CLUB ALPINO ITALIANO
Sezione di Brescia
Sottosezione di Manerbio
NOTIZIARIO DEL C.A.I. DI
MANERBIO
Bollettino on line della sottosezione
mese di giugno 2009
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“Come tutti i bisogni profondi dell’Uomo, quello dell’altitudine è
universale. Fatta ad un tempo di desiderio e di paura, la seduzione
dell’azzurro ha effetto su tutti coloro che lo spettacolo dell’alta
montagna attira e trattiene. D’accordo con i poeti, i fanciulli credono
che il paradiso sia in cielo.
Il richiamo dell’altitudine risveglia nell’anima una speranza immensa
ed istintiva come se ci fossero svelate infinite possibilità di fortuna.
Spesso abbiamo avuto la percezione di tutto l’ignoto di cui lo spazio
è impregnato e l’abbiamo sentito molto vicino come se non ci fosse
stato fra lui e noi null’altro che il velo leggero del nostro involucro
carnale”.
Pierre Dalloz
Haute Montagne
In copertina: Neve autunnale nelle San Juan Mountains – Colorado
(U.S.A.), ottobre 1982
2
In questo numero:
LETTURA MAGISTRALE
• Tempo della Montagna tempo dell’attesa (Fabrizio Bonera)
ESCURSIONI DEL MESE DI GIUGNO
• Passo della Falculotta e Monte Ritort (Fabrizio Bonera)
• Il Dosso dei Morti (Fabrizio Bonera)
• Il Passo di Rondon (Fabrizio Bonera)
NATURA DI GIUGNO
• Pulsatilla montana (Fabrizio Bonera)
SALVARE LE ALPI
• Una protezione geotessile per i ghiacciai (Fabrizio Bonera)
LE BUONE LETTURE
• “ …Per seminare guardavamo la luna” di Michela Capra (a cura di
Fabrizio Bonera)
DAL CONSIGLIO DEL C.A.I. DI MANERBIO
NOTIZIE IN BREVE
3
LETTURA MAGISTRALE
Tempo della Montagna, tempo dell’attesa
Riflessioni alla Sella del Montoz
La Sella del Montoz divide la Valle dei Cavai dalla Valle della Campa, nella
porzione più orientale e selvaggia delle Dolomiti di Brenta. E’ un pianoro
roccioso posto a 2.370 metri di quota, raramente visitato dagli escursionisti e
dagli alpinisti, non supportato da strutture di appoggio, luogo eletto per chi
desidera trascorrere tempi di solitudine lontani dai ritmi della vita quotidiana. E’
punto di partenza ideale per salire montagne sconosciute e bellissime, come la
Cima di Santa Maria di Flavona o il Croz del Re, lungo itinerari che bisogna
inventare sul momento e che regalano sorprese inaspettate ad ogni passo.
La Sella del Montoz è il luogo ideale per mettere la tenda, nella attesa della
salita alle vette il giorno successivo. E’ il luogo perfetto per aspettare il calare
del sole ed attendere la notte. Qui le notti sono tutte speciali, forse per quelle
stelle così vicine o forse per la consapevolezza dell’estremo isolamento a cui si
è giunti. Ritirarsi nella tenda non significa solo concedersi al riposo; con la notte
giunge il tempo dell’attesa.
Mi viene da pensare a tutte le attese: l’attesa prima dell’esame, l’attesa di un
treno prima di partire o di un treno che porta una persona cara, l’attesa di un
verdetto, l’attesa vana degli ebrei del ghetto di Varsavia durante la loro rivolta,
l’attesa infernale del XV di Inghilterra al Croke Park di Dublino prima dell’arrivo
degli Irlandesi, le lunghe attese del mio cane, l’attesa della salita di una
montagna...
A volte vorrei che la attesa non finisse mai e si prolungasse nel tempo. Il tempo
dell’attesa diviene in questo modo il tempo del desiderio e mi viene spontanea
la domanda: è più appagante l’attendere o il concretizzare l’intenzionalità
dell’attesa? Sono più remunerative le ore dell’attesa o il ritrovarsi sulla vetta?
Attendere è più che aspettare.
Attendere è un atto che coinvolge non solo i sensi ma anche lo spirito.
