Anno II - Febbraio 2006 - N. 2 E 1,00
Quando il fanatismo
contagia il cervello
“Colui che ha delle estasi, delle visioni, e scambia i suoi sogni con la realtà e
prende le sue fantasie per profezie, è un
entusiasta; colui che sostiene questa sua
follia col delitto, è un fanatico. Giovanni
Diaz … fermamente convinto che il papa
era l’anticristo dell’Apocalisse, e che portava il segno della Bestia, era solo un entusiasta; suo fratello Bartolomeo Diaz,
che si partì da Roma per andar ad assassinare santamente il proprio fratello, e che
infatti lo uccise per l’amor di Dio, fu uno
dei più abominevoli esempi di fanatismo”.
Il succitato corsivo dell’incipit della voce
“Fanatismo”, nel Dizionario filosofico di Voltaire, chiarisce bene la differenza tra l’esagerata ed irrazionale fantasia dell’entusiasta (nell’accezione in merito) e il furore “sciocco”
od omicida del fanatico.
Riguardo al fanatismo sono innumerevoli
i fatti nefasti e/o luttuosi della storia, a partire
dalla collera distruttrice di Poliuto nel tempio
in un giorno di “solennità pagana” alla strage
degli Ugonotti la “notte di San Bartolomeo”
(citati dallo stesso Voltaire), giù giù fino alle
mani armate del turco Mehemet Alì Agca che,
in nome di Allah, ferì nel 1981 a piazza San
Pietro a Roma Giovanni Paolo II, al giovanissimo (sempre) turco che, per lo stesso Allah,
a Trebisonda, ha ucciso, qualche settimana
fa, il mite don Andrea Santoro.
Ma quanti altri tragici esempi!: dallo sport
alla politica alla religione follemente intesi.
Anche l’entusiasmo, però, pur se meno
“abominevole”, quando è scriteriato e non
rispettoso della fede, della ragione o delle ragioni altrui, potrebbe causare gravi conseguenze; lo hanno testimoniato le recenti vignette danesi che, irriguardose verso il profeta Maometto, hanno scatenato la rabbia islamica.
Ciò vuol dire che, anche se concettualmente e nell’immediato è meno dannoso l’entusiasmo, non lo si deve sottovalutare perché
(in un particolare momento di tensioni sociali
politico-religiose, come il nostro) potrebbe
causare -anche per la velocità e la potenza in
tempo reale dell’informazione- un irreversibile scontro violento fra civiltà.
E allora? Allora ogni individuo, dal più
semplice al più potente, dovrebbe usare la
ragione della tolleranza religiosa o laica; essere più testa e meno visceri, per scongiurare
ogni convinzione rigidamente precostituita e
diffusa.
Sono su misura due esempi fatti dal missionario veneto Giuseppe Scattolin (Repubblica,12/02/06) sulla sua esperienza a Khartum, parecchi anni fa, la cui sostanza ancora
oggi è attuale; il primo: “Nella comunità ecclesiastica l’Islam era considerato una calamità, se non un’invenzione di Satana. E il
musulmano, un fanatico prossimo alla stupidità, Maometto un bugiardo sanguinario”; il
secondo: i musulmani erano convinti “che
occidentali ed ebrei fossero nemici perfidi,
guidati dal demonio per distruggere la religione di Dio, l’Islam”.
I due esempi, la cui estremizzazione è riscontrabile in quasi tutte le religioni, riconducono a Voltaire, il quale sostiene che “quando
il fanatismo ha contagiato il cervello, il male è
quasi incurabile –per cui- il solo rimedio a
questa malattia è lo spirito filosofico, il quale,
diffuso pazientemente da uomo a uomo, finirà per addolcire i costumi dell’umanità”.
Voltaire però diffidava delle leggi e delle
religioni per guarire questa “peste”; ma oggi,
rispetto a ieri, tante cose sono cambiate; ci
sono forti movimenti di opinione e il dialogo
è più maturo fra gli Stati, fra le religioni, fra
Stato e religioni, anche se certamente è sempre temibile l’ombra assassina del “Vecchio
della Montagna” che ancora oggi si proiettata
sulle concezioni-visioni messianiche: dall’Iraq
all’America, da Israele alla Palestina.
Rimane allora la fiducia nel dialogo, che
trova forza in parole come quelle di padre
Scattolin: “Per conoscere se stessi… inclusi
limiti e difetti, non c’è nulla di meglio che
aprirsi ad una fede e ad una tradizione diverse
dalla nostra”; o in parole come quelle di Benedetto XVI, allora Cardinale Ratzinger, che
pronunciò in una intervista rilasciata a Marco Politi (Repubblica, 19/11/2004): “La laicità giusta è la libertà di religione. Lo Stato
non impone una religione, ma dà libero spazio alle religioni con una responsabilità verso
la società civile, e quindi permette a queste
religioni di essere fattori nella costruzione della
vita sociale”.
Pino Pesce
EDIZIONE GRATUITA
Hamas conquista il potere con le elezioni
La storia insegna che l’estremismo riscuote consensi in un popolo umiliato
Fuori dalle aspettative occidentali che avevano puntato tutto sul partito Fatah, Hamas ha
vinto le elezioni palestinesi e si appresta a governare i territori.
La notizia ha suscitato un grande clamore in
ogni parte del mondo per il fatto che un movimento di ispirazione fondamentalista (che ha
sostenuto la lotta armata ad oltranza e il terrorismo contro Israele) abbia conquistato democraticamente il potere.
Il voto palestinese ad Hamas ci scandalizza
perché ci scandalizza l’idea che un popolo pos-
sa scegliere “liberamente” e “democraticamente” di affidare il potere in mano a dei terroristi.
Ma è fin troppo facile provare sdegno e condannare quando si apprendono notizie di stragi avvenute dall’altra parte del mondo standosene comodamente seduti sulla poltrona di casa propria, sapendo che tanto tutto ciò non ci riguarda
direttamente.
La storia ci insegna (anche la nostra) che i
movimenti estremisti riscontrano ampi consensi
quando fanno leva sull’esasperazione e l’insoddisfazione del popolo.
Il voto ad Hamas non esprime tanto la preferenza di qualcuno quanto il rifiuto di qualcos’altro: un disaccordo con la politica precedente, che
con la sua “moderazione” è stata incapace di
mettere fine all’eterna contesa con Israele.
Dal punto di vista occidentale, Hamas è un
movimento terrorista, ma è probabile che un palestinese veda in esso un movimento nazionalista capace di rimediare all’incapacità del potere
legittimo. Secondo un’ideologia propriamente
mafiosa, laddove lo stato mostra le sue manchevolezze e la sua debolezza, una forma di “con-
La televisione dei giochi a premi
Le fonti della ricchezza e della moneta
RaiUno e Canale5 – come dire la TV pubblica e quella
privata (bene rappresentata da Mediaset) – organizzano giochi a premi con in palio somme dell’ordine di molti milioni
delle vecchie lire fino al miliardo ed oltre. Lo Stato fa anche
peggio (basti pensare alle vincite multimilionarie di €uro!).
La gente non si chiede da dove provenga cotanta ricchezza:
semplicemente aspira ad arraffarne un bel po’ con un colpo
di fortuna. Ognuno ha un sogno o, più spesso, un bisogno da
soddisfare e si rivolge, per l’appunto, alla fortuna piuttosto
che alla “casa comune” (“res publica”) che dovrebbe essere
lo Stato.
La questione della ricchezza, ma soprattutto della moneta
che la concretizza, resta un rebus, un qualcosa di misterioso,
di mistico, in ogni caso per “addetti ai lavori” di quello
strano oggetto, che è il già citato Stato. Quando si investe in
azioni o in borsa, si finge di credere che la moneta “lieviti” –
insomma aumenti di volume! – per non ammettere che, in
realtà si gioca a chi ruba di più a vittime che restano sconosciute e, per questo, non meritevoli di pietà. “Si finge di
credere”, abbiamo detto, pur sapendo (almeno questo) che
la moneta non si autogenera come per scissione (non partori-
sce altra moneta anche se si dice popolarmente che “i soldi
fanno soldi”). Ma l’importane è credere che il proprio danaro possa produrre profitti e quindi aumentare quantitativamente. L’azionista e l’investitore non sono necessariamente
né economisti (“predonomisti”) né esperti in finanza (“monetocratici”) ma gente che, nel migliore dei casi, conosce le
regole del gioco settoriale ed ha molta speranza di ricavare
più danaro di quanto non ne metta in gioco.
Caratteristica – per non dire ironicamente metafisica - è
poi la ricorrente circostanza che un’opera utile -anzi, necessaria- non possa essere effettuata “per mancanza di fondi”
in presenza del materiale occorrente e del personale, dirigenziale, tecnico ed operaio, capace di portare a termine la costruzione del bene-servizio in questione.
In un articolo non si può inserire un trattato ma si possono tracciare cenni essenziali per rendere intuitiva l’idea di una
realtà in cui ci si imbatte tutti i giorni. Allora… Noi siamo
naturalisti e ci limitiamo a “leggere la natura delle cose e
della nostra specie”: le fonti di ciò che si suole chiamare
ricchezza sono tre: a) la natura, b) l’uomo, c) il lavoro.
Carmelo R. Viola, pag. 2
tro-stato”, agendo nell’illegalità e con metodi non
proprio ortodossi, è percepito dal popolo più
vicino di quanto non lo sia uno stato corrotto o
incapace.
Il voto palestinese dovrebbe indurci a queste
riflessioni e, poiché non si tratta di un caso isolato (in Iran, in Egitto, in Libano, in Algeria si è già
visto qualcosa di simile), dovrebbe anche spingerci ad interrogarci se non ci sia una nostra responsabilità in ciò che avviene nel mondo.
Melita Furnari, segue a pag. 2
2
Avvenimenti
Febbraio 2006
Storie di un mondo invisibile
Fallimento della “Bossi-Fini”. Si spera nel cambiamento
La Legge Bossi- Fini sull’immigrazione è risultata un fallimento, non
tanto perché a farla hanno contribui-
to un ex missino e uno xenofobo leghista, quanto perché nei fatti non ha
portato a nessun risultato favorevole
E’ difficile certe volte riuscire a scrivere il
rammarico che si prova nel vedere certe realtà
dimenticate dai poteri forti.
Vorrei raccontarvi una storia penso sia giusto sapere cosa c’è al di là degli allori che troviamo nelle nostre case.
Premetto che il mio dire non è contro la
classe medica, della quale stimo l’amore che
spinge a salvare la vita umana, ma contro quei
medici che usano il proprio ruolo per non guardare oltre e che, troppo spesso, dimenticano il
giuramento di Ippocrate.
Il primo di febbraio (mi trovavo in via Plebiscito) vedo una anziana signora che cade a
terra come morta, gli occhi sgranati e un marito
troppo vecchio per riuscire a fare qualcosa.
Torno indietro, consolandomi del fatto che
mi trovavo davanti una Azienda Ospedaliera,
per nessuno.
Infatti, ne sono stati penalizzati
gli immigrati senza che ci sia stato
quel calo di immigrazione tanto sbandierato; anzi il numero degli sbarchi è
nettamente aumentato.
Racconto la storia di una donna
rumena venuta in Italia per trovare
quello che molti italiani, negli anni ’50,
cercavano in America: una vita migliore.
Il nome e la città di abitazione della giovane sono immaginari, perché
fare informazione non vuole “essere
debole con i forti e forte con i deboli”.
Natalia ha 28 anni e dal 26 settembre 2004 vive in Italia. Incappata in
una retata con il suo convivente, è
stata rinchiusa nel CPT di Ragusa,
solo per un giorno perché era incinta.
Sebbene entrambi, per legge, non
potevano essere espulsi in quanto genitori di un bimbo di sei mesi, lui è
stato forzatamente rimpatriato, mentre lei, che ha un permesso fino al
compimento dei sei mesi del bambino, tra poco dovrà tornare in Romania.
“In Romania- racconta Nataliastudiavo matematica all’università,
ma non ero ricca e quindi dovevo lavorare. Guadagnavo settantacinque
euro al mese, e con questi non riuscivo ad andare avanti. Ci vogliono duecento euro per vivere in modo dignitoso al mio paese.
Quando sono arrivata in Italia ho
trovato subito lavoro presso un’impresa di pulizia e il mio compagno
faceva il muratore. Guadagnavo 400
euro al mese e lui 40 al giorno, con
questi soldi ci vivevamo bene, paga-
vamo l’affitto di una casa ed eravamo
tranquilli. Purtroppo non tutto è andato come speravamo. Era una serata
di giugno e mi trovavo a casa di altri
amici rumeni. Eravamo una ventina
di rumeni e un ragazzo polacco. Festeggiavamo un compleanno. La casa
era piccola, c’erano due stanze e ci
vivevamo in venti. Ad un certo punto
uno del gruppo che aveva bevuto troppo comincia a litigare con un altro.
Molti si sono buttati a capofitto per
fermare la lite. Troppo tardi. Paolo
era già in strada che urlava e si taglieggiava con una bottiglia di vetro. A quel
punto qualcuno chiamò i carabinieri e
l’ambulanza. Molti hanno detto che
Paolo fosse morto, ma non è così.
Quella stessa notte ci hanno portati
presso la stazione dei Carabinieri e, a
chi li aveva, hanno tolto i permessi di
I medici che trascurano Ippocrate
Uno strano caso di Malasanità davanti al “Vittorio Emanuele” di Catania
come molti preferiscono definire gli ospedali.
Allora mi precipito a chiedere soccorso (scusi
il lettore il bisticcio) al pronto soccorso. Tremavo e provavo quel senso di tenerezza che
non si confonde con 50 anni di dominio cattolico sull’essere italiano; più precisamente provavo il desiderio di giustizia sociale.
Dunque vado allo sportello e mi avvicino a
una “gentile” dottoressa. Chiedo: “C’è una signora davanti al vostro ospedale che sta molto
male”; mi risponde: “Signorina chiami il 118”.
Salto sulle punte delle scarpe e dico: “Ma
forse non ha capito, è qui fuori”; mi risponde:
“Non possiamo uscire se non avete chiamato
l’ambulanza”. Allora continuo: “Ma da dove
dovrebbe venire l’ambulanza?”; risponde:
“Dal…”. Menzionandomi un altro ospedale
che si trova in un’altra zona. Mi arrabbio, e
chiedo se si ricorda del giuramento di Ippocrate. Perché io credo alla buona fede di chi non
può spostarsi da una propria postazione di
lavoro, ma non credo che in una pausa pranzo
nessun medico entrasse o uscisse dall’Ospedale.
Ritorno, arrabbiata come non mai con il
mondo intero, dopo essermi sentito dire che
avrebbe chiamato la polizia.
Poi penso: “Ma la polizia non dovrei chiamarla io?”.
Esco fuori e trovo la signora ancora a terra e
un marito con gli occhi dispersi nel vuoto. La
pensione tra le mani avvolta da un filo di scotch,
e il tremolio che mi faceva intravedere delle braccia
antiche, agricole. Riflettevo sulle lotte del passato: sembrava non fossero servite a niente se
per una cosa del genere non si riesce a fare nulla.
Dalla prima pagina
La televisione dei giochi a premi
L’uomo ha bisogno di beni e servizi. Tra i servizi c’è
quello di scambiare i beni stessi. In origine era il baratto:
lo scambio di un bene con un altro (sempre possibile).
Poi si è passato ad un mezzo di scambio (un bene intermedio): per esempio, il sale (donde “salario”), le pecore (donde “pecunia” da pecus). Ci soffermiamo sull’oro: metallo speciale per le sue caratteristiche e quindi
particolarmente prezioso. Dunque, un metallo o minerale speciale a cui, come agli altri mezzi di scambio, si
dava una valenza convenzionale.
Tutto ciò è inevitabile in un contesto in cui individui
e gruppi tendono ad un possesso senza limite (alias
predazione di origine animale) su cui si è creduto di
fondare “la” economia fondando invece la “predonomia” cioè l’artescienza della predazione. Il capitalismo
è la teorizzazione e la pratica della predonomia “istituzionale”: la differenza fra la predazione animale e la
predonomia “civile” è che quella è regolata dall’istinto
e dalla forza, mentre questa è regolata da “regole di
gioco” dette leggi. Queste inoltre possono essere usate
e abusate con capacità e furbizia tali da produrre vere e
proprie predazioni ovvero individui e gruppi straricchi
(il cui corrispettivo complementare è costituito dalla
povertà e dall’indigenza). E’ la predazione “intralegale” indicata da fenomeni tipo “tangentopoli”. Una forma particolare di gioco predatorio (alias capitalistico) è
costituito dai “mafiosi”, cosiddetti impropriamente da
associazioni estinte (con cui hanno in comune solo le
proprietà delle associazioni occulte) e che costituiscono un vero e proprio capitalismo “paralegale” (ovvero
una componente strutturale del capitalismo stesso).
Nella delinquenza cosiddetta comune, dedita prevalentemente all’appropriazione diretta di beni e soldi (furto, rapine e simili), con l’uso della forza (soprattutto
delle armi e con sequestro di persone), si ha una vera e
propria predazione animale in veste antropomorfa.
Per indicare la ricchezza di uno Stato è giunto fino ai
nostri giorni l‘istituto della “riserva aurea” che, a ben
pensarci, è soltanto una cosa ridicola perché i lingotti
d’oro non sono controllabili nemmeno, a rigore, dagli
addetti ai lavori, meno che mai dai cittadini e assolutamente no dagli altri Stati con cui si stabiliscono “rap-
porti di borsa”. L’oro rimane tuttavia un bene
di scambio prezioso la cui valuta viene stabilita dal gioco del mercato.
Resta la grande verità che gli uomini hanno bisogno di accedere ai prodotti del lavoro,
cioè ai beni e ai servizi per alcuni dei quali
occorre ancora un mezzo (o bene) di scambio, che è appunto la moneta. La ricchezza di
un paese non viene più calcolata, almeno così
dicono le autorità competenti, sulla ridicola
scorta della riserva aurea, ma sulla scorta del
prodotto del lavoro ovvero prodotto interno
lordo (PIL). Ma dato che siamo ancora in
regime predonomico (predatorio “istituzionale”), non si utilizza il lavoro di tutti gli
abili, non si riconosce a tutti un pari potere di
acquisto per i prodotti del lavoro acquistabili
solo con il danaro. In altre parole i beni prodotti dal lavoro collettivo (impossibile calcolare con esattezza il valore del singolo), più
precisamente i servizi, (con qualche eccezione nel campo scolastico e in quello sanitario) non sono gratuiti.
Una realtà rimane certa: la ricchezza (con la sola
esclusione dei frutti incolti della natura) è il lavoro. Sul
piano sociale è il totale dei beni e dei servizi prodotti dal
lavoro. Sul piano individuale il potere d’acquisto e di
possesso, se non limitato da una norma che applichi la
distributività secondo equità e bisogno, diventa il prodotto di un “gioco predonomico”, il primo dei quali è
quello del “dar lavoro”, che è nella realtà un “comprar
lavoro” e che, in regime predonomico (quale è quello
capitalista), depreda il lavoratore di una parte del valore
del lavoro prodotto. In altre parole, si dà 80 invece di
100. Di quel 20% (facciamo un esempio elementare)
una parte può servire per la gestione dell’impresa mentre il resto va ad accumularsi progressivamente costituendo la ricchezza parassitaria tanto più grande quanti
più numerosi sono i soggetti sfruttabili contemporaneamente. E’ la famosa “accumulazione capitalista”.
La storia delle banche – motivate dalla menzogna del
risparmio – è davvero pietosa: è bene parlarne in un
articolo a parte. Dietro il preteso risparmio ci sono l’usura
e il ladrocinio: due strumenti istituzionali per depredare
legalmente.
Ciò che viene “messo all’asta” (sia detto per esteso)
è sempre la ricchezza parassitaria o predatoria, estorta a
chi lavora e produce. Il profitto viene sempre dal lavoro.
Ciò che si distribuisce attraverso giochi, lotterie e roba del
genere, è sempre “refurtiva” (nel senso di ricchezza depredata istituzionalmente o legalmente ovvero nel rispetto
di regole del gioco, alias legalità): la fortuna in investimenti azionari e in giochi di borsa viene sempre da trasferimenti (movimenti) di ricchezza depredata ai lavoratori.
