Psicologia dell’arte A.A. 2010-11 Parte 2 Luis Buñuel (1900-1983) Di un’infinita tenerezza dietro un’apparente crudeltà, intransigente e comprensivo, onesto e fedele nei confronti della sua arte, di se stesso, dei suoi ideali, dei suoi amici. (Sadoul, 1978, p. 47) • Aderisce per tre anni al movimento surrealista, girando due film: – Un chien andalou (1929) – L'âge d'or (1930) • La morale borghese è per me l’antimorale, perché fondata su tre istituzioni ingiustissime: la religione, la patria e la famiglia (Bunuel) • Periodo surrealista: 1929-1930 • Periodo messicano: 1950-1962 • Periodo francese (ritorno a modalità surrealiste): dopo il 1964 • Il surrealismo permette a Buñuel di andare oltre la superficie delle cose per vedere in esse una realtà più misteriosa; gli apre la porta delle profondità dell’essere, riconosciuto e desiderato, quell’appello all’irrazionale, all’oscurità, a tutti gli impulsi che vengono dal nostro io profondo (Buñuel, 1982a, p. 133) …fatta eccezione per due o tre film, il neorealismo non mi piace. Per esempio: un bicchiere, per un neorealista, è un oggetto di cristallo che serve a bere acqua e nient’altro. Ma, a seconda del grado di affettività che impieghiamo in questa contemplazione, per semplice spinta irrazionale, e per l’intervento del subconscio, quel bicchiere può evocare in me un cavallo dalla bocca malata, o il ricordo di mia madre, o qualunque altra cosa. (Turrent, Colina, 1986, p. 94) fra distruttività... [ho sempre avvertito in me un] istinto negativo, distruttivo, […] più forte di qualsiasi impulso creativo. L’idea di incendiare un museo, per esempio, mi ha sempre allettato di più dell’apertura di un centro culturale o dell’inaugurazione di un ospedale. (Buñuel, 1982a, p. 117) La simbologia del terrorismo, inevitabile nel nostro secolo, mi ha sempre attirato, ma quella del terrorismo totale, che mira alla distruzione di ogni società, leggi genere umano. Provo solo disprezzo verso chi fa del terrorismo un’arma politica al servizio di qualche causa […]. Non voglio neanche parlarne, di quel genere di terroristi. Mi fanno orrore. [Ho adorato […] tutti quelli che volevano far saltare […] un mondo che sembrava indegno di sopravvivere. Li capisco, li ho ammirati spesso. Il fatto è che tra la mia immaginazione e la mia realtà c’è di mezzo un fossato profondo, come capita a tutti o quasi. Non sono, non sono mai stato un uomo di azione, uno che butta bombe, e quegli uomini, cui mi sentivo tanto vicino, be’ [sic!], non avrei mai potuto imitarli. (Buñuel, 1982a, pp. 135-136) • …e ricerca di “oggetti ideali”, sempre commisti di sensualità Commistione fra sensualità e spiritualità. Buñuel racconta un suo sogno: …un altro sogno mi colpì ancora più violentemente. Vidi all’improvviso la Vergine Maria, tutta circonfusa di dolcezza, che mi tendeva le mani. Presenza molto forte, indiscutibile. E parlava, a me, sinistro miscredente, con la più grande tenerezza del mondo, avvolta in una musica di Schubert che udivo distintamente. Ho voluto ricostruire questa immagine nella Voie Lactée, ma è ben lontana dalla forza di convinzione immediata che aveva nel mio sogno. Mi inginocchiai, gli occhi mi si riempirono di lacrime e mi sentii di colpo sommerso dalla fede, una fede vibrante e invincibile. Quando mi svegliai, mi ci vollero due o tre minuti prima di ritrovare la calma. Continuavo a ripetere, sull’orlo del risveglio: «Sì, sì, io credo, Vergine Santa!” con il cuore che batteva a martello. Aggiungo che questo sogno presentava un certo carattere erotico. Erotismo contenuto entro i casti limiti dell’amore platonico, è ovvio. Forse, se il sogno fosse stato più lungo, quella castità sarebbe svanita per far posto a un vero desiderio? Non posso dirlo. Mi sentivo semplicemente innamorato, colpito al cuore, al di là dei sensi. Sensazione provata abbastanza spesso, nel corso della mia vita, non solo in sogno (Buñuel, 1982, pp.105-106). L’immagine della purezza, un po’ stereotipata, della Madonna in La via lattea Nella mia infanzia ho provato i sentimenti amorosi più intensi al di fuori di qualsiasi attrazione sessuale […] Si trattava di un amore platonico allo stato puro. Mi sentivo innamorato come un monaco fervente può esserlo della Madonna. (Buñuel, 1982a, p. 157) • Il “romanticismo” di Buñuel Forse un amore appassionato, sublime, che brucia come una fiamma profonda, è incompatibile con la vita. È troppo grande, troppo forte per la vita. Solo la morte può contenerlo. (Buñuel, 1982, p. 157) …riesco solo a credere in pochi individui eccezionali e in buona fede, seppure perdenti, come Nazarin […] Questo mi commuove veramente: è l’amore totale, l’amore nonostante tutto. Un amore assolutamente privo di speranza. […] l’amore che si afferma al di sopra di ogni cosa. È un’idea troppo romantica? Forse, ma mi emoziona sempre. (Buñuel, in: Turrent, Colina, 1986, tr. it. 1993, pp. 136-137) – Viridiana – Nazarin – Simon del deserto – Il prete di Violenza per una giovane –… Mi sono simpatici quelli che si sforzano di cercare la verità: dissento da quanti parlano come se l’avessero trovata. (Turrent, Colina, 1986, pp. 127) Il surrealismo non era per me un’idea estetica, un movimento di avanguardia in più, ma qualcosa che impegnava la mia vita in una direzione spirituale e morale (Turrent, Colina, 1986, p. 49). Il surrealismo mi svelò che l’uomo non può fare a meno di un senso morale. Credevo alla libertà totale dell’uomo, ma ho visto nel surrealismo una disciplina da seguire, e questo mi ha fatto compiere un passo poetico e meraviglioso (Buñuel, 1962). […è] una cosa molto importante. In effetti una cosa è l’immaginazione e un’altra è la vita. Dal punto di vista dell’immaginazione, nessuno ha niente da insegnarmi, perché so tutto, spero tutto. Con la vita è diverso. Nella realtà non sono mai stato un uomo d’azione, ma nell’immaginazione lo sono. E per questo nell’immaginazione posso essere aggressivo. Nello stesso momento in cui nella realtà sto salutando una persona, nella mia mente posso pensare di ucciderla. Sono due piani diversi: quello reale, dell’attività sociale, da una parte e dall’altra quello immaginato. […] L’immaginazione è l’unico territorio in cui l’uomo è libero. (L. Buñuel, in: Turrent, Colina, Buñuel secondo Buñuel, 1986, tr. it. 1993, pp. 86-87) Afferma J.-C. Carrière co-sceneggiatore con Buñuel per molti anni: […l’] immaginazione […] resta innocente, da qualunque parte noi la dirigiamo. Il famoso «peccato di intenzione” della nostra infanzia, il «cattivo pensiero”, non esistono più, dal momento che inventiamo delle situazioni che vorremmo umane. Uno sceneggiatore, diceva Luis [Buñuel], deve ogni giorno uccidere il padre, violentare la madre e tradire la patria. È un suo dovere, in qualche modo. È lì per questo. Se non lo fa lui, nessuno lo farà al suo posto, e rischia di finire nei guai. Da qui un certo coraggio necessario che ci fa attraversare ogni giorno (non necessariamente per trovarvi un appiglio) l’orribile, l’irrazionale, il volgare. Chi conosce i fantasmi dice che essi desiderano venire liberati dalla loro vita di fantasmi per poter riposare come antenati […] I fantasmi dell’inconscio, che imprigionati dalle difese continuano a infastidire il paziente nell’oscurità delle sue difese e dei suoi sintomi, possono assaporare il sangue, sono liberati. Alla luce dell’analisi i fantasmi dell’inconscio ritrovano riposo e sono ricondotti alla pace degli antenati e il loro potere viene trasformato in una rinnovata intensità della vita nel presente, del processo secondario e delle relazioni con oggetti nuovi e attuali. (Loewald, 1960, tr. it. 1999, pp. 216-217). Luis Buñuel, Estasi di un delitto, 1955 Luis Buñuel, Estasi di un delitto, 1955 Archibaldo guarda estasiato il carillon Archibaldo a colloquio con Carlota – Carlota: Cos’ha? La vedo preoccupato. – Archibaldo: Sì, Carlota, le devo parlare. – Carlota: È successo qualcosa di grave? – Archibaldo: Con lei non voglio fingere. Oggi mi è successa una cosa che mi ha turbato molto, che ha risvegliato in me sentimenti profondi e lontani. Ma non voglio parlare di questo. – Carlota: Perché? Crede che non potrei capire? – Archibaldo: Certo che sì. Sono io che non riuscirei a farmi capire. – Carlota: Mi parli con franchezza. Chi dice che non possiamo trovare una soluzione? – Archibaldo: [con speranza] Cercherò di spiegarmi. Lei per me è un ideale. [Carlota abbassa gli occhi sconsolata] So che la sua innocenza e la sua purezza potrebbero salvarmi. [Grave] Ma non voglio legarla a un destino che potrebbe essere tragico. – Carlota: [con sorpresa e preoccupazione] Perché dice questo? – Archibaldo: Sono convinto di non essere un uomo normale. Conosco le mie aspirazioni e mi faccio paura. Mi creda, a volte desidero ardentemente essere un gran santo, altre volte sento con certezza che potrei essere un grande criminale. Non le pare assurdo? – Carlota: [ostentando tranquillità, ma essendo in fondo preoccupata] Lei vive troppo in solitudine e questo non le fa bene. Venga più spesso a trovarci, abbiamo tante cose da dirci. Archibaldo a colloquio col giudice – Giudice: Mi permetta una domanda. A lei piacciono i romanzi di appendice? […] E adesso parlando seriamente, di una cosa sono sicuro: lei è un grande criminale, in potenza chiaramente. – Archibaldo: [in preda all’agitazione] Cosa decide per i miei crimini? – Giudice: Crimini? Ma quali crimini! Non possiamo processarla per aver desiderato la morte di qualcuno. Se ciò fosse perseguibile, noi giudici non faremmo altro. [Arriva la segretaria che annuncia la visita della moglie del giudice, il quale risponde di essere in procinto di arrivare] – Archibaldo: [fra la protesta e lo sgomento] Ho ucciso io quelle donne, sono un criminale! – Giudice: [appoggiando amichevolmente una mano sulla spalla di Archibaldo] Il pensiero non delinque, amico mio. Posso solo darle un consiglio… – Archibaldo: [fremente] Sì. signor giudice. – Giudice: [sorridendo] Si rada col rasoio elettrico signor de la Cruz! È tutto! Mi scusi, mia moglie mi aspetta… – Archibaldo: Arrivederla, signor giudice. [esce disturbato] A proposito di estasi di un delitto T.P. Turrent, parlando con L. Bunuel di Estasi di un delitto, afferma: …l’atto di uccidere ha per Archibaldo una doppia funzione. Da una parte di possesso erotico, dall’altra di liberazione dell’immaginazione che gli restano dall’infanzia. Uccidendo sul piano dell’immaginazione, Archibaldo si libera. (Turrent, Colina, 1986, p. 119) Bunuel replica: …non sono d’accordo con quanto lei dice. Archibaldo vuole uccidere, non c’è dubbio. Probabilmente uccidere lo libererebbe da un punto di vista sessuale, ma non si sa cosa farebbe in seguito se arrivasse ad uccidere realmente. […] Si direbbe che desidera fallire, per poter provare ancora. Lo fa per liberarsi? Forse lo fa per il motivo contrario. So che questo sembra oscuro. Mi attira l’oscurità in un personaggio. Se cercate di costruire un personaggio molto razionalmente, costruirete un personaggio senza vita. Ci vuole una zona d’ombra. (Turrent, Colina, 1986, p. 119) Una nuova prospettiva: la complessità “Il tutto è più della somma delle parti” Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e come causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forse di cui è animata la natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se perdipiù fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi (Laplace 1814). • Ottica meccanicista oggetti e individui sono costituiti da “cose semplici”, potenzialmente conoscibili in modo esaustivo: padroneggiando gli elementi semplici e le leggi in base alle quali essi interagiscono, si può arrivare a comprendere interamente il funzionamento dell’ “oggetto” che si sta indagando. • Un oggetto inteso nell’ottica del meccanicismo, pertanto, può essere assai complicato, ma ciò non esclude che, in linea di principio, possa essere ridotto alla dinamica delle parti semplici di cui è costituito. Qualcosa è “complicato”, cioè, se il suo funzionamento può essere ridotto a degli elementi e a delle leggi semplici. • L’ottica della complessità esprime un diverso atteggiamento scientifico, che si libera «dalla convinzione di fondo che il mondo microscopico sia semplice e governato da leggi matematiche. Ciò ci appare oggi una fallace idealizzazione. La situazione potrebbe essere simile al ridurre i fabbricati a conglomerati di mattoni; con gli stessi mattoni si può costruire una fabbrica, un palazzo o una cattedrale. È a livello dell’intera costruzione che noi possiamo vedere l’effetto del tempo, dello stile in cui il fabbricato è stato concepito» (Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p. 9). • Cos’è un sistema complesso? È un sistema composto da molte parti differenziate, organizzate gerarchicamente (un esempio è il corpo umano), fra le quali intercorre una fitta rete di relazioni “nonlineari”. • Tutti i sistemi sono instabili e quindi nonlineari; i sistemi possono venire essere trattati come stabili per approssimazione perché così risultano “calcolabili” • Tale approssimazione cessa di essere tale per sistemi lontano dallo stato di equilibrio • In prossimità dell’equilibrio, dice Prigogine, la materia è “cieca”; lontano dall’equilibrio, “comincia a vedere” • Le parti del sistema iniziano a manifestare dei comportamenti collettivi. Si dice che tali sistemi si “autoorganizzano” • Spesso anche i confini del sistema si indeboliscono e il sistema inizia a interagire col contesto. – Vengono utilizzati termini come “risonanza”, “punti di biforcazione”, “cambiamento di stato”, “aggancio di fase” ecc. per dar conto di come l’evolvere di strutture complesse non sia semplicemente spiegabile in termini di sommatoria del funzionamento delle parti. • Si generano proprietà emergenti i fenomeni complessi non sono riducibili a quelli inferiori perché manifestano proprietà emergenti che scaturiscono dalla loro stessa complessità • Spesso non si può sapere in anticipo, neanche con approssimazione, cosa avviene in un sistema instabile viene meno l’ideale di piena intelligibilità del mondo, tipico della tradizione occidentale non esiste una “teoria del tutto”, una master equation, una grand theory • La nozione di complessità conduce ad un “arretramento” “quasi estetico” di fronte a teorie onnicomprensive, ma semplificatrici (Stenger, 1985, p. 51). • Si giunge a un diverso atteggiamento nei confronti della vita… la realtà non solo meccanicità e tendenza al disordine, ma possiede anche un’intrinseca capacità di creare ordine e strutture complesse, come «questi bellissimi fiori disposti nel vaso da mia moglie» (Prigogine, 1996, tr. it. 1997, p. 54). Whitehead: la creatività come un principio cosmologico • Prigogine: esiste la possibilità di una “nuova alleanza” (1981) fra “scienze della natura” e “scienze dello spirito” Stuart Kauffmann – Reinventare il Sacro (2010) «La scienza non è in grado di conoscere e