Psicologia dell’arte
A.A. 2010-11
Parte 2
Luis Buñuel
(1900-1983)
Di un’infinita tenerezza dietro
un’apparente crudeltà, intransigente e
comprensivo, onesto e fedele nei confronti
della sua arte, di se stesso, dei suoi ideali,
dei suoi amici. (Sadoul, 1978, p. 47)
• Aderisce per tre anni al movimento
surrealista, girando due film:
– Un chien andalou (1929)
– L'âge d'or (1930)
• La morale borghese è per me l’antimorale, perché fondata su tre istituzioni
ingiustissime: la religione, la patria e la
famiglia (Bunuel)
• Periodo surrealista: 1929-1930
• Periodo messicano: 1950-1962
• Periodo francese (ritorno a modalità
surrealiste): dopo il 1964
• Il surrealismo permette a Buñuel di andare
oltre la superficie delle cose per vedere in
esse una realtà più misteriosa; gli apre la
porta delle
profondità dell’essere, riconosciuto e desiderato,
quell’appello all’irrazionale, all’oscurità, a tutti gli
impulsi che vengono dal nostro io profondo
(Buñuel, 1982a, p. 133)
…fatta eccezione per due o tre film, il
neorealismo non mi piace. Per esempio: un
bicchiere, per un neorealista, è un oggetto di
cristallo che serve a bere acqua e nient’altro. Ma,
a seconda del grado di affettività che
impieghiamo in questa contemplazione, per
semplice spinta irrazionale, e per l’intervento del
subconscio, quel bicchiere può evocare in me un
cavallo dalla bocca malata, o il ricordo di mia
madre, o qualunque altra cosa. (Turrent, Colina,
1986, p. 94)
fra distruttività...
[ho sempre avvertito in me un] istinto
negativo, distruttivo, […] più forte di qualsiasi
impulso creativo. L’idea di incendiare un
museo, per esempio, mi ha sempre allettato di
più dell’apertura di un centro culturale o
dell’inaugurazione di un ospedale. (Buñuel,
1982a, p. 117)
La simbologia del terrorismo, inevitabile nel nostro
secolo, mi ha sempre attirato, ma quella del
terrorismo totale, che mira alla distruzione di ogni
società, leggi genere umano. Provo solo disprezzo
verso chi fa del terrorismo un’arma politica al
servizio di qualche causa […]. Non voglio neanche
parlarne, di quel genere di terroristi. Mi fanno orrore.
[Ho adorato […] tutti quelli che volevano far saltare
[…] un mondo che sembrava indegno di
sopravvivere. Li capisco, li ho ammirati spesso. Il
fatto è che tra la mia immaginazione e la mia realtà
c’è di mezzo un fossato profondo, come capita a
tutti o quasi. Non sono, non sono mai stato un uomo
di azione, uno che butta bombe, e quegli uomini, cui
mi sentivo tanto vicino, be’ [sic!], non avrei mai
potuto imitarli. (Buñuel, 1982a, pp. 135-136)
• …e ricerca di “oggetti ideali”, sempre
commisti di sensualità
Commistione fra sensualità e spiritualità. Buñuel racconta un suo sogno:
…un altro sogno mi colpì ancora più violentemente.
Vidi all’improvviso la Vergine Maria, tutta circonfusa di
dolcezza, che mi tendeva le mani. Presenza molto
forte, indiscutibile. E parlava, a me, sinistro
miscredente, con la più grande tenerezza del mondo,
avvolta in una musica di Schubert che udivo
distintamente. Ho voluto ricostruire questa immagine
nella Voie Lactée, ma è ben lontana dalla forza di
convinzione immediata che aveva nel mio sogno. Mi
inginocchiai, gli occhi mi si riempirono di lacrime e mi
sentii di colpo sommerso dalla fede, una fede vibrante
e invincibile. Quando mi svegliai, mi ci vollero due o
tre minuti prima di ritrovare la calma. Continuavo a
ripetere, sull’orlo del risveglio: «Sì, sì, io credo,
Vergine Santa!” con il cuore che batteva a martello.
Aggiungo che questo sogno presentava un certo
carattere erotico. Erotismo contenuto entro i casti
limiti dell’amore platonico, è ovvio. Forse, se il sogno
fosse stato più lungo, quella castità sarebbe svanita
per far posto a un vero desiderio? Non posso dirlo. Mi
sentivo semplicemente innamorato, colpito al cuore,
al di là dei sensi. Sensazione provata abbastanza
spesso, nel corso della mia vita, non solo in sogno
(Buñuel, 1982, pp.105-106).
L’immagine della purezza, un
po’ stereotipata, della Madonna
in La via lattea
Nella mia infanzia ho provato i sentimenti
amorosi più intensi al di fuori di qualsiasi
attrazione sessuale […] Si trattava di un amore
platonico allo stato puro. Mi sentivo innamorato
come un monaco fervente può esserlo della
Madonna. (Buñuel, 1982a, p. 157)
• Il “romanticismo” di Buñuel
Forse un amore appassionato, sublime, che
brucia come una fiamma profonda, è
incompatibile con la vita. È troppo grande,
troppo forte per la vita.
Solo la morte può contenerlo.
(Buñuel, 1982, p. 157)
…riesco solo a credere in pochi individui
eccezionali e in buona fede, seppure perdenti,
come Nazarin […] Questo mi commuove
veramente: è l’amore totale, l’amore nonostante
tutto. Un amore assolutamente privo di speranza.
[…] l’amore che si afferma al di sopra di ogni
cosa. È un’idea troppo romantica? Forse, ma mi
emoziona sempre. (Buñuel, in: Turrent, Colina,
1986, tr. it. 1993, pp. 136-137)
– Viridiana
– Nazarin
– Simon del deserto
– Il prete di Violenza per una giovane
–…
Mi sono simpatici quelli che si sforzano di
cercare la verità: dissento da quanti
parlano come se l’avessero trovata.
(Turrent, Colina, 1986, pp. 127)
Il surrealismo non era per me un’idea estetica,
un movimento di avanguardia in più, ma
qualcosa che impegnava la mia vita in una
direzione spirituale e morale (Turrent, Colina,
1986, p. 49).
Il surrealismo mi svelò che l’uomo non può fare
a meno di un senso morale. Credevo alla libertà
totale dell’uomo, ma ho visto nel surrealismo una
disciplina da seguire, e questo mi ha fatto
compiere un passo poetico e meraviglioso
(Buñuel, 1962).
[…è] una cosa molto importante. In effetti una cosa è
l’immaginazione e un’altra è la vita. Dal punto di vista
dell’immaginazione, nessuno ha niente da insegnarmi,
perché so tutto, spero tutto. Con la vita è diverso.
Nella realtà non sono mai stato un uomo d’azione, ma
nell’immaginazione lo sono. E per questo
nell’immaginazione posso essere aggressivo. Nello
stesso momento in cui nella realtà sto salutando una
persona, nella mia mente posso pensare di ucciderla.
Sono due piani diversi: quello reale, dell’attività
sociale, da una parte e dall’altra quello immaginato.
[…] L’immaginazione è l’unico territorio in cui l’uomo è
libero. (L. Buñuel, in: Turrent, Colina, Buñuel secondo
Buñuel, 1986, tr. it. 1993, pp. 86-87)
Afferma J.-C. Carrière co-sceneggiatore con
Buñuel per molti anni:
[…l’] immaginazione […] resta innocente, da qualunque
parte noi la dirigiamo. Il famoso «peccato di intenzione”
della nostra infanzia, il «cattivo pensiero”, non esistono
più, dal momento che inventiamo delle situazioni che
vorremmo umane. Uno sceneggiatore, diceva Luis
[Buñuel], deve ogni giorno uccidere il padre, violentare
la madre e tradire la patria. È un suo dovere, in qualche
modo. È lì per questo. Se non lo fa lui, nessuno lo farà
al suo posto, e rischia di finire nei guai. Da qui un certo
coraggio necessario che ci fa attraversare ogni giorno
(non necessariamente per trovarvi un appiglio) l’orribile,
l’irrazionale, il volgare.
Chi conosce i fantasmi dice che essi desiderano venire
liberati dalla loro vita di fantasmi per poter riposare
come antenati […] I fantasmi dell’inconscio, che
imprigionati dalle difese continuano a infastidire il
paziente nell’oscurità delle sue difese e dei suoi
sintomi, possono assaporare il sangue, sono liberati.
Alla luce dell’analisi i fantasmi dell’inconscio ritrovano
riposo e sono ricondotti alla pace degli antenati e il loro
potere viene trasformato in una rinnovata intensità
della vita nel presente, del processo secondario e delle
relazioni con oggetti nuovi e attuali. (Loewald, 1960, tr.
it. 1999, pp. 216-217).
Luis Buñuel, Estasi di un
delitto, 1955
Luis Buñuel, Estasi di un delitto, 1955
Archibaldo guarda estasiato il carillon
Archibaldo a colloquio con Carlota
– Carlota: Cos’ha? La vedo preoccupato.
– Archibaldo: Sì, Carlota, le devo parlare.
– Carlota: È successo qualcosa di grave?
– Archibaldo: Con lei non voglio fingere. Oggi mi è successa una cosa che mi ha
turbato molto, che ha risvegliato in me sentimenti profondi e lontani. Ma non
voglio parlare di questo.
– Carlota: Perché? Crede che non potrei capire?
– Archibaldo: Certo che sì. Sono io che non riuscirei a farmi capire.
– Carlota: Mi parli con franchezza. Chi dice che non possiamo trovare una
soluzione?
– Archibaldo: [con speranza] Cercherò di spiegarmi. Lei per me è un ideale.
[Carlota abbassa gli occhi sconsolata] So che la sua innocenza e la sua purezza
potrebbero salvarmi. [Grave] Ma non voglio legarla a un destino che potrebbe
essere tragico.
– Carlota: [con sorpresa e preoccupazione] Perché dice questo?
– Archibaldo: Sono convinto di non essere un uomo normale. Conosco le mie
aspirazioni e mi faccio paura. Mi creda, a volte desidero ardentemente essere un
gran santo, altre volte sento con certezza che potrei essere un grande criminale.
Non le pare assurdo?
– Carlota: [ostentando tranquillità, ma essendo in fondo preoccupata] Lei vive
troppo in solitudine e questo non le fa bene. Venga più spesso a trovarci,
abbiamo tante cose da dirci.
Archibaldo a colloquio col giudice
– Giudice: Mi permetta una domanda. A lei piacciono i romanzi di
appendice? […] E adesso parlando seriamente, di una cosa sono
sicuro: lei è un grande criminale, in potenza chiaramente.
– Archibaldo: [in preda all’agitazione] Cosa decide per i miei crimini?
– Giudice: Crimini? Ma quali crimini! Non possiamo processarla per
aver desiderato la morte di qualcuno. Se ciò fosse perseguibile, noi
giudici non faremmo altro.
[Arriva la segretaria che annuncia la visita della moglie del giudice, il
quale risponde di essere in procinto di arrivare]
– Archibaldo: [fra la protesta e lo sgomento] Ho ucciso io quelle donne,
sono un criminale!
– Giudice: [appoggiando amichevolmente una mano sulla spalla di
Archibaldo] Il pensiero non delinque, amico mio. Posso solo darle un
consiglio…
– Archibaldo: [fremente] Sì. signor giudice.
– Giudice: [sorridendo] Si rada col rasoio elettrico signor de la Cruz! È
tutto! Mi scusi, mia moglie mi aspetta…
– Archibaldo: Arrivederla, signor giudice. [esce disturbato]
A proposito di estasi di un delitto
T.P. Turrent, parlando con L. Bunuel di Estasi di un delitto, afferma:
…l’atto di uccidere ha per Archibaldo una doppia funzione. Da una parte
di possesso erotico, dall’altra di liberazione dell’immaginazione che gli
restano dall’infanzia. Uccidendo sul piano dell’immaginazione, Archibaldo
si libera. (Turrent, Colina, 1986, p. 119)
Bunuel replica:
…non sono d’accordo con quanto lei dice. Archibaldo vuole uccidere, non
c’è dubbio. Probabilmente uccidere lo libererebbe da un punto di vista
sessuale, ma non si sa cosa farebbe in seguito se arrivasse ad uccidere
realmente. […] Si direbbe che desidera fallire, per poter provare ancora.
Lo fa per liberarsi? Forse lo fa per il motivo contrario. So che questo
sembra oscuro. Mi attira l’oscurità in un personaggio. Se cercate di
costruire un personaggio molto razionalmente, costruirete un personaggio
senza vita. Ci vuole una zona d’ombra. (Turrent, Colina, 1986, p. 119)
Una nuova prospettiva:
la complessità
“Il tutto è più della
somma delle parti”
Dobbiamo dunque considerare lo stato presente
dell’universo come l’effetto del suo stato anteriore e
come causa del suo stato futuro. Un’Intelligenza
che, per un dato istante, conoscesse tutte le forse
di cui è animata la natura e la situazione rispettiva
degli esseri che la compongono, se perdipiù fosse
abbastanza profonda per sottomettere questi dati
all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i
movimenti dei più grandi corpi dell’universo e
dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per
essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe
presente ai suoi occhi (Laplace 1814).
• Ottica meccanicista
oggetti e individui sono costituiti da “cose
semplici”, potenzialmente conoscibili in
modo esaustivo: padroneggiando gli
elementi semplici e le leggi in base alle quali
essi interagiscono, si può arrivare a
comprendere interamente il funzionamento
dell’ “oggetto” che si sta indagando.
• Un oggetto inteso nell’ottica del
meccanicismo, pertanto, può essere assai
complicato, ma ciò non esclude che, in
linea di principio, possa essere ridotto alla
dinamica delle parti semplici di cui è
costituito. Qualcosa è “complicato”, cioè,
se il suo funzionamento può essere ridotto
a degli elementi e a delle leggi semplici.
• L’ottica della complessità esprime un
diverso atteggiamento scientifico, che si libera
«dalla convinzione di fondo che il mondo microscopico
sia semplice e governato da leggi matematiche. Ciò ci
appare oggi una fallace idealizzazione. La situazione
potrebbe essere simile al ridurre i fabbricati a
conglomerati di mattoni; con gli stessi mattoni si può
costruire una fabbrica, un palazzo o una cattedrale. È a
livello dell’intera costruzione che noi possiamo vedere
l’effetto del tempo, dello stile in cui il fabbricato è stato
concepito» (Prigogine, Stengers, 1979, tr. it. 1981, p.
9).
• Cos’è un sistema complesso?
È un sistema composto da molte parti
differenziate, organizzate gerarchicamente
(un esempio è il corpo umano), fra le quali
intercorre una fitta rete di relazioni “nonlineari”.
• Tutti i sistemi sono instabili e quindi nonlineari; i sistemi possono venire essere
trattati come stabili per approssimazione
perché così risultano “calcolabili”
• Tale approssimazione cessa di essere tale
per sistemi lontano dallo stato di equilibrio
• In prossimità dell’equilibrio, dice
Prigogine, la materia è “cieca”; lontano
dall’equilibrio, “comincia a vedere”
• Le parti del sistema iniziano a manifestare
dei comportamenti collettivi. Si dice che
tali sistemi si “autoorganizzano”
• Spesso anche i confini del sistema si
indeboliscono e il sistema inizia a
interagire col contesto.
– Vengono utilizzati termini come “risonanza”,
“punti di biforcazione”, “cambiamento di
stato”, “aggancio di fase” ecc. per dar conto di
come l’evolvere di strutture complesse non
sia semplicemente spiegabile in termini di
sommatoria del funzionamento delle parti.