Le grandi somme “spese” per comprare e compensare giocatori di calcio e per pagare gente dello spettacolo, è
refurtiva sociale bella e buona divenuta bene possedibile
e commerciabile legalmente.
Il fisco è una vera predazione di Stato e sostituisce
quella “moneta di ritorno” che manca ad uno Stato che
non è il produttore e distributore dei beni e dei servizi. In
ogni caso, predazione senza tema di smentita restano le
imposte indirette, cioè sui beni e servizi fruiti per acquisto e, in specie, le tasse motivate solo da un dispositivo
di legge, quale è il canone Rai.
Con i giochi a premi – e siamo al punto – il sistema
sfrutta la speranza della vincita per corrompere la gente,
la quale vi accorre sperando di coprire quei bisogni che in
una società umana “adulta” potrebbe soddisfare normalmente. Tali giochi a premi fanno parte del “predaludismo”: giochi (ludismo) la cui posta equivale ad una
“preda” strappata a cumuli parassitari di propri simili.
E’ uno degli “ottundori sociali”.
La società capitalista (predonomica) diventa tragicocomica quando raccoglie sottoscrizioni per la ricerca (per
es. sul cancro) dal momento che i ricercatori potrebbero
lavorare a tempo pieno e a tutto vapore senza ricorrere
alla carità pubblica, e quando non può costruire un ospedale o illuminare una strada (di strade buie supertrafficate
ce ne sono non poche!) “per mancanza di fondi”. Nel
primo caso i sottoscrittori hanno un modo specifico
(“squisitamente borghese”) per tacitare la propria coscienza di “predatori” (almeno potenziali); nel secondo
caso, la gente viene messa davanti a sua maestà la moneta!
Difficilmente si pensa che la moneta è un bene di
scambio naturalmente elastico quando non è “predonomicamente” legato ai parametri di una società ad usum
domini. Una moneta vera e propria, cioè solo strumentale e quindi passiva, eliminerebbe i ricchi e la pretesa legittimazione giuridica della ricchezza come potere di acquisto parassitario ed anche quella del bisogno e della povertà. In una società adulta non ci sono poveri.
Dal punto di vista dei diritti naturali crimine non è
solo la “distribuzione ludica di refurtiva sociale”, messa
in palio da grossi predatori configurati da altrettante imprese produttrici (che “sponsorizzano” un gioco), ma
crimine è anche ogni disoccupato o morto di fame che
non sa come sbarcare il lunario in un contesto civile dove
il contributo lavorativo dei soli abili dovrebbe consentire
a tutti i membri della collettività di avere pari opportunità di soddisfare quei diritti naturali di cui sono portatori
per il solo fatto di essere nati. Quando lo Stato dice di
non avere fondi sufficienti per pagare i propri lavoratori
o per costruire un ospedale, semplicemente mentisce.
E’ impossibile affermare che gli attuali legislatori (eletti
e quindi “onorevoli” – sic!) e governanti abbiano davvero il “senso dello Stato”. La sola “legge finanziaria”
di ogni fine anno, è – alla luce di una vera scienza sociale
- una macrobarzelletta da far scoppiare le interiora, ma
la sinistra e il mondo stanno al gioco e l’imbroglio continua.
I fondi ci sono sempre finché esistono la natura,
l’uomo e la capacità di lavorare di questo. Il neoliberismo è la degenerazione massima della predonomia: la
scienza per legittimare le differenze, i privilegi e i conflitti. Quando a Rai Uno o a Canale 5 si apprende da un
giocatore che spera di vincere per soddisfare un bisogno, si apprende della persistente e crescente condizione di barbarie di una giungla antropomorfa destinata
all’autodistruzione. Per questo, la lotta alla mafia oltreché alla “criminalità promossa dal bisogno, dal vizio e
dall’emulazione” è l’ultima e più grande cosa ridicola di
una società umana bloccata a livello “antropozoico”
che si fregia del titolo totalmente gratuito e grottesco di
“Stato di diritto”.
Carmelo R. Viola
[email protected]
soggiorno. Siamo rimasti per tre ore
lì, in silenzio e spaventati. Non sapevamo cosa dire, cosa ci avrebbero fatto. Dopo questa fase di interrogatori
ci hanno consegnati ai Carabinieri di
un paese vicino. Siamo rimasti chiusi
dentro la macchina dei Carabinieri per
tutta la notte, e alcuni di loro facevano la ronda per paura che scappassimo. Il mattino seguente ci hanno portati alla questura di Catania per prendere i fogli di espulsione e di via. Dopo
quella notte anche il mio compagno è
stato rimpatriato. Adesso vivo da sola,
col mio bambino. Lavoro ma non riesco a pagare tutto con 360 euro al
mese, solo l’affitto ne costa 220. E’
soltantograzie alla solidarietà di connazionali e amici italiani che continuo
ad andare avanti”.
Laura Galesi
Guardo la guardia giurata all’ingresso, poteva avere 25 anni, mi dice di avere chiamato il
118.
Intanto vedo arrivare l’ambulanza. Ma attenzione non era quella chiamata dalla Guardia
giurata, ma una che stava rientrando in ospedale. Mi metto in mezzo alla strada a urlare. Sembravo pazza. Ero accecata dalla rabbia. Si ferma e porta con sé l’anziana signora. E intanto
arriva l’altra ambulanza.
Tremavo. Avevo davanti a me quegli occhi;
il colore di quelle mani.
Chiamo la polizia per denunciare il fatto.
Mi si risponde: “Signorina, lei ha tutto il diritto di fare un esposto alla Procura della Repubblica”.
Una vera situazione kafkiana!
L. G.
Dalla prima pagina
Hamas conquista
il potere con le elezioni
Anziché vantarci di esportare la democrazia nel mondo, dovremmo chiederci invece se la nostra presenza in questi paesi non
venga vista come un’invasione che esaspera situazioni già estremamente tese.
Siamo sicuri che la nostra democrazia, frutto di millenni di
storia e progressi sociali e civili, possa funzionare in paesi culturalmente molto diversi dai nostri? Ma soprattutto, siamo sicuri che
l’ipocrisia delle “missioni civilizzatrici”, a cui tutto l’Occidente
vuole ancora continuare a credere per non perdere la fiducia della
sua superiorità culturale rispetto al resto del mondo, non sia stata
smascherata da questi popoli che in esse vedono ciò che realmente
sono: guerre di conquista?
In che modo si può interpretare l’affermazione di un presidente statunitense: “non tratteremo mai con un partito che ha un’ala
armata”? Forse che anche lui, Bush, non dispone di una sua ala
armata, anche se nascosta sotto il nome di “esercito di difesa” ma
che non esita ad usare per uccidere, anche laddove non si tratti di
azione di difesa, ma celi sotto l’ipocrita definizione di “missione
civilizzatrice” uno sterminio di popoli?
Tutta la storia occidentale si fonda su un passato di colonizzazione. Abbiamo colonizzato per secoli popoli e paesi che ritenevamo (è esatto l’imperfetto?) inferiori, li abbiamo depredati, togliendogli qualunque strumento di sviluppo e condannandoli ad un futuro di paesi sottosviluppati.
I processi di decolonizzazione appartengono ormai al passato, ma il ricco e potente Occidente ha trovato modi più sottili
per continuare la sua dominazione culturale ed economica. E se
questo non vogliamo vederlo, è solo perché ci fa comodo tenere
gli occhi chiusi.
Come possiamo poi stupirci del loro odio nei nostri confronti?
Quale essere umano ha mai amato il padrone che lo schiavizza e gli
toglie la dignità? O forse il diritto alla “libertà, all’uguaglianza e alla
fratellanza” è ritenuto valido solo quando a rivendicarlo siamo noi
occidentali? Ci scandalizziamo del voto palestinese così come
ci indigniamo per le reazioni dei musulmani contro le vignette
satiriche (aventi per oggetto il profeta Maometto) pubblicate
dai giornali occidentali. Ma chi ci dà il diritto di mancare di
rispetto a poco più di un miliardo di esseri umani?
La libertà di stampa e di espressione, così tanto rivendicata da
certi giornali europei che sembrano averne fatto una questione di
principio, non può tramutarsi in diritto a schernire la dignità altrui.
Si può credere o meno ad una religione, si può non credere a
nessuna religione, ma non si può non rispettare la libertà degli altri
di credere. C’è un confine sottile che separa la mia libertà da quella
altrui e quando questo confine viene superato, la mia libertà non è
più un diritto inalienabile ma un incitamento all’odio.
Per questo appare comprensibile la posizione della Chiesa
cattolica che si schiera contro questo tipo di “libertà”. Mi chiedo
come reagirebbe l’Occidente cattolico (che tuttavia ha un maggiore senso critico e una cultura della satira e dell’ironia) se i
musulmani si mettessero a pubblicare foto “oscene” della Madonna o di Dio.
Se, invece di indignarci sempre per le reazioni eccessive che
provengono dall’altra parte del mondo, potessimo almeno una volta
mettere da parte l’ipocrisia, ci accorgeremmo come spesso siamo
noi a fomentare quest’odio che ci si rivolta contro.
Melita Furnari
Provincia
Febbraio 2006
3
Prima mediofondo di Primavera
185 ciclisti in gara nei territori di Motta, Paternò e Belpasso
Organizzata dal comitato provinciale Udace-Csain, col supporto del Club ciclistico mottese del presidente Sebastiano Caruso, si è svolta domenica 12 mattina la Prima mediofondo
di Primavera con partenza alle 9 dal traguardo
collocato nei pressi della sede del Club sul viale della Regione e arrivo a partire dalle 11 sotto
lo stesso striscione.
Mattinata grigia con cielo plumbeo ma tutto sommato clemente con i 185 corridori presenti al via, per raggiungere con andatura turistica, attraverso i territori di Motta, Paternò e
Belpasso, la località Sferro, punto di partenza
della fase agonistica su un tracciato che per
Giumarra, Ramacca e bivio Iannarella avrebbe
portato il serpentone alle porte del paese con
l’impegnativa arrampicata dei 5 chilometri della
provinciale 13 che di solito decidono le corse a
Motta, offrendo sempre forti emozioni ai numerosi appassionati del pedale.
Da Sferro, dunque, fuoco alle polveri con
due batterie avviate a distanza di dieci minuti.
Nella prima, categorie Cadetti, Junior e Se-
LA LETTERA
nior in azione. Dura lotta sin dall’inizio, con i
migliori sempre lì a controllare la gara bloccando ogni tentativo di fuga. Gruppo compatto sino alla salita finale “del pero”, come
la chiamano i mottesi, dove 4 corridori, Salvatore Coco, Enzo Buccheri, Luigi Timpanaro e
Santo Rigano, salutano la compagnia ottenendo un margine costante sino alla volata, vinta
con spunto irresistibile da E. Buccheri davanti a S. Coco. La seconda batteria, per Debuttanti, Veterani, Gentleman, Super Gentl. A e
B e Donne, fa subito registrare andatura sostenuta e continui tentativi di fuga, che tuttavia non fanno quella selezione che di lì a poco,
immancabile, si determina con l’erta finale,
laddove si assiste allo scatto imperioso di
Carmelo Mercante, seguito solo da Sebastiano Zappulla, e alla progressione vincente dei
due fuggitivi sino allo striscione rosso, sotto
cui sfreccia per primo C. Mercante.
Manifestazione riuscita anche grazie al
servizio di Carabinieri, Vigili urbani, volontari delle Pantere Verdi e Misericordia di Ognu-
Gentile Direttore,
la lettura dell’articolo “Oltre” la Villa Comunale a firma di Melita
Furnari, pubblicato sull’ultimo numero* del Suo
bel giornale, mi induce a
delle brevi e dovute precisazioni.
L’Amministrazione da me diretta si è insediata nel maggio del 2003.
Riportare qui ciò che allora a Santa
Maria di Licodia non esisteva, sarebbe troppo lungo e di poco interesse per i lettori.
Ciò che invece abbiamo trovato (ed in abbondanza) erano … i debiti!
In due anni e mezzo di amministrazione
siamo riusciti a pagarne una parte cospicua, reperendo – con enorme impegno personale mio e dei miei assessori – ulteriori
risorse.
Sono stati realizzati, o sono in via di completamento, numerose opere infrastrutturali
e di immediata fruizione per la cittadinanza licodiese.
Sinteticamente, e rimanendo nell’ambito di interesse dei giovani: con un ingente
finanziamento del Mediocredito Sportivo
si sono avviati i lavori per il completamento degli impianti sportivi (con campi di tennis, calcio, calcetto in erba sintetica, bar,
ecc.), impianti che saranno consegnati presumibilmente il prossimo maggio; con fondi regionali è in corso di realizzazione la
“zona artigianale” con riserva a favore dei
giovani; sono state incoraggiate (anche
economicamente) iniziative culturali e di
avviamento allo sport da parte di associazioni private. Nel settore scolastico sono
stati resi pienamente agibili i locali che
ospitano la scuola media; si è scongiurato
il pericolo dei doppi turni nella scuola elementare con la locazione di un nuovo immobile; in collaborazione con la Provincia
Regionale si è realizzata la nuova sede dell’Istituto Alberghiero (unica scuola superiore in territorio comunale), così evitandone la minacciata soppressione.
A parte questi “pochi” interventi, che
già da soli non mi sembrano denotare alcuna paralisi amministrativa, desidero sottolineare come, sin dall’inizio del mandato,
vi sia stata un’ampia disponibilità, mia per-
na. Nella giuria, Francesco, Roberto e Giuseppe Mondello, e Daniela Rigano. Premi per
i vincitori delle 2 batterie e sino al quinto di
ogni categoria. Nei Cadetti: Rosario Ferlito
(Asd Città di Misterbianco) precede Domenico Marletta (Asd M. Team Salerno centro
squalo Viagrande) e Luigi Timpanaro (Gs Velo
club Sicily fruit). Debuttanti: Andrea Di
Modica (Asd R. Amarù C. Buccheri) davanti
ad Alessandro Marletta (Asd Città di Misterbianco) e Giuseppe Grasso (Asd M. Team
Salerno centro squalo Viagrande). Donne:
Marinella Cavallaro (Asd Discovery bike
Catania) su Lisa Musmeci (Asd Città di Misterbianco) e Kathleen Kinsey (Asd Città di
Misterbianco). Gentleman: Salvatore Marini
(Asd R. Amarù C. Buccheri), Salvatore Partenope (Asd Città di Misterbianco) e Venerando Sciuto (Asd M. Team Salerno centro
squalo Viagrande). Junior: Enzo Buccheri (Asd
R. Amarù C. Buccheri), Luca Gullotta (Asd
Città di Misterbianco) e Vincenzo Giacchino
(Asd R. Amarù C. Buccheri). Senior: Salvato-
sonale e del mio Ufficio, a ricevere ogni legittima richiesta proveniente dai miei concittadini, siano essi giovani o meno.
Per tale ragione mi ha meravigliato non
poco leggere dei ragazzi protagonisti dell’articolo pubblicato sul Suo giornale. Avrei
preferito incontrarli direttamente ed ascoltare dalla loro viva voce segnalazioni e suggerimenti.
Avrei preferito vedere questi ragazzi, ed i
loro coetanei, visitare le mostre organizzate dall’Amministrazione comunale, presenziare alle manifestazioni pubbliche che hanno visto intervenire, negli ultimi due anni,
importanti personalità nazionali, avrei preferito vedere altri giovani sostenere le iniziative delle associazioni di volontariato e
di protezione civile presenti sul territorio e
che tanto hanno bisogno di supporto.
Avrei … e voglio ancora! I sogni si possono e si devono realizzare.
Naturalmente la realtà licodiese non è
ideale, ma lavorando tutti insieme, con impegno e senza strumentali polemiche, si potrà migliorare sempre più la qualità di vita
cittadina.
Rammarica sentir contestare un’Amministrazione senza cognizione delle vicende
cittadine e, soprattutto, senza il necessario
contraddittorio. Tanto resta da fare, ma tanto è stato fatto, molto più di quanto non
traspaia dalle colonne del Suo giornale.
Sarò lieto, ove necessario, di confrontarmi
pubblicamente con chi non vuole riconoscere i meriti dell’Amministrazione da me
diretta.
Un’ultima annotazione mi sia consentita: il richiamo di Melita Furnari ai Dubliners di Joyce non mi turba, né mi offende. La
paralisi che “avvolgeva” i cittadini irlandesi si è infatti oggi trasformata in una vitalità, economica, culturale e sociale, invidiata da tutta l’Europa. Ed i protagonisti principali di questo sviluppo, unico nel suo genere, sono stati e sono – guarda caso – proprio i giovani.
Cordiali saluti.
Avv. Francesco Petralia
Sindaco di Santa Maria di Licodia
* Si fa riferimento al N. 6 de L’Alba del mese di
Dicembre 2005. (Nota a cura della redazione).
Arrivo 1ª batteria
re Coco (Asd Città di Misterbianco), Fabio
Alessi (Asd R. Amarù C. Buccheri) e Fabio
Scalora (Asd R. Amarù C. Buccheri).
Super Gentl. A: Salvatore Barbagallo (Asd
M. Team Salerno centro squalo Viagrande),
Francesco Buccheri (Asd R. Amarù C. Buccheri) e Salvatore Timpano (Asd Città di Misterbianco). Super Gentl. B: Salvatore Pulvirenti (Asd Città di Misterbianco), Nunzio
LA RISPOSTA
Egregio Signor Sindaco,
avendomi passato il Direttore
Responsabile la Sua lettera, innanzitutto -a nome della Redazione de l’Alba- La ringrazio
per l’apprezzamento rivolto al
nostro periodico. Detto questo, mi preme chiarire alcuni
concetti.
Vorrei, intanto, sottolineare
che il mio precedente articolo
non si proponeva di fare polemiche (meno che mai “strumentali”) nei confronti Suoi, Signor
Sindaco, e della Sua Amministrazione. La sfido a trovare in esso
l’espressione “paralisi amministrativa”: non la troverà perché
non l’ho mai usata né pensata e
questo perché né io né tanto
meno i ragazzi di cui ho parlato
avevamo intenzione di rivolgere un attacco personale e/o politico alla sua persona. A che pro
avremmo dovuto farlo? Noi non
siamo suoi rivali politici! Pertanto, mi ha sorpreso leggere
nella lettera da Ella inviata alla
Redazione una “difesa” del Suo
operato, che io non ho mai tirato
in ballo.
L’unico riferimento che ho
fatto all’attuale amministrazione mirava a sottolineare l’assenza dei suoi rappresentanti alle
manifestazioni organizzate dai
ragazzi. Vede, Sindaco, la Sua
constatazione a proposito del
fatto che “questi ragazzi ed i loro
coetanei” non abbiano presenziato alle manifestazioni pubbliche, di cui Ella parla, dovrebbe
spingerLa ad una riflessione:
forse invece di ascoltare e vedere le “importanti personalità nazionali”, i giovani vorrebbero
parlare e farsi ascoltare; forse
anziché partecipare da spettatori
agli eventi, vorrebbero avere un
ruolo da protagonisti e crearsi
spazi di espressione che siano
congeniali ai loro interessi.
Se dico questo, Sindaco, non
lo faccio per polemizzare ma
solo per mostrarLe la questione
dall’altro punto di vista: non
quello dell’Amministratore, che
è giustamente il Suo punto di
vista e che posso anche rispettare, ma quello dei giovani.
La paralisi licodiese a cui mi
riferivo ha radici molto più profonde e non è nata nel maggio del
2003. La Sua Amministrazione
non ne sarà responsabile ma, in
questo momento, dispone degli
strumenti per cambiare le cose
e, per questo, mi sono permessa
di rivolgere a voi un’esortazione.
Questo era il mio obiettivo e,
Le confesso, ritengo in parte di
averlo raggiunto, visto che quell’articolo ha suscitato l’interesse tanto di privati quanto di personalità pubbliche che hanno
premurosamente contattato i ragazzi, mostrando interesse per
Cacciola (Asd Città di Misterbianco) e Gesualdo D’Agosta (Asd R. Amarù C. Buccheri). Veterani: Carmelo Mercante (Asd Città di
Misterbianco), Sebastiano Zappulla (Asd R.
