12 — focus on L’amazzone Šárka e le antiche leggende ceche (661-675: come sopra) ebbe tre figlie e la maggiore delle tre, Libuše (715-722: come sopra), dà inizio alla forte linea femminile della storia antica ceca. Dico «storia» perché le leggende, prima che vi sia storia nel senso moderno del termine, fanno parte della storia delle idee, del costume, della cultura di un popolo. (Le Cronache che sono la nostra fonte furono stese in ceco e latino dal 1000 al 1300 e trapassano da cronaca di leggende in storia documentata). di Sergio Corduas Libuše è fondamentale per tre ragioni. È la principessa che guida, governa e giudica i cechi. È lei che ordina ai árka e l’episodio che la riguarda nelle leggende antisuoi di fondare la città di Praga, di cui predice la gloria. È che dovrebbe essere un fatto minore nell’ambito dellei che cede alle proteste degli uomini che non vogliono più la lunga e vittoriosa «Guerra delle fanciulle» contro una guida femminile e indica di andare a prendere un congli uomini, finita comunque con la sconfitta delle donne. tadino, Přemysl, «aratore»: ne farà il proprio sposo e loro principe (722745: come sopra). Ciò dicendo, avverte che «la mano di un uomo picchia più dura». Avverte anche, prima, di non prendere mai una guida straniera (leggi: germanica): «češte své ač i krastavo», in libera ma chiara traduzione: «spulciatevi la capigliatura e le vostre cose da soli, senza stranieri, per quanto pulciose esse siano». Dalla cura con cui indica come trovare e portare da lei Přemysl (basta seguire il cavallo di Libuše...) si comprende che costui altri non era che un contadino suo amante. Bořivoj I, figlio del settimo successore leggendario di Přemysl Vitezlav Karel Maše, Libuše la profetessa (1893) (Hostivít), è il primo regnante storicamente attestato della dinastia dei Přemyslidi, la quale finisce con l’assassiDiciamo subito che, non avendo a che fare con fatti stonio di Venceslao III nel 1306. Oppure, più probabilmenricamente documentati, siamo nel campo delle leggende. te, il suo casato fu uno dei più potenti già durante la GranÈ però evidente che se queste vanno in una certa direzione de Moravia (IX secolo). che assegna fortissimi e privilegiati ruoli alle donne, un caLa seconda donna fondamentale delle leggende anticoceso non può essere. D’altronde ciò accade anche in cicli che che è Vlasta, ispiratrice e guida della ribellione delle donriguardano altre popolazioni slave (ad esempio i futuri pone al governo degli uomini di Přemysl, ormai vedovo di lacchi) e in parte anche quelle germaniche. Libuše. Anche lei come Libuše amministra e giudica, oltre Dicono le leggende che i futuri cechi vennero a quelle a combattere e sottomettere. Libuše e Krok potrebbero seterre, provenienti probabilmente da sudest, nei pressi delcondo alcuni essere nomi forse celtici, poi latinizzati e cela futura Praga guidate da un «praotec», progenitore, di nochizzati, Vlasta invece viene da «vlast», ceco per «patria». me Čech, colui dal quale prende nome (nel 644? ProbabiŠárka è una delle sue migliori guerriere amazzoni, ispirale fantasia di cronachista) la regione (Čechy=Boemia; è trice e autrice del più noto episodio di quella lunga guerra un femminile pluralia tantum); un suo successore Krok focus on Š focus on — 13 dere nelle trappole e imboscate delle amazzoni, è un invito al primo e originario Castello, Vyšehrad (Castello alto: non è il Castello da tutti conosciuto, ma la fondamentale rocca přemyslide di Praga sulla riva destra della Vltava): vi invita le donne per trattative di pace, le fa maltrattare, stuprare o uccidere e comunque quelle «per la vergogna a Děvin più non tornarono». Vlasta viene avvertita dell‘inganno, si lancia con le sue donne all’assalto di Vyšehrad, «imprudente lascia le compagne» e assale «i nemici». È la fine: viene fatta a pezzi e data ai cani, altre duecento vengono uccise e le rimanenti fuggono invano verso Děvin, dove le attendono altri uomini già giunti al castello sguarnito e la morte. Non compete a me e qui commentare che cosa ne hanno focus on («di cinque anni»), quello in cui con «inganno femminile» le donne massacrano gli uomini, i loro uomini, seguito da quello in cui con «inganno maschile» gli uomini massacrano, stuprano e sottomettono finalmente le (loro!) donne. Vlasta aveva dato tre indicazioni alle sue amazzoni, dopo aver consigliato di bere poco «per perdere grasso». Quelle «sagge» dovevano «sedere al castello» di Děvin (la radice di questo nome rimanda alle fanciulle), cioè amministrare la cosa comune. Quelle «belle» dovevano «farsi belle e imparare a far discorsi intelligenti» perché così gli uomini le avrebbero temute. Le «terze» (significativamente non definite con aggettivo) dovevano girare a cavallo armate di arco e «uccidere gli uomini come cani». Šárka, Ctirad e le amazzoni in una dipinto popolare ottocentesco Šárka sta nella seconda specie, è la più bella e, dopo altri episodi a danno degli uomini in cui non figura da protagonista, si fa trovare da Ctirad (nome la cui radice è «čest»=onore) tutta sola, abbandonata al freddo, con miele (dentro il quale secondo leggende più tarde c’è un sonnifero) e con un corno. Piange. Dice di esser stata legata dalle compagne, dice di voler tradire Děvin, gli chiede di «rispettarla di volerla ricondurre da suo padre». Ctirad la consola, chiama i suoi, prende il miele, Šárka suona il corno: è il segnale. Accorrono le amazzoni e «prima che gli uomini raggiungano le spade li uccidono come uccelli». Sembra compiersi il volere di Vlasta, «che Vlasta regni in tutto il paese e gli uomini restino all’aratro». La risposta di Přemysl, che aveva invano più volte sconsigliato i propri uomini di caMikoláš Aleš, Fanciulla guerriera tratto Smetana, Fibich, Dvořák o Janáček. Non posso non osservare che il conflitto è tra «chi va a cavallo» (in origine gli uomini) e «chi ara