• Si generano proprietà emergenti
 i fenomeni complessi non sono riducibili
a quelli inferiori perché manifestano
proprietà emergenti che scaturiscono dalla
loro stessa complessità
• Spesso non si può sapere in anticipo,
neanche con approssimazione, cosa
avviene in un sistema instabile
viene meno l’ideale di piena intelligibilità
del mondo, tipico della tradizione
occidentale
non esiste una “teoria del tutto”, una
master equation, una grand theory
• La nozione di complessità conduce ad un
“arretramento” “quasi estetico” di fronte a
teorie onnicomprensive, ma semplificatrici
(Stenger, 1985, p. 51).
• Si giunge a un diverso atteggiamento nei
confronti della vita…
la realtà non solo meccanicità e tendenza
al disordine, ma possiede anche
un’intrinseca capacità di creare ordine e
strutture complesse, come «questi bellissimi
fiori disposti nel vaso da mia moglie»
(Prigogine, 1996, tr. it. 1997, p. 54).
Whitehead: la creatività come un
principio cosmologico
• Prigogine: esiste la possibilità di una
“nuova alleanza” (1981) fra “scienze della
natura” e “scienze dello spirito”
Stuart Kauffmann – Reinventare il Sacro (2010)
«La scienza non è in grado di conoscere e dedurre tutto
e questa incapacità frantuma le barriere tra scienza e
arte e ogni altra manifestazione del pensiero. La scienza
è solo uno degli strumenti di conoscenza in un mondo di
cui ignoriamo gli esiti. La conseguenza è profonda: c’è
bisogno di un secondo Illuminismo che tenga conto dei
diversi aspetti della nostra umanità e contribuisca a una
civiltà globale diversa dall’attuale, capace di opporsi ai
fondamentalismi. E non mi riferisco a un’unica realtà
omogenea, ma a un’ecologia di civiltà che coevolvono
insieme e condividono un senso del sacro che va oltre
l’adorazione di una ristretta razionalità. Dio diventa la
creatività dell’Universo, in cui siamo immersi e di cui
facciamo parte».
• la psicologia della Gestalt aveva già
posto al centro l’idea che “il tutto è più
della somma delle parti”.
M. Wertheimer (1880-1943)
W. Köhler (1886-1941)
K. Koffka (1887-1967)
K. Lewin (1890-1947)
• Esistono cioè caratteristiche delle
configurazioni globali che non sono
riscontrabili negli elementi costituenti
singolarmente considerati.
• Le “proprietà del tutto” risultano prioritarie
rispetto agli elementi costituenti ne
segue, come corollario, che le parti
assumeranno ruoli diversi nei differenti
contesti in cui sono inserite.
I principi
dell’organizzazione percettiva
secondo la psicologia della Gestalt
vicinanza
somiglianza
chiusura
destino comune
continuità
buona forma o pregnanza
• Il principio della buona forma suggerisce
che il campo percettivo tende ad
organizzarsi globalmente, per “grandi
tratti”, non tendendo conto dei singoli
punti, ma secondo una visione dall’alto”
(Wertheimer).
Vengono quindi preferite, a livello
percettivo, forme più regolari, simmetriche,
omogenee, equilibrate, semplici, coerenti.
Esperienza passata
Figura-sfondo
Apprendimento come
ristrutturazione cognitiva
• Per la psicologia della Gestalt
l’apprendimento è interpretabile come
passaggio da una Gestalt ad un’altra che
avviene per “insight” come riorganizzazione
del campo dell’esperienza e come frutto
“autoregolazione organismica” (K. Goldstein
1939) contro un apprendimento per “prove
ed errori” di estrazione comportamentista
• Un esempio: il cervello
Il cervello non funziona come una grande
centralina telefonica dove ogni neurone
riceve e invia segnali, ma come un
sistema complesso capace di generare
comportamenti collettivi.
L’ “intenzionalità” è frutto di tali stati
collettivi
• Ma anche gli individui sono sistemi autoorganizzati!
La teoria che io sostengo è che l’intera concezione
del materialismo si applica solo a entità
assolutamente astratte, cioè ai risultati del
discernimento logico. Le entità concrete e
durevoli sono organismi, talché il piano del tutto
influenza le qualità proprie dei vari organismi
subordinati che in esso rientrano. Nel caso di un
essere animato, gli stati mentali, psichici, rientrano
nel piano dell’organismo totale e con ciò modificano
i piani degli organismi successivamente subordinati
fino agli organismi finali più piccoli, come gli
elettroni. (Whitehead 1925, La scienza e il mondo
moderno, Boringhieri, Torino 1978, p. 94)
• L’autoorganizzazione dei sistemi viventi
come “autopoiesi” (Varela, Maturana
1985)
• I sistemi viventi sono dotati di una
“chiusura operazionale” che ne permette
l’autonomia rispetto all’ambiente e la
produzione autosufficiente di significato
(N. Wiener)
Se ne deduce che:
1) i processi di auto-organizzazione
dell’organismo non sono identici ai processi di
auto-organizzazione dell’ambiente.
2) tuttavia, la continua interazione fra organismo e
ambiente fa sì che si istituiscano degli
“accoppiamenti strutturali”, che consentono
all’organismo di sviluppare delle organizzazioni
interne che, pur essendo autonome, sono in
risonanza con la struttura dell’ambiente.
• Esiste una “via di mezzo” fra autonomia
ed eteronomia, fra solipsismo ed eterodeterminazione del soggetto, che permette
di pensare «la co-emergenza delle unità
autonome e dei loro mondi» (Varela, 1985,
p. 132).
• Ciascun individuo è dotato di proprie
logiche e di una produzione autonoma di
significato.
«Occorre mettersi nella testa di un altro senza
ridurre la logica dell’altro alla propria logica, e
lasciare che l’altro compia un’analoga
operazione di “trans-spezione” (M. Maruyama)
nei nostri confronti» (Ceruti, 1985, p. 15).
• Il mondo degli individui è costituito da tanti
punti di vista irriducibili l’uno all’altro, ma
che, ciononostante, possono dialogare fra
loro.
• Morin usa il termine “dialogica” per
alludere a un siffatto confronto fra più punti
di vista:
«C’è una pluralità di istanze. Ciascuna di queste
istanze è decisiva; ciascuna è insufficiente;
ciascuna di queste istanze comporta il principio
di incertezza […] Il problema […] è di fare
comunicare queste istanze separate; è in
qualche modo di fare il circolo» (Morin, 1984,
pp. 77-78).
La vita fra ordine e caos
• La realtà non come un insieme di
particelle inerti mosse da forze, ma come
un fermento di sistemi autoorganizzantesi,
sempre sull’orlo del caos e della
distruzione
Stabilità, ordine
↓
“Margine del caos”, complessità
↓
Caos
Ordine perfetto, “cristallizzato”
Massima connessione e assenza di
differenziazione. Il sistema è descrivibile
deterministicamente
Mobilità totale, caos
Massima differenziazione e assenza di
connessione. Il sistema è descrivibile solo
statisticamente
Complessità
Le molecole dell’acqua sono differenziate e connesse perché le
molecole sono legate fra loro, ma ciascuna si può spostare rispetto
alle altre e il sistema può assumere molteplici configurazioni. Il
sistema è descrivibile con meccaniche non lineari
• La vita: fra ordine e caos.
“Le interazioni che tengono in vita un cane non
possono essere studiate in vivo. Se si volesse
studiarle correttamente, bisognerebbe uccidere
il cane” (N. Bohr)
• La creatività: fra ordine e caos
• La salute mentale: fra ordine e caos
– Per Winnicott la salute mentale non è
sinonimo di tranquillità. La vita di un individuo
sano è caratterizzata da paure, sentimenti
conflittuali, dubbi e frustrazioni, come pure da
elementi positivi.
Senza dubbio la gente dà per scontato il sentirsi
reali. Ma a quale prezzo? In quale misura essi
negano la verità che di fatto esiste il pericolo di
sentirsi non reali, posseduti, di non essere se
stessi, di precipitare all’infinito, di non avere una
direzione, di essere separati dal proprio corpo,
annientati, di essere un nulla, di non avere un luogo
in cui stare… (D. Winnicott, Il concetto di individuo
sano)
• Pirandello: contraddizione vita/forma
Sai come ho vissuto finora. Sai che ho avuto sempre ribrezzo,
orrore, di farmi comunque una forma, di rapprendermi, di
fissarmi anche momentaneamente in essa. […] Ma che vuol
dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un
sentimento, rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E
dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di
noi tanti stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso
continuo, incandescente e indistinto.
Vedi, è questo il pensiero che mi sconvolge e mi rende feroce!
La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra
che si incrosta e assume forma.
Ogni forma è la morte.
Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in
questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte.
Noi tutti siamo eseri presi in trappola, staccati dal flusso che
non s’arresta mai, e fissati per la morte. (Novella La trappola)
• Un esempio: le istituzioni e le strutture
organizzate
Lewin:  disgelo  cambiamento 
riconsolidamento
• Whitehead concepisce la realtà come
un processo intensamente creativo del
quale gli individui fanno parte, ma da cui
apparentemente si staccano in virtù di un
percorso di individualizzazione
• Tale impulso di individualizzazione agisce
inconsciamente, sospingendo oscuramente i
soggetti verso le loro realizzazioni.
• Pur essendo dotati di una loro autonomia, gli
individui sono parte del processo: ne segue
una logica bivalente, in virtù della quale gli
individui, pur essendo se stessi, sono
contemporaneamente tutt’uno col processo.
• Whitehead chiama “prensione” quell’atto
unificante che comporta un dare/prendere
•
ogni prensione lascia una traccia
nella totalità: “ogni cosa che esiste ha due
aspetti, il suo io individuale e la sua
significazione nell’universo”
•
concrescenza fra individuo e totalità
•
logica paradossale: esiste una
natura delle cose, ma non è
sperimentabile se non nell’ambito
dell’interpretazione che se ne da come
soggetti idealrealismo di Whitehead
• L’individualizzazione è connessa al valore:
il primo bagliore della coscienza è
percepire che “qualcosa importa”.
• L’esperienza del mondo è più vasta della
nostra capacità analitica: viene prima il
“vago afferrare la realtà”, una percezione
magmatica e inconscia (à la Leibniz) della
realtà, e poi la separazione me/altro, che
comporta sempre una limitazione.
• N.B. Per Whitehead occorre tener conto
dell’autonomia del soggetto.
• Esiste una “energia di
autorealizzazione”, una creatività, un
comprendere la multiformità della realtà a
partire da un peculiare ideale che è
capace di conferire ordine al processo:
“Un uso fortunato delle astrazioni fa parte
dell’evoluzione verso l’alto”.
• Qualora si accentui il valore delle astrazioni si
smarrisce la linea di derivazione dal magma
indistinto primario e “l’astrazione può fuorviarci
rispetto alla complessità reale da cui si
origina”.
• I sentimenti sospingono la creatività e ci fanno
comprendere inconsciamente che l’altro è l’io
stesso: “la vita è fruizione dell’emozione,
che deriva dal passato e tende verso il futuro”
 Whitehead parla di una “comprensione” che
supera l’uso del linguaggio e il linguaggio
speculativo, capace di dire solo tautologie.
Comprendere è vivere.
• La realizzazione dell’ideale resterà
fatalmente inappagata, perché ciò
significherebbe che il soggetto ha
realizzato l’unificazione dell’intera realtà.
• Ma il soggetto non riuscirà neanche ad
avvertire la soddisfazione risultante dalla
sua stessa attività creativa, perché la
soddisfazione appartiene al processo e
non al soggetto
• l’Arte permette invece di sperimentare
l’eternità, anche se in maniera imperfetta e
transitoria. L’arte permette un primo piano
su una singolarità rispetto alla quale ci
permette di cogliere anche lo sfondo
oscuro dove si svolge la connessione col
tutto.
Gli auguri dell’Innocenza (William Blake)
Vedere un Mondo in un granello di sabbia,
E un Cielo in un fiore selvatico,
Tenere l’Infinito nel cavo della mano
E l’Eternità in un’ora.
“Se le porte della percezione venissero
sgombrate, tutto apparirebbe all'uomo
come in effetti è, infinito” (William Blake).
Blake
sconfitta
Blake
Newton
• L’arte permette di tornare alla natura, è
educazione della natura. Il bene
dell’universo non può consistere in un
infinito posticipare: l’arte si preoccupa
della fruizione immediata, qui ed ora:
“l’arte ha una funzione curativa nell’esperienza
umana quando rivela, come in un lampo, la
segreta assoluta verità concernente la Natura
delle Cose”.
• La creatività fa sì che l’universo sia in
costante agitazione
• Poiché la creatività non potrebbe
esplicarsi senza limitazioni che si
oppongono, Dio deve contenere in sé un
principio di limitazione. Dio deve essere
immaginato come animato da una “tenera
preoccupazione che nulla vada perduto”
Dio è pronto a garantire lo sviluppo di tutte
le potenzialità.
Martin Buber
• Per Martin Buber ci sono due modalità,
completamente diverse, di rapportarsi
all’altro: come un Tu o come un Esso
– Io-Tu
– Io-Esso
• Quando mi pongo davanti all’altro da me
come un Esso, lo tratto come un oggetto
(per quanto io possa rendere nobile e puro
questo oggetto).
• Quando mi pongo davanti all’altro come un
Tu sto nella relazione.
“Chi dice ‘Tu’ non ha mai qualcosa per oggetto”
• Posso considerare, dice Buber, un albero
come un oggetto da classificare, come
qualcosa che suscita i miei sentimenti, i
miei stati d’animo; “ma può anche
accadere […] che nel considerare l’albero
io entri in relazione con lui; ed ecco che
non è più un Esso. Sono stato colto dalla
forza dell’esclusività” (p. 13)
L’albero non è un’impronta, un gioco della mia
fantasia; non è legato al mio stato d’animo; al
contrario esso vive di fronte a me e sta in rapporto
con me, come io con lui, solamente secondo modi
diversi. […]
Così, avrebbe dunque l’albero una coscienza, simile
alla nostra? Non me ne sono mai accorto, ma volete
voi di nuovo, poiché vi pare che siete riusciti a farlo
in rapporto a voi stessi, distruggere l’indistruttibile?
A me non viene incontro nessuna anima o alcuna
driade dell’albero, ma l’albero stesso. (p. 13)
• Se di un uomo considero il colore dei suoi
capelli, il suo buon carattere ecc. non vedo
il suo Tu.
• Non v’è modo di arrivare al Tu con
ricerche o strategie. La relazione col Tu è
immediata e mi viene incontro. Ogni
mezzo è un impedimento. Soltanto
quando ogni strumento è eliminato
avviene l’incontro.
• Anche Dio può essere sperimentato come
un Tu o come un Esso.
Certamente più d’uno, che vivendo nel mondo delle
cose si accontenta di sperimentarle e di utilizzarle, si
è costruito una sovrastruttura ideale, nella quale trova
rifugio e conforto davanti all’agghiacciante sensazione
di nullità che gli procura questo suo modo di vivere.
Egli lascia cadere sulla soglia la veste quotidiana, si
avvolge nel candido lino e si allieta alla vista dell’ente
primo e necessario; ma la sua vita non ha alcuna
parte in esso, anche se in questo annunzio può
trovare la propria soddisfazione. (p. 18)
• Da compatire è colui che non riesce a
sperimentare la relazione Io-Tu, “ma è
miserabile colui che la sostituisce con un
concetto o con una formula, come se
fossero il suo nome”.
Anche la più nobile delle finzioni è un feticcio,
anche il più sublime dei sentimenti, se fittizio, è
vizioso.
• Per Buber non vi è mai un puro vivere
nella relazione, né un puro vivere nella
dimensione strumentale dell’Esso. La vera
storia si svolge nella zona intermedia fra
Tu e Esso.