Amarù C. Buccheri) e Salvatore Caruso (Asd
Città di Misterbianco). Società: 1) Asd Città
di Misterbianco; 2) Asd R. Amarù C. Buccheri; 3) Asd M. Team Salerno centro squalo
Viagrande.
Vito Caruso
le loro attività e
fornendogli la
massima disponibilità, e ai quali,
mi sia permesso,
rivolgo (anche a
nome loro) un
pubblico ringraziamento. E visto
che quell’articolo
ha suscitato una
reazione (seppur
di dissenso, che
spero di aver dissolto con i presenti chiarimenti), da parte dell’Amministrazione comunale, mi
piacerebbe vedere nella Sua apertura al confronto (“con chi non vuole riconoscere i meriti dell’Amministrazione” da Lei diretta) la disponibilità al dialogo con questi ragazzi piuttosto che quella allo
scontro con chi non ha mai cercato lo scontro.
Per finire, mi conceda un’ulteriore precisazione. Mi fa piacere sapere che il mio richiamo
a Joyce non l’ha né turbata né
offesa, mi sarebbe dispiaciuto
il contrario perché, in tal caso,
avrei colpito un obiettivo che
non era nel mio mirino. Né tanto meno facevo riferimento alla
situazione dell’attuale Dublino
che so perfettamente essere uno
dei centri culturali più dinamici
e attivi d’Europa, mi riferivo
invece all’opera letteraria che,
come Lei saprà, riproduce l’atmosfera di paralisi in cui versava Dublino agli inizi del Novecento, così com’era sentita dallo scrittore irlandese che non
esitava a denunciare il malessere del paese natale proprio perché l’amava e sperava, in tal
modo, di poterlo migliorare.
Melita Furnari
4
Il Foglio Belpassese
Febbraio 2006
Batti e
A
l Direttore Responsabile, al Di
rettore Editoriale, alla Segreteria di Redazione, ai Collaboratori Culturali,
In relazione all’articolo, non firmato,
“Santa Lucia V.M.” riportato a pag. 6, n.
6, mese di dicembre 2005, sul periodico
d’informazione “l’Alba”, il sottoscritto
Avv. Giovanni Barbagallo sente il dovere di fare alcune precisazioni e correzioni
in merito all’articolo da Voi pubblicato.
LA VITA DI SANTA LUCIA NON E’
ASSOLUTAMENTE “INTESSUTA DI
ELEMENTI LEGGENDARI”!!!
Le vicende biografiche di S. Lucia riportate dagli Atti Latini del 315 sono storicamente esatte.
Di poi, si fa presente che il più antico
documento archeologico attestante la
storicità del martirio di S. Lucia, e cioè
l’iscrizione di Euskia, in greco, risale al
quarto secolo e non al quinto, come da
Voi riportato!!!
Infine, si fa notare che in nessuna redazione della Passio di S. Lucia, né in
quella degli Atti Latini del 315 e né in quella
degli Atti Greci o codice Pappadopulo del
V secolo, è scritto che S. Lucia “ per sfuggire al carnefice si strappò gli occhi”!!!
Quanto da Voi riportato è falso!!!
Quale devoto e studioso di Santa Lucia dal punto di vista storico - artistico letterario, ad esclusione di quello folckloristico, e che in quasi tre anni di ricerche
ha consultato ed esaminato più di 100
volumi, che riporta nella bibliografia del
suo Studio, il sottoscritto, per amore alla
verità storica, ha il dovere di combattere
gli errori, da qualunque parte provengano!!!
In mancanza di una Vs. immediata correzione, indice di serietà, la presente raccomandata sarà diffusa fra gli studiosi
ed i veri devoti di S. Lucia, la cui fame fa
impallidire quella di tutte le altre più celebri Sante inserite nel Canone della Messa. Per Vs. conoscenza, si allegano due
copie dell’articolo pubblicato su “Archeocultura di Sicilia” intitolato “Con un
anno di ritardo, celebrati i 1700 anni del
martirio di Santa Lucia C.M.”
Belpasso, 15-12-2005
Avv. Giovanni Barbagallo
Centro Culturale
Risvegli
Si è concluso nei giorni
11 e 12 febbraio 206 presso
i locali del Centro Culturale
“Risvegli” lo stage creativo
“grafico pittorico” il SENTIERO DI BELLEZZA, che
ha visto la partecipazione
gradita di Mimmo Cavallaro
il quale è riuscito a far relazionare i partecipanti sul
tema predisposto “Tra Immanenza e Trascendenza”.
Ecco quanto ci ha riferito l’organizzatore e conduttore maestro Pippo Ragonesi:
“Attualmente viviamo in un contesto alquanto mutevole e labile, La
frammentazione postmoderna, ci sta
spingendo alle sue estreme conseguenze; mescolando in tutti i settori,
conoscenze, ed elementi del passato
per creare non solo (nel campo visivo) qualcosa di unico, così anche nel
campo della ricerca spirituale e ovviamente dell’ìndividuo la necessità
di approdare ed individuare un solo
centro, che situato dentro ognuno di
noi è collegato ad un punto molto più
vasto che unifica tutto: chiamato Cosmo o meglio Coscienza cosmica.
Il nostro viaggio in questa esperienza attraverso il
corpo fisico, ha cercato il
sentiero per “tornare alla
fonte” e unirvisi per diventare un ‘ immenso, e totale
Coscienza Unica.
Quindi, noi punto di
partenza, ricercatori infaticabili, ci muoviamo tra l’Immanente e il Trascendente”.
Mary Virgilio
SE FINO ADESSO NON HAI AVUTO L'OPPORTUNITA' DI
DEDICARE UN PO DI TEMPO PER TE, ADESSO LO
PUOI FARE FREQUENTANDO I CORSI DI PITTURA E
GRAFICA TENUTI DAL MAESTRO PIPPO RAGONESI
PRESSO IL CENTRO CULTURALE RISVEGLI DI BELPASSO.
TELEFONA ALLO - 095 917674.
Ribatti
Cordiale avv. Giovanni Barbagallo,
lasciandoLe l’autocelebrazione e i meriti di studioso devoto di Santa Lucia, “la cui fama fa impallidire quella di tutte le
altre pur celebri Sante inserite nel canone della Messa”, mi
permetterei di dirLe che la scrittura della sua missiva, in raccomandata, non è molto ortodossa in termini di rispetto verso gli
uomini e verso i Santi; verso gli uomini perché si può arrivare
all’urbanità (nel suo caso) senza insensate minacce: “la presente raccomandata sarà diffusa”, cosa che poi ha fatto. Le
assicuro che Le avrei risposto: è inconcepibile il batti e ribatti
da un numero al successivo in un periodico che oltretutto ha
soltanto 12 pagine; verso i Santi … meglio tacere … Lei è un
uomo di fede; aggiungerei anche un avvocato.
L’articolo non è firmato! Da uomo di cultura avrebbe dovuto sapere che un articolo non firmato è attribuibile al Direttore
Responsabile. Le consiglierei, qualora i suoi ozi culturali glielo
consentissero di dare uno sguardo a Come si legge un giornale, Paolo Murialdi, Universale Laterza, Bari.
Riguardo alla vita di Santa Lucia Le assicuro, poi, che le
notizie non me le sono inventate. Riconsulti le carte. Ancora a
precisare ho parlato di storia intessuta di leggenda: di questo
nemmeno Benedetto XVI si sentirebbe offeso … anche perché conosce bene il rispetto.
Capisco il suo entusiasmo. A proposito dia una lettura al
mio editoriale; potremmo intenderci meglio.
Tanto Le dovevo dire per il corpo e per lo spirito.
Cordialmente.
Pino Pesce
Il Foglio Mottese
Febbraio 2006
5
Neck e borgo antico
Tavola rotonda della Fidapa: progetto di sviluppo
Tavola rotonda ricca di contenuti
domenica 22 gennaio nel castello normanno a cura della locale Fidapa su
“Neck e borgo antico”, nell’ambito del
tema annuale fidapino della Bellezza,
spiegata dalla presidente arch. Agata
Bucalo, nell’attinenza all’argomento in
esame, come virtù cittadina basata sul
rispetto di manufatti e beni ambientali
da tutelare. “La ricerca delle nostre radici- ha concluso la presidente introducendo i lavori –è molto importante,
e l’amore per la città è tra le prime
virtù civiche; in ogni città il turista trova questo senso civico”.
Con l’aiuto di immagini ben accompagnate da una esposizione divulgativa tipo Quark o Gaia, il geol. Giovanni
Privitera ha fatto rivivere la breve eruzione (dai giorni alle poche settimane)
che tra 150 e 100 mila anni fa, non
dunque, a suo dire, i 550 mila di altre
fonti, ha dato vita al condotto eruttivo
di Motta oggi chiamato “neck”, struttura vulcanica complessa con brandelli, bombe, scorie e dicco, capitata in
una fase di transizione dal vulcanismo
ibleo a quello etneo, bene ambientale
da riconoscere. “Dobbiamo immaginare -ha spiegato Privitera- una radice di
magma sotto il neck, in un’area, quella
mottese, dove avviene la collisione tra
le placche africana ed europea. Monte
Tiritì, per esempio, dalla quota del letto del Simeto, con la predetta spinta, è
arrivato oggi a 350 metri di altezza. Il
magma, a Motta, prima si incunea e
poi determina l’esplosione”.
Con lo stesso taglio il prorompente intervento, ricco di digressioni, dell’urbanista Maurizio Erbicella sul percorso metodologico del “marketing
territoriale” per individuare il “genius
loci” del territorio, cioè le sue specificità (per esempio a Motta, neck, borgo, natura, folclore dei rioni, arance,
olio, vino, ma anche dolcissimi piselli,
ecc.), e costruire attorno ad esso un
progetto di sviluppo, basato tra l’altro su sinergia pubblico-privato, comunicazione, trasporti e innovazione.
Progetto di sviluppo che deve rispecchiarsi in un buon Prg. “Fare infatti un
piano urbanistico- ha aggiunto l’urba-
nista –è come fare il progetto della casa;
quando non funziona la casa, non funziona la città”. Genius loci che l’ing.
Erbicella ha subito rinvenuto nella famosa frase di Goethe: “Motta è una
roccia imponente e pittoresca, la campagna varia…Una piacevolissima ragazza, splendida e slanciata,…Poi incominciano a prevalere i fiori gialli…”.
Su ipotesi di sviluppo economico
del borgo antico il commercialista Giovanni Privitera, che ha riferito su “Paese albergo” in corso di realizzazione
ad Agira (dove un gruppo di giovani
ha acquistato alcuni fabbricati nel borgo ed è arrivato a una ricettività di 80
posti letto), idea di albergo orizzontale su più unità abitative sparse, sugli
studi del prof. Urbani, nei quali si prevede che 100 paesini e 35 borghi rurali
delle aree interne della Sicilia possono
dare in 20 anni 120 mila posti letto, e
sulle potenzialità dei circa 4000 siti
costituiti da bagli e masserie. “Penso
che con un po’ di fantasia -ha concluso
il commercialista- nelle numerose case
abbandonate del borgo di Motta si
Foto: Nuccio Guarnera
Sopra: borgo medievale; Sotto: neck
potrebbero realizzare sia l’albergo
orizzontale che alcune vetrine artigianali”.
Prima degli antipasti finali, nelle
temperature sempre più gelide del castello, spazio per i brevi interventi
dello studioso di storia patria Santo
Gulisano (non ci si limiti a ingabbiare
il neck e si faccia intanto pulizia e
manutenzione del sito), del sindaco
Antonino Santagati (Prg obsoleto e
senza sviluppo, ma è meglio averlo
per potere poi coinvolgere la comunità nelle opportune modifiche), della vicepresidente distrettuale Fidapa
Lucia Chisari (conoscenza delle perle
Il Castello di Motta
Vicende del XIV
secolo nella
tesi di laurea
di Mirella Neri
Consultando, per la ragione
di una tesi di laurea, il Codice
diplomatico di Federico III
d’Aragona, re di Sicilia, pubblicato a Palermo nel 1885, a cura
di Giuseppe Cosentino, la neodottoressa mottese Mirella Neri
ha fatto luce su alcuni avvenimenti del XIV secolo che nel piccolo villaggio rurale di circa 600
abitanti hanno interessato il suo
emblema: il castello normanno
fatto erigere intorno al 1070 dal
conte Ruggero degli Altavilla.
Nello specifico si tratta dell’assedio subito nell’agosto 1356
da parte delle truppe del re Federico III (IV, per gli storiografi
moderni) e della disfatta del conte Enrico Rosso alla fine del
successivo mese di settembre. Su questi fatti d’arme, fra loro
strettamente connessi, la ricerca della Neri “per un giusto riguardo alla verità storica e al fine di rettificare il diffuso convincimento che il castello di Motta, mirabilmente difeso dalla posizione naturale, non sia stato mai preso”. Ben due diplomi,
secondo la studiosa, fanno intendere che Artale Alagona a fine
settembre 1356, dopo aver costretto alla fuga gli uomini di
Enrico Rosso (per parecchi anni signore del castello di Motta e
in conflitto con i Catalani occupanti la roccaforte di Catania),
che trovarono in parte rifugio nel castello, entrò nella fortificazione, e forse senza incontrare alcuna difficoltà; ciò sarebbe
avvenuto attraverso le porte, che erano il punto più vulnerabile
del sistema difensivo. In tale circostanza ci fu la disfatta del
conte Rosso e dei suoi armigeri.
I fatti raccontati dalle principali fonti storiche (Fazello,
Amico, e lo stesso Nicolò Russo, nipote del conte Enrico) e
integrati dal Codice di Federico III, descrivono l’assedio (tra
l’altro con una catapulta) portato l’11 agosto 1356 da Artale
Alagona a seguito della ribellione del conte Rosso, la difesa
gagliarda degli assediati, lo sgombero del campo il 13 agosto
con incendio dei campi circostanti e lo scontro del 22 settembre
in località Mezzocampo tra Artale e circa 200 cavalieri Chiaramontani venuti da Lentini, alleati del Rosso. Questi cavalieri
erano forse in attesa di congiungersi con le truppe provenienti
da Motta (giunte da Piazza in aiuto del Rosso) e il mancato
ricongiungimento avrebbe indebolito a tal punto la capacità
offensiva del “rissoso” Enrico da determinare nel successivo
contrattacco di Artale la ritirata del Rosso dentro le mura del
castello di Motta, rimasto però senza una difesa adeguata.
La svolta decisiva, secondo la ricerca della Neri, si ebbe tra
il 27 e 29 settembre, giorno in cui Federico IV scrisse una
lettera a Nicolò Abbate di Trapani, comunicandogli che l’Alagona era entrato “patenter” (liberamente) in territorio nemico.
Interpretando bene il testo latino della lettera, che parla di
penetrazione coraggiosa all’interno delle mura e di ribelli che
scompaiono di nascosto (pare attraverso un passaggio segreto
di cui quasi tutte le fortezze di quel tempo erano provviste), la
studiosa scrive che è lecito ritenere avvenuto l’ingresso dell’Alagona nel castello tra il 27 e il 29 settembre 1356, non
prima, perché da una lettera del 27 settembre di Federico IV al
conte Francesco Ventimiglia, che attesta la presenza dei nemici
nella rocca di Motta, si desume che lo scontro era ancora in
corso.
Nonostante, dunque, tutti gli accorgimenti (cinta muraria,
torrette, merli, feritoie, doppia porta d’ingresso, necessità di
avanzare intorno al perimetro della rupe col fianco destro scoperto esponendosi al tiro di arcieri e balestrieri) e le cronache
del tempo abbiano dato al fortilizio di Motta, appollaiato sulla
cima di un vulcano spento con strapiombo di circa 65 metri, la
fama di rocca imprendibile, la ricerca della Neri qualche dubbio
legittimo lo fa sorgere, senza nulla togliere al fascino di un bene
che è patrimonio dell’umanità.
V. C.
Vignetta
di Alfonso Romano
E’ risaputo che Motta è un paesotto dai mille problemi; non ultimo l’esodo degli americani che
vi abitavano, i quali con l’affitto
delle case garantivano un reddito
non indifferente a tante famiglie e
un’ economia alquanto dinamica
almeno nel settore edilizio.
Quindi problemi nuovi che
vanno ad aggiungersi a quelli vecchi e mai risolti: come la funzionalità del depuratore, la sistemazione della strada “Cangiatore”, la rivalutazione della zona “Sieli”, la
frana della zona ponte, l’asilo, la
scuola, il verde pubblico, il piano
regolatore, la zona pedonale, il centro storico ecc. Altri e non per questo meno importanti riguardano la
prassi politica-amministrativa: la
trasparenza, il rendiconto almeno
semestrale del bilancio comunale,
la gestione del personale, il sistema poco trasparente delle consulenze (queste ultime molto chiacchierate perché il più delle volte
date più che per competenze, per
scambio di favori politici). Ci sia-
mo mai chiesti gentili lettori e cittadini quanto incidono sulle tasse
che paghiamo?
Altri ancora riguardano lo sviluppo industriale e quindi il futuro dei nostri figli: perché a Motta
non investe nessuno? C’è un’area
di sviluppo industriale? un progetto di lungo respiro che possa
alimentare la speranza nel futuro?
Bisogna rassegnarsi ad essere sempre gli ultimi? Si può essere soddisfatti del rapporto tra il cosiddetto Palazzo e i cittadini?
del territorio e impegno concreto nel
biennio di servizio per approdare a
qualcosa che resti) e del neurologo
Giuseppe Zappalà (scientificità e stimoli apprezzabili, nella speranza che
i mottesi possano recepire e mettere
in pratica).
Vito Caruso
Ci si può
rassegnare ad
essere sempre
gli ultimi?!!!
C’è da mettersi le mani ai capelli ammesso che ancora ne siano
rimasti.
Molte aspettative aveva suscitato la vittoria del centrosinistra
nel nostro paese da sempre sgovernato da giunte diverse. Ma che
fine ha fatto quel programma ambizioso della coalizione vincente?
Dov’è quell’ humus di sinistra su
cui sarebbe dovuta radicarsi la nuova Motta? Davvero si pensa di
esaurire l’azione di un governo di
sinistra solo nel tanto sbandierato
progetto del pagare tutti per pagare meno e nella stabilizzazione
di qualche precario? E’ ben poca
cosa amici consiglieri e assessori
di sinistra. Per chi l’avesse dimenticato un governo che si caratterizza di sinistra deve far pendere
l’asse dell’azione amministrativa
verso politiche che attenzionano
meglio e di più i problemi dei meno
fortunati, degli svantaggiati, degli
anziani, dei giovani che cercano lavoro, vuol dire togliere terreno alla
speculazione per creare spazi sociali ecc., vuol dire, in poche parole, attuare politiche sociali in favore delle fasce popolari che, per
ragioni diverse, debbono essere
aiutate ecc. Quindi servizi, servizi, servizi.
Non si vuole avere la presunzione di trovare l’araba fenice, ma
vogliamo credere fermamente che
nelle vene dei governanti che si
dicono di sinistra scorra ancora
qualche globulo rosso. Non si chiede di dimostrarlo tagliandosi le
vene; basta tentare di fare qualcosa di sinistra. Fino ad ora, lasciatemelo dire, si è fatta ben poca cosa
dopo che si è avuto l’ardire di sbandierare progetti ambiziosi che hanno suscitato delle aspettative nella nostra piccola comunità; d’altro canto la comunità stessa non
deve essere un corpo evanescente
ma dovrebbe mettersi in marcia
anche se, forse, non ha ancora abbastanza gambe per farlo.