la terra» (gli uomini). E che alle origini del viaggio di Čech verso il monte Říp sta forse un delitto da lui commesso, fatto peraltro comunissimo, così come alle origini di dinastie che giungeranno agli onori dell’Europa tutta con Carlo IV, Re della Corona di Boemia e Imperatore del Sacro romano impero sta, per le leggende ceche, un «contadino con l’aratro», probabile amante di una saggia principessa. Infine, che cosa volevano le donne? Dicono le leggende, scritte naturalmente da uomini, una vita serena e senza guerre, uomini che lavorassero di più e bevessero meno. Troppo interessante... ◼ 14 — focus on A proposito di «Šárka» di Leóš Janáček di Paolo Cossato L a vicenda di Šárka appartiene alla mitologia ceca. Al tempo in cui Janáček pone gli occhi sul soggetto, la storia era già stata onorata dall’attenzione di numerosi compositori. Tra questi Bedrich Smetana, che aveva evocato la figura dell’eroina nel poema sinfonico La mia Patria. Il libretto dell’opera di Janáček ha per autore Julius Zeyer (nato nel 1841 e scomparso nel 1901). Poeta simbolista ceco di qualche spessore, Zeyer in realtà lo aveva originariamente concepito, nel 1879, su richiesta di Antonin Dvořák come adattamento della quarta parte – Cti- rali, musica sacra e pagine per strumenti solistici. Sicuramente l’apertura a Brno di un teatro basato esclusivamente su un repertorio nazionale dovette persuaderlo che la creazione di un’opera in lingua ceca avrebbe rappresentato una grande e fertile svolta poetica. Già nell’agosto 1887 lo spartito di Šárka era stata scritto interamente. Janáček lo inviò all’amico Dvořák che di certo si stupì nel vedere musicato il soggetto che un decennio prima aveva lui stesso accantonato. Ma di questo stupore non resta traccia nell’epistolario tra i due musicisti: Dvořák riceve il plico, e tuttavia risponde solo nel tardo ottobre, caldeggiando a Leóš un incontro. Il confronto tra i due musicisti fu fruttuoso ma non privo di note critiche, tanto che Janáček volle rivedere ampiamente quanto già redatto. Nello stesso tempo aveva scritto a Zeyer per ottenere il permesso di mettere in musica il testo, evidentemente non aspettandosi l’indispettita reazione di Zeyer che ricusò fermamente. Quali fossero le ragioni di questa risposta ostile (un’ostilità per altro espressa epistolarmente con irato calore) non ci è da- focus on Leóš Janáček Antonin Dvořák rad – di un suo poema epico, Vyserhad. Ma la collaborazione tra Dvořák e Zeyer non doveva aver fortuna: Dvořák era interessato a un soggetto di carattere meno «nazionale» che andasse incontro alle esigenze di un vasto pubblico attratto dai suoi lavori sinfonici. E così il libretto dovette attendere un’altra opportunità. Non fu nemmeno la successiva: vent’anni dopo fu proprio Smetana a esitare di fronte al libretto che quindi tornò ancora una volta nel cassetto di Zeyer. Venne però pubblicato in tre diverse uscite, tra gennaio e febbraio 1887, nella rivista teatrale «Sheska Thalia». E fu allora che Janáček lo lesse e ne fu interessato. Sino a quel momento il giovane maestro non aveva mai contemplato l’idea di una partitura teatrale: si era limitato ad affrontare composizioni cameristiche, partiture co- to sapere con certezza. Le ipotesi attribuiscono il diniego di Zeyer a giudizi negativi su Zeyer stesso che Janáček aveva firmato al tempo in cui era critico dell’«Hudebny Listy», una rivista musicale. Più probabilmente Zeyer contava su un ripensamento di Dvořák (ben più noto del giovane Janáček) che in effetti in quegli anni aveva dimostrato un ritorno d’interesse sul soggetto. Ma il «no» di Zeyer non fermò Janáček. Sebbene le possibilità di mandare in scena l’opera fossero svanite, Janáček completò lo spartito nel giugno del 1888, accingendosi di gran lena al lavoro di orchestrazione. I primi due atti furono presto ultimati, ma al terzo il lavoro si interruppe. Alla fonte di questa pur sorprendente decisioBedrich Smetana ne doveva esserci la staticità focus on — 15 dell’azione del terzo atto, in netto contrasto con lo spirito di Janáček, allora coinvolto nello studio appassionato dei ritmi della musica popolare morava. E Šárka giacque silenziosa per i successivi trent’anni. Giunse il 1918. Rovistando tra vecchie cose, Janáček si trovò tra le mani la partitura abbandonata e incompiuta. Questo ritrovamento non lo lasciò indifferente, ma non volle porvi mano direttamente. Chiese al suo discepolo Osvald Chlubna di orchestrare il terzo atto e si interessò presso l’Accademia delle Scienze ceca per ottenere i diritti di quel libretto che Zeyer, morto diciassette anni prima, ora non era più in grado di rifiutargli. Il 28 dicembre 1918 l’agognato permesso arrivò. Se in un primo tempo Janáček sembrava prendere questo «ritrovamento» alla leggera, appena giunse il sudato permesso la sua disposizione d’animo mutò: si propose di modificare radicalmente quanto già scritto, curando in principal modo le linee di canto. Ma anche il testo subì una revisione. Lo slancio compositivo del giovane Janáček aveva travalicato i limiti del testo di Zeyer e necessitava di una profonda rivisitazione. A realizzare questo complesso lavoro fu chiamato F. S. Prochazka, già librettista del Broucek. E l’opera giunse a un termine: l’11 novembre 1925 venne rappresentata a Brno nella forma di una posticipata festa per i settant’anni del compositore. Šárka rappresentava molto per il suo autore che sosteneva come ogni nota del- la partitura fosse vicina ai suoi lavori più maturi. Affermazione ancor più eloquente in un musicista che non era certo propenso a concedere troppo ai lavori giovanili. L’accanimento con cui tentò sino all’ultimo di convincere gli editori a pubblicare la partitura dimostra la considerazione con cui guardava alla sua prima opera. Abbiamo già detto di interventi che Janáček stesso richiese (al già ricordato discepolo Osvald