Questa è la sublime tristezza della nostra sorte,
che nel nostro mondo ogni Tu deve mutarsi in
Esso. Così il Tu è presente esclusivamente nella
relazione immediata; come la relazione viene
elaborata e intorbidata con uno strumento, il Tu
diviene un oggetto tra gli oggetti; forse il più
insigne, ma pur sempre uno di essi, dalle
dimensioni e dai limiti fissati […] Ogni Tu che
esista al mondo è destinato per natura a divenire
cosa. (pp. 20-21)
L’amore stesso non può perseverare nella
relazione immediata; esso dura, ma
nell’avvicendarsi di situazioni potenziali e
attuali. È prescritto che ogni Tu del mondo
divenga per natura una cosa per noi, o che
sempre ritorni nella condizione di cosa. (p.
86)
• Quando gli incontri avvengono nella dimensione
del Tu, si incontrano sempre e soltanto “essenze”;
non v’è misura di confronto, solo accadimento nel
tempo presente. Solo per la dimensione dell’Esso,
infatti, vi è il tempo passato.
Gli incontri non si ordinano in funzione del mondo, ma
ognuno è per te un segno dell’ordine del mondo. Essi non
solo legati l’uno all’altro […] Il mondo che così ti appare è
poco sicuro, poiché ti appare sempre nuovo e tu non puoi
coglierlo con la parola; è privo di densità, poiché in esso
tutte le cose si compenetrano a vicenda, non ha durata,
perché tutto viene anche non chiamato e svanisce anche
se tenuto stretto. (p. 33)
• Rispetto al mondo dell’Esso, che è articolato nel tempo
e nello spazio, …
…i momenti del Tu appaiono in questa cronaca di fatti solidi e
vantaggiosi come episodi strani, dal carattere lirico e
drammatico, di una magia che seduce, ma pericolosamente
sviante […] sembra lascino dietro di sé più questioni insolute
che gioia, che scuotano la sicurezza; insomma sono momenti
poco sicuri, di cui faremmo a meno. Se, passati questi
momenti, dobbiamo pur sempre tornare nel ‘mondo’ perché
non rimanere in esso? Perché non richiamare all’ordine ciò
che ci sta di fronte, e inserirlo nel mondo degli oggetti? Perché
se proprio non si può fare a meno di rivolgersi con il Tu al
proprio padre, alla moglie, agli amici, perché non dire Tu e
intendere Esso? […] Non si può vivere nel puro presente. […]
Con tutto l’impegno della verità, ecco: senza l’Esso l’uomo
non può vivere; ma non è uomo chi se ne accontenta. (34-5)
• C’è pertanto il rischio dell’irrigidimento del
Tu nell’Esso, che il Tu diventi cosa fra le
cose.  Occorre mantenere la
consapevolezza che l’altro da sé non è
“cosa fra le cose, un processo tra i
processi, ma esclusivamente una
presenza” (p. 39)
• La risposta al Tu è sempre avvolta nel mistero
e non accetta sicurezze preconfezionate.
• Per essere colto nella sua interezza il Tu esige
silenzio.
Solo il silenzio verso il Tu, il silenzio di tutti i linguaggi,
l’attesa silente e ansiosa della parola eccelsa, indivisa,
che precede ogni forma, lascia libero il Tu e sta con esso
nella situazione in cui lo spirito non si manifesta, ma è.
Ogni risposta lega il Tu al mondo dell’Esso, e questa è la
tristezza della situazione umana, e la sua grandezza a un
tempo. Poiché così nascono la sua conoscenza, la sua
opera, le sue immagini e i suoi ideali tra i viventi. (p. 38)
Questa è l’eterna origine dell’arte: una
forma si presenta all’uomo è vuol divenire
opera mediante lui. Non v’è creazione
della sua anima, ma un fenomeno che in
essa entra e ne suscita la forza d’azione
(p. 14)
L’atto comprende un sacrificio e un rischio. Il
sacrificio: le possibilità infinite che si offrono
sull’altare della forma; deve essere eliminato tutto
ciò che penetra come gioco nella nostra
prospettiva. […] Esige l’esclusività di ciò che ci
sta di fronte.
Il rischio: la parola-base si può pronunciare colo
con tutto il proprio essere; chi rinuncia a se
stesso, nulla può trattenere a sé; e l’opera, come
l’albero e l’uomo, non sopporta che io mi soffermi
nel sospeso del mondo dell’Esso, essa invece
comanda: “se non mi servi rettamente, o io mi
infrango o infrango te” (p. 15)
Io non posso fare esperienza della forma che mi
viene incontro, e neppure descriverla; posso
solo attuarla. E tuttavia io la guardo, sfolgorante
nello splendore che mi sta di fronte, più chiara di
tutta la chiarezza del mondo dell’esperienza.
non come una cose tra le cose “interne”, non
come un’immagine della “fantasia”, come la
cosa presente. Alla prova dell’oggettività, la
forma non risulterebbe certo “presente”; ma che
cosa è presente in misura maggiore? E reale è
la relazione ce ci unisce: essa agisce su di me
come io su di lei. (p. 15)
Fare è creare, inventare è trovare. Dare
una forma significa scoprire. Nel realizzare
io scopro, conduco oltre la forma, nel
mondo dell’Esso. L’opera creata è una
cosa tra le cose, che si può sperimentare
e descrivere come una somma di
proprietà. Ma a chi ricevendo vede, essa
può di volta in volta presentarsi nella sua
solidità. (p. 15)
MICHAIL BACHTIN
L’autore e l’eroe nell’attività estetica
Se minime sono le possibilità che l’uomo ha di percepire
se stesso nella sua totalità, nell’opera d’arte, invece, c’è
una reazione dell’autore all’eroe in quanto totalità.
Questa reazione totale nei confronti dell’uomo-eroe ha un carattere
di principio e produttivo, costruttivo. In generale, ogni rapporto di
principio ha carattere creativo, produttivo. Ciò che nella vita, nella
conoscenza e nell’atto noi designiamo come oggetto determinato,
acquista la sua determinatezza, il suo sembiante soltanto nel nostro
rapporto con esso: è il nostro rapporto che determina l’oggetto e la
sua struttura e non l’inverso; soltanto dove il nostro rapporto diventa
casuale e, per così dire, quando deroghiamo al nostro rapporto di
principio con le cose e col mondo, soltanto in questo caso la
determinatezza dell’oggetto si contrappone a noi come qualcosa di
estraneo e indipendente e comincia a disgregarsi e noi stessi
soggiacciamo al dominio del casuale, ci perdiamo e perdiamo la
stabile determinatezza del mondo.
• Gli eroi sono indipendenti dall’autore e
quanto l’autore, come fa Gogol’, parla con
gli eroi, egli parla con loro come persone
già autonome.
• Il rapporto, carico di tensione, dell’autore
con l’eroe può essere definito di
extralocalità.
 se ci fosse una sola coscienza che
non abbia nulla che sia transgrediente, nulla
di extralocalizzato e di limitante dall’esterno,
non vi sarebbe atto estetico.
 L’evento estetico presuppone due
partecipanti e due coscienze non
coincidenti.
• Quando l’eroe e l’autore coincidono o si trovano
uno accanto all’altro come nemici, finisce
l’evento estetico e inizia quello etico
(ringraziamento, invettiva, confessione ecc.);
quanto l’eroe non c’è affatto, si ha l’atto
conoscitivo (trattato, articolo ecc.); là dove l’altra
coscienza è la coscienza inglobante di Dio, ha
luogo l’evento religioso (preghiera, culto, rituale).
• L’autore può narrare se stesso in una
autobiografia solo a patto che egli diventi un
altro rispetto a se stesso.
La percezione dell’uomo del mondo altrui è
caratterizzata da una concreta extralocalità,
che è caratteristica del fatto che io occupo
una particolare posizione nel mondo.
Qualunque esperienza interna è caratterizzata
dal fatto che io la percepisco in quanto io-perme. L’eccedenza della mia visione rispetto
all’altro determina la mia esclusiva attività.
La pienezza della fusione non è l’obiettivo ultimo
dell’arte, perché all’immedesimazione deve
seguire il ritorno in me.
L’attività estetica inizia quando torniamo al nostro
posto al di fuori del sofferente e conferiamo forma
e compimento al materiale dell’immedesimazione.
Bachtin utilizza il termine “compiente” per riferirsi a
tali momenti estetici. Nell’opera d’arte c’è sia il
momento dell’immedesimazione, sia quello del
compimento. (p. 24)
Bachtin esamina come viviamo il nostro aspetto esteriore. Il nostro
aspetto esteriore noi lo viviamo dall’esterno. Abbiamo
un’autosensazione interna e spetta a lei decidere se l’immagine
del nostro corpo appartenga a noi.
Mi vivo dall’interno.
Abbiamo una resistenza di principio a rappresentare la nostra
immagine esteriore ed è una sensazione del tutto diversa da quella
in cui incorre chi non si ricorda un volto noto.
Continuando ad autoosservarsi, la mia immagine si delineerà come
accanto al vissuto interno, “si staccherà appena dalla mia
autosensazione interna muovendosi e spostandosi un po’
lateralmente, come un bassorilievo, si staccherà dalla superficie
dell’autosensazione interna, senza separarsene del tutto; è come
se mi sdoppiassi un po’, senza disintegrarmi definitivamente: il
cordone ombelicale dell’autosensazione unificherà la mia
espressione esteriore con la mia interiore esperienza di sé. È
necessario un nuovo sforzo perché immagini me stesso
chiaramente en face, perché mi stacchi completamente dalla mia
autosensazione interna e, quando ciò riesce, nella nostra immagine
esteriore ci colpisce che essa sia, per così dire, vuota, spettrale,
sinistramente solitaria.
Come si spiega la cosa? Col fatto che nei confronti di
questa immagine “non abbiamo un adeguato
atteggiamento emotivo-volitivo che possa vivificarla e
includerla, valorizzandola, nell’unità esterna del
mondo plastico-pittorico” (28).
… non dispongo di un’immediata reazione emotivo-volitiva
capace di vivificare e di coinvolgere il mio aspetto esteriore:
proprio di qui derivano il vuoto e la solitudine” (28).
Io strutturo dall’interno il mio io interiore volente, amante,
senziente, vedente e conoscente in categorie di valore
totalmente diverse, che non sono direttamente applicabili alla
mia espressione esterna (29).
La mia immagine può essere convalidata solo da
un altro, perché da me viene solo l’autoconvalida
interiore.
L’oggettivazione etica ed estetica ha bisogno di un
potente punto di appoggio fuori di sé, in una forza
effettivamente reale, dal cui interno io mi possa
vedere come altro (29).
Un caso particolarissimo si ha quando ci guardiamo
allo specchio: lo specchio riflette il nostro aspetto
esteriore, ma non noi stessi. Dobbiamo ricorrere ad
un altro fittizio per guardarci. “io non sono solo,
quando mi guardo allo specchio e sono posseduto
da un’altrui anima” (31).
Posso quasi arrivare ad odiare questo altro, che per ciò
stesso assume una consistenza maggiore.
Il primo obiettivo dell’artista che lavora ad un autoritratto è
depurare l’espressione del volto riflesso, il che è possibile
soltanto se l’artista occupa una salda posizione fuori di
sé e trova un autore autorevole e fedele ai propri principi;
è l’autore-artista come tale che vince l’autore-uomo.
Mi sembra, del resto, che l’autoritratto si possa sempre
distinguere dal ritratto per un carattere un po’ spettrale che
non ingloba l’uomo intero, fino in fondo: su di me produce
sempre un’impressione quasi sinistra il volto che ride
nell’autoritratto di Rembrandt e il volto stranamente
estraniato di Vrubel. (31)
… l’uomo da solo non può riunire se stesso in una compiuta
totalità esteriore, se la vive nella categoria del proprio io. Non
si tratta qui di una carenza di materiale della visione esteriore,
benché la carenza sia notevolissima, ma dell’assenza,
puramente di principio, di un unitario approccio di valore
all’espressione esteriore dell’uomo partendo dal suo
interno; nessuno specchio, fotografia, particolare
autoosservazione qui possono essere d’aiuto; nel migliore dei
casi otterremo un prodotto esteticamente falso, creato a
proprio vantaggio dal punto di vista di un possibile altro privo
di autonomia. In questo senso si può parlare di assoluto
bisogno estetico che l’uomo ha dell’altro, dell’altrui attività
di visione, memoria, riunione e unificazione che, sola, può
creare la sua personalità esteriormente compiuta; questa
personalità non ci sarà, se l’altro non la creerà: la memoria
estetica è produttiva, cioè per la prima volta genera l’uomo
esteriore su un nuovo piano di esistenza. (33)
Io posso ricordarmi, posso in parte percepirmi col senso
esterno, in parte farmi oggetto di desiderio e di
sentimento, cioè posso farmi oggetto di me stesso. Ma
in questo atto di autooggettivazione io non coinciderò
con me stesso, io-per-me resterò nell’atto stesso di
questa autooggettivazione, ma non del suo prodotto,
resterò nell’atto della visione, del sentimento, del
pensiero, ma non dell’oggetto visto o sentito. Non
posso mettere tutto me stesso nell’oggetto, eccedo
ogni oggetto in quanto soggetto attivo.
Qui ci interessa non l’aspetto conoscitivo di questa situazione che
sa alla base dell’idealismo, ma la concreta esperienza vissuta
della propria soggettività e dell’assoluta inesauribilità nell’oggetto
– momento profondamente inteso e assimilato dall’estetica
romantica (la teoria dell’ironia in Schlegel) in opposizione alla pura
oggettività dell’altro. (36)
La conoscenza introduce qui un correttivo, secondo il
quale anche io per me risulta determinato da un luogo
e da un tempo.
Può essere intuitivamente convincente il solipsismo,
che
colloca tutto il mondo nella mia coscienza […] Io vivo la mia
coscienza come se inglobasse il mondo, come se lo
abbracciasse, e non come se fosse contenuta in esso
[illeggibile]. L’immagine esteriore può essere vissuta come
suscettibile di compiere ed esaurire l’altro, ma non è vissuta
da me come suscettibile di compiere ed esaurire me (36).
Bachtin ribadisce che qui non si tratta di soli momenti
conoscitivi (come il rapporto anima-corpo, coscienzamateria ecc.) ma la concreta esperienza vissuta.
Io per me non sono interamente consustanziale al mondo
esterno, in me c’è sempre qualcosa di essenziale che posso
contrapporre ad esso, e precisamente la mia attività
interiore, la mia soggettività, che è opposta al mondo interno
in quanto oggetto, senza farsi contenere da esso; questa
mia attività interiore è extranaturale e extramondana, io
dispongo sempre di una via di uscita lungo la linea
dell’esperienza interiore di me stesso nell’atto [illeggibile] del
mondo, c’è insomma una scappatoia che mi permette di
sfuggire alla totale datità naturale. L’altro [illeggibile] è
intimamente legato al mondo, io lo sono alla mia attività
extramondana. (37)
I frammenti della mia espressione esteriore sono
incorporati in me soltanto attraverso le esperienze
interiori che loro corrispondono. Il visibile non fa
che integrare ciò che è interiormente vissuto. La
base per dare senso all’azione esteriore è
l’autosensazione interna.
Fissare l’attenzione sulla propria esteriorità durante il
compimento dell’azione può risultare fatale per
l’azione stessa (41).
Io non posso amarmi dall’esterno. Narciso costituisce
l’eccezione che conferma la regola. Anche se posso
difendersi e aspirare al potere e alla sottomissione
degli altri, l’amore per sé è impossibile all’uomo:
l’egoista si comporta come se amasse se stesso, ma
di fatto egli non può avere di se la sensazione di
essere una persona [cioè: si può amare se stessi
sono in quanto oggetto, non in quanto soggetto]. Solo
gli altri possono avere tenerezza e compassione per
noi stessi.