Attendere significa tendere con il senso e con la mente e con l’affetto per
ricevere una impressione dell’oggetto e pensare l’oggetto: il senso attende in
quanto è deliberatamente diretto dall’animo. Questa tensione dei sensi e del
pensiero (ad- tendo) è più che un semplice e deliberato riguardare e mirare (adspecto).
Domani salirò il Croz del Re. Avverto una tensione, piacevole, che non mi
concede il sonno. Mi accorgo che sto vivendo un desiderio appagante. L’attesa
diviene così una condizione di esistenza caratterizzata da un accumulo di
tensione. Essa ha come referente di soggettivazione il desiderio, o meglio
ancora, l’appetizione. L’attesa quindi è caratterizzata da una intenzionalità che
si esprime con un vettore, con una direzione verso un oggetto, verso una
alterità. Tuttavia non è l’oggetto che invera questa intenzionalità bensì altri due
fattori: l’energia e l’ avvento del termine intenzionato.
L’energia si accumula nel mio animo perché l’oggetto della mia intenzione è
assente. Il Croz del Re è là fuori, non fa parte di me. Attendo e desidero la sua
salita con quella genesi del desiderio di sapore platonico che poi è come il
desiderio della fede per l’assenza di Dio. La mia attesa è un tempo di squilibrio,
4
di tensione, una molla che si carica, comprime ed urge per lo scarico della
tensione.
Una volta sulla vetta avrò realizzato l’avvento, soddisfatto le condizioni
dell’attesa in quello status di equilibrio e di pacificazione che conseguono al
riempimento attuativo del Sé desiderante. L’attesa, dunque, è uno stato, una
condizione appetitiva non determinata dall’oggetto: la sua verità consiste nello
svincolare l’intenzionalità dall’oggetto. Se l’oggetto fosse il determinante
dell’attesa, la distensione dell’energia accumulata avrebbe tutti i caratteri della
codificazione.
L’esperienza della attesa diviene quindi una esperienza del tempo davanti a
noi, un tempo assoluto e primitivo, che assurge a dignità di figura temporale,
come il desiderio e la speranza.
Nella tenda mi viene anche da pensare alle attese di quello che considero il più
grande alpinista di tutti i tempi, Dante Alighieri, l’unico che è stato capace di
salire il monte del Purgatorio. Mi viene in mente che la comune temperie
dell’Antipurgatorio è l’attesa. Tutto l’Antipurgatorio vive sotto la luce dell’attesa
che nella fatti specie è attesa della purificazione. Ma, in fondo, la nostra ascesa
delle montagne non è un cammino di purificazione?
Dante mi insegna quattro forme di attesa: l’attesa nel timore, l’attesa nella
pazienza, l’attesa nella prudenza, l’attesa nella misericordia. Nel canto IV
Belaqua vive l’attesa paziente di una purificazione che deve venire al luogo e al
tempo assegnati dalla Provvidenza. Belaqua attende nella pazienza. Quella di
Dante invece è una attesa nella tensione, anticipazione di quello che nel
Purgatorio sarà il fervore ascetico, lo slancio verso Dio; Dante deve attendere
nella tensione di ciò che deve accadere, una corsa anelante verso il Purgatorio.
Ecco, forse, la mia attesa nella tenda, ricca di tensione emotiva e poietica,
assomiglia un poco a quella di Dante. Eppure Belaqua mi suggerisce che in
nella figurazione di questo “tempo innanzi” entra in gioco anche qualcosa di
diverso. E’ il tono canzonatorio di quel suo :
“or va su tu che sei valente!”
che mi suggerisce che a volte è utile indugiare, attendere un rimando affinché
l’avvento avvenga al momento propizio.
Se non avessi atteso un momento più opportuno, forse, quella domenica al
Lago Ritort, non avrei potuto godere dello stupore del Brenta innevato che si
dispiegava in tutta la sua magnificenza.
Ecco allora che accanto all’attesa nella pazienza si inserisce anche un tempo
più sottile, il tempo dell’attesa del momento opportuno: l’attesa del tempo utile.
I greci avevano un termine ben preciso per definire questa circostanza:
καιρος (pr. kairos).