Chlubka). Ma la presenza di Janáček nella partitura è cospicua: due intere versioni, l’orchestrazione di due atti su tre, un vigoroso lavoro di revisione nel biennio 1918-1919. In che cosa consistette questo lavoro di revisione? In generale, il maestro lasciò intatto l’accompagnamento, dedicandosi però a rivedere sensibilmente la parte vocale sulla scia delle sue concezioni melodiche nate al seguito di Jenufa, cioè del suo primo stile maturo e personale. Il risultato offre occasione a uno stimolante contrasto con i versi di Zeyer che ne esce superato dalle innovazioni della poetica musicale di Janáček. L’opera, costruita in una struttura saldamente scandita, si basa su tre personaggi principali, un forte apporto di parti corali e, nel terzo atto, in un inatteso concertato. Le preferenze della critica vanno tuttavia al secondo atto, infuocato dall’atmosfera sensuale generata dal duetto tra Ctirad e Šarka, che ben risponde al carattere passionale del compositore, rimasto tale anche nella tarda stagione della sua vita. ◼ a trama dell’opera si affida a una vicenda presente nella mita la bellezza di Šárka che lo ha fatalmente colpito. Il secondo attologia ceca: la guerra delle fanciulle. Il potere delle donne to mostra l’inquietudine impaurita di Šárka e delle donne, che è declinato dopo le nozze e ancor più dopo la morte della printuttavia ritrovano vigore. Šárka resta sola, immersa nell’ascolto cipessa Libuše, che aveva lasciato al suo consorte Přemysl l’intedei suoni della foresta. Inatteso giunge Ctirad. Šarka, terrorizzaro comando delle terre ceche. Come atto di proteta, lo implora di ucciderla, ma il giovane esita. Ctirad, impietosista, le donne, guidate dalla selvaggia Vlasta, aveto, ascolta Šárka che gli narra di essere stata punita da Vlasta dovano creato un esercito di donne guerriere, la più po il fallimento dell’impresa sulla tomba di Libuše. impavida delle quali era Šarka. La guerra tra i sesCtirad le confida il suo trasporto per lei, ma Šárka si aveva segnato la fine di un’età dorata, un declirifiuta di seguirlo come sposa: vuole solo morire. E no della civiltà, costernazione tra gli uomini. Quetuttavia la sua ostile fermezza si attenua via via in sta la premessa. All’aprirsi del sipario Přemysl tra i un clima di sensuale reciproca attrazione. Ctirad le suoi soldati piange la morte di Libuše. Giunge Ctidice che morirà per lei e la resistenza di Šárka vacilrad, giovane guerriero, che viene accolto con calola. Improvvisamente Šárka suona il corno, segnale re. È stato inviato dal padre in aiuto di Přemysl. A di richiamo per le donne. Ctirad la difende, ma viene lui spettano la magica spada e lo scudo che giacmortalmente ferito. Sul punto di morire, esprime ciono nella tomba di Libuše. Ctirad, rimasto sorimpianto per la sua giovinezza ed ancor più per lo sulla scena, leva un canto nostalgico all’ormai il tradimento di Šarka. Ferocemente, le donne perduto tempo dell’amore alla corte del padre. La pongono fine alla sua agonia. Šárka ordina alsua aria è tuttavia interrotta dall’arrivo delle donle donne di allontanarsi; lasciata sola cade afne guerriere. Eroe senza paura, Ctirad si inoltra franta sul corpo di Ctirad. Il terzo atto si apre nell’antro dove si trova la tomba di Libuše, conel crepuscolo; siamo a Vyserhad. Přemysl è perta da un velo, la testa incoronata d’oro, al tra i suoi guerrieri. Al suo comando i cansuo fianco le armi magiche tanto ambite. Cticelli si aprono lasciando entrare Lumir e rad afferra le armi, implorando perdono per altri guerrieri che portano una bara: il coraver varcato le soglie della tomba. Guidate da teo funebre di Ctirad. Lumir narra di coŠarka, giungono le donne cui Šárka ordina me avvenne la sua morte. Gli uomini chiedi seguirla nella tomba senza porre domandono vendetta. Si leva un lamento funebre. de. Ctirad si avvede del loro arrivo e si naAppare a quel punto una fanciulla misteriosa – sconde. Le donne ammoniscono Šárka a non Šárka – le cui armi fatate, sottratte a Ctirad, hanandare oltre. Ignorando il consiglio, la no potuto dischiudere magicamente le giovane protende la mano sulla corona porte. La fanciulla affianca la sua voce Venezia – Teatro La Fenice di Libuše. Ma appare Ctirad, brandenal lamento dei guerrieri. Poi, nello stu11, 16, 18 dicembre, ore 19.00 do la spada. Šárka lascia cadere le armi, pore generale, si getta sul fuoco della 13, 20 dicembre, ore 15.30 ma tenta ancora di afferrare la corona. pira funebre accesa da Lumir che ora Šárka di Leóš Janáček Misteriosamente la regina morta si erge vede in quel fuoco un simbolo d’amore. libretto di Julius Zeyer dalla Cronaca di Dalimil e poi svanisce terrorizzando le donne E alla potenza dell’amore inneggiano regia Ermanno Olmi scene Arnaldo Pomodoro che fuggono. Ctirad, lasciato solo, canPřemysl e il coro nell’apoteosi finale. ◼ focus on L 16 — focus on Pietro Mascagni e il codice d’onore rusticano C di Adriana Guarnieri focus on avalleria rusticana di Targioni-Tozzetti, Menasci e Mascagni (1890) ha sempre fatto discutere: ammiratori e detrattori, storici della musica e letterati hanno espresso su quest’opera opinioni contrastanti che l’hanno fatta in qualche modo diventare un caso nella storia dell’opera italiana; ben oltre le sue «umili» origini di composizione destinata a un concorso per operisti esordienti. Lo stesso Mascagni, del resto, ne presentiva il destino quando scriveva a Targioni-Tozzetti, il 26 ottobre 1888: «Questo concorso, forse, potrà essere il principio della mia fortuna». Sarebbe stata una travolgente fortuna di pubblico, ma tale da dar luoPietro Mascagni go, nel tempo, a un dibattito critico mai banale. Il 14 dicembre dello stesso anno, una volta caduta la scelta definitiva sul soggetto di Verga, il musicista salutava il lavoro come il compimento di un vecchio desiderio, risalente al 1884 («La Cavalleria rusticana era già nei miei progetti da quando si eseguì per la prima volta a Milano dalla Compagnia Pasta»). E il 17 gennaio 1889, a lavori ormai avanzati, esprimeva ai suoi librettisti riconoscenza e piena approvazione, insieme con la consapevolezza di fare cosa nuova (per esempio con un «Finale arditissimo»), destinata al successo in virtù della sua «efficacia» drammatica e magari artisticamente ardua nella fedeltà al testo teatrale di Verga: Caro Nanni, ho ricevuto – ottimamente.