dedurre tutto e questa incapacità frantuma le barriere tra scienza e arte e ogni altra manifestazione del pensiero. La scienza è solo uno degli strumenti di conoscenza in un mondo di cui ignoriamo gli esiti. La conseguenza è profonda: c’è bisogno di un secondo Illuminismo che tenga conto dei diversi aspetti della nostra umanità e contribuisca a una civiltà globale diversa dall’attuale, capace di opporsi ai fondamentalismi. E non mi riferisco a un’unica realtà omogenea, ma a un’ecologia di civiltà che coevolvono insieme e condividono un senso del sacro che va oltre l’adorazione di una ristretta razionalità. Dio diventa la creatività dell’Universo, in cui siamo immersi e di cui facciamo parte». • la psicologia della Gestalt aveva già posto al centro l’idea che “il tutto è più della somma delle parti”. M. Wertheimer (1880-1943) W. Köhler (1886-1941) K. Koffka (1887-1967) K. Lewin (1890-1947) • Esistono cioè caratteristiche delle configurazioni globali che non sono riscontrabili negli elementi costituenti singolarmente considerati. • Le “proprietà del tutto” risultano prioritarie rispetto agli elementi costituenti ne segue, come corollario, che le parti assumeranno ruoli diversi nei differenti contesti in cui sono inserite. I principi dell’organizzazione percettiva secondo la psicologia della Gestalt vicinanza somiglianza chiusura destino comune continuità buona forma o pregnanza • Il principio della buona forma suggerisce che il campo percettivo tende ad organizzarsi globalmente, per “grandi tratti”, non tendendo conto dei singoli punti, ma secondo una visione dall’alto” (Wertheimer). Vengono quindi preferite, a livello percettivo, forme più regolari, simmetriche, omogenee, equilibrate, semplici, coerenti. Esperienza passata Figura-sfondo Apprendimento come ristrutturazione cognitiva • Per la psicologia della Gestalt l’apprendimento è interpretabile come passaggio da una Gestalt ad un’altra che avviene per “insight” come riorganizzazione del campo dell’esperienza e come frutto “autoregolazione organismica” (K. Goldstein 1939) contro un apprendimento per “prove ed errori” di estrazione comportamentista • Un esempio: il cervello Il cervello non funziona come una grande centralina telefonica dove ogni neurone riceve e invia segnali, ma come un sistema complesso capace di generare comportamenti collettivi. L’ “intenzionalità” è frutto di tali stati collettivi • Ma anche gli individui sono sistemi autoorganizzati! La teoria che io sostengo è che l’intera concezione del materialismo si applica solo a entità assolutamente astratte, cioè ai risultati del discernimento logico. Le entità concrete e durevoli sono organismi, talché il piano del tutto influenza le qualità proprie dei vari organismi subordinati che in esso rientrano. Nel caso di un essere animato, gli stati mentali, psichici, rientrano nel piano dell’organismo totale e con ciò modificano i piani degli organismi successivamente subordinati fino agli organismi finali più piccoli, come gli elettroni. (Whitehead 1925, La scienza e il mondo moderno, Boringhieri, Torino 1978, p. 94) • L’autoorganizzazione dei sistemi viventi come “autopoiesi” (Varela, Maturana 1985) • I sistemi viventi sono dotati di una “chiusura operazionale” che ne permette l’autonomia rispetto all’ambiente e la produzione autosufficiente di significato (N. Wiener) Se ne deduce che: 1) i processi di auto-organizzazione dell’organismo non sono identici ai processi di auto-organizzazione dell’ambiente. 2) tuttavia, la continua interazione fra organismo e ambiente fa sì che si istituiscano degli “accoppiamenti strutturali”, che consentono all’organismo di sviluppare delle organizzazioni interne che, pur essendo autonome, sono in risonanza con la struttura dell’ambiente. • Esiste una “via di mezzo” fra autonomia ed eteronomia, fra solipsismo ed eterodeterminazione del soggetto, che permette di pensare «la co-emergenza delle unità autonome e dei loro mondi» (Varela, 1985, p. 132). • Ciascun individuo è dotato di proprie logiche e di una produzione autonoma di significato. «Occorre mettersi nella testa di un altro senza ridurre la logica dell’altro alla propria logica, e lasciare che l’altro compia un’analoga operazione di “trans-spezione” (M. Maruyama) nei nostri confronti» (Ceruti, 1985, p. 15). • Il mondo degli individui è costituito da tanti punti di vista irriducibili l’uno all’altro, ma che, ciononostante, possono dialogare fra loro. • Morin usa il termine “dialogica” per alludere a un siffatto confronto fra più punti di vista: «C’è una pluralità di istanze. Ciascuna di queste istanze è decisiva; ciascuna è insufficiente; ciascuna di queste istanze comporta il principio di incertezza […] Il problema […] è di fare comunicare queste istanze separate; è in qualche modo di fare il circolo» (Morin, 1984, pp. 77-78). La vita fra ordine e caos • La realtà non come un insieme di particelle inerti mosse da forze, ma come un fermento di sistemi autoorganizzantesi, sempre sull’orlo del caos e della distruzione Stabilità, ordine ↓ “Margine del caos”, complessità ↓ Caos Ordine perfetto, “cristallizzato” Massima connessione e assenza di differenziazione. Il sistema è descrivibile deterministicamente Mobilità totale, caos Massima differenziazione e assenza di connessione. Il sistema è descrivibile solo statisticamente Complessità Le molecole dell’acqua sono differenziate e connesse perché le molecole sono legate fra loro, ma ciascuna si può spostare rispetto alle altre e il sistema può assumere molteplici configurazioni. Il sistema è descrivibile con meccaniche non lineari • La vita: fra ordine e caos. “Le interazioni che tengono in vita un cane non possono essere studiate in vivo. Se si volesse studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere il cane” (N. Bohr) • La creatività: fra ordine e caos • La salute mentale: fra ordine e caos – Per Winnicott la salute mentale non è sinonimo di tranquillità. La vita di un individuo sano è caratterizzata da paure, sentimenti conflittuali, dubbi e frustrazioni, come pure da elementi positivi. Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi reali. Ma a quale prezzo? In quale misura essi negano la verità che di fatto esiste il pericolo di sentirsi non reali, posseduti, di non essere se stessi, di precipitare all’infinito, di non avere una direzione, di essere separati dal proprio corpo, annientati, di essere un nulla, di non avere un luogo in cui stare… (D. Winnicott, Il concetto di individuo sano) • Pirandello: contraddizione vita/forma Sai come ho vissuto finora. Sai che ho avuto sempre ribrezzo, orrore, di farmi comunque una forma, di rapprendermi, di fissarmi anche momentaneamente in essa. […] Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto. Vedi, è questo il pensiero che mi sconvolge e mi rende feroce! La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma. Ogni forma è la morte. Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte. Noi tutti siamo eseri presi in trappola, staccati dal flusso che non s’arresta mai, e fissati per la morte. (Novella La trappola) • Un esempio: le istituzioni e le strutture organizzate Lewin: disgelo cambiamento riconsolidamento • Whitehead concepisce la realtà come un processo intensamente creativo del quale gli individui fanno parte, ma da cui apparentemente si staccano in virtù di un percorso di individualizzazione • Tale impulso di individualizzazione agisce inconsciamente, sospingendo oscuramente i soggetti verso le loro realizzazioni. • Pur essendo dotati di una loro autonomia, gli individui sono parte del processo: ne segue una logica bivalente, in virtù della quale gli individui, pur essendo se stessi, sono contemporaneamente tutt’uno col processo. • Whitehead chiama “prensione” quell’atto unificante che comporta un dare/prendere • ogni prensione lascia una traccia nella totalità: “ogni cosa che esiste ha due aspetti, il suo io individuale e la sua significazione nell’universo” • concrescenza fra individuo e totalità • logica paradossale: esiste una natura delle cose, ma non è sperimentabile se non nell’ambito dell’interpretazione che se ne da come soggetti idealrealismo di Whitehead • L’individualizzazione è connessa al valore: il primo bagliore della coscienza è percepire che “qualcosa importa”. • L’esperienza del mondo è più vasta della nostra capacità analitica: viene prima il “vago afferrare la realtà”, una percezione magmatica e inconscia (à la Leibniz) della realtà, e poi la separazione me/altro, che comporta sempre una limitazione. • N.B. Per Whitehead occorre tener conto dell’autonomia del soggetto. • Esiste una “energia di autorealizzazione”, una creatività, un comprendere la multiformità della realtà a partire da un peculiare ideale che è capace di conferire ordine al processo: “Un uso fortunato delle astrazioni fa parte dell’evoluzione verso l’alto”. • Qualora si accentui il valore delle astrazioni si smarrisce la linea di derivazione dal magma indistinto primario e “l’astrazione può fuorviarci rispetto alla complessità reale da cui si origina”. • I sentimenti sospingono la creatività e ci fanno comprendere inconsciamente che l’altro è l’io stesso: “la vita è fruizione dell’emozione, che deriva dal passato e tende verso il futuro” Whitehead parla di una “comprensione” che supera l’uso del linguaggio e il linguaggio speculativo, capace di dire solo tautologie. Comprendere è vivere. • La realizzazione dell’ideale resterà fatalmente inappagata, perché ciò significherebbe che il soggetto ha realizzato l’unificazione dell’intera realtà. • Ma il soggetto non riuscirà neanche ad avvertire la soddisfazione risultante dalla sua stessa attività creativa, perché la soddisfazione appartiene al processo e non al soggetto • l’Arte permette invece di sperimentare l’eternità, anche se in maniera imperfetta e transitoria. L’arte permette un primo piano su una singolarità rispetto alla quale ci permette di cogliere anche lo sfondo oscuro dove si svolge la connessione col tutto. Gli auguri dell’Innocenza (William Blake) Vedere un Mondo in un granello di sabbia, E un Cielo in un fiore selvatico, Tenere l’Infinito nel cavo della mano E l’Eternità in un’ora. “Se le porte della percezione venissero sgombrate, tutto apparirebbe all'uomo come in effetti è, infinito” (William Blake). Blake sconfitta Blake Newton • L’arte permette di tornare alla natura, è educazione della natura. Il bene dell’universo non può consistere in un infinito posticipare: l’arte si preoccupa della fruizione immediata, qui ed ora: “l’arte ha una funzione curativa nell’esperienza umana quando rivela, come in un lampo, la segreta assoluta verità concernente la Natura delle Cose”. • La creatività fa sì che l’universo sia in costante agitazione • Poiché la creatività non potrebbe esplicarsi senza limitazioni che si oppongono, Dio deve contenere in sé un principio di limitazione. Dio deve essere immaginato come animato da una “tenera preoccupazione che nulla vada perduto” Dio è pronto a garantire lo sviluppo di tutte le potenzialità. Martin Buber • Per Martin Buber ci sono due modalità, completamente diverse, di rapportarsi all’altro: come un Tu o come un Esso – Io-Tu – Io-Esso • Quando mi pongo davanti all’altro da me come un Esso, lo tratto come un oggetto (per quanto io possa rendere nobile e puro questo oggetto). • Quando mi pongo davanti all’altro come un Tu sto nella relazione. “Chi dice ‘Tu’ non ha mai qualcosa per oggetto” • Posso considerare, dice Buber, un albero come un oggetto da classificare, come qualcosa che suscita i miei sentimenti, i miei stati d’animo; “ma può anche accadere […] che nel considerare l’albero io entri in relazione con lui; ed ecco che non è più un Esso. Sono stato colto dalla forza dell’esclusività” (p. 13) L’albero non è un’impronta, un gioco della mia fantasia; non è legato al mio stato d’animo; al contrario esso vive di fronte a me e sta in rapporto con me, come io con lui, solamente secondo modi diversi. […] Così, avrebbe dunque l’albero una coscienza, simile alla nostra? Non me ne sono mai accorto, ma volete voi di nuovo, poiché vi pare che siete riusciti a farlo in rapporto a voi stessi, distruggere l’indistruttibile? A me non viene incontro nessuna anima o alcuna driade dell’albero, ma l’albero stesso. (p. 13) • Se di un uomo considero il colore dei suoi capelli, il suo buon carattere ecc. non vedo il suo Tu. • Non v’è modo di arrivare al Tu con ricerche o strategie. La relazione col Tu è immediata e mi viene incontro. Ogni mezzo è un impedimento. Soltanto quando ogni strumento è eliminato avviene l’incontro. • Anche Dio può essere sperimentato come un Tu o come un Esso. Certamente più d’uno, che vivendo nel mondo delle cose si accontenta di sperimentarle e di utilizzarle, si è costruito una sovrastruttura ideale, nella quale trova rifugio e conforto davanti all’agghiacciante sensazione di nullità che gli procura questo suo modo di vivere. Egli lascia cadere sulla soglia la veste quotidiana, si avvolge nel candido lino e si allieta alla vista dell’ente primo e necessario; ma la sua vita non ha alcuna parte in esso, anche se in questo annunzio può trovare la propria soddisfazione. (p. 18) • Da compatire è colui che non riesce a sperimentare la relazione Io-Tu, “ma è miserabile colui che la sostituisce con un concetto o con una formula, come se fossero il suo nome”. Anche la più nobile delle finzioni è un feticcio, anche il più sublime dei sentimenti, se fittizio, è vizioso. • Per Buber non vi è mai un puro vivere nella relazione, né un puro vivere nella dimensione strumentale dell’Esso. La vera storia si svolge nella zona intermedia fra Tu e Esso. Questa è la sublime tristezza della nostra sorte, che nel nostro mondo ogni Tu deve mutarsi in Esso. Così il Tu è presente esclusivamente nella relazione immediata; come la relazione viene elaborata e intorbidata con uno strumento, il Tu diviene un oggetto tra gli oggetti; forse il più insigne, ma pur sempre uno di essi, dalle dimensioni e dai limiti fissati […] Ogni Tu che esista al mondo è destinato per natura a divenire cosa. (pp. 20-21) L’amore stesso non può perseverare nella relazione immediata; esso dura, ma nell’avvicendarsi di situazioni potenziali e attuali. È prescritto che ogni Tu del mondo divenga per natura una cosa per noi, o che sempre ritorni nella condizione di cosa. (p. 86) • Quando gli incontri avvengono nella dimensione del Tu, si incontrano sempre e soltanto “essenze”; non v’è misura di confronto, solo accadimento nel tempo presente. Solo per la dimensione dell’Esso, infatti, vi è il tempo passato. Gli incontri non si ordinano in funzione del mondo, ma ognuno è per te un segno dell’ordine del mondo. Essi non solo legati l’uno all’altro […] Il mondo che così ti appare è poco sicuro, poiché ti appare sempre nuovo e tu non puoi coglierlo con la parola; è privo di densità, poiché in esso tutte le cose si compenetrano a