Καιρος in origine era un vocabolo connesso con la tessitura. Aveva il significato
originario di foro, piccolo spazio, apertura. Esso indicava l’apertura attraverso la
quale nell’ordito si realizzava il passaggio della spola. L’apertura nell’ordito ha
una durata ridotta e l’inserimento del filo deve essere effettuato in un preciso
momento: nel momento opportuno.
Dal significato originario di foro, apertura, cavità, questo termine è passato ad
indicare “un momento critico”, una “occasione”, il momento opportuno che è
contraddistinto da una garanzia di successo.
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Odisseo nell’isola di Calipso vive una attesa contraddistinta dal tempo di Dante,
nella paziente attesa di un evento che deve essere concesso; Penelope, pure,
attende; ella attende tessendo, attende il tempo utile per dare avvio ad una
azione che le consenta il successo.
Il tempo della montagna mi insegna allora che esistono un tempo di attesa
nella pazienza e un tempo di attesa del momento utile.
Io li chiamo “il tempo di Odisseo” e “il tempo di Penelope”.
Quando nella tenda durante la notte attendo la ascesa del giorno successivo
vivo l’attesa di Odisseo. Quando, nell’azione, penso al prossimo gesto, a
mettere il piede sull’appoggio giusto, attendo al balzo del crepaccio o al salto da
un punto all’altro, o aspetto il passaggio del temporale e della nuvola, vivo un
indugio, attendo al tempo di Penelope, a quel momento “opportuno” che si deve
rivelare alla fine utile.
L’opportunità, nella escursione come nella vita, è sempre una apertura
(opportunitas < porta), un passaggio che con sicurezza ci conduce ad orizzonti
nuovi, più ampi e più remunerativi… a volte basta solo saper attendere.
Mount Sill (San Juan Mountains) – Colorado, U.S.A – Ottobre 1982
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LE ESCURSIONI DEL MESE DI
GIUGNO 2009
Spunti di interesse
1.
La collina del Vitello fatato. La via della
monticazione dei vitelli dal Panoramaweg al Sinter dei Siori
attraverso il Passo della Falculotta.
2. Il Dosso dei Morti da Roncone.
3. Il Passo di Rondon al Monte del Gelo. Il
fascino ammiccante dell’irraggiungibile.
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LA COLLINA DEL VITELLO FATATO
La via della monticazione dei vitelli
Dal Panoramaweg al Sinter dei Siori attraverso
il Passo della Falculotta
Domenica 7 giugno 2009
“Alla fine quella perse la pazienza, come fanno le donne quando non prestate
orecchio ai loro brontolii e si tramutò in un vitello bianco latte…”
Thomas C. Crocker
Il lago Ritort visto dalle pendici del Monte Nambron (m 2.625)
Tra Madonna di Campiglio e la Presanella c’è una ampia area dimenticata che
cela gelosamente la meta di questo percorso.
La zona è molto ricca di acqua al punto che una delle malghe di alpeggio venne
denominata Mandra delle Fontane: è un pascolo di alta quota dove l’acqua
sgorga da numerosissime piccole sorgenti.
Oggi esso è uno dei luoghi più solitari del Gruppo della Presanella, popolato
solo da camosci, che vi stazionano anche in branchi numerosi.
L’antico sentiero che lo raggiungeva è scomparso e la ricerca del tracciato
consente di effettuare una remunerativa escursione con panorami inconsueti
sulla Val Nambrone e sulla Presanella, per poi affacciarsi ad ammirare la
gemma blu del Lago Ritort.
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Le vicende del mondo pastorale hanno numerosi elementi leggendari in
comune in molte parti del mondo. Alla testata di Valchestria in alcune notti
dell’anno si aggirerebbe un vitello bianco dotato di poteri magici, tra cui la
capacità di parlare. Già da questa breve anticipazione emergono alcuni dei
caratteri tipici comuni al patrimonio leggendario: l’animale magico; il colore
bianco; la sua virtù comunicativa. Numerosi sono gli esempi di animali più o
meno fantastici che popolano il mondo alpino. Alcuni ci sono famigliari: il
dahutus, il basadone, l’ippotoro e ancora altri. Il colore bianco sembra essere
emblema di particolari virtù, fra le quali la rarità, e , soprattutto la capacità di
arrecare buone notizie: il bisonte bianco, l’elefante bianco, il cervo bianco, il
cavallo bianco; questo non solo nel mondo animale ma anche fra le piante: si
pensi al rododendro bianco, considerato dai pastori pianta rarissima, dalle
potenti virtù magiche e tale da non rivelarne il luogo qualora la si incontrasse.