In effetti quando l’uomo inizia a viversi dall’interno, subito egli
incontra atti altrui diretti verso di lui: il bambino riceve dalla
bocca della madre e dei suoi cari tutto ciò che originariamente
determina lui stesso e il suo corpo. Dalla loro bocca, nel tono
emotivo-voitivo del loro amore, il bambino sente e comincia a
riconoscere il suo nome e la denominazione di tutto ciò che si
riferisce al suo corpo, alle esperienze e agli atti interiori; le prime
e più autorevoli parole che lo riguardano, le prime parole che
dall’esterno definiscono la sua personalità e che vengono
incontro alla sua oscura autosensazione interiore, conferendole
forma e denominazione, le parole in cui per la prima volta
prende coscienza di sé e trova se stesso come un qualcosa,
sono le parole della persona che l’ama. (pp. 43-44)
Le parole amorevoli e le effettive cure vanno incontro al torbido caos
dell’autosensazione interiore, denominando, guidando,
soddisfacendo, legando al mondo esterno come a una risposta piena
di interesse nei riguardi dei miei bisogni, e così, in un certo senso,
organizzano plasticamente questo infinito caos brulicante di bisogni e
insoddisfazioni, nel quale per il bambino è ancora diluito tutto
l’esterno e nel quale è diluita e sommersa la futura diade della
persona e del mondo esterno [mondo interno e mondo esterno
coincidono nell’onnipotenza], ad essa contrapposto. A svelare questa
diade aiutano le azioni e le parole amorevoli della madre: nel suo
tono emotivo-volitivo si delimita e si costruisce la personalità del
bambino, nell’amore assume una forma il suo primo movimento, il
suo primo atteggiarsi nel mondo. Per la prima volta il bambino
comincia a vedersi, per così dire, con gli occhi della madre e a
parlare di sé nei toni emotivo-volitivi di quest’ultima, e in un certo
senso, e in un certo senso si vezzeggia con la prima parola che
pronuncia su se stesso; così, egli applica a se stesso e alle membra
del suo corpo i diminutivi e i vezzeggiativi nel tono appropriato: ‘la
testolina, la manina, il piedino’, ‘ho voglia di fare la nanna’ ecc. qui
egli definisce se stesso e i suoi stati attraverso la madre, attraverso
l’amore che essa prova per lui, come oggetto del suo affetto
[…] riceve forma dai suoi abbracci. Dall’interno di se stesso,
senza acuna mediazione di un’altra persona amorevole, l’uomo
non potrebbe mettersi a parlare di se usando diminutivi e
vezzeggiativi e, in ogni caso, questi non esprimerebbero
fedelmente l’effettivo tono emotivo-volitivo della mia
autoesperienza vissuta, del mio immediato rapporto interiore con
me stesso e sarebbero esteticamente falsi […] Posso parlare di
me in forma diminutiva e vezzeggiativa soltanto rispetto all’altro,
esprimendo con tale forma il rapporto, reale o desiderato, che
l’altra persona ha con me […] Questo amore ella madre e delle
altre persone, che fin dall’infanzia conferiscono forma all’uomo
dall’esterno, nel corso di tutta la sua vita dà consistenza al suo
corpo interiore, anche se non gli fornisce un’immagine
intuitivamente concreta del suo valore esteriore (45-47).
Bachtin (pp. 47 ss.) propone una lettura del corpo in
relazione all’esistenza della categoria dell’altro. Il
massimo di negazione della categoria dell’altro si ha in
Plotino, per il quale tutti gli eventi discendono dall’ioper-me e tutto – l’universo, Dio, gli altri – è soltanto ioper-me e l’altro non ha voce.
 Di qui la più cocente negazione del valore del corpo:
il mio corpo non può essere valore per se stesso.
L’istinto di autoconservazione non è capace di generare
valori. L’organismo è giustificato solo da un altro
esterno.
La vita biologica dell’organismo diventa un valore soltanto nella
simpatia e nella compassione che gli sono testimoniate da un
altro (maternità) (p. 51).
• Nel cristianesimo predomina la categoria
dell’altro. Dio non si definisce come purezza del
rapporto che ho con me stesso, ma come Padre
celeste che può giustificarmi là dove io non
posso all’interno di me stesso. Dall’interno di me
stesso c’è la negazione di me stesso,
dall’esterno (da Dio) la grazie e la misericordia.
• Nell’epoca moderna il corpo è degenerato a
corpo dei bisogni.
• Vivere me stesso come un altro è possibile per il pensiero
astratto, collocandomi cioè sul piano di un altro
generalizzato. Ma ciò è un’operazione banale e non dà
significato al mio corpo dall’esterno, valore che può
essere acquisito solo dallo sguardo di un altro
autorevole.
• Ma se questa posizione autorevole non c’è, allora il mio
aspetto esteriore tende a legarsi alla mia autocoscienza e
ne deriva un ritorno in me stesso al fine di utilizzare in
maniera interessata l’esistenza che ho per l’altro.
• C’è una differenza fra il valore corporeo che acquisisco
vivendo per me e vivendo per l’altro.
• Se si tenta di suscitare la propria vita nella sua totalità si
incontreranno le immagini compiute e indelebili delle altre
persone, di persone care e persino di persone incontrate
casualmente, ma non ci sarà la mia immagine:
...al mio io corrisponderanno i ricordi, le rievocazioni di
una felicità puramente interiore, di una sofferenza, di un
pentimento, di desideri e aspirazioni che impregnano
questo mondo visivo degli altri, ossia io ricorderò i miei
orientamenti interiori in determinate circostanze della
vita, ma non la mia immagine esteriore. […] Io creo
attivamente il corpo esteriore dell’altro come valore per il
fatto di assumere un determinato orientamento emotivovolitivo nei riguardi dell’altro (p. 54).
• La sofferenza, vissuta dall’interno dello stesso
sofferente, non è per lui tragica. La vita non si
organizza internamente come tragedia, così
come dall’interno la vita non è tragica, o bella, o
comica. Ciò può avvenire solo se uno sguardo
esterno supera i limiti dell’anima che vive la vita
e occupa una salda posizione fuori di essa, che
questa diventa bella o sublime (p. 63).
• Se l’autore-contemplatore perde la sua salda
posizione al di fuori dei personaggi e si identifica
con essi, si distrugge l’evento artistico. (p. 65)
• Esiste una differenza di gioco e arte: nel gioco è
assente lo spettatore e l’autore. Il gioco, dal
punto di vista dei giocatori, non presuppone uno
spettatore che si trovi fuori del gioco. (p. 67)
L’attività estetica opera sempre ai confini (la
forma è un confine) della vita vissuta
dall’interno, là dove la vita è vissuta al di fuori,
dove essa finisce (fine spaziale, temporale e di
senso) e ne comincia un’altra, dove si trova la
sfera ad essa inaccessibile dell’attività
dell’altro. (p. 77)
Io sono dentro la mia vita, e se riuscissi a vedere questa
esteriorità, essa diventerebbe automaticamente un
momento dell’interiorità, cesserebbe di essere un confine
che può essere sottoposto ad elaborazione estetica e
che mi compie dal di fuori.
Ammettiamo che io possa mettermi fisicamente fuori di me
stesso, che io riceva la possibilità fisica di darmi forma dal di
fuori: in ogni caso, non avrò alcun principio interiormente
convincente in base al quale darmi questa forma dal di fuori,
modellare il mio sembiante esteriore, compiere esteticamente
me stesso, se non sarò in grado di mettermi fuori di tutta la
mia vita e di percepirla come vita di un altro; ma per far
questo è necessario che io sia in grado di trovare una solida
posizione, non solo esteriormente, ma anche interiormente
convincente, una posizione di senso, fuori di tutta la mia vita
[…], con tutti i suoi desideri, impulsi, risultati, e di percepirli
tutti in un’altra categoria. (77-78).
“Ci sono eventi che, per principio, non
possono svolgersi sul piano di una
coscienza unica e unitaria, ma
presuppongono due coscienze che non si
fondono”.
La teoria estetica espressiva, assieme a numerose filosofie
filosofiche etiche, storico-filosofiche, metafisiche e religiose,
tende a depauperare il fenomeno produttivo perché per spiegare
l’evento o trasferisce con tutti i suoi momenti sul piano unitario di
un’unica coscienza, a partire dalla quale deve essere dedotto;
ma così si perdono le effettive forze creative e si ha una
descrizione meramente teorica. La produttività di un evento non
sta nella fusione delle coscienze, ma nella distinzione della
propria extralocalità, nell’uso del proprio privilegio di essere fuori
dagli altri.
• L’uomo esteriore è transgrediente rispetto all’ioper-me, perché sono un dono che un’altra
coscienza accorda all’eroe e non sono
espressione di un’attività dell’eroe dal suo
interno.
• Ciò avviene anche per l’anima. Il problema
dell’anima, dal punto di vista metodologico, non
spetta alla psicologia, scienza avalutativa e
causale, ma all’estetica. La mia sola riflessione
non può generare l’anima, ma solo una
soggettività disorganizzata. (pp. 90-91)
• Io non sono tutto nel tempo, ma una gran
parte della mia vita la vivo fuori del tempo:
un appoggio immediato mi è dato dal
senso. Come soggetto dell’atto che pone il
tempo, io sono extratemporale. “
“Io, come soggetto, non coincido mai con
me stesso: io – soggetto dell’atto di
autocoscienza – supero i miei limiti del
contenuto di questo atto; e non si tratta di una
speculazione astratta, ma di una scappatoia
vissuta da me intuitivamente e in mio saldo
possesso, che mi porta via dal tempo, da tutto
il dato, da tutto ciò che è finito e presenziale”
• Dal punto di vista dell’autocoscienza è
convincente l’immortalità dello spirito.
• Lo spirito in ogni dato istante è un compito, ha
ancora da venire e la pacificazione al suo
interno gli è impossibile. Esso non può essere
portatore di ritmo.
L’anima è lo spirito che non si è attuato e che è
riflesso nella coscienza amorevole dell’altro (dell’uomo
o di Dio). L’intreccio della mia vita è creato dagli altri.
• “Io vivo l’oggetto della mia paura come terribile,
l’oggetto del mio amore come amato, l’oggetto della
mia sofferenza come gravoso […], ma non vivo la
mia paura, il mio amore, la mia sofferenza”.
• “Devo cessare di avere paura per vivere la mia
paura nella sua determinatezza psichica […]. Non si
tratta di un’impossibilità psicologica, di un’ ‘angustia
della coscienza’, ma di un’impossibilità di valore e di
senso: io devo andare oltre i limiti del contesto di
valore nel quale è trascorsa la mia esperienza: se
voglio fare del mio stato di esperienza vissuta della
mia carne psichica un mio oggetto, devo trovare
un’altra posizione di valore […]. Devo diventare altro
rispetto a me stesso”. (p. 101)
• Lo spirito si attua nell’esperienza.
• Il ritmo presuppone l’immanentizzazione
del senso dell’esperienza vissuta
• “Non appena cerco di determinare me stesso
per me stesso (non per l’altro e a partire
dall’altro), mi trovo soltanto là, nel mondo del
compito, fuori dalla mia già-presenzialità
temporale, come qualcosa di ancora avvenire
nel suo senso e valore: […] il vero io-per-me –
non c’è ancora nell’esistenza, esso è posto
come compito ed è ancora a venire” (111).
• “Essere per me significa essere ancora a venire
(cessare di essere a venire, risultare qui già tutto
intero significa morire spiritualmente)” (111).
Possiamo dire che è il peccato originale immanente
all’esistenza e dall’interno di essa vissuto, inscritto nella
tendenza dell’esistenza all’autosufficienza: è l’interiore
autocontraddizione dell’esistenza, in quanto essa
pretende di permanere autosoddisfatta nella sua
presenzialità di fronte al senso, - l’autoconvalida
autocondensata dell’esistenza nonostante il senso da
cui essa promana (la rottura con la fonte), il movimento
che d’un tratto s’è arrestato e, senza ragione, si è
bloccato, ha voltato le spalle al fine che lo ha creato
(materia che, d’un tratto, si cristallizza in una roccia di
una forma determinata). È l’assurda e sconcertata
compiutezza, che prova la vergogna verso la propria
forma.
Ma nell’altro, questa determinatezza dell’esistenza
interiore e esteriore io la vivo come misera, bisognosa
passività, come inerme stimolo a esistere e a
permanere perpetuamente, ingenuo nella sua brama a
esistere a qualsiasi costo: l’esistenza fuori di me, come
tale, nelle sue più mostruose pretese, è soltanto
ingenua e femminilmente passiva, e la mia attività
estetica dal di fuori interpreta e illumina i suoi confini,
dando loro una forma, la compie sul piano dei valori
(quando, invece, io trapasso interamente nell’esistenza,
spengo la chiarezza che l’evento dell’esistenza ha per
me e divento suo oscuro, passivo partecipante).
La vita esperienza vissuta in me, nella quale io sono
attivamente attivo, non può mai pacificarsi in sé, fermarsi,
finire, compiersi, non può mai staccarsi dalla mia attività,
cristallizzarsi d’un tratto in autonoma esistenza compiuta,
con la quale la mia attività non avrebbe nulla da fare,
poiché, se qualcosa è da me vissuto, questa esperienza
contiene sempre un compito posto in modo cogente, è
dall’interno infinita e non giustificatamene cessare si
essere vissuta, non può cioè liberarsi da tutti gli obblighi
assunti verso il suo oggetto e il suo senso. Io non posso
cessare di essere attivo in essa, il che significherebbe
annullarmi nel mio senso, trasformarmi soltanto in una
maschera della mia esistenza, in una menzogna da me
detta a me stesso (112).
MARK LANEGAN - ONE WAY STREET
The stars and the moon
Aren't where they're supposed to be
For the strange electric light
It falls so close to me
Love I come to the ride
I'm not sea sick, rolling wave
And you know that I am
Just trying to get out
Oh the glorious sound
Oh the one way street
But you can't get ...
Can't get it down without crying
When I'm dressed in white
Send roses to me
I drink so much sour whiskey
I can hardly see
And everywhere I've been
There's a world that howls my name
From the one tiny sting
To that vacant fame
It's called a one way street
Oh the deafening roar
Remember that's called a one
way street
And you can't get ...
Can't get it down without crying
Mysteries aside
You can't get out
In a psychotropic light
You can't get out
Love I come to the ride
I'm not sea sick, rolling wave
As a way that I fall
Trying to get out
Oh the glorious sound
Of the one way street
And you can't get ...
Can't get it down without crying
Oh the deafening roar
John Dewey
Scrive Tullio Regge, scienziato relativista:
La realtà esiste quando le sensazioni provocano in noi una reazione
istintiva senza ricorso a una sequenza di deduzioni logiche. Per
sopravvivere l’uomo primitivo doveva accertare d’istinto l’esistenza di
potenziali nemici e delle prede, e questa pulsione ancestrale, che
chiamerò Urtrieb, è rimasta in noi: scomparsa la tigre dai denti a
sciabola ci spinge a recepire e poi analizzare la realtà. L’abitudine
alla realtà richiede ambedue queste componenti.
Condizioni essenziali per l’abitudine sono l’Urtrieb, ma anche la
continuità e la consistenza dei dati empirici. Una sequenza di
immagini scelte a caso che scorrono in rapida successione provoca
una sensazione che si trasforma ben presto in noi in disinteresse e
non dà luogo ad apprendimento. […] La continuità è la prima
manifestazione visibile della razionalità dell’universo e delle leggi che
lo regolano e i tentativi di un lattante di afferrare gli oggetti intorno a
sé sono l’esordio del metodo sperimentale: chi nega la validità
scientifica di questo metodo rinnega le proprie origini…
…Non vedo differenza, se non quantitativa tra quanto apprende
un bambino e quanto apprende uno scienziato durante il corso
della sua ricerca. Tutti e due procedono spinti dall’Urtrieb e
analizzano il mondo con gli strumenti a disposizione. La ricerca
ha per noi anche un aspetto ludico ma non a caso è ben noto
che il gioco è cosa seria per il bambino e lo prepara alla vita
adulta. […]
Comprensibilità e incomprensibilità del reale sono aspetti
particolari e conseguenza di leggi naturali il cui dominio di
applicazione si è enormemente ampliato negli ultimi tre secoli; le
loro origini rimangono insondabili ma continuano ad affascinare
chi come me e i miei colleghi è ancora in preda dell’Urtrieb e
considera la scienza un gioco meraviglioso. Lo stesso Einstein
ha detto che “la cosa più incomprensibile dell’universo è che è
comprensibile”.
