifista realizzata secondo una vecchia ingenuità di certe posse di inizio anni ‘90, ovvero la convinzione che un testo impegnato su ritmi ballabili possa portare i frequentatori delle discoteche verso le buone cause. Il pezzo a tratti funziona anche, ma è un’idea talmente semplicistica che si fatica a credere sia uscita dalla testa del buon Freak – e forse non lo è. Il secondo disco, invece, è un’operazione che giustifica i malumori del gruppo verso l’etichetta: si tratta infatti di una nuova antologia con titolo e copertina identici a quella del 2002 (tanto per confondere), ma dove l’altra era stata realizzata chiedendo le licenze delle canzoni alle etichette originali, qui si fa tutto in casa. Gli album classici, infatti, sono già di Latlantide; per il resto, si copre l’arco cronologico indicato nel titolo usando le versioni live o alternative uscite su Rarities o su Skonnessi: infatti non c’è nulla né da Sogno… né da Dio… e al 2010 ci si arriva appunto con Allegretto…. L’unica cosa che salva la compilation è il prezzo davvero basso, visto che la musica contenuta merita: ma è un’operazione talmente sgraziata e opinabile che, a suo modo, rappresenta una conclusione appropriata di una carriera passata a litigare con i discografici. 87 P referisco morire ( scherzavo) Nel 2010, Freak annuncia la nascita della Freak Antoni Band: con lui e Alessandra Mostacci ritroviamo Granito Morsiani alla batteria, più un paio di giovani voci femminili, tra cui Sofia Buconi (anche lei provano a mandarla a Sanremo, poi tenterà X-Factor) – e qui le cose iniziano un po’ a intrecciarsi. Esce infatti un disco del neonato gruppo, Dinamismi plastici (Ansaldi Records, 2011), con l’idea di voler fare qualcosa di diverso dal demenziale ma che in realtà non si discosta troppo dai binari freakkiani, anzi li sintetizza e li riassume: Il governo ha ragione viene da L’incontenibile… (il testo, perché la musica è nuova), il rock allegrotto di Con un filo di gas poteva stare su Kinotto, Filastrocca della mamma mette in musica una lettera di Mozart (sboccata come Freak non è mai stato) in pura modalità-Ironikontemporaneo, come la majakovskiana Compagno Dio (che però mixa del metal), La merda è meglio dell’arte è la terza versione dello stesso pezzo con un altro titolo, poi ci sono anche Salam Shalom (buon arrangiamento ma continuano le perplessità) e Allegretto….Un menu piuttosto composito, sia come fonti che come musica: il pregio principale del disco è la mescolanza degli stili, anche all’interno della stessa canzone (vedi una notevole Sciare, dove però a Freak sfugge una rima “cuore/amore” in tono serio…), ma i due lenti, quelli scritti per mandare la Buconi in Riviera, non c’entrano niente neanche così. A questo punto Freak ha tre progetti le cui scalette si intrecciano in più punti (nei concerti di Ironikontemporaneo suona sia canzoni di questo disco, che degli Skiantos, e in quelli della FAB idem) e purtroppo si è già manifestata la malattia: nonostante tutto il Nostro si rimette in piedi e continua ad andare in giro per concerti, anche ospite di Baccini canta Tenco (e infatti Una brava ragazza, di cui Freak loda la modernità, finirà anche nelle sue scalette), continua ogni tanto a prestare la sua voce a qualche piccola band, riceve il Premio Tenco alla carriera nel 2010, interpreta insieme a sua figlia il film Freakbeat (nel quale interpreta un detective che indaga su presunti nastri hendrixiani), poi esce dal gruppo. Sì, così a sorpresa: dichiarerà di essersi stancato di tutte le difficoltà e dei pochi riconoscimenti riscossi dagli Skiantos, e inizialmente vorrebbe impedire agli altri di usare il nome della band (mentre Dandy inizialmente dichiara che il gruppo va avanti con lui alla voce e Andrea “Jimmy Bellafronte” Setti a scrivere i testi), ma i toni immediatamente successivi all’annuncio fanno pensare che, se pure le difficoltà non sono nuove, la decisione sia 88 stata presa e annunciata in tempi piuttosto rapidi. A questo punto c’è tempo per un EP – Però quasi (CNI, 2012) con una grande title track e qualche buona rielaborazione del passato insieme a nomi inattesi -, per il documentario BiograFreak, per un’ulteriore gruppo (la Freak Flag Band, con cui si esibirà l’ultima volta); poi, il 12 febbraio 2014, la notizia che il tumore all’intestino ha vinto. Finisce così una storia umana e artistica all’insegna dell’irriverenza, della ricerca dello slancio, del dialogo/conflitto coi propri tempi, sia musicali, sia nel senso più generale dello zeitgeist; quasi sempre caratterizzata dalle difficoltà, affrontate comunque sempre con l’arma dell’intelligenza arguta. Per questo, come epilogo, preferiamo ricordare non tanto il concerto dedicatogli nel giorno in cui avrebbe compiuto 60 anni, che è stato bello ma in occasione del quale è venuta fuori l’esistenza di ostilità serie tra Margherita Antoni e Alessandra Mostacci (almeno a sentire Dandy Bestia, che su Facebook rispondeva a chi chiedeva perché la pianista non fosse stata invitata); meglio piuttosto ricordare la sua ultima apparizione: mentre legge Pascoli nel documentario Pascoliana dedicato al poeta. Anzi, al collega. 89 Genere: pop, art Non è sempre facile distinguere il genio vero, una pulsante vena creativa e le sperimentazioni realmente genuine dall'inutilmente pretenzioso, dall'esercizio di stile fine a se stesso e dal "famolo strano un po' a caso che magari abboccano". È ancora meno facile quando ad imporsi su questa pericolosa linea di confine immaginaria è un gruppo al debutto discografico, per di più in un periodo storico in cui un certo tipo di pop dalle elevate velleità art è ormai stato sdoganato ed è diventato più digeribile anche per il grande pubblico. Loro si chiamano Adult Jazz, sono in quattro (Harry Burgess, Tom Howe, Tim Slater e Steven Wells) e provengono da Leeds. Li abbiamo segnati senza indugi in agenda fin dal primo singolo Springful pubblicato ad inizio anno, colpiti da un tutt'altro che timido incrocio tra le ritmiche spezzate dei Dirty Projectors e l'operato targato Alt-J. Se i Wild Beasts sono un po' i numi tutelari, gli Everything Everything i fratellastri, gli AltJ i discendenti più in vista, i Glass Animals quelli più orecchiabili e Cosmo Sheldrake ed i Febueder quelli ancora nell'ombra, gli Adult Jazz sono coloro che fino ad oggi hanno spinto più in là le complessità ritmiche avventurandosi spesso e volentieri in vortici di poliritmie, in intrecci di gesta vocali e in strutture free-form. Che sia il frutto di freddi calcoli per essere cool in quanto ostici o se sia veramente il risultato di un flusso incontrollabile di estro e fantasia, 90 non ci è dato saperlo, ma poco importa, perchè una volta fatto partire l'esordio lungo Gist Is è difficile non rimanere prima incuriositi e poi catturati da una sottile tela che avvolge lentamente, beat dopo beat, intuizione dopo intuizione. Il "jazz" sbandierato fin dal nome è presente, ma in modo diverso dalle sfumature smooth degli ultimi Antlers: l'aspetto jazzy di Gist Is è quello che non concede spazio alla prevedibilità e che porta tutto ad un intricato livello all'apparenza quasi randomico. Rispetto ai colleghi gli Adult Jazz inoltre arricchiscono la proposta con scale cromatiche prese in prestito dalla world music (afro, calypso…) più tradizionale rese possibili da soluzioni mantriche e da una grande varietà strumentale. Un lungo labirinto di misure composte e dissonanze melodiche interpretate da un Harry Burgess che compensa un timbro vocale meno carismatico rispetto a quello di Hayden Thorpe o di Joe Newman con slanci eclettici e continui saliscendi. Ma se fosse solamente un discorso di caos al limite del cacofonico, non saremmo di certo qui a promuovere queste nove – lunghe – tracce: gli Adult Jazz sanno anche come entrare in testa e lo fanno in modo subdolo: nell'ottima opener Hum con le frasi ripetute e con un improbabile effetto sulla voce preso in prestito dalle avanguardie elettroniche, con il ritmo acustico e con la cantilena del "ritornello" di Bonedigger o anche con la cadenza sbilenca pseudo-hip hop del beat di Springful. Quantità debordanti di micro dettagli stratificati si alternano ad introspezioni minimali r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Adult Jazz - Gist Is (Spare Thought,2014) e i momenti più solari si plasmano con passaggi che si fanno apprezzare maggiormente di notte, con la luce spenta; è proprio questo equilibrio, che si nasconde sotto a tonnellate di voli pindarici musicali, a rendere Gist Is uno di quei rari debutti in grado già di sorprendere per maturità. 7/10 Riccardo Zagaglia Genere: avant Non inventa nulla Alessandra Novaga, è lei stessa ad anticiparcelo sulle pagine di Musica Jazz "Non credo in un'innovazione…ognuno è libero di fare quel che vuole, basta che non racconti che sta innovando". Chitarrista originaria di Latina e residente a Milano da anni, Alessandra coniuga sperimentazione musicale e teatro. Pur provenendo da una formazione classica sullo strumento, viene letteralmente fulminata dall'incontro con i newyorkesi Bang On A Can, che le schiudono molteplici interazioni col cosmo elettrico e fungono da spartiacque per i suoi propositi. Nella sua biografia spunta anche, come momento cardine (tanto da farla convertire allo studio della chitarra elettrica preparata), Trash tv trance di Fausto Romitelli. Dunque è riduttivo un semplice richiamo a milieu quali John Zorn, anche se da lei stessa reinterpretato, o Mauricio Kagel per il teatro musicale. Piuttosto, come emerge dalla recente interpretazione di Foliage di Elliott Sharp o nel progetto Hurla Janus, Novaga ha un approccio sempre solare che si diffonde in una multiprogrammazione. Per certi versi può apparire scontato, ma nella sua etica è determinante il contagio coi sensi temperati. Nell'ultimo lavoro edito per Setola di maiale e intitolato La chambre des jeux sonores l'artista, grazie anche all'aiuto di più compositori Christian Panzano American Splendor - Crash (GoatMan,2014) Genere: drone, post-rock, ambient Nemmeno mezzora di musica, per questo mini d'esordio a nome American Splendor, la sigla dietro cui si cela Maria Teresa Soldani (chitarre, drones, voce) in combutta col 3quietmen Ramon Moro (tromba). Dimensione visivo-filmica e immaginativa a go-go partendo da nome (il riferimento al fumettista Harvey Pekar è evidente) e titolo (altrettanto evidenti i rimandi cronenberghiani), che stanno lì ad evidenziare come le musiche di questi sei brani siano cinematiche ed evocative, avvolte da quella bruma umorale che risalta anche nella splendida immagine "specchiata" che fa da artwork. Musiche dunque al crinale tra un post-rock composto e trasognato, spesso inquieto e suggestivo – la splendida e massimovolumiana opener See, impreziosita dalle trame della tromba di Ramon Moro e dalla voce recitata di Michele Sarda (New Adventure In Lo-Fi) 91 s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Alessandra Novaga - La chambre des jeux sonores (Setola Di Maiale,2014) (Zago, Mussida, Matthusen, Just e Gagliardi) indaga quotidianità – un roboare d'aereo (Untitled, January) – e fiction – il gracchiare di un carillon, il rintocco di campane (In memoria), il battere di una macchina da scrivere – in un riuscito schema dove le dinamiche si stendono su lunghi bordoni (Collaborating Objects) in climax e gradazioni negative, così da evitare boriosi minimalismi. La sperimentazione è sostenuta da piccole iterazioni plastiche in cui si cerca un sensibilità groove-tattile (International Hush Ring) e il carattere risiede nella capacità di attrarre al timbro. La voglia di eludere le strutture "giocando" con la Fender è solo un orlo di tessuto molto più luminoso di quello che si potrebbe intravedere in superficie. 7/10 Genere: shoegaze Sea When Absent, il capitolo numero quattro della saga A Sunny Day In Glasgow, è tanto impegnativo quanto spiazzante. Bello quanto complesso e schizoide. Il quartetto, che ha vissuto diversi cambi di formazione negli anni, approda a una forma canzone pop in cui confluiscono tantissime suggestioni tanto da disegnare una traettoria non facilmente inquadrabile. Due voci femminili (quelle di Jen Goma e Annie Fredrickson), chitarre ora distorte ora sognanti, sintetizzatori che predispongono un'altalena sonora fatta di chiaroscuri, l'immancabile Ben Daniels a dirigere l'astronave (perché è di questo che si parla). Dagli ultimi Slowdive ai Cocteau Twins, dagli Animal Collective ai Beach House, si tratta qui di definire una forma di art pop accessibile ai più: ci limiteremo a dire che il territorio di riferimento è quello del dream pop imparentato alla lontana con lo shoegaze e l'elettronica. L'impianto sonoro è decisamente rock, il wall of sound costruito con le distorsioni chitarristiche e la corposità del basso fa il paio con il massiccio utilizzo dei sintetizzatori; le voci non danno mai riferimenti, sono volutamente tenute sotto in alcuni casi, per poi emergere minacciosamente nella loro eterea bellezza. A Sunny Day In Glasgow sono maestri nel creare atmosfere di chiara derivazione tardi Eighties/ primi Nineties senza scendere però al facile compromesso della tradizione. Anzi, arricchendolo con una formula allo stesso tempo precisa e originale; sarà la scrittura, l'impasto tra le due diverse vocalità femminili, l'utilizzo diverso e innovativo delle tastiere che svecchia il sistema, fatto sta che un brano come In Love With Useless (The Timeless Geometry In The Tradition Of Passing), posto così all'inizio di Sea When Absent, fornisce la chiave di lettura esatta del discorso. Canzoni che al di là del proprio interessantissimo involucro sonoro presentano grossi hooks: è il caso ad esempio di MTLOV (Minor Keys) – probabilmente uno dei momenti migliori dell'album – o dell'accoppiata The Body, It Bends e Crushin'. Per l'appunto, due autentiche gemme pop, piazzate a 100 metri sopra le nostre teste, morbide nei suoni e dove una melodia cristallina tratteggia stati umorali dolceamari; oppure di un brano come Double Dutch, un perfetto e brevissimo esempio di moderno e tosto dream pop, catchy al punto giusto e guidato da un basso sporco e potentissimo. A chiusura dell'album, Golden Waves offre, come da titolo, onde sonore all'interno delle quali le voci dialogano tra loro senza emergere più di tanto, offrendo il fianco all'impalcatura rock dell'intera faccenda. I dischi importanti sono quelli inizialmente ostici, che richiedono diversi ascolti prima di essere visti nella loro disarmante bellezza e complessità: per spiegarlo in modo chiaro, Sea When Absent. 7.3/10 Stefano De Stefano 92 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e A Sunny Day in Glasgow - Sea When Absent (Lefse,2014) – altre volte romantico e struggente come un tramonto in solitaria (Mouth, con la voce di Enrico Viarengo sempre dei New Adventure…) o come una sorta di dissolvenza nostalgica e struggente (A Minor Tune, voce di Simone Stefanini dei Verily So). Come chiosa, i riverberi e loop della chitarra della Soldani affidati a Laminates sono il giusto arrivederci per una musica tanto intima quanto emotivamente feroce e stordente, in attesa di una prova sulla lunga distanza. 6.8/10 Stefano Pifferi Genere: pop, art, synthpop Un esordio di altissima levatura nel '78 con Masturbati, una rinascita in grande stile nel 2010 con Siamo nati vegetali e poi, per il cantautore siciliano Andrea Tich, una strana fase d'arresto con questo doppio album a titolo Una cometa di sangue. Il perché è probabilmente un affare personale. Analizzandone attentamente approccio musicale e lyrics si respira aria di una qualche conversione misticheggiante o per lo meno l'avvento di uno stato di grazia emozionale che rende il cielo più azzurro e i fiori più profumati. Roba del genere l'ha sperimentata in maniera certamente diversa un altro grande outsider italiano, quello Juri Camisasca che, licenziato un capolavoro come La finestra dentro (1974), qualche anno più tardi scelse di prendere i voti e sparire dal mondo della canzone popolare. Risorse artisticamente nei '90 con l'ingombrante spiritualità de Il carmelo di Echt e capitombolò malamente nel '99 con il naif artrock di Arcano enigma. Talvolta, una grazia ricevuta suona come una vera e propria disgrazia. La cometa del Nostro non lascia dietro se una scia sanguinolenta: si s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Andrea Tich - Una cometa di sangue (Snowdonia,2014) parla piuttosto di amore che guarisce (Biodiversi) con un linguaggio più facile che semplice, ricco di immagini abusate da tanti prima di Tich. Pur non mancano sprazzi di originalità bella e buona, quale la chitarra simil Durutti Column su Sono solo i tuoi occhi, azzoppata purtroppo da versi come "amore, il paradiso/è il tuo sorriso". Il sound è una new-new wave (cioè una wave letta all'ombra dell'anno in svolgimento) e dunque sostanzialmente digitale, precisina, fredda più che algida e perciò non destinata a ficcarsi come un pungolo nel cuore di chi ascolta. Manca in primis il manipolo di sessionmen fornito dalla Cramps nell'ottimo esordio ma pure canzoni davvero necessarie, nonostante i 24 tentativi di un album lungo e non sempre a fuoco. Le interpretazioni vocali gravitano troppe volte attorno a un cantato-recitato quasi identico da un brano all'altro, sicché spesso si ricorre all'espediente di conferire alla voce un discreto filtro sintetico, giusto per differenziare il ritornello dalla strofa (si ascolti a proposito la vecchia volpe di Morgan che in questo escamotage è abile maestro). Una cometa di sangue è lavoro che tanto promette a partire dal titolo e mantiene non molto, colmato com'è di ninnananne quasi adulte e divagazione sul tema della luce. Il ritratto di un uomo sereno che vuole comunicarlo al prossimo mediante il mezzo musicale. 6.2/10 Filippo Bordignon Artemoltobuffa - Las Vegas nel bosco (Lavorare stanca,2014) Genere: folk Si era nel pieno degli anni Zero sulla sponda del torrente indie ad aspettare qualcosa che settimana dopo settimana puntuale arrivava. Un rifiorire di sensibilità e versatilità, un ridefinire gli ambiti dell'espressione mentre 93 s e t t e m b r e 94 simi, cucendosi addosso una normalità appena sfasata che sa cogliere l'uggia esistenziale del quotidiano (Fino a lunedì, I terrapieni), priva di intellettualismi e solo in rari casi preda del didascalico (Tenere assieme). In questo quadro non sorprende troppo l'inclusione in scaletta de Il crepuscolo, rilettura in italiano di Grace Cathedral Park dei Red House Painters, forse i più laconici tra i cantori dello spaesamento generazionale post-80s. Anche in quel caso, la semplicità di modi e forme non implicava affatto banalità espressiva. Tutt'altro. 6.9/10 Stefano Solventi BANKS - Goddess (Harvest,2014) Genere: pop, art, rnb, elettronica "Oltre 30.000 like su Facebook ma al momento ancora nessuna pagina su Wikipedia": così presentavamo Banks all'interno della recensione dell'EP London. Oggi, circa un anno più tardi, i fan su Facebook sono più di 235.000 e finalmente è disponibile una dettagliata pagina Wikipedia: per Jillian Banks – Los Angeles, 1988 – gli ultimi dodici mesi sono stati un ricettacolo di soddisfazioni, sia per l'inclusione all'interno di decine di liste sugli ones to watch 2014 (la nostra, ma anche BBC Sound Of, iTunes, MTV, Spin ecc…), sia per i numerosi apprezzamenti ricevuti un po' ovunque. Come per altri colleghi baciati da dosi – forse eccessive – di hype pre-debutto lungo, la prova più difficile per Banks è però quella di riuscire a confermare tutto il clamore con un primo album intitolato Goddess. La scelta di marketing è stata quella di continuare a pubblicare singoli durante tutta la prima parte dell'anno – Brain, Goddess, Drowning, Beggin for Thread – con il risultato che, da un lato, la Nostra è riuscita a mantenere alta per mesi l'attenzione sulla sua produzione e parallelamente, dall'altro lato, abbiamo a che fare con un album d'esordio r e c e n s i o n i i tempi volgevano alla confusione cupa con venature apocalittiche. In questo quadro fece la sua comparsa Artemoltobuffa, progetto di neo cantautorato sensibile e inevitabilmente indie di Alberto Muffato, due album tra il 2004 e il 2007 (Stanotte Stamattina e L'Aria Misteriosa) che solleticarono attenzioni grazie ad un'agilità schiva, la forza della timidezza arguta che sa nuotare di traverso tenendo la testa fuori dalla mediocrità, combinando parole e melodia in una trama di suoni e "suonini" che decollano dalla cameretta con la sicumera aggraziata dell'introverso che ha ben decifrato il codice delle frequenze radio. A tutte queste belle cose però è seguito un silenzio che a dire il vero sembrava abbastanza consequenziale e definitivo. Tipo che si fosse sgonfiata quell'onda epocale lasciando a secco in parecchi, tra i quali il buon Muffato. Invece no. Dopo l'eternità di un settennato conduce in porto il fatidico terzo album, spalleggiato tra gli altri dal fido Massimiliano Bredariol (Valentina Dorme) e coadiuvato alla produzione da Fabio De Min (Non Voglio Che Clara). L'approccio è quello che ricordavamo, tra l'arguzia serafica e allusiva di Samuele Bersani e l'estro radiante e sornione di un Badly Drawn Boy, come mette subito in chiaro la opening Il bello delle onde tutta acidula luminosità. C'è inoltre quel senso di strisciante nostalgia per un l'altro ieri già sfuggito tra le dita, gioco di palpitazioni tenui che raccoglie le residue particelle Elliott Smith col retino di un Cristicchi (I testoni), oppure impasta con nonchalance Perturbazione e Grandaddy (Las Vegas nel bosco Pt. 1). La scaletta è un carosello agrodolce di inquietudini a media intensità che raggiunge pienezza di senso in virtù della coerenza delle parti. Intendo quel rimpallo di tastiere sfrangiate, tremolio di chitarre, trapassi acustici verso il sintetico con febbricole elettriche, uno stare tra le cose insomma senza clamore, senza virtuosi- r e c e n s i o n i raggiungibile. In questo senso un disco come Goddess finisce per suonare – per utilizzare un brutto termine – "normale", sospeso in un limbo dai contorni indefiniti tra fruibilità di massa e attitudini e gusti più ricercati. Ad ognuno il suo: chi reputa dischi come LP1 e Cut 4 Me troppo ostici e privi di hook immediati e chi trova Ultraviolence incredibilmente ripetitivo e noioso, troverà in Goddess il perfetto compromesso da ascoltare e riascoltare durante i prossimi mesi. Fossero tutti così i dischi pop… 6.8/10 Riccardo Zagaglia Basement Jaxx - Junto (Atlantic Records,2014) Genere: house, elettronica Tornano dopo cinque anni Felix Buxton e Simon Ratcliffe. Difficile per loro come per molti dei gruppi nati alla fine degli anni Novanta misurarsi ancora una volta con il verbo stantìo della house, un colosso monolitico che alterna viaggi su carrozzoni da stadio o buie caverne per pochi iniziati. Il duo di Brixton ha sempre risolto l'eterno dilemma pop vs. underground con un massimalismo onnicomprensivo che stava in piedi grazie a un edonismo e una voglia di fare festa appaganti molteplici palati. Il nuovo disco mantiene la linea dei precedenti, però dopo qualche minuto si percepisce una patina di già sentito imbarazzante. In Junto i nostri provano a bazzicare cioè su tutti i generi più o meno mainstream per il pubblico del dancefloor, modificandoli con nuances piacione. In particolar modo chi si è stancato dell'EDM e cerca la deep (vedi i suoni della Kompakt degli ultimi tempi o il verbo dei GusGus post-2010) qui troverà pane per i propri denti. In generale, c'è meno allegria e meno scazzo ibizenco, rispetto ai noughties: non impressioniamoci, quindi, se nel calderone troviamo sia s e t t e m b r e composto – nella sua versione standard – da quattordici tracce di cui ben otto già conosciute, lanciate a dovere e consumate da una non così piccola fetta di pubblico. Ritroviamo quindi alcuni dei brani simbolo della fin qui breve carriera della ventiseienne americana – su tutti Waiting Game, ancora oggi una gemma – e alcuni dei produttori con i quali ha avuto la fortuna di lavorare in passato, in particolare il lanciatissimo SOHN (qui presente anche con l'inedita Alibi) e Totally Enormous Extinct Dinosaurs, il quale figura nel ruolo di co-autore e produttore in Fuck Em Only We Know (oltre che nella già apprezzata Warm Water). Non un dettaglio da poco, in quanto – è inutile nasconderlo – fino ad oggi l'operato targato Banks si è distinto più per la qualità della produzione che per il risultato complessivo. Goddess non fa eccezione: in Brain mister Shlohmo plasma un beat decisamente solido, in Drowning Shux – già dietro alla hit planetaria Empire State of Mind di Jay-Z – compie un gran lavoro di rifinitura tra i sample, mentre nella ballatona piano-voce You Should Know Where I'm Coming From è chiara l'influenza della produzione di Justin Parker, un vero maestro – quanto, forse, limitato – in questo tipo di soluzioni (Lana Del Rey, Laura di Bat For Lashes e Straight for the Knife nell'ultimo di Sia). Sia chiaro, Banks è dotata anche di un'ottima voce, ipnotica e capace di muoversi trasversalmente (si ascoltino Stick e Under The Table per avere i due opposti) tra le sfumature e le ritmiche della pop music; la sua sfortuna è stata forse quella di uscire in un periodo in cui tutti gli occhi sono puntati su FKA Twigs, personaggio che estremizza molte delle caratteristiche vincenti della californiana (produzione, beat dalle tonalità spesso oscure, tecnica vocale, dialogo tra elettronica, art pop e profumi r'n'b) portandole a un livello difficilmente 95 Genere: impro, freejazz Injuries, ultima fatica degli Angles, prova a sciogliere il ghiaccio con una cremagliera bianca di vibrafono. E difatti European Boogie appartiene a Mattias Stahl, anche se la pattuglia fiati composta da Magnus Broo, Mats Aleklint, Goran Kajfes e Eirick Hegdal, con Martin Kuchen in testa a disegnare una declamatoria fusiforme, risulta solitamente decisiva ai fini critici. Sul passamano di Kuchen è stampigliato Trespass trio, Trondheim Jazz Orchestra e la sequenza folle degli "angoli" (6,8,9). Il volto collettivo/politico è palese: in Eti si coglie la melodia del piano di Alexander Zethson che corre pensile sopra l'udito arrendevole, decimando ogni pelo di faglia, ogni dubbio di vuoti a perdere tribali, per poi imboscarsi nel fortunale di fiati finale. Zethson si diverte a tracciare il tema base di Compartmentalization, atto che chiude il lotto, con una sestina di piano ad accenti irregolari, badminton per un free dinoccolato. Inoltre dona un fascino blues agli screziati di Ubabba, brano che incanta. Invece la title track lo coglie in un'embrionale sottrazione fra i tasti che sembrano petriere lanciate dopo la rivoluzione messicana, fra mariachi sotto mentite spoglie di sax, trombone e sopranino. A desert On Fire, A Forest/ I'Ve Been Lied To - dietro i suoi quasi 23 minuti di larga attesa – non fa che trasecolare, gemmare, ridestare tra robinie e dèjà vu certificati senza appallottolarsi mai; una suite maliarda a direzione collettiva sia nelle inflessioni di caduta, come nella ricca serie di scene solipsistiche. La ritmica storta quando il tempo è sostenuto, cisposa quando il tempo tende a dilatarsi, è diretta da 2/3 dei Fire!, Johan Berthling e Andreas Werliin. Manca Mats Gustafsson, ma non si desti sospetto visti i ripetuti flirt fra i rispettivi band leader e la comune patria. In Our Midst è avvolgente e calda come lo fu due anni fa Today Is Better Than Tomorrow, ritracciabile nella formazione a 8 registrata al Ljubijana Jazz. Un'indocile melodia si staglia verso il quarto minuto e conduce per mano il gioco degli altri fiati, che come fratelli minori seguono l'argine fischiando il dramma, a volte mediterraneo a volte arabo o solamente ispanico, e le secche chiuse di battuta che come scene madri piangono una solitudine, un urlo. 7.6/10 Christian Panzano suoni samba (Rock This Road, ma ricordate il singolo Samba Magic della fine dei Novanta, con addirittura l'intervento di DJ Sneak?) che dubstep, voci '80 femminili mescolate a nerissimi bassi (What's The News) e funk (Summer Dem). Il tutto viene poi condito dalla solita pletora di stop-and-go e bassi squadrati, che conosciamo a menadito. 96 Ben prodotto, certo, ma il duo inglese gioca veramente troppo facile e si butta sul caleidoscopio di emozioni per attirare consensi, più che per studiare un prodotto che non passi di moda. Fra quanto ci saremo scordati di questo ennesimo lavoro? Una mezza delusione. Peccato. 5/10 Marco Braggion r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Angles 9 - Injuries (Clean Feed,2014) Genere: psych, indie, synthpop Si deve dar atto a Jon Philpot di non essere un artista prevedibile. A molti la sua voce può apparire spettrale, a tratti distaccata, persino svogliata, ma è perfettamente funzionale a una proposta che album dopo album ha saputo fondere krautrock, sonorità indie e new wave (nei primi due dischi) e un synth-pop aggiornato quanto basta (in I Love You, It's Cool del 2012); si è sempre evoluto e spiazza di nuovo, con Time Is Over One Day Old, una sintesi convincente degli elementi cardine di quella che è stata la musica dei Bear in Heaven in dieci anni d'attività ma che non rinuncia affatto a pochi, ma importanti, elementi di novità. Non male per una band che, pur coccolata da riviste specializzate e forte di un seguito live crescente, all'inizio era sempre rimasta all'ombra dei più conosciuti Animal Collective. Tutto sta nel capire se si vuole essere travolti dal tempo che passa, e quindi adagiarsi fino a divenire irrilevanti a causa dell'inevitabile cambio di gusti e di tendenze del pubblico, o se si vuole imparare a domarlo; i Bear in Heaven hanno scelto di percorrere, per fortuna, la seconda strada. Prima di tutto c'è un nuovo musicista nella line-up, il batterista Jason Nazary, che grazie alla propria preparazione classica e jazzistica abbinata a un'attenzione rivolta tanto al ritmo quanto alla qualità delle melodie, ha saputo mettere in riga i più indisciplinati colleghi Jon e Adam Wills in studio d'incisione; eppure, strano a dirsi, questo nuovo lavoro è molto meno ordinato e "studiato" del precedente, con materiale nato spesso dopo jam session che hanno liberato la creatività del trio. Una nuova consapevolezza, quella del less is more, ha convinto Philpot (produttore dell'intero disco) a usare meno strumenti e a concentrarsi su ogni singola traccia, a partire da synth gentili che però sanno guadagnarsi, quando necessario, il centro della scena. Una produzione più frugale ma anche più "a fuoco" fa funzionare il trittico iniziale – il suono caldo del sintetizzatore che accompagna la voce e la sezione ritmica in Autumn, quasi una versione più eterea dei New Order di Get Ready; il primo singolo Time Between dal ritornello semplice e scandito, l'incidere saltellante, vagamente alla Clash, di If I Were To Lie – e rende interessante, senza appesantirla, They Dream. Qui la voce eterea di Philpot è sullo sfondo, quasi a confondersi con i pad, fino a quando il ritmo rallenta e si dilata in una nube ambient à-la Tangerine Dream; il ritornello di The Sun and the Moon and the Stars è un sussurro su una base che fa coesistere malinconiche chitarre trattate e un'elettronica avvolgente, con rimandi ai primi Air. Non sono scomparse le pulsioni dance-pop di due anni fa, lo si nota in una Way Off che in secondo piano presenta un riff rubato con scaltrezza ai primi Talk Talk di Today; giusto Demons e Dissolve the Walls possono essere considerati pezzi da sgrezzare ulteriormente e riscrivere in parte, in particolare il secondo, che suona come una lunga introduzione al brano conclusivo I Don't Need The World. Piccoli incidenti di percorso che si possono tranquillamente perdonare a una band che, arrivata al quarto album, ha saputo non solo rimanere "rilevante" ma anche rimescolare intelligentemente le carte. 