Ho trovato una buona corrispondenza fra questa diceria del vitello bianco con
una leggenda irlandese: la leggenda di Knocksheogowna, vale a dire “la collina
del vitello fatato” che si trova nella contea di Tipperary, in prossimità della città
di Limerick.
Knocksheogowna era una collina abitata da fate che avevano la capacità di
trasformarsi in animali e giocare dei brutti scherzi ai pastori.
Olaus Magnus (libro III, cap. 10) ci dice che “viaggiatori notturni e guardiani di
greggi e mandrie possono essere accerchiati da molte apparizioni strane”.
Non ho notizie sulla eventuale presenza di fate in Valchestria, al contrario di
quanto accade sul dirimpettaio Gruppo del Brenta.
Analogamente alla storia di Knocksheogowna mi piace pensare che esse
abitassero questi luoghi prima dell’arrivo dei pastori e che, con l’arrivo di questi,
non tollerassero la loro presenza ed i muggiti del bestiame. Posso pensare che
se ne siano andate allorché gli uomini hanno abbandonato il rapporto simbolico
con la natura per cedere alla ragione. In Valchestria ora non vi sono più
nemmeno gli uomini. Ma non vi so dire se le fate vi siano tornate così come non
sono in grado di dirvi se il vitello bianco latte compaia ancora verso la
mezzanotte di alcuni giorni per comunicare i segreti della natura.
La Valchestria è una zona molto remota, da sempre lontana dai sentieri e
soprattutto lontana dalle comunicazioni del fondovalle. Questa sua lontananza
ha determinato una frequentazione particolare: è sempre stata luogo di
monticazione dei vitelli e degli ovini castrati fin dalle epoche più remote. La
lontananza dalle vie di comunicazione infatti non consentiva che vi venisse
lavorato il latte.
Il termine stesso Valchestria sta ad indicare la “valle dei castrati”, ovvero la
frequentazione da parte di armenti non in grado di produrre latte.
Attualmente non viene più monticata, come non più frequentati dal bestiame
sono gli alpeggi circostanti: Masi Milegna, Mandra del Fo e Mandra delle
Fontane. Il graduale abbandono conferisce una nota di solitudine in più a questi
luoghi molto appartati: I sentieri sono in gran parte scomparsi e il cammino si
svolge in un ambiente selvaggio dove si vive davvero la sensazione di essere
vicino a presenze del passato.
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ITINERARIO.
Il percorso prende l’avvio da Madonna di Campiglio. In particolare dalla via
Carè Alto che si raggiunge seguendo le indicazioni per la Caserma dei
Carabinieri. La via termina a fondo a cieco e proprio al suo termine inizia il
sentiero contrassegnato da una tabella esplicativa indicante il Giro di Madonna
di Campiglio. Si prosegue diritti ed in piano e subito ci si inoltra in una splendida
e fittissima abetaia. La specie dominante è l’abete rosso (Picea excelsa) e lo
splendido bosco, con sottobosco perfettamente spoglio, rappresenta
l’estensione a valle del Bosco della Ragada, estesissima pecceta che da
Patascoss giunge sino alla malga Ritort, ospitante il famoso “Sass del
Bargianela”1. Il cammino prosegue sempre diritto, in piano, trascurando la
deviazione a destra in salita indicante “Malga Ritort” e quella in lieve discesa
indicante “Giro di Campiglio”. La direzione da seguire, qui indicata, è quella per
“Masi Milegna”. Stiamo percorrendo il Panoramaweg, la passeggiata
panoramica della nobiltà asburgica al seguito della principessa Sissi per
giungere alla Casa della Cioccolata. Si superano, con l’ausilio di alcuni ponticelli
in legno, alcuni torrenti fino a giungere ad un tratto in cui il bosco si dirada e si
apre il panorama verso tutto il complesso delle Dolomiti di Brenta. Sulla sinistra,
più in basso, si scoprono i tetti di alcune case. Dopo breve si giunge alla Casa
della Cioccolata, antico rifugio asburgico ora trasformato in abitazione. Il
sentiero comincia a salire, con pendenza moderata, girando verso destra,
impegnandosi di traverso lungo un ripido pendio boscoso la cui essenza
principale è sempre costituita da abete rosso con un sottobosco, nelle zone di
maggior diradazione delle essenze arboree, di mirtilli e rododendro ferrugineo.