vicenda, non ha durata, perché tutto viene anche non chiamato e svanisce anche se tenuto stretto. (p. 33) • Rispetto al mondo dell’Esso, che è articolato nel tempo e nello spazio, … …i momenti del Tu appaiono in questa cronaca di fatti solidi e vantaggiosi come episodi strani, dal carattere lirico e drammatico, di una magia che seduce, ma pericolosamente sviante […] sembra lascino dietro di sé più questioni insolute che gioia, che scuotano la sicurezza; insomma sono momenti poco sicuri, di cui faremmo a meno. Se, passati questi momenti, dobbiamo pur sempre tornare nel ‘mondo’ perché non rimanere in esso? Perché non richiamare all’ordine ciò che ci sta di fronte, e inserirlo nel mondo degli oggetti? Perché se proprio non si può fare a meno di rivolgersi con il Tu al proprio padre, alla moglie, agli amici, perché non dire Tu e intendere Esso? […] Non si può vivere nel puro presente. […] Con tutto l’impegno della verità, ecco: senza l’Esso l’uomo non può vivere; ma non è uomo chi se ne accontenta. (34-5) • C’è pertanto il rischio dell’irrigidimento del Tu nell’Esso, che il Tu diventi cosa fra le cose. Occorre mantenere la consapevolezza che l’altro da sé non è “cosa fra le cose, un processo tra i processi, ma esclusivamente una presenza” (p. 39) • La risposta al Tu è sempre avvolta nel mistero e non accetta sicurezze preconfezionate. • Per essere colto nella sua interezza il Tu esige silenzio. Solo il silenzio verso il Tu, il silenzio di tutti i linguaggi, l’attesa silente e ansiosa della parola eccelsa, indivisa, che precede ogni forma, lascia libero il Tu e sta con esso nella situazione in cui lo spirito non si manifesta, ma è. Ogni risposta lega il Tu al mondo dell’Esso, e questa è la tristezza della situazione umana, e la sua grandezza a un tempo. Poiché così nascono la sua conoscenza, la sua opera, le sue immagini e i suoi ideali tra i viventi. (p. 38) Questa è l’eterna origine dell’arte: una forma si presenta all’uomo è vuol divenire opera mediante lui. Non v’è creazione della sua anima, ma un fenomeno che in essa entra e ne suscita la forza d’azione (p. 14) L’atto comprende un sacrificio e un rischio. Il sacrificio: le possibilità infinite che si offrono sull’altare della forma; deve essere eliminato tutto ciò che penetra come gioco nella nostra prospettiva. […] Esige l’esclusività di ciò che ci sta di fronte. Il rischio: la parola-base si può pronunciare colo con tutto il proprio essere; chi rinuncia a se stesso, nulla può trattenere a sé; e l’opera, come l’albero e l’uomo, non sopporta che io mi soffermi nel sospeso del mondo dell’Esso, essa invece comanda: “se non mi servi rettamente, o io mi infrango o infrango te” (p. 15) Io non posso fare esperienza della forma che mi viene incontro, e neppure descriverla; posso solo attuarla. E tuttavia io la guardo, sfolgorante nello splendore che mi sta di fronte, più chiara di tutta la chiarezza del mondo dell’esperienza. non come una cose tra le cose “interne”, non come un’immagine della “fantasia”, come la cosa presente. Alla prova dell’oggettività, la forma non risulterebbe certo “presente”; ma che cosa è presente in misura maggiore? E reale è la relazione ce ci unisce: essa agisce su di me come io su di lei. (p. 15) Fare è creare, inventare è trovare. Dare una forma significa scoprire. Nel realizzare io scopro, conduco oltre la forma, nel mondo dell’Esso. L’opera creata è una cosa tra le cose, che si può sperimentare e descrivere come una somma di proprietà. Ma a chi ricevendo vede, essa può di volta in volta presentarsi nella sua solidità. (p. 15) MICHAIL BACHTIN L’autore e l’eroe nell’attività estetica Se minime sono le possibilità che l’uomo ha di percepire se stesso nella sua totalità, nell’opera d’arte, invece, c’è una reazione dell’autore all’eroe in quanto totalità. Questa reazione totale nei confronti dell’uomo-eroe ha un carattere di principio e produttivo, costruttivo. In generale, ogni rapporto di principio ha carattere creativo, produttivo. Ciò che nella vita, nella conoscenza e nell’atto noi designiamo come oggetto determinato, acquista la sua determinatezza, il suo sembiante soltanto nel nostro rapporto con esso: è il nostro rapporto che determina l’oggetto e la sua struttura e non l’inverso; soltanto dove il nostro rapporto diventa casuale e, per così dire, quando deroghiamo al nostro rapporto di principio con le cose e col mondo, soltanto in questo caso la determinatezza dell’oggetto si contrappone a noi come qualcosa di estraneo e indipendente e comincia a disgregarsi e noi stessi soggiacciamo al dominio del casuale, ci perdiamo e perdiamo la stabile determinatezza del mondo. • Gli eroi sono indipendenti dall’autore e quanto l’autore, come fa Gogol’, parla con gli eroi, egli parla con loro come persone già autonome. • Il rapporto, carico di tensione, dell’autore con l’eroe può essere definito di extralocalità. se ci fosse una sola coscienza che non abbia nulla che sia transgrediente, nulla di extralocalizzato e di limitante dall’esterno, non vi sarebbe atto estetico. L’evento estetico presuppone due partecipanti e due coscienze non coincidenti. • Quando l’eroe e l’autore coincidono o si trovano uno accanto all’altro come nemici, finisce l’evento estetico e inizia quello etico (ringraziamento, invettiva, confessione ecc.); quanto l’eroe non c’è affatto, si ha l’atto conoscitivo (trattato, articolo ecc.); là dove l’altra coscienza è la coscienza inglobante di Dio, ha luogo l’evento religioso (preghiera, culto, rituale). • L’autore può narrare se stesso in una autobiografia solo a patto che egli diventi un altro rispetto a se stesso. La percezione dell’uomo del mondo altrui è caratterizzata da una concreta extralocalità, che è caratteristica del fatto che io occupo una particolare posizione nel mondo. Qualunque esperienza interna è caratterizzata dal fatto che io la percepisco in quanto io-perme. L’eccedenza della mia visione rispetto all’altro determina la mia esclusiva attività. La pienezza della fusione non è l’obiettivo ultimo dell’arte, perché all’immedesimazione deve seguire il ritorno in me. L’attività estetica inizia quando torniamo al nostro posto al di fuori del sofferente e conferiamo forma e compimento al materiale dell’immedesimazione. Bachtin utilizza il termine “compiente” per riferirsi a tali momenti estetici. Nell’opera d’arte c’è sia il momento dell’immedesimazione, sia quello del compimento. (p. 24) Bachtin esamina come viviamo il nostro aspetto esteriore. Il nostro aspetto esteriore noi lo viviamo dall’esterno. Abbiamo un’autosensazione interna e spetta a lei decidere se l’immagine del nostro corpo appartenga a noi. Mi vivo dall’interno. Abbiamo una resistenza di principio a rappresentare la nostra immagine esteriore ed è una sensazione del tutto diversa da quella in cui incorre chi non si ricorda un volto noto. Continuando ad autoosservarsi, la mia immagine si delineerà come accanto al vissuto interno, “si staccherà appena dalla mia autosensazione interna muovendosi e spostandosi un po’ lateralmente, come un bassorilievo, si staccherà dalla superficie dell’autosensazione interna, senza separarsene del tutto; è come se mi sdoppiassi un po’, senza disintegrarmi definitivamente: il cordone ombelicale dell’autosensazione unificherà la mia espressione esteriore con la mia interiore esperienza di sé. È necessario un nuovo sforzo perché immagini me stesso chiaramente en face, perché mi stacchi completamente dalla mia autosensazione interna e, quando ciò riesce, nella nostra immagine esteriore ci colpisce che essa sia, per così dire, vuota, spettrale, sinistramente solitaria. Come si spiega la cosa? Col fatto che nei confronti di questa immagine “non abbiamo un adeguato atteggiamento emotivo-volitivo che possa vivificarla e includerla, valorizzandola, nell’unità esterna del mondo plastico-pittorico” (28). … non dispongo di un’immediata reazione emotivo-volitiva capace di vivificare e di coinvolgere il mio aspetto esteriore: proprio di qui derivano il vuoto e la solitudine” (28). Io strutturo dall’interno il mio io interiore volente, amante, senziente, vedente e conoscente in categorie di valore totalmente diverse, che non sono direttamente applicabili alla mia espressione esterna (29). La mia immagine può essere convalidata solo da un altro, perché da me viene solo l’autoconvalida interiore. L’oggettivazione etica ed estetica ha bisogno di un potente punto di appoggio fuori di sé, in una forza effettivamente reale, dal cui interno io mi possa vedere come altro (29). Un caso particolarissimo si ha quando ci guardiamo allo specchio: lo specchio riflette il nostro aspetto esteriore, ma non noi stessi. Dobbiamo ricorrere ad un altro fittizio per guardarci. “io non sono solo, quando mi guardo allo specchio e sono posseduto da un’altrui anima” (31). Posso quasi arrivare ad odiare questo altro, che per ciò stesso assume una consistenza maggiore. Il primo obiettivo dell’artista che lavora ad un autoritratto è depurare l’espressione del volto riflesso, il che è possibile soltanto se l’artista occupa una salda posizione fuori di sé e trova un autore autorevole e fedele ai propri principi; è l’autore-artista come tale che vince l’autore-uomo. Mi sembra, del resto, che l’autoritratto si possa sempre distinguere dal ritratto per un carattere un po’ spettrale che non ingloba l’uomo intero, fino in fondo: su di me produce sempre un’impressione quasi sinistra il volto che ride nell’autoritratto di Rembrandt e il volto stranamente estraniato di Vrubel. (31) … l’uomo da solo non può riunire se stesso in una compiuta totalità esteriore, se la vive nella categoria del proprio io. Non si tratta qui di una carenza di materiale della visione esteriore, benché la carenza sia notevolissima, ma dell’assenza, puramente di principio, di un unitario approccio di valore all’espressione esteriore dell’uomo partendo dal suo interno; nessuno specchio, fotografia, particolare autoosservazione qui possono essere d’aiuto; nel migliore dei casi otterremo un prodotto esteticamente falso, creato a proprio vantaggio dal punto di vista di un possibile altro privo di autonomia. In questo senso si può parlare di assoluto bisogno estetico che l’uomo ha dell’altro, dell’altrui attività di visione, memoria, riunione e unificazione che, sola, può creare la sua personalità esteriormente compiuta; questa personalità non ci sarà, se l’altro non la creerà: la memoria estetica è produttiva, cioè per la prima volta genera l’uomo esteriore su un nuovo piano di esistenza. (33) Io posso ricordarmi, posso in parte percepirmi col senso esterno, in parte farmi oggetto di desiderio e di sentimento, cioè posso farmi oggetto di me stesso. Ma in questo atto di autooggettivazione io non coinciderò con me stesso, io-per-me resterò nell’atto stesso di questa autooggettivazione, ma non del suo prodotto, resterò nell’atto della visione, del sentimento, del pensiero, ma non dell’oggetto visto o sentito. Non posso mettere tutto me stesso nell’oggetto, eccedo ogni oggetto in quanto soggetto attivo. Qui ci interessa non l’aspetto conoscitivo di questa situazione che sa alla base dell’idealismo, ma la concreta esperienza vissuta della propria soggettività e dell’assoluta inesauribilità nell’oggetto – momento profondamente inteso e assimilato dall’estetica romantica (la teoria dell’ironia in Schlegel) in opposizione alla pura oggettività dell’altro. (36) La conoscenza introduce qui un correttivo, secondo il quale anche io per me risulta determinato da un luogo e da un tempo. Può essere intuitivamente convincente il solipsismo, che colloca tutto il mondo nella mia coscienza […] Io vivo la mia coscienza come se inglobasse il mondo, come se lo abbracciasse, e non come se fosse contenuta in esso [illeggibile]. L’immagine esteriore può essere vissuta come suscettibile di compiere ed esaurire l’altro, ma non è vissuta da me come suscettibile di compiere ed esaurire me (36). Bachtin ribadisce che qui non si tratta di soli momenti conoscitivi (come il rapporto anima-corpo, coscienzamateria ecc.) ma la concreta esperienza vissuta. Io per me non sono interamente consustanziale al mondo esterno, in me c’è sempre qualcosa di essenziale che posso contrapporre ad esso, e precisamente la mia attività interiore, la mia soggettività, che è opposta al mondo interno in quanto oggetto, senza farsi contenere da esso; questa mia attività interiore è extranaturale e extramondana, io dispongo sempre di una via di uscita lungo la linea dell’esperienza interiore di me stesso nell’atto [illeggibile] del mondo, c’è insomma una scappatoia che mi permette di sfuggire alla totale datità naturale. L’altro [illeggibile] è intimamente legato al mondo, io lo sono alla mia attività extramondana. (37) I frammenti della mia espressione esteriore sono incorporati in me soltanto attraverso le esperienze interiori che loro corrispondono. Il visibile non fa che integrare ciò che è interiormente vissuto. La base per dare senso all’azione esteriore è l’autosensazione interna. Fissare l’attenzione sulla propria esteriorità durante il compimento dell’azione può risultare fatale per l’azione stessa (41). Io non posso amarmi dall’esterno. Narciso costituisce l’eccezione che conferma la regola. Anche se posso difendersi e aspirare al potere e alla sottomissione degli altri, l’amore per sé è impossibile all’uomo: l’egoista si comporta come se amasse se stesso, ma di fatto egli non può avere di se la sensazione di essere una persona [cioè: si può amare se stessi sono in quanto oggetto, non in quanto soggetto]. Solo gli altri possono avere tenerezza e compassione per noi stessi. In effetti quando l’uomo inizia a viversi dall’interno, subito egli incontra atti altrui diretti verso di lui: il bambino riceve dalla bocca della madre e dei suoi cari tutto ciò che originariamente determina lui stesso e il suo corpo. Dalla loro bocca, nel tono emotivo-voitivo del loro amore, il bambino sente e comincia a riconoscere il suo nome e la denominazione di tutto ciò che si riferisce al suo corpo, alle esperienze e agli atti interiori; le prime e più autorevoli parole che lo riguardano, le prime parole che dall’esterno definiscono la sua personalità e che vengono incontro alla sua oscura autosensazione interiore, conferendole forma e denominazione, le parole in cui per la prima volta prende coscienza di sé e trova se stesso come un qualcosa, sono le parole della persona che l’ama. (pp. 43-44) Le parole amorevoli e le effettive cure vanno incontro al torbido caos dell’autosensazione interiore, denominando, guidando, soddisfacendo, legando al mondo esterno come a una risposta piena di interesse nei riguardi dei miei bisogni, e così, in un certo senso, organizzano plasticamente questo infinito caos brulicante di bisogni e insoddisfazioni, nel quale per il bambino è ancora diluito tutto l’esterno e nel quale è diluita e sommersa la futura diade della