Matteo Ranno
Quando la politica è passione
I suggerimenti del Primo Cittadino per un impegno costruttivo
L’Uomo moderno passa buona parte
della vita in automobile, al telefono, davanti alla TV . Lo sviluppo intellettivo umano
dipende dall’ avanzamento culturale e dalle intuizioni innovative; per cui quando
mancano queste prerogative è la crisi della
società. La società attuale quindi -non riuscendo a dare tempo alla alla gente di leggere libri, di seguire linee di appartenenza cul-
turale, di utilizzare e approfondire tematiche di ammodernamento tecnologico e di
raggiungere spazi di avanguardia innovativa, avvalendosi delle radici storiche- è ammalata. Motta Sant’Anastasia è una prova
di questo “morbo” che coinvolge tutta la
società moderna. Una cultura millenaria,
una tradizione millenaria, delle radici storiche eccezionali e uniche in provincia di Catania, non bastono a fare emergere l’orgoglio di appartenenza della popolazione a
questo splendido Comune. Queste splendide risorse non riescono a fare uscire dalla
mediocre pigrizia imprenditoriale il mottese medio. Il problema è atavico, le imprese
artigiane migrano nelle aree artigianali dei
Comuni vicini, perché noi non ne possediamo, gruppi di sbandieratori migrano e
rifondano nuovi gruppi nei Comuni vicini,
i lavoratori migrano e lavorano in imprese e
società per azioni dei Comuni vicini, i pro-
fessionisti, le persone laureate, i piccoli
imprenditori migrano perché non esiste un’
area commerciale ed industriale e opportunità di lavoro nel territorio di Motta. Perdiamo risorse umane indispensabili ,
La colpa è del Sindaco? Certo anche del
Sindaco perché lo è di tutta la comunità
mottese. La politica basata sulla ricerca delle
colpe altrui, la politica basata sulla ricerca
di colpe di questa o di quella Amministrazione, sulla ricerca di colpe di questo o quel
Sindaco, sulla demolizione degli avversari
politici, sulle lacerazioni, sulle calunnie nei
confronti di questo cittadino o dell’altro ha
portato a questi disastri. Dire basta alle
divisioni è fondamentale. La mia politica è
contro nessuno. Il mio proggetto politico è
di costruire la citta domotica, di realizzare
i progetti della produzione pubblica e privata di energia verde, di creare un marchio
del tarocco Motta, di creare il marchio doc
del nostro olio d’oliva, di realizzare delle
imprese alberghiere orizontali nel centro
storico realizzando i parcheggi, di lavorare
sul Prg con programmi costruttivi basati
sui principi della perequazione sia per l’edilizia privata sia per l’edilizia sovvenzionata e popolare, sia per le aree commerciali
artigianali ed industriali, di realizzare l’equità
fiscale, di valorizzare le professionalità del
personale. Il bene della cittadinanza passa
attraverso lo sviluppo economico politico
e sociale. Bisogna quindi, in nome di questo sviluppo, dimenticare i nostri passati
momenti di divisione e di lacerazione nel
Consiglio Comunale, nei partiti politici,
nelle organizzazioni sindacali e nei centri di
aggregazione della società civile.
Lo sviluppo economico e sociale hanno quindi bisogno di pace e di un impegno
politico (e non solo) fatto di passione.
Nino Santagati
6
Febbraio 2006
Speciale Paternò
Antichi documenti
identificano
i baccanali
con le feste
carnascialesche
Il carnevale di Paternò che negli anni passati si festeggiava con larga partecipazione di
folla o di forestieri vanta una tradizione antichissima. In un libretto che si conserva all’Archivio comunale si parla di Baccanali per
indicare le feste carnascialesche. Il termine baccanale si ricollega al termine Bacco in greco
Dionisio che aveva un culto particolare. Il
culto del Dio è attestato anche da un monumento che si conserva in pietra lavica nella
contrada “Civita”.
Si tratta di una costruzione piramidale con
bracci sporgenti cui si appendevano le lampade votive per rischiarare il buio della notte
nella quale si svolgevano i balli sacri a Dioni-
Le due foto a sinistra
sono di Franco Uccellatore
sio, durante i quali le baccanti si lasciavano
andare sotto l’effetto del vino a lascivie di
ogni genere. Ma la testimonianza più cospicua è data da pitture vascolari che rappresentano processioni dionisiache con il dio rappresentato con il classico vaso potorio e tralci di vite.
La verità è che Dionisio assieme a Venere,
Apollo e Demetra faceva parte delle divinità
tutelari dell’antica Ibla.Alle pendici dell’Etna
sorgevano fiorenti vigneti che davano un’uva
pregiata. Durante la vendemmia avvenivano
le feste dionisiache.
Che il carnevale moderno a Paternò deriva
da quello antichissimo lo si può constatare
dal fatto che la partecipazione popolare è
spontanea. Le maschere, i travestimenti, lo
scherzo traggono origine da lontano. Negli anni
Sessanta tutti ricordano figure caratteristiche
come l’avvocato che si travestiva da donna. Il
carnevale è nel DNA dei paternesi.
Negli anni passati una folla enorme si spandeva sulla Via Vittorio Emanuele e nella Piazza Indipendenza. Le donne indossavano il
“domino” una lunga veste nera e un mantello
nero con cappuccio fasciato da una benda bianca. La ragazza metteva una mascherina che la
rendeva irriconoscibile ma non tanto. Quel
pizzico di mistero la rendeva ancora più affascinante. Portava spesso guanti neri di raso
con merletti. Quando la ragazza “impegnava”
un cavaliere lo portava al Bar per ricevere una
scatola di cioccolatini o una bottiglia di liquore. Poi concedeva qualche ballo.
Con il tempo si è assistito ad un graduale
decadimento di questo fenomeno popolare che
ebbe un grosso successo anche in età romana.
In questo periodo si faceva uso di carne
porcina e nacque vero similmente la salsiccia,
come noi la intendiamo.
Con l’avvento del Cristianesimo il carnevale venne considerata una festa pagana e abolita. Non abbiamo testimonianze che i Baccanali si celebrassero. Fu nel ‘500 che si ebbe
una ripresa dell’antico rito pagano che esaltava le virtù afrodisiache del vino.
Nel seicento si ebbe una ripresa dei carri
allegorici con rappresentazioni di miti dell’antica Gracia e di Roma. Era assente il carattere
satirico che poi assumeranno i carri allegorici
moderni.
L’ottocento fu il secolo della ripresa della
manifestazione carnascialesca. Fu il periodo
neoclassico quello che volle riprendere modi
e usi derivati dal mondo antico. Con questa
forte partecipazione popolare è arrivato fino
ai nostri giorni.
Il questi ultimi anni il carnevale sembra
tornato agli antichi fasti. E’ cresciuta la partecipazione del popolo. E’ cresciuto il numero
dei carri allegorici e di quelli delle macchine
fiorate e dei gruppi in maschera. Anche gli
Istituti scolastici sono stati coinvolti in questa grossa manifestazione che vede la partecipazione di gruppi sociali sempre più numerosi.
I carri allegorici di una volta erano dei piccoli capolavori. C’erano artigiani che plasmavano la carta pesta per ricavarne mascheroni
come uno scultore può trattare la materia prima delle sue creazioni.
Chi non ricorda i carri di Santo Fallica o di
altri bravi artigiani che dedicavano mesi alla
preparazione del carro in tutta segretezza per
evitare che qualcuno potesse rubare l’idea.
Foto: www.paternesi.com
Il carnevale vanta un’antica tradizione
Anche le macchine infiorate erano dei piccoli
capolavori in cui emergeva la bravura di certi
artigiani che costruivano cigni, mulini a vento, cenerentole e altri personaggi di fiabe.
Anche i pranzi di carnevale erano tipici. Si
mangiavano maccheroni a cinque buchi, sugo,
salsiccia, cassate e molto vino.
Si ballava nei locali dei vari circoli cittadini
ma anche nelle sale cinematografiche. Tutto il
paese era investito da questo grande vento
che rese Paternò famosa in tutta l’isola.
Vincenzo Fallica
Comune di Paternò
Abbiamo lavorato alacremente con l’ufficio cultura per rilanciare una grande tradizione, facendo tesoro del consiglio degli
operatori del carnevale.
E’ prevista la partecipazione di
7 carri allegorici, 10 carri infiorati,
11 gruppi in maschera, e questo
crediamo sia di per sé già un grande successo.
Abbiamo aumentato la somma base dei contratti per tutti i partecipanti eliminando i premi in denaro per garanzia di trasparenza, inserendola nella categoria
“B” per permettere ai giovani di manifestare la loro creatività carna scialesca, che
è sempre un modo artistico culturale di esprimersi.
Il tutto è stato organizzato a mo di campionato in modo tale che il primo della
categoria “B” l’anno prossimo parteciperà nella “A”, e l’ultimo della categoria
“A” parteciperà alla categoria “B”, al fine di evitare un appiattimento nel mettere
su i lavori e di stimolarli nella competizione.
Abbiamo aumentato la somma da
dare alle scuole per la loro partecipazione con i gruppi in maschera, perché le
scuole di Paternò di anno in anno hanno sempre più stupito con i loro lavori
ed onorato il nostro carnevale.
Anche gli spettacoli stupiranno. Basta fare i nomi dei Matia Bazar, Paolo
Meneguzzi, i Brigantini, Salvo La Rosa,
Ruggero Sardo, dentro la cornice di
tutte le scuole di danza locali.
La speranza è che quest’anno, grazie
alla diretta satellitare, si possa rilanciare
il nostro carnevale in tutto il mondo.
Ringraziamo tutti di cuore: dall’ufficio cultura agli operatori del carnevale,
alle scuole, alle forze dell’ordine, alle
associazioni, alla Provincia Regionale di
Catania che anche quest’anno ha partecipato alla realizzazione del carnevale
con un congruo contributo.
Buon divertimento.
Nino Naso
Assessore alla Cultura
Pippo Failla
Sindaco
Il Foglio Paternese
Febbraio 2006
7
Aedi successori di Omero
Cantavano nelle piazze il “melodramma dei poveri”
Nino Busacca. Alle spalle il
cartellone “Giulianu Re dei
Briganti”
“Paternò, la città dei Cantastorie!”
titolava, qualche anno, fa il Corriere
della sera . Di Cantastorie la città ne
ha avuti tanti: da Gaetano Grasso a
Garofalo da Paparo- Rinzinu, a Santagelo, per non parlare di Cicciu Bu-
sacca, il Re dei cantastorie! Andavano, fino agli anni settanta, nelle piazze a cantare storie! I successori di
Omero cantavano a chi nelle piazze i
fermava per assistere “al melodramma dei poveri” (come ebbe ad affermare Pasquale Scimeca, regista
cinematografico) storie tristi, fatti di
sangue, fatti di cronaca ed anche le
gesta dei Paladini. Nino,”il picciolo”
della famiglia Busacca, sinonimo ormai di cantastorie, mi accoglie con il
sorriso di sempre e con il limoncello
alla Nino Busacca: “sbucciare i limoni, mettere le bucce sotto l’alcol per
15 giorni/ dopo lo mischia con un litro di acqua, aggiungere un Kg di zucchero e limoncello è.”
E’ come fare i versi?
«Non ho mai composto versi, sono
orgoglioso di essere l’ultimo dei Busaccca; i versi li faceva Cicciu ed io li
imparavo a memoria. Girovagavo con
Cicciu per le strade di Paternò e restammo ammaluccati dai versi di Orazio Strano. Fu lì che Cicciu si mise in
testa di fare il Cantastorie...» Nino
Busacca non ha bisogno di molte domande. Nato l’otto novembre del
1933, sotto il segno dello scorpione,
naturalmente a Paternò! “U cacanitu, u picciulu” dopo Turi, Cicciu,
Peppino, Concetta felicemente
sposato con Francesca D’Urso dal 2
novembre 1939. Ha tre figli: Carme-
la, Santa, Cettina, Paolo e tanti nipoti. Da ragazzo faceva il bracciante e
quando Cicciu Busacca (nato il 28
gennaio del 22, sotto il segno del sagittario) cantava nelle piazze italiane
i versi di Buttitta oltre che quelli suoi,
si diede un secondo lavoro: Il cantastorie!
Quando fu la prima volta? Gli
chiedo tra un sorso e l’altro di limoncello, alternato da una sigaretta!
«Mio fratello mi disse: “Caro
Nino, cunvinciti, làssulu ‘stu zappuni/ pigghiti la me chitarra e canta gnuni, gnuni/Portiti la me machina/ e l’altuparlanti miu/ e ‘nda li chiazzzi prisentiti comu ti dicu iu! Avvicinati populo/Sugnu Ninu Busacca/ Cantu sta
bedda storia/ pirchì lu curi mi spaccca!/Sugnu frati, criditimi, di ddu famusu arcanu/Re di li cantastorie//Ca
si trova luntanu/ e manna stu frati picciulu ppi diri a tutti pari/ ca vi ricorda
sempri/e vi manna a salutari!». E Ninu,
il “picciulo” dei Busacca, accompagnato da Concetto, suo fratello, per
la vendita dei “libretti”, canta Amuri ,
morti e sirinata amara! L’accoglienza
è straordinaria! L’incasso della giornata: tremilacinquecento lire! Siamo
nel 1960 a Palagonia! Racconta tra un
colpo di tosse e l’altro.Un bracciante
guadagna 160 lire al giorno! Nel 1993
Pasquale Scimeca lo va a trovare. Nino
Giornalismo senza compromessi
Alfio Caruso ospite della Biblioteca “G. B. Nicolosi”
Procede degnamente con Alfio Caruso la rassegna
culturale dedicata al giornalismo “Cronisti e storie”,
rassegna voluta dai giornalisti Agnese Virgillito ed
Anthony Distefano e patrocinata dall’Istituzione Biblioteca “G.B.Nicolosi” e dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Paternò, rappresentati, rispettivamente, dalla Presidente dott.ssa Marilina Cancelliere e dall’assessore Nino Naso. Dopo Gianpiero
Mughini, quindi, un altro giornalista siciliano è stato
ospite della Galleria d’Arte Moderna per una serata
all’insegna della cultura e del confronto.
Catanese trapiantato a Milano da un trentennio,
famoso giornalista, scrittore e saggista di successo,
negli ultimi anni Caruso si è dedicato a raccontare
storie di italiani che non si sono arresi, che hanno
pagato con la vita la loro decisione di non chinare la
testa, di non subire intimidazioni.
Alfio Caruso ha scritto saggi di grande successo
sulla storia contemporanea, ed in particolare sulla
seconda guerra mondiale, tra cui ricordiamo Italiani
dovete morire, In cerca di una Patria, Arrivano i
nostri, Tutti i vivi all’assalto, e coraggiosi libri sulla
mafia di cui Da cosa nasce cosa si può considerare
uno dei suoi più pregevoli lavori.
Scrittore molto determinato nelle sue accuse al
potere, alla mafia, alla società civile che ritiene troppo spesso succube o complice, duro e polemico nei
riguardi di una classe dirigente inadeguata che nei suoi
libri denuncia senza titubanze.
Il suo ultimo lavoro L’uomo senza storia segna il
ritorno dell’autore al romanzo, in questo caso un
thriller politico che traccia un quadro impietoso di un
Paese vittima della corruzione e oscurato da troppe
ombre.
Nel corso del dibattito Caruso ha parlato del suo
rapporto con Catania, un rapporto doloroso di amore-odio che nasce dalla lucida consapevolezza che la
sua città ancora non ha avuto la forza di ri-sorgere, di
ri-pulirsi…e non soltanto metaforicamente!
Ma il filo conduttore dell’incontro è stato sempre
il giornalismo, di cui Caruso non ha nascosto il grande
rimpianto, anzi, come l’ha definito “…una ferita
aperta nel mio cuore, che non si rimarginerà mai”.
Un Giornalismo con la “G” maiuscola quello di cui
ha parlato Alfio Caruso, un Giornalismo senza compromessi e/o condizionamenti. Alla domanda “come
sta il giornalismo oggi?” il giornalista risponde con
ottimismo: “Il giornalismo vive da sempre fasi alterne. Adesso si sta vivendo un momento di reflusso,
ma verranno certamente dei tempi migliori!”
Agata Rizzo
Baby Consiglio a Palazzo “Alessi”
Alunni della “Virgillito” accolti nell’Aula Consiliare
Nella splendida cornice di Palazzo
Alessi, Sede istituzionale e di rappresentanza del Comune di Paternò, restituito alla Città in tutto il suo antico splendore da un’opera di ristrutturazione durata anni, si è svolta la cerimonia d’insediamento del Baby Consiglio della IV
D.D. “M. Virgillito” di Paternò.
Accolti nell’Aula Consiliare personalmente dal Presidente del Consiglio Comunale Alfio Virgolini, dall’Assessore
alla P.I. dott. Salvatore Gelardi e da altri
Assessori e Consiglieri componenti la
Commissione della Pubblica Istruzione
e la Giunta, gli alunni e le alunne della
baby Istituzione hanno vissuto l’emozionante e significativa esperienza di
partecipazione attiva alla vita istituzionale della Città. La cerimonia si è
svolta alla presenza del Dirigente Scolastico, prof. Salvatore Musumeci,
dei genitori dei baby consiglieri, emozionati quanto i loro figli, e della
numerosa scolaresca delle classi IV e V dei plessi Ardizzone e Falconieri,
accompagnati dai loro insegnanti. Il Presidente del Consiglio Alfio Virgolini, prima del giuramento, ha rivolto ai ragazzi un discorso propedeutico
relativamente ai compiti e alle funzioni del Consiglio Comunale della Città
e dello stesso Baby Consiglio che ha, nei confronti del Consiglio Comunale
e della Giunta, funzioni propositive e consultive su temi che attengono il
mondo dei ragazzi. A questo proposito Baby Sindaco e Giunta hanno
presentato il loro programma che è stato accolto con grande considerazione
e apprezzamenti da parte di tutta l’assemblea. Anche il D.S. prof. Salvato-
re Musumeci, rivolgendosi ai propri alunni, ha voluto ricordare l’importanza di
tale esperienza che permette ai ragazzi
di maturare un più profondo senso civico e di partecipare attivamente al miglioramento e allo sviluppo della propria comunità.
Gli alunni componenti il Baby Consiglio d’Istituto, con in capo un Sindaco
dai colori rosa (W le Pari Opportunità!),
Vice Sindaco, Segretario, Assessori e
Consiglieri, seguiti dalle referenti del progetto insegnanti Maria Antonietta Asero
e Francesca Caccamo, hanno, infine, prestato giuramento secondo il protocollo
dei loro più anziani “colleghi”. Il Presidente Alfio Virgolini ha ricordato che
dopo l’insediamento di tutti i Baby Consigli delle scuole dell’obbligo della
Città, ci sarà un ulteriore incontro per eleggere il Sindaco unico delle scuole
ed un Vice Sindaco, mentre tutti gli altri Sindaci formeranno la Giunta.
Questa la composizione del Baby Consiglio: Torcisi Valentina (Sindaco)-Rapisarda Giuseppe (Vice Sindaco) - Scapolaro Simone(Presidente del
Consiglio)-Paternò Luca(Segretario)-Di Fazio Luca (Assess. All’Ambiente)- Tosto Monica (Assess. Alla Cultura)-Fiorito Riccardo(Assess. Alle
Politiche Scolastiche)-Castelli Angelo(Assess. Allo Sport)-Caponnetto
Edmea(Assess. Alle Relazioni Sociali) e i /le consiglieri/e: Scudo Fabio,
Spoto Luca, Furnari Vanessa, Bongiovanni Giovanni, Bauso Luana, Parisi
Agata, Cartalemi Daniele, Emmanuele Giorgia. Ins.Referenti: Maria Antonietta Asero/Francesca Caccamo
A. R.
Busacca accompagna il regista
in campagna: nella casa semidiroccata giacciono ammucchiati dischi, libretti e cimeli che dopo qualche tempo andranno distrutti. Scimeca gli
propone la partecipazione ai film:
“Un sogno perso”(Nino Busacca
ricorda una bella mangiata di fave!) e
“Il giorno di San Sebastiano. Con la
calda voce che ricorda quella di Cicciu, Nino cita a memoria: “Cento anni
fa in questo stesso luogo regnava il
silenzio! Solo un cane abbaiava, aspettava invano il padrone che aprisse.
Un secolo è passato da quel giorno.
Cos’è un secolo davanti alla storia?
Era il giorno avanti la festa di San Sebastianu Anno Domini 1893. In un
paese chiamato Caltavuturro viveva
una famiglia.! In questo film ho fatto
il “cuntastorie” e non il “cantastorie…” dice Nino al colto Pasquale
Scimeca. Siamo nel 1993. Guadagna
cinquecentomilalire e l’albergo tutto
pagato…! Su invito di Cicciu, continua Nino, incisi a Catania presso il
Maestro Aiello Duminicu cardiddu.