(T. Regge, 2000, pp. 24-27)
Scrive, in modo analogo, John Dewey:
Per molti anni ho pensato e insegnato che l’esperienza è
un’interazione fra l’io (self) e qualche aspetto del suo
ambiente. L’azione intenzionale (purposeful) ed intelligente è il
mezzo grazie al quale questa interazione è resa significante. Nel
corso di tale azione, gli oggetti acquistano significato e l’io diventa
consapevole delle sue capacità, perché, mediante il controllo
intelligente dell’ambiente, dirige e consolida i suoi personali poteri.
Un’azione intenzionale è così la meta di tutto ciò che è realmente
educativo ed è il mezzo con il quale la meta è raggiunta ed il suo
contenuto è rielaborato. Un’attività siffatta è necessariamente una
crescita ed un processo di crescita. Essa comincia quando un
bambino compie i suoi primi adattamenti intenzionali all’ambiente;
via via che li compie, egli acquista atteggiamenti e abitudini che lo
rendono capace di allargare i suoi scopi, di scoprire ed usare i
mezzi ed i metodi per raggiungere scopi più ampi. In questo
processo del vivere intelligente non c’è alcun limite intrinseco. Esso
dovrebbe continuare dall’infanzia alla morte. l’arresto della crescita
continua è una forma di decadenza e di morte premature.
Nel vivere intelligente, l’interazione dell’io e del suo mondo
non lasciata al caso, l’azione (nel senso ristretto della parola),
l’emozione e l’intelletto sono tutti coinvolti. L’adattamento
intelligente dell’io agli oggetti ed agli avvenimenti circostanti
equilibra queste funzioni. Il pensiero allora diventa conoscenza
e comprensione profonda (insight); l’emozione diventa
interesse e le risposte motorie diventano padronanza degli
oggetti e delle qualità che ci stanno intorno, e delle capacità
umane ad essi relative. L’arresto del processo di crescita è di
fatto l’arresto del vivere intelligente, dell’educazione. La crescita,
il vivere intelligente e l’educazione hanno molti nemici. Questi
nemici sono potenti. Essi sono, purtroppo, rafforzati dalle
pratiche che dominano i veicoli che fanno professione di
educazione, le scuole e le istituzioni chiamate educative.
(Dewey, J. [1935], Prefazione a The Art of Renoir di A.C. Barnes
e V. De Mazia, in Dewey, J. [1954], Educazione e arte, Tr. it. La
Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 3-4)
Le emozioni, per Dewey, sono connesse con il
significato di oggetti e con un’azione intenzionale e
sono interessi che uniscono l’io al mondo in
cambiamento.
Quando, però, esse vengono lasciate fluttuare
liberamente al di fuori del legame che unisce il
soggetto al mondo, “invece di dare un’ancora di
salvezza sicura, esse si dissolvono in fantasticherie
che si interpongono tra l’io e il mondo”.
Nel campo artistico dell’esperienza più che in
qualunque altro, l’abitudine a separare la mente
(attiva nell’osservazione e nella riflessione) e
l’emozione è profondamente radicata. In questo
campo, i danni di questa abitudine sono
particolarmente notevoli. L’educazione, che è
essenzialmente addestramento alla percezione, è
messa da parte. Tra l’io ed il mondo percepibile
intervengono un’emozione privata ed un giudizio
altrettanto privato, perché essi non sono basati su
una percezione consapevole degli oggetti e delle
loro relazioni reciproche.
(Dewey, J. [1935], Prefazione a The Art of Renoir di
A.C. Barnes e V. De Mazia, cit.)
…l’impulso o il bisogno di un individuo a partecipare ad
un’impresa è un presupposto necessario perché la tradizione
possa essere un fattore della sua crescita personale in
capacità e libertà; e dobbiamo riconoscere anche che egli deve
osservare per suo conto e sotto il suo personale punto di vista le
relazioni tra mezzi e metodi impiegati e risultati conseguiti. Nessun
altro può vedere per lui ed egli non può osservare soltanto in base
a quanto viene ordinato, sebbene il retto modo di comandare possa
guidare la sua osservazione e possa così aiutarlo a vedere ciò che
ha bisogno di vedere. E se egli non ha un desiderio personale che
lo stimoli a diventare carpentiere, se il suo interesse ad essere tale
è superficiale, se è un interesse a non essere affatto carpentiere,
ma è solo interesse ad ottenere un compenso in danaro tramite un
lavoro, allora naturalmente la tradizione non penetrerà mai
realmente nelle sue capacità e non le completerà. Rimarrà allora
un insieme di regole meccaniche e più o meno insignificanti che
egli è costretto a seguire, se deve avere un lavoro e ricavarne la
paga. (Dewey J. [1926], Individualità ed esperienza, Tr. it. in Dewey
1954, cit., pp. 22-23)
Le tradizionali teorie filosofiche e psicologiche ci hanno
abituato a nette separazioni tra i processi fisiologici ed
organici da un lato e le manifestazioni più alte della
cultura nella scienza e nell’arte dall’altro. Queste
separazioni sono riassunte nella comune divisione che
si fa tra mente e corpo. Queste teorie ci hanno anche
abituato a tracciare rigide separazioni tra le operazioni
logiche, strettamente intellettuali, che culminano nella
scienza, i processi emotivi e immaginativi, che
dominano la poesia, la musica e in misura minore le arti
plastiche, e le azioni pratiche che regolano la nostra
vita quotidiana e che si risolvono in attività industriali,
economiche e politiche. Da queste separazioni è
derivata la creazione di un gran numero di problemi […]
Tra la cura della scienza, l’arte per l’arte, gli affari
come qualcosa di abitudinario o come attività per far
soldi, l’esilio della religione alla domenica ed ai giorni
festivi, il passaggio della politica in mano ai politicanti
di professione, la trasformazione degli sports in
mestieri e così via, sono rimaste poche occasioni per
vivere, per l’amore per vivere, per una vita piena, ricca
e libera. (Dewey J. [1926], Pensiero affettivo nella
logica e nella pittura, Tr. it. in Dewey 1954, cit.)
Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò
necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della
scala umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo
possono valere almeno a ricordare e simboleggiare
quella unità dell’esperienza che noi frazioniamo tanto,
quando il lavoro diventa fatica, e il pensiero ci astrae
dal mondo. L’animale vivo è pienamente presente,
tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate
caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli
orecchi improvvisamente. Tutti i suoi sensi
indistintamente stanno sul chi vive. Se state attenti,
vedete il movimento confondersi con la sensazione e
la sensazione con il movimento, determinando quella
grazia animale con la quale all’uomo riesce così
difficile gareggiare. (Dewey, 1934, p. 25)
Recenti progressi in alcuni principi generali
fondamentali a proposito delle funzioni biologiche in
generale e di quelle del sistema nervoso in particolare
hanno reso un preciso concetto di un continuo sviluppo
dalle funzioni più basse a quelle più alte. […] C’è stato
per lungo tempo un discorso vago sull’unità
dell’esperienza e della vita mentale, nel senso che
conoscenza, sentimento e volizione sono tutte
manifestazioni delle medesime energie, ecc.
(Dewey J. [1926], Pensiero affettivo nella logica e nella
pittura, cit. p. 30)
Dewey: Arte come esperienza
(1934)
1 – la creatura vivente
• A chi comincia a scrivere sulla filosofia delle belle arti si
impone un compito primario: ripristinare la continuità
tra quelle forme raffinate e intense d’esperienza che
sono le opere d’arte e gli eventi, i fatti e patimenti di
ogni giorno. Le cime delle montagne non fluttuano
senza e neppure poggiano sul terreno
• Per comprendere l’arte occorre partire da ciò che
suscita l’interesse dell’uomo: l’auto dei pompieri che
passa, la soddisfazione di un lavoro manuale…
Svincolandosi dall’idea dell’arte per l’arte, occorre
ripristinare la continuità dell’esperienza estetica con i
normali processi del vivere  si vedrà allora che l’arte
permette di intensificare il senso della esperienza
immediata  Vi è una normale evoluzione delle
comuni attività umane in elementi di valore estetico
• Ma se in ogni esperienza normale è implicita una
qualità artistica ed estetica, in che modo potremo
spiegare come e perché essa di solito non riesce a
diventare esplicita? Per capire ciò, occorre capire
cosa si intende per “esperienza normale”.
• La vita si sviluppa in un ambiente: non solo in esso,
ma a causa sua, interagendo con esso.
Nessuna creatura vive soltanto dentro la propria pelle. […]
In ogni momento l’essere vivente è esposto ai pericoli del
mondo circostante, e in ogni momento deve prelevare
qualcosa dal mondo circostante per soddisfare i suoi
bisogni. La vita e il destino di un essere vivente sono
connessi ai suoi scambi con l’ambiente, non
esteriormente, ma nella maniera più intima.
Il ringhiare del cane che tiene stretto l’osso, il suo latrato nei
momenti di sconforto e di solitudine, il suo scodinzolio al ritorno
dell’amico uomo, sono tutte espressioni di quel legame che è tra
l’essere vivente e il mezzo naturale nel quale è incluso l’uomo e
l’animale che egli ha addomesticato. Ogni bisogno, di aria fresca o
di cibo che sia, è una mancanza che tradisce per lo meno la
temporanea assenza di un adeguato adattamento al mondo
circostante. Ma esso è anche un’esigenza, un protendersi verso
l’ambiente per colmare il vuoto e determinare un nuovo
adattamento creando per lo meno un temporaneo equilibrio. La vita
consiste in fasi in cui l’organismo perde il passo rispetto alla marcia
delle cose circostanti e poi lo recupera, o con uno sforzo o per
qualche felice circostanza. E in una vita che si sviluppa, il ricupero
non è mai un mero ritorno allo stato precedente, in quanto esso si è
arricchito dello stato di squilibrio e di resistenza attraverso il quale è
passato con successo. Se il vuoto tra l’organismo e l’ambiente è
troppo largo, l’essere vivente muore. Se la sua attività non viene
intensificata da un momentaneo dislivello, esso non fa che
vegetare. La vita si sviluppa allorché un momentaneo sbandamento
permette il passaggio a un equilibrio più vasto tra le energie
dell’organismo e quelle delle condizioni in cui esso vive.
Questi luoghi comuni biologici sono qualcosa di più di luoghi
comuni biologici; essi toccano le radici dell’estetico nell’esperienza.
…se la vita continua e se, continuando, si espande, vi è un
sopravvento su fattori di opposizione e contrasto; vi è una
trasformazione di essi in aspetti differenziati in una vita più potente e
significante. Ha effettivamente luogo il miracolo dell’adattamento
vitale, organico, attraverso l’espansione (anziché mediante la
contrazione e l’accomodamento passivo). Vi sono qui il germe
dell’equilibrio e armonia, raggiunti attraverso il ritmo. L’equilibrio vien
fuori non inerte e meccanico, ma da una tensione e per una tensione.
Nella natura, anche sotto al livello della vita, vi è qualcosa di più di
un semplice mutare e fluire. La forma è raggiunta ogni qual volta
è raggiunto un equilibrio stabile… […] L’ordine non è imposto dal
di fuori, ma è costituito dai rapporti di reazione armonica che le
energie producono l’una sull’altra. Poiché è attivo (e non statico come
sarebbe se fosse estraneo a ciò che si svolge), l’ordine si sviluppa da
sé. […]
L’ordine non può essere che oggetto di ammirazione in
un mondo costantemente minacciato dal disordine. […]
In un mondo come il nostro ogni essere vivente che raggiunga
sufficiente sensibilità ogni qual volta trovi attorno a sé un ordine
confacente accoglie l’ordine corrispondendogli con un
sentimento di armonia.
Il recupero di un’ordinata partecipazione all’ambiente
dopo una rottura ha i germi di una perfezione simile
all’estetico.
Mancanza e recupero dell’armonia avvengono
nell’uomo coscientemente.
L’emozione è il segno consapevole di una rottura, attuale o
imminente. La discordanza è l’occasione che induce alla
riflessione. Il desiderio di ripristinare l’unità converte la mera
emozione in interesse per gli oggetti come condizioni per
realizzare l’armonia. Con la realizzazione, viene incorporato
negli oggetti, assieme al loro significato, un materiale di
riflessione. Poiché l’artista si cura in modo particolare della
fase dell’esperienza in cui l’unità viene raggiunta, egli non
rifugge i movimenti di resistenza e di tensione. Piuttosto li
coltiva, non fine a se stessi, ma in quanto il loro potenziale reca
alla coscienza vivente un’esperienza che è unificata e totale.
La strana opinione che un artista non pensi e un ricercatore
non faccia altro che pensare è il risultato della conversione di
una differenza di tempo e di accento in un differenza di
qualità.
La natura […] è amabile e odiosa, dolce e bisbetica, irritante
e confortante. Persino parole come lungo e corto, pieno e
vuoto, comportano ancora per tutti, eccetto che per coloro
che sono intellettuali di professione, un significato morale ed
emotivo. Il vocabolario informerà chiunque lo consulti che
l’uso primitivo di parole come dolce e amaro non doveva
indicare qualità di sensazioni come tali, ma discriminare cose
in quanto favorevoli e ostili.
Il contrasto del vuoto e del pieno, della lotta e del successo,
dell’adattamento che segue il superamento di una irregolarità,
costituiscono il dramma in cui azione, sentimento e
intenzione sono tutt’uno. Il risultato è un equilibrio e uno
squilibrio. Questi non sono né statici né meccanici. Essi
esprimono una potenza che è intensa in quanto è misurata
dal superamento di una resistenza. […] In un mero scorrere
delle cose il mutamento non sarebbe cumulativo; non
muoverebbe verso una conclusione. La stabilità e il riposo
non ci sarebbero. Allo stesso modo è vero, tuttavia, che un
mondo finito, completo, non avrebbe tratti di sospensione e di
crisi e non offrirebbe nessuna possibilità di soluzione.
Laddove ogni cosa è già completa non esiste compimento. Ci
prospettiamo con piacere il Nirvana e una felicità celestiale e
uniforme soltanto perché essi si proiettano sullo sfondo di
questo nostro mondo di violenza e di lotta.
• Vi possono essere piaceri occasionali e superficiali.
Essi non vanno disprezzati.
Ma felicità e gioia sono un’altra cosa. Esse nascono
da un soddisfacimento che è un adattamento di tutto
il nostro essere alle condizioni dell’esistenza.
Nella vita veramente ogni cosa si unifica e si confonde. Ma troppo
spesso noi ci troviamo in apprensione per ciò che il futuro può
portare, e siamo divisi dentro noi stessi. Persino quando la nostra
ansia non è eccessiva, non godiamo il presente in quanto lo
subordiniamo a ciò che è assente. […] Soltanto quando il passato
cessa di travagliare e le anticipazioni del futuro non turbano,
l’essere è completamente unito con il suo ambiente e perciò
completamente vivo. L’arte celebra con particolare intensità i
momenti in cui il passato rafforza il presente, e il futuro è una
accelerazione di ciò che ora è.