persona e del mondo esterno [mondo interno e mondo esterno coincidono nell’onnipotenza], ad essa contrapposto. A svelare questa diade aiutano le azioni e le parole amorevoli della madre: nel suo tono emotivo-volitivo si delimita e si costruisce la personalità del bambino, nell’amore assume una forma il suo primo movimento, il suo primo atteggiarsi nel mondo. Per la prima volta il bambino comincia a vedersi, per così dire, con gli occhi della madre e a parlare di sé nei toni emotivo-volitivi di quest’ultima, e in un certo senso, e in un certo senso si vezzeggia con la prima parola che pronuncia su se stesso; così, egli applica a se stesso e alle membra del suo corpo i diminutivi e i vezzeggiativi nel tono appropriato: ‘la testolina, la manina, il piedino’, ‘ho voglia di fare la nanna’ ecc. qui egli definisce se stesso e i suoi stati attraverso la madre, attraverso l’amore che essa prova per lui, come oggetto del suo affetto […] riceve forma dai suoi abbracci. Dall’interno di se stesso, senza acuna mediazione di un’altra persona amorevole, l’uomo non potrebbe mettersi a parlare di se usando diminutivi e vezzeggiativi e, in ogni caso, questi non esprimerebbero fedelmente l’effettivo tono emotivo-volitivo della mia autoesperienza vissuta, del mio immediato rapporto interiore con me stesso e sarebbero esteticamente falsi […] Posso parlare di me in forma diminutiva e vezzeggiativa soltanto rispetto all’altro, esprimendo con tale forma il rapporto, reale o desiderato, che l’altra persona ha con me […] Questo amore ella madre e delle altre persone, che fin dall’infanzia conferiscono forma all’uomo dall’esterno, nel corso di tutta la sua vita dà consistenza al suo corpo interiore, anche se non gli fornisce un’immagine intuitivamente concreta del suo valore esteriore (45-47). Bachtin (pp. 47 ss.) propone una lettura del corpo in relazione all’esistenza della categoria dell’altro. Il massimo di negazione della categoria dell’altro si ha in Plotino, per il quale tutti gli eventi discendono dall’ioper-me e tutto – l’universo, Dio, gli altri – è soltanto ioper-me e l’altro non ha voce. Di qui la più cocente negazione del valore del corpo: il mio corpo non può essere valore per se stesso. L’istinto di autoconservazione non è capace di generare valori. L’organismo è giustificato solo da un altro esterno. La vita biologica dell’organismo diventa un valore soltanto nella simpatia e nella compassione che gli sono testimoniate da un altro (maternità) (p. 51). • Nel cristianesimo predomina la categoria dell’altro. Dio non si definisce come purezza del rapporto che ho con me stesso, ma come Padre celeste che può giustificarmi là dove io non posso all’interno di me stesso. Dall’interno di me stesso c’è la negazione di me stesso, dall’esterno (da Dio) la grazie e la misericordia. • Nell’epoca moderna il corpo è degenerato a corpo dei bisogni. • Vivere me stesso come un altro è possibile per il pensiero astratto, collocandomi cioè sul piano di un altro generalizzato. Ma ciò è un’operazione banale e non dà significato al mio corpo dall’esterno, valore che può essere acquisito solo dallo sguardo di un altro autorevole. • Ma se questa posizione autorevole non c’è, allora il mio aspetto esteriore tende a legarsi alla mia autocoscienza e ne deriva un ritorno in me stesso al fine di utilizzare in maniera interessata l’esistenza che ho per l’altro. • C’è una differenza fra il valore corporeo che acquisisco vivendo per me e vivendo per l’altro. • Se si tenta di suscitare la propria vita nella sua totalità si incontreranno le immagini compiute e indelebili delle altre persone, di persone care e persino di persone incontrate casualmente, ma non ci sarà la mia immagine: ...al mio io corrisponderanno i ricordi, le rievocazioni di una felicità puramente interiore, di una sofferenza, di un pentimento, di desideri e aspirazioni che impregnano questo mondo visivo degli altri, ossia io ricorderò i miei orientamenti interiori in determinate circostanze della vita, ma non la mia immagine esteriore. […] Io creo attivamente il corpo esteriore dell’altro come valore per il fatto di assumere un determinato orientamento emotivovolitivo nei riguardi dell’altro (p. 54). • La sofferenza, vissuta dall’interno dello stesso sofferente, non è per lui tragica. La vita non si organizza internamente come tragedia, così come dall’interno la vita non è tragica, o bella, o comica. Ciò può avvenire solo se uno sguardo esterno supera i limiti dell’anima che vive la vita e occupa una salda posizione fuori di essa, che questa diventa bella o sublime (p. 63). • Se l’autore-contemplatore perde la sua salda posizione al di fuori dei personaggi e si identifica con essi, si distrugge l’evento artistico. (p. 65) • Esiste una differenza di gioco e arte: nel gioco è assente lo spettatore e l’autore. Il gioco, dal punto di vista dei giocatori, non presuppone uno spettatore che si trovi fuori del gioco. (p. 67) L’attività estetica opera sempre ai confini (la forma è un confine) della vita vissuta dall’interno, là dove la vita è vissuta al di fuori, dove essa finisce (fine spaziale, temporale e di senso) e ne comincia un’altra, dove si trova la sfera ad essa inaccessibile dell’attività dell’altro. (p. 77) Io sono dentro la mia vita, e se riuscissi a vedere questa esteriorità, essa diventerebbe automaticamente un momento dell’interiorità, cesserebbe di essere un confine che può essere sottoposto ad elaborazione estetica e che mi compie dal di fuori. Ammettiamo che io possa mettermi fisicamente fuori di me stesso, che io riceva la possibilità fisica di darmi forma dal di fuori: in ogni caso, non avrò alcun principio interiormente convincente in base al quale darmi questa forma dal di fuori, modellare il mio sembiante esteriore, compiere esteticamente me stesso, se non sarò in grado di mettermi fuori di tutta la mia vita e di percepirla come vita di un altro; ma per far questo è necessario che io sia in grado di trovare una solida posizione, non solo esteriormente, ma anche interiormente convincente, una posizione di senso, fuori di tutta la mia vita […], con tutti i suoi desideri, impulsi, risultati, e di percepirli tutti in un’altra categoria. (77-78). “Ci sono eventi che, per principio, non possono svolgersi sul piano di una coscienza unica e unitaria, ma presuppongono due coscienze che non si fondono”. La teoria estetica espressiva, assieme a numerose filosofie filosofiche etiche, storico-filosofiche, metafisiche e religiose, tende a depauperare il fenomeno produttivo perché per spiegare l’evento o trasferisce con tutti i suoi momenti sul piano unitario di un’unica coscienza, a partire dalla quale deve essere dedotto; ma così si perdono le effettive forze creative e si ha una descrizione meramente teorica. La produttività di un evento non sta nella fusione delle coscienze, ma nella distinzione della propria extralocalità, nell’uso del proprio privilegio di essere fuori dagli altri. • L’uomo esteriore è transgrediente rispetto all’ioper-me, perché sono un dono che un’altra coscienza accorda all’eroe e non sono espressione di un’attività dell’eroe dal suo interno. • Ciò avviene anche per l’anima. Il problema dell’anima, dal punto di vista metodologico, non spetta alla psicologia, scienza avalutativa e causale, ma all’estetica. La mia sola riflessione non può generare l’anima, ma solo una soggettività disorganizzata. (pp. 90-91) • Io non sono tutto nel tempo, ma una gran parte della mia vita la vivo fuori del tempo: un appoggio immediato mi è dato dal senso. Come soggetto dell’atto che pone il tempo, io sono extratemporale. “ “Io, come soggetto, non coincido mai con me stesso: io – soggetto dell’atto di autocoscienza – supero i miei limiti del contenuto di questo atto; e non si tratta di una speculazione astratta, ma di una scappatoia vissuta da me intuitivamente e in mio saldo possesso, che mi porta via dal tempo, da tutto il dato, da tutto ciò che è finito e presenziale” • Dal punto di vista dell’autocoscienza è convincente l’immortalità dello spirito. • Lo spirito in ogni dato istante è un compito, ha ancora da venire e la pacificazione al suo interno gli è impossibile. Esso non può essere portatore di ritmo. L’anima è lo spirito che non si è attuato e che è riflesso nella coscienza amorevole dell’altro (dell’uomo o di Dio). L’intreccio della mia vita è creato dagli altri. • “Io vivo l’oggetto della mia paura come terribile, l’oggetto del mio amore come amato, l’oggetto della mia sofferenza come gravoso […], ma non vivo la mia paura, il mio amore, la mia sofferenza”. • “Devo cessare di avere paura per vivere la mia paura nella sua determinatezza psichica […]. Non si tratta di un’impossibilità psicologica, di un’ ‘angustia della coscienza’, ma di un’impossibilità di valore e di senso: io devo andare oltre i limiti del contesto di valore nel quale è trascorsa la mia esperienza: se voglio fare del mio stato di esperienza vissuta della mia carne psichica un mio oggetto, devo trovare un’altra posizione di valore […]. Devo diventare altro rispetto a me stesso”. (p. 101) • Lo spirito si attua nell’esperienza. • Il ritmo presuppone l’immanentizzazione del senso dell’esperienza vissuta • “Non appena cerco di determinare me stesso per me stesso (non per l’altro e a partire dall’altro), mi trovo soltanto là, nel mondo del compito, fuori dalla mia già-presenzialità temporale, come qualcosa di ancora avvenire nel suo senso e valore: […] il vero io-per-me – non c’è ancora nell’esistenza, esso è posto come compito ed è ancora a venire” (111). • “Essere per me significa essere ancora a venire (cessare di essere a venire, risultare qui già tutto intero significa morire spiritualmente)” (111). Possiamo dire che è il peccato originale immanente all’esistenza e dall’interno di essa vissuto, inscritto nella tendenza dell’esistenza all’autosufficienza: è l’interiore autocontraddizione dell’esistenza, in quanto essa pretende di permanere autosoddisfatta nella sua presenzialità di fronte al senso, - l’autoconvalida autocondensata dell’esistenza nonostante il senso da cui essa promana (la rottura con la fonte), il movimento che d’un tratto s’è arrestato e, senza ragione, si è bloccato, ha voltato le spalle al fine che lo ha creato (materia che, d’un tratto, si cristallizza in una roccia di una forma determinata). È l’assurda e sconcertata compiutezza, che prova la vergogna verso la propria forma. Ma nell’altro, questa determinatezza dell’esistenza interiore e esteriore io la vivo come misera, bisognosa passività, come inerme stimolo a esistere e a permanere perpetuamente, ingenuo nella sua brama a esistere a qualsiasi costo: l’esistenza fuori di me, come tale, nelle sue più mostruose pretese, è soltanto ingenua e femminilmente passiva, e la mia attività estetica dal di fuori interpreta e illumina i suoi confini, dando loro una forma, la compie sul piano dei valori (quando, invece, io trapasso interamente nell’esistenza, spengo la chiarezza che l’evento dell’esistenza ha per me e divento suo oscuro, passivo partecipante). La vita esperienza vissuta in me, nella quale io sono attivamente attivo, non può mai pacificarsi in sé, fermarsi, finire, compiersi, non può mai staccarsi dalla mia attività, cristallizzarsi d’un tratto in autonoma esistenza compiuta, con la quale la mia attività non avrebbe nulla da fare, poiché, se qualcosa è da me vissuto, questa esperienza contiene sempre un compito posto in modo cogente, è dall’interno infinita e non giustificatamene cessare si essere vissuta, non può cioè liberarsi da tutti gli obblighi assunti verso il suo oggetto e il suo senso. Io non posso cessare di essere attivo in essa, il che significherebbe annullarmi nel mio senso, trasformarmi soltanto in una maschera della mia esistenza, in una menzogna da me detta a me stesso (112). MARK LANEGAN - ONE WAY STREET The stars and the moon Aren't where they're supposed to be For the strange electric light It falls so close to me Love I come to the ride I'm not sea sick, rolling wave And you know that I am Just trying to get out Oh the glorious sound Oh the one way street But you can't get ... Can't get it down without crying When I'm dressed in white Send roses to me I drink so much sour whiskey I can hardly see And everywhere I've been There's a world that howls my name From the one tiny sting To that vacant fame It's called a one way street Oh the deafening roar Remember that's called a one way street And you can't get ... Can't get it down without crying Mysteries aside You can't get out In a psychotropic light You can't get out Love I come to the ride I'm not sea sick, rolling wave As a way that I fall Trying to get out Oh the glorious sound Of the one way street And you can't get ... Can't get it down without crying Oh the deafening roar John Dewey Scrive Tullio Regge, scienziato relativista: La realtà esiste quando le sensazioni provocano in noi una reazione istintiva senza ricorso a una sequenza di deduzioni logiche. Per sopravvivere l’uomo primitivo doveva accertare d’istinto l’esistenza di potenziali nemici e delle prede, e questa pulsione ancestrale, che chiamerò Urtrieb, è rimasta in noi: scomparsa la tigre dai denti a sciabola ci spinge a recepire e poi analizzare la realtà. L’abitudine alla realtà richiede ambedue queste componenti. Condizioni essenziali per l’abitudine sono l’Urtrieb, ma anche la continuità e la consistenza dei dati empirici. Una sequenza di immagini scelte a caso che scorrono in rapida successione provoca una sensazione che si trasforma ben presto in noi in disinteresse e non dà luogo ad apprendimento. […] La continuità è la prima manifestazione visibile della razionalità dell’universo e delle leggi che lo regolano e i tentativi di un lattante di afferrare gli oggetti intorno a sé sono l’esordio del metodo sperimentale: chi nega la validità scientifica di questo metodo rinnega le proprie origini… …Non vedo differenza, se non quantitativa tra quanto apprende un bambino e quanto apprende uno scienziato durante il corso della sua ricerca. Tutti e due procedono spinti dall’Urtrieb e analizzano il mondo con gli strumenti a disposizione. La ricerca ha per noi anche un aspetto ludico ma non a caso è ben noto che il gioco è cosa seria per il bambino e lo prepara alla vita adulta. […] Comprensibilità e incomprensibilità del reale sono aspetti particolari e conseguenza di leggi naturali il cui dominio di applicazione si è enormemente ampliato negli ultimi tre secoli; le loro origini rimangono insondabili ma continuano ad affascinare chi come me e i miei colleghi è ancora in preda dell’Urtrieb e considera la scienza un gioco meraviglioso. Lo stesso Einstein ha detto che “la cosa più incomprensibile dell’universo è che è comprensibile”. (T. Regge, 2000, pp. 24-27) Scrive, in modo analogo, John Dewey: Per molti anni ho pensato e insegnato che l’esperienza è un’interazione fra l’io (self) e qualche aspetto del suo ambiente. L’azione intenzionale (purposeful) ed intelligente è il mezzo grazie al quale questa interazione è resa significante. Nel corso di tale azione, gli oggetti acquistano significato e l’io diventa consapevole delle sue capacità, perché, mediante il controllo intelligente dell’ambiente, dirige e consolida i suoi personali poteri. Un’azione intenzionale è così la meta di tutto ciò che è realmente educativo ed è il mezzo con il quale la meta è raggiunta ed il suo contenuto è rielaborato. Un’attività siffatta è necessariamente una crescita ed un processo di crescita. Essa comincia quando un bambino compie i suoi primi adattamenti intenzionali all’ambiente; via via che li compie, egli acquista atteggiamenti e abitudini che lo rendono capace di allargare i suoi scopi, di scoprire ed usare i mezzi ed i metodi per raggiungere scopi più ampi. In questo processo del vivere intelligente non c’è alcun limite intrinseco. Esso dovrebbe continuare dall’infanzia alla morte. l’arresto della crescita continua è una forma di decadenza e di morte premature. Nel vivere intelligente, l’interazione dell’io e del suo mondo non lasciata al caso, l’azione (nel senso ristretto della parola), l’emozione e l’intelletto sono tutti coinvolti. L’adattamento intelligente dell’io agli oggetti ed agli avvenimenti circostanti equilibra queste funzioni. Il pensiero allora diventa conoscenza e comprensione profonda (insight); l’emozione diventa interesse e le risposte motorie diventano padronanza degli oggetti e delle qualità che ci stanno intorno, e delle capacità umane ad essi relative. L’arresto del processo di crescita è di fatto l’arresto del vivere intelligente, dell’educazione. La crescita, il vivere intelligente e l’educazione hanno molti nemici. Questi nemici sono potenti. Essi sono, purtroppo, rafforzati dalle pratiche che dominano i veicoli che fanno professione di educazione, le scuole e le istituzioni chiamate educative. (Dewey, J. [1935], Prefazione a The Art of Renoir di A.C. Barnes e V. De Mazia, in Dewey, J. [1954], Educazione e arte, Tr. it. La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 3-4) Le emozioni, per Dewey, sono connesse con il significato di oggetti e con un’azione intenzionale e sono interessi che uniscono l’io al mondo in cambiamento. Quando, però, esse vengono lasciate fluttuare liberamente al di fuori del legame che unisce il soggetto al mondo, “invece di dare un’ancora di salvezza sicura, esse si dissolvono in fantasticherie che si interpongono tra l’io e il mondo”. Nel campo artistico dell’esperienza più che in qualunque altro, l’abitudine a separare la mente (attiva nell’osservazione e nella riflessione) e l’emozione è profondamente radicata. In questo campo, i danni di questa abitudine sono particolarmente notevoli. L’educazione, che è essenzialmente addestramento alla percezione, è messa da parte. Tra l’io ed il mondo percepibile intervengono un’emozione privata ed un giudizio altrettanto privato, perché essi non sono basati su una percezione consapevole degli oggetti e delle loro relazioni reciproche. (Dewey, J. [1935], Prefazione a The Art of Renoir di A.C. Barnes e V. De Mazia, cit.) …l’impulso o il bisogno di un individuo a partecipare ad un’impresa è un presupposto necessario perché la tradizione possa essere un fattore della sua crescita personale in capacità e libertà; e dobbiamo riconoscere anche che egli deve osservare per suo conto e sotto il suo personale punto di vista le relazioni tra mezzi e metodi impiegati e risultati conseguiti. Nessun altro può vedere per lui ed egli non può osservare soltanto in base a quanto viene ordinato, sebbene il retto modo di comandare possa guidare la sua osservazione e possa così aiutarlo a vedere ciò che ha bisogno di vedere. E se egli non ha un desiderio personale che lo stimoli a diventare carpentiere, se il suo interesse ad essere tale è superficiale, se è un interesse a non essere affatto carpentiere, ma è solo interesse ad ottenere un compenso in danaro tramite un lavoro, allora naturalmente la tradizione non penetrerà mai realmente nelle sue capacità e non le completerà. Rimarrà allora un insieme di regole meccaniche e più o meno insignificanti che egli è costretto a seguire, se deve avere un lavoro e ricavarne la paga. (Dewey J. [1926], Individualità ed esperienza, Tr. it. in Dewey 1954, cit., pp. 22-23) Le tradizionali teorie filosofiche e psicologiche ci hanno abituato a nette separazioni tra i processi fisiologici ed organici da un lato e le manifestazioni più alte della cultura nella scienza e nell’arte dall’altro. Queste separazioni sono riassunte nella comune divisione che si fa tra mente e corpo. Queste teorie ci hanno anche abituato a tracciare rigide separazioni tra le operazioni logiche, strettamente intellettuali, che culminano nella scienza, i processi emotivi e immaginativi, che dominano la poesia, la musica e in misura minore le arti plastiche, e le azioni pratiche che regolano la nostra vita quotidiana e che si risolvono in attività industriali, economiche e politiche. Da queste separazioni è derivata la creazione di un gran numero di problemi […] Tra la cura della scienza, l’arte per l’arte, gli affari come qualcosa di abitudinario o come attività per far soldi, l’esilio della religione alla domenica ed ai giorni festivi, il passaggio della politica in mano ai politicanti di professione, la trasformazione degli sports in mestieri e così via, sono rimaste poche occasioni per vivere, per l’amore per vivere, per una vita piena, ricca e libera. (Dewey J. [1926], Pensiero affettivo nella logica e nella pittura, Tr. it. in Dewey 1954, cit.) Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare. (Dewey, 1934, p. 25) Recenti progressi in alcuni principi generali fondamentali a proposito delle funzioni biologiche in generale e di quelle del sistema nervoso in particolare hanno reso un preciso concetto di un continuo sviluppo dalle funzioni più basse a quelle più alte. […] C’è stato per lungo tempo un discorso vago sull’unità dell’esperienza e della vita mentale, nel senso che conoscenza, sentimento e volizione sono tutte manifestazioni delle medesime energie, ecc. (Dewey J. [1926], Pensiero affettivo nella logica e nella pittura, cit. p. 30) Dewey: Arte come esperienza (1934) 1 – la creatura vivente • A chi comincia a scrivere sulla filosofia delle belle arti si impone un compito primario: ripristinare la continuità tra quelle forme raffinate e intense d’esperienza che sono le opere d’arte e gli eventi, i fatti e patimenti di ogni giorno. Le cime delle montagne non fluttuano senza e neppure poggiano sul terreno • Per comprendere l’arte occorre partire da ciò che suscita l’interesse dell’uomo: l’auto dei pompieri che passa, la soddisfazione di un lavoro manuale… Svincolandosi dall’idea dell’arte per l’arte, occorre ripristinare la continuità dell’esperienza estetica con i normali processi del vivere si vedrà allora che l’arte permette di intensificare il senso della esperienza immediata Vi è una normale evoluzione delle comuni attività umane in elementi di valore estetico • Ma se in ogni esperienza normale è implicita una qualità artistica ed estetica, in che modo potremo spiegare come e perché essa di solito non riesce a diventare esplicita? Per capire ciò, occorre capire cosa si intende per “esperienza normale”. • La vita si sviluppa in un ambiente: non solo in esso, ma a causa sua, interagendo con esso. Nessuna creatura vive soltanto dentro la propria pelle. […] In ogni momento l’essere vivente è esposto ai pericoli del mondo circostante, e in ogni momento deve prelevare qualcosa dal mondo circostante per soddisfare i suoi bisogni. La vita e il destino di un essere vivente sono connessi ai suoi scambi con l’ambiente, non esteriormente, ma nella maniera più intima. Il ringhiare del cane che tiene stretto l’osso, il suo latrato nei momenti di sconforto e di solitudine, il suo scodinzolio al ritorno dell’amico uomo, sono tutte espressioni di quel legame che è tra l’essere vivente e il mezzo naturale nel quale è incluso l’uomo e l’animale che egli ha addomesticato. Ogni bisogno, di aria fresca o di cibo che sia, è una mancanza che tradisce per lo meno la temporanea assenza di un adeguato adattamento al mondo circostante. Ma esso è anche un’esigenza, un protendersi verso l’ambiente per colmare il vuoto e determinare un nuovo adattamento creando per lo meno un temporaneo equilibrio. La vita consiste in fasi in cui l’organismo perde il passo rispetto alla marcia delle cose circostanti e poi lo recupera, o con uno sforzo o per qualche felice circostanza. E in una vita che si sviluppa, il ricupero non è mai un mero ritorno allo stato precedente, in quanto esso si è arricchito dello stato di squilibrio e di resistenza attraverso il quale è passato con successo. Se il vuoto tra l’organismo e l’ambiente è troppo largo, l’essere vivente muore. Se la sua attività non viene intensificata da un momentaneo dislivello, esso non fa che vegetare. La vita si sviluppa allorché un momentaneo sbandamento permette il passaggio a un equilibrio più vasto tra le energie dell’organismo e quelle delle condizioni in cui esso vive. Questi luoghi comuni biologici sono qualcosa di più di luoghi comuni biologici; essi toccano le radici dell’estetico nell’esperienza. …se la vita continua e se, continuando, si espande, vi è un sopravvento su fattori di opposizione e contrasto; vi è una trasformazione di essi in aspetti differenziati in una vita più potente e significante. Ha effettivamente luogo il miracolo dell’adattamento vitale, organico, attraverso l’espansione (anziché mediante la contrazione e l’accomodamento passivo). Vi sono qui il germe dell’equilibrio e armonia, raggiunti attraverso il ritmo. L’equilibrio vien fuori non inerte e meccanico, ma da una tensione e per una tensione. Nella natura, anche sotto al livello della vita, vi è qualcosa di più di un semplice mutare e fluire. La forma è raggiunta ogni qual volta è raggiunto un equilibrio stabile… […] L’ordine non è imposto dal di fuori, ma è costituito dai rapporti di reazione armonica che le energie producono l’una sull’altra. Poiché è attivo (e non statico come sarebbe se fosse estraneo a ciò che si svolge), l’ordine si sviluppa da sé. […] L’ordine non può essere che oggetto di ammirazione in un mondo costantemente minacciato dal disordine. […] In un mondo come il nostro ogni essere vivente che raggiunga sufficiente sensibilità ogni qual volta trovi attorno a sé un ordine confacente accoglie l’ordine corrispondendogli con un sentimento di armonia. Il recupero di un’ordinata partecipazione all’ambiente dopo una rottura ha i germi di una perfezione simile all’estetico. Mancanza e recupero dell’armonia avvengono nell’uomo coscientemente. L’emozione è il segno consapevole di una rottura, attuale o imminente. La discordanza è l’occasione che induce alla riflessione. Il desiderio di ripristinare l’unità converte la mera emozione in interesse per gli oggetti come condizioni per realizzare l’armonia. Con la realizzazione, viene incorporato negli oggetti, assieme al loro significato, un materiale di riflessione. Poiché l’artista si cura in modo particolare della fase dell’esperienza in cui l’unità viene raggiunta, egli non rifugge i movimenti di resistenza e di tensione. Piuttosto li coltiva, non fine a se stessi, ma in quanto il loro potenziale reca alla coscienza vivente un’esperienza che è unificata e totale. La strana opinione che un artista non pensi e un ricercatore non faccia altro che pensare è il risultato della conversione di una differenza di tempo e di accento in un differenza di qualità. La natura […] è amabile e odiosa, dolce e bisbetica, irritante e confortante. Persino parole come lungo e corto, pieno e vuoto, comportano ancora per tutti, eccetto che per coloro che sono intellettuali di professione, un significato morale ed emotivo. Il vocabolario informerà chiunque lo consulti che l’uso primitivo di parole come dolce e amaro non doveva indicare qualità di sensazioni come tali, ma discriminare cose in quanto favorevoli e ostili. Il contrasto del vuoto e del pieno, della lotta e del successo, dell’adattamento che segue il superamento di una irregolarità, costituiscono il dramma in cui azione, sentimento e intenzione sono tutt’uno. Il risultato è un equilibrio e uno squilibrio. Questi non sono né statici né meccanici. Essi esprimono una potenza che è intensa in quanto è misurata dal superamento di una resistenza. […] In un mero scorrere delle cose il mutamento non sarebbe cumulativo; non muoverebbe verso una conclusione. La stabilità e il riposo non ci sarebbero. Allo stesso modo è vero, tuttavia, che un mondo finito, completo, non avrebbe tratti di sospensione e di crisi e non offrirebbe nessuna possibilità di soluzione. Laddove ogni cosa è già completa non esiste compimento. Ci prospettiamo con piacere il Nirvana e una felicità celestiale e uniforme soltanto perché essi si proiettano sullo sfondo di questo nostro mondo di violenza e di lotta. • Vi possono essere piaceri occasionali e superficiali. Essi non vanno disprezzati. Ma felicità e gioia sono un’altra cosa. Esse nascono da un soddisfacimento che è un adattamento di tutto il nostro essere alle condizioni dell’esistenza. Nella vita veramente ogni cosa si unifica e si confonde. Ma troppo spesso noi ci troviamo in apprensione per ciò che il futuro può portare, e siamo divisi dentro noi stessi. Persino quando la nostra ansia non è eccessiva, non godiamo il presente in quanto lo subordiniamo a ciò che è assente. […] Soltanto quando il passato cessa di travagliare e le anticipazioni del futuro non turbano, l’essere è completamente unito con il suo ambiente e perciò completamente vivo. L’arte celebra con particolare intensità i momenti in cui il passato rafforza il presente, e il futuro è una accelerazione di ciò che ora è. Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare. 2 – L’essere vivente e le “cose eteree” • La cultura è frutto dell’interazione con l’ambiente e non qualcosa che nasce nel vuoto o magari dalla riflessione degli uomini su loro stessi. “La profondità degli echi suscitati dalle opere d’arte dimostra la loro continuità con gli atti di questa lunga esperienza. Le opere e gli echi che esse producono formano una continuità con i reali processi della vita in quanto questi sono condotti a una conclusione inaspettatamente felice”. Quando sono lontano dalla vista dell’erba che vive e cresce o dal canto degli uccelli e da tutti i suoni della campagna, sento di non essere veramente vivo […] quando sento qualcuno che dice di non aver trovato il mondo e la vita gradevoli e interessanti al punto di amarli, o che pensa con animo indifferente alla loro fine, posso credere che egli non è mai stato veramente vivo e ce non ha mai avuto un’immagine chiara del mondo di cui pensa così male oppure non ne ha visto nulla, neppure un filo d’erba (W.H. Hudson). • Dewey parla dell’affinità fra il misticismo dell’abbandono estetico e quello che i religiosi indicano con comunione estatica. Hudson lo ricorda a proposito della sua fanciullezza e dell’effetto che faceva su di lui la vista dell’ondeggiante fogliame piumato [di un’acacia] nella notte lunare […] che faceva apparire quest’albero più intensamente vivo degli altri, più consapevole di me e della mia presenza… simile al sentimento che qualcuno avrebbe potuto provare se fosse stato visitato da un essere soprannaturale qualora egli fosse convinto che esso era là presente per quanto silenzioso e invisibile, intento a guardarlo e a divinare ogni pensiero della sua mente. • Dewey cita anche Emerson, che normalmente viene ritenuto un pensatore austero: Attraversando una landa deserta, nella neve fangosa, al crepuscolo, sotto un cielo nuvoloso, senza avere nella mente il pensiero di nessun evento specialmente felice, mi sono messo a ridere perfettamente di gusto. Provo contentezza sull’orlo della paura. • Dewey commenta: Non vedo alcun modo di rendersi conto della molteplicità delle esperienze di questo tipo (qualcosa di simile si trova in ogni reazione estetica spontanea e inespressa) fuorché nel fatto che in esse vengono messe in azione risonanze di tendenze acquisite nei rapporti originari dell’essere vivente con il mondo circostante, e irrimediabilmente perdute a una consapevolezza distinta o intellettiva. Esperienze del tipo ricordato ci portano a una nuova considerazione che attesta questa continuità naturale. Un’esperienza sensibile immediata ha una capacità senza limite di assorbire in sé significati e valori che in sé e per sé (cioè in astratto), si direbbero “ideali” e “spirituali”. Lo sforzo animistico dell’esperienza di Hudson, è esemplare di un certo livello di esperienza. E il poetico, con qualsiasi mezzo, è sempre strettamente apparentato all’animistico. E se ci rivolgiamo a un’arte che per molte vie è all’altro polo, all’architettura, apprendiamo come taluni concetti, forse elaborati dapprima con un pensiero altamente tecnico come quello matematico, hanno la capacità di incorporarsi direttamente in forme sensibili. • A proposito del senso dei riti primitivi, Dewey dice che non li si può confinare all’intento magico di assicurarsi la pioggia, i figli, il raccolto, il successo in battaglia. Naturalmente essi avevano anche questo intento magico, ma furono eseguiti a lungo, possiamo esserne sicuri, nonostante ogni fallimento pratico, in quanto erano una immediata intensificazione dell’esperienza della vita. I miti erano qualcosa di diverso da intellettualistici tentativi scientifici dell’uomo primitivo. L’ostacolo costituito da ogni fatto che non fosse familiare ebbe senza dubbio la sua parte. Ma il piacere del raccolto, dello svilupparsi e del risolversi di una buona trama, rappresentò una parte dominante allora come la rappresenta oggi nello sviluppo delle mitologie popolari. […] L’introduzione sopranaturale nelle proprie credenze e il facile e fin troppo umano rifugiarsi in esso è molto più questione della psicologia che produce un’opera d’arte che non di uno sforzo di spiegazione scientifica e filosofica. Esso intensifica il brivido emotivo della consueta routine. Se il potere del sovrannaturale sul pensiero umano fosse esclusivamente o anche principalmente un fatto intellettuale, sarebbe relativamente insignificante. Teologie e cosmogonie si sono impossessate della fantasia perché sono state accompagnate da solenni processioni che suscitano meraviglia e inducono a una ammirazione ipnotica. Cioè esse sono arrivate all’uomo attraverso un appello diretto al senso e all’immaginazione sensuosa. La maggior parte delle religioni hanno identificato i loro concetti sacri con i più alti capolavori artistici […] I voli dei fisici e degli astronomi odierni rispondono al bisogno estetico di soddisfare l’immaginazione piuttosto che a una rigorosa esigenza di prove spassionate di una interpretazione razionale. La maggior parte degli uomini procede con la stessa istintività, con la stessa mira incrollabile del falco. Il falco ha bisogno di una compagna, l’uomo fa lo stesso: guardateli, tutti e due vanno in giro e se la procurano nella stessa maniera. Tutti e due hanno bisogno di un nido e tutti e due si accingono a farselo alla stessa maniera, e alla stessa maniera si procurano il cibo. Il nobile animale Uomo per divertirsi fuma la pipa – il falco si libra sopra le nuvole – questa è l’unica differenza del loro riposo. Questo è ciò che costituisce lo spasso della Vita per uno spirito speculativo. Esco tra i campi – scorgo per un istante un ermellino o un topo di campagna che corrono: perché? La creatura ha un intento e i suoi occhi se ne illuminano. Cammino tra gli edifici di una città e vedo un Uomo che si affretta: Perché? La Creatura ha un suo intento e gli occhi se ne illuminano. Anche in questo caso, benché io segua lo stesso corso istintivo del più autentico animale umano al quale io possa pensare, tuttavia, benché giovane, io scrivo a caso sforzandomi di trovare barlumi di luce in mezzo a una grande oscurità, senza conoscere la portata di nessuna affermazione o opinione. Tuttavia posso in questo non essere libero da peccato? Non vi possono essere esseri superiori divertiti da tutti gli atteggiamenti nei quali può cadere la mia mente allo stesso modo come io sono divertito dalla prestezza dell’ermellino o dall’ansietà del cervo? Benché si debba aborrire una rissa per la strada, le energie che in essa si dispiegano sono belle; l’Uomo più comune ha una grazia nella rissa. Visti da un essere soprannaturale i nostri ragionamenti possono assumere lo stesso aspetto: benché sbagliati possono essere belli. In questo consiste veramente la poesia. Si può trattare benissimo di ragionamenti, ma quando essi assumono una forma istintiva, come quelle delle forme e dei movimenti animali, essi sono poesia, sono belli; hanno grazia (Keats). • In un’altra lettera, Keats parla di Shakespeare come di un uomo di enorme “Capacità Negativa”; come di un uomo capace di rimanere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza nessuna eccitata tensione di arrivare al fatto o alla ragione. In tal senso lo contrappone al contemporaneo Coleridge, che quando non poteva giustificare intellettualmente l’oscurità si abbandonava all’intuizione poetica. Non era capace di accontentarsi, come diceva Keats, di una “mezza conoscenza”. Keats confessa a Bailey di …non essere mai stato ancora capace di capire come si possa conoscere qualcosa per vera mediante un ragionamento conseguente […] come possa darsi che persino il più grande Filosofo sia mai arrivato al suo scopo senza accantonare numerose obiezioni. • Domandandosi, in realtà, se anche il ragionatore non debba fidarsi delle sue “intuizioni”, di ciò che è arrivato a lui attraverso la sua immediata esperienza sensibile ed emotiva, di ciò che è arrivato a lui attraverso la sua immediata esperienza sensibile ed emotiva, anche contro le obiezioni che la riflessione presenta. Continua Keats: Infatti il semplice spirito fantastico può averla vinta reiterando il proprio lavorìo silenzioso che interviene continuamente nello Spirito con una mirabile prontezza. • Così commenta Dewey la frase di Keats: È un’osservazione che contiene più psicologia del pensiero produttivo di molti trattati. Nonostante il carattere ellittico delle affermazioni di Keats emergono due punti. Uno di essi è la convinzione che i “ragionamenti” hanno un’origine simile a quella dei movimenti di una creatura selvaggia che si dirige verso uno scopo, e che possono divenire spontanei, “istintivi”, e quando sono istintivi sono sensuali e immediati, poetici. L’altro aspetto di questa convinzione è di credere che nessun “ragionamento”, come tale, cioè escludendo fantasia e senso, possa raggiungere la verità. Anche il più grande filosofo esercita una preferenza di tipo animale guidando il suo pensiero alla conclusione. Egli sceglie e mete da parte il suo pensiero alla conclusione. Egli sceglie e mette da parte nel modo in cui spingono i suoi sentimenti immaginativi. La “ragione” al suo apice non può raggiungere una presa completa e una sicurezza propria. Essa deve ricadere sull’immaginazione, sull’incarnazione delle idee in sensazioni cariche di emotività. • Dewey ricorda i famosi versi di Keats: Bellezza è verità, verità è bellezza – questo è tutto Ciò che sapete sulla terra, e che avete bisogno di sapere • Per “vero”, spiega Dewey, Keats non intendeva qualcosa di intellettuale, ma la saggezza, soprattutto la saggezza connessa al problema del male e la giustificazione del bene e della fede nonostante l’abbondare del male e della distruzione. Keats, al pari di Shakespeare, non accettò sostituti e si accontentò di quel che la fantasia può offrire all’uomo: “Questo è tutto ciò che sapete sulla terra e che avete bisogno di sapere”. Cap. 3 – fare un’esperienza • Un’esperienza è un intero: si fluisce da qualcosa verso qualcosa; nell’esperienza del pensiero, la conclusione è il perfezionamento di un movimento la conclusione di un’esperienza non è una stasi, ma è il termine di una maturazione che si raggiunge quando le energie attive al suo interno hanno svolto la propria opera • Un’esperienza ha un punto focale, una qualità che la pervade: quel pasto, quella rottura dell’amicizia. • Una esperienza ha una qualità emotiva appagante quando raggiunge al suo interno integrazione e compimento la dimensione emotiva lega tra loro le parti in un unico intero • Quando non c’è interesse unificante, l’esperienza o è in balia di circostanze che la determinano dall’esterno o si disperde dall’interno i nemici dell’estetico non sono né il pratico né l’intellettuale, ma la monotonia, l’inerzia dovuta a fini vaghi, la sottomissione alla convenzione e alla prassi • Dove cercare il resoconto di un’esperienza, quale quella di due persone che si incontrano per un colloquio per un posto di lavoro? Non nelle colonne di un libro contabile, né in un trattato di economia o sociologia del personale, ma in una rappresentazione teatrale o in una narrazione. La sua natura e il suo significato si possono esprimere solo con l’arte, poiché c’è un’unità esperienziale che si può esprimere solo con l’esperienza • Un’esperienza è un mettersi in relazione di azioni e passioni: mettere la mano sul fuoco e ritrarla non è operazione dell’intelligenza, ma quando queste due azioni sono connesse dall’intelligenza allora si produce significato • Fare e subire devono nell’opera essere in relazione, formando l’intero della percezione. Se invece il creare è solo esibizione di virtuosismo tecnico e il subire è l’effusione di un sentimento non si ha compimento artistico. Se nel corso del suo fare l’artista non dà compimento a una nuova visione, egli agisce meccanicamente e ripete qualche modello prefissato • Estrinseco vs. intrinseco • Quando v’è frenesia la possibilità di portare a compimento l’esperienza è ridotta • Per quel che riguarda la qualità fondamentale dei quadri, la differenza dipende più dalla qualità dell’intelligenza che viene messa nella percezione di relazioni che da ogni altra cosa – sebbene certamente l’intelligenza non possa essere separata dalla sensibilità diretta e sia connessa, anche se in maniera più estrinseca, con l’abilità l’artista è una persona dotata di particolare sensibilità per le qualità delle cose • L’abilità dell’artefice, per essere indubitabilmente artistica, dev’essere “amorosa”; deve prendersi cura a fondo del contenuto su cui si esercita la sua tecnica • La ricettività non è passività: il riconoscimento non è un semplice apporre il “cartellino giusto”, l’etichetta; ma neanche comporta un’emozione interna che si accompagna alla percezione: non vi è percezione + emozione, ma sin dall’inizio la percezione è pervasa emotivamente la dimensione estetica comporta sì un abbandonarsi, un ricevere, ma tale ricettività comporta un fuoriuscire dell’energia allo scopo di ricevere! L’idea che la percezione estetica sia una questione a cui dedicarsi solo a tempo perso è uno dei motivi dell’arretratezza delle arti tra di noi. • Per percepire, chi osserva deve creare la sua propria esperienza. E la sua creazione deve includere relazioni comparabili a quelle che provò il produttore originario. Senza un atto di nuova creazione l’oggetto non viene percepito come un’opera d’arte. L’artista ha selezionato, semplificato, capito, condensato secondo il proprio interesse. Chi osserva deve passare attraverso queste operazioni secondo il proprio punto di vista e il proprio interesse. C’ un lavoro che viene svolto sul versante di chi percepisce così come ce n’è uno sul versante dell’artista 4 – l’atto dell’espressione • L’impulso designa un movimento all’infuori e in avanti dell’intero organismo l’impulso è lo stadio iniziale di ogni esperienza compiuta. Se si osservano i bambini, essi mettono in gioco l’intero sé • È destino delle creature non potersi garantire ciò che spetta loro senza avventurarsi nel mondo estraneo. Avventurandosi nel mondo, sia che si fallisca, sia che si abbia successo, il Sè non restaura semplicemente l’ordine precedente, perché gli atteggiamenti del Sé acquistano significato • Se il Sé non incontrasse resistenza, non riuscirebbe nemmeno a rendersi conto di se stesso: la mera opposizione crea rabbia, ma una resistenza che sollecita il pensiero crea curiosità e attenzione e, quando è vinta e asservita, sfocia nell’esultanza [cfr. esperienza flow]. Che tensione richiami energia e che la totale mancanza di opposizione non favorisca uno sviluppo normale non fatti noti. In generale riteniamo auspicabile lo stato di cose in cui vi è equilibrio tra condizione che agevolano e condizioni che frenano • Lo sfogo emotivo è condizione necessaria, ma non sufficiente, dell’espressione: sfogarsi è sbarazzarsi di qualcosa; esprimere è trattenere qualcosa. Quando non si gestiscono le condizioni oggettive, quando non si plasmano i materiali al fine di dar corpo all’eccitamento, non c’è espressione. • Il bimbo inizia a capire progressivamente il significato delle sue urla, dei suoi balbettii in base alle reazioni che questi atti suscitano: comincia così a rendersi conto del significato di ciò che fa lo sfogo manca di medium; solo dove il materiale è impiegato come media c’è espressione e arte [cfr. Bion] • Quando natura e educazione si fondono in unità, gli atti di relazione sociale sono opere d’arte. Ma la connessione tra un medium e l’atto di espressione è intrinseca: l’opera del poeta – dice Alexander – gli viene estorta dall’argomento che lo stimola Non esistono cose come l’amore e l’odio: un poeta e un narratore hanno un’immenso vantaggio rispetto a uno psicologo esperto: costruiscono una situazione e fanno sì che essa sia a suscitare una risposta emotiva • L’operazione di selezione