Si incontrano numerosi rigagnoli, alternati a piccole radure. La pendenza
rimane moderata. Tra gli alberi, se ci si volge all’indietro, compaiono le cime del
Brenta, alla sinistra invece fanno capolino gli estesi ghiacciai della Val di Lares.
Una maggiore diradazione del bosco prelude ad un alpeggio semiabbandonato,
posto in splendida posizione panoramica, dominante la alta Val Rendena. Sono
i Masi Milegna, il cui edificio è ancora intatto.
A Malga Milegna si incontra un incrocio di sentieri che si dirigono
rispettivamente verso Malga Ritort (sulla destra), Masi Claemp (sulla sinistra) e
Valchestria (diritto). Noi imbocchiamo quest’ultimo, in salita, dapprima con
pendenza più moderata e poi più netta. Si risale dapprima un profondo vallone
e poi un luminoso lariceto con una vecchia e ampia mulattiera zig zagante che
adduce a Malga Valchestria (m 1.888).
La Valchestria è percorsa da un torrente. Dalla malga si può continuare
risalendo la conca sovrastante, seguendo un percorso poco segnalato sulla
destra orografica che però si perde ben presto fra gli ontani.
Risulta più comodo risalire sul versante opposto con un sentierino che
raggiunge una pozza, per poi fiancheggiare il torrente fino ad un evidente balzo.
Raggiunta la testata del vallone, si può attraversare e ricongiungersi ad una
traccia non segnalata e a tratti poco marcata che, uscita dall’ontaneta, continua
sul versante destro orografico 2.
1
SASS DEL BARGIANELA: è un grande masso di granito, immerso nel bosco, sul quale, si dice trovò
rifugio il Bargianèla, un personaggio rendenese dell’800, minacciato da un’orsa che difendeva i piccoli. Il
Bargianèla aspettò per ore sul masso, fino a quando l’orsa se ne andò.
2
VARIANTE: è possibile effettuare a questo punto una breve deviazione per puntare ad un
panoramicissimo passetto posto a nord del Dosso del Fò. Si raggiunge la Mandra del Fò (piccolo bivacco
a 1950 m) e si risalgono ripidamente le pale erbose per guadagnare la dorsale, raggiungendo i pendii del
Dosso del Fò per entrare nella conca di Mandra delle Fontane. Si risale liberamente una ripida scarpata di
massi ed erba per giungere ad una conca (m 2.200) Da qui si passa ad una seconda conca, più raccolta e
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Il Passo della Falculotta (m 2280) è a portata di mano. Il percorso per
raggiungerlo è segnalato da alcuni ometti.
Dal Passo della Falculotta si può raggiungere la vetta del Monte Ritort. Essa è
panoramicissima. Dal passo si rimonta la cresta ovest che, seppur decisamente
ripida, risulta nel complesso assai percorribile. Per raggiungere la vetta, posta a
2.411 m, dal passo occorrono circa quaranta minuti.
Dal Passo della Falculotta si scende nel versante opposto seguendo un
sentierino piuttosto evidente ed alcuni ometti. Si raggiunge una conca di magro
pascolo e ricca di tane di marmotte.
Continuando a calare, sempre con traccia non segnalata, si incontra uno
stupendo laghetto ricoperto da una fitta coltre di Sparganium minimum e
circondato da eriofiori. Si prosegue infine nel pascolo sassoso con diversi
roccioni; si infila un canalino (ometti in loco !!!) puntando in direzione del lato più
meridionale del lago Ritort, incrociando altri due laghetti ricoperti da
vegetazione acquatica. Si superano questi piegando a destra e con percorso
pianeggiante si attraversano un paio di dossi per iniziare poi a scendere
decisamente al lago Ritort (m 2055).