Per afferrare le fonti dell’esperienza estetica è perciò
necessario ricorrere alla vita animale al di sotto della scala
umana. Gli atti della volpe, del cane e del tordo possono valere
almeno a ricordare e simboleggiare quella unità dell’esperienza
che noi frazioniamo tanto, quando il lavoro diventa fatica, e il
pensiero ci astrae dal mondo. L’animale vivo è pienamente
presente, tutto là, in ognuna delle sue azioni: nelle sue occhiate
caute, nel suo annusare accorto, nel suo drizzare gli orecchi
improvvisamente. Tutti i suoi sensi indistintamente stanno sul chi
vive. Se state attenti, vedete il movimento confondersi con la
sensazione e la sensazione con il movimento, determinando quella
grazia animale con la quale all’uomo riesce così difficile gareggiare.
2 – L’essere vivente e le “cose eteree”
• La cultura è frutto dell’interazione con l’ambiente e non
qualcosa che nasce nel vuoto o magari dalla riflessione
degli uomini su loro stessi. “La profondità degli echi
suscitati dalle opere d’arte dimostra la loro continuità con
gli atti di questa lunga esperienza. Le opere e gli echi che
esse producono formano una continuità con i reali processi
della vita in quanto questi sono condotti a una conclusione
inaspettatamente felice”.
Quando sono lontano dalla vista dell’erba che vive e cresce o dal
canto degli uccelli e da tutti i suoni della campagna, sento di non
essere veramente vivo […] quando sento qualcuno che dice di non
aver trovato il mondo e la vita gradevoli e interessanti al punto di
amarli, o che pensa con animo indifferente alla loro fine, posso
credere che egli non è mai stato veramente vivo e ce non ha mai
avuto un’immagine chiara del mondo di cui pensa così male oppure
non ne ha visto nulla, neppure un filo d’erba (W.H. Hudson).
• Dewey parla dell’affinità fra il misticismo
dell’abbandono estetico e quello che i religiosi
indicano con comunione estatica. Hudson lo ricorda
a proposito della sua fanciullezza e dell’effetto che
faceva su di lui la vista
dell’ondeggiante fogliame piumato [di un’acacia] nella
notte lunare […] che faceva apparire quest’albero più
intensamente vivo degli altri, più consapevole di me e
della mia presenza… simile al sentimento che qualcuno
avrebbe potuto provare se fosse stato visitato da un
essere soprannaturale qualora egli fosse convinto che
esso era là presente per quanto silenzioso e invisibile,
intento a guardarlo e a divinare ogni pensiero della sua
mente.
• Dewey cita anche Emerson, che normalmente viene ritenuto un
pensatore austero:
Attraversando una landa deserta, nella neve fangosa, al crepuscolo, sotto
un cielo nuvoloso, senza avere nella mente il pensiero di nessun evento
specialmente felice, mi sono messo a ridere perfettamente di gusto. Provo
contentezza sull’orlo della paura.
• Dewey commenta: Non vedo alcun modo di rendersi conto della
molteplicità delle esperienze di questo tipo (qualcosa di simile si trova in
ogni reazione estetica spontanea e inespressa) fuorché nel fatto che in esse
vengono messe in azione risonanze di tendenze acquisite nei rapporti
originari dell’essere vivente con il mondo circostante, e irrimediabilmente
perdute a una consapevolezza distinta o intellettiva. Esperienze del tipo
ricordato ci portano a una nuova considerazione che attesta questa
continuità naturale. Un’esperienza sensibile immediata ha una capacità
senza limite di assorbire in sé significati e valori che in sé e per sé (cioè in
astratto), si direbbero “ideali” e “spirituali”. Lo sforzo animistico
dell’esperienza di Hudson, è esemplare di un certo livello di esperienza. E il
poetico, con qualsiasi mezzo, è sempre strettamente apparentato
all’animistico. E se ci rivolgiamo a un’arte che per molte vie è all’altro polo,
all’architettura, apprendiamo come taluni concetti, forse elaborati dapprima
con un pensiero altamente tecnico come quello matematico, hanno la
capacità di incorporarsi direttamente in forme sensibili.
• A proposito del senso dei riti primitivi, Dewey dice che non li si
può confinare all’intento magico di assicurarsi la pioggia, i figli,
il raccolto, il successo in battaglia.
Naturalmente essi avevano anche questo intento magico, ma furono eseguiti a
lungo, possiamo esserne sicuri, nonostante ogni fallimento pratico, in quanto
erano una immediata intensificazione dell’esperienza della vita. I miti erano
qualcosa di diverso da intellettualistici tentativi scientifici dell’uomo primitivo.
L’ostacolo costituito da ogni fatto che non fosse familiare ebbe senza dubbio la
sua parte. Ma il piacere del raccolto, dello svilupparsi e del risolversi di una
buona trama, rappresentò una parte dominante allora come la rappresenta oggi
nello sviluppo delle mitologie popolari. […] L’introduzione sopranaturale nelle
proprie credenze e il facile e fin troppo umano rifugiarsi in esso è molto più
questione della psicologia che produce un’opera d’arte che non di uno sforzo di
spiegazione scientifica e filosofica. Esso intensifica il brivido emotivo della
consueta routine. Se il potere del sovrannaturale sul pensiero umano fosse
esclusivamente o anche principalmente un fatto intellettuale, sarebbe
relativamente insignificante. Teologie e cosmogonie si sono impossessate della
fantasia perché sono state accompagnate da solenni processioni che suscitano
meraviglia e inducono a una ammirazione ipnotica. Cioè esse sono arrivate
all’uomo attraverso un appello diretto al senso e all’immaginazione sensuosa.
La maggior parte delle religioni hanno identificato i loro concetti sacri con i più
alti capolavori artistici […] I voli dei fisici e degli astronomi odierni rispondono al
bisogno estetico di soddisfare l’immaginazione piuttosto che a una rigorosa
esigenza di prove spassionate di una interpretazione razionale.
La maggior parte degli uomini procede con la stessa istintività, con la stessa
mira incrollabile del falco. Il falco ha bisogno di una compagna, l’uomo fa lo
stesso: guardateli, tutti e due vanno in giro e se la procurano nella stessa
maniera. Tutti e due hanno bisogno di un nido e tutti e due si accingono a
farselo alla stessa maniera, e alla stessa maniera si procurano il cibo. Il nobile
animale Uomo per divertirsi fuma la pipa – il falco si libra sopra le nuvole –
questa è l’unica differenza del loro riposo. Questo è ciò che costituisce lo
spasso della Vita per uno spirito speculativo.
Esco tra i campi – scorgo per un istante un ermellino o un topo di campagna
che corrono: perché? La creatura ha un intento e i suoi occhi se ne illuminano.
Cammino tra gli edifici di una città e vedo un Uomo che si affretta: Perché? La
Creatura ha un suo intento e gli occhi se ne illuminano.
Anche in questo caso, benché io segua lo stesso corso istintivo del più autentico
animale umano al quale io possa pensare, tuttavia, benché giovane, io scrivo a
caso sforzandomi di trovare barlumi di luce in mezzo a una grande oscurità,
senza conoscere la portata di nessuna affermazione o opinione. Tuttavia posso
in questo non essere libero da peccato? Non vi possono essere esseri superiori
divertiti da tutti gli atteggiamenti nei quali può cadere la mia mente allo stesso
modo come io sono divertito dalla prestezza dell’ermellino o dall’ansietà del
cervo? Benché si debba aborrire una rissa per la strada, le energie che in essa
si dispiegano sono belle; l’Uomo più comune ha una grazia nella rissa. Visti da
un essere soprannaturale i nostri ragionamenti possono assumere lo stesso
aspetto: benché sbagliati possono essere belli. In questo consiste veramente la
poesia. Si può trattare benissimo di ragionamenti, ma quando essi assumono
una forma istintiva, come quelle delle forme e dei movimenti animali, essi sono
poesia, sono belli; hanno grazia (Keats).
• In un’altra lettera, Keats parla di Shakespeare come di un
uomo di enorme “Capacità Negativa”; come di un uomo
capace di rimanere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio
senza nessuna eccitata tensione di arrivare al fatto o alla
ragione. In tal senso lo contrappone al contemporaneo
Coleridge, che quando non poteva giustificare
intellettualmente l’oscurità si abbandonava all’intuizione
poetica. Non era capace di accontentarsi, come diceva
Keats, di una “mezza conoscenza”. Keats confessa a
Bailey di
…non essere mai stato ancora capace di capire come si possa
conoscere qualcosa per vera mediante un ragionamento
conseguente […] come possa darsi che persino il più grande
Filosofo sia mai arrivato al suo scopo senza accantonare
numerose obiezioni.
• Domandandosi, in realtà, se anche il ragionatore non
debba fidarsi delle sue “intuizioni”, di ciò che è arrivato a
lui attraverso la sua immediata esperienza sensibile ed
emotiva, di ciò che è arrivato a lui attraverso la sua
immediata esperienza sensibile ed emotiva, anche
contro le obiezioni che la riflessione presenta. Continua
Keats:
Infatti il semplice spirito fantastico può averla vinta reiterando
il proprio lavorìo silenzioso che interviene continuamente nello
Spirito con una mirabile prontezza.
• Così commenta Dewey la frase di Keats:
È un’osservazione che contiene più psicologia del pensiero
produttivo di molti trattati.
Nonostante il carattere ellittico delle affermazioni di Keats
emergono due punti. Uno di essi è la convinzione che i
“ragionamenti” hanno un’origine simile a quella dei movimenti di
una creatura selvaggia che si dirige verso uno scopo, e che
possono divenire spontanei, “istintivi”, e quando sono istintivi
sono sensuali e immediati, poetici. L’altro aspetto di questa
convinzione è di credere che nessun “ragionamento”, come tale,
cioè escludendo fantasia e senso, possa raggiungere la verità.
Anche il più grande filosofo esercita una preferenza di tipo
animale guidando il suo pensiero alla conclusione. Egli sceglie e
mete da parte il suo pensiero alla conclusione. Egli sceglie e
mette da parte nel modo in cui spingono i suoi sentimenti
immaginativi. La “ragione” al suo apice non può raggiungere una
presa completa e una sicurezza propria. Essa deve ricadere
sull’immaginazione, sull’incarnazione delle idee in sensazioni
cariche di emotività.
• Dewey ricorda i famosi versi di Keats:
Bellezza è verità, verità è bellezza – questo è tutto
Ciò che sapete sulla terra, e che avete bisogno di sapere
• Per “vero”, spiega Dewey, Keats non intendeva
qualcosa di intellettuale, ma la saggezza,
soprattutto la saggezza connessa al problema
del male e la giustificazione del bene e della fede
nonostante l’abbondare del male e della
distruzione. Keats, al pari di Shakespeare, non
accettò sostituti e si accontentò di quel che la
fantasia può offrire all’uomo: “Questo è tutto ciò
che sapete sulla terra e che avete bisogno di
sapere”.
Cap. 3 – fare un’esperienza
• Un’esperienza è un intero: si fluisce da qualcosa
verso qualcosa; nell’esperienza del pensiero, la
conclusione è il perfezionamento di un movimento
 la conclusione di un’esperienza non è una stasi,
ma è il termine di una maturazione che si
raggiunge quando le energie attive al suo interno
hanno svolto la propria opera
• Un’esperienza ha un punto focale, una qualità che
la pervade: quel pasto, quella rottura dell’amicizia.
• Una esperienza ha una qualità emotiva appagante
quando raggiunge al suo interno integrazione e
compimento  la dimensione emotiva lega tra loro
le parti in un unico intero
• Quando non c’è interesse unificante, l’esperienza o
è in balia di circostanze che la determinano
dall’esterno o si disperde dall’interno i nemici
dell’estetico non sono né il pratico né l’intellettuale,
ma la monotonia, l’inerzia dovuta a fini vaghi, la
sottomissione alla convenzione e alla prassi
• Dove cercare il resoconto di un’esperienza, quale
quella di due persone che si incontrano per un
colloquio per un posto di lavoro? Non nelle colonne
di un libro contabile, né in un trattato di economia o
sociologia del personale, ma in una
rappresentazione teatrale o in una narrazione. La
sua natura e il suo significato si possono esprimere
solo con l’arte, poiché c’è un’unità esperienziale che
si può esprimere solo con l’esperienza
• Un’esperienza è un mettersi in relazione di azioni e
passioni: mettere la mano sul fuoco e ritrarla non è
operazione dell’intelligenza, ma quando queste due
azioni sono connesse dall’intelligenza allora si
produce significato
• Fare e subire devono nell’opera essere in relazione,
formando l’intero della percezione. Se invece il
creare è solo esibizione di virtuosismo tecnico e il
subire è l’effusione di un sentimento non si ha
compimento artistico. Se nel corso del suo fare
l’artista non dà compimento a una nuova visione,
egli agisce meccanicamente e ripete qualche
modello prefissato
• Estrinseco vs. intrinseco
• Quando v’è frenesia la possibilità di portare a
compimento l’esperienza è ridotta
• Per quel che riguarda la qualità fondamentale dei
quadri, la differenza dipende più dalla qualità
dell’intelligenza che viene messa nella percezione di
relazioni che da ogni altra cosa – sebbene
certamente l’intelligenza non possa essere separata
dalla sensibilità diretta e sia connessa, anche se in
maniera più estrinseca, con l’abilità l’artista è una
persona dotata di particolare sensibilità per le qualità
delle cose
• L’abilità dell’artefice, per essere indubitabilmente
artistica, dev’essere “amorosa”; deve prendersi cura
a fondo del contenuto su cui si esercita la sua tecnica
• La ricettività non è passività: il riconoscimento non
è un semplice apporre il “cartellino giusto”,
l’etichetta; ma neanche comporta un’emozione
interna che si accompagna alla percezione: non vi
è percezione + emozione, ma sin dall’inizio la
percezione è pervasa emotivamente la
dimensione estetica comporta sì un abbandonarsi,
un ricevere, ma tale ricettività comporta un
fuoriuscire dell’energia allo scopo di ricevere!
L’idea che la percezione estetica sia una
questione a cui dedicarsi solo a tempo perso è uno
dei motivi dell’arretratezza delle arti tra di noi.
• Per percepire, chi osserva deve creare la sua
propria esperienza. E la sua creazione deve
includere relazioni comparabili a quelle che provò il
produttore originario. Senza un atto di nuova
creazione l’oggetto non viene percepito come
un’opera d’arte. L’artista ha selezionato,
semplificato, capito, condensato secondo il proprio
interesse. Chi osserva deve passare attraverso
queste operazioni secondo il proprio punto di vista
e il proprio interesse. C’ un lavoro che viene svolto
sul versante di chi percepisce così come ce n’è uno
sul versante dell’artista
4 – l’atto dell’espressione
• L’impulso designa un movimento all’infuori e in
avanti dell’intero organismo  l’impulso è lo
stadio iniziale di ogni esperienza compiuta. Se si
osservano i bambini, essi mettono in gioco l’intero
sé
• È destino delle creature non potersi garantire ciò
che spetta loro senza avventurarsi nel mondo
estraneo. Avventurandosi nel mondo, sia che si
fallisca, sia che si abbia successo, il Sè non
restaura semplicemente l’ordine precedente,
perché gli atteggiamenti del Sé acquistano
significato
• Se il Sé non incontrasse resistenza, non
riuscirebbe nemmeno a rendersi conto di se
stesso: la mera opposizione crea rabbia, ma una
resistenza che sollecita il pensiero crea curiosità
e attenzione e, quando è vinta e asservita,
sfocia nell’esultanza [cfr. esperienza flow]. Che
tensione richiami energia e che la totale
mancanza di opposizione non favorisca uno
sviluppo normale non fatti noti. In generale
riteniamo auspicabile lo stato di cose in cui vi è
equilibrio tra condizione che agevolano e
condizioni che frenano
• Lo sfogo emotivo è condizione necessaria, ma non
sufficiente, dell’espressione: sfogarsi è sbarazzarsi
di qualcosa; esprimere è trattenere qualcosa.