dei materiali effettuata in modo potente da un’emozione in evoluzione condensa materiali i più disparati: questa funzione crea l’ “universalità” dell’arte. siamo disturbati quando sentiamo che non c’è un’emozione personale a guidare la selezione dei materiali, ma quando v’è un’intenzione calcolata l’emozione agisce come un magnete • Maturazione subcosciente • Pensare direttamente in termini di suoni e colori è diverso dal pensare in parole • L’arte non è natura, è natura trasformata dal suo entrare in nuove relazioni suscitando una nuova risposta emotiva in tutte le popolazioni primitive il lamento assume forma cerimoniale che è distante dalla sua manifestazione originaria 5 – l’oggetto espressivo • L’ “espressione” non si riferisce semplicemente all’oggetto, ma anche all’apporto individuale Se la visione è stata artistica o costruttiva (creativa). La rappresentazione non è di “oggetti come tali” l’espressione in quanto atto personale e l’espressione in quanto risultato oggettivo sono connesse organicamente l’una con l’altra in un dipinto, le linee e i colori si cristallizzano in un’armonia invece che in un’altra sia in funzione di ciò che si trova nella scena presente che in funzione di ciò che l’osservatore porta con sé: “una certa sottile affinità con la corrente della sua propria esperienza di creatura vivente fa sì che linee e colori di sistemino secondo un modello e un ritmo invece che un altro”. La passionalità contrassegna l’osservazione: essa non è indipendente da qualche emozione precedente presente nell’esperienza dell’artista, ma essa viene rinnovata e ricreata grazie alla fusione con un’emozione che appartiene alla visione di un materiale qualificato esteticamente L’affermazione per cui il contenuto è irrilevante vincola chi l’accetta a una teoria dell’arte assolutamente esoterica Se un artista potesse accostarsi a una scienza senza provare interessi né idee, senza un bagaglio di valori tratti dalla sua esperienza precedente, teoricamente potrebbe vedere linee e colori prendendo in considerazione esclusivamente le loro relazioni in quanto linee e colori . Ma questa è una situazione impossibile da soddisfare. Inoltre, in un caso del genere, per l’artista non vi sarebbe nulla per cui appassionarsi Non importa quanto ardentemente l’artista possa desiderarlo; nella sua nuova percezione l’artista non può sbarazzarsi di significati resi solidi dal suo rapporto passato con le cose che lo circondano, né può liberarsi dell’influenza che essi esercitano su cosa e come egli vede al momento: se potesse farlo e lo facesse non gli rimarrebbe nessun modo di vedere un oggetto Memorie che non sono necessariamente coscienti, ma che sono ricordi incorporati organicamente nella struttura stessa del sé, alimentano l’osservazione presente. Linee differenti e relazioni differenti tra linee si sono caricate inconsciamente di tutti i valori che derivano da ciò che hanno fatto nella nostra esperienza in ogni nostro contatto con il mondo che ci circonda Non è esagerato dire che l’emozione a cui mancano percorsi motori propri per operare essendo priva di direzione renderà la percezione confusa e distorta • Il significato di un’asserzione è generale; il significato di un oggetto espressivo è individuale. – Ad esempio, lo stato di beatitudine che è un tema ricorrente dei dipinti religiosi, non sempre è “indicato”, ma talvolta è “espresso” – Tiziano, Giotto.. • Quindi: l’arte implica selezione. Quando manca selezione o attenzione è priva di direzione, la conseguenza è una miscellanea caotica. Il principio-guida della selezione è l’interesse: un’inclinazione inconscia ma organica verso determinati aspetti e valori del complesso e variegato universo in cui viviamo. Il solo limite che non va superato è che resti un qualche riferimento alle qualità e alla struttura delle cose circostanti. • Grazie alle abitudini formate nell’interazione con il mondo noi anche in-abitiamo il mondo. Esso diventa una dimora, e la dimora è parte di ogni nostra esperienza • La familiarità spinge all’indifferenza e il torpore avvolge in un guscio l’espressività delle cose: l’arte toglie il velo che nasconde l’espressività delle cose esperite; ci distoglie dall’indolenza e dalla routine e ci fa dimenticare noi stessi facendoci ritrovare nel piacere dell’esperienza del mondo che ci circonda nelle sue diverse qualità e forme • Alla fine le opere d’arte sono i soli media capaci di una comunicazione completa e non ostacolata tra uomo e uomo 6 – sostanza e forma • Se si ritiene che il prodotto artistico sia prodotto di un’espressione del sé, considerando il sé come qualcosa di compiuto e isolato al proprio interno, forma e sostanza risultano senz’altro separate • Il materiale con cui viene composta un’opera d’arte appartiene al mondo comune invece che al sé, e tuttavia vi è espressione di sé in arte perché il sé assimila quel materiale in modo peculiare così da farlo riemergere nel mondo pubblico in una forma tale che costituisce un nuovo oggetto. Il materiale espresso non può essere privato. Tale situazione si verifica in manicomio. • Un’opera d’arte viene ricreata ogni volta che si fa un’esperienza estetica perché ogni individuo porta con sé un proprio modo di vedere e di sentire • Il significato non è separato dalla qualità del medium sensoriale; le opere d’arte sono letteralmente pregne di significato • Non possiamo afferrare alcuna idea finché non l’abbiamo avvertita e sentita come se fosse un colore o un odore chi pensa di dover elaborare dettagliatamente il significato di ogni idea, si smarrirebbe in un labirinto senza fine né centro. Ogni volta che un’idea perde la propria qualità immediatamente sentita, smette di essere un’idea e diventa un simbolo algebrico. Quando c’è vera e propria artisticità nella ricerca scientifica e nella speculazione filosofica, chi pensa non procede né secondo una regola e neppure alla cieca, ma sfruttando significati che sussistono immediatamente come sentimenti dotati di coloro qualitativo • Opporre la qualità in quanto immediata e sensoriale alla relazione in quanto puramente mediata e intellettuale è sbagliato sia nell’arte che in generale, sul piano psicologico e filosofico: è sempre l’intero organismo che interagisce con l’ambiente in ogni azione che non sia routine • L’insincerità in arte ha ragioni estetiche e non morali: la si riscontra ogni volta che sostanza e forma si separano 7 – storia naturale della forma • In arte, come in natura e nella vita, una relazione è una maniera di interagire. Le relazioni sono spinte e tirate; sono contrazioni ed espansioni; determinano leggerezza e peso, salite e discese, armonia e discordia. Le relazioni tra amici, tra marito e moglie, tra genitore e figlio, tra cittadino e nazione, come quelle tra corpo e corpo nella gravitazione e nell’azione chimica, possono essere simbolizzate mediante termini o concetti e, quindi, divenire contenuti di asserzioni in proposizioni. Ma esistono come azioni e reazioni in cui le cose si modificano • La forma si può definire come l’effetto di forze che portano a totale compimento l’esperienza di un evento, di un oggetto, di una scena e di una situazione • Non c’è semplice ammasso e cumulo di sensazioni e valori, ma sviluppo, come avviene con la crescita di un embrione vivente, tensione interna. • L’opera è così creata “da dentro”, non conformandola a qualche obiettivo o stampo esterno il pittore e il poeta, come il ricercatore scientifico, conoscono il piacere della scoperta. Chi sviluppa la propria opera come dimostrazione di una tesi preconcetta può avere le gioie di un successo egoistico, ma non la gioia di dare compimento a un’esperienza per se stessa. • Di fronte all’opera c’è un’alternanza ritmica di abbandono e riflessione. Interrompiamo il nostro abbandonarci all’oggetto per chiedere dove ci sta portando e come lo sta facendo. Prima di tutto viene però l’impatto con l’opera, che reca con sé la qualità del vento, che soffia dove lo si sente. L’inizio della comprensione estetica sta nel coltivare queste esperienze personali. Il nutrirsi di esse si trasformerà poi in discernimento. Sarà poi l’educazione estetica a elevare l’impressione diretta a un livello più alto. • La prima caratteristica del mondo circostante che rende possibile la forma artistica è il ritmo • Coleridge fa derivare l’origine del metro dall’equilibrio che si genera nella mente dalla tensione causata dal tenere a freno il mero sfogo di una passione. C’è quindi una interpenetrazione fra passione e volontà, fra impulso spontaneo e proposito volontario – La musica rende più complesso e intenso il processo della reciproca sollecitazione geniale di antagonismo, sospensione e rafforzamento, quando le varie “voci” contemporaneamente si oppongono e rispondono l’una all’altra • …relazione fra il fare e subire di organismo e ambiente il cui prodotto è un’esperienza • C’è una vecchia formula per la bellezza nella natura e nell’arte: unità nella varietà: l’unità nella varietà che caratterizza l’opera d’arte è dinamica 8 – l’organizzazione delle energie • Dewey tenta di illustrare come l’opera d’arte sia una sorta di unità dinamica nella quale forze e spinte disimmetriche trovano ordine e conciliazione, ma non in senso meccanico, ma di modo che la tensione che risulta dalle “energie” di cui è composta l’opera permangano al suo interno: si tratta di un ordine “in senso attivo” • Nella prima parte del capitolo Dewey parla di “ritmo”: tutto in natura è regolato dal ritmo; ma non si tratta del ritmo meccanico di un orologio, ma di un ritmo che comporta una variazione costante, non solo ordine statico. • L’ordine è necessario per vivere, ma se c’è troppo ordine allora si percepisce noia; all’opposto, se c’è troppo cambiamento si percepisce caos. [si confronti con l’idea contenuta nelle teorie della complessità che c’è vita al limite fra ordine e caos]. I “best sellers” vengono rapidamente assimilati nell’esperienza e perdono ben presto la capacità di fornire nuovi stimoli. “È un elemento di continua variazione – nel rispetto delle relazioni dinamiche di rafforzamento e conservazione – a rendere durevole un quadro o una qualsiasi opera d’arte” 9 – la sostanza comune delle arti • Qual è il contenuto appropriato di un’opera d’arte, i soggetti che legittimamente essa può trattare? Dewey parte sempre dalla sua idea che l’arte è come l’esperienza: così come in questa vi deve essere una relazione sentita da parte della creatura fra fare e subire, un estendersi e un espandersi subendo, contemporaneamente, reazioni e opposizioni da parte della realtà; e l’inoltrarsi nella realtà diventa allora un acquisir volume, ritmo, articolazione del tutto in parti, le quali restano però connesse all’intero; così l’arte non può che avere questa organicità e scaturire dal movimento intrinseco del sentire – che pertanto deve essere sincero – che rappresenta una sorta di presa di contatto globale con l’esistenza, a partire dalla quale, poi, prenderà articolazione e consistenza l’opera • A tale proposito Dewey cita Tolstoj, per il quale nella sincerità sta l’essenza dell’opera d’arte [sincerità non nel senso di “sfogo” soggettivo, ma nel senso di Bion di aderenza alle proprie emozioni originarie: essere sinceri nella propria capacità di provare amore, odio e desiderio di conoscere, non mistificarle]. L’artista non deve imbrogliare o scendere a compromessi • L’artista e chi percepisce cominciano non con l’analizzare le singole parti, ma il tutto, un intero qualitativo globale: Schiller diceva che la percezione iniziale di un’opera non ha un oggetto chiaro e distinto: all’inizio c’è solo una certa tonalità emotiva musicale che col tempo diventa idea poetica. • Inoltre, la “tonalità” non solo viene prima, ma permane anche dopo che sono emerse le distinzioni e l’opera si è articolata; sin dall’inizio la qualità totale ha una sua unicità, sebbene sia vaga e indefinita. Questa qualità deve essere presente in tutte le “parti”. Se manca questa qualità globale, l’opera è sentita come meccanica • Cose, oggetti sono solo punti focali di un intero che si estende indefinitamente: questo “sfondo” qualitativo è qualcosa di “mistico”, nel senso che rappresenta una dimensione di illimitatezza che circonda la percezione della singola cosa. • Ad esempio, afferma Dewey, quando vediamo un albero o una roccia, e poi ci focalizziamo su alcuni particolari, ad esempio il muschio che sta sulla roccia, tuttavia manteniamo la visione specifica come connessa ad un insieme più grande e comprensivo che fa da fulcro alla nostra esperienza; i margini sfumano in quella indefinita estensione che l’immaginazione chiama universo. Questo senso dell’intero comprensivo implicito nelle esperienze comuni viene reso intenso all’interno della struttura di un dipinto o di una poesia. Coleridge ha detto che ogni opera d’arte, per ottenere il suo pieno effetto, deve avere attorno qualcosa di non compreso. un’opera d’arte fa emergere e accentua questa qualità di essere un intero e di appartenere a quell’intero più grande, onnicomprensivo, che è l’universo in cui viviamo. Credo, dice Dewey, che questo fatto spieghi quel sentimento di acuta intelligibilità e chiarezza che proviamo in presenza di un oggetto di cui si fa esperienza con intensità estetica. Abbiamo bisogno, anche quando focalizziamo un singolo aspetto della realtà, di mantenere una connessione con un’esperienza estesa e soggiacente che rappresenta l’essenza dell’equilibrio mentale. Questa non può essere il risultato di una riflessione. Deve presentarsi come qualcosa di intrinseco e non di estrinseco. L’ “ideale” immesso in maniera estrinseca in un’opera risulta insulso e meccanico, mentre se prende corpo in cose concrete un senso di “spirituale” pervade l’esperienza delle cose • Nell’opera vi è una compresenza di integrazione e differenziazione, di connessione al tutto e di articolazione in parti. Dewey cita a questo proprosito un acquarellista americano, John Martin, che ha affermato con riferimento all’arte che l’identità si delinea come la grande Ancora di Salvezza. E come nel forgiare il l’uomo la natura è rimasta rigorosamente fedele a Identità, Testa, Corpo, Membra e ai loro contenuti distinti, identità in se stessi, in quanto ogni parte lavota al suo interno ma anche attraverso e insieme alle altre parti, a quelle vicine, cercando di avvicinarsi al megglio aun equilibrio bello, così questo prodotto dell’Arte è composto da identità tra loro contigue. […] E se i legami che connettono le parti vicine non trovano un proprio posto e una propria parte, il servizio è cattivo. Quindi questo prodotto dell’Arte è in sé un villaggio Leibniz ha sostenuto che l’universo è infinitamente organico perché ogni cosa organica è costituita ad infinitum da altri organismi. Questo, dive Dewey, è sicuramente vero per l’Arte, perché ogni parte di un’opera si presta a un’indefinita differenziazione