– Impossibile fare meglio.– Impossibile indovinare maggiormente mio gusto.– Romanza sop.[soprano] indovinatissima; finale grande efficacia.– Sortita carrettiere forte, originale.– Già musicata.– Recit.[recitativo] versi sciolti, mia somma soddisfazione.– Preludio e 1° coro già completi. Lavorerò uso treno lampo. Attendo con ansia il resto.– Penso con paura al Finale che riuscirà arditissimo, se, come credo (e forse spero), sarà mantenuta la fedeltà al lavoro originale.– Bravi! Bravi!– Versi bellissimi.– Riusciremo!!– Ringrazio di cuore e saluto affettuosamente.– Il caso Cavalleria è già contenuto in queste lettere per alcuni dei suoi temi principali, che si possono racchiudere in una formula: l’opera si colloca a uno snodo della storia operistica italiana che la rende – senza intenzione – un concentrato di contraddizioni, o quanto meno di convergenze antitetiche: tutte brillantemente risolte sul piano dell’«effetto» drammatico, cioè della comunicazione immediata. Il rapporto col pubblico è stato infatti da subito eccellente, e Cavalleria si trova da un centinaio d’anni ininterrottamen- ristorante e caffetteria Situato al pianterreno di Palazzo Querini Stampalia, il nuovo Qcoffee si apre in un incantevole giardino interno: armonico equilibrio d’acqua, pietra e verde progettato alla fine degli anni ‘50 da Carlo Scarpa. Gestito da Mariagrazia Cassan e Guglielmo Pilla, il caffè ristorante, disegnato da Mario Botta, offre i suoi servizi non solo a chi frequenta le mostre, il Museo e le attività della Fondazione Querini Stampalia, ma a chiunque desideri rilassarsi in uno spazio speciale. Lo chef prepara specialità della cucina tosco/veneta e piatti di pesce, anche crudo. Ampia selezione di vini dall’Italia e dal mondo. Qcoffee Fondazione Querini Stampalia - Santa Maria Formosa Castello 5252 VENEZIA 041 0991307 [email protected] chiuso domenica sera e lunedì by la colmbina Enoteca Ristorante La Colombina Via Contessa Beretta, 31 Villanova di Farra, Gorizia 0481 889061 [email protected] chiuso martedì sera e mercoledì passaggio» (da un registro all’altro); di un’orchestra cantante ai primi posti della classifica mondiale delle opere più te, infine, che appare diretta espressione dei personaggi, rappresentate. quasi lo «stile indiretto libero» individuato dagli studiosi Il successo era dunque l’obiettivo esplicito di quella colcome specifico della rivoluzione linguistica di Verga. Il tutlaborazione; ma si trattava di un obiettivo che nascondeva to è ingabbiato in una trama di coups de théâtre scenici e muuna lacerazione, poiché Mascagni aveva allora nel cassetsicali che realizza un fondamentale credo drammatico mato un Guglielmo Ratcliff (un Heine originale tradotto da Mafscagnano (la necessità di «prendere il pubblico per il collo»). fei) decisamente sperimentale nella scrittura e nell’impianDentro questo congegno musicale a suo modo perfetto drammaturgico. Destinato per questo motivo a un difto pullulano, a propria volta, contraddizioni di dettaglio ficile rapporto col pubblico, Ratcliff si poneva in sostanza che possono spiazzare sia gli ascoltatori sia la critica quaal polo opposto rispetto a Cavalleria quale teatro musicale li una strumentazione ricca (nell’incontro con un’armodi un autore autonomo rispetto alle attese degli spettatori, votato all’insuccesso per vocazione di avanguardia. A quella contradd izione d i programmi personali si affiancava in Mascagni l’ingenuo pensiero di mantenere «forse» la nuova opera «fedele al lavoro originale» di Verga. Quel dubbio avrebbe avuto un seguito nella famosa causa Verga contro Sonzogno, vinta dallo scrittore nel 1893 sulla base del principio giuridico di una preminenza dell’«idea» drammatica (del soggetto) su qualsiasi elaborazione, anche musicale. Proprio sul fronte del soggetto veristico prendeva forma, d’altra parte, una delle dicotomie più ricche di Cavalleria rusticana, bozzetto di Otto Müller-Godesberg, Coblenza, 1923. future discussioni. Cavalleria rusticana, che si presennia elementare), un sinfonismo rilevante (nell’incontro ta storicamente come una delle ultime opere «a numeri» con un soggetto «plebeo»); oppure scelte drammaturgi(rivolta dunque al passato), altrettanto storicamente «fonche sorprendenti quali la proposta – in un’opera tutta deda» (propone e lancia) il verismo musicale. La sua scrittura dita alla piena dei sentimenti – di un solo canto d’amore per certi versi minima (nella semplicità delle soluzioni ar(la Siciliana di Turiddu), collocato oltretutto dentro un bramoniche e ritmiche, nella drammaturgia elementare di cono orchestrale (il Preludio). Il «duetto d’amore» di Santuzri caratteristici alternati a soli caratteristici) si rivela però in za e Turiddu risulta infatti uno scambio continuamente ingrado, nella sua perspicuità, di traghettare l’esperienza del terrotto da interventi esterni, ed anche un dialogo tra sorgrand-opéra francese (mediata in Italia dalla cosiddetta «grandi: una donna disperata, furende opera» di Ponchielli, maestro te e un uomo insensibile, incudi Mascagni) dal passato realirante. Tutto questo riconduce, stico nel presente veristico di un Venezia – Teatro La Fenice con coerenza, al titolo: dramma soggetto basso, di passioni di11, 16, 18 dicembre, ore 19.00 d’onore piuttosto che d’amorompenti, di dinamiche aggres13, 20 dicembre, ore 15.30 re, Cavalleria rusticana si regge sivamente