7/10 s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Bear In Heaven - Time Is Over One Day Old (Dead Oceans,2014) Alessandro Liccardo Beck - Beck Song Reader (Capitol,2014) Genere: cantautori, folk Comunque vada ci ricorderemo di questa iniziativa di Beck, che forse solo uno come Beck (in combutta con l'arguto scrittore Dave Eggers ed il suo progetto di cultura alternativa 97 s e t t e m b r e 98 profetica. Invece, ecco queste canzoni, di per sé mediamente valide con pochi momenti di eccellenza, per giunta non riscattate da interpretazioni piuttosto formali. Ai Fun ad esempio manca il languore obliquo di un Rufus Wainwright per decollare dal cono di luce broadwayano (Please Leave A Light On When You Go), così come a Bob Forrest non riesce di dosare la giusta inquietudine nella fin troppo accademica mistura The Band (Saint Dude). Nomi grossi come Norah Jones (Just Noise) e Jack White (I'm down) timbrano il cartellino nel più scontato dei modi e senza neanche bisogno di fare la doccia. Quanto al buon Tweedy (alle prese con The Wolf Is On The Hill), non è altro che questo: tipico Tweedy acustica più slide che non scalza nessuna ballata tweediana dalla memoria. Idem dicasi per l'onorevole Loudon Wainwright III, che spedisce Do We? We Do come una solenne cartolina illustrata country, banjo, chitarra, fiddle, armonica e tutto il resto. Son cose che pesano quando tiri le somme. E non ho messo in conto l'orrido pop latino di Juanes (Don't Act Like Your Heart Isn't Hard), degno di abbellire la soundtrack di una Violetta a caso. Non resta che consolarsi con alcuni momenti effettivamente azzeccati che per forza devono esserci: tipo una Eleanor Friedberger (Old Shanghai) che gioca a fare la vestale tra miraggi spacey e tremori vintage, il calore basico del blues nero imbastito da Swamp Dogg (America, Here's My Boy) e, ok, un Jason Isbell bravo a irrorare Now That Your Dollar Bills Have Sprouted Wings di acidità ed energia degna dei primi Black Keys. Rubricate come apprezzabili le prove orchestrali di Marc Ribot (cinematico in senso Nino Rota via Morricone) e Gabriel Kahane, resta da dire di un Jarvis Cocker che fa il Brian Ferry spolpato (Eyes That Say 'I Love You), di David Johansen (Rough On Rats) sempre più macchietta tra Waits ed il r e c e n s i o n i McSweeney's) poteva permettersi. In soldoni: prima pubblicare un libretto di composizioni su carta, quindi far uscire un disco di cover di canzoni mai incise. Non parliamo di una situazione inedita, anzi, però non accadeva da un bel pezzo e non avremmo mai detto che sarebbe successa di nuovo. Invece, vedi come le magnifiche sorti del progresso determinino corsi e ricorsi sorprendenti, estremi che avvolgendosi a spirale in una rincorsa frenetica finiscono per collassare l'uno nell'altro. Nella fattispecie, lo sfruttamento del pezzo registrato ha subito una svalutazione verticale che torna a farci riflettere sul valore dell'edizione, della sheet music. Perciò un paio d'anni fa Beck si concesse il lusso di mandare alle stampe un libro di spartiti contenente venti canzoni inedite che ognuno avrebbe potuto realizzare (arrangiare, suonare, cantare) da sé. In questo senso, l'operazione fece molto riflettere e discutere, ponendoci di fronte a questa specie di eclissi sonora come fosse il riflesso sullo specchio nero del futuro imminente. Un'ipotesi. O una minaccia. Dipende. In ogni caso, la vicenda si chiude oggi con una festa, celebrata da un autentico carosello di amici e colleghi, con effetto complessivo fin troppo patinato. Consentitemi: c'è qualcosa che stona. E non mi riferisco certo alle performance, tutte puntuali, esercizi di professionismo partecipe e a tratti intenso. Semmai è proprio l'atmosfera da parterre de rois, l'adesione entusiastica alla giostra per la maggior gloria dell'ex-loser promosso al rango di guru radical-chic di un'epoca musicalmente (e non solo) al crepuscolo. Semplicemente, questa cosa non andava fatta. Non così. Il senso era rimanere su carta, oppure uscirne "naturalmente", con versioni sbocciate spontanee nel corso del tempo, di cui magari a gioco lungo fare antologia, raccogliendo così i frutti di un processo innescato con intelligenza forse Reed più gigione, di una Laura Marling (Sorry) che si disimpegna ruvidella e sfrangiata. Quanto al padrone di casa Mr. Hansen, sfodera una Heaven's Ladder che è ibrido George Harrison con spolverata di pepe power pop, in linea con l'ultimo buon Morning Phase ma senza quel trasporto abbacinante e amniotico. Il punto è proprio questo: detto di come l'idea di partenza meritasse ben altro sviluppo, c'è questo disco che vale più o meno come un album tributo tra i tanti, privo di sensibilità portante, di una visione che determini tensione e forma, proprio quello che ha reso eccellente l'ultimo Beck oltre le sue attuali capacità di autore. Accettiamolo come monito: il concetto di album ha ancora un senso, che va oltre la carta. 5.5/10 Bleachers - Strange Desire (RCA,2014) Genere: pop Protagonisiti di uno dei casi discografici più imprevedibili e assurdi degli ultimi anni, i fun. durante la stagione 2012/2013 sono stati portabandiera di un compromesso sfacciatamente commerciale tra alcuni degli ingredienti meno digeribili dell'attuale panorama musicale: l'esuberanzia fake-indie, il teen rock di casa Fueled by Ramen, il Glee-pop più becero ed un pacchianissimo immaginario featuring tra Queen e Mika. Il risultato? Due hit planetarie (We Are Young e Some Nights), tre milioni di copie dell'album Some Nights, un paio di Grammy Awards e chi più ne ha più ne metta. Da una costola dei fun. – precisamente dal chitarrista Jack Antonoff – è nato il progetto Bleachers, una scelta che non solo particolare considerato che la main band ha già suonato materiale nuovo (Harsh Lights) ed ha annunciato che tornerà in studio tra pochissimo per registrare il successore di Some Nights, ma anche potenzialmente scomoda alla luce dei s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Stefano Solventi positivi riscontri commerciali che Jack Antonoff sta avendo negli ultimi mesi, ovvero da quando dal nulla a febbraio è stato rilasciato il singolo I Wanna Get Better. Ascoltando le tracce di Strange Desire, l'album di debutto a nome Bleachers, è facile intuire chi sia il principale responsabile dell'immediatezza melodica dei fun. Si prenda per l'appunto I Wanna Get Better, c'è tutto ciò che ha fatto la fortuna del suo gruppo: la tastiera a dirigere, il beat corposo e il ritornello corale. La formula è piuttosto standardizzata e priva di particolari rischi ma rispetto alla proposta del suo gruppo i toni, per quanto radio-friendly e spensierati, assumono connotazioni dal retrogusto nostalgico rafforzato, oltre che dall'apprezzabile timbro del nostro, dalla produzione di Vince Clarke (Depeche Mode, Erasure, Yazoo) in grado di trasformare buona parte del repertorio targato Bleachers in materiale che non sfigurerebbe in una qualsiasi compilation one shot '80. Strange Days non è solo composto da brani ad alta concentrazione di synth ma anche da pezzi guitar-driven, è il caso di Rollecoaster (heartland rock in versione party, come You're Are Still a Mystery del resto) di Wake Me e della vagamente talkingheadsiana Shadow. Passaggi minori i fugaci featuring di Grimes (Take Me Away) e Yoko Ono (I'm Ready To Move On), mentre poco inquadrabile Reckless Love: strofa ad altezza The National in formato top40 e ritornello inqualificabile. Personaggio inseritissimo nello showbiz – la sua attuale compagna è Lena Dunham – a cui però piace mantenere contatto con il circuito "indie" più in vista (probabile che nella collaborazione con Janelle Monae su We Are Young ci fosse il suo zampino), Jack Antonoff senza prendersi troppo sul serio confeziona undici (o quasi) "all killers no fillers" che rendono Strange Desire un lavoro furbo ma non stupido e 99 Genere: psych, art, lo-fi, noise, folk Lepers Productions continua a sfornare a cadenza regolare album in free download, mescolando le carte tra i nomi del roster come se fosse tutto un carosello situazionista con cui mettere a ferro e fuoco la banalità. Insomma, c'è fermento da quelle parti, è bene tenerlo presente. Così se capita un gioiello come questo omonimo debutto per i Centauri magari non ce lo perdiamo. Artefice del progetto (scusate il termine) è il versatile Superfreak, ben noto a chi frequenta queste pagine, spalleggiato da due compagni di scorribande come Massimo De Luca e Tab Ularasa (chapeau allo pseudonimo). Un trio insomma che in otto tracce per circa venticinque minuti di durata sbraita a livelli cosmici e con attitudine low-fi nevrastenia vaudeville strattonata psych. L'effetto che producono è strano: è come se trasformassero una bettola in un battello stellare e poi su quello decollassero per un viaggio ebbro tra scorie noise e malinconie inacidite, mescolando teatralità e trasporto, goliardia e mistero, visioni e abbandono. La opening Two Sun infila il fantasma di Barrett nel tritacarne Flaming Lips col condimento dEUS, poi Speak To Your Dead caracolla febbricitante come dei Black Heart Procession col vibrione Julie's Haircut. Dopodiché è un darci dentro di suite che spiana pianoforte, theremin, tromba in un vento di agra e spersa follia (Alfa Centauri A), come un cabaret sul lato scuro di una luna di cartapesta (Alfa Centauri B) che va a smorzarsi tra le braccia di un languido abbandono free (Proxima Centauri). È musica suonata con urgenza liberatoria e un pizzico di sana disperazione, aggrappata ad un pungolo amaro di provincia profonda che forse sogna di lasciarsi anni luce alle spalle, come dimostrano il barcamenarsi waitsiano in un'orgia caciarona e triste di Find Me! I Got Lost, la verve bucolica in levare di On The Road e infine il mormorio oppiaceo della conclusiva Always The Same. Disco bizzarro, sbrigliato, intenso, meravigliosamente breve: buon decollo (e ritorno). 7.4/10 Stefano Solventi generalmente degno di una considerazione maggiore non solo rispetto all'operato brandizzato fun ma propabilmente anche rispetto all'esercito di band power-pop in viste pseudoindie (Magic Man, Smallpools, Basic Vacation, Colourist, Bad Suns…) sul trampolino di lancio. 6/10 Riccardo Zagaglia 100 Blonde Redhead - Barragán (Kobalt,2014) Genere: pop, rock, indie, wave Sono passati quasi quattro anni dall'ultimo disco del trio italo-giapponese di stanza a New York. Allora Penny Sparkle sembrava un oggetto elegante ma parzialmente irrisolto, figlio tardivo della sterzata a metà con l'approdo in 4AD di Misery Is A Butterfly ormai dieci anni fa. Se quest'ultimo era stato uno spartiacque nella parabola della band, Barragán, album r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Centauri - Centauri (Lepers Produtcions,2014) Marco Boscolo r e c e n s i o n i BROODS - Evergreen (Capitol,2014) Genere: pop I Broods "dimostrano di essere già in grado di piazzare potenziali hit (Bridges, Coattails), pur faticando a distinguersi all'interno di un panorama art-pop elettronico sempre più saturo". Con queste parole a inizio anno sintetizzavamo l'omomino EP di debutto del duo neozelandese: con il supporto mediatico reso possibile dalla doppia firma in formato major – Capitol in USA e Polydor in UK – il progetto formato dai fratelli Georgia e Caleb Nott non ha tardato a trovare ottimi riscontri di pubblico durante i primi mesi del 2014 (Broods EP è arrivato fino alla 2° posizione in patria e in top 30 in Australia), grazie ad un singolo vincente come Bridges (incluso nella nostra compilation SA Presents: Tracks from EPs 2014 – first half ). Con questo curriculum il duo si presenta alla prova del nove – l'album d'esordio Evergreen – con tutti i pronostici favorevoli del caso, ulteriormente agevolati dall'aiuto di Joel Little (già al lavoro con Lorde) nel ruolo di produttore e co-autore in tutti i brani del disco, tra i quali figura – oltre a Bridges – anche Never Gonna Change, altro singolo ben arrangiato, dall'hook melodico convincente plasmato su sonorità che possono ricordare quelle proposte da BANKS. L'universo in cui il progetto si muove è quello iperbattutto del synth-pop a battuta lenta che predilige l'atmosfera (sempre più iperprodotta e plastificata) agli slanci ritmici. In questo senso funzionano comunque a dovere gli slow motion di Killing You e Medicine, dove troviamo anche la sorella minore Olivia ai cori. Nelle rare incursioni in zona uptempo, invece, vengono a bussare i fantasmi del pop svedese (il chorus della scomposta L.A.F.), ma il vero limite di un disco come Evergreen è che i due elementi di fondo non possono vantare lo stesso fascino di alcuni colleghi: il timbro della ventenne Georgia è ancora privo di grossa personalità (siamo s e t t e m b r e numero nove, è in perfetta continuità con 23 e Penny Sparkle (e di questo è dichiarato seguito). Si è così equiparato il numero di album più schiettamente post-no wave/noise dei 90s con quelli più arty-pop dell'ultimo decennio. Quindi è forse giunto il momento di smettere di leggere la produzione dei Blonde Redhead di oggi cercando continuità o discontinuità con la band degli esordi, perché sembra oramai del tutto evidente che, eccezion fatta per Misery Is A Butterfly, le due parentesi sono complementari: una chiusa nel 2004 e una ancora aperta. E stando alle loro parole (vedi intervista durante il tour del 2010), i dischi più recenti sono, più degli altri, i dischi di Kazu (che qui cura anche l'artwork). Rispetto al recente passato c'è un maggior interesse per il field recording e l'ambient, che emerge in tanti dettagli del disco. Ma c'è anche qualche influenza "krauta" (Mind To Be Had, cantata da Amedeo) e un tocco bucolico (la titletrack e il suo flauto che sa di Canterbury). Non ci si scosta molto da atmosfere arty (Defeatist Anthem (Harry and I)), pop astratto (No More Honey) e nenie infantili (Cat on Tin Roof ). Di nuovo c'è un interesse verso il beat (Dripping), seppure sempre declinato attraverso una personale interpretazione (Penultimo). Interesse, forse, figlio anche della collaborazione con il produttore Drew Brown (Beck, Radiohead, The Books). Nonostante il passare degli anni, i Blonde Redhead rimangono sempre riconoscibili, seppure le loro canzoni difficilmente lascino davvero il segno. Si ha come l'impressione di essere di fronte a un ottimo profumo: ogni volta che lo metti lo riconosci e lo apprezzi, ma dopo poche ore è già evaporato dalla pelle. 7.1/10 101 Riccardo Zagaglia Cabaret Voltaire - #7885 (Electropunk to Technopop 1978 – 1985) (Mute,2014) Genere: wave, industrial I Cabaret Voltaire sono il punto di partenza per qualunque discorso sulla contaminazione tra il rock, la musica industriale, la dance e l'elettronica che voglia partire da una prospettiva storica. Nel laboratorio del gruppo di Sheffield sono passate a livello embrionale molte dinamiche della musica pop contemporanea, a partire dall'industrial, che i CV hanno tenuto a battesimo con tattiche non meno d'avanguardia anche se non così shockanti o estreme come quelle dei Throbbing Gristle, per arrivare alla fusione tra dance elettronica e rumore rock che ha lastricato la via per act come Ministry o Nine Inch Nails. Già ampiamente antologizzata in diversi volumi in base a momenti spartiacque – quello che ci interessa in questo caso è il 1982, con la svolta verso sonorità più ritmiche e rotonde da 102 dancefloor –, la loro produzione si arricchisce di una nuova raccolta. Non migliore o peggiore, semplicemente diversa, visto il taglio dato da Richard H. Kirk in persona – non compilatore qualsiasi – che lascia appena un brano a testa dagli album del periodo e dà la precedenza ai singoli (in particolare a diversi sette pollici remixati del periodo '83-'85). Electropunk to technopop ha un'icastica capacità di sintesi già nel titolo, con cui, in una sola frase ad effetto, offre uno spaccato dell'evoluzione del sound del gruppo. Già dediti alle sperimentazioni elettroniche dal 1973, influenzate da tecniche d'avanguardia come il cut-up e il collage dadaista, i Cabaret Voltaire applicavano un assunto ancora più punk di quello dei tre accordi ispirandosi, da seguaci dei Roxy Music, alla teoria di Brian Eno secondo cui il futuro sarebbe appartenuto ai non musicisti. Non era più necessario neppure suonare uno strumento con una grammatica ridotta come avrebbero insegnato i Sex Pistols, ma la nuova musica sarebbe stata fatta con nastri e congegni elettronici. Quando arrivò il punk fu comunque uno stimolo a riprendere gli strumenti e non solo, considerando quanto il garage – cos'è Nag Nag Nag se non una nugget futurista – fosse una pietra d'angolo delle loro visioni insieme alla psichedelia e al kraut rock. The Set Up, Nag Nag Nag e On Every Street – che rappresentano gli esordi di Kirk, Mallinder e Chris Watson fino a Mix Up – vivono di groove ipnotici e di atmosfere claustrofobiche-surreali-indefinibili in tensione tra quanto è rimasto della forma rock e il suo superamento in derive sperimentali con un approccio psichedelico al rumore e all'elettronica. I brani del biennio '80-'81 – Silent Command, Kneel To The Boss e Second Too Late – si spingono verso una proto-house ambientale creando un proprio terreno di coltura tra la musique concrète, il post-punk e le r e c e n s i o n i s e t t e m b r e sull'ormai consueto mix tra etereo e sensuale) mentre i beat, per quanto puliti, non brillano di fantasia – ad esclusione forse di Sober e L.A.F. – svolgendo principalmente un ruolo – funzionale – di contorno. Neanche il songwriting lascia segni indelebili e spesso cade in soluzioni poco apprezzabili. Tre esempi su tutti, Everytime e il suo ritornello decisamente prevedibile (e per questo motivo poco longevo), Superstar (furbo incrocio tra Lorde e Lana del Rey) e Four Walls, inconcludente quanto ripetitiva. I Nostri Hanno aperto per Ellie Goulding e Sam Smith ma hanno ancora tanto da dimostrare, soprattutto su un formato, quello dell'album, che non perdona la mancanza di sostanza e di forti individualità. 5.9/10 Tommaso Iannini Camilla Sparksss - For You The Wild (Africantape,2014) Genere: pop, electro Dopo una serie di sette pollici sparsi come le briciole di Pollicino, Camilla Sparksss, l'a.k.a. dietro il quale si cela la svizzero-canadese Barbara Lenhoff (già parte degli art-rockers Peter Kernel), ci fa ripercorrere quelle brevi tracce disperse, qui compilate, per farci giungere al primo album sulla lunga distanza. Ed è subito una sorpresa. Come una M.I.A. mitteleuropea, una sorta di EMA in botta, altezza primo disco, ma cresciuta nel vecchio continente, una specie di Diva senza paillettes e terzomondismi vari ma zeppa di caligini post-punk/industrial dei decenni che furono, Camilla mischia un (bel) po' di elettronica, qualche ritmo (ehm) ballabile (casse dritte, ma di un fastidio…) che si direbbe figlio bastardo dell'electroclash, molti input disparati tra synth multidimensionali, noise bipolare, aperture da cold-wave, sporcizia lo-fi da cameretta 2.0 e astrattismi vari, in un calderone di sonorità eterogenee il cui minimo comune multiplo è una botta di disagio diremmo quasi da zona grigia. Anzi, è proprio quell'uso atipico e bastardo dell'elettronica a caratterizzare le musiche di questo spin-off che tanto spin-off non è: ipnotico e sporco, disturbante e malato, seppur inserito in un contesto tutto sommato intelligibile e formalmente "pop". Si prenda il concetto nel senso più ampio del termine, come nel caso della chiosa di White Cat: commissionata a Camilla nell'ambito di un progetto di sonorizzazione filmica live per il Centre Culturel Suisse di Parigi, è un fluire di archi ambientali solcato all'improvviso da ondate di white noise da cui riemergono le note trasognate che rappresentano il tributo alla famosa scena degli elicotteri di Apocalypse Now. Come a dire, l'immaginario popular più disturbante e fastidioso reso in forme dialetticamente ancor più estreme. 7/10 Stefano Pifferi s e t t e m b r e r e c e n s i o n i ritmiche dance, in cui la fisicità di Breath Deep (tratta da 2×45) rappresenta uno spartiacque per la produzione successiva, più orientata a un synth-pop aggressivo (Sensoria) e al technofunk che James Brown, Kino e Big Funk rappresentano in tutta la sua tagliente rotondità, se ci possiamo permettere l'ossimoro. Nel suo essere un riassunto di una vicenda molto più complessa, questa nuova antologia è un agile compendio per capire le dinamiche di un gruppo che ha lasciato moltissime spore nella scena musicale a cavallo tra diversi generi. Ma richiede necessariamente un approfondimento, soprattutto perché non abbiamo di fronte una band da greatest hits. E il confronto con dischi come Mix Up o Red Mecca è ineludibile. 7/10 Casa - Una fine continua (Dischi Obliqui,2014) Genere: avant, freejazz "Applausi, esternazioni di dissenso […] vi preghiamo di riservarli alla fine del quarto e ultimo movimento", negozia la voce dei Casa prima della suite strumentale Life in Ser.T, brano centrale di Una fine continua, primo album dal vivo della compagine, che vede un altro avvicendamento alla chitarra (Matteo Scalchi al posto di Marco Papa). Come volevasi dimostrare, anche dal vivo i Casa ripescano le "mille avanguardie" di cui si nutrono i dischi in studio. Composizioni con tempi obliqui più che dispari, nella ricerca eterna di concedere una possibilità di scrittura autoriale in italiano (quasi vietato parlare di cantautorato) a strutture non "pop". Quelle 103 Genere: house, elettronica Questa volta Falty Dl, ovvero Drew Cyrus Lustman, producer perennemente alla ricerca di un'identità, l'ha fatta grossa. Non che in passato non avesse mai cercato di cambiare le carte in tavola, anzi. Il newyorchese, a partire da una forte passione per la uk garage, si è sempre mosso ondivago, al di sopra dei generi e attraversando le mode. Molta della sua produzione è, di fatto, una falty dial, ovvero una chiamata sbagliata, un banchetto che ci ha lasciati sempre a pancia piena, e spesso anche troppo colmi, ingolfati dalla botta multisensoriale, dalle timbriche rotonde, dai giri per il mondo immersivi e, via via, sempre più afosi e cangianti, come le grafiche di Hardcourage. D'altro canto, questo è anche il bello di Lustman: un eccentrico newyorchese alle prese con l'elettronica britannica (a partire dal buon esordio Love Is A Liability del 2009), un fornaio di house, jazz, lounge e campionamenti r'n'b/soul/rave. In The Wild, anticipato da un trittico di brani tra cui uno che apriva alla jungle, Heart and Soul, e che pareva coerentemente convogliare il nuovo lavoro in una naturale declianazione poliritmica, parte da altri interessanti presupposti. Grazie a una iniziale commissione del regista Terrence Malick, che aveva chiesto al producer alcuni minuti di sound design fornendogli anche una corposa libreria di campionamenti, si sviluppa una ricca tavolozza sonica dagli appigli e dalle etichette per nulla scontati. L'aspetto interessante è che ritroviamo tutte le passioni di Lustman e, in particolare, il trittico di etnica, esotismo e jazz in emersione inedita. Le tappe del viaggio: in alcuni casi è la folktronica di Kim Hiorthøy a venire in mente con i suoi minimalismi e incastri pastorali (Untitled 12, Rolling), in altri sembra di ascoltare musica per la danza contemporanea (New Heaven) o soundtrack per film di – ehm – Terrence Malick (Nine con richiami Residents), in altri ancora è il tribalismo psych di Robert Rich e Steve Roach a darti appigli e sfumature interessanti (l'"orchestrata" Greater Antilles Part 1 ispirata, a suo dire, dal film Hunger di Steve McQueen). In The Wild è lo specchio deformato del solito scarruffato ed eccentrico Falty Dl, sound designer che inebria, droga, tenta di sedurti (con ironia, ascoltate il ritornello di Do Me o i trailer fatti con l'artista inglese Chris Shen) ed è in grado di riempirti la stanza di un mondo di fragranti frivolezze. Arrivare alla fine di un disco del genere è un po' come tornare da una vacanza senza guide e backpack. Un lavoro generoso e imprevedibile, espressione matura di un uomo in perenne ricerca e dotato di grande spontaneità nel dosare e amalgamare luoghi, ritmi e fascinazioni. 7.4/10 Edoardo Bridda 104 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e FaltyDL - In The Wild (Ninja Tune,2014) Gaspare Caliri Chris Robinson Brotherhood Phosphorescent Harvest (Silver Arrow,2014) r e c e n s i o n i uomo del nostro tempo. Come non lo sono Neil Young (omaggiato fin dal titolo dell'album) e Jerry Garcia: i due santini sul comodino. Ma con vent'anni in meno (e nel caso di Garcia, vent'anni dopo la dipartita). Eppure è la "California freak" (definizione sua) quello che Phosphorescent Harvest, terza fatica per la "Fratellanza", voleva mettere in scena. Un rock che più rock non si può: semplici linee melodiche che si vestono delle cavalcate lisergiche, degli arrangiamenti ora più bluesy, ora più country, del sapore di mille miglia percorse nel solleone per una vita da romantica rockstar. Quello proposto dal confondatore dei Black Crowes (messi in naftalina anche dopo la reunion di metà 2000), assieme ai fratelli Neal Casal (già collaboratore di Ryan Adams), Adam MacDougall, Mike Dutton e George Sluppick è un classic rock ammantato di LSD e di tutti gli stilemi romantici della vita rock'n'roll. Ci sono i muscoli delle chitarre e del basso grasso (Shore Power), c'è l'honky tonky da saloon (Meanwhile the Gods…), la ballatona (Wanderer's Lament), esperienze "cosmiche" (Humboldt Windchimes), il sound circa Sun-era (Beggar's Moon). Come dice l'adagio, "nulla di nuovo sotto il sole": una simpatica macchina del tempo che ci riporta alla Summer of Love e ai successivi 70s, con il loro rock da radio FM, i raduni di hippies, l'amore cosmico e una sana quantità di mitologia rock. In fondo quello che voleva Chris Robinson era solo un altro "viaggio". Fosforescente. Al quale pensiamo che molti, nostalgici o meno, vorranno unirsi anche fuori tempo massimo. 6.9/10 s e t t e m b r e mille e una notte della musica intellettuale sono, nel disco live della formazione vicentina, principalmente orientate in alcune direzioni: verso il primato della voce, con l'istrionico Bordignon che cerca di tirarsi dietro la band – ma funziona meglio quando si mette sullo stesso piano, come nel bel finale di Dal caso alla possibilità; e soprattutto con orizzonte free form (meglio dire: free jazz), con approccio meno gagliardo che intellettuale (leggi: più Settanta che Novanta), quindi sempre un po' distante da sé, viene da pensare. Guardarsi e descriversi è la fine continua dei Casa, che a volte hanno bisogno di un aiuto retorico, di costellarsi di statement (a proposito di Parti time – Una razza inferiore veniamo avvisati che "il brano nasce dalla constatazione che in un mondo in cui anche la più mediocre cover band sa andare a tempo, andare a tempo non è più auspicabile"). Mi ricordo di quella volta che vidi i Casa dal vivo e trovai molto divertente un esercizio di ribaltamento che il solito Bordignon propose al pubblico: alla fine della canzone, fateci gli applausi se il brano vi ha fatto schifo, insultateci se vi ha entusiasmato. Un momento patafisico semiserio, divertente, ma capace di illuminare le meccaniche automatiche del rapporto tra band e pubblico. Questi Casa come quei Casa sono più convincenti quando alleggeriscono la presunzione di serietà, con giochi di testa che sanno reggere come pochi altri. 6.5/10 Marco Boscolo Genere: rock, rocknroll, psych, blues Nostalgico. Reduce. Irriducibile. Rimasto. Romantico. Chiamatelo come volete, ma sempre lì si va a parare: Chris Robinson non è un 105 Genere: pop, art, rnb, elettronica Ne è passata di acqua sotto i ponti dai primi passi – non danzerecci – di Tahliah Barnett aka Twigs prima e FKA Twigs poi. Ricordiamo con passione gli esordi nella South London degli AlunaGeorge avvolti in una spessa coltre di mistero e un EP d'esordio (EP) per certi versi clamoroso con la conseguente inclusione all'interno della playlist Female-Pop 2012 Compilation e della lista Ones To Watch per l'anno 2013. Il resto è storia nota: videoclip di impatto distribuiti con la precisione di un orologio svizzero ed un secondo EP – EP2 – in grado di confermare tutto ciò che di buono avevamo potuto gustare in precedenza. Si è mossa con astuzia e con gli impeccabili movimenti di una ballerina, Tahliah, nel processo d'avvicinamento all'attesissimo album di debutto. Poteva inserirsi nell'onda lunga della stagione art/ future-pop 2k12 dominata da Grimes e Purity Ring e invece, giustamente, ha preferito aspettare il suo grande momento. Ora FKA Twigs ha potenzialmente in mano il mondo perché, dalla sua, continua ad avere un fortissimo appeal "hip" e contemporaneamente iniziano a farsi sempre più chiari i segnali di una possibile – ed in parte cercata – esplosione su larga scala. Ma, soprattutto, il movimento che ha rivoluzionato l'r'n'b negli ultimi anni fino ad oggi non ha ancora scovato il personaggio femminile definitivo e trasversale in grado di trovare istintivi apprezzamenti anche tra un pubblico più vicino alla cultura black. C'è Janelle Monáe, ma sembra guardare – con enorme talento – più al passato che al futuro. L'operato di FKA Twigs è merce che conosciamo già piuttosto bene ma ai piani alti è materiale ancora tutto da scoprire. Per questo motivo un singolo – e video annesso – come Two Weeks raggiunge l'obiettivo: mantiene tutto il fascino sensuale dei brani precedenti ma lo traduce in un formato meno astratto e in un'estetica al limite del glitterato (ad un certo punto si sfiora Beautiful Nightmare di Beyoncé). Nell'album di debutto LP1 ritroviamo le imponenti scelte stilistiche che differenziano la Nostra da tutta la concorrenza: strutture scomposte, le decelerazioni sinuose già marchio di fabbrica (l'effetto di Pendulum è simile a quello di Hide, ugualmente fascinoso quello di Video Girl), i vocalizzi (l'iniziale Preface praticamente riprende l'intro di Water Me) e tutto l'immaginario sospeso tra contesto urbano e velleità futuriste. Per questo motivo la scelta di escludere dalla tracklist brani contenuti nei primi due EP è coraggiosa ma in parte perdente: lungo i dieci passaggi il songwriting non sempre sembra del tutto ispirato e in alcune occasioni si ha l'impressione di trovarsi di fronte a tracce nate da un rimpasto di idee già espresse. Riproporre una Ache o una Water Me, in questo senso, poteva aumentare una densità di pezzi da novanta a dire la verità non elevatissima. I rimandi ai territori r'n'b più canonici ma pur sempre eleganti (viene in mente l'ultima Aaliyah) continuano ad aumentare ma indubbiamente il fascino di FKA Twigs è soprattutto legato alla commistione tra i suoi sussurri e un reparto elettronico assolutamente contemporaneo (si pensi alla produzione di Arca sul secondo EP), protagonista quanto quello dei lavori targati Kelela o Roses Gabor. Non mancano gli hook melodici – in Lights On azzardiamo un remember di Carmen Queasy di Skin e Maxim ad un certo punto – ma a vincere sono ancora gli episodi che suona- 106 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e FKA Twigs - LP1 (Young Turks,2014) no come ottimi pretesti per far scattare – anche sul palco – quel binomio audio-visivo tanto caro a miss Barnett. Numbers, ad esempio, sembra creata appositamente per evidenziare le movenze della Nostra. LP1 esplora in lungo e in largo le insenature del sound di FKA Twigs, dall'art-r'n'b più sofisticato (Give Up) alle vette celestiali (Closer è materiale etereo che veleggia su basi liquide) passando per il fascino esotico sprigionato dai gemiti da brividi lungo la schiena incasellati su beat glitchati che vanno per i fatti loro, rendendo ancora più avvincente l'ascolto (Hours, con l'aiuto di Dev Hynes). Tutti elementi che puntano ad una perfezione stilistica e che modellano un universo apparentemente ancora inesplorato, nonostante le punte di harmonizer ad altezza Imogen Heap di Pendulum e alcuni contatti con il migliore trip-hop di due decenni fa (Video Girl e un attitudine sul palco che a volte ricorda Tricky). Poteva giocarsi qualche carta più spiazzante? Certamente. LP1 è comunque un importante esordio su formato lungo che non delude le attese grazie ad una proposta ancora affascinante e, almeno per qualche anno, in anticipo sui tempi del carrozzone mainstream. (Anche) per non cadere all'interno dello stereotipo del "erano meglio gli EP", lo promuoviamo a pieni voti. 7.4/10 Clap! Clap! - Tayi Bebba (Black Acre,2014) Genere: juke_footwork Dopo il promettente EP Tambacounda, pubblicato su Black Acre a febbraio, Clap! Clap!, ovvero il nuovo progetto di Digi G'Alessio, torna con Tayi Bebba, un vero e proprio album, anzi, concept album, andando così ad ampliare la palette di soluzioni future di un già corposo e tecnicamente sempre più cesellato impasto di footwork, dubstep, UK funky e wonky. Con la licenza di raccontare vita e vicende in un'isola immaginaria, Tayi Bebba è una sorta di summa, per esplosioni di ritmi e profluvi d'etnicità futurista, di ciò che a Cristiano Crisci viene meglio in studio. Rispetto ai suoi muscolosi set – vedi Dancity 2014 – qui troviamo una tracklist super meticciata, tra l'urbano e il rurale, l'africano, il mediterraneo e (perché no?) il punjab, sospesa tra debiti alla fabbrica di ritmi UK e un poco di US, un bass sound pervasivo, terrigno, ricco di voci e quei campionamenti (Sahkii (Xirhuu)) che formano la cifra matura di questo coinvolgente producer. Lavoro super pensato, intarsiato, riflettuto, jazzato anche. A perderci è l'istinto, ma non il fascino, per un disco da esplorare, mappare e scoprire ascolto dopo ascolto. Del resto, per chi lo volesse più pop, c'è il Night Safari di Populous, in arrivo a fine settembre. 