Cicciu era generoso ogni bollino della SIAE costava 500 lire! Non ho
mai preso, come Cicciu , diritti d’autore.” Tutti a Paternò e dintorni conoscono Nino Busacca. Qualche
anno fa lo accompagnammo a Polizzi Generosa. Cantò “Giulianu Re dei
Briganti”. Ci fermammo per due gior-
ni: la gente conosceva a memoria le
opere di Cicciu Busacca, ci chiedeva
i libretti e i dischi... Il successo fu
enorme!
Ci sono ancora dei cantastorie?
«I cantastorie erano quelli che andavano nelle piazze a buscarsi il
pane».
Appassionato della natura, ogni
mattina, dopo aver preso un caffé ai
quattro canti, va, accompagnato dalla moglie, in campagna e soffre per le
arance che non si vendono.
Progetti per il futuro?
«Cantare. ma non ho più la bella
voce di una volta. Ho una nipote,
Pamela Trovato, studentessa universitaria che canticchia!»
Nell’epoca delle emmesseesse
Nino Busacca, sempre accompagnato dalla moglie, quando lo chiamano
al circolo degli anziani o nelle scuole, continua a testimoniare la capacità dell’uomo di recitare versi con la
passione di chi vuole ancora “cuntare e cantare” alle nuove generazioni
che rischiano di restare senza memoria.
Canta fatti, storie ricche di emozioni che fanno parte delle collettive
tradizioni popolari, conservate con
geloso orgoglio perché custodi della
Banca della memoria della nostra generosa terra.
Nino Tomasello
“Io ho diritto a…”
Educazione alla Legalità alla “M. Virgillito”
Da sx: la D.S.A. rag. Anna Maria Corallo, l’ins. Maria Antonietta Asero, il
giudice Filippo Milazzo, il D.S. prof. Salvatore Musumeci e il Sindaco del Baby
Consiglio Valentina Torcisi
Nell’ambito del progetto di Educazione alla Legalità “Io ho diritto a…” della
IV Direzione Didattica “M.Virgillito” di Paternò si è tenuta una relazione/dibattito sul tema “Legalità 腔, rivolta ai genitori degli alunni della Scuola dell’Infanzia e Primaria, relatore il giudice dott. Filippo Milazzo.
L’incontro, organizzato dall’insegnante Maria Antonietta Asero, funzione
strumentale al POF e referente del suddetto progetto, è stato il primo di una
serie d’incontri programmati nell’ambito dell’Educazione alla Legalità, ovviamente con percorsi differenziati, destinati ad alunni, genitori e docenti.
Le tematiche inserite in questo programma fanno riferimento a problematiche di estrema gravità ed attualità quali il bullismo, la pedofilia, la pornofilia .
L’esperienza del giudice in campo di tutela ai minori ha messo alla luce
situazioni di drammatica quotidianità che hanno chiamato in causa le responsabilità di famiglia, scuola, società, istituzioni.
“Il rapporto minori/violenza sta assumendo proporzioni sempre più allarmanti,-ha dichiarato il giudice Milazzo-, infatti numerose indagini sul campo
dimostrano quanto frequentemente bambini ed adolescenti siano vittime di
abusi .
E il dato più sconvolgente è che proprio in famiglia si consumano sui minori
violenze fisiche e psichiche con una percentuale di frequenza insospettata.”
Il dott. Milazzo nella sua relazione ha messo a fuoco un altro problema
emergente sulla tutela dei minori che oggi merita di essere particolarmente seguito per la sua potenziale pericolosità: il rischio internet, ovvero i pericoli dei
“cattivi incontri” in cui i ragazzi si possono imbattere navigando, senza il
controllo degli adulti, su internet.
Il D.S. prof. Salvatore Musumeci, nel ringraziare il dott. Filippo Milazzo
per la disponibilità dimostrata nell’accogliere l’invito della scuola, i genitori
intervenuti e l’insegnante Maria Antonietta Asero per l’impegno profuso nel
portare avanti il progetto di Educazione alla Legalità, ha sottolineato la responsabilità della Scuola per quanto attiene la formazione civica degli alunni, futuri
cittadini del terzo millennio e la grande valenza educativa dei percorsi sull’Educazione alla Legalità che, a partire dalla Scuola dell’Infanzia, intendono fare
acquisire ai bambini e alle bambine il concetto di norma, ovvero la conoscenza
attiva delle regole della convivenza civile e democratica, e i valori fondamentali
quali il rispetto per tutti gli esseri umani, l’amicizia, la lealtà, l’onestà, la pace,
l’amore universale.
A. R.
8
Arte Cultura Tradizioni
Febbraio 2006
La donna tra consumismo e rivendicazioni
Rosa Luxemburg propose l’8 marzo come giornata di lotta internazionale
Ogni anno la festa dell’8 marzo viene vissuta dalla
maggior parte delle donne come un momento di svago,
di relax, un’occasione per uscire da sole con le amiche,
per concedersi una serata diversa all’insegna dell’allegria, del divertimento e talvolta della trasgressione, che
assume la forma dello spettacolo di spogliarello maschile.
Associare la festa della donna alla compagnia, alle
risate, all’ilarità è praticamente un assioma.
Fiorai e ristoratori non mancano di approfittarne
per vendere i profumatissimi mazzettini di mimosa e
per organizzare serate a prezzi esorbitanti.
Questa ricorrenza è entrata, dunque, a pieno titolo
nella logica del business e del consumismo, mentre
poche sono le persone che ricordano o conoscono
l’origine di questa data e le lotte di quelle donne che
tanto hanno combattuto, talvolta fino alla morte, per
migliorare la condizione femminile.
La festa dell’8 marzo rimanda ad un accadimento
tragico e doloroso, ad un sacrificio umano che non
avrebbe dovuto perdersi così facilmente nella coscienza delle donne. Era il 1908 quado le operaie dell’industria tessile Cotton di New York scioperarono per
protestare contro le terribili condizioni in cui erano
costrette a lavorare. Lo sciopero si protrasse per alcuni giorni, ma l’8 marzo il proprietario, Mr Johnson,
bloccò tutte le porte della fabbrica per impedire alle
operaie di uscire. Allo stabilimento fu appiccato il
fuoco e le 129 operaie prigioniere (tra cui diverse
italiane) morirono arse dalle fiamme.
In ricordo della tragedia, Rosa Luxemburg propose
quella data come una giornata di lotta internazionale a
favore delle donne. La decisione di associare a questa
festa un simbolo, la famosa mimosa, è tutta italiana e
risale al 1946. L’UDI (Unione Donne Italiane) stava
preparando il primo 8 marzo del Dopoguerra e si pose
il problema di trovare un fiore che potesse caratterizzare visibilmente la giornata. La scelta cadde sulla minosa in quanto il giallo esprime vitalità, forza, gioia; il
giallo rappresenta il passaggio dalla morte alla vita e
ricorda le donne che si sono battute, pena appunto la
vita, per la nascita di un mondo giusto.
Dal 1908 ad oggi il percorso verso l’emancipazione della donna è stato lungo, complesso e tortuoso, ma
grandissime sono state le conquiste e gli obiettivi raggiunti. Dopo le lotte per il riconoscimento del diritto di
voto, ottenuto nel 1946, è di fatto negli Anni ’70 che il
movimento di liberazione (MLD) della donna cono-
sce un’intensa fase di sviluppo, opponendosi al cosiddetto “sciovinismo maschile, ossia ad una società
diretta esclusivamnete da maschi.
Il movimento femminista affida soprattutto al gesto e alla parola il proprio senso e non si pone il
problema della trasmissione nè politica, nè storica del
suo patrimonio, nella pretesa di essere la politica, di
essere la storia. Volantini e manifesti, spesso senza
data, nè luogo, nè firme sono documenti consueti prodotti negli anni ’70.
L’inizio del movimento coincide con la crisi “di
genere” del movimento studentesco, nel quale l’alleanza tra giovani donne e uomini contro l’autoritarismo
del modello scolastico e familiare si sfalda alla luce
delle contraddizioni di sesso.
Nel biennio 1970-71 nascono infatti molti dei gruppi femministi storici, dai quali prenderà le mosse la
fitta rete di collettivi che rapidamente si estenderà su
tutto il territorio nazionale.
Tra luglio e settembre del 1970 nasce Rivolta Femminile che pubblica immediatamente il suo manifesto.
Attorno alla figura di Carla Lonzi, forse al mente più
geniale del femminismo italiano, si aggrega un gruppo
che pone al centro l’autocoscienza e che rompe con la
cultura patriarcale inaugurando un movimento di deculturizzazione fondato sulla mesa a fuoco di una sessualità autonoma delle donne. Al primo manifesto seguirà la pubblicaziomne di molti scritti: Sputiamo su
Hegel (1970), La donna clitoridea e la donna vaginale
(19771), Sessualità femminile e aborto (1974) che
comporranno assieme ad altri scritti un corpus teorico
e politico col quale si confronterà il movimento per
tutto il tempo in cui i temi della sessualità femminile
saranno al cento del dibattito politico.
È pure questo il clima politico in cui i gruppi per il
salario al lavoro domestico, nati attorno all’esperienza
di Lotta Femminista, si moltiplicano a vista d’occhio.
Punto di partenza della riflessione è l’individuazione
di due aree di oppressione femminile, la fabbrica e la
casa. La rivendicazione della produttività del lavoro
domestico approda via via all’individuazione di tutte
le questioni correlate: controllo sui tempi di vita e di
lavoro, potere dei soldi, salute, autodeterminazione
della maternità, tutti fatti che sostengono la necessità
di un salario da pagarsi da parte dello Stato, quale
strumento di accesso delle donne ad una cittadinanza
compiuta. In modo particolare è il tema dell’aborto
che si impone con forza. L’MLD propone di raccogliere firme per presentare una legge di iniziativa popolare che abolisca il reato di aborto. Il punto di partenza è la constatazione che in Italia, su 3000 aborti
clandestini praticati ogni anno, solo 200 vengono individuati e perseguiti. Ciò significa che un comportamento femminile ricorrente e secolare nel momento
stesso in cui avviene a dispetto di ogni legge, pone le
donne di fatto fuori legge. La logica conseguenza è che
le donne soffrono di un difetto di cittadinanza a causa
di un diritto civile negato: diritto alla salute e all’autodeterminazione. Pertanto riconoscere il diritto di aborto significa reintegrare le donne nella legalità, nella cittadinanza. Siamo nel 1971 e Carla Lonzi riassume il
nocciolo della questione intorno alla domanda che ogni
donna dovrebbe porsi : “Per piacere di chi sto abortendo?”
Ai molti aborti clandestini si risponde con aborti
alla luce del sole, autogestione, autocoscienza prima e
dopo l’intervento, la gratuità e la scelta delle case private attrezzate per la circostanza.
Nel maggio 1978 la legge 194 sarà approvata sancendo soprattutto un diritto inaudito fino a quel momento: l’autodeterminazione della donna.
In molte città italiane si apre una stagione di lotte
articolate, che rilanciano la “questione femminile” alla
responsabilità delle amministrazioni locali per chiedere l’applicazione della legge in un quadro più ampio di
richiesta: salute, informazione, servizi, spazi.
Contemporaneamente, dai centri antiviolenza aperti
un pò ovunque dai collettivi e dall’MSD arriva la spinta
a porre sull’agenda del Movimento la questione della
violenza sessuale. Anche qui, un comportamento maschile millenario diventa improvvisamente intollerabile alla coscienza mutata delle donne.
Agli inizi degli anni ’80 due sono gli snodi del dibattito interno al Movimento: il lesbofemminismo, che
elabora attraverso alcuni convegni la sua autonomia e i
suoi legami con il femminismo eterosessuale; il femminismo antinucleare e pacifista, che prende le mosse
dall’installazione di missili atomici in alcune basi NATO
in Europa.
Tra gli anni ’80 e gli anni ’90 il rapporto tra donne
e conoscenza si estende a tutti i campi del sapere:
cinema, teatro, letteratura, architettura, musica, religiosità e quant’altro. Il pensiero delle donne viene elaborato dalla riflessione filosofica come pensiero della
differenza; non differenza-inferiorità ma differenzavalore: la donna non va definita in rapporto all’uomo.
L’uomo non è il modello cui adeguare il processo di
scoperta di sè da parte della donna, perchè la donna è
altro rispetto all’uomo così come l’uomo è altro rispetto alla donna.
Infine, anche se sin dagli anni ’80 il tema dei diritti
politici e delle libertà delle donne nel contesto della
democrazia occidentale riempie i volumi e le sale dei
convegni, la questione ancora aperta è quella della cittadinanza femminile incompiuta: il nome dei figli, la
sovranità del proprio corpo, l’inviolabilità, la maggiore presenza nel mondo politico.
La difficoltà di tradurre la consapevolezza del diritto in cittadinanza compiuta è quindi il nodo che il
Movimento delle donne dovrà sciogliere in questo
nuovo millennio. Durante tutti questi anni di lotta e di
protesta, la festa della donna è stata vissuta dai gruppi
femministi come momento centrale di riflessione, organizzazione e messa a punto di progetti di rivendicazione. Sbalordisce e amareggia, quindi, che al di fuori
del Movimento e dei gruppi organizzati la festa dell’8
marzo sia vissuta dalle donne semplicemente cone
una “serata diversa”, nello spirito del semel in anno
licet insanire, per essere pronte l’indomani a riprendere i ruoli di madri, mogli, figlie,
sorelle, angelo del focolare, docili e sottomesse al senso del
dovere.
Occorrerebbe riappropriarsi in modo nuovo di questa giornata, con senso critico. L’8 marzo dovrebbe essere un momento di riflessione, non di mero divertimento; la mimosa non dovrebbe
essere un dono che lusinga,
ma il simbolo consapevole di
un sacrificio, di una lotta che
dura da anni; dovrebbe essere
il grazie sentito che ogni donna rivolge a chi oggi le consente di uscire e viaggiare da
sola, di istruirsi, di lavorare,
di abortire, di votare, di divorziare, di essere, insomma,
una perona compiuta.
Chiara Pesce
La vie en rose
Amore e serenità nei “colori dell’anima” di Emilia Cigno
Sarà proprio il volto
sorridente di una fanciulla
in rosa, simbolo di una auspicata libertà per la donna del nuovo millennio,
che accoglierà i visitatori
della mostra antologica
“I colori dell’anima” del
maestro Emilia Cigno che
si inaughererà il 4 marzo
creando un ideale collegamento con la festa della
donna.
Emilia Cigno Pesce Villaroel, cugina del famoso
poeta Giuseppe Villaroel,
vive da ottantanni un intenso ed amoroso rapporto con la pittura.
Amore è la parola più
indicata per descrivere il
suo mondo interiore e pittorico: amore per la vita,
amore per l’arte e amore
per il prossimo. Emilia
come Emily Dickinson,
una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, vive
nell’ “ortus conclusus” del
suo “grande piccolo cuore” in cui tutto accade:
passa la nuvola, sbocciano tripudi di peschi, di
mandorli, il mare si adombra e si rasserena… .
Un mondo sotto incantesimo d’amore, estremamente reale ed al contempo totalmente magico, dominato dalla bellezza, dalla gioia e descritto con pennellate frementi, decise, musicali, personalissime.
Esiste un’arte al femminile e la Nostra Artista la incarna in tutta la sua
raffinata schiva esuberante dolcezza. E’ quindi
un mondo al femminile il suo, fatto di giovani
donne, di occhi e sguardi profondi, di aneliti di
libertà femminili, di sorrisi e voci di bimbi.
Mondo di affetti familiari che è rappresentazione alchemica del macrocosmo nel microcosmo.
La Cigno segue i dettami di una pittura “piccola”, fatta di quotidiano, che nasce dal classicismo ottocentesco italiano di Fattori, di Lega e
dei Macchiaioli da cui trae quella scomposizione e rarefazione della materia in luce, come nel
delizioso ritratto della nipotina Paola. Proprio
quei rosa tenerissimi, quei celesti tenuissimi che
Rudolf Steiner nella sua teoria dei colori definisce i colori della spiritualità incarnata.
Se gli occhi sono specchio dell’anima lo
sguardo pittorico di Emilia Cigno ci disvela i
colori della sua anima tratteggiando paradisi di
quotidiana ed inviolata serenità dove sostare e
vivere una splendita vie en rose… … …
Alehina Musumeci
Operaie invisibili fuori moda
Mascalucia vanta ancora l’antica tradizione delle ricamatrici
Sebastiana Nicoloso
Accanto al mondo del consumismo sfrenato e della produzione industriale, ve n’è un altro antico e prezioso: è il mondo delle ricamatrici, di
cui Mascalucia vanta una lunga tradizione.
Queste operaie invisibili, perchè
poco conosciute e fuori moda, che
hanno fatto del ricamo e del cucito
arte e fonte di sostentamento, ancora
oggi realizzano con le loro mani anziane e stanche veri e propri capolavori.
D’estate i quartieri storici di Mascalucia brulicano di queste donne che
si riuniscono in strada per ricamare e
raccontarsi le storie della loro vita,
evocando suggestivamente la “vecchiarella” leopardiana che sedeva con
le vicine a filare e a ricordare i giorni
passati.
D’inverno, invece, ogni ricamatrice lavora nella sua casa, in solitudine,
spesso davanti ad una finestra, per
potere sfruttare fino all’ultimo raggio
di sole che le consente di portare avanti il suo lavoro.
È proprio vicino ad una porta con
grandi vetri che troviamo la signora
Jana, intenta a ricamare il corredo per
la nipote.
Quanti anni aveva, signora, quando ha iniziato a ricamare?
«Già a sei anni mia madre mi mandò da quella che noi chiamiamo “la
mastra”, dove ho imparato a cucire e
a ricamare. Da allora non ho più smesso».
Quanti tipi di lavorazione è in grado di realizzare?
«Tutti i diversi tipi di punti del
ricamo, ad esempio, punto pittura,
catenella, assisi, pieno, ombra, erba,
intaglio... . Inoltre so lavorare a maglia, ad uncinetto e a tombolo».
Quante cose ha prodotto nel corso della sua vita?
«Non è facile contarle tutte. Le
basti pensare che ho ricamato il corredo per quattro generazioni: la mia,
quella delle mie figlie, quella delle mie
nipoti e pronipoti. Così avranno sempre un mio ricordo. Ogni volta che
apparecchieranno la tavola, faranno
il letto o metteranno le tovaglie in
bagno, si ricorderanno di questa mamma e di questa nonna che per loro ha
fatto tanto».
Dei doni sicuramente preziosi,
unici, dal valore affettivo inestimabile e frutto di lungo lavoro e fatica.
Infatti, « per realizzare, ad esempio,
una coperta occorrono dai due ai tre
mesi, lavorando dodici ore al giorno»,
ci spiega la signora Mimma, probabilmente la più brava ricamatrice del
paese che, nonostante i suoi settantasei anni, ricama ancora come il primo giorno. «Ecco perchè una coperta
ricamata a mano non costa meno di
1.500 euro. È come se fossimo dei
pittori che, usando ago e filo, diamo
forma e colore alle nostre piccole
meraviglie. Ogni pezzo è unico, realizzato con amore, dedizione, cura e
soprattutto grande fatica. Perchè,
vede, ormai tutte le ricamatrici abbiamo una certa età, i nostri occhi non
sono più quelli di una volta! Lo sforzo è immenso e l’attenzione deve essere massima, perchè anche il più
piccolo errore può rovinare giorni e
giorni di lavoro».
C’è molta fierezza in queste donne: è la dignità di chi ha passato gran
parte della propria vita piegata su di
un telaio, spesso anche per “portare
il pane a casa”. «Mio marito guada-
gnava poco», ci racconta la signora
Mimma, «avevamo tre bambini, dovevano mangiare, dovevano andare a
scuola... . Per questo da lunedì mattina a venerdì sera ricamavo senza sosta, senza avere la possibilità di dedicarmi ai miei figli, alla casa, a mio
marito, a me stessa. Anche oggi che
sono anziana passo la mia giornata a
ricamare per arrivare a fine mese, perchè la pensione non basta. Il ricamo è
anche il mio conforto e mi permette
di alleviare la solitudine e il dolore
per la perdita di mio marito».