Quando non si gestiscono le condizioni oggettive,
quando non si plasmano i materiali al fine di dar
corpo all’eccitamento, non c’è espressione.
• Il bimbo inizia a capire progressivamente il
significato delle sue urla, dei suoi balbettii in base
alle reazioni che questi atti suscitano: comincia così
a rendersi conto del significato di ciò che fa  lo
sfogo manca di medium; solo dove il materiale è
impiegato come media c’è espressione e arte [cfr.
Bion]
• Quando natura e educazione si fondono in unità, gli atti
di relazione sociale sono opere d’arte. Ma  la
connessione tra un medium e l’atto di espressione è
intrinseca: l’opera del poeta – dice Alexander – gli viene
estorta dall’argomento che lo stimola Non esistono cose
come l’amore e l’odio: un poeta e un narratore hanno
un’immenso vantaggio rispetto a uno psicologo esperto:
costruiscono una situazione e fanno sì che essa sia a
suscitare una risposta emotiva
• L’operazione di selezione dei materiali effettuata in
modo potente da un’emozione in evoluzione condensa
materiali i più disparati: questa funzione crea l’
“universalità” dell’arte.  siamo disturbati quando
sentiamo che non c’è un’emozione personale a guidare
la selezione dei materiali, ma quando v’è un’intenzione
calcolata  l’emozione agisce come un magnete
• Maturazione subcosciente
• Pensare direttamente in termini di suoni e
colori è diverso dal pensare in parole
• L’arte non è natura, è natura trasformata
dal suo entrare in nuove relazioni
suscitando una nuova risposta emotiva 
in tutte le popolazioni primitive il lamento
assume forma cerimoniale che è distante
dalla sua manifestazione originaria
5 – l’oggetto espressivo
• L’ “espressione” non si riferisce
semplicemente all’oggetto, ma anche
all’apporto individuale  Se la visione è
stata artistica o costruttiva (creativa). La
rappresentazione non è di “oggetti come tali”
l’espressione in quanto atto personale e
l’espressione in quanto risultato oggettivo sono
connesse organicamente l’una con l’altra
 in un dipinto, le linee e i colori si cristallizzano in
un’armonia invece che in un’altra sia in funzione di ciò
che si trova nella scena presente che in funzione di ciò
che l’osservatore porta con sé: “una certa sottile affinità
con la corrente della sua propria esperienza di creatura
vivente fa sì che linee e colori di sistemino secondo un
modello e un ritmo invece che un altro”.
La passionalità contrassegna l’osservazione: essa non è
indipendente da qualche emozione precedente presente
nell’esperienza dell’artista, ma essa viene rinnovata e
ricreata grazie alla fusione con un’emozione che
appartiene alla visione di un materiale qualificato
esteticamente
L’affermazione per cui il contenuto è irrilevante vincola chi
l’accetta a una teoria dell’arte assolutamente esoterica
Se un artista potesse accostarsi a una scienza senza
provare interessi né idee, senza un bagaglio di valori tratti
dalla sua esperienza precedente, teoricamente potrebbe
vedere linee e colori prendendo in considerazione
esclusivamente le loro relazioni in quanto linee e colori .
Ma questa è una situazione impossibile da soddisfare.
Inoltre, in un caso del genere, per l’artista non vi sarebbe
nulla per cui appassionarsi
Non importa quanto ardentemente l’artista possa
desiderarlo; nella sua nuova percezione l’artista non può
sbarazzarsi di significati resi solidi dal suo rapporto
passato con le cose che lo circondano, né può liberarsi
dell’influenza che essi esercitano su cosa e come egli
vede al momento: se potesse farlo e lo facesse non gli
rimarrebbe nessun modo di vedere un oggetto
Memorie che non sono necessariamente
coscienti, ma che sono ricordi incorporati
organicamente nella struttura stessa del sé,
alimentano l’osservazione presente.
Linee differenti e relazioni differenti tra linee si
sono caricate inconsciamente di tutti i valori che
derivano da ciò che hanno fatto nella nostra
esperienza in ogni nostro contatto con il mondo
che ci circonda
Non è esagerato dire che l’emozione a cui
mancano percorsi motori propri per operare
essendo priva di direzione renderà la percezione
confusa e distorta
• Il significato di un’asserzione è generale; il
significato di un oggetto espressivo è
individuale.
– Ad esempio, lo stato di beatitudine che è un
tema ricorrente dei dipinti religiosi, non sempre è
“indicato”, ma talvolta è “espresso”
– Tiziano, Giotto..
• Quindi: l’arte implica selezione. Quando manca
selezione o attenzione è priva di direzione, la
conseguenza è una miscellanea caotica. Il
principio-guida della selezione è l’interesse:
un’inclinazione inconscia ma organica verso
determinati aspetti e valori del complesso e
variegato universo in cui viviamo. Il solo limite
che non va superato è che resti un qualche
riferimento alle qualità e alla struttura delle cose
circostanti.
• Grazie alle abitudini formate nell’interazione con il
mondo noi anche in-abitiamo il mondo. Esso
diventa una dimora, e la dimora è parte di ogni
nostra esperienza
• La familiarità spinge all’indifferenza e il torpore
avvolge in un guscio l’espressività delle cose:
l’arte toglie il velo che nasconde l’espressività
delle cose esperite; ci distoglie dall’indolenza e
dalla routine e ci fa dimenticare noi stessi
facendoci ritrovare nel piacere dell’esperienza
del mondo che ci circonda nelle sue diverse
qualità e forme
• Alla fine le opere d’arte sono i soli media capaci
di una comunicazione completa e non
ostacolata tra uomo e uomo
6 – sostanza e forma
• Se si ritiene che il prodotto artistico sia prodotto di
un’espressione del sé, considerando il sé come
qualcosa di compiuto e isolato al proprio interno,
forma e sostanza risultano senz’altro separate
• Il materiale con cui viene composta un’opera d’arte
appartiene al mondo comune invece che al sé, e
tuttavia vi è espressione di sé in arte perché il sé
assimila quel materiale in modo peculiare così da
farlo riemergere nel mondo pubblico in una forma
tale che costituisce un nuovo oggetto. Il materiale
espresso non può essere privato. Tale situazione si
verifica in manicomio.
• Un’opera d’arte viene ricreata ogni volta
che si fa un’esperienza estetica perché
ogni individuo porta con sé un proprio
modo di vedere e di sentire
• Il significato non è separato dalla qualità del medium
sensoriale; le opere d’arte sono letteralmente pregne
di significato
• Non possiamo afferrare alcuna idea finché non
l’abbiamo avvertita e sentita come se fosse un
colore o un odore  chi pensa di dover elaborare
dettagliatamente il significato di ogni idea, si
smarrirebbe in un labirinto senza fine né centro.
Ogni volta che un’idea perde la propria qualità
immediatamente sentita, smette di essere un’idea e
diventa un simbolo algebrico. Quando c’è vera e
propria artisticità nella ricerca scientifica e nella
speculazione filosofica, chi pensa non procede né
secondo una regola e neppure alla cieca, ma
sfruttando significati che sussistono immediatamente
come sentimenti dotati di coloro qualitativo
• Opporre la qualità in quanto immediata e
sensoriale alla relazione in quanto
puramente mediata e intellettuale è
sbagliato sia nell’arte che in generale, sul
piano psicologico e filosofico: è sempre
l’intero organismo che interagisce con
l’ambiente in ogni azione che non sia
routine
• L’insincerità in arte ha ragioni estetiche e
non morali: la si riscontra ogni volta che
sostanza e forma si separano
7 – storia naturale della forma
• In arte, come in natura e nella vita, una relazione è
una maniera di interagire. Le relazioni sono spinte
e tirate; sono contrazioni ed espansioni;
determinano leggerezza e peso, salite e discese,
armonia e discordia. Le relazioni tra amici, tra
marito e moglie, tra genitore e figlio, tra cittadino e
nazione, come quelle tra corpo e corpo nella
gravitazione e nell’azione chimica, possono essere
simbolizzate mediante termini o concetti e, quindi,
divenire contenuti di asserzioni in proposizioni. Ma
esistono come azioni e reazioni in cui le cose si
modificano
• La forma si può definire come l’effetto di forze che
portano a totale compimento l’esperienza di un
evento, di un oggetto, di una scena e di una
situazione
• Non c’è semplice ammasso e cumulo di
sensazioni e valori, ma sviluppo, come avviene
con la crescita di un embrione vivente, tensione
interna.
• L’opera è così creata “da dentro”, non
conformandola a qualche obiettivo o stampo
esterno  il pittore e il poeta, come il ricercatore
scientifico, conoscono il piacere della scoperta.
Chi sviluppa la propria opera come dimostrazione
di una tesi preconcetta può avere le gioie di un
successo egoistico, ma non la gioia di dare
compimento a un’esperienza per se stessa.
• Di fronte all’opera c’è un’alternanza ritmica di
abbandono e riflessione. Interrompiamo il nostro
abbandonarci all’oggetto per chiedere dove ci sta
portando e come lo sta facendo. Prima di tutto
viene però l’impatto con l’opera, che reca con sé
la qualità del vento, che soffia dove lo si sente.
L’inizio della comprensione estetica sta nel
coltivare queste esperienze personali. Il nutrirsi di
esse si trasformerà poi in discernimento. Sarà poi
l’educazione estetica a elevare l’impressione
diretta a un livello più alto.
• La prima caratteristica del mondo
circostante che rende possibile la forma
artistica è il ritmo
• Coleridge fa derivare l’origine del metro
dall’equilibrio che si genera nella mente
dalla tensione causata dal tenere a freno il
mero sfogo di una passione. C’è quindi una
interpenetrazione fra passione e volontà,
fra impulso spontaneo e proposito
volontario
– La musica rende più complesso e intenso il
processo della reciproca sollecitazione geniale
di antagonismo, sospensione e rafforzamento,
quando le varie “voci” contemporaneamente si
oppongono e rispondono l’una all’altra
• …relazione fra il fare e subire di
organismo e ambiente il cui prodotto è
un’esperienza
• C’è una vecchia formula per la bellezza
nella natura e nell’arte: unità nella varietà:
l’unità nella varietà che caratterizza l’opera
d’arte è dinamica
8 – l’organizzazione delle energie
• Dewey tenta di illustrare come l’opera d’arte
sia una sorta di unità dinamica nella quale
forze e spinte disimmetriche trovano ordine
e conciliazione, ma non in senso
meccanico, ma di modo che la tensione che
risulta dalle “energie” di cui è composta
l’opera permangano al suo interno: si tratta
di un ordine “in senso attivo”
• Nella prima parte del capitolo Dewey parla di
“ritmo”: tutto in natura è regolato dal ritmo; ma non
si tratta del ritmo meccanico di un orologio, ma di
un ritmo che comporta una variazione costante,
non solo ordine statico.
• L’ordine è necessario per vivere, ma se c’è troppo
ordine allora si percepisce noia; all’opposto, se c’è
troppo cambiamento si percepisce caos. [si
confronti con l’idea contenuta nelle teorie della
complessità che c’è vita al limite fra ordine e caos].
I “best sellers” vengono rapidamente assimilati
nell’esperienza e perdono ben presto la capacità di
fornire nuovi stimoli. “È un elemento di continua
variazione – nel rispetto delle relazioni dinamiche
di rafforzamento e conservazione – a rendere
durevole un quadro o una qualsiasi opera d’arte”
9 – la sostanza comune delle arti
• Qual è il contenuto appropriato di un’opera d’arte, i
soggetti che legittimamente essa può trattare? Dewey
parte sempre dalla sua idea che l’arte è come
l’esperienza: così come in questa vi deve essere una
relazione sentita da parte della creatura fra fare e
subire, un estendersi e un espandersi subendo,
contemporaneamente, reazioni e opposizioni da parte
della realtà; e l’inoltrarsi nella realtà diventa allora un
acquisir volume, ritmo, articolazione del tutto in parti, le
quali restano però connesse all’intero; così l’arte non
può che avere questa organicità e scaturire dal
movimento intrinseco del sentire – che pertanto deve
essere sincero – che rappresenta una sorta di presa di
contatto globale con l’esistenza, a partire dalla quale,
poi, prenderà articolazione e consistenza l’opera
• A tale proposito Dewey cita Tolstoj, per il quale
nella sincerità sta l’essenza dell’opera d’arte
[sincerità non nel senso di “sfogo” soggettivo, ma
nel senso di Bion di aderenza alle proprie emozioni
originarie: essere sinceri nella propria capacità di
provare amore, odio e desiderio di conoscere, non
mistificarle]. L’artista non deve imbrogliare o
scendere a compromessi
• L’artista e chi percepisce cominciano non con
l’analizzare le singole parti, ma il tutto, un intero
qualitativo globale: Schiller diceva che la
percezione iniziale di un’opera non ha un oggetto
chiaro e distinto: all’inizio c’è solo una certa
tonalità emotiva musicale che col tempo diventa
idea poetica.
• Inoltre, la “tonalità” non solo viene prima, ma
permane anche dopo che sono emerse le
distinzioni e l’opera si è articolata; sin dall’inizio la
qualità totale ha una sua unicità, sebbene sia vaga
e indefinita. Questa qualità deve essere presente
in tutte le “parti”. Se manca questa qualità globale,
l’opera è sentita come meccanica
• Cose, oggetti sono solo punti focali di un intero che si
estende indefinitamente: questo “sfondo” qualitativo
è qualcosa di “mistico”, nel senso che rappresenta una
dimensione di illimitatezza che circonda la percezione
della singola cosa.
• Ad esempio, afferma Dewey, quando vediamo un albero
o una roccia, e poi ci focalizziamo su alcuni particolari, ad
esempio il muschio che sta sulla roccia, tuttavia
manteniamo la visione specifica come connessa ad un
insieme più grande e comprensivo che fa da fulcro alla
nostra esperienza; i margini sfumano in quella indefinita
estensione che l’immaginazione chiama universo. Questo
senso dell’intero comprensivo implicito nelle esperienze
comuni viene reso intenso all’interno della struttura di un
dipinto o di una poesia.  Coleridge ha detto che ogni
opera d’arte, per ottenere il suo pieno effetto, deve avere
attorno qualcosa di non compreso.
un’opera d’arte fa emergere e accentua questa qualità
di essere un intero e di appartenere a quell’intero più
grande, onnicomprensivo, che è l’universo in cui
viviamo. Credo, dice Dewey, che questo fatto spieghi
quel sentimento di acuta intelligibilità e chiarezza che
proviamo in presenza di un oggetto di cui si fa
esperienza con intensità estetica.
Abbiamo bisogno, anche quando focalizziamo un
singolo aspetto della realtà, di mantenere una
connessione con un’esperienza estesa e soggiacente
che rappresenta l’essenza dell’equilibrio mentale.
Questa non può essere il risultato di una riflessione.