7/10 s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Riccardo Zagaglia Edoardo Bridda clipping. - CLPPNG (Sub Pop,2014) Genere: hiphop Premi play e parte una Intro fatta praticamente di niente, solo una distorsione che viene leggermente modulata e su cui Daveed Diggs sputa fuori un flow fantastico che, per contrasto, costituisce la parte più musicale del brano. Questo minuto e rotti spiega molto (ma non tutto) del secondo disco dei clipping., trio che 107 Genere: industrial, post Davvero instancabili, i German Army, duo nascosto tra le montagne di San Bernardino (a due passi da Los Angeles) che negli ultimi tre anni ha dato vita a una produzione forsennata di CD, cassette e vinili, una ventina secondo Discogs, con risultati constanti e di ottimo livello. Non fa eccezione questo Jivaro Witnesses, lavoro retro futurista (profumi di VHS, abrasioni analogiche, hauntologie synth-robotiche) equamente diviso tra allucinazioni tribali e fantascienza sociopatica, con il fine ultimo di raggiungere la totale alienazione dal reale. La Burka for Everybody, che patrocina il motto the future is analog, sarà andata in brodo di giuggiole. Un po' come in tutte le produzioni German Army, al di là delle radici industrial e dei primitivismi post dub che sono già marchio di fabbrica, l'estetica è quella del collage e degli esperimenti targati Cabaret Voltaire, Novy Svet, Negativland, anche se qui troviamo un'armonia nuova, un filo dark capace di assemblare questi dodici frammenti con un'apatia non lontana dai fantasmi Suicide (Chilili), passando con fluidità dall'estatica Sunken Words alle tetraggini di Six Leg Counterpart, dallo space ambient di Flogged Ritual ai rituali di Communal Peace. C'è chi potrebbe considerare Jivaro Witnesses un disco dallo sguardo pop, come un Red Mecca per i Cabaret Voltaire o come i Dark Day – altro gruppo vicino al duo – rispetto ai Dna, e chi una poltiglia di suoni sospesa in qualche angolo remoto dell'universo. In fondo è una lezione di funambolismo e doppio gioco più che benvenuta. 7.4/10 Stefano Gaz oltre all'MC già citato include i due produttori Jonathan Snipes e William Huston. Copertina minimale, etichetta Sub Pop, e dopo questo pezzo ci troviamo in un'atmosfera che pare voler toccare più aspetti dell'hip hop degli ultimi anni, e soprattutto l'eterna lotta tra radicalità e pop. Non si tratta di rap fatto per incantare il pubblico e intenzionalmente puntare ai grandi numeri, eppure si permette mutanti figli di gangsta e raga come Work Work che, depurati di alcuni suoni e dotati di giusto packaging, sarebbero hit perfette. Ci sono gli esperimenti perfettamente riusciti, come la chiacchieratissima Get Up, in cui il suono della sveglia è 108 la base per un duetto tra cantato maschile e femminile toccante. E poi momenti in cui le basi diventano industrial e un attimo dopo ci si ritrova in una giungla di scratch e voci di bambini (Dominoes) o assalti che ricordano per impatto i tempi in cui rock e hip hop cominciavano a guardarsi negli occhi e a piacersi. Dove il disco però perde forza è in alcuni episodi forse non troppo a fuoco, quasi riempitivi, che cercano di mantenere alta l'attenzione usando gli stessi espedienti già sfruttati nei pezzi migliori. Pare in alcuni tratti di ascoltare EL-P ma con più senso della misura, minimale e depurato della componente sci-fi, eppure la stanchezza affiora. La componente soul ed r e c e n s i o n i s e t t e m b r e German Army - Jivaro Witnesses (Burka For Everybody,2014) emotiva di un Kendrick Lamar o di un Frank Ocean non c'è, e sembra che proprio questo manchi in alcuni momenti al disco per decollare definitivamente. Chi ha parlato di capolavoro in altre sedi, cartacee e digitali, ha giustificato questo giudizio con la capacità del trio di unire sperimentazione e numeri da pop a presa rapida. Vero, ma la sperimentazione non è così radicale, e gli hook irresistibili ci sono ma non nella totalità della tracklist. Ergo, nessun disco epocale, ma un buon album – in alcuni tratti buonissimo e con idee brillanti. E che va comunque apprezzato principalmente per questi ultimi, e per la tensione verso la ricerca che non dimentica il lato umano. 6.6/10 Cold Specks - Neuroplasticity (Mute,2014) Genere: soul, folk La canadese Cold Specks – al secolo Al Spx – torna sulla scena con Neuroplasticity, secondo album dopo un buon esordio, I Predict A Graceful Expulsion, che l'aveva fatta conoscere al pubblico come stella emergente tra le voci black e soul contemporanee. I paragoni che erano fioccati all'epoca in molti magazine di settore – in primis Adele -, oltre alla presunta nascita di un nuovo genere, il doom soul, non rendevano tuttavia giustizia al talento cantautorale dell'artista, limitandone l'ottima capacità vocale alla semplice interpretazione di un genere – il soul, per l'appunto – oggi largamente rivisitato e spesso ridotto a quella patina revivalista tanto cara alle classifiche e ai nostalgici del vintage. Certo, la componente pop non manca affatto nella musica di Cold Specks, ma è tutt'altro che un limite: se già il primo disco aveva fatto intravedere una certa consapevolezza dei pro- s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Andrea Macrì pri mezzi, nonché una sensibilità interpretativa già riconoscibile, Neuroplasticity ha invece il compito di raccontare la maturità consolidata della singer/songwriter, che non si accontenta di ridurre la propria voce ai soli stilemi soul e funk. C'è infatti un'interessante commistione di generi, che spazia dal pop anomalo di Bodies At Bay e Absisto al torbido incedere dell'opening A Broken Memory: atmosfere notturne, striscianti e soprattutto elettrificate, che la avvicinano più ad Anna Calvi che non alle già citata Adele, a voler forse esprimere anche l'intenzione della Nostra di non voler far parte di una precisa "cerchia" soul e gospel. La matrice black ricorre giocoforza nell'interpretazione e nella voce, entrambe a buonissimi livelli, ora declinate a pulsazioni ambient ed contaminazioni electro (A Quiet Chill, Let Loose The Dogs) ora alla classic ballad con risvolti jazzy (A Season Of Doubt). In tutti i brani domina un sapore noir e senza tempo che conferisce al risultato complessivo una spinta in più, rendendo Neuroplasticity una prova senz'altro riuscita, anche se con qualche margine di miglioramento. L'appunto che possiamo fare a Cold Specks è infatti quello di non aver ancora mostrato un vero e proprio focus emotivo, di non essersi lasciata andare a quella tensione sotterranea lasciata presagire dalla voce ma non ancora riversata appieno sulla scrittura delle canzoni. Dunque, abbiamo già un'ottima interprete, adesso attendiamo la vera cantautrice. 6.9/10 Giulia Antelli Dilaila - Tutorial (Niegazowana,2014) Genere: pop, rock Se un gruppo si chiama come il titolo di un classico del pop passionale degli anni '60 ma scritto come si pronuncia, non è strano trovare nei suoi dischi una poetica fatta di vintage 109 s e t t e m b r e 110 quest'ultima viene in mente nel beat di L'amore in fuga – o qualche chitarra in stile Gilmour…), o al limite cita direttamente (i battistiani "cieli immensi" ben in evidenza nel ritornello di Fiori urlanti, altro beat dal gusto "Malanima"). Questo approccio verbale spregiudicato evita che il gruppo ingrossi il filone dei "contemplatori del proprio ombelico" (e la conclusiva Il gran sole di Hiroshima , pur senza denuncia and impegno, lo conferma) e la compattezza non significa che manchi la varietà (vedi i cambi di tempo di una I mostri sotto al letto che, nonostante qualche classicità di troppo, azzarda una struttura che di solito nei pezzi scelti per i video si evita). La maturità c'era già nel precedente disco, qui si conferma con un passo in avanti: sarà finalmente ora di scoprirli davvero? 7.2/10 Giulio Pasquali Dorian Concept - Joined Ends (Ninja Tune,2014) Genere: funk, elettronica, hiphop, jazz La prima volta che avvistai Dorian Concept, ovvero l'austriaco Oliver Thomas Johnson, fu in un mix di Rustie e non a caso. Johnson, classe '84, è un primo della classe stile Jon Hopkins, con il quale, peraltro, condivide gli studi di pianoforte classico; è tastierista live per Flying Lotus, ha collaborato a vario titolo con la Cinematic Orchestra e Tom Chant, gode da diverso tempo dell'endorsement di Benji B, può vantare alcuni premi vinti in madrepatria a partire dalla metà degli anni Duemila e, soprattutto, è autore di un'elettronica per laptop e tastiere, massimalista, melodica e bella luccicante come tante produzioni dello stesso Russell Whyte e giro Brainfeeder. Nel 2010 Ninja Tune, che assieme a un'altra etichetta britannica come Warp tiene sott'occhio questo tipo di evoluzioni, lo assolda per il box r e c e n s i o n i e ironia. Ma non manca neanche la passione: la band guidata da Paola "Dilaila" Colombo, infatti, non somiglia a Tom Jones, ma nei suoi testi usa le armi del postmoderno (la suddetta ironia, le citazioni, la mescolanza di registri e livelli culturali diversi) per parlare di ansie, problemi e appunto passioni, sia quelle dell'oggi che quelle di sempre: un verso come "La nostra verità, scritta sul Fluimucil", ampiamente citato nelle recensioni, rende bene l'idea che in questo disco il gioco è serissimo (e l'ironia nemmeno c'è sempre). È una conferma di quanto mostrato nei 16 anni di carriera e tre album precedenti, rispetto ai quali questo nuovo Tutorial abbandona qualche lungaggine di Musica per robot (2005) e un po' della varietà del precedente Ellepi (2010), per compattare lo stile intorno a un vintage rock che a tratti può ricordare, anche per le sdrucciole cantate con l'accento sull'ultima, una versione (apparentemente) sbarazzina dei Baustelle, come in una Non ci prenderanno mai che, a conferma che il pop è sempre più un frullatore, mescola alla melodia bastreghiana un po' di doo-wop, il Fluimucil di cui prima e un ritornello che riecheggia sia il Marco Parente di Lamiarivoluzione che i 99 posse de L'anguilla. Rispetto ai toscani, però, l'approccio vintage è di diverso colore; le chitarre non vengono usate a muro (i fratelli Cicolin preferiscono infatti arpeggi come quelli Thalia Zedek di Se io fossi la notte); e poi manca quella vena vagamente lugubre che Bianconi si porta nella voce (e che riusciva un po' ad evitare soltanto ai tempi del Sussidiario). Soprattutto, questo e i tanti altri paragoni possibili non rendono l'idea di uno stile peculiare e padroneggiato con sicurezza, che più che somigliare, evoca (certi Smiths passatisti nel fraseggio che apre il disco nell'ariosa Storia di una scema che diventò farfalla, un'aria generale vagamente Pravo-Nada - r e c e n s i o n i da queste parti è sia l'eccessiva maniera, sia che il messaggio arrivi troppo sottovetro. Non mancano però le eccezioni: Trophies e 11/5/2012, ottimi esempi di trasporto e sintesi tra house, ricordo e "sinfonismo" psych. 7/10 Edoardo Bridda Dry The River - Alarms In the Heart (Cooperative Music,2014) Genere: pop, rock, folk A volte il motto "il secondo difficile album" è utilizzato a sproposito: purtroppo non è il caso dei Dry The River. La band inglese infatti ha raccolto meno di quanto era lecito aspettarsi dopo l'hype pre-debutto lungo (inclusione nella lista BBC Sound 2012 per dirne una) e lo ha fatto con un disco, Shallow Bed, che per quanto ampolloso e fin troppo melodrammatico conteneva almeno tre o quattro canzoni con la "C" maiuscola. Top 30 e 5.900 copie in UK nella prima settimana sono sicuramente risultati che buona parte delle band inglesi può solo sognare, ma all'album di Peter Liddle e compagni è mancato il fattore fondamentale: quella longevità che – per fare un esempio vicino per hype, pre-album e per coordinate temporali – ha regalato ad An Awesome Wave degli Alt-J parecchie soddisfazioni, dopo un debutto in classifica da appena 6.700 copie. E dire che ai Dry The River non mancava quasi nulla, in primis una forte componente folk (in quel periodo dominante nella sua versione più radiofonica) convogliata in modo convincente anche in dimensione live ,dove i Nostri si sono dimostrati fin da subito abili operai capaci di alternare momenti corali a sfuriate rock. Gioco che non vince… si cambia. Ecco quindi che per il secondo album, intitolato Alarms In The Heart, i Dry The River si presentano in una veste rinnovata, senza l'importante appor- s e t t e m b r e set del ventennale, Ninja Tune XX, dove viene inserito Her Tears Taste Like Pears, brano che, a stretto giro, dà il nome anche a un EP di quattro brani in cui troviamo alcune specialità del musicista: un dinoccolato spacey jazz per tastiere circondate dal solito partèrre d'elettronica, ambient come in 4/4, da acquario sonico in salsa prog. Beninteso, Dorian Concept, non fa assoli à la Van Halen o kitcherie 80s, afrofuturismi ecc., preferisce, anzi, un ben più navigato stile lounge per soundtrack dal retrogusto un po' retrò, e più indietro nelle sue produzioni troviamo eccentriche rivisitazioni house e rave (Trilingual Dance Sexperience). Joined Ends, disco che arriva a ben tre anni di distanza dall'esordio su Ninja Tune – intervallati da una soundtrack commissionta da Chant – è una bestia completamente diversa. Parallelamente a un altro lavoro/svolta stilistica sulla label che è In The Wild di Falty Dl, Johnson sceglie la metafora del viaggio "in un paese delle meraviglie sintetico", dice lui, per comporre un album che a grandi linee rappresenta un ritorno alla folktronica più eclettica dei noughties aggiornata agli smalti pop scoloriti e alle voci suonate alle tastiere dei 10s. Nel disco non manca neanche qualche momento minimalista – nel senso di ripetizione e variazione di vibrafoni e vetri e altre soluzioni world dalle parti dell'ultimo Phillip Glass – che abbiamo sentito anche nella traccia omonima del nuovo disco di Rustie. In generale, il disco è un lavoro ben intarsiato, dove la narrativa soundtrack, oltre ai sapori vintage, si serve di gentilezze ma anche robustezze psych à la Caribou (Clap Track 4) per innescare profumata malinconia e avvicendamenti di poliritmiche e bassi. Sul lato jazz e su quello soundtrack, viene chiamato in causa un'altro lavoro Ninja Tune, ovvero Ghosts Of Then and Now di Illum Sphere e, come avrete capito dal giro di rimandi, il rischio che si corre 111 s e t t e m b r e 112 chorus troppo telefonato per poter resistere alla lunga. Va apprezzato il tentativo di evoluzione e continuano ad ammaliare alcune trovate melodiche, ma a conti fatti Alarms In The Heart non è altro che una collezione di tracce incapaci di lasciare il segno. 6.1/10 Riccardo Zagaglia Fedora Saura - La via della salute (Pulver Und Asche,2014) Genere: post-punk, avant Con La via della salute gli svizzeri Fedora Saura arrivano al secondo disco – il primo è Muscoli in musica/Scelta degli uguali del 2011 – incagliandosi in un post punk spigoloso e mitteleuropeo in bilico tra "anti-capitalismo e anti-cristianesimo". In realtà il messaggio è meno immediato di quel che potrebbe sembrare: lontani gli slogan taglienti e intellettuali di un Ferretti giovanile abbozzato in certi passaggi dell'album (Soma Pneumatico), rimane solo l'intellettuale solipsista Marko Miladinovic, impegnato a declamare un teatro di parole riflesse su se stesse (o riflessioni che dir si voglia…). C'è una sorta di concezione free sia nel sillabare i testi fiume, sia in una musica che parla dei PIL – Peso/Mondo (della civiltà civetta) – con vaghi accenti deraglianti sfibrati da uno schematismo nelle geometrie, essenziale, ripetitivo, quasi mantrico (chitarra, basso, percussioni e qualche piano, la strumentazione di base, con Zeno Maspoli, Giovanni Cantani, Marco Guglielmetti e Claudio Büchler a completare la formazione e il duo Giubbonsky / Sandra Ranisavljević – sax e voce – ad ampliarla). Gli obiettivi sono ambiziosi e sfociano in una musica a metà strada tra "popolo" e avanguardia, che perde in termini di potenza di messaggio quello che guadagna in intelligenza musica- r e c e n s i o n i to del violinista Will Harvey ma con una serie di produttori di spicco: Charlie Hugall (Florence and The Machine, Ed Sheeran), Peter Miles e Paul Savage, batterista dei Delgados, producer per svariate band scozzesi (Franz Ferdinand, Mogwai, Arab Strap) e dolce metà di Emma Pollock (voce dei Delgados, qui presente nel brano Roman Candle). Nonostante il contributo in termini di arrangiamenti di un manipolatore etereo come Valgeir Sigurðsson (Ben Frost, Sigur Rós, Björk, Tim Hecker), Alarms In The Heart è un disco diretto che regala poche emozioni in termini prettamente musicali, a causa di un impianto chitarra/basso/batteria piuttosto ordinario, privo di grosse intuizioni – e delle dosi folkish del primo disco – su cui Peter Liddle impone il suo timbro riconoscibile e armonioso (a volte quasi stucchevole). Più "elettrico" e chitarristico di Shallow Bed, Alarms In The Heart in realtà rifiuta comunque gli eccessi sonici, preferendo limitarsi all'ordinarietà di un generico pop-rock dagli angoli smussati. Fortunatamente i quattro sembrano prendersi meno sul serio rispetto ai primi tempi e anche dai videoclip traspare una vena quasi (auto)ironica che ti aspetteresti semmai da un gruppo power-pop, non dagli autori di un anthem malinconico come No Rest. Il gioco riesce per metà: se Gethsemane – i riferimenti biblici continuano ad essere un leitmotiv – funziona e non si discosta troppo dalle sonorità e dalle armonie con cui i Nostri si sono fatti conoscere e Everlasting Light – più patinata ma orecchiabile – non fa rimpiangere più di tanto l'operato precedente, altrove ci si trova invece in acque stagnanti composte da brani piatti e senza caratteristiche peculiari. Lo confermano Hidden Hand e la titletrack – dove troviamo qualche residuo folk-rock nello strumming – mentre Med School, pur vantando un bel cambio di ritmo, presenta un le. Filosofia e riferimenti letterari si mescolano a una critica del reale che pare più deduttiva, che induttiva, ovvero non abbastanza "a pelle" per attivare un feedback empatico immediato in chi ascolta, ma sufficientemente ricercata da meritarsi un livello di attenzione molto alto. Le cose migliori si ascoltano nel reggae ossessivo de La Natura (l'uomo per primo), in Soma Pneumatico, nella no-wave del singolo Tenete buoni quei cani (col folle video allegato al brano) e nei 17 minuti della visionaria Ex Europa Samba I II III (Est Eruoba Sampa Xigareta). Manca forse ancora un po' di senso pratico e di concisione alla band, ma le premesse sono ottime. 6.9/10 Fhloston Paradigm - The Phoenix (Hyperdub Records,2014) Genere: techno, dance, soul, elettronica Eclettico, e capace di sondare i più diversi terreni elettronici, King Britt torna su Hyperdub. Prima di questa messa a fuoco, la saga Fhloston Paradigm era stata delineata da un paio di EP (Charlie Sleeps, 2009, RCRD LBL, e Fiction Science, 2011, Saturn Never Sleeps), un mix per Fact Magazine e Chasing Rainbows, altro extended play, esordio del produttore di Filadelfia sull'etichetta di Kode9. Con The Phoenix, King Britt lascia per la prima volta da parte il suo storico alias e si trasforma definitivamente in Fhloston Paradigm. House che mescola soul, ritmi spezzati, arpeggi sintetici, impressioni dal cuore di mondi contrapposti, se non altro in termini di spazio e luce, come cosmo e profondità marine. Colonna sonora alternativa del Quinto Elemento di Luc Besson, film di fantascienza del 1997, o probabilmente solo vago riferimento alle sensazioni di questo (nella pellicola, Fhloston Paradise è il resort futuristico oggetto della Elia Galli Francesca Sortino - Francy's Kicks (Abeat Records,2014) Genere: jazz Se non conoscete Francesca Sortino non è del tutto colpa vostra. È che il jazz in Italia non lo sentiamo troppo, se non per qualche meteora che inevitabilmente si mescola con il pop (Gualazzi, Biondi, etc.). Dietro a questi nomi c'è invece un sottobosco di artisti, arrangiatori, musicisti e fan che vivono nell'anonimato (vedi ad esempio la discussione di qualche estate fa sulla nuova scuola jazz italiana). Quando esce una voce dal coro come quella della Sortino dovremmo essere contenti, sia per l'ottima qualità, sia per il monito che ricorda a noi giornalisti come non si viva di solo rock o di sola elettronica (o di soli talent show). Già presente in Join The Dance di Frisina da noi recensito qualche anno fa, Francesca torna sulla lunga distanza con un disco piacevole e ascoltabilissimo. Per costruire una raccolta del genere va sul sicuro e si affida agli arrangiamenti del trombonista Roberto Rossi (insegnante presso il conservatorio di Verona e collaboratore, fra gli altri, di Renato Zero, Jovanotti, George Michael, Paolo Conte, Lu- s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Fabrizio Zampighi visita di Bruce Willis), il disco segue il preciso disegno dei prequel. Un'anima elettronica, da pista, gentilmente sfregiata da schegge acide e distorsioni (i 9 minuti di The Phoenix), rilassata su vocalizzi eterei (la finale Light On Edge), presa in prestito da uno sciamano e lanciata verso un viaggio infinito tra le galassie (Tension Remains). Lavoro impegnativo, si sfiora l'ora di musica, ma le immagini sci-fi costruite da King Britt non risentono di eccessivi cali di tensione, nè devono usare troppa forza per inserirsi con dignità all'interno del discorso Hyperdub. 6.8/10 113 Genere: rock Ormai è chiaro che il vero J Mascis, l'artista dai lunghi capelli d'argento giunto alla soglia dei 50, è sempre più facile rintracciarlo negli album solisti piuttosto che nei lavori pubblicati con i Dinosaur Jr. Se con questi ultimi, infatti, è ancora prigioniero di un ruolo da noisemaker scientemente ritagliatosi nel corso degli anni, è quando rimugina in solitaria che può finalmente abbandonarsi a quella soave elegia che con l'avanzare dell'età gli è sempre più consona. Anche quando poteva dirsi (suo malgrado) giovane, Mascis si è sempre mostrato incline alla meditazione malinconica, all'uggia solipsista. Nel 2011, con l'acustico Several Shades Of Why era un po' come se si mostrasse al mondo con i vestiti da casa, immerso in una naturale classicità che ne metteva in risalto il tocco vellutato, le innate doti da songwriter e lo metteva al riparo da un mesto autocompiacimento. Tied To a Star non riprende solo il discorso di Several Shades, ma ne potenzia le intuizioni più felici, finendo per suonare come il suo album più maturo e personale. A questo punto ci sarebbe da citare la schiera di ospiti che impreziosisce l'album: Pall Jenkins, Mark Mulcahy, Ken Maiuri, fino al melodioso duetto con Chan Marshall (Cat Power) su Wide Awake. La verità, è che la personalità del Nostro ne esce talmente rafforzata e definita, da non concedere l'onore dei riflettori a nessuno fuorché a se stesso. Ha quella capacità di suonare familiare all'istante, grazie alla voce fragile e al tiro spigliato di una Every Morning, che se avesse appena qualche watt in più, la si potrebbe collocare agevolmente fra gli episodi più spensierati dei Dinosauri. Contestualmente c'è la voglia di spingersi verso territori nuovi ma contigui, per merito di un chitarrismo che fa sembrare semplici anche le costruzioni più ardite e ad un modo peculiare di descrivere il mistero del quotidiano. Una psichedelia a bassa intensità che arde delicatamente nel finale organistico di Me Again, nell'arcano folk zeppeliniano di Drifter e che colpisce basso proprio quando sembra accadere poco o nulla. Quando il ritmo rilassato di Trailing Off si increspa e la pennata si fa irregolare, ad esempio. Oppure quando, nella circolarità minimale di Better Plane, irrompe una chitarra appena elettrificata, languida e fluida. Si attorciglia intorno alle budella e ci lascia l'ingrato compito di dipanare tutta questa densa matassa di sentimenti. 7.4/10 Diego Ballani cio Dalla). In più Fabrizio Bosso (tromba in Inside Art), Franco Piana (flicorno in What's Around) e Pietro Tonolo (sax tenore in All An' All) aggiungono una componente di classe non indifferente. Il lavoro non è per fortuna l'ennesima raccolta di standard jazz. Le tracce sono tutte inedite (a parte Theme for Malcom di Donald Brown) e 114 non restano impigliate nel classico stile "songbook" su cui è facile inciampare. La proposta è varia, sempre nei difficili limiti dell'ascoltabilità anti-skip, ma sembra pur guardare mondi diversi dalla solita struttura A-B-A. Si incontrano infatti tracce come Next Time nelle quali si sconfina pure un po' sul free, si passa anche per lo spoken word che ricorda atmosfere proto- r e c e n s i o n i s e t t e m b r e J Mascis - Tied to a Star (Sub Pop,2014) rap con qualche puntino di elettronica (Inside Art, una delle più convincenti del disco), si va a finire sui fumi delle colonne sonore di Chet Baker (What's Around) per chiudere con l'electro-lounge del maestro Frisina. Una voce che meriterebbe molto di più. Malleabile a numerosi paesaggi, la Sortino con questo disco torna al suo grande amore: il jazz (che aveva abbandonato momentaneamente per il pop in The Music I Play del 2008). Alle volte la lunga meditazione porta all'illuminazione. Andate a recuperarvelo. 7.1/10 Marco Braggion Genere: pop, cantautori, folk Un cantautorato-folk di sponda, fatto di mezze luci e di domeniche mattine passate tra le lenzuola: Francesco Cerchiaro sta più o meno tra un Ivano Fossati meno istituzionale, il passo fluido e giocoso del miglior Finardi e un Frei ugualmente minimale e ironico. Tolte certe reminiscenze del De André periodo Bubola (Il ritorno di Rebecca), il resto è un programma musicale originale e solido nei testi quanto in musiche con ascendenze pop alte, in cui certi valzer solcati da trombe desertiche in stile primi La Crus (Ultimo valzer a Teheran) fanno il paio con pianoforti appena accarezzati che parlano d'amore (Le bugie della domenica (mattina)), ma in un modo tutt'altro che banale. Nella poetica di Cerchiaro c'è un po' di ciò che ha reso De Gregori quello che è, ovvero il saper costruire piccoli mondi poetici, credibili e autosufficienti, in cui chiunque possa identificarsi (Filastrocche per bambini) senza troppa fatica. Quello che è il tratto distintivo dell'artista, e cioè una voce raccolta, calda, da monolocale arredato, diventa però alla lunga l'unico elemento potenzialmente ripetitivo, in un disco Fabrizio Zampighi Fulvio Buccafusco - A Short Story (Fitzcarraldo Records,2013) Genere: jazz Un jazz dai suoni rotondi, caldi, fluidi, in cui il collettivo prende il sopravvento sulle singole parti, il suono corale determina lo scalpiccio degli assoli. A dar man forte al contrabbassista palermitano Fulvio Buccafusco titolare del disco e responsabile della scrittura dei brani, ci sono Stan Sulzmann (sassofonista inglese con alle spalle collaborazioni con Gil Evans, Mike Gibbs e moltissimi altri), il piano di Nikki Iles e la batteria di Ettore Fioravanti (sodale di Paolo Fresu in più di un'occasione), amicizie collezionate dal Nostro in una vita di peregrinazioni in Italia ma soprattutto in Nord Europa. Dall'interplay impeccabile racchiuso nelle otto tracce della scaletta emerge un mood in cui le tensioni si stemperano a favore di certe cadenze coltraniane (periodo Blue Train) ampie e lavorate (Keep Smiling), oppure di accenti riflessivi à la Dexter Gordon (Blue Butterfly), sempre col timone rivolto verso un'eleganza formale mai forzata, capace di sembrare immediata anche quando complica la grammatica. Disco di sostanza fatto di mezze luci ma non per questo banale, abituato ai cambi di ritmo e di armonia (Where Should I Go) ma non troppo talebano in questo senso. Un lavoro adatto anche ai palati poco abituati alle circonvoluzioni teoriche (e pratiche) del jazz più avanguardista. 6.9/10 s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Francesco Cerchiaro - A piedi nudi (Dischi Soviet Studio,2014) che funziona nonostante qualche passaggio melodico forse un tantino monocorde. Eppure c'è onestà e passione, oltre che la capacità di forgiare un songwriting che non vive solo di luce riflessa. 