percettiva Poiché la funzione della linea è quella di dar la forma, differenziare, conferire il ritmo, Blake sosteneva che la “grande regola aurea dell’arte, come nella vita, è questa: più distinta, netta e tesa è la linea che delimita, più perfetta è l’opera d’arte, e meno essa è netta e decisa, maggiore è la prova di immaginazione debole, plagio e incompetenza” 10 – la sostanza differente delle arti • Se l’arte è una qualità intrinseca dell’attività, non possiamo dividerla e frazionarla. Le qualità in quanto tali non si prestano a una divisione. La qualità è concreta ed esistenziale e pertanto varia insieme agli individui essendo pregna della loro individualità. Non ci sono due tramonti aventi lo stesso “rosso”, anche se poi utilizziamo la categoria-parola “rosso” per definire entrambi i tramonti o una rosa rossa il linguaggio risulta infinitamente insufficiente a procedere in parallelo con la variegata superficie della natura, ma la qualità di una qualità si trova nell’esperienza stessa • L’arte invita a una completa partecipazione organica, non solo “linguistica”. Housman ha detto che la poesia gli sembra più fisica che intellettuale e che procura sintomi fisici come la pelle d’oca, i brividi lungo la schiena, lo stringersi della gola e il sentire alla bocca dello stomaco la “lancia che mi perfora” di cui parla Keats. – Dewey precisa che c’è un po’ di esagerazione in queste parole, ma giustificabile dal rischio dell’esagerazione opposta, ovvero che le qualità siano degli universali intuiti dall’intelletto • È impossibile che un’esperienza non richieda un tempo per dispiegarsi, nella vita come nell’arte. Quando un individuo non permette il pieno dispiegamento del “movimento” in cui consiste ogni esperienza, allora l’esperienza non giunge a compimento per necessità intrinseche, ma estrinseche, con opinioni personali. • La peculiarità della musica sta nel suo conservare la primitiva capacità del suono di denotare lo scontro di forze che attaccano e resistono e tutte le fasi concomitanti del movimento emotivo • È grazie al linguaggio che cose ed eventi possiedono una natura che è al di sopra del bruto flusso dell’esistenza. Se gli animali sono realisti e rigorosi è perché a loro mancano i segni che il linguaggio dona agli umani. Le parole hanno la capacità di comunicare non astrazioni, ma un carattere, una natura, permettendo un’intensificazione dell’esperienza di quelle cose. 11 – l’apporto umano • Dice Dewey che il contributo specificamente personale dev’essere cercato nelle opere d’arte stesse. • “Ritorniamo ai nostri principi basilari”: L’esperienza è una questione d’interazione dell’organismo con il suo ambiente, un ambiente che è umano quanto fisico, che include i materiali della tradizione e delle istituzioni, al pari degli elementi ambientali locali. L’organismo porta con sé, attraverso la sua stessa struttura, innata e acquisita, forze che hanno una loro parte nell’interazione. L’individuo agisce e al tempo stesso subisce, e il suo subire non è costituito da impressioni stampate su una cera inerte, ma dipende dal modo in cui l’organismo agisce e risponde. Non vi è esperienza in cui il fattore umano non sia un fattore attivo nel determinare ciò che effettivamente accade. L’organismo è una forza, non un corpo trasparente. • Quando il vincolo fra individuo e mondo è spezzato, i vari modi attraverso i quali l’individuo interagisce col mondo cessano di avere una reciproca connessione unitaria. Essi decadono a frammenti separati di sensazione, sentimento, desiderio, scopo, conoscenza, volizione e ad ognuno i essi viene assegnato diversi scomparti del nostro essere. Non vi sono divisioni psicologiche intrinseche tra gli aspetti intellettuali e quelli sensoriali; quelli emotivi e quelli ideativi; le fasi immaginative e quelle pratiche della natura umana. • L’arte non è meccanica e reca l’impronta della personalità. • Dewey legge Kant come un caso di separazione fra intelletto e sentimento. Egli ha assegnato alla Bellezza il posto all’interno del Sentimento Puro, autocontenuto e libero da ogni desiderio. • “L’esperienza estetica non è caratterizzata dall’assenza di desiderio o pensiero, ma dalla loro completa incorporazione nella esperienza percettiva”. Egli non si interessa dell’oggetto per un quale scopo o per qualche desiderio. Chi percepisce esteticamente, invece, “in presenza di un tramonto, di una cattedrale o di un mazzo di fiori, è libero dal desiderio, nel senso che i suoi desideri vengono appagati nella percezione stessa. Egli non desidera l’oggetto per amore di qualche altra cosa”. Un quadro soddisfa perché placa il nostro desiderio di scene che siano più ricche di luce e di colore della maggior parte delle cose che abitualmente ci circondano. Nel regno dell’arte, come in quello della giustizia, entrano coloro che hanno fame e sete. Lo stesso predominio di intense qualità sensuose negli oggetti estetici è anch’esso una prova che vi è appetizione. La ricerca, il desiderio, il bisogno possono essere appagati solamente attraverso materiale esterno all’organismo. L’orso che sverna non può vivere indefinitamente della propria sostanza. I nostri bisogni sono contributi tratti dall’ambiente dapprima ciecamente, poi con interesse e attenzioni coscienti. Per essere soddisfatti debbono captare energia dalle cose circostanti e assorbire quella di cui possono impossessarsi. La cosiddetta energia eccedente dell’organismo aumenta solamente l’inquietudine, a meno che non possa essere riversata su qualche oggetto. Mentre il bisogno istintivo è impaziente e s’affretta verso il suo sfogo (così un ragno a cui s’impedisca di tessere ruoterà su se stesso fino a morire), l’impulso che è divenuto consapevole di se stesso indugia ad ammassare, incorporare e assimilare materiale oggetto affine. […] …il bisogno primitivo è l’origine dell’attaccamento agli oggetti […] l’assurdità di supporre che il bisogno, il desiderio e l’affezione siano esclusi, unitamente all’azione, dall’esperienza estetica, è evidente. • Disinteresse in arte non significa indifferenza. L’esperienza ordinaria è spesso pervasa dall’apatia, dalla stanchezza e dalla ripetizione meccanica […] Il “mondo” è un peso troppo grande per noi. Non siamo abbastanza sensibili per essere mossi dal pensiero. Siamo oppressi dalla cose che ci circondano o siamo ad esse insensibili. […] Respinta dalla tristezza o dall’indifferenza delle cose, l’emozione ripiega sugli oggetti della fantasia e si nutre di essi. Questi vengono creati da un impulso energetico che non può trovare sbocco nelle occupazioni consuete dell’esistenza. Probabilmente è proprio in tali circostanze che le moltitudini si rivolgono alla musica, al teatro e al romanzo per trovare un facile accesso a un regno di emozioni che fluttuano liberamente. • La tradizione costituisce la base entro la quale ci si forma. Ma essa non è da applicare passivamente, nel senso di tecnica o regola. • Nel riadattamento fra vecchio e nuovo, c’è uno sforzo che spesso sconfina nel dolore. Poiché l’interesse è la forza dinamica nella scelta e nella raccolta dei materiali, i prodotti dell’intelletto sono contrassegnati dalla individualità […] Non c’è abilità tecnica o artigiana che possa sostituirsi all’interesse vitale; in assenza del quale, la “ispirazione” è fugace e futile. Un intelletto volgare e malamente ordinato compie cose a propria immagine in arte e altrove perché gli manca la spinta e l’energia centralizzante l’interesse. • La bellezza è “un modo di vedere e di sentire le cose come se esse costituissero un tutto integrale”. “Quando nell’esperienza le cose vecchie e familiari vengono rinnovate, allora c’è fantasia. […] C’è sempre un certo margine di avventura nell’incontro dell’intelletto con l’universo, e questa avventura è, al suo limite, fantasia”. • Come dice Coleridge, la fantasia […] è un’esperienza fantastica […] che si verifica quando diversi materiali sensibili, emozione e significato convergono in una unione che segna una nuova nascita nel mondo. • L’opera della fantasia permette il “prender corpo” di nuove possibilità. • Un conflitto a cui gi artisti sottostanno indica la natura dell’esperienza fantastica. Un modo di enunciarlo riguarda il contrasto tra la visione interna e quella esterna. C’è uno stadio nel quale la visione interiore sembra molto più ricca e più bella di qualsiasi manifestazione esterna. Essa ha una vasta e attraente aureola di implicazioni che mancano nell’oggetto della visione esterna. (315) Sembra che essa afferri molto di più di quanto l’altra comunichi. Sopravviene allora una reazione: la materia della visione interiore sembra inconsistente se confrontata con la solidità e l’energia della scena presentata. Si sente che l’oggetto esprime succintamente e fortemente qualcosa che la visione interiore riferisce vagamente, attraverso una sensazione diffusa piuttosto che organicamente. L’artista è sospinto a sottomettersi in umiltà alla disciplina della visione oggettiva. Ma la visione interiore non viene gettata via. Rimane come l’organo che ha il compito di controllare la visione esterna e che rafforza la sua struttura man mano che quella viene assorbita nel suo interno. L’interazione dei due tipi di visione è la fantasia; quando la fantasia prende forma l’opera d’arte è nata. Lo stesso accade al filosofo. Vi sono momenti in cui egli sente che le sue idee e i suoi ideali sono più belli di tutte le cose esistenti. Ma si trova costretto a ritornare agli oggetti se le sue speculazioni debbono avere un corpo, un peso e una prospettiva. Pure nel cedere al materiali oggettivo non rinuncia alla sua visione; l’oggetto, proprio come oggetto, non è cosa che lo riguardi. Esso è allocato nel contesto delle idee e, dato che è così ubicato, queste ultime acquistano solidità e partecipano della natura dell’oggetto. Qualsiasi psicologia che isoli la creatura umana dall’ambiente lo taglia anche fuori, salvo che per i contatti esteriori, dai suoi simili. Ma i desideri di un individuo prendono forma sotto l’influenza dell’ambiente umano. I materiali del suo pensiero e della sua fede provengono da altri con cui egli vive. Egli sarebbe più povero di una bestia dei campi se non fosse per le tradizioni che divengono una parte della sua mente e per le istituzioni che penetrano al di sotto delle sue azioni esteriori nei suoi scopi e nelle sue soddisfazioni. L’espressione dell’esperienza è pubblica e comunicante perché le esperienze espresse sono quello che sono a causa delle esperienze dei vivi e dei morti che hanno dato loro una forma. Non è necessario che la comunicazione debba far parte del deliberato intento di un artista, quantunque egli non possa mai sfuggire al pensiero di un uditorio potenziale. Ma la sua funzione e conseguenza sono di effettuare la comunicazione, e questo non per un accidente esterno ma a causa della natura che egli condivide con gli altri. L’espressione mina alle fondamenta le barriere che separano gli esseri umani l’uno dall’altro, poiché l’arte è la forma di linguaggio più universale, poiché essa è costituita, anche prescindendo dalla letteratura, dalle comuni qualità del pubblico mondo, essa è la forma di comunicazione più universale e libera. Ogni intensa esperienza di amicizia e d’affezione si completa artisticamente. Il senso di comunione generato da un’opera d’arte può assumere una qualità specificamente religiosa. L’unione di uomini l’uno con l’altro è l’origine dei riti che dal tempo dell’uomo arcaico all’attuale hanno commemorato le crisi della nascita, della morte e del matrimonio. L’arte è l’estensione del potere dei riti e delle cerimonie di unire gli uomini, attraverso una celebrazione comune, a tutti gli incidenti ed episodi della vita. Questa funzione è la ricompensa e il sigillo dell’arte. Che l’arte congiunga l’uomo alla natura è un fatto familiare. L’arte rende anche consapevoli gli uomini della loro unione reciproca nell’origine e nel destino. 12 – la sfida della filosofia • Quando passato e presente si adattano perfettamente l’uno all’altro, quando c’è solo ripetizione e uniformità, l’esperienza che ne risulta è meccanica ogni esperienza deve possedere un certo grado di immaginazione • L’esperienza estetica è “esperienza pura”, potremmo dire, esperienza liberata dalle forze che ostacolano e confondono il suo sviluppo in quanto esperienza • La filosofia ha tentato finora di “spiegare” l’esperienza estetica in termini di senso, emozione, ragione ecc. piuttosto che come esperienza che permette la fusione di tutti gli elementi del nostro essere in un intero • Non si può negare che nella creazione di un’opera d’arte intervenga un elemento di rêverie, prossimo allo stato onirico, né che l’esperienza di un’opera d’arte quando è intensa spesso getti una persona in uno stato del genere. Anzi, si può dire che le idee “creative” in filosofia e in scienza vengono solo alle persone che si rilassano fino alla rêverie • Indipendentemente da quanto sia immaginativo il materiale per un’opera d’arte, esso sgorga dallo stato di rêverie per divenire materiale di un’opera d’arte solo quando viene ordinato e organizzato, e questo effetto si produce soltanto quando lo scopo controlla selezione ed elaborazione del materiale si ha un prodotto estetico solo quando le idee cessano di fluttuare e prendono corpo in un oggetto occorre immergersi così a fondo che le qualità dell’oggetto e le emozioni che esso suscita non hanno esistenza separata. La Gioia di vivere di Matisse è un esempio di immaginazione organizzata da uno scopo. N.B. L’oggetto non è semplicemente lo scopo realizzato, ma è lo scopo stesso fin dall’inizio. • Nell’arte si realizza anche il proprio intimo Sé, i suoi scopi. La loro forza sta proprio nel resistere, nel perseverare autenticamente, organizzando il materiale, sottomettendolo. • La totale integrazione di ciò che la filosofia distingue come “soggetto” e “oggetto” è la caratteristica di ogni opera d’arte. Ogni difetto dell’opera sta in un eccesso o dall’una o dall’altra parte • La teoria dell’arte come gioco è simile alla teoria dell’arte come immaginazione. Nei bambini idea e azione sono fusi, il soggetto è impegnato nel contattare e intervenire sull’oggetto, mentre il gioco del gattino lascia immodificato l’oggetto, è piuttosto un piacevole esercizio di libera attività. Nel bambino c’è sempre un fine da perseguire: c’è un bisogno di ordine. Costruire una torre significa perseguire uno scopo, organizzare le energie e modificarle in relazione al perseguimento dello scopo • La verità della teoria dell’arte come gioco sta nel suo sottolineare il carattere non forzato dell’esperienza estetica, non nel suo alludere a una qualità presente nell’attività che sarebbe prova di regole relativamente all’oggetto. La sua erroneità sta nel suo non riuscire a riconoscere che l’esperienza estetica comporta una determinata ricostruzione di materiali oggettivi.