contrastanti; di clauCavalleria rusticana su passioni immerse – come in sole affidate alla parola non intomelodramma in un atto nata e al gesto musicale violento; libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci Verga – in un tessuto di consuetudini sociali che è arbitro di una vocalità sforzata per l’indal dramma omonimo di Giovanni Verga del destino dei personaggi. ◼ sistere delle parti sulle «note di musica di Pietro Mascagni focus on focus on — 17 18 — focus on Bruno Bartoletti dirige Janáček e Mascagni È focus on un accostamento originale quello che conclude la stagione lirica del Teatro La Fenice: un dittico sulla carta piuttosto eterogeneo, ma che svela, attraverso lontane affinità e stimolanti contrasti, la ricchezza musicale dell’Europa nel passaggio tra il Romanticismo e il Novecento. A entrare in felice collisione, Šárka di Leoš Janáček e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni: se della seconda molto si sa, l’opera di Janáček – che non è mai stata rappresentata in Italia prima d’ora – ha avuto una vicenda piuttosto singolare, venendo accantonata per diversi anni e poi rappresentata solo nel 1925, per il settantesimo compleanno del compositore. A dirigere il dittico, che vedrà la regia di un grande maestro come Ermanno Olmi, è stato chiamato Bruno Bartoletti, artista di grande sensibilità ed esper ien za , per molti anni Direttore Stabile dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e con una particolare sensibilità al repertorio novecentesco e contemporaneo. Lo abbiamo raggiunto per farci raccontare qualcosa di più di questa nuova sfida. Maestro Bartoletti, dal punto di vista stilistico Šárka pone la sfida di rileggere Janáček, tenendo conto non solo del forte collegamento al nazionalismo di di Enrico Bettinello Dvoràk e Smetana, ma ovviamente anche dei successivi sviluppi della sua stessa carriera. Come intende lavorare su questo? Più che di rilettura, parlerei di una vera e propria «lettura», dal momento che è la prima volta che dirigo Šárka e che quest’opera viene presentata in Italia. Trovo l’accostamento molto stimolante, perché comprende due lavori che sono le rispettive opere prime dei loro compositori, Janáček e Mascagni, due lavori che per la loro lunghezza contenuta possono essere bene accostati. Sono quindi contentissimo di poter dirigere questo dittico: il problema principale per quanto riguarda Šárka è che nella musica non si ritrova il testo del libretto, la musica popolareggiante di Janáček non è certo quella che un simile libretto, quasi wagneriano, potrebbe avere ispirato a un altro compositore coevo. L’operazione diventa così davvero interessante e la possibilità di dirigere, per questa prima esecuzione, un cast di cantanti di lingua originale, mi facilita molto il compito. In quest’opera ritroviamo tutto il carattere di Janáček, quella sua capacità di essere libero, sincero e popolare che raggiunge gli spettatori in modo efficace. La regia è affidata a Ermanno Olmi. Come si rapporta con i registi solitamente? Il fatto che la regia sia affidata a Olmi è per me un ulteriore motivo di tranquillità e soddisfazione, perché si tratta di un vecchio amico: forse non tutti ricordano che il debutto alla regia di Olmi fu proprio in un trittico Pucciniano da me diretto a Firenze, per il quale allestì il Tabarro, mentre le altre due opere ebbero la regia di Monicelli e Piavoli. A un regista chiedo il rispetto del testo, ma anche la capacità di invenzione, perché credo fermamente che si possa inventare molto anche senza bisogno di tradire la musica. Porto sempre a esempio un allestimento della Cena delle beffe di Giordano, che facemmo a Zurigo e Bologna con Liliana Cavani: la scelta della regista fu di ambientare l’opera in una famiglia di oggi, attualizzando senza tradire né la musica né il testo, con l’esito di renderla molto più viva ed efficace. Mi aspetto quindi da Olmi una collaborazione intensa e stimolante. A Šárka è affiancata Cavalleria rusticana: come metterà in relazione le due opere? Pietro Mascagni Quali afda Vanity Fair (1983) te: in Šárka si sente quello che verrà, alcune cose in forma ingenua certo, ma comunque sono già presenti. Per quanto riguarda Mascagni non posso che rileggerlo da toscano, con quell’amore incredibile per il suo talento immenso, un talento che esprime in Cavalleria rusticana e che sappiamo, con dispiacere, che non seppe più replicare. Dopo Venez ia , quali saranno i suoi prossimi impegni? Dirigerò L’Heure Espagnole di Ravel ad Ancona, anche in questo caso abbinata in un interessante dittico ad Andata e ritorno di Hindemith, poi tornerò a Firenze per Adriana Lecouvreur. Sono comunque tempi di crisi e ci tengo a sottolineare la professionalità con cui teatri come la Fenice o Torino mantengono i loro impegni, a conferma non solo della loro serietà, ma del fatto che qualcuno i conti li sa ancora fare. ◼ finità o quali contrasti si deve aspettare il pubblico veneziano? Il pubblico non troverà molte affinità, perché si tratta di due opere che appartengono a mondi decisamente lontani tra di loro: per quanto riguarda Cavalleria rusticana, il mio obbiettivo è quello di evitare tutti i mezzucci, che trovo molto provinciali, che siamo abituati ad associare a questo titolo, per tornare a un lavoro quale lo pensò Mascagni dall’inizio, ritrovando la naturalezza delle prime edizioni. Si tratBruno Bartoletti ta di un’opera che ha centovent’anni, ma la musica è ancora freschissima e ho sempre in mente la lezione di Von Karajan che ne tolse gli accenti veristi per fare risaltare la raffinatezza che questo lavoro richiede. Lei è un direttore che si muove con altrettanta sensibilità nel repertorio più classico (Puccini, Mascagni) così come in quello contemporaneo. Alla luce di questa sua esperienza, quali chiavi interpretative ritiene più stimolanti in uno scenario difficile