6.8/10 Fabrizio Zampighi 115 Genere: rock, garagerock Il calcio in bocca assestato da A Good Father, tre minuti e mezzo di devastazione noise-core d'altri tempi in crescendo parossistico, annulla lo iato pluriennale targato Lucertulas, riprendendo le fila di un discorso interrotto con The Brawl nel 2010 e contraddistinto da riflessioni in seno alla formazione veneta. L'ingresso di Luca Bottigliero (Mesmerico, One Dimensional Man) alla batteria in sostituzione di Massimo Cettolin e quello di Federico Dionisi alla seconda chitarra, specie in sede live, sono gli elementi principali su cui si basa la rifondazione strutturale della band e si vanno ad unire ad una riflessione più ampia sul suono che sposta ulteriormente i paletti già estremizzati dai lavori precedenti. Il tutto, verso lande aggressive e prive di qualsiasi concessione, come capita nel furibondo trittico iniziale, la citata A Good Father e le sorelle Sailor e Sickness, tutto un fiorire di spie al rosso, contorsioni chitarristiche, sezione ritmica modello pandemonio in una continua trance agonistica che non conosce soste né ostacoli. È la filiera AmRep, dopotutto, mischiata con quelle lande da bastardi senza gloria che fu la texana Trance Syndicate, a segnare la via ai Lucertulas da tempi immemori. Accanto però a questa tendenza fulminante e straight in your face, si accodano i restanti tre pezzi. Più lunghi, meno aggressivi, ma non per questo meno disturbanti, come insegna Beggars, che da proto-punk-noise si slancia e sfilaccia nei suoi sei minuti verso dimensioni "altre" alla maniera di ciò che fecero, o tentarono di fare, gruppi strambi e fuori fase come gli Hammerhead, per citarne uno: il pulviscolo del noise più materico tra reiterazioni e ciclicità. Il bello è che nelle conclusive 7 e Caronte, con annessa ghost track, ciò riesce appieno, dimostrando come i tre – anzi, i quattro – non tradiscano di un centimetro l'orizzonte di riferimento, ma sappiano continuamente ondeggiarvi all'interno, mai stanchi, mai domi. Edizione al solito strepitosa nella "Aluminium Serie" di MacinaDischi, con l'istituzione RobotRadio che cura la versione in CD. 7.2/10 Stefano Pifferi GB Husband And The Ungrateful Sons Full Of Love (Ill Sun,2014) Genere: blues, folk Immaginate un "merge" tra due band di estrazione hard psych, i garage Funny Dunny e gli stoner Tom Bosley. Il sestetto in questione cosa dovrebbe e potrebbe fare? Il trabocchetto è nell'aria, lo avrete capito, ma siete autorizzati a stupirvi ugualmente: ne esce infatti un folk 116 speziato di ombre e deserto, di caligini uggiose e torpori bluesy, di languore esotico e mestizia sorniona. I G.B. Husband And The Ungrateful Sons da Avellino esistono da un paio d'anni e finalmente approdano all'album d'esordio con questo Full Of Love che sembra fatto apposta per mollare gli ormeggi, staccare la connessione, appoggiare la testa e abbandonarsi una ballata via l'altra. r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Lucertulas - Anatomyak (Macina Dischi,2014) r e c e n s i o n i Stefano Solventi Giardini di Mirò - Rapsodia Satanica (Santeria,2014) Genere: post-rock C'è sempre stata molta celluloide nella calligrafia dei Giardini di Mirò. Non stupisce insomma che negli ultimi dieci anni abbiano alternato ai dischi "canonici" progetti legati al mondo del cinema: prima la OST di Sangue – La morte non esiste (2006) e poi (nel 2009) la sonorizzazione de Il fuoco, classico del muto firmato da Giovanni Pastrone quasi un secolo fa. Ci ricascano oggi con Rapsodia satanica, commento musicale alla pellicola di Nino Oxilia risalente al 1917, i cui viluppi faustiani erano stati a suo tempo già benedetti da una partitura ad hoc ad opera di Mascagni nientemeno. La sensazione è che, facendo perno su questa modalità compositiva, la band di Cavriago riesca a focalizzare al meglio la propria cifra espressiva, come se il vincolo di questa funzione gli consentisse di svincolarsi dalle schermaglie indie col suo corollario di "opinioni divise", così da approdare ad una dimensione nella quale il background post rock è una risorsa adeguata anzi necessaria. Sei tracce per sei movimenti (ovviamente) strumentali che stemperano apprensioni morriconiane, solennità Dirty Three, sabbia Calexico e tremori GY!BE, disimpegnandosi con accorta perizia tra pulsioni digitali e miraggi cameristici. Se VII si candida al titolo di episodio meglio congegnato (battito grave, trilli esotici e scansioni visionarie che spingono la carovana verso una dissolvenza stranamente mitteleuropea), alla incalzante XVII riesce di abbozzare appeal ai limiti del radiofonico col suo languore in sella ad un meccanismo wave. Detto questo, è però la solidità dell'insieme a convincere, la padronanza con cui stratificano elementi (pianoforte, archi, armonica, saz, campane, impalpabili ghirigori sintetici di sfondo…) e modulano influenze mantenendo alta la tensione, gli occhi incollati allo schermo come in un sortilegio consapevole. Naturalmente c'è un limite, ed è quello fisiologico di chi sceglie di muoversi in un ambito per cogliere le implicazioni del quale l'ascolto da solo non basta. Tuttavia, considerato il percorso dei GDM e la loro collocazione nel presente, mi sembra che si tratti di una scelta ampiamente condivisibile. Forse perfino inevitabile. 6.7/10 s e t t e m b r e Si rileva la presenza di caligini Clientele in Thin Ice, c'è aria di frontiera Calexico nella peraltro laneganiana Quietness, si rende omaggio a John Martyn nella title track e in Lonely Road, spiccia intimismo crepuscolare come certe trepidazioni Lambchop la conclusiva Weepin' (And Weepin'), e via discorrendo. Suonato con la chiara intenzione di tessere trame acustiche su cui il ricamo elettrico agisca con la forza della misura (spiccando ove necessario, come in quella Despedida che si permette un crescendo surf ) e fidando nella pastosa duttilità del vocalist Angelo Di Falco, Full Of Love è un buon disco. Certo, è uno di quelli che non spostano i parametri e che raramente trovi citato nei consuntivi di fine anno, cui peraltro non mancano i difetti (in un paio di occasioni – Magic Inside e Lonely Roads – inciampa nel didascalico e persino nell'autoindulgente), ma a parte questo ci senti solo onestà e passione. 6.7/10 Stefano Solventi Panzanellas - Comete (Lepers Produtcions,2014) Genere: freejazz, jazz-core, punkjazz Delle uscite targate Lepers spesso si sa poco o nulla. Un po' perchè la label agisce nel sottobosco, un po' perchè ai "lebbrosi" piace agire nel sottobosco. Insomma, scordatevi press sheet o 117 s e t t e m b r e 118 concetto di "comete" in maniera leggermente diversificata. C'è più un'idea di combo versatile o di collettività free in capo alle effusioni dei Lounge Lizards o degli stessi Squarcicatrici (Chepleri Celesti), con un maggiore ricovero di spiriti runici. Spazio più che infinito solletica però una filosofia che in Italia solo i Vonneumann sanno traslare. Entrambi gli animi li rendono bipolari e scomposti al giusto grado di gassosità. Se esistesse veramente un genere così, verrebbe da chiamarlo poltergeist, altro che jazzcore. Ebbene, in tutto questo marasma di deiezioni spirituali e fantascientifiche, sarebbe bello capire in futuro come si muoverà la navicella abitata dai nostri eroi e se e quando ci toccherà aspettarli ridiscendere in troposfera. 6.8/10 Christian Panzano Goat - Commune (Rocket Recordings,2014) Genere: rock, psych, art, crossover, afrobeat Inutile negare che l'arrivo improvviso di World Music sul panorama abbastanza piatto delle musiche underground d'oggi fu un piacevolissimo e sorprendente fulmine a ciel sereno. Vuoi le ben architettate leggende sulla provenienza del misterioso gruppo, vuoi l'alone di mistero e le speculazioni intorno ai membri, vuoi la voglia di terzomondismo weird che ultimamente sembra toccare lidi insospettabili – unite ad un sentire musicale coinvolgente e letteralmente posseduto, come nelle migliori tradizioni voodoo e/o afro-beat – hanno fatto di quell'esordio un vero e proprio caso discografico, così come dei concerti del collettivo svedese, quanto di più trascinante e simile agli happening free dei tempi che furono. Facile anche che la risacca da eccesso di stupore abbia fatto dubitare i più sul reale portato dei Goat, attesi al varco del secondo album – non fa testo il live Live Ballroom Ritual che r e c e n s i o n i curricula, qui si gioca d'ingegno, meglio mettersi subito l'anima in pace. Gli Putridissimi and Panzanellas si sono uniti a dispetto delle distanze che dovrebbero separarli (è dunque l'unico dato anagrafico che ci permette di ipotizzare un patto di non belligeranza sud-nord contro le barriere della terracquea inettitudine) per fomentare la lotta che spinge pochi umanoidi ionizzati nel mezzo interstellare. In questo quadro di inusitata bruttezza covano le prime testimonianze di una parabola jazz che fa il paio col core o col punk. È scoccata l'ora della tenzone intergalattica, le stelle stiano pure a guardare. Ecco, provate voi a capirci qualcosa, io mi sono arrestato a concepire solo un blando paragone fra questi nove brani e qualche film sci fi, prima di rendermi conto dell'enorme cretinaggine in atto. Eppure la Lepers e tutti i suoi figliocci intonano quel canto fin da sempre e a ragione tentano di svelare misteri musicali e non con un po' di fantasia in più rispetto alla media nazionale ponderata. Comete ha tratti molto interessanti che giocano spesso con intuizioni già avute da altri, forse più blasonati, eroi del genere. Diciamo pure che l'esperimento è condotto in maniera accattivante, con punte beffarde. Nella loro etica c'è poco di sibillino, di sordinato. Tutto è sbobinato con una certa logica. Si scova un jazz fraterno, tribale, un jazz modale che sa di calli e di poche note blu e lunghe. Una lunghezza che poi si dirama nel core o nel math con costanza (Far East) e disinvoltura (Li Puma Playing Briscola On Schwassmann-wachmann 3), e se è peregrino parlare di Ayler nelle elucubrazioni del sax dei Panzanellas, aggredito da Francesco Li Puma, allora giudicate voi, da diretti interessati. Ayler è sempre un metro di confronto, più che per la critica in sé, per gli autori stessi che spesso si trovano ad affrontare una didascalia personale già improntata decenni fa da uno che aveva già visto lungo. Gli Putridissimi invece approcciano con il r e c e n s i o n i Rote), eppure solo oggi lo troviamo a pubblicare con il suo vero nome nell'etichetta di famiglia, quell'Orindal che produce anche il lavoro del fratello Owen Ashworth a.k.a. Advance Base. La novità di S.T.L.A. è la svolta verso il linguaggio del folk, o meglio, di un drone-raga-folk dove piano, banjo, chitarre e field recordings si intrecciano in un monolite amorfo che per ammissione dello stesso Ashworth diventa specchio della sua anima ("take it or leave it: this is who i am"). Come succede nei migliori casi, dietro il coming out interiore – peraltro interamente strumentale – c'è musica bellissima. Delle cinque tracce presenti il fulcro è rappresentato dalla due lunghe suite centrali Suite for Broken Sex e To Be the Man I Want to Be, la prima dominata dai drones e da un malinconico piano-raga, la seconda invece che pare salire le strade polverose e traditional degli Appalachi, con un banjo desolato in sottobosco di field recordings che trova naturale appendice in una chiusura cupa come Desperate and Indebted, dove è ancora la sensibilità del fingerpricking a dominare Forte dei tanti anni di carriera sul groppone, Ashworth sa benissimo dove cercare ispirazione e sceglie il meglio: i Pelt pre Ayahuasca, Jack Rose e il sound Takoma, l'Ensemble Economique, tutti nomi tutelari di un S.T.L.A. che si rivela compendio di vita e di poetica, ma soprattutto disco di grande intensità. 74/10 Stefano Pifferi Stefano Gaz Gordon Ashworth - S.T.L.A. (Orindal,2014) Genere: folk E' da oltre un decennio che Gordon Ashworth, californiano di stanza nell'Oregon, gira l'underground americano nelle sue più svariate forme tra act drone/ambient/noise (Caen, Concern, Oscillating Innards) e black metal (Knelt s e t t e m b r e ne coglieva in maniera fedele l'energia on stage, in quanto appartenente alla grande famiglia del "batti il ferro finché è caldo" – quasi coi fucili spianati. E la congrega svedese risponde da par suo con questo Commune, nomen omen tanto quanto lo fu quel riferimento alla world music nell'esordio: non nel senso "new age" o ridicolmente frivolo del termine, quanto come una sincera rivendicazione di appartenenza. Meno massimaliste e ridondanti e più asciutte e centrate, le nove tracce di Commune trasudano al solito bombe di energia e freakettonismo a dismisura, ma non inondano né stordiscono col flusso da trance collettiva dell'esordio: nonostante la linea da sabba sia sempre ben evidente, qui si riesce a entrare dentro l'ascoltatore in maniera più raffinata, giungendo lo stesso molto in profondità. I grooves sono al solito acidi, l'impianto mai staticamente tribaloide e la psichedelia vibra a profusione, mischiando funk, afro-beat, sixties rock e quant'altro e trasformando tracce come Talk To God, The Light Within, Goatslaves in piccole bombe esplosive ma perfettamente calibrate. Se all'epoca di World Music si finiva esausti ed ebbri di quel sabba sonoro che molto aveva di fisico ed erotico, ora, levata la fanfara e ridotta (quasi) all'osso la polpa, se ne gode appieno e si ha voglia di premere repeat più volte. Di questi tempi, non è affatto poco. 7.5/10 Grumbling Fur - Preternaturals (The Quietus Phonographic Corporation,2014) Genere: psych, electro Nemmeno per due eminenze dell'avant rock anni 2000 come Daniel O'Sullivan e Alexander Tucker, era scontato arrivare alla terza pubblicazione come Grumbling Fur. Il disco 119 Genere: rock Dopo trent'anni di carriera, nove album solisti e innumerevoli collaborazioni, non ci siamo ancora stancati di Mr. Mark Lanegan. A confermarlo è questa ultima uscita, un EP dal titolo No Bells On Sunday, che, per stessa ammissione del Nostro, anticipa il prossimo full-length Phantom Radio, atteso per novembre. Parliamo di attesa perché, almeno per chi scrive, l'attenzione che sta attorno ad ogni nuovo lavoro di Lanegan è sempre accompagnata da un comprensibile timore, ovvero che il passaggio da personaggio di culto a vera e propria leggenda lo abbia spinto negli ultimi anni a concentrarsi più sulle attività extra-soliste che sui propri album. Un'ansia largamente smentita, prima, da quel ritorno in grande stile che è stato Blues Funeral, e dallo splendido Imitations poi, che ce lo hanno restituito al meglio della forma e tutt'altro che adagiato sul solo carisma della voce. In altre parole, se in un paio di episodi la collaborazione si è limitata più che altro ad una presenza fin troppo ingombrante (Black Pudding, con Duke Garwood), è anche vero che, da solo, Mark Lanegan continua a non sbagliare un colpo, come ci dimostra ancora No Bells On Sunday. Quasi a voler ripetere, dieci anni dopo, l'eccezionale ritorno annunciato da Here Comes That Weird Chill e concretizzato poi con Bubblegum nel 2004, i cinque brani di No Bells On Sunday presentano l'ennesima direzione della parabola laneganiana: ritornano infatti le pulsazioni sintetiche che avevano caratterizzato Blues Funeral, qui presenti nell'opening Dry Iced e nella conclusiva Smokestack Magic. Pezzi che sintetizzano al meglio le visioni cantautorali di adesso: le onnipresenti radici blues amalgamate alle pulsazioni electro, la simbologia biblica ed esoterica unita ad un certo gusto per synth e drum machine, a voler ribadire che il songwriting di Lanegan è tanto radicato nel passato quanto perfettamente in grado di muoversi nel presente, evitando ancora una volta il rischio di fossilizzarsi in quei miasmi acid-folk che da The Winding Sheet in poi ce lo hanno fatto apprezzare come unica presenza autorevole nel deserto post-grunge. Un passato che lui non rinnega, ma che anzi riemerge prepotente con Sad Lover, che sembra riportarlo (voce compresa) all'irrequietezza psych e garage dei primi album con gli Screaming Trees. E' proprio quando la voce si mescola agli archetipi della tradizione che il buon Mark dà il meglio di sé, ad esempio nella cantilena dark di Jonas Pap, e, soprattutto, nella title-track, a cui va una menzione speciale. No Bells On Sunday è infatti un brano che si fa classico già dai primi ascolti, e che condensa tre decenni di attività cantautorale ed eccezionalità vocale: in altre parole, è il continuum della tensione elettronica e del paradigma folk/blues, dove il punto d'incontro è naturalmente un'interpretazione flemmatica, sensuale, e ovviamente inconfondibile. Profondità blues e fascinazioni cibernetiche che presumibilmente ritroveremo in Phantom Radio, e che non tradiranno le aspettative di chi considera Mark Lanegan ancora una figura di spicco nel panorama musicale passato e presente. 7.3/10 Giulia Antelli 120 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Mark Lanegan - No Bells on Sunday EP (Heavenly,2014) Antonello Comunale r e c e n s i o n i Gui Boratto - Abaporu (Kompakt,2014) Genere: techno, house, dance Dopo aver passato un po' di tempo a sfornare singoli per la sub-label K2 della Kompakt (raccolti nell'antologico The K2 Chapter dello scorso anno) e a seguire il duo Elekfantz per la sua label D.O.C., Gui Boratto si rimette in pista e sforna un quarto disco al di sopra delle aspettative. Se è vero che Kompakt sta diventando sempre più un classico della tech-house che molte volte guarda un po' troppo al downsizing pop, è vero anche che ogni tanto la label di Cologna ci prende. E come lo scorso anno aveva centrato il giusto limite fra bassi caldi e minimalismo con 1977 di Kölsch, anche qui raggiunge una tensione che convince. Certo non siamo ai livelli di Chromophobia (in top 100 sui migliori album del decennio '00-'10, secondo Resident Advisor), e non potremmo chiedere un'affiliazione così pesante al minimalismo, dato che oggi non va più come nel 2007, ma anche con questo Abaporu Boratto c'è e ci fa sentire di aver raggiunto un'importante maturità. L'artista, nelle note di stampa, dice di essersi ispirato ai quadri della pittrice modernista brasiliana Tarsila Do Amaral e alle teorie estetiche (il cosiddetto Manifesto Antropógafo, ovvero cannibale) del marito e poeta Oswald De Andrade. Un modernismo che dovrebbe riflettersi anche nel sound del disco, e quindi usare il passato per rinvigorire il presente attraverso un ripensamento creativo. E non potrebbe che essere così, ormai: ingabbiati in una palette di suoni (in questo caso, quelli caldi della Kompakt), di trucchi compositivi e di altre caselle dove scrivere le note, gli artisti house non possono che essere modernisti. Per ovviare ai vituperati schematismi, per cercare di rivisitare creativamente, Boratto usa il suo stile finissimo, tagliando i suoni con l'accetta della produzione, puntando su bassi ovattati e s e t t e m b r e d'esordio del 2011, Furrier, era l'ennesima variante psych-ambient arrivata in un momento storico di iper-saturazione del settore, ma a ridestare un minimo di interesse aveva provveduto il lavoro dell'anno scorso, Glynnaestra, con la sua "krautedelia" pop. Questo Preternaturals va ad inserirsi doverosamente lungo questo stesso sentiero, riprendendo il discorso esattamente da dove i due lo avevano interrotto con His Moody Face e scoprendo, se possibile, anche quelle poche carte che ancora rimanevano nascoste. Pertanto, ecco ulteriori coloratissimi tasselli pop come All the Rays, e la super catchy Lightsinisters dove appare come ospite nientemeno che Tim Burgess dei Charlatans. In brani come Feet Of Clay e Secrets Of The Earth la costruzione è raffinatissima: da un lato il lavoro della longa mano di O'Sullivan sembra prendere il sopravvento, perché la densa matrice post, con viola e motorick elettro pop, dimostra chiare ascendenze da certi Guapo; dall'altro le doppie voci e la linea melodica che sa tanto di soft gothic, rimanda più a Tucker. Nei momenti migliori i Grumbling Fur sembrano una fusione futurista tra certi Gastr del Sol (Camofluer) e certi Depeche Mode (Violator). La finale Pluriforms riassume tutto il disco e si pone come paradigma di due autori che, a dispetto ancora di qualche bozzolo ambient (l'omaggio a Genesis P-Orridge di Neil Megson Fanclub), hanno trovato il modo di sperimentare anche sulla formula, piuttosto che perdersi in eccessive elucubrazioni sulla forma, cosa che li avrebbe stretti in un angolo senza ossigeno. Facile prevedere che ci saranno altri lavori come Grumbling Fur. Il meccanismo ormai è ben lubrificato e quando questo avviene, due professionisti del genere non possono che sfruttarlo fino alle estreme conseguenze. 7/10 121 Marco Braggion Indigo Mist - That The Days Go By And Never Come Again (RareNoise,2014) Genere: impro, jazz Trombettista e cantante attivo da più di vent'anni, Cuong Vu ha legato fondamentalmente il suo nome ai funamboli della chitarra Pat Metheny e Bill Frisell, non disdegnando collaborazioni con personaggi del calibro di David Bowie e Laurie Anderson. Attirato dalla musica classica contemporanea e alle tecnologie elettroacustiche, Vu è andato a bussare a casa di Richard Karpen, uno dei massimi esperti di nuove tecnologie applicate alla musica contemporanea: da lì il passo verso la formazione di un progetto è stato breve. That The Days Go By And Never Come Again è il risultato di più di un anno di alacre lavoro in studio di registrazione, in cui il già esistente Cuong Vu Trio (completato dal bassista Luke Berman e dal batterista Ted Poor) si fonde con i patches algoritmi di Karpen, andando a sperimentare e a rileggere alcuni temi di Duke Elling- 122 ton (In A Sentimental Mood e Mood Indigo) e Billy Strayhorn (A Flower Is A Lovesome Thing e Lush Life). Nove tracce interconnesse da ascoltare senza pause, in cui colpisce il livello di affiatamento raggiunto dai musicisti e la naturalezza con cui il lato jazz di Cuong Vu si è fuso con quello classico di Karpen. Non proprio commestibile da tutti, That The Days Go By And Never Come Again è un lavoro complesso e curato (la produzione è eccellente), che porta una ventata di freschezza nel free contemporaneo. 7.2/10 Andrea Murgia Interpol - El Pintor (Matador,2014) Genere: rock Segnali di vita in casa Interpol, che con l'ultimo e omonimo album, sembravano diretti verso una necrosi creativa da cui non pareva esservi ritorno. C'era bisogno di lasciare ad ognuno il tempo di ripensarsi come artista, di dedicarsi a progetti solisti per tornare con un album che sapesse aggiornare una formula logora. Un cosa che nessuno dei campioni dell'indie rock dello scorso decennio ha saputo fare in modo convincente. A ben vedere gli Interpol sono rimasti gli unici a cui pubblico e stampa hanno voluto concedere il beneficio del dubbio. Merito di un esordio che col trascorrere del tempo ha assunto i connotati della pietra miliare e, perché no, di un'immagine che non ha smesso di essere fascinosa e impermeabile allo scorrere del tempo. Oggi la parola d'ordine sembra essere quella del cambiamento nella continuità. Pertanto nessuno stravolgimento; piuttosto si percepisce da subito il ruolo di secondo piano a cui è stato relegato il basso. In questo senso il singolo apripista All The Rage Back Home, detta l'agenda dell'album: gli uptempo, l'interplay ossessivo delle chitarre, la maggiore dinamica. r e c e n s i o n i s e t t e m b r e sensazioni positive (altro che paura dei colori), su un feeling in certi casi balearico, in certi casi pop (vedi la coda di canzoni cantate che non finiranno nel vinile). Per non soccombere ad una facile mutazione pop, Boratto punta tutto sulla qualità del suono e, con pochi ingredienti (l'eterno ritorno minimal mittel), approda a un album completo, mai troppo tagliente, nè troppo esagerato. Una di quelle cose che potrebbero piacere sia al banger da pre-pogo che all'over 40 con il cocktail in mano a bordo pista. Una via di mezzo fra Booka Shade (Take Control), Röyksopp (Indigo) e GusGus (Joker, Get the Party Started), il tutto condito da un savoir faire sudamericano che scalda (Please Don't Take Me Home). Bravo, Gui. 7.1/10 r e c e n s i o n i Capita più spesso che il trio cada nella facile trappola dell'autocompiacimento, perdendosi in divagazioni superflue che fanno perdere brillantezza al prodotto finale; una sorta di apnea tecnico-compositiva che offusca la vista e che rende più pesante l'ascolto di alcuni passaggi (Alexa), facendo perdere scorrevolezza al disco. Ottimi alcuni brani: l'iniziale Doozy Mugwump Blues, dominata dalla chitarra di Young, funziona e convince come Wonderfall, traccia che strizza l'occhio al maestro Morricone con la citazione del tema di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. C'è spazio anche all'omaggio a Zappa in Frank'll Fix It, una delle maggiori ispirazioni della band. Pur essendo un buon lavoro, Arise soffre ogni tanto di qualche amnesia che mina la sua riuscita finale, risultando in alcuni passaggi troppo verboso e confuso. Promosso con debito. 6.1/10 Diego Ballani Genere: impro, jazz, freejazz Archiviati momentaneamente i progetti Plymouth e Slobber Pup, Joe Morris e Jamie Saft tornano con Red Hill, nuovo progetto in compagnia di Balazs Pandi (Obake e i recentemente riformati Zu) e di uno dei pilastri del free jazz contemporaneo: Wadada Leo Smith. Frutto di recording sessions votate all'improvvisazione più spinta, Red Hill mostra un ensemble compatto e in stato di grazia che fa quadrato attorno alla figura carismatica di Leo Smith, senza però mostrare timore reverenziale o sudditanza. La opening track Gneiss, dominata dal fraseggio pungente e senza fronzoli di Wadada, serve come antipasto la prova incredibile di Saft al pianoforte, strumento preferito nella quasi Interstatic - Arise (RareNoise,2014) Genere: blues, jazz Autori nel 2012 di un discreto omonimo disco, gli Interstatic tornano con il nuovo Arise, confermando quanto di buono visto nel precedente lavoro ma ripetendo alcuni degli errori che lo avevano caratterizzato. Dotato di altissimo tasso tecnico, l'ensemble formato da Roy Powell (già dietro ai tasti dei Naked Truth), il chitarrista Jacob Young e Jarle Vespestad – batterista apprezzatissimo di molte produzioni della ECM – passa dal blues al jazz radicale con facilità, mescolandoli con il prog di scuola canterburiana e con l'ambient, ma riuscendo solo in alcuni episodi a convincere pienamente. Andrea Murgia Wadada Leo Smith - Red Hill (RareNoise,2014) s e t t e m b r e Era qualcosa di cui la band sembrava non essere più capace. Oggi si rivede la luce grazie al complesso reticolo sonoro di My Desire, all'incredibile affiatamento che sta dietro il tour de force chitarristico di Anywhere. Fondamentale è il mood dell'intero lavoro. Paul Banks e soci sembrano divertirsi di più, di conseguenza si diverte anche chi li ascolta. Lo si percepisce nel modo che hanno di giocare con i riff, di svilupparli e deformarli, specie quello che fa da perno alla bella Same Town New Story. C'è un canovaccio che sta alla base di ogni brano e che prevede la ripetizione di un pattern, che viene stressato, ingigantito e reso epico. È un'idea di psichedelia metropolitana, al cui sviluppo ha contributo il lavoro fatto da Paul Banks nel progetto Julian Plenti e che ha portato alla rottamazione di elementi del passato, quali le analogie con Joy Division e Psychedelic Furs, e le influenze emocore. Il risultato è che El Pintor è l'album più personale mai realizzato dagli Interpol. Non male per chi, fino a poco tempo fa, era dato artisticamente per spacciato. 7.1/10 123 Genere: psych, kraut, ambient Massimo Ruberti lavora per ispirazioni forti, siano esse letterarie o cinematografiche. E non potrebbe essere altrimenti, visto che produce una musica visuale come poche altre, capace di traghettarti in galassie mentali spaziose e multistrato, come di fare da colonna sonora per installazioni artistiche e video. Come un Jean Michel Jarre più krautrock, con The City Without Sun il musicista pensa a una colonna sonora per il romanzo di Michel Grimaud, La Ville Sans Soleil, confezionando un lavoro oscuro in cui far convivere Kraftwerk, Air e Suicide (la bellissima title track), ma anche un reiterare ritmico che ha più di un punto di contatto col motorik di certi corrieri cosmici tedeschi (Darklands). Laptop e sintetizzatori analogici sono gli ingredienti base di una ricetta che somma atmosfere sognanti a macchine percussive "molli", in un viaggio ipnotico e "alterato" in cui il ripetersi delle strutture fa spazio a certi slanci à la Carpenter (Last Bird In The Valley), sembra voler citare l'elettronica dei primi Daft Punk (Antipol / Propol), ma si concede anche parentesi "altre". Come ad esempio il beat quasi trip-hop su accordi di pianoforte di Aldo and Lea, la disco moroderiana di Mass Technology Against Mass Manipulation, l'ambient disturbato di Smog e quello celestiale/ psichedelico (vicino a certe cose di Wendy/Walter Carlos) di The Wind. Il disco – successore dell'Autor De La Lune del 2010, ma a nostro modo di vedere molto più a fuoco e coerente – è un episodio nostalgico ma riuscito, in grado di disperdere un'ipnosi inquieta focalizzata sui crescendo e, in generale, su una trance narrativa in cui la dinamica dei suoni e i singoli dettagli degli strumenti guadagnano un peso specifico di non poco conto. L'album esce sotto licenza creative commons per la netlabel Nostress e il consiglio è di non farselo sfuggire. 7.3/10 Fabrizio Zampighi totalità delle tracce di questo episodio al caro Fender Rhodes. La sezione ritmica formata da Morris e Pandi costruisce strutture solide e convincenti (la seconda parte di Janus Faces è emblematica), adattandosi perfettamente ai continui cambi di direzione di Smith e Saft. Nel suo essere profondo e multisfaccettato, Red Hill è un bel lavoro sotto tutti i punti di vista, ma richiede tempo e pazienza per essere assimilato e apprezzato al meglio. 7/10 Andrea Murgia 124 jj - JJ – V (Secretly Canadian,2014) Genere: pop Tornano i due svedesi, questa volta con le "j" maiuscole. Un simbolo di maturità acquisita (o per lo meno esibita)? Lo shifting hipster d'ordinanza? O è solo una trovata di marketing? A sentire Joakim Benon, V avrebbe dovuto rapppresentare il meglio della loro produzione: "Abbiamo lavorato a questo disco per tutta la vita; è la cosa che abbiamo sempre voluto fare. Sento che abbiamo lavorato su questo album sin da quando abbiamo iniziato a registrare musi- r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Massimo Ruberti - The City Without Sun (NoStress Netlabel,2013) Marco Braggion r e c e n s i o n i John Garcia - John Garcia (Napalm,2014) Genere: rock Molto di più. Molto più successo, molti più soldi, molta più notorietà. La carriera di John Garcia, seppur incredibile, non è stata – commercialmente parlando – all'altezza delle aspettative. Di dollaroni ne ha fatti decisamente di più il collega/rivale Josh Homme dei Queens Of The Stone Age, sdoganando certe sonorità nel mainstream. Nel suo "piccolo", tuttavia, Garcia ha intrapreso un percorso artistico che nella coerenza ha trovato il proprio punto di forza. La voce meno addomesticata del deserto, dopo il black out con i Kyuss, ha realizzato album di pregevole fattura con Unida, Hermano, Slo Burn e prodotti nel complesso piacevoli, come Peace dei Vista Chino (ovvero dopo una disputa legale, gli ex Kyuss Lives!), senza contare ospitate estemporanee in altri progetti. Questa volta però Garcia ha deciso di fare tutto da solo, come dichiarato con fierezza nel primo (ottimo) singolo intitolato My Mind, canzone in cui il Nostro ruggisce al microfono "I'm all alone, I'm all alone, I'll be alone". Un termine che ritorna subito nella successiva Rolling Stoned (cover dei canadesi Black Mastiff ), aperta da un riff poderoso. In queste undici canzoni è condensata una buona dose di paranoie, ma anche di aspettative, certezze, convinzioni e speranze, sensazioni, raccolte da anni e riportate a galla dopo una lunga cernita tra gli appunti, i testi e le musiche messe nel cassetto dall'ex Kyuss in oltre vent'anni. Un periodo in cui, come dicevamo poc'anzi, è successo di tutto. La sintesi di questo processo è un disco granitico, incorniciato dal meraviglioso feat di Robbie Krieger dei Doors – sue le chitarre acustiche nella sognante Her Bullet Energy, placevole resa che placa la rabbia di cui è intriso questo Lp. Una firma d'autore, quella di Krieger, con s e t t e m b r e ca. Non abbiamo mai avuto nessun altro piano se non quello di farlo uscire e allo stesso tempo non abbiamo mai saputo cosa fosse. È cresciuto a modo suo, e ora che l'abbiamo finito, guardando indietro possiamo capire cosa sia veramente, cosa abbiamo fatto, perché è qualcosa che non decidi, anche se l'hai fatto tu. Le canzoni… non le scriviamo, facciamo solo il nostro meglio per catturarle per sempre, davvero". In realtà il disco è pop allo stato puro, con inserti di elettronica che aumentano il tiro quel tanto che basta per essere inseriti in qualche compilation di remix ibizenca superpatinata (già accaduto al singolo pseudo-tribal Fågelsången) o su qualche spot che deve far salire l'emozione (possiamo scommettere qualche contratto con Apple o con qualche casa di prodotti per bambini). Dal lontano 2009 del promettente ma troppo furbo esordio jj n°2 ne è passato di tempo e oggi il palco è definitivamente caduto. Abbiamo capito che le costruzioni mimetiche, quel negarsi in un'indistinta aura di mistero nordico ha stancato e il risultato è solo un'altro clone di quell'hipsterismo che vorrebbe simulare lo stile di Lana Del Rey, ma purtroppo non ci riesce. Il duo ha sì qualche carta da giocare, come ad esempio il buon uso dei tappeti di archi, i crescendo atmosferici e la voce di Elin Katlander che culla e lega bene le melodie (Full, Be Here Now), ma precipita su banalità che mimano i peggiori Coldplay (Dynasti), romanticismi melensi (Dean and Me) o qualche scimmiottamento della già ricordata Lana (When I Need You). Delusione per la scuderia Sincerely Yours (che, ricordiamo, ha in catalogo pure CEO). Il disco vorrebbe essere una testimonianza di amori andati male, di storie tormentate, ma diventa buono solo per qualche selfie da teenager brufolosi e sudati in camerette con condensa alle finestre. Per tutti gli altri, c'è sicuramente altro. 