Ma vi è anche amarezza e malinconia nelle voci di queste donne per-
chè consapevoli di essere le ultime
depositarie di un’arte che va scomparendo. Infatti non c’è più nessuno
che abbia la voglia o il tempo di impiegare dei mesi per confezionare un
lenzuolo, è molto più semplice entrare in un negozio ed acquistarne uno.
Così nell’arco di poche generazioni le
nostre tavole e i nostri letti saranno
anonimi, freddi e tutti uguali.
Pochi saranno i fortunati che guardando una coperta sentiranno il calore di una mano, rivedranno un dolce
sorriso, ricorderanno tutto l’amore di
una persona cara.
C. P.
Terza Pagina
Febbraio 2006
9
Chiacchierata con Alessandro Quasimodo
“La poesia è suono, è parola al di là della parola”
“La critica cosiddetta ufficiale, per non
parlare di quella accademica, si è macchiata di
azioni vergognose che spesso hanno mistificato il senso della poesia e del suo farsi”. Gli
spaghetti al nero di seppia gli fumano davanti, mentre i suoi occhi chiari scrutano un punto lontano del mare, una nicchia d’acqua tra la
nera scogliera e le barche in secca dell’inverno.
Alessandro Quasimodo, attore e regista,
vissuto “per nascita” in un clima ricco di spunti e di raffinate ispirazioni, tra poeti, artisti e
critici militanti, ci racconta con la sua voce
fascinosa e profonda, della sua familiarità con
la poesia e senza lasciarsi ammaliare dal suo
piatto preferito continua con straordinario ma
pungentissimo aplomb: “Pensate a quanto
abbia pesato il giudizio di Benedetto Croce
su una poetessa come Ada Negri, relegata al
ruolo di una modesta maestrina col pallino
del verso; lei che con inusuale franchezza, per
la società italiana del tempo, fortemente cattolica e conservatrice ruppe con la tradizione
non solo lirica di quell’Italia…”
E i poeti siciliani? – chiediamo noi – provocatoriamente…
“I nostri hanno una statura universale, non
hanno bisogno del mio… patrocinio”, risponde lui accingendosi con discrezione ad assaporare una pepata di cozze. “Vedi – aggiunge
– la poesia muore quando cominciano le parafrasi, le note a margine, le analisi testuali. Non
si possono ridurre Dante e Leopardi ad una
questione - come dire - autoptica. La poesia
è suono, è parola al di là della parola…” Cioè
la poesia di cui Alessandro Quasimodo si è da
sempre nutrito.
E proprio in nome della poesia Catania lo
ha accolto, per la presentazione di “Mediterranea”, la plaquette di Paolo Lisi, in occasione della rassegna “Interminati Spazi” della Biblioteca comunale di Misterbianco.
“Sono legatissimo a questa terra che è anche mia. Anche se ho sempre vissuto al nord,
nella Milano nebbiosa, l’amore per questa terra
contraddittoria, amara e meravigliosa, mi chiama continuamente”. E tra la sua abitazione di Siracusa, gli amici catanesi, i tanti ricordi di famiglia, il lavoro di attore, Alessandro Quasimodo ha fatto
dell’isola la sua casa ideale…
“Chiarisco subito – sottolinea gustando un bicchiere di
bianco ghiacciato – che non è una scelta solo
professionale: nello scorrere degli anni, la mia
esperienza di attore-specializzato nella lettura dei versi e membro di un paio di qualificate
giurie di premi letterari, mi ha affinato l’orec-
chio a distinguere tra ciò che arriva ad un esito
lirico e ciò che meglio sarebbe lasciare in un
cassetto…” .
E le seppie? “Anche queste sono poesia…”
Giuseppe Condorelli
“Viaggio in Sicilia”
La cornucopia siciliana di Matteo Collura
Leggere In Sicilia (Longanesi & C.,
2004), di Matteo Collura (scrittore, saggista, studioso e biografo di Sciascia) significa entrare in un’avventura intellettuale folta di emozioni, memorie, sollecitazioni letterarie morali politiche. Un
po’ come (ci si passi il frusto topos) rifare il suo viaggio in questa terra dai molti
aspetti e seduzioni, dai troppi e coinvolgenti (stendhaliani?) contrasti. Merito di
una scrittura fluida calda vibrante; di una
flessibilità mimetica capace di aderire alla
variabile sostanza (drammatica, pittoresca, grottesca) di eventi, persone e personaggi, Ma anche merito della Sicilia,
della sua materia umana storica ambientale, che quasi impone la sfaccettata fitness espressiva qui segnalata. Magari fino
ad occasionali “trasgressioni” cripto-barocche o saltuarie scommesse espressionistiche, che alzano, in ispirata randomness, il livello della misura prevalente. E allora ci si può imbattere in lave
che “fanno pensare a corsi d’acqua pietrificati d’un colpo”, in una luce “che
esplode” “improvvisa” con una “impressione di tuono [...] e si sfilaccia in una
raggiera di vibrazioni”, in un castello [di
Milazzo] che, “investito dall’immenso
riverbero marino, sembra imbaldanzirsi”. Non basta: su un “istoriato promontorio [...] la luce può colpire come uno
scudiscio” e in cielo “lampi squamosi si
avvertono, come recassero ostinati riverberi tratti dall’immenso barbaglio intorno”
Tanta varietà, dunque, in questo viaggio a più dimensioni, ma con una costante, che l’autore rivela fin dalle prime pagine, una musa dal nome “pesante”, più
spesso invocata che onorata dai “vocati
alla penna”: insomma, la verità. La quale, di norma, si fa strada a stento, fra
molte insidie, e molto seducenti tentazioni mistificanti, che crescono più numerose e insinuanti quando l’autore si
cimenta con l’oggetto della passione dominante: come può essere la Sicilia per
un siciliano doc. Allora quell’impegno di
verità implica una tensione esclusiva che
non sarà mai troppa contro le multiformi sirene in agguato: letterarie, estetizzanti, localistiche, ideologiche. A fronteggiare queste ultime, soprattutto, occorre una vigilanza severa fino allo spa-
simo: tante sono le storie seduttive e i
personaggi memorabili, in perfetta reciprocità di osmosi tra realtà e letteratura,
vissuto quotidiano e teatralità in cerca
d’autore. Una cornucopia di doni dolcissimi e trucidi, colorati delle splendenti tavolozze dei tramonti alpestri e delle
aurore marine, odorosi di zagare e alghe,
ma anche di zolfo tartareo e di sangue
rappreso intorno a corpi stuprati da lupara o kalashnikov, a volti disfatti dal
piombo proditorio. La lupara, le lupare:
che dalla malavita canonica stendono
tentacoli di lava ingrottata fino all’economia predatoria legale e alla politica,
ch’è tanto fragorosa di altisonanti appelli morali, quanto baldracca di complicità molteplici con i signori del piombotritolo e del “prodotto” elettorale.
A suonare il là per l’intero percorso
esplorativo è la visita ai luoghi storici
della Sicilia recente: in primis quel Cassibile che visse un momento decisivo di
storia contemporanea e ne ha praticamente cancellato la memoria. Scomparso l’uliveto come la tenda che vi fu eretta
per firmarvi l’armistizio del 3 settembre
1943: gli eredi della “marchesa di Cassibile” hanno sostituito gli ulivi con aranci
e “stalle, dove teniamo le mucche”. Così,
una donna del luogo, che aggiunge, con
dimessa ovvietà: “Noi viviamo di questo”. La buona massaia precisa che “in
trentasei anni” non li aveva “mai visti”, i
mitici ulivi irrigati di storia. Invisibile
anche “la scritta che ricorda la firma dell’armistizio”. Un “residuo” della quale
si trova, quasi nascosto, in una lapide
attaccata a un monumentino davanti a
una chiesa di San Giuseppe. Un test
emblematico per una verità antropologica: “noi siciliani siamo tutti inquilini della storia” (come recita uno di quei personaggi “malati” di lucido disincanto), e
magari ce ne pavoneggiamo; ma siamo
afflitti, anche, dall’ “ansia di esserne
sfrattati”. Ci pesa quella spropositata
mole di “magnifiche civiltà eterogenee,
tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi”, in venticinque secoli di invasioni, orrori e splendori, false
liberazioni (dagli antichi Romani ai marines dalla pistola facile) che ci hanno
resi perenne e reiterata colonia. Perciò
“Il sonno, caro Chevally, il sonno è ciò
religione: offre spunto per un cenno più
disteso al suo potenziale distruttivo.
Religione arcaica, dunque sacrifici umani. Oggi, con religioni tanto evolute (!), si
dà per scontata la loro sparizione. Ma
ecco il punto: ne siamo sicuri? Di espliciti, certo, non se ne vedono (a parte il
caso estremo del martirologio stragista
islamico). Ma la religione che li imponeva è proprio morta? Il dio Moloch, ghiottone che preferiva la tenera carne dei
bambini fenici, è davvero sparito, dissolto nel simbolismo dell’eucaristia farinacea? C’è da dubitarne. Si spinga lo sguardo un po’ sotto la superficie, e si potrà
scorgere tutto un pullulare, appena velato, di sacrifici umani indiretti: Portella
è uno di questi. Il Moloch in causa è la
bulimia midiaca: Moloch è l’altra faccia
di Mammona. E la sua ingannevole maschera idilliaca è il dogma del libero mercato auto-regolantesi per il bene di tutti.
Anche questo è un “nome bugiardo”,
che promette mirabilia, anch’esso, ma
dà ricchezza o benessere a pochi barracuda e disinvolti affaristi, povertà ai molti
e miseria ai troppi variamente svantaggiati nella giungla sociale del bel pianeta
azzurro. Anche perché la leale concorrenza è un bel sogno che non s’è
mai tradotto in realtà, con buona
pace delle varie Authority antitrust. Quella scritta in pietra sul
“massacro per mano della mafia e
degli agrari” avrebbe potuto essere lo squillo di verità del risveglio
isolano: ma i siciliani amano il sonno. Bella metafora il sonno, per
dire che, nella maggioranza, se ne
strafottono dell’interesse generale, della comunità, dei nobili “comandi” di un’etica sempre lodata
in verbis e altretUna scrittura fluida calda vibrante; tanto snobbata
in rebus. Come
di una flessibilità mimetica capace la storia, le cui
guardiadi aderire alla variabile sostanza vestigia
mo o come materiali da costrugiurassico (10 maggio 1947)? Uno dei zione del nuovo (magari un Porto di Girmolti (nemmeno il primo) crimini orche- genti) o come molesto impedimento alle
strati dal connubio che avrebbe segnato villette abusive. Portella invece di un rila storia della Sicilia otto-novecentesca e sveglio inaugura una lunga catena di morti
continua a pesare come macigni inamo- ammazzati, esercizio e prodotto di quel
vibili sull’incipiente terzo millennio: la volto rumorosamente feroce del capitacomplicità fra malavita, economia e po- lismo perenne (business über alles!) che
litica (interna ed estera), i cui (ne)fasti la è la mafia: da Pietro Scaglione a Gaetano
cronaca continua a celebrare mentre ne Costa, dal superprefetto Dalla Chiesa
scriviamo. Il bilancio di quella viltà as- (“fatto venire in Sicilia per approntargli
sassina fu di “undici contadini uccisi, tra un bel funerale”, secondo “un più realicui una donna incinta e tre bambine”. A stico scetticismo”), a Rocco Chinnici e
ricordare l’eccidio restano undici dolmen ai suoi allievi Falcone e Borsellino, eroi e
“una piccola folla di massi” (che ricorda- martiri della Comunità (o ingenui, cioè
no la “misterica teoria di menhir” di Car- cretini, secondo logica e competenza del
nac, in Bretagna, “segni di una religione giudice Carnevale di buona memoria? La
arcaica”.
stessa, più o meno, dei siciliani sperti
Una tentazione, il riferimento alla che con quello spiccio qualificativo liche i siciliani vogliono, ed essi odieranno
sempre chi li vorrà svegliare, sia pure
per portar loro i più bei regali”.
Le celebri parole del principe di Salina risuonano come un refrain di sottofondo in tutto questo, più che lungo,
diremmo largo, e forzatamente selettivo, viaggio nella Sicilia. Una terra ricca di
aspetti contraddittori, si diceva: nella sua
realtà fisica e nella sua tre volte millenaria storia politica economica culturale.
Tanto ricca e contraddittoria, questa scaglia di globo, ma anche così “fascinosa”,
nel suo bene e nel suo male, da costringere, a dolorose rinunce. Che riescono a
imbarazzare perfino una recensione, per
sua natura scarnamente parziale. Ma ci
aiuta l’autore con il suo incipit tranchant
su Portella della ginestra: una sorta di
ouverture che annuncia l’allure musicale
dell’intera composizione. Portella, un
nome gentile, ma legato a una tragedia
sordida. Dice bene Collura: “non bisogna credere ai nomi dei luoghi, in Sicilia.
Sono bugiardi, a volte, e promettono mirabilia”, ma ti danno solo sconforto e
desolazione. Quale nome più leggiadro e
promettente di Portella, con la sua chioma di leopardiane ginestre dorate dal pungente olezzare? e quale
meno veritiero,
se offre fisicamente soltanto “un ventoso passo di
montagna” e
storicamente
la barbarie di
una strage di
civili al servizio dell’uomo
quidavano l’incauto professor Laurana
nel “giallo” di Sciascia, A ciascuno il suo)
Ma l’accennato è solo uno dei tanti
volti della “bella Trinacria che caliga/ non
per Tifeo ma per nascente solfo”: un
altro è quello dei personaggi e dei suoi
autori. Eccone uno dei più intriganti: Giuseppe Balsamo, gabbamondo geniale,
sedicente Conte di Cagliostro, avventuriero capace di affascinare un Goethe,
un Carlyle, e altri grandi. Goethe, nella
Palermo del suo Viaggio in Italia, volle
conoscerne la famiglia, povera, negletta
e illusa di faraoniche ricchezze del congiunto lontano. Il poeta del Faust ne
ricavò pagine affascinate, largamente citate dal Collura. L’angolo di città, dove
marciva la povera casa di Cagliostro, s’imprime nella memoria del Viaggiatore.
“per la miseria che vi ristagna” e il fiero
contrasto con “l’abbondanza di barocco
di una chiesa che sembra delirare, al suo
interno, di decori marmorei e di ogni tipo
di ricchezza ornamentale”. Scendendo
verso i nostri tempi, la figura più seduttiva si identifica nel barone Raniero Alliata di Pietratagliata, scienziato, letterato, scacchista e (ossimoro vivente) cultore di occultismo. Scialacquatore del patrimonio, succhiato dal ventre vorace del
gioco d’azzardo, si chiuse in sdegnosa
solitudine nel suo castello. in cui Collura
riesce a penetrare con la preziosa guida
di Bent Parodi di Belsito, autore del Principe mago. Altro soggetto memorabile,
il nipote di Pirandello, indifferente al
valore venale di un autografo dello zio,
appesantito più che esaltato dal nome
ingombrante, solitario e scostante. Che
alla fine della visita confessa all’autore.
“Che mi importa di Pirandello: io ho il
cancro”. Un vero personaggio pirandelliano, un Uomo dal fiore in bocca in carne e ossa.
L’esempio del principe Alliata costituisce una specie di introibo alla constatazione di un’evidenza: il contributo maggiore al capitolo “personaggi” viene,
malgrado ogni contraria apparenza, dall’aristocrazia, da quei principi marchesi
baroni e gattopardi che hanno riempito
le loro esistenze privilegiate di riti, miti
gesti e interessi variamente mondani, ma
anche di vocazioni culturali e passioni
letterarie: i cugini Tomasi di Lampedusa
e Lucio Piccolo ne sono soltanto i picchi
più visibili; ma altri ve ne sono, meno
esposti ai soffi (così spesso capricciosi)
della gloria mediatica, non per ciò meno
significativi. Vite intense e sovente incise da umori ed estrosità al limite della
follia pirandelliana: impagabile la festa
organizzata dalla famiglia per il ritorno a
casa di un nobiluomo palermitano (parente del “principe mago”) al quale, “affetto da una grave malattia circolatoria,
erano state amputate le gambe”. A quella
lugubre dissonanza festaiola fu presente l’autore che la descrive: “Un elegante
ricevimento nel parco della villa, tra fontane e statue silvestri, la luna, ricordo,
luminosissima, contro le carnose pareti
dell’incombente monte Pellegrino. Nel
bel mezzo della cena, ecco arrivare il barone: il busto privo di gambe poggiato
su una portantina sollevata a braccia da
quattro robusti sherpa. Sorrideva come
benedicente, stralunato e svanito, quel
povero mutilato, che pure era stato un
uomo bellissimo, ammirato per la sua
eleganza, la sua classe, l’audacia nel condurre verso i vittoriosi traguardi le sue
automobili da corsa.” Si può concepire
nulla di più pirandelliano? “Una messinscena che davvero mandava tutto alla
malora, facendo di quella festa una caricatura blasfema del vivere e del morire,
togliendo sia all’uno che all’altro ogni
mistero e sacralità”
Folta la galleria di scrittori contemporanei convocati da Collura: da Brancati a Sciascia, da Pirandello a Bufalino,
senza dimenticare gli stranieri, da Steinbeck a Borges, per un dialogo e contrappunto suggestivo sui tanti volti della Sicilia impareggiabile: il territorio condizionante il carattere (ma fino a che punto?), in positivo e in negativo; la letteratura e cultura in genere, la storia, tragica da millenni. E piena di menzogne
interessate. Come accade, ancora oggi,
malgrado tante rivisitazioni storiografiche, col nostro Risorgimento e con
quell’altra mistificazione tuttora in
pieno vigore che presenta la conquista
anglo-americana come una generosa e
disinteressata Liberazione, e i “liberatori” come poco meno che angeli: severi coi diavoli nazi-fascisti, dolcissimi con i “liberati”. La musa Verità non
consente a Collura di ignorare i molti
“deprimenti quanto feroci e inutili
episodi” che ebbero come vittime ignari
civili e prigionieri di guerra protetti
dalla Convenzione di Ginevra. Vere e
proprie stragi, che cominciarono con
bombardamenti indiscriminati, in uno
dei quali furono massacrati trecento
bambini.
La luce e il lutto: questo titolo di
Bufalino riassume in un logo emblematico la sensazione prevalente che
l’Isola comunica al Viaggiatore con la
sua contraddittorietà camusiana (prima che brancatiana), che nel cuore nella luce scorge le tenebre, nel colmo dell’accensione vitale il ghigno fermo della morte: “E’ stato a questo punto che
la luce è parsa dirmi qualcosa, e il senso tragico della vita [...] mi è stato finalmente svelato. La luce [...] mi ha
mostrato il suo enigmatico doppio [...]
la sua componente luttuosa”.
Pasquale Licciardello
10
Cultura e Società
La Fidapa incontra Crepet
alle “Ciminiere” di Catania
Febbraio 2006
Lo psicologo
Pedofilia, fra storia e realtà
Il termine pedofilia deriva dal greco antico e vuol
dire”amore per i bambini”.
Tale termine nella cultura greca ebbe una connotazione diversa da quella che intendiamo oggi.
Infatti, nell’antica Grecia le famiglia ricche, non
esistendo ancora la scuola pubblica, mandavano i loro
figli da anziani precettori che, oltre ad iniziarli alla
grammatica, alla storia, alla filosofia ed alla retorica, si
curavano della loro formazione culturale e morale, onde
formarne ottimi dirigenti. Così fra docente ed allievo
nasceva un rapporto di stima ed affetto, che si riferiva
alle straordinarie doti morali, che l’allievo o il maestro
idealizzavano nell’uno o nell’altro.
A Roma, nell’età imperiale, omosessualità e pedofilia erano diffuse, come lo era la prostituzione sia
maschile che femminile, soprattutto di schiavi. Lo storico Svetonio nella vita dei Cesari ci parla dell’imperatore Tiberio che, durante il bagno con bambini, soleva
fare giochi sessuali. Non sappiamo se questa notizia
fosse vera o dovuta a semplice calunnia; tuttavia apprendiamo dalle fonti letterarie che la pedofilia non
intesa nel senso pedagogico come in Grecia ma in quello sessuale era una moda diffusa, anche se condannata
da tutti.