come quello odierno? Sono particolarmente felice di dirigere questo primo lavoro di Janáček perché ne ho già diretto i lavori successivi, Kát’a Kabanová, L’affare Makropulos e Jenufa: mi interessa molto capire, studiando quest’opera, come sia nato tutto quel mondo che conosco perfettamen- Leoš Janáček focus on focus on — 19 20 — focus on Musica del reale e cultura popolare Ermanno Olmi racconta le sue regie per la Fenice I di Martina Buran e Riccardo Triolo focus on n occasione della messinscena di Šárka di Leoš Janáček e Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, in programma alla Fenice tra l’11 e il 20 dicembre, abbiamo incontrato il regista Ermanno Olmi. Cantore negli anni del boom di un’Italia arcaica, rurale e pura (Il posto, L’albero degli zoccoli) e alfiere di un cinema che affonda le proprie radici nell’istanza documentaria ancorché narrativa, ha di recente ripudiato il cinema di finzione, che ha lasciato in seguito all’amaro Centochiodi (2007), per tornare al cinema del reale. Suo il recente documentario Terra madre (2009), dedicato al cibo e al suo legame indissolubile con la terra. Il racconto della realtà e le radici popolari sono due costanti della sua arte... La definizione di arte popolare non è riduttiva ma rappresentativa di una cultura che non ha il miraggio del successo, del danaro. I canti del popolo nascono in condizioni di purezza d’animo. Bellini ascoltava i canti delle filandere per comporre La sonnambula, la musica di Verdi reinterpreta i canti della sua terra, lo stesso Mozart si ispirava ai canti delle osterie. Il popolo, nella sua espressione più genuina, è stato sempre fonte di ispirazione per i compositori, il che dimostra che i grandi non vivevano nei templi della musica, ma nel tempio della realtà quotidiana che è il tempio dell’universalità. Nasce da qui la scelta di portare in scena due opere legate alla cultura popolare: Šárka di Janáček, che reinterpreta un mito fondativo della tradizione ceca, e Cavalleria Rusticana di Mascagni, che è profondamente legato alla tradizione siciliana? Sì, ma attenzione a non scambiare il folclore con l’arte e la cultura popolare. Il folclore è ciò che di un popolo resta in superficie, quando non si è in grado di coglierne la sostanza profonda. I grandi maestri ricavano dal popolare l’aria della real- Teneke di Fabio Vacchi Maestro, qual è il suo rapporto con il teatro musicale? Parte da lontano. Quand’ero bambino non c’era la possibilità che c’è oggi di ascoltare la musica registrata, era la gente del popolo che cantava. Tra questi canti si sentivano spessissimo arie d’opera, romanze. Avevo circa sei anni quando il MinCulPop proponeva per il popolo al Castello Sforzesco gli spettacoli della Scala. I miei genitori ci andavano spesso ed è lì che ho sentito per la prima volta Pagliacci, o visto i primi balletti. Dunque la mia scelta del teatro musicale non è razionale, nasce piuttosto da una simpatia, da un’adesione spontanea coltivata sempre come gioia del canto. Quindi lei riconduce il teatro d’opera alle origini del canto popolare... Sto leggendo la storia del teatro d’opera italiano di Lorenzo Arruga (Lorenzo Arruga, ll Teatro d’opera Italiano. Una storia, Feltrinelli, 2009, ndr.) che segnala tra l’altro come in questo genere teatrale la musica non sia un ornamento, ma un modo di interpretare la realtà. Si pensi del resto anche al teatro di prosa, dove la musicalità è nella parola. La canzone stessa, che nasce ancora prima del teatro d’opera non è che una poesia resa in canto. Ermanno Olmi tà, quell’aria che si respira nei luoghi originari. Oggi purtroppo quei luoghi sono stati spazzati via come atto barbarico dalla televisione. Oggi viviamo in una realtà fasulla. Persino il popolo che appare in televisione finisce suo malgrado per recitare. È una follia. Se il suo recupero del teatro avviene con quest’idea molto forte di racconto della realtà attraverso la musica del popolo, allora non è in contraddizione con la sua scelta recente di abbandonare il cinema di finzione... Certo. Per me l’abbandono del cinema di finzione è necessario nel momento in cui la storia narrata è utilizzata al servizio del film come prodotto di mercato. Non sono contrario al mercato, ma alla scelta a priori di un prodotto che deve andare sul mercato. L’artigiano che costruiva una sedia non la costruiva per il mercato, ma per il signore che gliel’aveva commissionata. Il consumismo ha un effetto deleterio perchè sta distruggendo il patrimonio della realtà naturale e soprattutto fa sì che ci circondiamo di oggetti fasulli. Tutta l’arte che nasce con i presupposti del supermercato è già condannata in partenza. ◼ focus on — 21 Il linguaggio visivo di Arnaldo Pomodoro di Patrizia Parnisari focus on La ben nota passione teatrale che da sempre accompagna il maestro Arnaldo Pomodoro lo ha portato ad allestire scenografie per spettacoli tratti da autori tra loro assai diversi, da Marlowe a Pinter, da Genet a Eschilo, da Pavese a O’Neill, Kleist, Brecht, Gluck o Strauss… È vero, come ha asserito Sam Hunter, che il teatro l’ha aiutata a «ridefinire e perfino a reinventare la sua arte»? In cosa essa ne ha «beneficiato» in questi reiterati incontri con il teatro e in particolare con l’opera lirica? L’esperienza teatrale mi ha aperto nuovi orizzonti e mi ha incoraggiato e persino ispirato a sperimentare nuovi approcci e nuove idee per le sculture di grandi dimensioni, perché il teatro mi dà un senso di libertà creativa: mi sembra di poter materializzare la visionarietà. In alcuni progetti per la sce- po drammatico dell’azione, via via scomparivano e lasciavano intravvedere ampie zone allagate dall’acqua. In generale posso dire che ho sempre cercato di usare la forza dell’astrazione per trascrivere nel linguaggio visivo il linguaggio musicale e verbale dell’opera, pur nella specificità dei singoli