5/10 125 Genere: cantautori, blues, country, folk Pete Molinari è il perfetto trait d'union tra la musica folk americana e il beat inglese. Riesce a mischiare in una forma pressochè perfetta la scuola cantautorale degli anni Sessanta a stelle e strisce e la ruvidità inglese della terra di Albione; la voce nasale, squillante e così old fashioned lo rende un menestrello fuori dal tempo. Theosophy è il suo quarto album in studio (esce per Cherry Red Records) e vede la produzione di un certo Dan Auerbach, ossia metà dei Black Keys, in un processo di svecchiamento di certi stilemi del blues. Il risultato è coerente e coeso al suo interno sin dall'inizio con la potente Hang My Head in Shame; sono tantissimi i riferimenti che delineano gli spigoli vivi di un artista che non fa mistero della propria fede verso un certo tipo di scrittura e di sonorità: Bob Dylan, Woody Guthrie, Hank Williams e CCR da un lato, The Kinks, Small Faces, i Beatles del biennio 64/66 (Love For Sale non si chiama così a caso) e Procol Harum dall'altro. La missione è chiara: regalare un viaggio attraverso gli anni Sessanta rivisitandoli e rivivendoli in lungo e largo attraverso un gusto pop molto marcato nel songwriting. Qui non c'è la minima intenzione di suonare moderni, anzi: ascoltando l'album ad occhi chiusi, potrebbe sembrare di aver pescato un vecchio album da una cantina fatiscente piena di memorabilia del passato. A differenza di alcuni esponenti del recente folk revival (leggi Jake Bugg), qui la sensazione è di avere davanti un talento genuino e non costruito, che percorre ormai da anni il suo sentiero in modo fiero e a testa alta. Dal lisergico slow blues di So Long Gone alle reminiscenze in stile John Fogerty di When Two Worlds Collide, passando per il country rock di I Got Mine e il rhytm'n'blues rurale di Mighty Son of Abraham (che richiama Son of a Preacher Man non solo nel titolo), è tutto un fluire logico attraverso un decennio storico della popular music. La dedizione quasi filologica di Pete Molinari è maniacale e nulla viene lasciato al caso. Un cenno a parte merita la sublime ballata Dear Marie (You Made a Fool of Me) che è un colpo di gran classe con una sapiente costruzione armonica e l'uso di strumenti come pianoforte e banjo che enfatizzano l'alto tasso melodico del brano. Per carità, nessuno grida al miracolo e tutto è stato già detto e sentito. Ma l'onestà intellettuale dell'artista, unitamente alla capacità di sguazzare con cognizione e classe nel passato, lo rendono più che perdonabile e promosso a pieni voti anche con questo nuovo album. 7.5/10 Stefano De Stefano cui Garcia si congeda nel migliore dei modi. La canzone rappresenta un'eccezione rispetto al tenore complessivo di un lavoro maggiormente incline all'energia di Saddleback e alla consapevolezza hard rock di Flower. 126 Altri ospiti del disco sono Nick Olivieri e Danko Jones (sua 5000 Miles, insolita dichiarazione di affetto per la famiglia causata dal senso di nostalgia dei tour). Di grande appeal il chours di His Bullet Energy, una scorciatoia r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Pete Molinari - Theosophy (Cherry Red Records,2014) che conduce a una piccola oasi melodica dopo aver percorso un sentiero intricato e tortuoso tra riff serrati. Garcia si toglie altra polvere di dosso in All These Walls – ennesima ottima prova – rivendicando, con forza, il proprio ruolo nel panorama stoner rock americano. 6.9/10 Lorenzo Costa Genere: soul C'erano riusciti i Daft Punk recentemente e felicemente, in quell'opera di recupero di certe sonorità derivate pari pari dai Seventies. E anche gli Hot Chip avevano avuto una facile vittoria. Ora è il turno dei Jungle, un collettivo capitanato da Josh Lloyd-Watson e Tom McFarland che esce oggi per XL Recordings; tra guizzi new soul, propensione a una dance minimalista e un forte debito nei confronti di Marvin Gaye, il risultato è tanto efficace quanto furbo. Riuscire ad essere tremendamente (post)moderni quanto canonici nell'osservare alcuni canovacci di genere, filtrare e flirtare con il vintage ma ostentando la propria appartenenza agli anni Zero: è questa la prima sensazione che si ricava dall'omonimo debutto degli attesissimi Jungle, complice una produzione calibrata e cesellata, perfettamente sagomata sulle esigenze di mercato e la generale tendenza del momento. Il singolo The Heat è micidiale con quel basso vecchio di 40 anni e le doppie voci in falsetto che chiamano Prince e Bee Gees; siamo già in medias res, tra soul, neo-funk, alt. dance, campionamenti e sintetizzatori. Voci nere. Un vero e proprio richiamo alla tradizione che si presenta alle orecchie con tutti gli abbellimenti del caso, anche se alla base c'è indubbia sostanza. Busy Earnin' è un altro dei momenti migliori dell'intero disco, guidata dalla progressione armonica e dalle tastiere che creano gli spazi per s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Jungle - Jungle (XL,2014) un basso quanto mai padrone della situazione; la bluesy ballad Drops fa invece capire attraverso il suo approccio minimal che c'è spazio anche per un altro tipo di mood, virando verso un easy listening notturno e pieno di groove che richiama certi momenti di James Blake (come anche Lucky I Got What I Want presente nel finale del disco). Samples, drum machine, forti hooks: un disco del passato totalmente immerso nel presente che si costituisce come prodotto assolutamente pop; a pensarci bene tutto ciò che c'è intorno lo è, dalle manovre virali sui social alle iniziative fuori dal palco tese a creare mistero intorno all'uscita dell'album, fino allo sfruttamento dell'iconografia di genere. Jungle è oggi l'ennesimo esperimento di rivitalizzazione dello storico r'n'b che ha dato i suoi frutti in passato e che continuerà a farlo anche nei decenni a venire, integrando i vari spunti ed elementi che i trend artistici e di mercato suggeriranno: ma a pensarci bene potrebbe essere soltanto la retromania che sposa il business. Difficile bocciarlo solo per questo: tutto funziona alla perfezione e forse per questo il dubbio che si possa finire vittime di una trappola esiste e resiste. 6.9/10 Stefano De Stefano King Creosote - From Scotland With Love (Domino,2014) Genere: cantautori, folk Kenny Anderson è un artista scozzese molto prolifico, che con lo pseudonimo di King Creosote ha realizzato oltre quaranta lavori discografici, sempre mantenendosi nell'ambito di un alternative folk rock pieno di suggestioni direttamente collegate alla sua terra natia. From Scotland With Love è un disco di undici canzoni che fanno da colonna sonora a un documentario della regista neozelandese Virginia Heat, commissionato dalla BBC e che 127 Genere: cantautori, rock, soul, country, folk Che cos'è psichedelia oggi? Chiedetelo a Ray LaMontagne, più di uno fra i tanti songwriter disseminati per il continente americano; un cielo lavanda, un sole da cogliere e un "ti ricordi quando ci siamo sentiti in quel modo?" dilatato negli effetti sul tono vocale, espanso dallo stumming dell'acustica e nel riff dell'elettrica (Lavender). Sono i suoi Beatles, il suo Donovan, i suoi Mamas and Papas. Ray è nativo di Nashua, New Hampshire, è figlio d'arte anche se non avrebbe mai voluto esserlo visti i cattivi rapporti col padre fin dalla tenera età. Dopo gli studi si trasferisce a Lewiston nel Maine e inizia a lavorare come uno schiavo per una fabbrica che produce scarpe. Una bella mattina, prima della sveglia del gallo, riceve in dono la buona novella via radio: Treetop Flyer di Stephen Stills, ed è subito amore. Decide di dare una sterzata ad una vita che era diventata come un grosso treno vuoto in fuga verso il nulla, donandosi in tutto e per tutto alla musica. E ancora viene da chiederci che cosa sia country jazz oggi, "seduto a Landis Hill, fissando Beverly Hills, ognuno si muove così velocemente, ti senti quasi come parte di un passato" (Airwaves); vi risponderà sempre lo stesso barbuto quarantunenne con l'aplomb di chi conosce il palco quanto le strade percorse. E se poi volete sentire una bella canzone rock scritta come ai vecchi tempi, dovrete ascoltarvi Julia o Supernova, brani che regalano testi scolpiti per chi li vuol tradurre e tormentoni per giorni e giorni. E non finisce qui: "Sono stato un salvatore, un sacrestano, uno straniero/ ferito dalla rabbia/bruciato dalla legge/sperso come nient'altro" è la prima strofa di Ojai. Come non rimanerne innamorati? Ray è al quinto lavoro in studio, con Dan Auerbach dei Black Keys in produzione (oltre che su vari strumenti fra chitarre, basso e mellotron), il cantautore Richard Swift alle percussioni e ai cori, Leon Michels al piano Wurlitzer, glockenspiel e harpsichord. Solo per fare alcuni nomi. Oggi Ray gioca di marezzato e imperla di curatela produzione e arrangiamenti, forse fra i migliori dell'anno in ambito country-folk, quando in passato propose ruvidezza pastorale (Trouble), grinta sociale stile southern soul (Gossip In The Grain) e un esemplare di stile come pochi, di quelli che si sentono una volta in due lustri, quattro anni fa (God Willin'and The Creek Don't Rise). Un portato soprattutto delle sue abilità vocali, che prendono d'infilata ogni insicurezza, e della sua scrittura così pregna di stati d'animo narrativi. Supernova rammenta le migliori stagioni del cantautorato stagionato fra i due oceani, senza cadere mai nel autoindulgenza e mostrando meglio il colore degli occhi quando si deve e quando si può. 7.5/10 Christian Panzano 128 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Ray LaMontagne - Supernova (RCA,2014) r e c e n s i o n i mazioni culturali ed economiche. Il quadro che ne esce è pressochè perfetto per intensità. 7.3/10 Stefano De Stefano La banda di Palermo - Lo sguardo di rame (Qanat Records,2014) Genere: world_etnica Danza e avvenimento. Elementi quasi sempre posti in evidenza dal gruppo isolano che da alcuni anni si fa chiamare La banda di Palermo, ex M.I.L. Proviamo a considerarli un tutt'uno: debutto nell'ormai lontano 1996 con La fame, un sound che, nel gettonato terzomondismo che fu, poteva accostarsi a quello della partenopea Polosud. Seguito l'anno dopo da Matrimonio, lavoro infarcito di un total kolo e una cura avant. Ne fanno le spese i ritmi serrati. Drip Drop è il metro di paragone della loro storia artistica. Appena varcato il millennium bug, i siciliani riacciuffano il rogue folk per riqualificarlo in un alveo murder ballad, per non dire zydeco. Ma spesso l'istinto è punk; che sia su registri Klezmer per Fel Shara Kannet, successore di Drip Drop, o rocksteady per K., qualche anno dopo, l'attacco iniziale di ogni battuta è una dichiarazione di fede al punk screziato. Lo sguardo di rame è il loro ultimo lavoro in studio per Qanat e coglie in pieno una maturità per nulla espiata. C'è una maggiore increspatura dell'essere un gruppo siciliano oggi, maggiore identità à la Roy Paci tanto per intenderci (La canzone dell'avvelenato, Mi votu e mi rivotu, Uno due tre). Curioso l'inserto wave (La fiera) e la trama dreamy rock (Dalla scatola sono uscite due bolle), che pur racchiusi in se stessi, adulano, rapiscono e meravigliano. La title track e La canzone di Charms sono manifesto di scrittura che travalica l'underground, andando a toccare con ardore la cinematica, il miglior dub e la mesmerica world con quel toc- s e t t e m b r e affronta la situazione politico-sociale ed economica della Scozia all'inizio del XX secolo. I bozzetti che King Creosote riesce a confezionare sono estremamente efficaci nel tratteggiare un percorso narrativo tipico di un film incentrato su un preciso periodo storico. L'opening track Something To Believe In indossa un vestito epico, appartenente ad altre epoche e dotato di una melodia efficacissima che fa il paio con la successiva Cargill, un brano cantato in duetto che esplora la vita dei marinai di Perthshire costretti ad allontanarsi dalle proprie famiglie senza sapere quando precisamente tornare a casa. Il tempo di una inaspettata polka con Largs e si torna nei territori della delicata ballata di stampo folk, gentilmente sostenuta da una sezione di archi e un piano elettrico: è il caso di Miserable Strangers. For One Night Only invece presenta una variazione sul tema: chitarre acustiche piene di effetto che sembrano provenire da lontano per descrivere ampi spazi e aprirsi poi in un pezzo rock, diretto e arricchito da vivacissimi violini che ricorda certe cose di Ian Hunter. C'è un gusto per la melodia molto sviluppato e valorizzato da arrangiamenti minimali ma allo stesso decisamente ragionati e sviluppati in modo tale da mantenere un legame stretto con l'immaginario che si va a rendere in note; uno dei momenti migliori arriva verso la fine, con la ballata dalle venature Sixties One Floor Down che a tratti ricorda i Travis più delicati e romantici. Va a Pauper's Dogh però lo scettro di momento più alto dell'intero disco: un brano che parte in sordina e che finisce in un crescendo epico e corale per raccontare i sentimenti di rivalsa e giustizia sociale e politica: fuori dal tempo e da ogni compromesso. Questo è un album che regala una sensazione di appartenenza a un'età emotiva e storicamente appartenuta ad un popolo: quello scozzese di cento anni fa, in bilico tra resistenze e trasfor- 129 Genere: industrial, ambient Perfection and Permanance di Trepaneringsritualen è un mesmerico ed apocalittico viaggio alla fine dei tempi, sospeso tra Death Industrial e Ritual Ambient. Uscito per la label inglese Cold Spring, quest'album si conferma come uno dei migliori e più significativi lavori realizzati dall'artista svedese. Trepaneringsritualen (abbreviato anche in T × R × P) è il progetto principale di Thomas Martin Ekelund, musicista già attivo come Dead Letters Spell Out Dead Words, Nullvoid, Teeth e Th. Tot. Il nome Trepaneringsritualen deriva dall'arte antica di trapanazione del cranio, sia come metodo curativo, sia come esperienza spirituale e magico/religiosa. Dal vivo, l'artista mette in scena dei veri e propri rituali, accompagnato da immagini mitiche, sacre e religiose, presentandosi sul palco ricoperto di sangue animale e cerone bianco sul volto. Nel suo album l'artista svedese è riuscito a catturare appieno lo spirito delle sue violente e dissacranti performance che, pur muovendosi in ambito Death Industrial, rimandano come "attitudine spirituale" a contenuti simili a quelli espressi nei lavori di gruppi Death e Black Metal scandinavi, rigorosamente old school e underground, di cui Ekelund è un sincero e convinto estimatore. Volendo, si potrebbe trovare un antesignano di queste sonorità "Black Industrial" nel lavoro di Maschinenzimmer 412 (MZ 412), progetto di Henrik "Nordvargr" Björkk, uscito per l'ormai defunta label svedese Cold Meat Industry. In tutto il disco si respira un'atmosfera opprimente realizzata attraverso l'uso di frequenze, rumori metallici e stratificazioni vocali pregne di effetti per trasformare la sua voce in una sorta fantasmatica presenza inumana proveniente dall'aldilà. Il lavoro mostra un'ottima produzione ed una grande cura nella ricerca sonora, pur mantenendo un aspetto volutamente "low-fi", grezzo e brutale come carta vetrata strofinata sulla pelle di un neonato. Venerated and Despised è l'inizio del viaggio, tra voci che si rincorrono quasi indistinte, avvolte in una sorta di liquido amniotico torbido e soffocante. A Black Egg è un inno ad una Dea pagana, forse Isis, (madre e figlia, vergine e prostituta, come recita il testo) che sta per uscire da un grande uovo nero. Castrate Christ è un vero inno al dolore ed alla sofferenza umana, in cui un Cristo impotente viene seviziato con sadismo tipicamente umano, tra onde di distorsioni e riverberi che implodono su sé stessi: uno dei punti di maggiore violenza del disco. Segue la strumentale Liken Ingen Jord Vill Svälja, per poi concludere la prima parte dell'LP con Alone/A/Cross/Abyss, un concentrato di pulsanti bordate psichiche in cui le molte voci di Trepaneringsritualen si sovrappongono e si sfaldano magmatiche. Dopo il lento interludio di 39 Lashes è la volta di The Seventh Man, uno dei pezzi più riusciti dell'album, con il suo accattivante riff in cui T × R × P grida: "Body, Mind, Desire, Will. Perfection and Permanece!". È il puro trionfo della Volontà e dello Spirito sulla materia. Ritorna successivamente la metafora cristologica in Konung Krönt I Blod (Re incoronato nel sangue), ma il brano suona anche come un riferimento/maledizione a Eiríkr inn sigrsæli, Eric VI il Vittorioso, re sve- 130 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Trepaneringsritualen - Perfection and Permanence (Cold Spring,2014) r e c e n s i o n i Marco De Baptistis co da bassa America che diventa sempre meno contrappunto revenant e sempre più leitmotiv di tutta la baracca (April, Il municipio, Kanonen Song). 6.8/10 Christian Panzano La Roux - Trouble in Paradise (Polydor,2014) Genere: synthpop I La Roux erano Elly Jackson e Ben Langmaid, un duo che ha costruito una buona fetta del sound pop post-millennial. Dopo il successo dell'esordio omonimo, galvanizzato da otto milioni di copie vendute, due candidature ai Grammy (di cui uno vinto per il Best Electronic/ Dance Album) e da un remix di Skream per il singolo d'apertura In For The Kill, Ben se ne va nel marzo 2012 e inizia a lavorare con Kanye West. Pazzo? Il produttore ha rivelato che la ragione per cui ha lasciato Elly (e per cui non le parla da due anni) è stata la presenza nel gruppo di Ian Sherwin (l'ingegnere del suono che ha lavorato anche all'ultimo disco dei My Bloody Valentine), che il Nostro ha bollato come "idiota". Il solito litigio fra primedonne galvanizzato pure dalla scomparsa della Jackson dai palchi. La cantante e musa pop aveva vissuto in maniera negativa lo stardom, tanto che il successo le aveva causato attacchi di ansia e sedute psicanalitiche, e quindi negato l'accesso alle esibizioni dal vivo per mancanza di voce. Quella voce un po' roca che è il suo marchio di fabbrica. Anche se cinque delle nove canzoni sono state scritte da Jackson e Langmaid, la distanza dall'esordio si nota nei riferimenti e nella loro traduzione nell'arrangimento/produzione. Non più semplice pop ultrapatinato e pulito, s e t t e m b r e dese colpevole di aver tradito per primo l'originale retaggio pagano dei popoli scandinavi per la nuova religione cristiana (sembra che in punto di morte si sia pentito dell'orrendo crimine compiuto!). La strumentale A Ceaseless Howling evoca un freddo paesaggio artico attraverso un cupo dark ambient, prima della conclusione nel rumore (e nel dolore) di He Who Is My Mirror. Perfection and Permanance si pone una spanna sopra i molti progetti Noise Industrial contemporanei, perché è denso di riferimenti e contenuti (non solo riferimenti superficiali ed affettazioni, come capita purtroppo con molti lavori contemporanei che vorrebbero avvicinarsi a tematiche "occulte"). In questi anni T × R × P è riuscito a creare un universo tanto coerente, quanto spietato ed estremo. Dal punto di vista grafico, il lavoro si presenta in un elegante bianco e nero, una forma che fa apprezzare le doti grafiche di Ekelund, responsabile, è ben ricordarlo, anche della label svedese "Beläten", etichetta che si muove in ambito rigorosamente underground e DIY, realizzando, a partire dal 2012, ottime uscite solo su cassetta (in omaggio ad un certa tradizione "old school industrial") in ambito post-industrial, noise, e dark-cold wave, pubblicando artisti come Veil Of Light, German Army, Xiu, Distel, Blitzkrieg Baby e molti altri. Non per niente, Trepaneringsritualen ha battezzato se stesso come "Götisk Dödsindustri", che in svedese suona come "Gotica industria della morte": mai soprannome fu più appropriato. 7.5/10 131 s e t t e m b r e Marco Braggion Haley Bonar - Last War (Memphis Industries,2014) Genere: indie, wave, shoegaze Sesto album per Haley Bonar, classe '83 cresciuta tra Manitoba, South Dakota e Minnesota, da qualche anno però stanziale e attiva in quel di Minneapolis. L'imprinting è chiaramente altcountry, con ampie concessioni all'easy listening 132 e guizzi di apprezzabile intensità (in Lure the Fox del 2006 tra gli ospiti troviamo non a caso Alan Sparhawk). Almeno questa era l'idea che potevi farti fino al predecessore Golder, risalente a tre anni fa. Nel frattempo però, doppiati i trenta e avviato un side project (i Gramma's Boyfriend) per sbrigliare la vena post-punk che evidentemente le covava dentro, ha deciso che non era il caso di insistere nel gioco della nipotina imbronciata di Lucinda Williams. Eccoci quindi a Last War, un album stringato (nove pezzi per circa mezz'ora di durata) col quale va ad immischiarsi con trame new wave, power pop e persino shoegaze, azzeccando un ibrido forse non abbastanza solido eppure vivace, forte di una leggerezza dolente e a tratti impetuosa. Dopo una opening come Kill The Fun che confeziona indie guarnendolo di chitarrina Cure e synth luccicosi, è tutta una sarabanda asprigna e dreamy tra cupezze Joy Division, cromatismi Ultravox e trasporto Yo La Tengo (la title track, Woke Up In My Future), tumulti spiraliformi My Bloody Valentine caramellati New Pornographers (Heaven's Made For Two, No Sensitive Man), languore spiegazzato a nervo scoperto dalle parti dei primi Radiohead (Bad Reputation) per approdare alla sobrietà vibrante Low di Eat For Free. La ragazza può vantare grinta, intensità e ispirazione sufficiente a produrre marchingegni intriganti, anche se pare fisiologicamente confinata in una dimensione radiofonica, più appeal che peso specifico. In ogni caso, ha un suo perché. 6.8/10 Stefano Solventi Les Big Byrd - They Worshipped Cats (A Recordings,2014) Genere: psych, kraut Terra di randr, pop di gran classe e del più grande tennista di tutti i tempi, la Svezia ha r e c e n s i o n i bensì voglia di ricordo '80 più caldo, magari con qualche sbirciata anche ai tardi '70. Vedi ad esempio l'iniziale riferimento alle chitarre (e al look) di Let's Dance di David Bowie o al dancehall londinese in Tropical Chancer. In più, riferimenti alle Bananarama (Kiss And Not Tell), Kate Bush (The Feeling) e a una retrofilia non fine a se stessa. I singoli più interessanti sono la già ricordata Uptight Downtown (con un richiamo nemmeno troppo nascosto alle Brixton riots del 2011) e la stupenda ballad Let Me Down Gently. Il resto fila via che è un piacere, ma il ripiegarsi in una rilettura degli anni '80 fa capire che se l'esordio non aveva ancora risentito degli effetti della crisi ed era in sostanza un album propositivo votato al ballo, qui il tempo inizia a mordere. Dopo tutti gli alti e bassi, dalla Jackson non potevamo che aspettarci un disco riflessivo, malinconico e più intimo, meno pronto per il remix, più da ascolto. Un disco che cresce rispetto al precedente dal punto di vista dell'introspezione, che va più indietro per i riferimenti, proponendo un classico cocooning diaristico. Ciò non deve spaventare, perché lo fa con un'onestà e con un trasporto unici. Niente di lezioso o di troppo patinato. Alle volte anche il pop può essere un "affaire" molto serio. La Roux lo testimonia con una delle migliori prove di genere dell'anno. Bentornata. 7.2/10 r e c e n s i o n i musica. Chiudono i giochi 1,2,3,4 Morte e Back to Bagarmossen, conclusivo viaggio psichedelico nel quale ritornano germanicità e 4/4 . Buon esordio discografico, questo They Worshipped Cats, suonato bene, vario, scorrevole e curioso, con ottimi pezzi (le già citate Just One Week e Indus Wave) e molte traiettorie aperte tutte da esplorare nelle prossime prove. 7/10 Andrea Murgia Loris Vescovo - Penisolati (Nota Music,2014) Genere: cantautori Quarta prova discografica per Loris Vescovo, artista girovago in una geografia di migrazione e confini mai così stretti e mai così di casa. Ideatore meta teatrale e radiofonico, oltre che documentarista, il Nostro traccia in quest'ultimo suo studio agonie e gioie significative di terre tagliate dalla Storia con la S maiuscola. Penisolati si mette in fila indiana davanti a lavori passati quali Borderline (2008) e Stemane Ulive (2002), raccontando storie dalla s minuscola, che vivono sotto mattonelle pulsanti di passi o dentro vicoli e osterie dove germogliano i pensieri migliori. Come è risaputo c'è tutta una scena del cantautorato friulano devota al folk inglese, da quello jazzy a quello psichedelico, e anche Vescovo non si sottrae a questo destino. Ascoltandolo, si rinviene un John Martyn qua o un Nick Drake là, ma in Penisolati la vibrazione si scioglie in alcune pulsazioni bluesy, come nell'accattivante Aghe e aset, una Al trist dei nostri giorni, in canzoniere (Barcarolo) o in frammenti comedy come la title track. Partendo quindi da una sensibilità propria può magicamente capitare che un cenno madrigalesco dia la stura ad un soffice tappeto jazz (Benandanti), che la raganiza diventi funk (Recessio) s e t t e m b r e sempre dimostrato di portare in dote una sensibilità raffinatissima per la musica tutta, caratteristica che le ha permesso negli ultimi cinquant'anni di sfornare band e musicisti di assoluto livello e di conquistare il gradino più basso del podio dei produttori di musica mondiale. Un rapporto strettissimo e che ha radici lontane, quello tra il paese scandinavo e la musica, vuoi per l'attenzione alla didattica musicale che viene impartita obbligatoriamente sin dalle scuole primarie, vuoi per quell'appeal che la nazione ha sempre avuto per i musicisti sin dagli anni Sessanta, quando un gruppo di transfughi del jazz radicale americano capeggiato da Don Cherry ed Ed Blackwell la scelse come base operativa; una piccola isola felice in cui poter vivere da uomini, prima che da musicisti, senza odio e pregiudizi razziali. Fire! Orchestra, The Thing e Les Big Byrd sono figli legittimi di quella fortunata e prestigiosa stagione musicale. Fulminati sulla via di Damasco dal kraut e dal suo monolitico apache beat, i Les Big Byrd si formano nel 2011 dopo varie esperienze in gruppi come Teddybears e Fireside, ma è nel 2013 che la loro carriera prende una svolta, precisamente dopo l'incontro in un negozio di dischi con Anton Newcombe, che, incuriosito, li porta nel suo studio di Berlino e li segue nelle registrazioni co-firmando anche due brani in scaletta. Il risultato è They Worshipped Cats, quarantadue minuti scarsi per nove canzoni e belle sorprese: superato il blocco iniziale formato da Indus Wave e Tinnitus Ætérnum, entrambi brani dalle forti connotazioni kraut, il disco si apre a sonorità morbide e sognanti (Just One Week sfiora il dream-pop) in cui è evidente la mano del frontman dei Brian Jonestown Massacre, brillante setacciatore di talenti (Peter Hayes dei Brmc e Bobby Hecksher dei Warlocks sono sue creature) ma ancor più raffinato domatore di suoni e conoscitore di 133 o bozzetto caudillo (Vilote), che certo Messico possa rosseggiare d'Italia solo per raccontare il Ventennio (Velilla) e che la villotta declinata antifonale debba smarrirsi nel lounge fragoroso come una cateratta (Ce mai sarà). 6.8/10 Christian Panzano Genere: pop, alt, wave Che musica fa, Marc Almond? Ecco una tra quelle domande cui è davvero difficile dare una risposta. Lo era già negli anni Ottanta, quando partendo dal synth-pop dei Soft Cell l'artista di Southport si ritrovò presto alle prese con canzonieri eccentrici (Syd Barrett, Peter Hammill) e di lusso (Jacques Brel, Scott Walker, Lou Reed) in compagnia dei Mambas, ad anticipare di un decennio il ritorno dell'orchestra nel pop con i Willing Sinners, a fare il crooner e ad arrivare primo in classifica con una hit di Gene Pitney ricantata con l'interprete originale, ad esplorare la canzone francese per poi tornare al pop elettronico con l'ex compare Dave Ball e Trevor Horn in Tenement Symphony. Senza sosta, tra trionfi e insuccessi, sono poi arrivati due dischi di canzoni dell'ex Unione Sovietica, un album di poesie musicate con Michael Cashmore, cover di brani amati in gioventù, materiale originale e tantissime collaborazioni. Eppure una lacuna nel suo curriculum c'era, piuttosto vistosa per un fan di Marc Bolan e David Bowie come lui: non era mai entrato in uno studio di registrazione con Tony Visconti. C'erano riusciti all'inizio degli anni Duemila i Prefab Sprout, ci riuscì Morrissey con Ringdleader of the Tormentors, ma lui no. Dev'essere stato un momento magico, emozionante, quando i due hanno iniziato a lavorare sulle prime due canzoni che troviamo in questo The Dancing Marquis: più di un EP, poco meno 134 r e c e n s i o n i s e t t e m b r e Marc Almond - The Dancing Marquis (Cherry Red Records,2014) di un album, è una sorta di mini-compilation, un album di fotografie che tenta di mettere in risalto le varie anime di Mr. Almond. Il passato e il presente, l'amore per il glam e la consapevolezza di saper ancora scrivere una canzone pop che si rispetti (grazie anche all'ormai collaudatissima partnership con Neal X dei Sigue Sigue Sputnik) si fondono alla perfezione nei due pezzi in apertura. La trascinante title track è un omaggio a Henry Cyril Paget, quinto marchese d'Anglesey – narcisista e sessualmente ambiguo, stravagante "pecora nera" della sua famiglia, amante del teatro e della bella vita, del ballo e del cross-dressing, che si spense a soli trent'anni – e a tutte "le stelle ribelli", incluso se stesso: a dirigere l'orchestra c'è un vecchio amico, il violoncellista Martin McCarrick, già tra i musicisti di Torment and Toreros del collettivo Marc and the Mambas e in seguito alla corte di Siouxsie and the Banshees e dei Therapy. Ma è Burn Bright il vero classico da antologia, una ballad dalla scintillante malinconia e dal chiaro DNA bowieano arrangiata magistralmente da Visconti e con la presenza di Gini Ball, ex moglie del tastierista dei Soft Cell, al violino. La sfilata di presenze direttamente dal passato continua in Tasmanian Tiger – con il fedele Martin Watkins al pianoforte e all'Hammond e l'arrangiamento di Tris Penna, personalità chiave nella riuscita del brillante The Stars We Are del 1988 – quando all'improvviso il clima cambia e arriva Worship Me Now, una collaborazione inedita con Jarvis Cocker. È firmata dal frontman dei Pulp, presente anche ai cori, ma suona più almondiana che mai: sulla carta poteva essere un ritorno alla dirompente freschezza dell'erotic cabaret dei bei tempi, in pratica mette in fila un po' troppi cliché. Carl Barat è un altro "nuovo arrivato" – ma fino a un certo punto, visto che l'ex Libertines era tra gli attori di Pop'pea (la sua parte era quella di Nerone) insieme a Alessandro Liccardo r e c e n s i o n i Marcel Dettmann - Fabric 77 (Fabric,2014) Genere: techno, elettronica Il caso vuole (ma sarà davvero un caso?) che, proprio nella stessa settimana in cui Ostgut Ton decide di dismettere il CD come supporto per le proprie compilation, mettendo a disposizione il nuovo mix Panorama Bar 06 in download gratuito, il 153° episodio della dance-opera a cura del club londinese (inesorabilmente dal novembre 2001 un CD al mese, alternativamente firmato Fabric – house, techno e tutto ciò che c'è in mezzo – o FabricLive – serie tendenzialmente dedicata al mondo d'n'b' e dubstep) sia stato affidato a Marcel Dettmann, nome indissolubilmente legato al Berghain di Berlino, del quale il trentaseienne tedesco è resident DJ da sempre (dal 1999, quando la technomecca si chiamava ancora Ostgut). Non è la prima volta che un berghainiano doc viene inserito negli elenchi del Fabric: già Ben Klock, nell'ottobre 2012, aveva firmato un ottimo numero 66 ("il carattere è forte e deciso, ma si stende come un piacere soffuso e ti porta via con la propria apertura alare. Questa mano può esser ferro e può esser piuma", ne diceva C. Affatigato in sede di recensione). Il confronto viene quindi naturale: entrambe prove eclettiche e trasudanti sapienza, i due amici hanno scelto d'approcciare l'argomento techno da posizioni complementari, con Klock più aperto ed estroverso e Dettmann più dub e notturno. Nella sfida alla concentrazione (dovendosi scontrare con il limite del minutaggio disponibile per i compact disc, tipicamente le release Fabric si risolvono più in dichiarazioni d'intenti che non in veri e propri dj set), Klock batte Dettmann 24 pezzi a 19 (in settantantré minuti): non si tratta peraltro in nessun caso di mix nervosi, anzi è proprio dalla loro fluidità e pulizia che deriva la particolare piacevolezza all'ascolto. s e t t e m b r e Marc (Seneca) – ma se la cava molto meglio, con la sua Love Is Not On Trial che dimostra un certo talento nel cimentarsi con stili per lui inconsueti e nel confezionare un anthem epico. Bolan dei T-Rex è il destinatario dell'omaggio di Death of a Dandy, quarta e ultima canzone già presente nell'EP Tasmanian Tiger. Non è la qualità dei brani il problema di The Dancing Marquis, e nemmeno quella delle performance (sempre all'altezza). È nella sua natura frammentaria, nella difficile coabitazione tra stili e suggestioni troppo differenti e nel finale affrettato (So What's Tonight e Idiot Dancing, dalla produzione più grezza e confusa rispetto al resto del materiale). Dei due remix di Worship Me Now è il primo, firmato Starcluster, a funzionare meglio. Marc Almond è sempre andato in più direzioni, anche in contrasto tra loro, e in tempi recenti ha partecipato a un progetto discografico di John Harle, The Tyburn Tree, e ha pubblicato Ten Plagues, complesso ciclo di canzoni sulla peste nel Seicento (con riferimenti all'isteria sull'AIDS degli anni '80) composte da Conor Mitchell. Sarebbe stato meglio concentrarsi su un progetto alla volta, ma ormai è andata così: uno dei performer più coraggiosi e vocalmente dotati che l'Inghilterra ci ha donato negli ultimi decenni consegna l'ennesima prova cui manca qualcosa. The Dancing Marquis è per i fan che non hanno acquistato le release in vinile in edizione limitata tra il 2013 e l'inizio del 2014 e pochi altri; per i non adepti, si resta in attesa di una retrospettiva (nei piani da tempo, puntualmente prima rimandata e poi cancellata) che riesca a presentare finalmente il meglio dell'opera solista di Almond in maniera ordinata e fruibile. 