Nel Medioevo gravidanze in età prematura erano
nella norma come anche i rapporti fra parenti (nonni,
zii, cugini). Ciò era dovuto anche al fatto che gli spazi
nelle case erano piuttosto ristretti.
Nel 600 e nel 700 i bambini erano seriamente esposti al rischio di abusi sessuali -come si legge nei resoconti sulla condizione dell’infanzia dell’epoca- ove si
evidenzia la tendenza a ricorrere alla violenza diffusa
in tutte le classi sociali. Tutto questo perché era in
crisi il ruolo della famiglia come struttura di contenimento delle ansie. Questo clima d’incertezza innescava il bisogno di dominare e di costringere con la forza il
soggetto più debole; in molti casi l’oggetto di questa
violenza, che spesso era sessualizzata, era la donna,
ma era possibile che lo fossero anche i bambini.
In epoca vittoriana vi fu in Inghilterra un moralismo esasperato: i medici ed i preti sostenevano che la
masturbazione fosse dannosa per lo sviluppo e peccaminosa, al punto da suggerire ai genitori l’applicazione
di certe gabbie di contenimento dei genitali, che di notte venivano chiuse ermetica- mente e riaperte la mattina; tali strumenti erano a volte dotate di campanelli
per avvertire i genitori o gli educatori se i ragazzi si
toccavano le parti intime.
Nel 1892 Freud pubblica “Eziologia della isteria”, un articolo ove afferma che all’origine dell’isteria
c’è quasi sempre un’esperienza sessuale precoce e traumatica. Tale tesi portò a due conclusioni:la prima è che
una ogni donna affetta da isteria dovesse aver subito
una violenza sessuale in età infantile, la seconda è che
tali episodi sarebbero avvenuti in ambiente domestico
o con persone vicine alla famiglia.
Oggi la pedofilia esiste più di quanto noi vorremmo ammettere. Essa ha acquistato spazi ulteriori in cui
insinuarsi. Va considerato il ruolo di Internet, l’estrema facilità con cui i ragazzi imparano ad adoperare la
rete, avendo così la possibilità di visualizzare immagini pornografiche, che possono turbarli, dal momento
che non sono ancora in grado di comprenderne appieno il significato. Inoltre, la possibilità di ricevere e
scambiare immagini porno li espone al rischio di entrare in contatto con pedofili, che usano tali immagini per
adescare i ragazzi e stabilire con loro un dialogo grazie
ad apposite chat room in rete.
E’ quindi indispensabile che i genitori vigilino sui
siti web visitati dai ragazzi, vedere con chi parlano e di
che cosa. In tal senso è necessario dialogare con i figli
senza pregiudizi e senza giudicare, ma con l’obiettivo
di guidare, di consigliare, di vigilare affinché certe fantasie non diventino per i loro figli storie “strane”.
Roma, 8/02/06
Giuseppe Francaviglia
Al centro, la difficile comunicazine fra adulti e giovani
Le sezioni FIDAPA di Acicatena,
Acireale, Catania, Giarre-Riposto, Misterbianco, Motta Sant’Anastasia, Riviera dei Ciclopi e Sant’Agata Li Battiati, giorno 28 Gennaio, hanno organizzato, con il patrocinio della Provincia Regionale di Catania, un incontro
con Paolo Crepet, psichiatra e sociologo tra i più autorevoli nel campo della
psicologia e dello studio di certe dinamiche sociali che stanno alla base di comportamenti molto spesso devianti e di
difficile comprensione. Il tema è stato
davvero stimolante: “C’è ancora l’adulto
di riferimento? Quale guida per i nostri
figli?”.
Un pubblico attento e interessato,
costituito in maggioranza da donne,
donne impegnate nel lavoro, donne che
cercano in tutti i modi di essere presenti e attive a casa e nella famiglia. Punto
di partenza nella riflessione dello stu-
dioso il caso di Novi
Ligure. Protagonisti
Erika ed Omar, alle
spalle una famiglia come
tante altre. Quanti interrogativi; quante incertezze e perplessità.
Quanti silenzi e paure.
La solitudine impenetrabile dei giovani, la
difficile comunicazione
tra genitori e figli, il
modo di comportarsi
dei giovani che spesso
gli adulti non riescono
a decodificare. Ormai a
stento si entra “in sintonia”con il mondo dei giovani, con i nostri figli. Perché?
Non siamo più punto di riferimento per
loro? Abbiamo perso credibilità ed autorevolezza? Quella credibilità ed autorevolezza che i nostri genitori sono
riusciti a tradurre nei nostri confronti?
Noi di un’altra generazione, come dicono i nostri figli, non potevamo venir
meno a certi “doveri”: studiare, ascoltare, essere collaborativi, fare sacrifici
per un domani migliore. In poche parole i nostri genitori, senza saperlo, sono
riusciti a stimolare quella che gli psicologi definiscono “autostima”. Crepet
sottolinea che le maggiori carenze nei
giovani sono da individuare nella mancanza di autonomia, di autostima, di
creatività, di passione. E’ come se si
lasciassero vivere, come se non fossero
i protagonisti della loro stessa esistenza: il computer, le comodità, la discote-
ca, il gruppo, la macchina sono diventati non strumenti ma obiettivi verso
cui tendere ad ogni costo. I giovani sembrano essere diventati personaggi secondari di una vita che altri pensano e
organizzano per loro. Non permettono agli adulti di entrare nel loro mondo,
mentre altre volte li rimproverano di
non essere in grado di condividere preoccupazioni ed incertezze, gioie ed
esaltazioni.
Noi genitori siamo proprio sicuri di
conoscere i nostri figli? A casa assumono un comportamento, a scuola un altro,
nel gruppo un altro ancora; a volte ridono e sono euforici, altre volte piangono e
chiedono compagnia e carezze. Chi sono
veramente? Uno, nessuno, centomila
(Pirandello docet). Poveri figli! Poveri
genitori! Barriere, silenzi, incomprensioni da una parte e dall’altra. Cosa deve
fare allora l’adulto? Stare a guardare?
Lasciar perdere e arrendersi? Tanto ormai il mondo va come deve andare?! Assolutamente NO . Crepet sostiene che
bisogna comunicare con i giovani, riuscire a tirar fuori quello che di più propositivo c’è in loro (e c’è tanto), essere autorevoli, metterli nella condizione di fare le
scelte più giuste, quasi “costringerli”, ma
soprattutto renderli autonomi, tagliare
quel cordone ombelicale fatto di passività, comodità, accondiscendenze che non
creano né passione né entusiasmo per la
vita. Permettere loro anche di sbagliare,
se necessario, per fortificarne personalità e carattere.
Margherita Platania
Mozart e la “profezia” di Salieri “Spazio 22, i colori della cittadinanza”
A 250 anni
dalla nascita,
il Grande
Salisburghese
continua
ad affascinare
Durante la seconda metà del
Settecento, nei paesi di lingua tedesca, i musicisti ed i compositori
avevano l’opportunità di fruire di
numerose occasioni per mettere in
mostra la propria arte, in quanto
la particolare situazione politica
che si era venuta a creare, con il
frazionamento in numerosi stati,
aveva fatto sì che nascessero all’interno delle corti svariate cappelle musicali e un gran numero di
teatri. Ciò si verificava, al tempo
di Mozart, anche a Salisburgo,
nel cui principato la musica era
tenuta in grande considerazione e
veniva praticata dagli stessi componenti della nobiltà e della aristocrazia. In questo contesto il giovane Wolfgang, che nella più tenera età aveva goduto della condizione di bambino prodigio e che
per le straordinarie esibizioni a
corte aveva ricevuto omaggi da
personaggi di rilievo quali l’imperatrice Maria Teresa e la principessa Amalia, sorella di Federico
II di Prussia., più in là negli anni
non si accontenterà più degli “onori” e scriverà, infatti, in una lettera
al padre del 10 aprile del 1782:
“Se l’imperatore mi vuole, deve
pagarmi, perché l’onore di essere
al servizio dell’imperatore non mi
basta. Se l’imperatore mi dà mille fiorini e un conte duemila, porgo i miei rispetti all’imperatore e
vado dal conte, questo è certo.” Il
compositore si era recato più volte in Europa nella speranza di trovare una definitiva sistemazione e
collocazione professionale e a tal
proposito è il caso di menzionare,
in particolare, i viaggi realizzati
in Francia e in Italia, per la grande
influenza che questi due importanti centri propulsori della cultura settecentesca esercitarono sull’esperienza del musicista.
Mi piace ripercorrere idealmente, ancora una volta, gli even-
ti di quegli
anni…l’11 marzo
del 1777 Mozart
e la madre partono da Mannheim
per recarsi in
Francia, Parigi,
centro intellettuale d’Europa è in
fermento, diviso tra razionalismo
conservatore ed il naturalismo, si
afferma sempre più la Commedia
dell’arte, emerge la musica italiana
oltre frontiera. E’ una vera rivoluzione culturale! In quel periodo
compone le due Sinfonie K 297,
un Concerto per flauto e arpa, le
cinque Sonate per pianoforte K
310, K 330, K 331, K 332, K333,
le sonate per pianoforte e violino
in mi minore K304 e in re maggiore K 306, caratterizzate da un dialogo serrato fra i due strumenti e
dall’affrancarsi del violino dal ruolo di accompagnamento, a quegli
anni risale anche la composizione
della sonata K 304 che riflette un
avvenimento tragico di quei mesi,
la perdita della cara mamma Anna
Maria. Affranto dal dolore, il tre
ottobre lascerà Parigi per tornare
a Salisburgo. A Mannheim, per
l’amata Aloisia, aveva lasciato
una parte del suo cuore; A Parigi
lascia una parte della sua giovinezza…
Il primo dei tre viaggi in Italia
risale ad un tempo anteriore, al
dicembre del 1769, quando il giovanissimo Mozart riceverà a
Rovereto i primi consensi da parte del pubblico italiano, si fermerà quindi a Verona, Mantova,
Cremona, Milano dove il ministro plenipotenziario d’Austria
gli attesterà la sua stima regalandogli una edizione delle opere del
Metastasio, invitandolo implicitamente con tal gesto a voler entrare a pieno titolo nel mondo dell’opera italiana, le cui componenti
stilistiche ritroveremo nelle ope-
re teatrali tramandateci dal compositore. Wolfgang Amadeus Mozart, acuto indagatore dei vizi
umani, di quel mondo frivolo e galante che caratterizzò le corti dell’
epoca, autore di capolavori come
“ Le nozze di Figaro”, “ Il Don
Giovanni”, “Così fan tutte”, “ il
flauto magico”, autentiche gemme
musicali frutto del suo genio, visse l’infanzia e la giovinezza all’insegna del successo cui si contrappose, negli ultimi anni della sua
vita, una profonda solitudine.
Sigmund Freud in Der Dichter
und das Phantasieren affermava:
“Se potessimo almeno scoprire in
noi stessi o in persone simili a noi
un’attività in qualche modo analoga alla composizione creativa”;
sfugge, però, anche alla più attenta analisi psicoanalitica il segreto
dietro il quale si celano i meccanismi attraverso il quale il musicista
salisburghese riesce a sedurci, traducendo in termini estetici le proprie sensazioni, perché è autentica
seduzione quella che si sprigiona
dalle sue composizioni.
Ne fu consapevole Salieri, la cui
famosa rivalità nei confronti di Mozart fu oggetto del dramma di Puskin “Invidia”, da cui fu desunto il
libretto dell’opera di Rimskij-Korsakov “Mozart e Salieri”, il quale
avrebbe affermato “Egli è destinato
a crescere, io a declinare”. Così è
stato, e oggi come allora la musica
di questo straordinario genio, a distanza di 250 anni dal giorno della
sua nascita, continua ad esercitare
un fascino non offuscato dal trascorrere del tempo.
Maria Schillaci
Il Progetto Nazionale ha coinvolto 88 Scuole siciliane
“Spazio 22, i colori della cittadinanza” è la sigla che raccoglie
l’adesione di 88 scuole della Sicilia, dirigenti e docenti referenti i
quali hanno partecipato ai corsi di formazione nell’ambito del
Progetto Nazionale di educazione alla cittadinanza attiva e ai
diritti umani che coinvolge mille e seicento scuole italiane
Presso l’Istituto Scolastico “Giuseppe Parini” di Catania si è
svolto il primo seminario regionale, coordinato dall’Ispettore Sebastiano Pulivirenti, per rilanciare, una volta conclusa la fase
nazionale di formazione le azioni progettuali ed operative nelle
diverse realtà scolastiche.
Le Scuole aderenti si rendono promotrici di una rete operativa
di formazione dei docenti con il coordinamento del docente tutor
per la attività di formazione in presenza e la validazione del percorso di formazione on-line.
L’educazione alla cittadinanza non si può considerare come
una materia da studiare e ripetere durante l’interrogazione, ma
investe tutta la vita sociale e relazione dell’alunno-persona che
diventa cittadino
Lo studio e la conoscenza delle leggi, della Costituzione, della
cultura della legalità e del rispetto, vanno ben oltre l’ambito scolastico e diventano cultura e vero apprendimento, quando producono una vera modifica nei comportamenti dello studente ed in
particolare una modifica del modo di pensare, di sentire e di agire.
Nel raccontare la storia della scuola italiana si può dire: “C’era
una volta l’Educazione civica” diventata disciplina, dopo il 36°
convegno nazionale dell’UCIIM, celebrato a Catania nei giorni 911 febbraio 1957
Al Castello Ursino, sede della corte di Federico II, nasce
appunto l’Educazione civica e l’impianto organizzativo e didattico di una disciplina che avrebbe dovuto mantenere una trasversalità interdisciplinare educativa e formativa.
Il prof. Salvatore Latora ne ha tracciato il percorso rileggendo
gli atti del convegno dell’UCIIM che aveva come titolo: “Il problema dell’educazione dei giovani alle virtù civiche e alla democrazia” I titoli delle relazioni di Gesualdo Nosengo, Giovanni Gozzer, Franco Bonacina, Vittonino Veronese, Carlo Perucci, Camillo
Tamborlini , declinano l’educazione al civismo e al saper vivere
nella società organizzata come educazione morale, sociale e civica.. Adesso, quella che un tempo era chiamata Educazione civica,
ridotta nel tempo a disciplina cenerentola della scuola italiana, nel
nuovo impianto della riforma con la Legge n.53/2003 prende il
nome di Educazione alla Convivenza civile che si articola in
sei campi di interventi educativi che vengono esplicitati nella forma di attività progettuale
Il primo di questi è l’Educazione alla cittadinanza, seguono
l’educazione ambientale, stradale, alimentare, alla salute e all’affettività. La diretta esplicitazione di campi ed ambiti progettuali
nell’azione didattica impegna gli operatori scolastici nella costruzione di un articolato percorso formativo che coinvolge tutti gli
operatori scolastici
Se è vero che progettare significa mettere in atto un desiderio,
chi non ha desideri non ha nulla di dire, nulla da progettare. Formare uomini e cittadini non è soltanto uno slogan, ma un reale
impegno che sollecita un’azione non solo di apprendimento teorico di nozioni, ma di gesti, stili ed atteggiamenti di vita vissuta.
La finalità della scuola, che si formula nell’espressione di “scuola
che colloca nel mondo” e prepara i cittadini di domani, si sostanzia
di progetti operativi che le stesse indicazioni nazionali tracciano
come percorsi da seguire e sviluppare
La cultura della partecipazione democratica si impara facendo, e la promozione del Consiglio Comunale dei Ragazzi costituisce una palestra di apprendimento, attraverso un imparare
facendo. I ragazzi apprendono, infatti, la cultura della democrazia
e della partecipazione responsabile svolgendo i compiti di sindaci,
assessori, consiglieri, esercitando il diritto di voto di espressione
delle proprie idee e di relazione sociale nel piccolo gruppo della
classe, nella scuola e poi ancora nel quartiere, nella città.
L’educatore, chiamato a dare ai propri alunni delle certezze, che
scaturiscono dal sapere e dalla scienza e dalla lettura in positivo
della realtà in cui si vive si opera, propone lo studio della Costituzione italiana ed europea non come contenuti culturali finalizzati ad
un semplice arricchimento di conoscenze ma per aiutarli a saper
interpretare il presente in maniera critica e con adeguata informazione sui fatti, sulle motivazioni, sulla globalità dei diversi fenomeni ed
inserirli nella società come “cittadini europei e cittadini onesti”.
I ragazzi di oggi, figli della televisione, e detentori del telecomando operano anche nella vita culturale lo zapping, che non li radica
ad alcuna storia completa, produce frammentazione ed approssimazione senza continuità da una realtà ad un’altra, senza pervenire
alla sintesi finale che dà unitarietà ed armonia ai diversi contributi.
L’approccio sistemico ai diversi ambiti educativi dell’educazione stradale e alla salute, dell’educazione ambientale, alimentare e
all’affettività, ben si intrecciano con l’educazione alla cittadinanza
e ne diventano esplicitazione operativa.
Mediante una convergente ed unitaria azione educativa, che coinvolge tutti i docenti dell’équipe e gli operatori scolastici, si potranno far acquisire agli alunni gli strumenti per gestire la propria irrequietezza emotiva ed intellettuale, per favorire il processo di ricerca e di affermazione della propria identità, per scoprire le proprie
potenzialità e per orientarsi verso scelte responsabili e spendibili
nel territorio in cui si opera.
Anche la cultura d’impresa, tema trattato dal commercialista
Nino D’Asero e le problematiche commerciali esposte dal dott.
Pugliese, presidente di Etnafiere ed Etnapolis, contribuiscono a
dare uno spaccato di ampio respiro all’educazione alla cittadinanza..
L’apertura verso la dimensione europea, come ha dichiarato l’europarlamentare Giuseppe Castiglione, investe anche la scuola che è
coinvolta nel processo di globalizzazione, di interculturalità e di
gestione delle diversità anche multietniche, non solo attraverso gli
aspetti teorici, ma anche attraverso una nuova cultura dell’accoglienza, della tolleranza, della solidarietà disponibile alle diverse
etnie e culture.
Occorre un pizzico di utopia, la capacità di sognare e di sperare
in qualcosa di buono che verrà, anzi ne siamo certi; infatti le piccole
conquiste professionali, gli esisti positivi dei diversi progetti ne
sono una dimostrazione a conferma del conseguimento di traguardi
possibili.
La progettualità educativa sollecita la convergenza responsabile
di tutte le componenti del fatto educativo: della comunità scolastica
nel suo insieme; della dirigenza che guida, coordina e stimola; di tutti
i docenti, che operano in maniera convergente verso i comuni obiettivi, con uno stile di cooperazione e di “azionismo” nella condivisione del gesto, del valore e dell’atto educativo; dei genitori, primi
e veri responsabili dell’educazione dei figli, co-protagonisti della
realtà educativa, cooperatori con l’azione formativa svolta dalla
scuola; degli alunni, che citiamo per ultimi seguendo l’ordine di età,
di funzioni e di ruoli, ma che sono al primo posto nella progettualità
educativa, destinatari e attori nel progetto educativo, e se il loro
comportamento risulta passivo, se il loro coinvolgimento viene
vanificato tutto il progetto educativo perde consistenza e valore.
Il professionista della scuola che è sempre un educatore, impara ed insegna, insegna ad imparare, elabora e promuove cultura,
aiuta a sviluppare competenze e contribuisce alla formazione e allo
sviluppo integrale dell’alunno persona che a scuola cresce nella
comunità, diventa uomo, apre i suoi occhi al vero, scopre la dimensione dell’Assoluto
Giuseppe Adernò
Cinema e Spettacolo
Febbraio 2006
11
“Il sole” di Aleksandr Sokurov
La resa dell’imperatore Hirohito come vita illuminante
Tokio, 1945, seconda guerra mondiale. Il
Giappone è ormai alla disfatta, l’arrivo degli
americani è vicino e l’imperatore Hirohito è
rinchiuso in un’aula bunker. Qui tra il servilismo, riflette sul dramma della guerra che sta
affliggendo il suo popolo ma anche sul ruolo
di imperatore-dio: “Il mio corpo è simile al
vostro, non ho un barlume di divinità, e nessuno mi ama perché non sono riuscito a far
cessare questa guerra”.