Dal Lago Ritort si seguono le indicazioni per l’omonima malga. Il sentiero
comincia a scendere con alcuni tornanti, dapprima in ambiente di rocce
montonate e rado lariceto per poi penetrare nella pecceta con sottobosco a
mirtilli. Superato il torrente diviene una mulattiera che contorna il Pian dei
Mughi, collocato al fondo della Val Canton, splendido ambiente pianeggiante,
misto di prato e torbiera; essa prosegue pianeggiante verso est, incontro al
dirimpettaio Gruppo del Brenta. Perviene quindi ad un pascolo e
successivamente alla Malga Ritort a cui giunge anche una strada proveniente
da Patascoss.
La Malga Ritort è stata trasformata in struttura ricettiva e ristoro. La si supera
sulla destra. Proseguendo lungo la strada pastorale sterrata, in direzione Malga
Milegna. Si scende e dopo una curva sinistrorsa si imbocca sulla sinistra un
esile sentiero (segnalato) con direzione Madonna di Campiglio. Questo è il
“Sinter dei Siori”. Esso si impegna diagonalmente lungo un pendio a pascolo e
subito percorre un bellissimo ambiente con vegetazione di larici e abeti rossi e
numerosi ruscelli.
Successivamente, in corrispondenza di una accentuazione della discesa,
penetra nella abetaia del Bosco della Ragada fino a sfociare sul Panoramaweg
che in questo caso andrà percorso verso sinistra, a circa quindici minuti di
percorso pianeggiante da Madonna di Campiglio.
Il giro complessivo prevede circa un tempo di 5,00-6,00 ore.
frequentata dai camosci, che si traversa per raggiungere la cresta a 2300 m. Una labile traccia da qui
conduce al Passo della Falculotta. Il paesaggio è splendido, solitario e molto remoto (per questa variante
indispensabili carata topografica e bussola e condizioni di perfetta visibilità. Evitare il percorso dopo
piogge recenti).
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MONTE RITORT.
E’ una significativa elevazione posta al margine meridionale del lungo costone
che dalla Rocca di Nambron, scende verso la valle di Campiglio. Esso si eleva
ad est del Passo della Falculotta e separa la Valchestria dalla Val Canton.
Anche se la quota risulta modesta (m 2.411), la sua posizione isolata ed assai
avanzata verso sud-est, la rende un punto panoramico di prim’ordine,
confermato dalla presenza di un segnale trigonometrico. Costituisce senz’altro
uno dei migliori punti di osservazione sulle magnifiche Dolomiti di Brenta, da qui
visibili quasi per intero con i loro spettacolari versanti occidentali. La vetta fu
toccata con certezza per la prima volta da topografi militari austriaci nel 1854.
Il nome Ritort deriva dal torrente Colarin, posto ai piedi nord orientali della
montagna, noto localmente anche come “Rio Torto” per la sinuosità del suo
percorso. La sua salita, oltre a quella menzionata nel nostro itinerario, è
possibile anche dal versante est, dapprima su sentiero e successivamente per
lembi erbosi e detritici.
PASSO DELLA FALCULOTTA.
E’ la lunga insellatura posta tra l’appendice sud della Pala (m. 2467) e il Monte
Ritort. Esso collega la testata di Val Canton a quella del Vallone di Valchestria.
Falculotta è un diminutivo dialettale di “falcola” ossia falcetto; il profilo del
passo infatti sembra un’ampia falcatura.
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DOSS DEL FO’ – VALCHESTRIA - MILEGNA
La voce fò è una forma dialettale per faggio mentre Valchestria deriva da Val
Castra, ovvero valle degli ovini castrati.
Il termine Milegna ha un significato più oscuro. Fa fede la leggenda della
presenza di spiriti maligni che si aggiravano nei dintorni. Localmente infatti di
parla di “Milegna come casa del Malignus”.
Il Monte Ritort con il Passo della Falculotta (sulla destra) in una immagine
del settembre 2007.
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Un intero battaglione al Dosso dei Morti
Domenica 14 giugno 2009
Il Dosso dei Morti è l’ultima elevazione con cui termina a sud la lunga catena
Carè Alto – Cop di Casa – Arnò – Valbona e Corno Vecchio, che durante la
prima guerra mondiale gli Austriaci munirono ad importante caposaldo.