6/10 135 s e t t e m b r e 136 Altro pilastro: il remix di Byetone di Radar, da Dettmann II, evidenzia i profondi e turbolenti synth che scuotono le fondamenta del dancefloor. RSPCT (di ROD, la faccia minimal di Benny Rodriguez), da almeno tre anni in possesso di Dettmann, viene ora sfoderata per il punto più caldo del mix, accostandola alla sua riedizione di un altro tuffo nella seconda onda detroitiana: l'inusuale dub pescato da The Secret Tapes Of Dr. Eich (1996) di Paperclip People (uno dei più fortunati moniker di Carl Craig). Con BB 1.0 dell'amicone Norman Nodge torniamo in Europa; Rising del parigino François X porta al remix trascendente di Lightworks (sempre da Dettmann II) da parte di Ø [Phase], e da lì alla cerebrale dub techno di Lockertmatik, producer-label di Dresda, fino ai synth collosi dello svizzero Wincent Kunth, della scuderia MDM (Carlre, altro inedito). L'off house di Joey Anderson (producer da New Jersey, da tenere assolutamente d'occhio) viene rieditata in una versione più squadrata ma mantenendone l'oscura irrequietezza, per un'atmosfera inquieta confermata da Flash del francese Marcelus, ultima carta coperta del mazzo di Dettmann. Con la ambient techno di Vril (Torus XXXII) la partita si chiude, ma viene voglia di giocarne subito un'altra, ripartendo dalla traccia n.1. 7.2/10 Alessandro Pogliani Mark Dresser Quintet - Nourishments (Clean Feed,2013) Genere: jazz Basterebbe citare autori e label per zittire i più restii. Rudresh Mahanthappa al sax alto, il suono di un gigante che stende il sacrificio Veda a New York: quando vuole romantico, quando deve virtuoso, quando può alla ricerca di venti perduti e senza più nomi. Tom Rainey e Michael Sarin alla batteria, il loro suono è r e c e n s i o n i La maggioranza dei pezzi di Fabric 77 provengono dalla posta in entrata di Dettmann: inedite tracce-demo non ancora pubblicate ma che, a detta del producer tedesco, lo saranno a breve. In questo senso il mix, pur svolgendo in pieno il compito assegnato (suonare "as if" per il dancefloor), viene furbescamente utilizzato anche come appetizer di progetti in via di release presso MDR, l'etichetta personale. Tre pezzi, inseriti da Dettmann in posizione strategica come cariatidi in grado di sostenere tutto l'impianto, sono versioni remixate di suoi pezzi, altri due sono remix suoi: il controllo è totale. L'intro è lunga, non c'è fretta. La cassa dritta prende forma solo nel passaggio dalla prima traccia (l'inedita ambientale Arthure Iccon di Ryan James Ford, 35enne canadese di stanza a Berlino) alla seconda (Sun Position, del veterano The Persuader, alias lo svedese Jesper Dahlbäck, sorretta da plurilayer di secchi snare drums). Atmosfera tesa, d'attesa: "Don't you feel the fear?". Inside Of Me è un altro inedito, e farà parte del prossimo album del francese Terence Fixmer. Arriva il primo pilastro: la reinterpretazione darkside (fresca di conio MDR) della dettmanniana Apron da parte di Planetary Assault Systems (Luke Slater), suonata anche in occasione dell'eccellente Essential Mix di due ore commissionato da BBC Radio 1, on air il 19 aprile 2014. Su Apron si innesta la prima potente spazzolata alla pista data attraverso il protegé Answer Code Request, seguita da corsi e ricorsi andataritorno a Detroit con le percussioni analogiche e i synth sporchi di Nearlin by Dario Zenker, la nuova, nostalgica release dell'UR-maestro Robert Hood (il suo Film firmato Monobox è il pezzo tenuto su più a lungo di tutto il mix) e la minimal retrotechno da manuale dell'esperto Kevin Kennedy (alias FBK: It's Not The Point è un ulteriore inedito pronto per MDR). r e c e n s i o n i vuol dire rivisitazione), capita che nella mischia alcuni brani facciano un tantino sbadigliare, sia per muscoli che per lungaggine (Telemojo, Canales Rose), eppure in alcune parti riescono comunque a lasciare il segno. Certi momenti, se non proprio per intero almeno nelle fessure più poste in rilievo, sono da incorniciare, anzi no, da esporre. Para Waltz è un valzerino jazzato che ama attendere su microcosmi di tono, Aperitivo si apre ad un sentimento effimero che gira attorno ad un do minore blues su cui Mahanthappa può sfoggiare il tiro e Dessen la commedia spinta. Il divertimento che si precisa in Rasaman è quasi bandistico. Inizialmente scritto per sitar, qui cresce nel sesso armonico, modulato dai battimenti percussivi, espanso nel gioco di tempi fra orchestrazione e basso. Un prodotto imprescindibile. 7.3/10 Christian Panzano Massaroni Pianoforti - Non date il salame ai corvi (Musicraiser,2014) s e t t e m b r e tondo come una bevuta di mate e flesso fra gli elementi. Michael Dessen al trombone, una trama filamentosa e uno sviluppo purpureo che si perde in lava di spifferi. Denman Maroney all' hyperpiano – cioè un piano preparato – di una caratura contemporanea e mai aleatoria. E poi il deus ex machina, Mark Dresser, che rilegge traiettorie e ritmica da basso flirtando col miglior Mingus, ma pure con tutta un'ombra di muro avant, figliastra del cool, e di free, figlio del be-bop. Dunque veniamo ai padroni di casa, parliamo di Clean Feed, di quel Portogallo che affina e alimenta saudade e tessiture. Anzi no, non parliamone, lasciamo che il tempo faccia respirare le mura di questa bella casa di un'aria sempre rinfrescante. Mark Dresser Quintet ha inciso l'anno scorso queste fascinose sette tracce al Tedesco Recording Studio, pied à terre di Joe Lovano, Dave Holland, Anthony Braxton e William Parker (ma la lista potrebbe non finire qui). Una specie di comune jazz nascosta tra le 25 mila anime di Paramus, New Jersey, Stati Uniti d'America. Prima di tutto il nome da dare al tutto, Nourishments, e una copertina che rafforza il concetto espresso nel titolo. Voglia di nutrimento. E infatti una traccia ha un esplicito riferimento culinario, visto che è dedicata al famoso cuoco californiano Paul Canales (Canales Rose). Ma non è solo questo, visto che questi brani dovrebbero portare in dote certi vissuti del quintetto, specialmente nella tenzone fra tecniche di estensione ed elettroacustica. Invece a tal proposito è proprio Dresser a smentirci nelle note di presentazione. Nourishments nasce dall'idea di poter far rivivere la tradizione del jazz sotto una propria lente, estendibile a chiunque volesse darne versione: armonia, contrappunto, swing, libero pensare in libera metrica, timbro, forma e sentimento. Perciò, essendoci di mezzo tanta tradizione (che non Genere: cantautori Nel 2009 esce L'amore altrove, disco di buoni contenuti che intercetta il mondo major per poi essere scaricato a causa dell' "impossibilità di sostenere promozionalmente" il percorso concordato dalle parti. Gianluca Massaroni non si perde d'animo e continua a provarci: cambia ragione sociale (prendendola in prestito dalla ditta di famiglia) e lancia una campagna di crowdfunding su MusicRaiser per finanziare il nuovo disco. L'operazione ha talmente successo e il materiale piace a tal punto che Giovanni Gulino (cantante dei Marta Sui Tubi e co-creatore di MusicRaiser) ne cura la supervisione artistica, mentre Cesare Malfatti (La Crus) firma parte delle registrazioni. Il risultato è Non date il salame ai corvi (distribuzione Universal), ovvero un bel bignami della mi- 137 s e t t e m b r e Fabrizio Zampighi Massimo Falascone - Variazioni Mumacs. 32 Short Mu-pieces About Macs (Public Eyesore,2014) Genere: avant, impro Lavoro tanto pretenzioso quanto ricercato e riuscito, quello che Massimo Falascone affida a Variazioni Mumacs, il cui sottotitolo è più 138 di una introduzione ed esplicazione del processo e degli intenti messi in atto dal sassofonista milanese. 32 Short Mu-Pieces About Macs è infatti una sorta di visionaria rivisitazione "strutturale" elaborata all'intersezione tra le Variazioni Goldberg di Bach e alle visioni offerte da "Thirty-Two Short Films About Glenn Gould", da cui parte una sorta di libera e incosciente interpretazione in coabitazione tra acustico e elettronico, digitale e analogico, composto e improvvisato, voluto e trovato. Ad accompagnare Falascone in questo eterodosso percorso "pubblicamente intimo" o "intimamente pubblico", uno stuolo di amici e collaboratori – da Bob Marsh a Marcello Magliocchi, fino a John Hughes e Fabrizio Spera, ma la lista è veramente ampia – che addensano strumentazione (chitarre classiche e fiati, piano ed elettronica, field recordings e violini) e sensazioni, affinità e influenze, suggestioni e slanci, sotto la sua direzione. Una direzione onnivora, fuori dal tempo (recuperati frammenti di composizioni inedite addirittura più che ventennali dello stesso Falascone) e terribilmente affascinante nel suo essere ondivaga e umorale, divagante da un centro ben evidente – l'ossessione Gouldiana – ma pur sempre centrata e convergente verso una musica in apparenza sfatta, disossata, fratturata e frantumata, ma in realtà ben in grado di fornire il suo punto di (s)vista. In soldoni, 32 microsuite di elettroacustica costruite per assonanze o divergenze tra impro, avant e jazz, attraverso i vari contributi che i colleghi hanno fornito seguendo le indicazioni, a volte fumose, a volte assai ben individuate, di Falascone, su un canovaccio inesistente se non nella testa del musicista lombardo. Un lavoro superbo che porta a compimento il tragitto percorso da Falascone accanto al fantasma di Gould, dopo anni e anni di rincorse fatte di accumulo di idee, riflessioni, fonti sonore e r e c e n s i o n i gliore canzone d'autore italiana di sempre. La lezione di Battisti, Dalla, Cocciante, Fossati e compagnia ripresa con gusto e capacità, in aggiunta a una naturalezza nella scrittura che impressiona davvero, pur non inventando praticamente nulla. Una parte fondamentale, nell'album, la giocano gli arrangiamenti, talmente dinamici e curati da accrescere il fascino di undici brani che in una veste più convenzionale avrebbero forse perso parte del loro potenziale. A dimostrazione, una Una buona occasione che innerva il Battisti dei Settanta con una bella carica di elettricità, una Alla fermata del 33 che ricorda il duo Baglioni-Bertè (anche nel timbro della voce) su un pianoforte che sembra preso in prestito da John Lennon, il Lucio Dalla di Provinciale, o magari una Carlo (Il passato è passato) che inizialmente sembra omaggiare la Fiori Rosa Fiori di Pesco del Lucio nazionale, per poi imbastardire in un funk in minore con certe elettriche che non sarebbero dispiaciute ai Pink Floyd di The Wall. L'autore, dalla sua, aggiunge una vena pop irresistibile e testi fiume tutt'altro che improvvisati, a comporre una formula che nonostante i rimandi continui, riesce a convincere più di quanto non avesse fatto nel disco precedente. Un album di ottima caratura con giusto qualche caduta di tono (Lavanderia a gettoni) che shakera cinquanta anni di canzone d'autore "seria" in un batter d'occhio. 7.1/10 divagazioni sul canovaccio e che ci lascia soddisfatti. 7.4/10 Stefano Pifferi Genere: pop, alt Vanno dritti per la loro strada, i Merchandise, forse pentendosi di ciò che è stato, forse, semplicemente, accarezzando volontariamente idee sonore diverse da quelle del precedente Total Nite. Al primo disco su 4AD, mantengono la promessa che il leader Carson Cox aveva annunciato tempo fa, e cioè quella di trasformarsi in una band pop. Ad un primo ascolto, la scelta pare non catalogabile, sia per lo stacco deciso rispetto al passato, sia per una volontà melodica che pare voler toccare più punti, troppi: dalla ballata alle venature synth pop, dalla melodia rurale degli Xtc altezza Grass al funk-soul di scuola Prince, fino a certi tratti epico-emozionali del miglior britpop. Eppure tutta quella che a un primo ascolto pare semplice dispersione, racchiude fili invisibili che tengono insieme più che degnamente un disco che abbandona le fascinazioni shoegaze per abbracciare un'idea di pop simile, ad esempio, all'ultimo War On Drugs, depurato dalle sfaccettature psych e più addentro alle questioni del pop inteso come "la melodia al centro". E' infatti la melodia la sovrastruttura di brani che fanno del mood malinconico la loro base di partenza. È musica attaccata, come referenze, sia al passato che al presente. Carson Cox e i suoi, infatti, non si fanno mancare nulla: in episodi come Green Lady (ottimo brano) paiono rifare a modo loro il verso proprio a Prince, soprattutto nell'incipit, ed è un indizio che ricompare anche in certi tratti di Telephone. In altri paiono, oltre a dei R.E.M. pastorali che s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Merchandise - After The End (4AD,2014) scoprono il vigore e la velocità di questi anni, degli Horrors senza la spinta cosmica-garage. Il cuore del disco è la bellissima Looking Glass Waltz, che parte quasi in medias res, con un organo celestiale e un incedere letargico, cori ovattati ma autentici sullo sfondo, e un suono trafitto dalle emozioni della possente voce di Cox e da una fisarmonica che impasta il suono di quelli che potrebbero essere degli U2 senza epica. Al di là dei singoli episodi, è più l'idea del volersi confrontare con un suono meno possente e più introspettivo. Pop da queste parti, dunque, non è una parolaccia da plasticosa classifica, ma roba seria e priva di sberleffi, pur non risultando mai torva. Fuori dalle secche di un post-punk fuori tempo massimo, la band regala melodie riflessive, nonostante alcuni momenti paiano sfociare nel facile (vedi Enemy, pezzo Suede senza glam e con molta disillusione), non perdendo comunque mai la retta via e continuando ad andare, appunto, dritta per la propria strada. 7/10 Andrea Macrì Mike Cooper - Trout Steel (Paradise Of Bachelors,2014) Genere: folk Chitarrista eclettico e dotato di tecnica sopraffina, Mike Cooper è stato uno dei nomi più luminosi del movimento folk sperimentale inglese degli anni Settanta, tanto da essere considerato dai chitarristi contemporanei – un nome su tutti: Keith Moliné dei Pere Ubu – alla stregua di un vero e proprio guru delle sei corde. Trout Steel – primo capitolo della trilogia avant composta a partire dal 1970 e che comprende Places I Know (1971) e The Machine Gun Co. with Mike Cooper (1972) – rientra nel programma di remaster dell'etichetta Paradise of Bachelors che, con un lavoro certo- 139 s e t t e m b r e Andrea Murgia 140 Moiré - Moiré – Shelter (Ninja Tune,2014) Genere: techno, elettronica Quando ad agosto dello scorso anno, ancora senza volto, emerse dalla nebbia del piccolo buzz cucitogli addosso dalla Werk Discs, Moiré si presentò con un mix per Fact catalogato dal popolare magazine come una raccolta per "night smokers and stargazers". Ora che Ninja Tune co-firma il suo debutto Shelter le carte sono scoperte, si conosce il suo volto e soprattutto c'è un sound umbratile e sporcato che ha chiari debiti con il sound dell'etichetta – e con il suo boss Actress – ma anche sufficienti gradi d'autonomia. Alla stregua di Ghettoville o Hazyville, di certi taglia e cuci vocali dello Zomby degli esordi, delle casse lente tagliate sugli snares di un Andy Stott chiarificato e delle produzioni sexy detroitiane di Jimmy Edgar e della sua Ultramajic, ritroviamo da queste parti una techno basale come house reinterpretata, però, secondo noti tepori e asfalti UK londinesi. Così, come da tradizioni e riferimenti contemporanei, abbiamo un equilibrato mix tra soul sottopelle e felpate casse rigorosamente in 4/4, con il producer che non vuole rivoluzionare alcun canone dando comunque in cambio una buona miscela e interpretazione. Due gli ospiti del lavoro: in Dali House c'è un seducente Bones, mentre in Rings un cadaverico Charlie Tappin, due facce della stessa medaglia, ovvero old school techno per flessioni funk spalmate su umbratili vocalizzi house. L'intro, Attitude, inoltre, ricorda certa anthemica sottotraccia di casa Four Tet / Caribou e, anche qui, il richiamo ai primi Novanta – Carl Craig in primis - è funzionale a una reinterpretazione ricca di dettagli e di stratificazioni chiaroscurali, dove gli snare luccicano nel buio e dove il groove equivale a qualcosa di avvol- r e c e n s i o n i sino durato ben due anni, è riuscita a ripulire le tracce originali e a ridonar loro il lustro che meritavano. Lavoro complesso e multisfaccettato, Trout Steel anticipa molte delle avanguardie che di lì a breve sarebbero esplose con il movimento psichedelico e prog, pescando dalla tradizione folk statunitense, destrutturandola e miscelandola – con risultati interessanti – con il jazz sperimentale della New Thing. Proprio attorno al free jazz Mike Cooper ha costruito amicizie importanti, andando a collaborare prima con Michael Chapman – session man con Sonny Sharrock e Pharoah Sanders – per poi avvicinarsi al free di estrazione europea, entrando a far parte della The Machine Gun Band di Peter Brötzmann, esponente di spicco del movimento Fluxus e, a tutt'oggi, ancora uno dei più attivi (le collaborazioni con Hamid Drake, Ken Vandermark e Mats Gustafsson sono frequenti e di assoluto valore) e grandi interpreti del genere. Parlare di Cooper solo come un dotatissimo chitarrista sarebbe, oltre che un delitto, del tutto fuorviante: la sua voce potente infatti si colloca a metà strada tra il Tim Buckley più sperimentale (I've Got Mine) e Graham Nash (la title track Trout Steel), tenendo a bada tecnicismi ma mirando al centro dell'obiettivo. Trout Steel, a distanza di ben quarantaquattro anni, suona ancora fresco e attualissimo, e questa riedizione estesa e rimasterizzata aiuta a mantenerlo giovane e appetibile per quelle generazioni che non hanno potuto, per motivi anagrafici, apprezzarlo all'uscita. Consigliatissimo. 7.5/10 gente eppur incerto, tentatore e traditore (No Gravity). Nessuna traccia killer, non è cercata né voluta; l'intero Shelter è, si può dire, un personale concept, un disco registrato perlopiù ai Synthesiser Studio di Amburgo con diverso materiale hardware che ha dato smalti e timbriche decisivi. Un lavoro da ascoltare a notte fonda composto da un producer lucido e preparato, il cui lato migliore sembra spendersi in lussuosi ambienti dove spazi e trame sono gestiti alla perfezione. 7.1/10 Edoardo Bridda Genere: grime Occhio a Moleskin, ragazzo dal doppio passaporto iraniano/inglese, già avvistato da Blackdown della Keysound (che lo ha intervistato l'anno scorso sul suo blog) e comproprietario assieme a due amici dell'etichetta Goon Club Allstar per la quale era uscito l'EP di debutto di MissingNo. Occhio non solo perché la sua carriera di producer l'ha inaugurata con un remix bombastico (e arabo) di Eskimo che rappresenta a tuttora la miglior ricontestualizzazione nu della mitologica Eskimo di Wiley, e neanche soltanto per la sua presenza in una compilation oramai altrettanto paradigmatica come This Is How We Roll, dove il Nostro ribalta l'approccio e spalma una marmellata di stelle e maliconia r'n'b (leggi randg). Occhio perché se una come Fatima Al Qadiri da un abbinamento semplice – ricontestualizzare la vaporwave in narrative grime strumentali – ha ottenuto un risultato superiore alle parti coinvolte, il Moleskin EP che sostanzialmente lo ricombina con il sound dei club americani di Baltimore e New Jersey rischia di innescare un processo similare. Conosciamo poco le scene locali americane, e s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Moleskin - Moleskin EP (Goon Club Allstars,2014) se le conosciamo la nostra esperienza è sicuramente condizionata della Mad Decent che con l'infornata trap e uk funky (vedi a questo proposito il primo Mumdance) aveva praticamente re-innervato tutto il comparto infilandoci tutto quel che poteva. Del resto per stessa ammissione di Felix Yoosefinejad, che ha vissuto a sua volta queste scene di riflesso, è l'intuizione quella che conta: combinare grime e Baltimore, ardkore britannico e New Jersey poteva venir bene. E così ecco queste 5 tracce. Adrenalina pura, ironia e creatività. L'incedere persiano grime, le sparate di bassi e i guizzanti campioni Baltimore di We Been Ready, lo uk funky di Clemency e Chain che si trasformano in una spremuta di eski e/o breakbeat in ping pong tamarro con il New Jersey, e poi Turnt On, in sorpresa/campione disco 70s, e Chips, entrambe con incastri ritmo/bassi che sembrano proseguire le intuizioni del Rashad di We On 1 ricontestualizzando il tutto su un discorso di pulsante eski. Diplo avrà già mobilitato i suoi. Vedremo se saranno altrettanto bravi come Moleskin. 7.3/10 Edoardo Bridda Moro - Home Pastorals (Gamma Pop,2014) Genere: pop, folk Dischi come questi, nei dintorni dei Duemila, li avremmo catalogati senza esitazioni sotto l'etichetta New Acoustic Movement; nell'Anno Domini 2014 Moro intitola il suo nuovo album Home Pastorals racchiudendo (involontariamente?) al suo interno non solo quello stesso immaginario, ma anche il materiale migliore di tutta la sua produzione. Un percorso artistico che non prova il colpo di teatro in questa terza fatica, essendo da sempre legato a un sentire folk con più di un punto di contatto con Albio- 141 s e t t e m b r e Fabrizio Zampighi My Brightest Diamond - None More Than You EP (Asthmatic Kitty Records,2014) Genere: rock, indie, folk None More Than You di My Brightest Dia- 142 mond, alias di Shara Worden, rappresenta bene le misture arty pop chamber dell'artista polistrumentista americana, che vanta, tra le altre, collaborazioni con Sufjan Stevens, Decemberists, David Byrne. Trattasi di cinque pezzi più o meno inediti esclusi dal nuovo album This Is My Hand in uscita l'11 settembre prossimo. L'opener Dreamin Awake (in origine un duetto registrato con Colin Stetson), qui in due versioni (Son Lux Mix e Jason Jar Mix), è una ninnananna che diventa elettronica nel primo mix e orchestrale nel secondo, e in entrambi i casi mette in risalto la voce potente e suadente di Shara. Whoever You Are è puro concentrato Kate Bush Ottanta, testi da Walt Whitman e ispirazione dai film di Matthew Barney, in cui la Worden ha recitato, cantato e collaborato alle musiche (Khu, The River Of Fundament). Dreams Don't Look Alike in origine era parte di una sonorizzazione live realizzata da Shara per il muto The Balloonatic di Buster Keaton, un suo tipico incedere pop; infine That Point When, inizialmente arrangiata per essere cantata con The Orchestra For The Next Century, è lirica e orchestrale, e conclude in modo sognante questo breve antipasto del disco che verrà. Le premesse sono ottime. 7.2/10 Teresa Greco Neil Young - A Letter Home (Third Man Records,2014) Genere: cantautori, country, folk Ancora lontano dalla pensione, Neil Young continua a essere un vulcano di sorprese. Pochissimo tempo fa la rockstar canadese promuoveva Pono, un innovativo lettore musicale portatile che permette di memorizzare un buon numero di album con una qualità audio superiore persino a quella del CD. E ora la stessa mano firma il disco che alcuni critici hanno r e c e n s i o n i ne e tutto il suo portato stilistico e musicale, ma riesce comunque a sintetizzare in maniera esemplare la propria poetica. Ad aprire le danze i saliscendi pentatonici e i battiti di mani di una City Pastoral che da sola ha i crismi del classico istantaneo, roba da loopare senza ritegno da qui alla fine dell'anno; il resto del programma è una gimkana curatissima e fondamentalmente acustica tra certi I'm Kloot velati da trasparenze acide e avvitati su un bel circuito melodico (You Deserve), una Blamelessness che sarebbe potuta uscire dalla penna dei primi Turin Brakes, i Beatles meno radiofonici immalinconiti Beach Boys (altezza Pet Sounds) di Down, una Golden che paga pegno a Nick Drake ma anche a certe cadenze di Vashti Bunyan, il Badly Drawn Boy scompigliato di Holy Darkness. C'è poi l'estrema delicatezza con cui Moro (e The Silent Revolution, ovvero Lorenzo Gasperoni, Francobeat, Denis Valentini, Paola Venturi, Elisa Piraccini), nei brani citati e in tutti gli altri, fa propri gli input stilistici, la naturalezza con cui li mette in fila, la grazia rispettosa ma non servile che riesce a tirar fuori dai circa 45 minuti di programma. Non è cosa da tutti far digerire (senza annoiare) suoni ormai istituzionalizzati e con cinque lustri sulle spalle, ma il musicista forlivese riesce nell'intento grazie a una sensibilità evidente e a una scrittura senza cedimenti. Un disco da ascoltare e riascoltare, che forse non cambierà le sorti della musica contemporanea, ma ha ben chiaro a cosa corrisponda, in musica, il concetto di "qualità". 7.1/10 r e c e n s i o n i zione, vediamo poi un Neil Young fatto solo di chitarra acustica, poco pianoforte e l'immancabile armonica, come in alcuni momenti chiave della sua produzione, e che ancora una volta conferma una vicinanza artistica alla folk music americana che difficilmente può deludere. C'è personalità nell'esecuzione di ogni brano, e a volte ci si dimentica persino che si tratti di una cover. D'altro canto però, il disco propone poco o niente che già non si conoscesse, e a così breve distanza da Americana, altro disco dedicato ai traditional a stelle e strisce, forse ci si poteva aspettare qualcosa in più. Se lì i rifacimenti erano avvalorati dal sound acido dei Crazy Horse, un'opera così minimale risente un po' di un certo vuoto contenutistico. In definitiva, i materiali sono molto buoni, così come lo è l'idea di confezionarli in una veste particolare e retrò, e il tocco di Young si può dire non sia mai banale. Manca forse un po' di ispirazione, che avrebbe potuto trasformare A Letter Home da un album per appassionati di Neil Young, o al limite di folk music, in una proposta cantautorale davvero coinvolgente. 7/10 s e t t e m b r e definito l'album "più low-fi mai prodotto da una major". Scatti, distorsioni del suono e un costante fruscio accompagnano le dodici cover di A Letter Home, album interamente acustico che ripercorre alcuni momenti chiave del cantautorato inglese e americano. Certo, confrontarsi con una musica incisa con un vecchissimo registratore amatoriale non è facilissimo nell'era dell'elettronica e dell'alta fedeltà, ma con questo gesto, Young sembra voler dire al suo pubblico che il viaggio nel passato è lungo e tortuoso per chi vuole affrontarlo, e che alcune forme musicali sono ormai documenti storici, ricoperti da un'indelebile patina di polvere. La scelta dei brani rivela infatti una certa minuzia e voglia di scavare a fondo: accanto a brani certamente più noti, tra cui sicuramente Girl from the North Country (Bob Dylan) e My Hometown (Bruce Springsteen), riscopriamo nomi come quello di Phil Ochs, le cui ballate sono state raccolte nel corpus di folk music dello Smithsonian, e di cui Young ci regala una bella versione di Changes, o quello di Tim Hardin, con Reason to Believe, o ancora il compatriota canadese Gordon Lightfoot, autore di If You Could Read My Mind. Tra gli aspetti migliori del disco, sicuramente i riferimenti, che tutti insieme formano una costellazione di artisti che devono aver avuto tanta parte nell'ispirazione di Neil Young (anche se molti dei brani di A Letter Home hanno visto la luce quando l'interprete era già piuttosto famoso). Piuttosto, in questi fruscii e in questo gracchiare sembra di rivedere la stessa bassa qualità delle storiche registrazioni dell'Anthology of American Folk Music, questa sì, un po' più anziana di Young e determinante per la sua produzione futura. Se vogliamo, dunque, A Letter Home si pone come una nuova antologia di autori ormai relegati a un passato lontano. Dal punto di vista dell'esecu- Eugenio Goria People - 3xaWoman (Telegraph Harp,2014) Genere: pop, art, wave Scegliendosi una sigla tanto generica quanto musicalmente specifica, i tre People hanno fatto una scelta di campo: quella cioè di spiazzare ad ogni passaggio pur rimanendo nell'ambito della normalità, essere la nota stonata ed extraordinaria nel mare magnum dell'ordinario e del quotidiano. Preparati da una discreta carriera pregressa sia dei singoli che del trio – un paio d'album alle spalle (l'omonimo esordio e Misbegotten Man) e un consenso crescente da parte della critica, pronta a cantare le lodi del trio anche per evidente rispetto del 143 s e t t e m b r e Stefano Pifferi 144 Perc and Truss - Two Hundred (EP) (Perc Trax,2014) Genere: industrial, techno, hardcoretechno Ultimamente le produzioni di Ali Wells aka Perc traggono particolare giovamento dalla frequentazione dei fratelli Russell. Ci è voluto Tessela (Ed Russell) per distillare sostanza e sudore da The Power and The Glory ("specchietto per le allodole" secondo E. Bridda), con il personale remix di Take Your Body Off. Ci vuole il fratello maggiore Tom, aka Truss, per scatenare il lato più istintivo e sanguigno del fondatore della Perc Trax, peraltro da sempre territorio di caccia privilegiato per chi è attratto dagli afrori techno più off (nel catalogo della label spiccano, oltre ai Nostri, nomi come Mondkopf e Forward Strategy Group). I due si conoscono da tempo e hanno già dimostrato di potersi completare l'un l'altro. Già con il precedente EP Spiker, pubblicato nell'agosto 2013 sempre per la Perc Trax, il "London brutalist dream team" aveva mostrato i muscoli e digrignato i denti, utilizzando la formula del "buona la prima" ripresa in questo nuovo 12″. E' proprio nella loro immediatezza che le quattro tracce di Two Hundred traggono forza persuasiva, andando oltre l'esercizio di stile. In diretta, senza pre né post produzioni, Perc and Truss fanno rombare i motori delle loro macchine analogiche su piste hardcore che da ormai da decenni collegano i Due Mondi: dalla European Body Music anni ottanta alla New York di Joey Beltram, dal filone belga R and S alle più recenti riprese Downwards, fino alle ultime evoluzioni L.I.E.S. dirette da Ron Morelli, brooklyniano ora di stanza a Parigi. Ed è proprio lo spirito di quest'ultimo che viene direttamente evocato nella traccia che dà il titolo all'EP: un violento crossover acid e noise, con un marziale kick drum saturato a 127 bpm, la 303 trattenuta, sample vocali incazzosi e altre sporcizie. Judd, con la sua malsana pro- r e c e n s i o n i background dei singoli – ci si accinge, dunque, all'ascolto di 3xaWoman con la consapevolezza di beccarsi un continuo di spigoli e curve a gomito, claudicanze e autismi sonori vari messi al servizio di una musica genericamente "pop", sia nel formato che nelle soluzioni. E invece questo terzo album comincia, guarda caso, spiazzando, con un piglio da ferale marching band che farebbe felici i vari Roy Paci sparsi per il globo e innamorati della musica da funerale: per inciso, Prolegomenon prevede il supporto fiatistico di Peter Evans, Sam Kulik e Dan Peck, a dimostrazione del ruolo del terzetto nell'underground avant e impro-jazz della Grande Mela. Così le già sbilenche sfumature arty del trio – l'interplay claudicante delle corde storte di Mary Halvorson (chitarra e voce) e di Kyle Forester (basso) e il drumming fluviale, ormai ben noto a chi traffica con l'underground newyorchese, di Kevin Shea (Talibam!, Mostly Other People Do The Killing e Storm and Stress dovrebbero bastare) – assumono nuove sfaccettature, gonfiandosi e arricchendosi di ulteriori screziature. I tre (più tre) collezionano in 3xaWoman – guardatevi le foto promozionali per rendervi conto di quanto sono bruciati – quattordici pezzi di follia art/avant-pop sfasata e ubriaca, con un terzo delle tracce condensato in piccoli schizzi sotto il minuto (il solo fiati di Zwichenspiel, il folk voce/chitarra di Reinterpreting Confusing Lyrics To Popular Songs, tra le altre) e il grosso affidato ad una sorprendente capacità di rendere semplice l'articolato e viceversa. Ennesima curva a gomito, ennesimo lavoro spiazzante ed ennesimo centro. 