Siamo in guerra e il regista lo sa bene, infatti evidenzia ciò, presentandoci varie sequenze illuminate da una luce opaca e a volte
spenta, privando i colori della loro vivacità. Il
tutto è immerso in un silenzio di estrema riflessione sull’uomo, sul suo essere uguale
come gli altri e su come il potere lo privi di
questa sua dimensione meravigliosa. Una riflessione che l’imperatore pone ai ministri,
che nonostante lo sfacelo in cui versa il Giappone, si rifiutano di accettare le condizioni di
pace. La guerra asiatica nasce a causa delle
leggi americane contro l’immigrazione degli
asiatici, a causa dell’odio che spinge ogni uomo
a sovvertire l’altro, per questo il patriottismo
è alle stelle ed ognuno è disposto a perdere la
propria vita, pur di far perire gli americani.
Ma i versi citati dall’imperatore invocano la
pace: sia con la neve che in primavera il ciliegio perirà, così anche ogni uomo.
A maggior ragione nel confronto con il generale americano, l’imperatore scopre il suo
essere uomo, come gli altri; e la sua dimensione umana di fronte all’atrocità di Hiroshima e
di Pearl Harbor lo convince che in guerra non
ci sono né vinti né vincitori., ma uomini che
non si riconoscono nella loro uguaglianza di
esseri imperfetti. Il generale MacArthur nelle
sue Memorie scrive: «L’imperatore si assunse la responsabilità di tutte le azioni del governo giapponese e delle forze armate, sapendo chiaramente che ciò avrebbe determinato la sua condanna a morte. Rimasi colpito.
Era imperatore fin dalla nascita, ma in quel
momento realizzai che avevo incontrato il
primo gentiluomo giapponese processato per
il suo straordinario coraggio». In tal modo il
generale riuscì ad impedire che l’imperatore
fosse dichiarato criminale di guerra e a porre
fine ad un devastante conflitto armato di milioni di soldati giapponesi non rassegnati a
perdere.
Il regista, elegiaco e nostalgico, si sofferma sugli sguardi e sui gesti affettuosi di questo imperatore inconsueto: piccolo di statura, malaticcio, dalla voce sottile e dalla postura molto comica alla Chaplin, che ammira le
foto dei suoi avi e dei grandi divi americani
degli anni ’20, ’30 e ’40, per incupirsi alla
vista delle foto dei suoi alleati. L’imperatore
deciderà anche lui di farsi fotografare, affinché il sole appaia nel buio di queste atrocità,
riversate sulle strade di Tokio, lui uomo come
gli altri per illuminare la pace, scioccando milioni di giapponesi: “Voglio rivolgermi al mio
popolo per parlare della pace e non della vit-
toria a qualunque costo. Nell’interesse del mio
popolo rinuncio alla natura divina e pongo
fine alla guerra”.
E rivolgendo lo sguardo alla finestra e ammirando la luna alta in cielo, segno del tramonto del vecchio Giappone, l’imperatore
firma le sue più importanti decisioni storiche:
la dichiarazione di resa durante la seconda guerra mondiale e la rinuncia al suo stato divino,
vissuta quasi come una liberazione, decisa in
occasione del suo incontro col generale americano MacArthur, ben diverso dall’uomo malvagio che pensava.
Il tutto è filmato dalla maestria registica di
Aleksandr Sokurov, che con una inquadratura
dall’alto chiude magicamente il film, terzo
capitolo della trilogia, Moloch, Taurus, presentandoci, avvolta fra le nuvole, una nuova
Tokio.
Con Il sole Sokurov chiude la trilogia, che
ha avuto come elemento unificante la rappresentazione dell’eroe che vive una tragedia,
Hitler in Moloch, incitava il suo popolo alla
morte; Lenin in Taurus, lanciava la sua intolleranza e un futuro di disperazione; Hirohito,
appunto in Il sole, firma la resa aprendosi alla
vita illuminante come il sole.
Rocco Roberto Cacciatore
A Milano, “Artaud, Volti/Labirinti” Conversazione in Sicilia: alla riscoperta di se stessi
Un’eccezionale esperienza di Vita ed Arte in una singolare mostra
A Milano il PAC (Padiglione d’arte
contemporanea) ha presentato, dal 6
dicembre al 12 febbraio, una mostra dal
titolo “Artaud, Volti/Labirinti”, dedicata, appunto, alla sovversiva personalità di Antonin Artaud (1896-1948), artista, poeta, attore e regista teatrale.
La mostra si è mossa su due binari:
da una parte la sua arte (cinema e teatro), dall’altra le crudeltà che l’uomo
Artaud ha subito a Rodes, rinchiuso in
una clinica psichiatrica.
Ci sono voluti vent’anni per realizzare questo evento multimediale, curato da Jean-Jacques Lebel e Dominique
Parin. Un’ “anatomia” del genio, un lavoro inedito e scomodo che ha mostrato tutto ciò che finora è stato volontariamente taciuto nei vari musei che hanno ospitato i lavori di Artaud.
Ad apertura della mostra un inedito
provino di Artaud per il film La fin du
monde di Abel Gange; una breve sequenza in cui Artaud urla tutto il suo
furore: «Cosa aspettate? Che la morte
venga da voi? Vi propongo, cari miei, di
andare da lei! Di guardarla in faccia!».
Accanto una radiografia della sua colonna vertebrale, eseguita a Rodes, quando fu internato nell’ospedale psichiatrico. In essa si nota un’incurvatura della
colonna e la frattura di una vertebra lombare causate dalle 51 sedute
di elettroshock
L’incipit
della mostra
sottolinea il
doppio binario su cui si muove il lavoro dei due curatori: la sofferenza dell’uomo Artaud, inventore di linguaggi
pittorici, teatrali, cinematografici, che
si dimena in una vita vissuta di rotture,
spaccature e crudeltà. Questo binomio
di Arte/Vita lo conducono a decontestualizzare la realtà per arrivare al fondo delle cose e qui cercare la verità.
In diverse sale del PAC si distribuiscono le 22 interpretazioni cinematografiche di Artaud fra gli anni ’20 e ’30,
su sette schermi dotati di una duplice
facciata, in modo che le interpretazioni
assunte dall’attore-regista si specchiano sullo schermo successivo creando
una mescolanza di sguardi, azioni e gesti in continuo movimento. Sono ruoli
che tormentano il cuore e la mente, rivelando un mondo incarnato solo da
mali.
Seguono alcuni titoli di film interpretati da Artaud. L’enfant de ma soeur, 1932, di Henry Wulschleger. Qui
Artaud è Loche, uno studente di legge.
Coup de feu à l’aube, 1932, di Serge de
poligny. Qui Artaud è il signor Backman, libraio e capo di una banda. Mater
dolorosa, 1031, di Abele Gance. Qui
Artaud è il cattivo Hornis. L’Argent,
1928, di Marcel L’Herbier. Qui Artaud
è il segretario Mazaud. Fauborg Montmartre, 1931, di Raymond Bernard. Qui
Artaud è il capo della rivolta Follestat.
La passion de Jeanne d’Arc, 1927, di
Carl Theodor Dreyer. Qui Artaud è il
monaco Jean Massieu. Lucrèce Borgia, 1935, di Abel Gance. Qui Artaud è
Savonarola. Napoléon, 1925, di Abel
Gance. Qui Artaud è Marat. Fait divers, 1924, di Claude Autant-Lara. Qui
Artaud è l’elegante Monsieur M. Surcouf, 1924, di Luitz-Morat. Qui Artaud è Jacques Morel. Le Juif errant,
1926, di Luitz-Morat. Qui Artaud è il
giovane viaggiatore Gringalet. Les Croix
de bois, 1931, di Raymond Bernand.
Qui Artaud è il soldato Vieublé. Verdun, visions d’histoire, 1927, di Léon
Poirier. Qui Artaud è il fratello intellettuale. Graziella, 1925, di Marcel Vandal. Qui Artaud è il cugino Cecco. Tarakanova, 1929, di Raymond Bernand.
Qui Artaud è il giovane zingaro. Mathusalem, 1926, di Jean Painlevé. Qui
Artaud interpreta due ruoli: il secondo
ufficiale e poi il vescovo. Sidonie panache, 1933, di Henry Wulschleger. Qui
Artaud è l’uomo del deserto Abd-elKader. Koenigsmark, 1935, di Maurice Tourneur. Qui Artaud è il bibliotecario Cyrus Beck. La femme d’une nuit,
di Marcel L’Herbier. Qui Artaud è il
traditore russo Iaroslav. Lilion, 1933,
di Fritz Lang. Qui Artaud è l’arrotino
ambulante. Die Dreigroschenoper, di
Georg Wilhelm Pabst. Qui Artaud è l’apprendista mendicante.
La mostra, inoltre, ha presentato una
selezione di disegni, manoscritti, lettere, fotografie, autoritratti e ritratti su di
lui eseguiti anche dai suoi amici Man
Ray e Dubeffet e un’installazione di
Jean-Jacques Lebel che ricostruisce la
stanza dell’ospedale psichiatrico di
Rodes mettendo a nudo l’agghiacciante
testimonianza delle sedute di elettroshock a cui l’Artista fu sottoposto.
Forse, per la forte aderenza al reale, sembrava quasi di sentire l’odore tipico dei
luoghi ospedalieri.
Il percorso di questo evento si concludeva con una sezione dedicata al teatro, una selezione di 40 fotografie di
Eli Lotar, una proiezione, con supporto audio, per leggere e sentire l’ultimo
pensiero di Artaud, fatto per una trasmissione radiofonica francese, qualche
giornoprima di morire, sulla base del
suo testo “Pour en finir avec le jugement de dieu” (Per farla finita col giudizio di Dio), nella quale mescola alle
parole, le urla, i rumori; discorsi mai
così attuali. Il primo e vero esempio di
teatro della crudeltà, in cui Artaud esplica la vita attraverso l’invenzione di un
uomo nuovo più vivo e reale della realtà stessa. Prevista per la sera del 2 febbraio 1948, la trasmissione fu sospesa
dalle autorità per oscenità. Verrà diffusa successivamente per un pubblico ristretto di invitati, quando Artaud era
già morto. Nel suo teatro si ha non la
rappresentazione ma la sublimazione
del corpo, dei sensi, perché non c’è testo ma solo pensiero che vive attraverso il corpo. In tal modo, la crudeltà latente del teatro di Artaud diventa linguaggio poetico nuovo che scardina sul
reale per mutarlo; peste che deve far
paura per riflettere e cambiare la vita,
anche se la vita stessa di questo Genio
insegna che non è così facile mutare il
reale. Definirei la mostra un’esperienza di Vita ed Arte in cui è impossibile
non restare coinvolti.
R. R. C.
In scena al Teatro Stabile di Catania il celebre romanzo di Elio Vittorini
Silvestro, Concezione, il piccolo siciliano dalla moglie bambina e
tutti gli altri personaggi di Conversazione in Sicilia, romanzo di Elio
Vittorini pubblicato nel 1941, tornano a vivere calcando il palcoscenico del Teatro Verga di Catania, dove
la compagnia dello “Stabile” catanese e del “Vittorio Emanuele” di Messina hanno ridotto e messo in scena uno dei testi simbolo della
letteratura italiana del Novecento, una rappresentazione allegorica della condizione umana oppressa dai
mali del mondo. La messa in scena dell’opera del grande scrittore siracusano, sotto la regia di Walter Manfrè, se da un lato ha rappresentato un obbligo per due
enti pubblici che hanno il dovere di diffondere la grande letteratura isolana, dall’altro ha costituito una sfida,
per l’oggettiva difficoltà di ricondurre il romanzo entro
i canoni e le regole dell’impianto drammaturgico.
“Conversazione in Sicilia” è la storia di un viaggio
iniziatico. Il protagonista Silvestro è un tipografo di
trent’anni trasferitosi al Settentrione che in un gelido
mattino di dicembre riceve una lettera del padre che lo
informa di avere lasciato la madre. In preda ad “astratti
furori” che la cappa oppressiva incombente nell’epoca fascista e negli anni della guerra di Spagna, non
permette di tradurre in azione, immerso nella quiete
della “non speranza”, Silvestro sente irrefrenabile l’impulso ad un viaggio “all’indietro”, alla ricerca delle
proprie radici, delle ragioni di una vita più autentica, in
una Sicilia mitica e ancestrale che, pur non essendo
mai indicata come luogo del racconto, fa da sfondo
alla vicenda. Il giovane tipografo sale cosi sul treno,
ripensando agli anni della sua infanzia accanto alla
famiglia; sul traghetto l’odore frizzante del mare si mischia al profumo delle arance che un uomo siciliano
accompagnato dalla “moglie bambina”, disperato e
bruciato dal freddo, disperatamente sbuccia e mangia,
gettando quasi una maledizione su quel frutto che non
si riesce a vendere, che nessuno vuole, come se avesse “il tossico”. Nel piccolo borgo di Neve, arroccato
sulle montagne, avviene il commovente incontro con
la madre Concezione e anche qui gli odori dell’aringa
arrostita, delle lenticchie, dei pomodori permettono a
Silvestro di tornare indietro con la mente, ma soprattutto col cuore. Il protagonista ripercorre cosi la propria infanzia, ascolta dalla madre i racconti delle eroiche imprese del nonno socialista, ma devoto a San
Giuseppe, del padre disattento e spesso assente, dei
suoi giochi di bimbo felice e innocente; accompagna
la madre nel suo giro quotidiano per il paese a fare le
iniezioni e scopre cosi la realtà di miseria, di sofferenza
e di disperata rassegnazione in cui vive il popolo siciliano.
Si propone così il motivo del “mondo offeso”, delle
ingiustizie e delle violenze che recano offesa all’uomo
e alla sua dignità, ribadito nell’incontro con un arrotino, con un sellaio, con un venditore di panni, portatori
di un messaggio di protesta e di ribellione, ma consa-
pevoli che l’uomo è “più uomo” quando
viene perseguitato. In una notte surreale
il protagonista incontra il fratello morto
durante la guerra di Spagna. Nella parte
conclusiva tutti i personaggi si raccolgono intorno a Silvestro che comprende
di essere giunto alla fine del suo viaggio
e di essere pronto a ripartire, a tornare
alla sua vita con più forza e coraggio.
Silvestro, interpretato da David Coco, è un uomo
che vive nella paralisi sociale e culturale imposta all’Italia dalla dittatura fascista; il suo viaggio è uno strumento che gli permette di giungere ad una consapevolezza di doveri che coincide con quella dello scrittore
engagè, un impegno etico e politico che non si traduce in una rappresentazione realistica e documentaria,
ma nell’astrazione simbolica che mira ad affermare verità universali ed assolute, in un contesto archetipo e
mitico dove appare ancora possibile una tensione morale, un anelito alla libertà e alla giustizia, sulla base
della solidarietà tra gli uomini offesi. La “Conversazione” assume cosi toni
ieratici e solenni che
danno all’opera
un’estrema concentrazione lirica che gli
attori, le musiche e le
luci hanno magistralmente trasmesso agli
spettatori. La madre di Silvestro, interpretata da una
bravissima Caterina Vertova, volto noto del cinema e
della televisione è una donna che si è fatta da sola, una
contadina dalle mani rigate e consumate dal duro lavoro. La donna appare portatrice dei valori tradizionali
del lavoro e della famiglia, opposti alle esigenze di rinnovamento e di cambiamento che gli altri personaggi
avvertono prepotentemente. L’umanità forte con i suoi
valori di opposizione alle costrizioni e alle dittature è
rappresentata ancora nella figura del Gran Lombardo,
portato sulla scena da Federico Grassi, un uomo saggio che parla con passione e che vuole esortare al
coraggio e al riscatto in opposizione a Coi Baffi e Senza Baffi (Andrea Florio e Giuseppe Bisicchia), simboli
del potere oppressivo.
Magistrale e ricca di emozioni è stata la resa della
serata all’osteria, dove Silvestro si reca assieme al paniere Porfirio, interpretato da un bravissimo Franz Cantalupo, scena che fa da preludio all’incontro finale:
l’ingresso nella bottega è uno scendere in quel cuore
puro della Sicilia, non ancora contaminato, dove è
possibile trovare la forza per adempiere a quei «nuovi,
altri doveri» di cui aveva parlato il Gran Lombardo. Lo
spettacolo ha cosi dipinto la nostra Sicilia, che lo spettatore riconosce e sente con emozione. E’ la terra degli
odori e dei sapori, dei valori genuini e delle tradizioni
radicate dove il protagonista, che rappresenta l’uomo
in sé, ritrova se stesso e la forza per affrontare la vita in
un mondo che spesso gli è ostile e lo offende.
Alessandro Puglisi
12
Febbraio 2006
Auguri!
Ha spento Centouno candeline
Il 25 gennaio, nonna Sebastiana Befumo Prestigiacomo ha aggiunto il primo anno ai suoi cento anni. Però per l’anagrafe la nonna ha compiuto centouno anni
il primo febbraio per un ritardo di registra-
zione della nascita.
E’ madre di cinque figli. Rimasta orfana di padre e di madre ancora
giovane, è riuscita con la forza di volontà e tanti sacrifici ad affrontare i
tanti ostacoli e dolori della vita: un fratello disperso in Russia durante la
seconda guerra mondiale; un figlio di 13 anni rimasto ucciso per un incidente provocato da militari italiani nel 1941.
Rimasta vedova nel 1959, non si è risposata per restare fedele al suo
grande amore della sua vita, tanto che si è voluta assicurare un loculo
cimiteriale a fianco del suo caro sposo.
Devota alla Madonna della Consolazione, sin dalle cinque del mattino,
passa la giornata sgranando il Rosario; non trascura però di chiacchierare
con amici e parenti e di seguire la televisione.
I suoi 4 figli, i 36 nipoti, i 64 pronipoti, i 19 figli dei pronipoti augurano
alla loro carissima vecchietta di spegnere ancora tante altre candeline.
Miscellanea
Risponde l’Avvocato
Sono, Anna T., la scorsa settimana, ho ricevuto una proposta di lavoro; mi hanno spiegato che sarò assunta con un contratto di inserimento; cosa significa? Vorrei essere sicura prima di firmare. Grazie anticipatamente.
Il contratto di inserimento si inscrive sul solco delle nuove tipologie di
contratto, cd “atipiche” presenti nel
decreto legislativo n.276/03 (legge Biagi) che sostituisce la tipologia del contratto di formazione e lavoro alla luce
di alcune indicazioni dettate dalla
Commissione Europea e dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea.
Questo tipo di contratto può essere stipulato per prestazioni rese da
soggetti in difficoltà occupazionali.
Rientrano nella suddetta definizione i
soggetti di età compresa tra i diciotto e
i ventinove anni, i disoccupati di lunga
durata da ventinove fino a trentadue
anni, i lavoratori con più di cinquanta
di età che siano privi di un posto di
lavoro, i lavoratori che desiderino riprendere una attività lavorativa e che
non abbiano lavorato per almeno due
anni, le donne di qualsiasi età residenti
in un’area geografica con alto tasso di
disoccupazione femminile.
Al momento dell’assunzione devono essere predisposti appositi progetti individuali di inserimento del lavoratore nel mondo del lavoro.
La durata massima del rapporto è
di 18 mesi; si può giungere tuttavia fino
a 36 mesi per le donne, in aree caratterizzate da alta disoccupazione femminile. Queste, gli elementi caratterizzanti
il contratto di inserimento. A riguardo,
non posso esimermi dal valutare criticamente questa tipologia contrattuale.
Infatti se apparentemente tende a creare degli strumenti volti all’inserimen-
to agevolato per soggetti in difficoltà
occupazionale, in realtà rappresenta
una di quelle tipologie contrattuali che
tendono a rendere maggiormente precario il mondo del lavoro. Quindi sarà
compito degli operatori del diritto evitare che anche questo contratto si trasformi in una operazione volta a non
stipulare contratti a tempo indeterminato con la conseguente mancanza di
diritti reali in capo ai lavoratori. Comunque, in mancanza di alternative,
diciamo alla nostra lettrice di firmare
(previo controllo da parte di qualche
esperto….. non si sa mai….) il suddetto contratto, in attesa di tempi migliori.
G. T.
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Poesia Oggi
a cura di
Maria Virgillito
Pasquale Licciardello, da La grande assenza,
Fabliau - Poesia, Firenze 1993
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alba settembre 05 - in