Deve presentarsi come qualcosa di intrinseco e non di
estrinseco. L’ “ideale” immesso in maniera estrinseca
in un’opera risulta insulso e meccanico, mentre se
prende corpo in cose concrete un senso di “spirituale”
pervade l’esperienza delle cose
• Nell’opera vi è una compresenza di integrazione e
differenziazione, di connessione al tutto e di
articolazione in parti. Dewey cita a questo proprosito un
acquarellista americano, John Martin, che ha affermato
con riferimento all’arte che
l’identità si delinea come la grande Ancora di Salvezza. E
come nel forgiare il l’uomo la natura è rimasta rigorosamente
fedele a Identità, Testa, Corpo, Membra e ai loro contenuti
distinti, identità in se stessi, in quanto ogni parte lavota al
suo interno ma anche attraverso e insieme alle altre parti, a
quelle vicine, cercando di avvicinarsi al megglio aun
equilibrio bello, così questo prodotto dell’Arte è composto da
identità tra loro contigue. […] E se i legami che connettono le
parti vicine non trovano un proprio posto e una propria parte,
il servizio è cattivo. Quindi questo prodotto dell’Arte è in sé
un villaggio
Leibniz ha sostenuto che l’universo è infinitamente
organico perché ogni cosa organica è costituita ad
infinitum da altri organismi. Questo, dive Dewey, è
sicuramente vero per l’Arte, perché ogni parte di
un’opera si presta a un’indefinita differenziazione
percettiva
Poiché la funzione della linea è quella di dar la
forma, differenziare, conferire il ritmo, Blake
sosteneva che la “grande regola aurea dell’arte,
come nella vita, è questa: più distinta, netta e tesa è
la linea che delimita, più perfetta è l’opera d’arte, e
meno essa è netta e decisa, maggiore è la prova di
immaginazione debole, plagio e incompetenza”
10 – la sostanza differente delle arti
• Se l’arte è una qualità intrinseca dell’attività, non
possiamo dividerla e frazionarla. Le qualità in
quanto tali non si prestano a una divisione. La
qualità è concreta ed esistenziale e pertanto varia
insieme agli individui essendo pregna della loro
individualità. Non ci sono due tramonti aventi lo
stesso “rosso”, anche se poi utilizziamo la
categoria-parola “rosso” per definire entrambi i
tramonti o una rosa rossa
 il linguaggio risulta infinitamente insufficiente a
procedere in parallelo con la variegata superficie
della natura, ma la qualità di una qualità si trova
nell’esperienza stessa
• L’arte invita a una completa partecipazione
organica, non solo “linguistica”. Housman ha detto
che la poesia gli sembra più fisica che intellettuale
e che procura sintomi fisici come la pelle d’oca, i
brividi lungo la schiena, lo stringersi della gola e il
sentire alla bocca dello stomaco la “lancia che mi
perfora” di cui parla Keats.
– Dewey precisa che c’è un po’ di esagerazione in
queste parole, ma giustificabile dal rischio
dell’esagerazione opposta, ovvero che le qualità
siano degli universali intuiti dall’intelletto
• È impossibile che un’esperienza non
richieda un tempo per dispiegarsi, nella
vita come nell’arte. Quando un individuo
non permette il pieno dispiegamento del
“movimento” in cui consiste ogni
esperienza, allora l’esperienza non giunge
a compimento per necessità intrinseche,
ma estrinseche, con opinioni personali.
• La peculiarità della musica sta nel suo
conservare la primitiva capacità del suono
di denotare lo scontro di forze che
attaccano e resistono e tutte le fasi
concomitanti del movimento emotivo
• È grazie al linguaggio che cose ed eventi
possiedono una natura che è al di sopra del bruto
flusso dell’esistenza. Se gli animali sono realisti e
rigorosi è perché a loro mancano i segni che il
linguaggio dona agli umani. Le parole hanno la
capacità di comunicare non astrazioni, ma un
carattere, una natura, permettendo
un’intensificazione dell’esperienza di quelle cose.
11 – l’apporto umano
• Dice Dewey che il contributo specificamente personale
dev’essere cercato nelle opere d’arte stesse.
• “Ritorniamo ai nostri principi basilari”:
L’esperienza è una questione d’interazione dell’organismo con
il suo ambiente, un ambiente che è umano quanto fisico, che
include i materiali della tradizione e delle istituzioni, al pari
degli elementi ambientali locali. L’organismo porta con sé,
attraverso la sua stessa struttura, innata e acquisita, forze che
hanno una loro parte nell’interazione. L’individuo agisce e al
tempo stesso subisce, e il suo subire non è costituito da
impressioni stampate su una cera inerte, ma dipende dal
modo in cui l’organismo agisce e risponde. Non vi è
esperienza in cui il fattore umano non sia un fattore attivo nel
determinare ciò che effettivamente accade. L’organismo è una
forza, non un corpo trasparente.
• Quando il vincolo fra individuo e mondo è spezzato,
i vari modi attraverso i quali l’individuo interagisce
col mondo cessano di avere una reciproca
connessione unitaria. Essi decadono a frammenti
separati di sensazione, sentimento, desiderio,
scopo, conoscenza, volizione e ad ognuno i essi
viene assegnato diversi scomparti del nostro
essere.  Non vi sono divisioni psicologiche
intrinseche tra gli aspetti intellettuali e quelli
sensoriali; quelli emotivi e quelli ideativi; le fasi
immaginative e quelle pratiche della natura umana.
• L’arte non è meccanica e reca l’impronta della
personalità.
• Dewey legge Kant come un caso di separazione fra
intelletto e sentimento. Egli ha assegnato alla
Bellezza il posto all’interno del Sentimento Puro,
autocontenuto e libero da ogni desiderio.
• “L’esperienza estetica non è caratterizzata
dall’assenza di desiderio o pensiero, ma dalla loro
completa incorporazione nella esperienza
percettiva”. Egli non si interessa dell’oggetto per un
quale scopo o per qualche desiderio. Chi
percepisce esteticamente, invece, “in presenza di
un tramonto, di una cattedrale o di un mazzo di fiori,
è libero dal desiderio, nel senso che i suoi desideri
vengono appagati nella percezione stessa. Egli non
desidera l’oggetto per amore di qualche altra cosa”.
Un quadro soddisfa perché placa il nostro desiderio di scene che
siano più ricche di luce e di colore della maggior parte delle cose
che abitualmente ci circondano. Nel regno dell’arte, come in quello
della giustizia, entrano coloro che hanno fame e sete. Lo stesso
predominio di intense qualità sensuose negli oggetti estetici è
anch’esso una prova che vi è appetizione.
La ricerca, il desiderio, il bisogno possono essere appagati
solamente attraverso materiale esterno all’organismo. L’orso che
sverna non può vivere indefinitamente della propria sostanza. I
nostri bisogni sono contributi tratti dall’ambiente dapprima
ciecamente, poi con interesse e attenzioni coscienti. Per essere
soddisfatti debbono captare energia dalle cose circostanti e
assorbire quella di cui possono impossessarsi. La cosiddetta
energia eccedente dell’organismo aumenta solamente
l’inquietudine, a meno che non possa essere riversata su qualche
oggetto. Mentre il bisogno istintivo è impaziente e s’affretta verso il
suo sfogo (così un ragno a cui s’impedisca di tessere ruoterà su se
stesso fino a morire), l’impulso che è divenuto consapevole di se
stesso indugia ad ammassare, incorporare e assimilare materiale
oggetto affine. […]
…il bisogno primitivo è l’origine dell’attaccamento agli oggetti […]
l’assurdità di supporre che il bisogno, il desiderio e l’affezione siano
esclusi, unitamente all’azione, dall’esperienza estetica, è evidente.
• Disinteresse in arte non significa indifferenza.
L’esperienza ordinaria è spesso pervasa dall’apatia, dalla
stanchezza e dalla ripetizione meccanica […] Il “mondo”
è un peso troppo grande per noi. Non siamo abbastanza
sensibili per essere mossi dal pensiero. Siamo oppressi
dalla cose che ci circondano o siamo ad esse insensibili.
[…] Respinta dalla tristezza o dall’indifferenza delle cose,
l’emozione ripiega sugli oggetti della fantasia e si nutre di
essi. Questi vengono creati da un impulso energetico che
non può trovare sbocco nelle occupazioni consuete
dell’esistenza. Probabilmente è proprio in tali circostanze
che le moltitudini si rivolgono alla musica, al teatro e al
romanzo per trovare un facile accesso a un regno di
emozioni che fluttuano liberamente.
• La tradizione costituisce la base entro la quale ci si
forma. Ma essa non è da applicare passivamente,
nel senso di tecnica o regola.
• Nel riadattamento fra vecchio e nuovo, c’è uno
sforzo che spesso sconfina nel dolore.
Poiché l’interesse è la forza dinamica nella scelta e nella
raccolta dei materiali, i prodotti dell’intelletto sono
contrassegnati dalla individualità […] Non c’è abilità
tecnica o artigiana che possa sostituirsi all’interesse
vitale; in assenza del quale, la “ispirazione” è fugace e
futile. Un intelletto volgare e malamente ordinato compie
cose a propria immagine in arte e altrove perché gli
manca la spinta e l’energia centralizzante l’interesse.
• La bellezza è “un modo di vedere e di sentire le
cose come se esse costituissero un tutto integrale”.
“Quando nell’esperienza le cose vecchie e familiari
vengono rinnovate, allora c’è fantasia. […] C’è
sempre un certo margine di avventura nell’incontro
dell’intelletto con l’universo, e questa avventura è,
al suo limite, fantasia”.
• Come dice Coleridge,
la fantasia […] è un’esperienza fantastica […] che si
verifica quando diversi materiali sensibili, emozione e
significato convergono in una unione che segna una
nuova nascita nel mondo.
• L’opera della fantasia permette il “prender corpo” di
nuove possibilità.
• Un conflitto a cui gi artisti sottostanno indica la natura
dell’esperienza fantastica.
Un modo di enunciarlo riguarda il contrasto tra la visione interna e quella
esterna. C’è uno stadio nel quale la visione interiore sembra molto più ricca
e più bella di qualsiasi manifestazione esterna. Essa ha una vasta e
attraente aureola di implicazioni che mancano nell’oggetto della visione
esterna. (315) Sembra che essa afferri molto di più di quanto l’altra
comunichi. Sopravviene allora una reazione: la materia della visione
interiore sembra inconsistente se confrontata con la solidità e l’energia della
scena presentata. Si sente che l’oggetto esprime succintamente e
fortemente qualcosa che la visione interiore riferisce vagamente, attraverso
una sensazione diffusa piuttosto che organicamente. L’artista è sospinto a
sottomettersi in umiltà alla disciplina della visione oggettiva. Ma la visione
interiore non viene gettata via. Rimane come l’organo che ha il compito di
controllare la visione esterna e che rafforza la sua struttura man mano che
quella viene assorbita nel suo interno. L’interazione dei due tipi di visione è
la fantasia; quando la fantasia prende forma l’opera d’arte è nata. Lo stesso
accade al filosofo. Vi sono momenti in cui egli sente che le sue idee e i suoi
ideali sono più belli di tutte le cose esistenti. Ma si trova costretto a ritornare
agli oggetti se le sue speculazioni debbono avere un corpo, un peso e una
prospettiva. Pure nel cedere al materiali oggettivo non rinuncia alla sua
visione; l’oggetto, proprio come oggetto, non è cosa che lo riguardi. Esso è
allocato nel contesto delle idee e, dato che è così ubicato, queste ultime
acquistano solidità e partecipano della natura dell’oggetto.
Qualsiasi psicologia che isoli la creatura umana
dall’ambiente lo taglia anche fuori, salvo che per i contatti
esteriori, dai suoi simili. Ma i desideri di un individuo
prendono forma sotto l’influenza dell’ambiente umano. I
materiali del suo pensiero e della sua fede provengono da
altri con cui egli vive. Egli sarebbe più povero di una bestia
dei campi se non fosse per le tradizioni che divengono una
parte della sua mente e per le istituzioni che penetrano al di
sotto delle sue azioni esteriori nei suoi scopi e nelle sue
soddisfazioni. L’espressione dell’esperienza è pubblica e
comunicante perché le esperienze espresse sono quello
che sono a causa delle esperienze dei vivi e dei morti che
hanno dato loro una forma. Non è necessario che la
comunicazione debba far parte del deliberato intento di un
artista, quantunque egli non possa mai sfuggire al pensiero
di un uditorio potenziale. Ma la sua funzione e conseguenza
sono di effettuare la comunicazione, e questo non per un
accidente esterno ma a causa della natura che egli
condivide con gli altri.
L’espressione mina alle fondamenta le barriere che
separano gli esseri umani l’uno dall’altro, poiché l’arte è la
forma di linguaggio più universale, poiché essa è costituita,
anche prescindendo dalla letteratura, dalle comuni qualità
del pubblico mondo, essa è la forma di comunicazione più
universale e libera. Ogni intensa esperienza di amicizia e
d’affezione si completa artisticamente. Il senso di
comunione generato da un’opera d’arte può assumere una
qualità specificamente religiosa. L’unione di uomini l’uno con
l’altro è l’origine dei riti che dal tempo dell’uomo arcaico
all’attuale hanno commemorato le crisi della nascita, della
morte e del matrimonio. L’arte è l’estensione del potere dei
riti e delle cerimonie di unire gli uomini, attraverso una
celebrazione comune, a tutti gli incidenti ed episodi della
vita. Questa funzione è la ricompensa e il sigillo dell’arte.
Che l’arte congiunga l’uomo alla natura è un fatto familiare.
L’arte rende anche consapevoli gli uomini della loro unione
reciproca nell’origine e nel destino.
12 – la sfida della filosofia
• Quando passato e presente si adattano
perfettamente l’uno all’altro, quando c’è solo
ripetizione e uniformità, l’esperienza che ne
risulta è meccanica  ogni esperienza deve
possedere un certo grado di immaginazione
• L’esperienza estetica è “esperienza pura”,
potremmo dire, esperienza liberata dalle forze
che ostacolano e confondono il suo sviluppo in
quanto esperienza
• La filosofia ha tentato finora di
“spiegare” l’esperienza estetica in
termini di senso, emozione, ragione ecc.
piuttosto che come esperienza che
permette la fusione di tutti gli elementi
del nostro essere in un intero
• Non si può negare che nella creazione di
un’opera d’arte intervenga un elemento di
rêverie, prossimo allo stato onirico, né che
l’esperienza di un’opera d’arte quando è
intensa spesso getti una persona in uno
stato del genere. Anzi, si può dire che le
idee “creative” in filosofia e in scienza
vengono solo alle persone che si
rilassano fino alla rêverie
• Indipendentemente da quanto sia immaginativo il
materiale per un’opera d’arte, esso sgorga dallo
stato di rêverie per divenire materiale di un’opera
d’arte solo quando viene ordinato e organizzato,
e questo effetto si produce soltanto quando lo
scopo controlla selezione ed elaborazione del
materiale
 si ha un prodotto estetico solo quando le idee
cessano di fluttuare e prendono corpo in un oggetto
 occorre immergersi così a fondo che le qualità
dell’oggetto e le emozioni che esso suscita non hanno
esistenza separata. La Gioia di vivere di Matisse è un
esempio di immaginazione organizzata da uno scopo.
N.B. L’oggetto non è semplicemente lo scopo
realizzato, ma è lo scopo stesso fin dall’inizio.
• Nell’arte si realizza anche il proprio intimo
Sé, i suoi scopi. La loro forza sta proprio
nel resistere, nel perseverare
autenticamente, organizzando il materiale,
sottomettendolo.
• La totale integrazione di ciò che la filosofia
distingue come “soggetto” e “oggetto” è la
caratteristica di ogni opera d’arte. Ogni
difetto dell’opera sta in un eccesso o
dall’una o dall’altra parte
• La teoria dell’arte come gioco è simile alla
teoria dell’arte come immaginazione. Nei
bambini idea e azione sono fusi, il soggetto è
impegnato nel contattare e intervenire
sull’oggetto, mentre il gioco del gattino lascia
immodificato l’oggetto, è piuttosto un
piacevole esercizio di libera attività. Nel
bambino c’è sempre un fine da perseguire:
c’è un bisogno di ordine. Costruire una torre
significa perseguire uno scopo, organizzare
le energie e modificarle in relazione al
perseguimento dello scopo
• La verità della teoria dell’arte come gioco
sta nel suo sottolineare il carattere non
forzato dell’esperienza estetica, non nel
suo alludere a una qualità presente
nell’attività che sarebbe prova di regole
relativamente all’oggetto. La sua erroneità
sta nel suo non riuscire a riconoscere che
l’esperienza estetica comporta una
determinata ricostruzione di materiali
oggettivi.
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