7.2/10 gressione on-the-run, va a scavare ancora più in profondità nelle radici kraut dell'industrial techno. In Forever Your Girl fanno capolino i synth mentasmici anni novanta da rave anthem olandesi (a proposito: si veda la recente esibizione del duo all'Awakenings Festival per avere conferma dell'impatto live di Perc and Truss nella patria della gabber…). La mordace Van Der Walk è la traccia più dritta e minimale, focalizzata a fare il maggior numero di prigionieri nel dancefloor. Quattro tracce e quattro punti esclamativi. L'EP è disponibile in pre-ascolto full su Bandcamp. 7.2/10 São Paulo Underground - Pharoah and The Underground – Spiral Mercury (Clean Feed,2014) Genere: jazz, freejazz Cercare di stare dietro a tutti i progetti e le uscite discografiche di Rob Mazurek diventa di giorno in giorno sempre più arduo. Eclettico e irrequieto, il cornettista di Chicago ha sviluppato una sensibilità musicale ed intellettuale senza pari che gli permette di leggere ed analizzare perfettamente il momento storico e musicale in cui vive, riuscendo ad essere sempre un passo avanti ai suoi "colleghi". Spiral Mercury, pur non essendo composto interamente da brani inediti, è la giusta sintesi del pensiero mazurekiano. Registrato durante l'edizione 2013 del festival portoghese Jazz Em Agosto,è la fusione di tre dei suoi progetti (Chicago Underground Duo, Saõ Paulo Undeground e Pulsar Quartet meno John Herndon dei Tortoise), con la partecipazione di un ospite d'eccezione: Pharoah Sanders. Sassofonista attivo dal '61, il faraone (titolo guadagnato durante la sua permanenza nella Arkestra di Sun Ra) ha legato il suo nome a musicisti cardine della New Thing, apparendo s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Alessandro Pogliani su dischi come Ascension e Meditations di John Coltrane e Symphony for Improvisers di Don Cherry. C'è una bella chimica tra Mazurek e Sanders (la prima collaborazione tra i due risale al 2010) e si sente sin dalle prime battute di Gna Toom, con i due che si cercano e si intrecciano creando positivissime tensioni, o nella title track Spiral Mercury, in cui Chad Taylor e Matthew Lux, rispettivamente batteria e basso, danno vita a una sezione ritmica di devastante concretezza. Molti i saliscendi emozionali in Spiral Mercury: si passa da momenti estremamente spigolosi (Pigeon) ad altri delicati e raffinati (Asasumamehn), senza perdere mai colpi o accusare stanchezza e cali di attenzione. Impeccabile. Rob Mazurek non sbaglia più un colpo e lo dimostra la pletora di uscite di altissimo livello degli ultimi anni, dai Pulsar Quartet ai Chicago Undeground, passando per Saõ Paulo e Exploding Star Orchestra. Cosa ci regalerà la prossima volta? A noi non rimane che aspettare, con la convinzione che se continuerà ad attorniarsi di musicisti e artisti di questo livello, non ci sarà da preoccuparsi. 7.2/10 Andrea Murgia Plasma Expander - Otra Vez (Wallace Records,2014) Genere: avant, noise, kraut, math-rock Continua per gemmazione la discografia dei sardi Plasma Expander. Come Live3 era una versione rivista e ripensata – catturata ovviamente in sede live – di alcune tracce presenti in Cube, questo Otra Vez – che (ri)prende il nome proprio dalla traccia conclusiva del lavoro precedente (anche qui presente in chiosa) – è la sua elaborazione condivisa da parte di spiriti affini ai tre Plasma. Spiriti affini piuttosto vari, a giudicare da curri- 145 Stefano Pifferi Rustie - Green Language (Warp Records,2014) Genere: elettronica Piacciano o no, l'esordio di Rustie Glass Swords e Cosmogramma di Flying Lotus, sono due album fondamenali e ineludibili per gli anni '10. Hanno marchiato a fuoco una nuova fase anche sociologica nel fare e intendere la musica digitale, invertito la polarità rispetto ad anni di musica elettronica scura e minimale, e magnificato, attraverso un giocoso massimalismo, il concetto di retromania, costruendo sopra a una serie di ritmi radicati nell'hip hop (e non solo) un dedalo infinito di rimandi a epoche, generi e stili della storia della musica del '900. Per il debutto del timido Russell Whyte da Glasgow, in particolare, sono stati spesi fiumi di inchiostro, attivati potenti paralleli (primo tra tutti quello con il Discovery dei Daft Punk), mobilitate molteplici indagini prospettiche e contestuali e, non ultimo, evidenziato quando, 146 dagli esordi nel 2007 all'allora 2011, il ragazzo avesse portato avanti un suo modo di fare le cose, ben contestualizzabile all'interno di ampi movimenti elettronici (vedi il wonky, il boom bap, i continuum britannici) ma ascrivibile a signature unica, ovvero a una musica giovane e colorata, complessa nei rimandi ma perfettamente melodica nello svolgimento. Una discoteca liquida fatta tanto di prog e fusion quanto di hip hop, grime, r'n'b e di tutto quello che vi può passar per la mente ripensando agli ultimi 10 anni. Apparentemente, riuscire a dare un seguito a un caso discografico del genere non dev'esser stata impresa facile, per uno come Rustie, perennemente attaccato al laptop e sporadicamente allacciato alla rete, se non per scambiarsi .wav con colleghi musicisti. E' bastato calibrare la rotta, tornare ad abitare a Glasgow per stare vicino alla famiglia e amici e puntare all'essenza delle cose. Rispetto a Hudson Mohawke e Lunice, che hanno progressivamente affinato le proprie armi avendo sempre il dancefloor come controparte, il glaswegiano vive da sempre la musica come un'esperienza totalizzante: da una parte c'è l'estasi sensoriale, dall'altra la passione per l'hip hop, due aspetti che possono coesistere o procedere separati. Abbiamo così un album non sconvolgente – non poteva esserlo – piuttosto un lavoro ispirato negli stumentali, generalmente più distesi e trasognati, persino minimalisti, debordante in due dei tre brani rappati (Attak, la bomba trap con il solito affabulante e gracchiante Danny Brown, Up Down con un D Double E, molto simile a Brown, conosciuto ai tempi di My Space, la pacata He Hate Me con il duo Gorgeous Children), e non indispensabile, ma comunque generoso, nei tagli più morbidi in area r'n'b (vedi la Lost con il nuovo divo LuckyMe Redinho e Dream On con un'altra ospite non accreditata, il brano più debole). r e c e n s i o n i s e t t e m b r e culum e discografie, tanto che è facile pensare che le musiche dei Plasma siano in grado di travalicare i confini di genere – math? noise? kraut? kosmische? – per approdare su lande minimal-techno (il Pulse Remix di Claudio PRC), avant-rock (Zeno Remix a firma Mattia Coletti), avant-noise tribale (l'Oneida Remix di Barry London), techno-industrial (il lavoro di Simon Balestrazzi in Alpha Centauri Remodel) o finendo col far emergere l'anima più chitarrista insita nelle origini della band (il Fuzz Remix opera di Luca Ciffo della Fuzz Orchestra). Un frullatone, insomma, che declina la stessa canzone sotto gli infiniti punti di vista offerti dai molteplici input che la formano. Varietà e omogeneità, in una battuta. 6.5/10 Certo, non mancano neppure gli agganci alla palette di colori del passato a partire da Raptor, accecante "laserata" tecnicolor su canvas in 4/4, e Velcro, dove, a partire da un crescendo riconoscibilissimo, la citazione ai Daft Punk è più evidente che mai. Sorprende, e ci piace parecchio, il parallelo che si può tracciare in Paradise Stone con il minimalismo in area Tortoise/ Reich come quello con certa folkronica onirica nel brano omomimo. Tirando le somme, un lavoro più che buono. 7.2/10 Edoardo Bridda Genere: psych, garagerock, beat Trio da Mola ad alta gradazione psych i Santa Muerte, chitarra-basso-batteria (nell'ordine che preferite) ad intrecciare trame aspre e desertiche su cui la voce ricama graffiti aciderrimi. In casi del genere – repetita juvant – non è l'originalità il punto quanto semmai il punto di fusione tra attitudine e flagranza, la capacità di schiaffare nel presente elementi d'immaginario pescati dal pozzo degli archetipi, scorie e sporcizia incluse. C'è da dire che per essere esordienti, i Nostri hanno il tiro ben tornito e un sound strutturato, soprattutto sono bravi a non lasciare che la foga prevarichi sulla padronanza. Questo Age Of Sorrow EP si consuma quindi tra farneticazioni nervose 13th Floor Elevator avariate surf (Mountains) e tumulti beat carburati di peyote Count Five (Ten Arrows), facendo balenare en passant deliranti spiritelli Floyd che cavalcano la corrente spazio/tempo fino a certe vampe Fuzztones, per allungarsi addirittura dalle parti del britpop lisergico anni '90. Alle quattro tracce in scaletta si aggiunge come bonus track una interessante Machine Gun che rimaglia arpeggi ipnotici e riffone di- Stefano Solventi Spoon - They Want My Soul (Loma Vista,2014) Genere: rock, art A quattro anni dall'ultimo disco – passati a curare progetti alternativi (Britt Daniel ha collaborato con i Divine Fits) o attività collaterali (Jim Eno ha lavorato come produttore artistico) – gli Spoon tornano con un disco "spoonish" fino al midollo. Quando si parla della band di Austin, infatti, il punto centrale del discorso è sempre lo stesso, e riguarda il perfezionismo che la caratterizza quando entra in sala di ripresa: il chiacchieratissimo Ga Ga Ga Ga Ga era un sunto di buone canzoni e tricks da studio di registrazione, talmente efficaci da spedire la formazione ai piani alti della discografia indiepiùqualcosa e da fossilizzarne la personalità musicale nell'immaginario comune; il successivo Transference mostrava invece come la produzione dei Nostri, anche asciugata da tutta la sovrastruttura e dagli orpelli, fosse capace di reggersi bene sulle proprie gambe (se non di spiccare ancora di più), pur non convincendo a tutte le latitudini. They Want My Soul ripropone il solito dilemma: meglio gli Spoon "ingrassati" a suon di effetti, overdub e echoes o meglio quelli più elementari? Difficile rispondere. Certo è che il Dave Fridmann coinvolto nella produzione del disco dà più di un indizio sulla direzione intrapresa da alcuni dei dieci brani in scaletta, anche se aspettarsi dagli Spoon sbandate flaminglipsiane (visti i trascorsi di Fridmann) s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Santa Muerte - Age Of Sorrow EP (Mia Cameretta,2014) storto tra ululati hard vorticosi come ti aspetti da gente che la sa lunga. Tra strattonate festaiole e derapage minacciosi, il totale del programma non raggiunge neanche il quarto d'ora, però è di quelli che a fine giornata ricordi con piacere. 6.9/10 147 s e t t e m b r e 148 Fabrizio Zampighi Anna Calvi - Strange Weather (Domino,2014) Genere: rock Non è passato neppure un anno dall'acclamato One Breath, il suo secondo album, che già ritroviamo Anna Calvi ancora sulla scena con un nuovo lavoro: per la precisione, un EP di cinque brani, intitolato Strange Weather, a cui partecipa anche David Byrne. Oltre alla presenza dell'ex leader dei Talking Heads – ormai votato a mentore delle migliori interpreti femminili degli ultimi anni -, un altro tratto saliente di Strange Weather è il suo essere nientemeno che una raccolta di cover. Un esperimento che, a quanto pare, sarebbe nato su iniziativa dello stesso Byrne, il cui compito è stato quello di suggerire alla Calvi le canzoni più adatte alle sue corde. Una collaborazione che si è concretizzata in una scelta eclettica e affatto banale, oltre che nel contributo vocale in due brani. Così, Strange Weather funziona meravigliosamente per quello che è, senza tradire le attese generate dall'alto livello raggiunto dall'autrice: in altre parole, pur ammettendo tutto il divertimento e la curiosità create dal cimentarsi con un repertorio particolare e distante da lei (figurano, tra gli altri, FKA Twigs e Suicide), la qualità e l'impegno sono gli stessi dei due album solisti precedenti. Grazie a interpretazioni riflessive e intense, più vicine a One Breath che all'impeto rock dell'esordio, i pezzi mettono in primo piano la voce, con la ricchezza degli arrangiamenti addomesticata in favore di un ruolo di cantante di alto livello. Papi Pacify (della già citata FKA Twigs), ad esempio, diventa una murder ballad oscura e spettrale, ma in grado di riprendere e riprodurre in maniera brillante la stessa sensualità strisciante della versione originale. Interpretazioni in grado non soltanto di reggere il con- r e c e n s i o n i sarebbe quantomeno poco realistico. Il contributo del produttore (qui in co-abitazione con un Joe Chiccarelli già al lavoro con gli Strokes e tutt'altro che marginale) lo si evince più da qualche synth onirico piazzato in punti strategici (Inside Out), da certe chitarre tremolanti (Rainy Taxi) e da un mix decisamente compresso e "in primo piano", più che da una vena sperimentale e psichedelica aliena. Insomma, niente di destabilizzante, anche se le dinamiche nate in studio tra gruppo e produttore devono essere state qualcosa di intrigante, viste certe dichiarazioni dei musicisti reperibili in rete (Jim Eno a NPR: "[il nostro rapporto con Fridmann] potrebbe essere sintetizzato in questi termini: 'pensi che questo suono sia troppo distorto?' Lui risponderebbe: 'sono la persona sbagliata a cui chiederlo'"). Nonostante le premesse, l'ottavo disco del gruppo americano è un album à la Spoon in tutto e per tutto, senza grossi rischi e senza impennate verso estremismi sonori di sorta. C'è il solito groove impeccabile – a titolo di esempio, valga il giro di basso che ammicca al testo base Gimme Some Lovin' in Rainy Taxi – e c'è quel soul bianco e ruvido da sempre tratto distintivo della voce di Daniel (la cover quasi coraliania/ lennoniana – non a caso ripresa anche dai Beatles – della I Jus't Don't Understand cantata in origine da Ann Margret è esemplare, in questo senso), ma soprattutto c'è una scrittura che non è mai meno che buona. Certo, rimane l'impressione che la band abbia concesso non poco alle aspettative di pubblico, radio e certa critica – piattezze Libertines/Strokes come Do You o They Want My Soul lasciano il tempo che trovano – barattando l'immediatezza ricercata dell'episodio precedente con un suono paradossalmente più rassicurante e riconoscibile. Nulla di scandaloso, per un disco che funziona pur senza stupire. 6.9/10 r e c e n s i o n i Giulia Antelli Sudden Infant - Wölfli's Nightmare (Voodoo Rhythm,2014) Genere: industrial, noise, blues Tutta l'iconoclastia e il disagio degli Swans condensati in un uomo solo. Potremmo esordire così per recensire questo Wölfli's Nightmare, ma saremmo intellettualmente disonesti, poiché questo è in effetti il primo lavoro in un quarto di secolo in cui mr. Sudden Infant, aka lo svizzero Joke Lanz – trapanatore di cervelli, perforatore di padiglioni auricolari ed eccessivo sound artist e performer, col suo noise di matrice industrial – si fa accompagnare da una band al completo. Anzi, è proprio la sigla Sudden Infant a essere diventata una band e non più un progetto solista, con l'ingresso post-registrazione di Christian Weber al basso e Alexandre Babel alla batteria. Quello che il trio mette in scena in questo ottimo lavoro ispirato agli incubi del pittore art brut Adolf Wölfli è un guazzabuglio nero pece di industrial minimal blues for the iron youth, giusto per parafrasare altri personaggi ambigui d'area (grossomodo) grigia, con tracce che si muovono con la delicatezza dei citati Swans in una cristalleria blues (la title track o Hold Me – Prawn Version), come ipotesi di Birthday Party nativi di Sheffield e sommersi da colate di cemento (l'ossessiva Endless Night) o come dei Cramps cresciuti a pane e Einstürzende Neubauten (la rendition di Human Fly toglie ogni dubbio sul cortocircuito tra r'n'r sguaiato e cataclismi noise), non dimenticando la stramberia irriverente e quasi dada (la sinfonia cameristico-dadaista di Kiss) che ha sempre contraddistinto la sigla, ma aggiungendovi grosse infiltrazioni di industrial-rock e noise 90s (vedi alla voce Girl) che non guasta affatto, anzi. Non è un caso, insomma, per chiudere il cerchio, che a produrre il tutto sia quel Roli Mosimann che spesso è stato rintracciato tra i credits non solo della band di Michael Gira (di cui fu anche batterista), ma anche di grossa fetta dei più disturbanti musicisti da un trentennio in qua, e che il marchio sia quello della svizzera Voodoo Rhythm, garanzia di weirdness e di una via personale, eclettica e rumorosissima al blues. 7.2/10 s e t t e m b r e fronto con i classici originali – a questo proposito, impossibile non citare la solenne maestria di Lady Grinning Soul di David Bowie -, ma soprattutto di creare atmosfere nuove con grande classe ed eleganza, senza tuttavia concedersi un grammo di auto-compiacenza. Colpisce anzi la timida riverenza che la bella Anna sembra dedicare ad ogni traccia, a voler omaggiare ogni artista presente nella selezione: lo dimostra al meglio la title-track, brano della singer/songwriter israeliana Keren Ann eseguito insieme a Byrne. Sintesi di un talento poliedrico e in continuo mutamento, Strange Weather ci consegna l'immagine di una musicista matura e consapevole dei propri mezzi, ma ancora curiosa di tentare soluzioni originali e di esplorare nuovi spazi sonori. 7.2/10 Stefano Pifferi Tessela - Rough 2 (R and S Records,2014) Genere: techno, jungledrumnbass Finora il 2014 per Ed Russell aka Tessela è stato anno di raccolta dopo aver seminato e fatto crescere nelle stagioni precedenti rigogliose piante sul terreno breakbeat, con una proposta che non ha mai nascosto i riferimenti alla rave techno anni Novanta inglese e che, giusta al momento giusto, ha sfruttato il generoso humus jungle e la scia di fertilizzanti false memo- 149 s e t t e m b r e 150 la jungle "rave-vivaleggiante" di Nancy's Pantry, dall'altro ne estremizza il coté noisy e fai-da-te. Nella title track c'è subito esibizione di grande personalità, con il breakbeat che chiama a raccolta, multilayer di hi-hat affilati e smanettamenti di synth retrofuturisti. Butchwax gioca in pieno territorio morelliano, con un approccio industrial più realista del re, sporco e immediato, che sarà apprezzato nei peggiori dancefloor (di Caracas). C'mon, Let's Slow Dance è esperimento più estremo: i bpm si dimezzano, i crescendo rumoristi non si sfogano mai ma rimangono sospesi, tra progressive bordate di synth e handclap distorti, per una costruzione tanto precisa quanto cattiva. Bye bye jungle? 7.2/10 Alessandro Pogliani The Black Angels - Clear Lake Forest (Blue Horizon Records,2014) Genere: rock, psych, hardrock, garagerock Magari è ancora presto per dire se per i Black Angels si è definitivamente chiuso un ciclo, quello che corrisponde alla fase ascendente della loro parabola creativa. Di certo l'eccellenza di Phosphene Dream (2010) è ancora lontana. Se con il precedente lavoro Alex Maas e soci avevano perso in monoliticità per abbracciare un ventaglio di influenze più ampio e variopinto, Clear Lake Forest prosegue sulla solita direttrice compiendo però due aggiustamenti di tiro che lo rendono superiore. Tanto per cominciare azzarda escursioni in anfratti ancora inesplorati dell'immaginario 60s. Non sempre riuscite, va detto. Se il ritmo sincopato di An Occurrence At 4507 South Third Street occhieggia agli esperimenti pre kraut dei Silver Apples e The Executioner suona come una versione space doom dei primi Pink Floyd, il finale velvetiano di Linda's Gone non è né più e né meno che una calligrafica interpretazione di European Son. Un po' poco per chi, in passato ha saputo imporre il r e c e n s i o n i ries e slow/fast sound. I due EP fatti uscire nel 2013 (le energiche staffilate Hackney Parrot, primo e finora unico prodotto in catalogo della sua nuova label Poly Kicks, e Nancy's Pantry, esordio per la R and S, l'etichetta belga che dal 1984, con il glorioso payoff "In order to dance", è parte della storia dell'elettronica – vedi ad esempio alla voce Aphex Twin) hanno contribuito a mettere Tessela sotto i riflettori dell'hype, fino ad aprirgli le porte della residency BBC Radio 1, che lo trova inserito in un palinsesto di nomi come James Blake e SOHN, ma anche Steve Angello e Martin Garrix. A compulsare le tracklist delle quattro puntate di un'ora ciascuna condotte da febbraio a maggio dal ventiquattrenne Russell si trovano i principali riferimenti bibliografici dell'enciclopedia tesseliana: c'è Pearson Sound e la sua Hessle Audio, c'è Special Request, ma anche Untold e Perc (per il quale Tessela ha realizzato in aprile un ottimo e personale remix di Take Your Body Off ), c'è un remix inedito del fratello maggiore Truss (con il quale a gennaio ha incrociato i piatti in un godibile back-to-back firmato Boiler Room), ci sono tanti rimandi alla scena di Bristol (Peverelist, Asusu), fa capolino anche Andy Stott (insieme Miles Whittaker, come Millie and Andrea), ma spiccano le tante manifestazioni di stima per due etichette all'estetica lo-fi delle quali il Nostro sta facendo sempre più riferimento, The Trilogy Tapes (in particolare le recenti release di A Made Up Sound e Minor Science) e (soprattutto) L.I.E.S. Records. Ed effettivamente se Rough 2 fosse stato pubblicato dalla label di Ron Morelli invece che dall'etichetta belga dal cavallino rampante non si sarebbe alzato alcun sopracciglio. L'EP da un lato prosegue sulla strada dei due precedenti, riprendendo lo stop and go dell'amen break interructus di Hackney Parrot /Helter Skelter e proprio marchio con forte personalità. Il peggio arriva con l'organo didascalico che trasforma The Flop, nel brano più scolastico firmato dai Black Angels. L'altro aggiustamento riguarda la qualità della produzione. E qui le cose vanno decisamente meglio. Quella di Indigo Meadow era un'alta fedeltà che rendeva il sound della band sin troppo lucido e affettato. Il mid-fi di Tired Eyes e Diamond Eyes si sposa con alcuni dei loro temi più melodici e dinamici di sempre. La band si stacca dai toni dark per inanellare due gioiellini jangle psichedelici, affini per potenza ed eleganza alle pagine migliori degli Screaming Trees, e in virtù dei quali è possibile coltivare speranze riguardo ad un soddisfacente proseguo artistico dell'esperienza Black Angels. 6.7/10 The Bug - Angels and Devils (Ninja Tune,2014) Genere: elettronica, grime Ben accolto dalla stampa internazionale (disco del mese per "Mojo"), il nuovo album di Kevin Martin a nome The Bug, progetto che dal 2008 – dall'exploit di London Zoo – si è misurato sulla distanza del singolo e dell'EP, conferma l'impressione suggerita dalle ultime prove, ovvero la fusione in un unico corpo degli assalti grime caratteristici del progetto e dei "velluti su macerie urbane" dei King Midas Sound (il progetto dub/soul messo in piedi nel 2009 assieme al poeta Roger Robinson e alla compagna, ora madre di suo figlio, Kiki Hitomi). Martin ha voglia di fare sintesi e, se dal vivo continua a tendere timpani e plessi solari ai limiti, pretendendo sempre e comunque un impianto da sonic warfare, qualsiasi sia il vocalist con cui si accompagna (lo abbiamo visto con Robinson il 14 dicembre 2013 a Milano), qui presenta una urban in toni di grigio, atmosferica e trattenuta anche negli episodi più "rap- s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Diego Ballani pusi" o screziati di retrogusti industriali (per esempio, la conclusiva Dirty, con Killa P e il fido Flowdan). Scheletriche strutture ritmiche si fanno strada tra sfrigolii e crepitii da contatore Geiger, cinte da pulsanti bassi post-punk, a costruire brani austeri e asciutti volàno perfetto per i remix che seguiranno. Gusto, expertise e qualità sono fuori discussione (bastino la intro Void, con i suffumigi vocali di Liz Harris/Grouper; un riempitivo di lusso come Pandi, tra incenso, Penderecki e Vangelis; e un luccicante monolite spoken grime come Fat Mac), alcuni numeri prendono subito e tanto (Fall, con Inga Copeland, singolo non a caso) e gli ospiti sono perfettamente mimetici nel mondo di Martin (su tutti Gonjasufi in Save Me, praticamente un apocrifo King Midas, se Robinson in persona ci ha confermato che Sumach "è come un fratello proveniente da un altro pianeta"). Ma in generale non ci si strappa i capelli e la tensione dell'attacco scema con la seconda metà del disco, che soffre un po' troppo di stanchezza da routine grime, per quanto d'autore e di classe. 6.8/10 Gabriele Marino The Raveonettes - Pe'Ahi (Self Released,2014) Genere: rock Con una mossa che potremmo definire bowiana (ma anche beyoncéiana), ovvero senza annunci, anteprime o altro, i Raveonettes pubblicano il loro settimo album. Il comunicato stampa parla di un ritorno alle origini, probabilmente riferendosi ai passaggi verso il vintage di Pretty In Black (2005) e a quelli verso il dream-pop di Raven In The Grave (2011). In realtà è già dallo scorso Observator che i Nostri hanno invertito la rotta e, pur mantenendo le vocalità eteree, le hanno semplicemente aggiunte alla palette stilistica disponibi- 151 s e t t e m b r e Giulio Pasquali piede a Berlino e uno ad Amsterdam. Sul suo sito si legge che "riflessi, vibrazioni infrasonore, otoemissioni acustiche" sono sua materia d'indagine da più di 10 anni a questa parte. Nel suo caso, tuttavia, ciò che il Serge per le sue qualità indaga viene spesso sottoposto a sforzi ulteriori, forzature del suono come tagli netti sui segnali proprio per ottenere oscillazioni composte su piedistalli elettroacustici. Con un pedigree che vanta split importanti (Jim O'Rourke, Phill Niblock) e live degni di nota (Utrecht nel 2010 è prova lampante che la sua proposta non perde filigrana se esposta al sole), in questo suo ultimo lavoro edito per Touch Ankersmit allinea intuizioni coraggiose che non sempre convincono al 100%, ma lasciano comunque un'idea abbastanza netta del tutto. Ad esempio, Se si volesse prescindere dal senso ottico affidandosi esclusivamente all'udito, allora questo Figueroa Terrace riuscirebbe a suggestionare, sia per le dinamiche fantasmatiche, che per i passaggi di colore da musique concrète, anche chi si affida solo al tatto. Il Serge aiuta ad allineare pieni analogici, febbricitanti e concitati, a vuoti mai immobili su un medesimo punto. Il glitch diventa un collaudo meccanico di parti che fanno il paio fra risultati e volontà. Rimangono da illuminare alcuni punti che pur impeccabili nella forma, provocano più di uno sbadiglio nella sostanza, repliche di drones e nubi di suoni "lunghi" che ripercorrono tappe già vissute dalle parti di un Oren Ambarchi meno ipnotico. 6.5/10 Christian Panzano Thomas Ankersmit - Figueroa Terrace (Touch Records,2014) Genere: elettroacustica Virtuso del Serge, sintetizzatore modulare brevettato nei primi anni settanta dal compositore russo statunitense Serge Tcherepnin, Thomas Ankersmit è un musicista olandese con un 152 To Rococo Rot - Instrument (City Slang,2014) Genere: post-rock, kraut Proseguendo lungo i binari di Speculation, album che aveva messo in atto una a lungo posticipata strategia organica basata sull'utiliz- r e c e n s i o n i le, già ampiamente analizzata in occasione dei dischi precedenti: i Jesus and Mary Chain, un po' di MBV, retaggi Lee Hazelwood (Wake Me Up parte come la cover di Bang Bang dell'Equipe 84) ma anche '50s (l'innocenza di The Rains of May), un po' di breakbeat umanizzati dal resto con risultati baggy (la notevole Killer In The Streets) o mescolati al noise con risultati mid-90s in Kill! (dalle parti dei Senser) e la generale aria psych-pop. Surf pochino, nonostante i due Raveonettes vivano in California e nonostante il titolo del disco richiami una spiaggia hawaiana: ma essendo quella in cui Sune ha rischiato di annegare, va da sé che le armonie dei Beach Boys sì, lo spirito e l'allegria un po' meno, benché il disco sia frizzante come al solito. A questi elementi i due sostengono di averne aggiunti altri, quali gli staccato di chitarra e strutture compositive complesse, che in effetti si sentono in When Night Is Almost Done (e c'è anche una reminescenza Doors, la batteria che apre il disco da sola è praticamente quella di Break On Through). Ne risulta la conferma di uno stile consolidato da tempo, che nelle dieci canzoni, per poco più di mezz'ora, dispiega le sue possibilità con buona ispirazione. Non sarà il capolavoro di cui un po' di tempo fa lamentavamo l'assenza dalla discografia della band, ma non è nemmeno il caso di dare troppo per scontati dischi di carattere e fluidità come questo. 