progetti. D’altra parte l’opera lirica è, per la sua stessa struttura, un assieme formato da diverse componenti, tutte imprescindibili l’una dall’altra, quella musicale, quella testuale e quella visiva. Ed è questo l’aspetto che più mi affascina. La sua già collaudata collaborazione con Ermanno Olmi si rafforza ora nell’allestimento, per il Teatro la Fenice, di ben due opere di musicisti tra loro molto diversi: Janáček e Mascagni. Musiche diverse per due opere coeve ma distanti per aree geografiche e vicende narrate; la tragica storia di un’antica, indomabile eroina ceca e quella drammatica, ben nota, di Santuzza e Turiddu. Un lavoro stimolante dunque. Sì, insieme a Ermanno Olmi stiamo preparando la messinscena del dittico Šárka di Janáček e Cavalleria Rusticana di Mascagni per la Fenice di Venezia. La collaborazione con Olmi nel lavoro teatrale è ormai quasi una consuetudine. Lavorare Modellino della scena di Arnaldo Pomodoro per Teneke Teatro alla Scala, Milano, 2007. Direttore d’orchestra Roberto Abbado, Regia di Ermanno Olmi (foto di Carlo Orsi) na, soprattutto nel caso di testi classici, ho realizzato grandi macchine spettacolari da cui poi ho tratto vere e proprie sculture. In altri casi ho preso lo spunto da progetti di sculture non realizzate. Dal primo allestimento lirico del 1982 a Roma per la Semiramide di Rossini, quanto e cosa è cambiato nel suo approccio scenico all’opera lirica? Dopo Semiramide, per cui avevo progettato grandi macchine che muovendosi davano diverse configurazioni alla scena e costumi studiati per una precisa funzionalità tonale e timbrica dei colori, molti sono stati gli allestimenti nel campo del melodramma. Da Alceste di Gluck e da Oedipus rex di Stravinsky e Cocteau, a Capriccio di Richard Strauss e a Madama Butterfly di Puccini, fino a Un ballo in maschera di Verdi all’Oper Leipzig di Lipsia, con la regia di Ermanno Olmi e la direzione di Riccardo Chailly e a Teneke, un’opera nuova composta da Fabio Vacchi, tratta dall’omonimo racconto di Yashar Kemal e rappresentata nel 2007 alla Scala con regia di Ermanno Olmi e la direzione di Roberto Abbado. In questo caso lo spazio del palcoscenico era ricoperto da un grande rilievo materico costituito da elementi mobili che, seguendo lo svilup- con lui è impegnativo e stimolante e mi auguro che anche in questa occasione veneziana riusciremo a realizzare una messinscena delle due opere interessante e ricca di nuovi spunti di lettura e di interpretazione. Le sue scenografie sono state spesso considerate «testi autonomi» che s’inseriscono e procedono parallelamente a quelli letterari o teatrali messi in scena. Nel caso di un’opera lirica ci sono anche la musica, il canto… Si tratta dunque di una «lettura a più voci»? Certamente, con il mio lavoro cerco di interpretare e approfondire passaggi musicali e testuali, dando così un apporto, che ritengo fondamentale, per comprendere questo straordinario fenomeno che è l’opera in musica. In particolare la scenografia con la sua inventività e fantasia può portare un elemento visionario di grande suggestione e importanza nello spettacolo d’opera. E credo che l’intervento degli artisti che hanno lavorato nell’ambito del melodramma, a partire dalle prime esperienze dei futuristi e dell’avanguardia storica, abbia contribuito al superamento delle vecchie strutture e all’evoluzione in senso moderno del linguaggio scenografico. ◼ 22 — focus on Ermanno Olmi: un ritratto tra immagini e suoni D di Mario Brenta focus on ifficile parlare di Ermanno Olmi, difficile farne un ritratto. Difficile e molto rischioso in quanto si tratta di uno di quei personaggi che, non solo in campo cinematografico ma in quello più esteso dello spettacolo o più semplicemente della cultura, hanno raggiunto una posizione tale da renderli molto simili a dei monumenti nazionali. Parlare di Olmi, infatti, è come parlare del Colosseo, del Duomo di Milano o di Piazza San Marco. E il rischio che ne consegue è quello di ripetere le solite banalità, ovvero di non dire in fondo niente di nuovo oppure, in un malinteso guidare. E della capacità, che ne consegue, di leggere la realtà e di raccontarla in modo personale, originale che non vuol dire strano, spettacolare se non addirittura esibizionistico. Curiosità e irrequietezza dello sguardo, articolazioni di immagini e di concetti, come una partita a tennis non scontata, non il solito tic-tac del «campo e controcampo» ma una visione che, pur nell’estrema frammentazione dei piani, si può dire alla fine ologrammatica; attraverso una sapiente orchestrazione delle parti, imprevedibile ma, a posteriori, a cose fatte, soltanto semplicemente logica, e, questo, se è lecita la metafora musicale, nell’intervento degli «strumenti solisti» come delle «sezioni orchestrali». Film come partitura, dunque. Partiture che si incontrano: quelle dei ritmi e delle misure cinematografiche e quelle più propriamente tali delle musiche dei suoi film. Vedi Stravinskij, Bach, Telemann, Vacchi, Fresu… musica che ha e conserva la propria autonomia dall’immagine e da questa trae la sua energia dialogante; non si appoggia mai alla sce- Ermanno Olmi desiderio di essere a tutti i costi originali, di travisare la realtà. La cosa migliore credo sia quella di interrogarsi facendo finta di non saperne nulla, ovvero, dimenticando davvero tutto. Fare cioè quello che farebbe Olmi stesso nella medesima situazione. Via allora, per cominciare, tutti gli stereotipi che sono stati costruiti su di lui e attorno a lui, non perché siano falsi ma perché sono, come detto, stereotipi. Via l’attenzione verso gli umili, via la milanesità, via il mondo del lavoro, via l’eredità del neorealismo. Parliamo invece, ad esempio, di libertà: di quella libertà autentica di pensiero, come di comportamento, che Olmi ha sempre dimostrato in ogni suo progetto, in ogni suo lavoro. Di quella