7/10 r e c e n s i o n i tro (suonata da/à la Arto). Da segnalare anche Pro Model, tra febbrili krautismi e una sintetica in punta di acid. 6.8/10 Edoardo Bridda Tom Petty and The Heartbreakers Hypnotic Eye (Reprise,2014) Genere: rock Lo ammetto: quando mi hanno proposto di recensire questo disco, sulle prime ho storto il naso. Non perché abbia nulla contro il caro Tom Petty, ma perché, per tutta una serie di motivi – soprattutto, l'impressione di avere a che fare con ere musicali troppo distanti dalla mia, e, in secondo luogo, una certa avversione per i dinosauri della chitarra degli anni '70 -, credevo che mi sarei trovata di fronte all'ennesimo ritorno di un personaggio dalla carriera discografica infinita (e perciò, difficilmente riassumibile), rimasto per molto tempo all'ombra di altri grandi (Dylan, Reed, Young). Insomma, mi chiedevo se ci fosse stato bisogno di un disco come Hypnotic Eye, e, per me, la risposta era tutt'altro che positiva. Ebbene, sbagliavo. Tom Petty e i suoi Heartbreakers hanno confezionato un lavoro – a quattro anni di distanza dalle profondità blues di Mojo – solido e corposo, che non deluderà né i (molti) seguaci di Petty, né gli amanti del genere immortale per eccellenza, ovvero il rock. Parliamo di un rock classico al cento per cento, puro, prodotto in maniera efficace da un musicista che fa parte direttamente di quell'Olimpo. Le canzoni, a cominciar dal rombo grintoso dell'opening American Dream Plan B, sono un "commento alla disillusione che c'è in America", sintetizzato dai versi amari del testo ("American dream, political scheme/ I'm gonna find out for myself someday"), ma anche un tributo sincero e vitale al rock and roll. L'intenzione della band era infatti quella di s e t t e m b r e zo di un tradizionale impianto rock integrato con macchine analogiche, il trio To Rococo Rot torna con un nuovo lavoro che rappresenta l'ennesimo, adulto, tentativo di azzeramento e ripartenza. Stefan Schneider (synth) e fratelli Robert (chitarra) e Ronald Lippok (batteria, effetti) conoscono bene la proprie posizioni e i propri limiti: sostanzialmente il progetto si è sempre basato sull'incastro e la sperimentazione di nuove soluzioni, ma è anche vero che quel mix di post-rock, kraut, techno, dub e sound design messo a punto in album indimenticabili come An Amateur View e prima Veiculo, rivive qui alle stesse condizioni, con la differenza di un taglio più psichedelico e un approccio più fisico e diretto. In Instrument non c'è nulla che avvicinerà nuovi fan alla band, eppure, grazie ai tre cameo di Arto Lindsay, fan di lunga data del gruppo la cui voce aggiunge un tocco d'etereo pop a tre episodi (Many Descriptions, Classify e The Longest Escalator in the World), il qui presente è un disco coerente e riuscito, per nulla trincerato dietro all'inedito inserto del cantato. Il taglio è psych si diceva, ottenuto con l'"unique handmade minimalism" della casa, per ripetere le parole di Robert Lippok, una mossa che si traduce in un riavvolgimento verso i laboratori chicagoani di sempre senza forzature o nostalgie. Dopo ABC, l'ultima prova dei Kreidler, in cui Schneider militava, Instrument è un altro buon e possibile disco kraut per gli anni '10, da non sottovalutare o interpretare diversamente da quello che è: un'appassionate jam session che ti trasporta a mezz'aria coinvolgendoti con garbo e passione per una trentina di minuti, regalandoti sul finale una splendida Longest Escalator in the World, brano degno del miglior David Grubbs con il canto a picco di Lindsay, un drone immortale e la chitarra noisey di ve- 153 s e t t e m b r e Giulia Antelli Trans AM - Volume X (Thrill Jockey,2014) Genere: kraut Ruderi di colonne con foglie di acanto sui capitelli, sullo sfondo un cielo minaccioso: già dalla copertina, il decimo disco del trio Nathan Means-Philip Manley-Sebastian Thomson vuole essere un compendio di un determinato suono (quello che un tempo si definiva postrock) e della stessa band. È un'immagine che, assieme ai suoni che porta dentro/dietro, urla: 154 "Noi siamo qui, magari invecchiati, mentre attorno s'avvicina l'inferno". Registrato in tre anni incastrando gli impegni dei componenti, Volume X si presenta sicuramente come un disco che ha dalla sua la voglia di non crogiolarsi nel manierismo, proprio per non cedere a quell'inferno. Ovvio, sono pur sempre i Trans Am, quindi si sa già cosa aspettarsi: un ventaglio sonoro vasto, ogni pezzo dalle coordinate completamente diverse da quello che lo ha preceduto, scarsa omogeneità di fondo. Ma questo quadro disgregato è ormai diventato il loro marchio di fabbrica: un elemento tipico che paradossalmente rende coerente la loro carriera, come una linea che unisce i punti, dove i punti sono i dischi. Sulla base di queste premesse, per il disco sono arrivate stroncature che paiono ingiustificate: questi sono i Trans Am, prendere o lasciare, soprattutto vista la lunghezza della loro carriera. Meglio magari concentrarsi su ciò che davvero conta: la scrittura, la brillantezza degli arrangiamenti, il modo in cui ogni pezzo riesce o meno a dare spunti alle orecchie. E da questo punto, per chi scrive, Volume X fa il suo dovere. Il biglietto da visita è la bella Anthropocene: un pezzo doom, area Sleep, ma con una componente meno psichedelica e dura e più angelica (e no, non siamo dalle chiesastiche parti degli Om, nonostante l'organo faccia di tanto in tanto una comparsa). Pubblicato ovviamente dalla compagna di sempre Thrill Jockey, la scaletta propone all'ascoltatore, da qui in poi, suoni disparati: Nightshift, ad esempio, è quella del lotto con più motorik sound in corpo, dove però il ritmo non prende mai la tangente per via di un minutaggio breve, pur restando coinvolgente per il buon lavoro sui timbri che rendono il groove affascinante. Ci sono i vocoder, ma non hanno la preminenza che avevano avuto in Thing, e si infilano in momenti di synthpop che, r e c e n s i o n i registrare un album che fosse "rock dall'inizio alla fine", e l'obiettivo è andato a segno, con brani che spaziano dall'irruenza sixties/garage (Fault Lines) a veri e propri anthem perfetti per le radio (All You Can Carry). Ma troviamo anche buoni episodi di artigianato pop, come dimostra il languido incedere di Full Grown Boy – piano sofisticato e risvolti jazzati ben almagamati con la voce nasale di Petty, ancora in grado (a 63 anni) di saper dosare in modo originale stili e intonazioni – e brume bluesy, ad esempio in Burn Out Town: old blues d'annata, classico e tradizionale senza essere polveroso, un viaggio a ritroso immersi nella nostalgia dei sentieri d'America, a confermare la classe del musicista nel saper giocare con le epoche, muovendosi indietro e avanti nel tempo senza cadere in una retromania dolciastra e consumata. In altre parole, ritroviamo i medesimi trasporto e calore delle altre prove, nonché una figura leggendaria che, senza essere ripetitiva, rimane perfettamente fedele a se stessa. Hypnotic Eye, dunque, suona come un disco genuino e senza tempo, che, probabilmente, non riuscirà a convertire gli scettici, ma si rivela sicuramente all'altezza di un compito nient'affatto facile: restituirci un Tom Petty ispirato. 6.7/10 r e c e n s i o n i ckyiano: trip-hop leggermente sporco (Lonnie Listen), ballad soul (Something In The Way, uno dei pezzi più ispirati, che ricorda Tracey Thorn) e blues-hop sensuale (Keep Me In Your Shake, I Had A Dream). Si spazia infine anche sull'elettronica un po' dark (Nicotine Love, Right Here) e pure sul rap (Gangster Chronicle, con sample dei Massive Attack): un mix di stili che ci fa capire come Tricky vada benissimo come arrangiatore di pezzi, più che come interprete. La voce dell'uomo si è persa infatti in un mugugno biascicante, privo della forza degli esordi e oggi oltremodo pleonastico, dato che i momenti migliori sono proprio quelli in cui il Nostro lascia spazio alle giovani leve. La carriera del cantante è a uno snodo fondamentale: da interprete sarebbe ormai giunto il momento di diventare produttore tout court, per non scimmiottare solo i bei tempi andati. Per questa volta gli interventi vocali non cadono nel ridicolo, ma la prossima potrebbe essere troppo tardi. Fermati ora, Adrian. 6/10 Andrea Macrì Marco Braggion Tricky - Adrian Thaws (!K7,2014) Genere: triphop Tricky è sempre stato molto bravo a gestire basi trippy con un controcanto di voci angeliche preferibilmente femminili. Il basso vocale graffiante accompagnato dalla grazia di soprani più o meno adeguati, inseriti sulle sue visioni, è alla base anche di questo undicesimo album. Adrian Thaws (il vero nome del musicista inglese) si avvale dell'aiuto di Francesca Belmonte e Nneka (già presenti nel precedente False Idols), della cantante inglese Tirzah, del musicista britannico Blue Daisy e della danese Oh Land. In più troviamo anche le spinte hip-hop di Bella Gotti (aka Nolay) e Mykki Blanco. Il mood sonoro varia nel ben noto range tri- s e t t e m b r e quando pare debbano cadere nell'anonimato o nella noia, mantengono uno squarcio melodico che li redime (il refrain battente che spunta in Reevalutations ne è esempio). C'è la dolcezza dei Kraftwerk che ballano un lento con Gary Numan in I'll Never, c'è l'assalto metal come un aggancio timido alla jungle, c'è l'elettronica dei Glass Candy e c'è Moroder, lo space hard rock e il folk sinfonico. C'è tutto questo, ed è quasi sempre al punto giusto, anche nei momenti in cui generi diversi riescono finalmente a convivere nella struttura di uno stesso brano. Al netto di alcuni brevi momenti in cui forse il suono non è a fuoco, Volume X è un lavoro che si fa ascoltare con estremo piacere. Non avrà l'effetto-sorpresa, nè suggerimenti per il futuro, né hype, ma queste sono cose secondarie: i Trans Am volano mediamente alti, lasciandosi dietro i tentativi di coesione forzata dei dischi precedenti e procedendo con naturalezza. Quanto mestiere ci sia in una band alle soglie dei venticinque anni poco importa, se questi sono i risultati. 6.7/10 Tru West - The DOWC Part 2 (Marmo,2014) Genere: avant, impro Il declino della "western civilization" non è più alle porte, ma in corso d'opera. Quello che The DOWC Part 1 ipotizzava con un mix di suoni analogici, musica concreta e jazz atomizzato, The DOWC Part 2 rende ancora più esplicito, pur giocando con le stesse variabili musicali. Un ribollire di suoni in cui il free del clarinetto fa il paio con disturbi sotterranei, voci campionate, reiterazioni autistiche, contrappunti deraglianti. Il secondo EP in vinile – a doppia velocità (lato A 33 giri, lato B 45 giri) – dei Tru West scandaglia un tribalismo "sbarellato" e minaccioso (A Rock In A Cop), che sfocia in 155 Fabrizio Zampighi Ty Segall - Manipulator (Drag City,2014) Genere: indie, garagerock Eccoci qui con l'ormai classica uscita sotto l'ombrellone di Ty Segall. Dopo l'acustico Sleeper dello scorso agosto e l'autunnale Gemini che ha svuotato cassetti e scrivanie di nastri e demo, Manipulator riparte dai luoghi di sempre, il binomio garage-hard rock, i chitarroni (la press ci segnala entusiasta: SO many guitars!) e da una impostazione stile greatest hits. In effetti con Manipulator si riassumono un po' tutte le piccole scommesse che il Nostro ha vinto negli anni e che gli hanno permesso di diventare personaggio di spicco della scena garage americana e non: i passaggi dall'elettrica all'acustica e ritorno, il lo-fi dei tre accordi contro l'odierno fuzz sguaiato ma arrangiato, i travagli temporali tra i binomi Reatard/Thee Oh Sees e Black Sabbath/Hawkwind con in mezzo gli Stooges e gli Stones. Senza contare 17 tracce in scaletta che fanno di Manipulator il 156 disco più lungo di Segall, offrendo ottimi spunti (tra i molti meritano citazione almeno Feel, the clock) ed evitabili cali di tensione specie quando l'idea revival si fa troppo vivida (Green Belly, Mister Main). Insomma Ty Segall continua con la barra a dritta, accompagnato dagli amici di sempre ovvero la Ty Segall Band di Mootheart, Epstein e Cronin che per l'occasione ha arrangiato – bene – le chitarre, e sforna un disco a metà tra il facile e il naturale, ottimo per chi volesse avvicinarsi ex novo al personaggio e amabile per i fan di vecchia data. Per l'appunto la missione dei greatest hits. 7/10 Stefano Gaz Ugostiglitz - Ugostiglitz EP (Autoprodotto,2014) Genere: rock Samuele Pedrazzani, Thomas Baruffaldi e Davide Chiari si conoscono dai banchi delle elementari, fanno quindi trio per una vita senza incidere niente, almeno stando alle poche cose che si possono appurare via rete. Negli ultimi tempi la fregola di mettere su disco qualcosa diventa determinante e, persuasi magari dalla new entry alla batteria Riccardo D'Errico, registrano varie tracce buona la prima al TUP di Brescia, quattro delle quali aprono e chiudono rapidamente questo esordio dal moniker acchiappesco. Basso e chitarra sbrodolano giri corposi sostenuti da qualche fiato fra i bridge rock-ska (Joco), un sano hard psichedelico pigia fino a chiudere in fuzz (Inutili cose), heavy swamp e rhythm, cincischiando un po' troppo di Litfiba/Negrita (Metamorfosi), e poi un punk rock filo telefonato ma che ci sta alla grande (La bomba). Italiani brava gente che non sbaglia una sola battuta, efficaci ed essenziali. Fan di Kafka on the Shore e Quiet Confusion, affrettatevi, c'è r e c e n s i o n i s e t t e m b r e uno scenario post bomba H ventoso e deprimente (We Have Your Money, What Can You Do Now?) in cui i fiati parlano di solitudini e i contributi concreti azzardano una condizione umana primitiva e disperata. Eppure "il lato B potrebbe sorprendervi, dopo aver sperimentato il lato A". E infatti, con Mass Prod's Tru Western Mix ci si trova di fronte a una techno inquietante e muscolare, solida e glaciale, fatta di quelli che sembrano reverse recordings (ma che forse non lo sono). Con una chiusura di album riservata a una Harmonious Thelonious' Sunset Liturgy Remix che odora di trip-hop per poi affidarsi a poliritmie assortite, vaghi aromi industriali e ripetizioni mantriche. Disco che parla il linguaggio dell'immaginazione, senza facili conformismi. 7/10 un altro bel gruppo da sostenere. 6.5/10 Christian Panzano Genere: garagerock Agli affezionati della formicolante scena musicale della costa occidentale a stelle e strisce, il nome di Tim Presley potrebbe suonare familiare. Insieme a Ty Segall (che reincontreremo più volte nel corso di questa recensione) il buon Presley di fatto rappresenta l'anima di quel suono psych-rock che in questi ultimi anni è riuscito a creare un bel chiacchericcio intorno a sé. Difficile quindi non aver mai sentito parlare di questo giovanotto dall'aria spavalda che nel corso della sua carriera, oltre ad aver dato alle stampe dal 2010 ad oggi ben cinque album sotto il "marchio" White Fence, ha fatto parte di numerosi progetti (Darker My Love, The Nerve Agents, The Strange Boys) e collaborazioni (la più nota, quella con il sopracitato Segall che nel 2012 ha fruttato l'apprezzabilissimo Hair). Prodotto, manco a dirlo, da Ty Segall, For The Recently Found Innocent arriva a poco più di un anno di distanza da Cyclops Reap e conferma, una volta per tutte, la speciale ispirazione creativa del songwriter Californiano. Nel disco, la formula magica resta fondamentalmente aderente a quella dei precedenti lavori, e ciò che ne scaturisce sono quattordici tracce di puro psych-rock velato da quell'effetto nostalgia che negli ultimi tempi ha caratterizatto molte delle opere di altri gruppi della scena neo-psichedelica, quali Pond, Foxygen e Temples (solo per citarne alcuni). Presley, dal canto suo, vaga con estrema naturalezza tra territori ora più rock'n'roll (Arrow Man, in cui in nemmeno tre minuti vengono centrifugati Steppenwolf, T-Rex e Kinks; The Marco Frattaruolo White Hex - Gold Nights (Felte,2014) Genere: pop, synthpop, post-punk Sgombriamo subito il campo da un equivoco: quello che intendono Tara Green e Jimi Kritzler per "high fashion", evidentemente non comprende l'accessorio "scarpa". Altrimenti non si spiegherebbe l'insistere su passerelle, l'immagine vogue laccatissima e Karl Lagerfeld, se poi si indossano per la copertina delle zeppacce trasparenti buone forse per il burlesque. Detto, quindi, che ai nostri fashionisti italioti la cover art non farà che sollevare il sopracciglio, un disco come il secondo full length (sempre sotto la mezz'ora, però, come pure l'esordio del 2012) sottolinea come il territorio racchiuso nel recinto synth pop, italo disco e minimal techno possa ancora riservare sorprese. Basti prendere la penultima traccia, quella Burberry Congo che ancora una volta strizza l'occhio al catwalk: su un incedere da dancefloor anni '90, i synth di Jimi disegnano una trama in levare che fonde improvvisamente il gelo sintetico in bianco e nero che ammanta tutto il disco con il calore di Africa e Giamaica. Questo cercarsi e prendersi tra estremi, questi ossimori già pre- s e t t e m b r e r e c e n s i o n i White Fence - For The Recently Found Innocent (Drag City,2014) Light, dall'eco velvetundergroundiano), ora più lisergici (Anger! Who Keeps You Under? pare uscire direttamente da The Madcap Laughs; Paranoid Bait), mantenendo sempre ben saldo il controllo della sua sghemba zattera, anche quando questa sembra prendere il largo verso isolotti country/folk (Goodbye Law, Fear, Afraid Of What It's Worth) e lo-fi pop (Hard Water). For The Recently Found Innocent consacra White Fence come la vera anima della festa psych californiana, insieme all'altra simpatica canaglia, Ty Segall. Come poterne fare a meno? 7/10 157 s e t t e m b r e Marco Boscolo Zoe Muth - World of Strangers (Signature Sounds Recordings Inc.,2014) Genere: pop, cantautori, country Zoe Muth è una cantautrice country che, grazie al forte taglio pop, finisce inevitabilmente per svecchiare il genere: ma fino a un certo punto. Originaria di Seattle ma trasferitasi a 158 Austin in Texas, è considerata la Emmylou Harris della costa nord-orientale americana, e infatti i paragoni fioccano con facilità anche con l'altra grande ispirazione, Iris DeMent. Dopo due dischi con la sua vecchia band Lost High Rollers, la Nostra decide di proseguire da sola e così si affida, una volta in Texas, al produttore e bassista George Reiff, che in breve tempo mette su una squadra di musicisti al suo servizio, tra cui anche Martie Maguire delle Dixie Chicks. E il gioco è fatto. World of Strangers è un disco di country mainstream da classifica, dove lap steel, chitarre slide e scintillanti pianoforti si sprecano. Le variazioni sui temi di Hank Williams non sempre lasciano il segno, tanto pop disseminato sotto i tappeti dei saloon dove melodie immediate vengono sciorinate come in un rosario nel nome dell'honky tonk. Che sia adult contemporary, americana o alternative country, il prodotto è decisamente ben definito e levigato: forse quello che manca è proprio la caratura della scrittura. Non c'è nessuna cosa fuori posto ma è probabilmente questo il punto: nessuna canzone emerge rispetto alle altre ed è tutto molto standardizzato sui parametri di un mercato da classifica di genere. In alcuni momenti sembra quasi di ascoltare una versione edulcorata di gente come Sheryl Crow o Shania Twain, ma siamo perfettamente consapevoli di dove il disco voglia andare a parare; molto più immediata di una Lucinda Williams, Zoe Muth non riesce però a tenere alta l'attenzione per tutta la durata del programma. Al di là delle sonorità, curatissime e calibrate, gli album sono fatti di canzoni, ed è questa la carenza grave, al di là della eventuale limitatezza di manovra all'interno di un genere così definito. I momenti migliori arrivano praticamente alla fine con il valzer rurale di Waltz Of The Wayward Wind, realmente efficace e intenso nel suo incedere terzinato, e la solida r e c e n s i o n i senti in quell'Heat scheggia post punk di due anni fa, sono ancora una volta cifra stilistica e via d'uscita da un cul de sac apparente. Paradise, singolo-manifesto, è una macchina del tempo tra Giorgio Moroder e l'europop dei Beloved (a cui sembra aver rubato la linea di synth e il pattern di drum machine); United Colours of KL gioca con il kitsch potenziale di molta dancefloor music dell'underground berlinese/tedesco, uscendone vincitrice: perché si sente che Tara Green riesce nella delicata operazione di essere credibile, credibilissima, pur mantenendo un distacco, una lontananza che è cifra stilistica di tutta l'operazione del duo. L'equilibrio è perfetto in In the Nights, che oltre a tutto il resto gioca con l'indie notturno slavatamente blues, per una nenia claustrofobica e scura degna di un Robert Smith senza autoironia. La capacità dei White Hex di passare dall'esordio post punk a questa miscela più sintetica e danzabile è ammirevole, e possibile grazie solamente a una forte idea estetica di fondo che passa per la decadenza metropolitana e la monocromia. Visto come hanno sterzato fin qui, come proseguirà quest'avventura discografica che loro stessi definiscono trilogia? Con le sue tinte kraute e la voce di Tara Green in primo piano senza (troppi) effetti, la chiusura di Battleground è forse la strada per un futuro da crooner dei White Hex. 7/10 ballata acustica Taken All You Wanted. Di rilievo anche la chiusura con What Did You Come Back Here For?, ma ormai è troppo tardi. Fino a quel momento il disco rimane piatto: un po' poco per la Emmylou di Seattle. 6/10 s e t t e m b r e r e c e n s i o n i Stefano De Stefano 159 G imme S o me I nc h es # 5 1 Questo mese andiamo di cassette e sette pollici per Grizzly Imploded e Gene, Simon Balestrazzi e Uncodified, Bob Corn e My Dear Killer, Shantih Shantih, Futeisha, Ultravixen e Blind Shake 160 Ricominciamo la stagione col consueto giro tra i formati minori, pur consapevoli che quest’anno di “stacco” ce ne è stato veramente poco, al punto che anche i tormentoni estivi hanno, per nostra fortuna, latitato lasciando il posto a dischi che di estivo hanno ben poco. Ci riferiamo, entrando subito nel merito di questo numero autunnale, all’infornata di cassette pubblicata dalla ormai consolidata Old Bicycle. Di Futeisha – uscito in collaborazione con Brigadisco – dicemmo a suo tempo grazie allo streaming in esclusiva, ma trastullarsi con la splendida tape di Dannato e non scriverne due righe sarebbe un peccato. Dunque, psych deviata, esotica ed esoterica, dicevamo in sede di presentazione, perfetta per questa fine di una estate mai vissuta; mezzora di malinconie varie miste a follia gratuita e gusto per l’alterità che non guasta mai. Ce ne fossero di dischi dannati come quello messo su dal sedicente Juan Francisco Scassa aka Dedalo 666 and friends. Sempre made in OBR lo split-tape, questo sì, decisamente autunnale, tra Simon Balestrazzi e Uncodified (aka Corrado Altieri) che celebra il n.10 della Tape Crash series in collaborazione con Under My Bed. Due lunghissime tracce, una per lato: l’ex T.A.C. va di omaggio al Minotauro di Durrenmatt, tanto che ci si perde nel labirinto minaccioso orchestrato con sapienza da Balestrazzi: un labirinto fatto inizialmente di droni montanti e tesissimi, di una parte centrale più isolazionista ma non meno sinistra ed un chiosa lancinante. Non da meno il sodale, che sembra offrire un corrispettivo “pieno” e in overdrive del senso di latente spaesamento di cui sopra. Caterve di suoni noise in accumulo, accenni harsh corrosivi, flutti di rumore bianco materico e tangibile. Proprio come la paura evocata da Balestrazzi e mostrata da Altieri. Ammorbidendo i toni ma non la cupezza, segnaliamo l’ultimo nastro made in Switzeland con lo split tra i due menestrelli malinconici Bob Corn e My Dear Killer. Il nastro – al solito bellissimo l’artwork messo su dalla OBR in combutta con Under My Bed – è stato catturato live da Yed Viganò and friends a Varano Borghi, in occasione di un “Sottovoce”, i “concerti fatti in casa” che tanto ci piacciono. E la dimensione intima è quella più congeniale alla coppia, dato che lo scorrere delle dita sui tasti, il rimbombare delle voce nella cassa armonica, il fuoriuscire del sentimento più puro di fronte ad ascoltatori silenziosi e attenti, è quanto di meglio si possa chiedere ad un live. Canzoni In Silenzio rende al meglio quella atmosfera, casalinga ma non dilettantesca, sia chiaro, in cui lo struggente cantato e la sofferenza delle corde di MDK ben si coniugano con le corde più eterogenee ma non # 5 1 I nc h es S o me G imme meno malinconiche di Bob Corn, al solito più menestrello, capace di catturare l’audience e più vario nella proposta (cover da Belle and Sebastien e Hüsker Dü, per dire), ma sempre con quella nota di tristezza a incrinare voce e note. Ammorbidendo un po’ i toni, ma non la weirdness, passiamo alla romana Geograph che rilascia il nastro The Wheel Of Need, opera prima di Gene a.k.a. il kazako Jevgenij Turovskiy. “Avant-pop” trasversale, irregolare e abbastanza strambo tra chitarrine sixties trasfigurate e ambientazioni fumose e notturne, cantilene ubriache irresistibili e rumorii sotterranei, biascicare impastato da crooner fuori tempo massimo e ipnotiche evoluzioni di blues ferale: tutto nella miglior tradizione off, sia dell’etichetta, che di molti irregolari del pentagramma, da Barrett e “Cuordibue” in poi. Ultimo nastro di questa sessione estivo/autunnale è il migliore del lotto autunnale made in Sincope (tra cui spiccano gli ottimi SUTT, il duo Jabber Garland e Pale Sister). Scegliamo i partenopei Grizzly Imploded con Threatening Fragments From Four Boulders per il loro essere marginalmente “rock”: come al solito urticanti e sfrangiati col loro impro-noise a doppia chitarra+ batteria, Maurizio Argenziano, Francesco Gregoretti e Sergio Albano viaggiano spericolati in quattro tracce per i venti minuti del nastro, tra chitarre corrosive che si scontrano ed incontrano, rincorrendosi e abbandonandosi, vuoti ipnotici ed esplosioni (a)ritmiche a movimentare un suono che è tutto nervo e spasmo. Ascolto impegnativo, ma ad averne di impegni del genere. Poco sopra mentivamo quando parlavamo di dischi autunnali. Il sette pollici – e qui siamo transitati nella sezione “vinili piccoli” – d’esordio delle Shantih Shantih, americane dal cuore italico – Anna Barattin dei dispersi Vermillion Sands è il deus ex machina di questo quartetto all-female made in Atlanta – è la release n.20 per Shit Music For Shit People ed è un concentrato di solare fuzz sixties di quello che riempie il cuore. Più polverosa e lievemente malinconica la title track Ruby, con evidenti richiami all’hangover della Summer of Love, più accesa Something Else To Drink sul lato opposto. Il nome prende spunto dalla pace interiore dei buddisti e la musica viene di conseguenza. Aspettiamo il full-length. Per la serie “toh chi si rivede” tornano gli UltraviXen anni dopo Avorio Erotic Movie, con un 7” che anticipa il nuovo lavoro Il Riskio. Novità in formazione, l’ingresso del quarto Dario Blatta a synth e chitarra, e nella scelta della lingua italica al posto dell’inglese: in soldoni, sempre grossissima energia avant-punk sferragliante e devastante, grossi incroci noise’n’roll nelle chitarre, sezione ritmica al solito al fulmicotone. Acrobatici Equilibri è una botta in faccia a base di noise targato AmRep che caca in testa a vari frontmen italiani troppo boriosi con un cantato che è insieme melodico e aggressivo; Le Cose Più Belle rallenta il tiro e sembra rinverdire i fasti dell’indie-rock dei 90s, quello più sanguigno e accattivante. Buon viatico, in tutta sincerità. La veronese Depression House pubblica invece il 7” dei Blind Shake da Minneapolis. Nomen omen e provenienza geografica a far da garanzia per una shakerata clamorosa a base di noise-punk aggressivo e senza compromessi. Brickhouse Burro e Get Youth vivono di staffilate di chitarre hc, ruinismo e attitudine punk e velocità d’esecuzione che ci ricordano come nel catalogo AmRep circolassero nuove forme di punk. Tutto si risolve in 5 minuti scarsi, come a dire live fast, die young. Stefano Pifferi 161 Ramones classic alb u m Ramones (Sire, 1976) 162 Nel giugno di quest’anno il primo album dei Ramones è diventato disco d’oro raggiungendo le 500.000 copie. Stupisce che lo abbia fatto soltanto ora, a quasi quarant’anni dall’uscita, perché in termini di influenza sulla scena rock non sono certo tanti i dischi che possono vantare lo stesso impatto. Una notizia che, tra l’altro, si accompagna tristemente alla scomparsa di Tommy Ramone, ultimo superstite della prima formazione. Per capire la portata epocale del primo disco punk rock propriamente detto, o giù di lì, bisogna pensare inevitabilmente a tutto quello che è venuto dopo. Pensare a che cosa non sarebbe stato o sarebbe stato diverso. Il punk. Di conseguenza l’hardcore, con tutta la sua scia. E gruppi come Hüsker Dü, Jesus & Mary Chain o Nirvana. Bisogna pensare anche a quello che c’era prima, uno scenario un po’ piatto in cui il rock and roll aveva perso il roll e anche un bel po’ del rock, si era imbolsito, annacquato, ingigantito, aveva smarrito lo smalto e l’esuberanza degli anni ’50 e ’60. Un’iniezione di energia doveva venire dal basso e così fu. Da una scena circoscritta alla squallida Bowery e a un buco fetido come il CBGB’s partiva la rivoluzione che nel giro di un paio d’anni avrebbe ribaltato come un calzino il mondo della musica popolare. La botta di vita non poteva arrivare dalle superstar ma da quattro outsider, capaci di suonare gli strumenti giusto il tanto/poco che bastava, sì. Joey, Johnny, Dee Dee, Tommy. Quattro ragazzotti del Queens a cui piacevano gli Stooges. Joey con trascorsi in manicomio, Dee Dee con trascorsi in carcere. Johnny a cui «interessavi solo se eri davvero fuori». E gli altri due lo erano. Dee Dee fa l’addetto alla posta, e Johnny l’operaio in un cantiere. Un venerdì, giorno di paga, Johnny compra una chitarra Mosrite, Dee Dee un basso Danelectro, due degli strumenti più a buon mercato in circolazione. I due chiamano Joey per formare una band. Joey all’inizio suona la batteria ma i suoi compagni vanno troppo veloce. Dee Dee gli chiede di passare alla voce e alla batteria finisce Tommy, titolare della sala prove che non l’aveva mai suonata in vita sua. Le prime date al CBGB’s, dove i Ramones vanno ad aggiungersi a Patti Smith, ai Television, ai Talking Heads, sono leggendarie. Salgono sul palco come una gang, un vero commando: giubbotti di pelle nera, t-shirt, jeans lisi o stracciati e scarpe da ginnastica d’ordinanza e attaccano con velocissime schegge di rock and roll da due minuti, tanti piccoli popper a distanza di un 1-2-3-4. È il garage rock che ritorna in una formula nuova. Tutti potevano farlo e questo era il segreto. Era un invito all’azione. Per chiunque. Registrato per un costo irrisorio di seimilaquattrocento dollari, l’album suona a dir poco grezzo (c’è chi trova superiori i demo). Blitzkrieg Bop è il brano che meglio si presta a diventare il manifesto della band e di uno stile musicale. Due minuti di rock and roll suonato in maniera elementare quanto ipercinetica, con la chitarra (che macina tre accordi in barré con le sole pennate in giù) e il basso (che suona in sincrono le fondamentali, non una nota in più né una in meno) a rimbalzarsi il riff da un canale all’altro (Dee Dee è tutto a sinistra Joey tutto a destra, secondo una vecchia tecnica di registrazione sixties). La batteria è metronomica e Joey canta a metà tra un accento inglese di ritorno e il suo naturale del Queens. Niente di più, niente di meno. Talmente minimalista da diventare concettuale. Il rock basico, come dovrebbe essere. «Vent’anni di storia del rock in tre accordi, ogni volta riciclati e ogni volta risuonati in maniera più primitiva» ha scritto Lester Bangs riscostruendo la linea evolutiva del punk a partire da Blitzkrieg Bop e facendola risalire a La Bamba attraverso No Fun degli Stooges, You Really Got Me dei Kinks e Louie Louie dei Kingsmen. Un’altra tendenza che ha inaugurato Ramones è il salto all’indietro di una generazione, un iter che ha visto periodicamente il rock fare ritorno alle proprie radici per ripartire verso nuovi lidi. È punk rock, la cosa nuova, sì, ma rumina Chuck Berry, il garage di Nuggets, i gruppi vocali femminili, il surf e i Beach Boys, anche se al doppio della velocità degli originali, tra i brandelli di doo-wop schizzati di Judy Is a Punk e Chainsaw, le romanticherie bubblegum di I Wanna Be Your Boyfriend, la cover di un pezzo del ’62, Let’s Dance, o la cantilena stoogesiana di 53rd & 3d. E le canzoni corte, adrenaliniche, sono autenticamente poppettare, da Beat on the Brat a Now I Wanna Sniff Some Glue, in una sorta di suono sixties stilizzato, riempito di iperboli da fumetto e anfetamine. I testi sono talmente brevi da diventare astratti, filastrocche surreali al limite del nonsense, flash di vita di strada con storie di prostitute o di ragazzi che vogliono sniffare colla e riferimenti quasi postmoderni a una cultura popolare fatta di droghe fai da te, fumetti e b-movies (con uno sballato proclama pseudonazi come Today Your Love, Tomorrow the World a chiudere giusto, per non farsi mancare nulla). Un concentrato che ha fatto epoca e rimarrà più o meno lo stesso fino al 1996. Se Leave Home e Rocket to Russia non sono da meno, e anzi leggermente superiori per la qualità delle canzoni, la fondamenta del mito poggiano qui. E non solo di quello. Il 4 luglio 1976 i Ramones debuttano alla Roundhouse di Londra. Sembra che il Regno Unito li accolga meglio dell’America dove non sono così conosciuti al di fuori della loro tana. Soprattutto, tra il pubblico ci sono i membri di Clash e Sex Pistols. Che guardano e qualcosina imparano. Tommaso Iannini 163 164