libertà, accompagnata sempre da quell’altrettanto autentica e viva curiosità, che ha fatto sì che potesse lasciarsi guidare dal proprio sguardo, personale ma mai preconcetto, sul mondo; che gli ha permesso di andare sempre ben oltre la superficie delle cose e coglierne il senso per la strada più semplice e diretta; senza paura di lasciarsi sorprendere dalle cose stesse ma lasciandosi da esse na ma le si pone di fronte dialetticamente e la vivifica. E, vivificandola, si vivifica. Ricordo come spesso Tullio Kezich raccontasse con affettuosa ironia quanto Olmi fosse convinto di avere inventato, lui, il cinema. E non si può dire avesse torto: è proprio così. Forse non del tutto, forse Olmi non ha proprio inventato «il» cinema ma ha senz’altro inventato «il proprio» cinema; non solo per quanto riguarda un aspetto personale come lo stile ma anche per quanto concerne i modi realizzativi. Anzi, potremmo dire che l’ha inventato e reinventato a ogni film, trattando ogni singolo film come questo «meritava» e non secondo una regola generale, prefissata. Non conosco (lo ammetto vergognosamente) il lavoro di Olmi nel campo della lirica ma è come se lo conoscessi perché penso senz’altro (mi si perdoni la presunzione) di sapere cosa può aver fatto e cosa farà. Una strada praticabile (a questo punto, forse, la sola) potrebbe essere quella di tentare un’insolita critica preventiva, a priori, prima della visione dell’opera realizzata. Una critica che, al posto di parlare di focus on — 23 ciò che si è fatto, parli invece delle aspettative di ciò che Olmi farà o, meglio, avrà fatto. Avrà fatto senz’altro qualcosa di estremamente originale; perché estremamente naturale, perché attento all’essenza delle cose e sempre rispettoso nei confronti della realtà. La realtà non va violentata: va messa in condizione di esprimersi, di parlarci. Non si sarà ovviamente ispirato a nulla se non alla propria esperienza personale, alla propria particolare visione del mondo; non si sarà di certo peritato di documentarsi più di tanto su ciò che fanno o hanno fatto gli altri. Sarà salito sul palcoscenico con la sua candida semplicità un po’ sorniona e si sarà detto: bene, cos’è l’opera lirica? Qual è la sua realtà? È quella di una narrazione che certamente si ispira e si conforma ai principi della drammaturgia teatrale ma, prima di tutto, alle esigenze della musica e del canto. Sono il canto e la musica che vanno messi in rilievo e l’aspetto squisitamente drammaturgico a questo si deve adattare; ma senza soffrirne, anzi. Si deve adattare senza tradire se stesso, sen- del termine, nella sua accezione più etimologica. Umile da humus: terreno, aderente alla terra ma anche nel significato di umano di ciò che dalla terra deriva. Homo ha la stessa radice di humus (terra) e da questa proviene. Umano nel suo dire ma soprattutto nel suo fare; nello stare, cioè, con i piedi per terra. Avrà operato con rispetto (lo si è detto) ma anche con l’ignara (e per questo innocente) spavalderia dell’umile che non consiste – come si sarebbe portati a credere – nel dire «non sono all’altezza», «non sono capace» ma nel dire «si può fare». Tutto questo però senza presunzione, con fiducia nella propria sensibilità, nel proprio pensiero; cioè imparando, trovando umilmente la propria strada, il proprio percorso nel mondo e cercando di comprenderlo (e di comprendersi) attraverso l’emozione ma anche attraverso il ragionamento. Semplicemente. È per questo motivo che Olmi è stato ed è tuttora innovatore anche se molto spesso incompreso, perché vero innovatore. Basti pensare a E venne un uomo e a Il mestiere delle armi, focus on Sul set di Il mestiere delle armi (2001) Sul set di L'albero degli zoccoli (1977) za per questo essere in posizione subalterna. Adattarsi non vuol dire adeguarsi supinamente ma dialogare. Solo così la cosa funziona e i due aspetti si esaltano, senza sopraffazioni ma anche senza servilismi. È lo stesso procedimento che è auspicabile avvenga in un film tra immagine e suono. Originalità e autonomia della musica – come si è detto – perché le immagini ne vengano esaltate ma, di riflesso, anche la musica in quanto tale. Solo che qui si procede in senso inverso. Cosa si è quasi sempre fatto e si fa nelle regie liriche? O l’omaggio passivo, supino o lo stravolgimento totale. O le scene di cartapesta, le spade di latta, i costumi polverosi o la distruzione totale, il vuoto. Cosa farà o, meglio, cosa può aver fatto allora Olmi? Avrà a mio avviso, come è sua abitudine, cercato il dialogo, la mediazione. Una spolverata alla scena l’avrà senz’altro data, ma dolcemente, con cura cercando di non fare danni, di non rompere nulla. Le avrà dato un nuovo respiro, nuova energia: le avrà dato nuova vita senza però stravolgerne l’intima vera essenza. Avrà operato, come sempre, anche e soprattutto con umiltà: nel senso letterale Con Raz Degan, Cento Chiodi (2007) film che hanno aperto nuove strade alla narrazione cinematografica (tra fiction e documentario il primo, tra fiction e saggio il secondo) o a quasi tutta la sua produzione successiva a L’albero degli zoccoli che riesce magicamente – e soprattutto coraggiosamente – a coniugare i caratteri più immediati del realismo con quelli dell’universo simbolico della parabola e dell’allegoria. E lo sarà anche adesso in occasione di queste due opere di Mascagni e Janáček1. Staremo a vedere ma sono sicuro che sarà così. Perché in fondo, grazie a questo tipo di approccio, umile come si è detto ma consapevole, Olmi può fare qualunque cosa, cimentarsi in modo nuovo e originale in qualunque disciplina. Perché la semplicità del pensiero e la trasparenza dello sguardo gli consentono una comprensione chiara e immediata della materia che ha davanti e delle possibilità dello strumento che gli viene dato e attraverso il quale la dovrà formare. ◼ 1 Cavalleria rusticana e Šárka.