Tutta la montagna venne scavata da lunghissime trincee in galleria che
correvano lungo la dorsale, affiorando solo nei tratti più riparati dal fuoco delle
batterie italiane (in queste gallerie era posto a presidio un intero battaglione). La
montagna era collegata, oltre che da una ardita teleferica, da una ardita strada
a Roncone.
Essa è meta panoramica di prim’ordine oltre che una importante montagna per
le vicende storiche.
Tutte le montagne che fanno da corona ai paesi di Lardaro e Roncone sono
molto care ai manerbiesi, o meglio, ai manerbiesi di una certa età. Anche io,
seppur non giovanissimo, ho vissuto gli ultimi anni di popolarità di queste vette
presso la mia comunità. Erano anni di vacanze in colonia, quando le vacanze
erano sostenute o dalla parrocchia o dalla munificenza dei conti Marzotto. I
primi avevano una casa parrocchiale in quel di Lardaro, i secondi uno
stabilimento balneare sull’Adriatico.
E’ così che i giovani degli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso si sono
cimentati in avventure alpine e in camminate sulle montagne delle Giudicarie
Esteriori. Certo non erano montagne blasonate come quelle che si trovano a
nord di Tione; mancava in esse la frequentazione alpinistica fatta di vie e rifugi;
erano montagne la cui storia rimaneva scritta sulle pagine di alcuni fatti della
prima guerra mondiale e, soprattutto, sulle pagine del duro lavoro dei pastori
che da sempre le hanno frequentate traccciandovi sentieri e mantenendovi, non
senza fatica, gli alpeggi.
Sono state montagne dalla frequentazione adolescenziale ed un poco
proletaria, di guide improvvisate, che hanno però saputo trasmettere in quei
frequentatori in erba l’amore per la natura, l’amore per la montagna, non solo,
ma attraverso questi, il rispetto per gli altri ed una vita improntata alla
proposizione, con semplicità e coraggio, proprio come la montagna insegna.
La nostra sottosezione ha tratto beneficio da questo e tutti i nostri collaboratori
che adesso si aggirano attorno alla sessantina (e che sono fra i più attivi) si
sono formati sulle pendici di questi monti.
Il Dosso dei Morti si annovera fra queste cime. Montagna intensamente
popolata durante la prima guerra mondiale, restituisce ancora cimeli nascosti
che sono andati ad arricchire il Museo della Guerra Bianca di Bersone.
Montagna dall’ingannevole nome sinistro ma che invece si rivela una grande
montagna di luce, fatta di pascoli estesissimi, di panorami circolari vasti e
remunerativi. Questo suo rapporto con i morti non trapela da pagine di storia
fatti di battaglie e massacri. Piuttosto riposa sulla nozione, comune in queste
zone, che i morti andassero ad abitare sulle montagne. E’ così che abbiamo
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anche “il monte delle tombe” ovvero il Tombea e la leggenda degli spiriti dei
morti che abitano la Rocca Pagana di Storo.
Il Dosso dei Morti non ha nulla di terrifico, nulla di tetro. E’ una montagna solare
ed alla solarità sono improntate tute le sue vie di salita. Esse erano assai
numerose e nette. Attualmente sono cancellate dal tempo. Questo però non
rende la sua salita proibitiva.
Montagna di grande interesse sotto il profilo geologico, come del resto tutto il
sottogruppo del Breguzzo a cui geograficamente appartiene. Dalle sue pendici
si possono osservare gli interessanti metamorfismi che caratterizzano il Corno
Vecchio (detto anche Monte Corona). Alle rocce metamorfiche è legata la
presenza di una flora assai ricca e variegata.
Le rocce metamorfiche affiorano in precipizi anche sul versante di Val Daone e
risultano assai evidenti e spettacolari percorrendo a piedi tutta la dorsale che
unisce il Dosso dei Morti alla cima del monte Stablel
Gran parte della toponomastica di questi luoghi ricorda l’attività pastorale.
Ricorre spesso il termine Stablo, Stablel, di chiara derivazione dal latino
stabulum = stalla.
ITINERARIO.
Bisogna portarsi in macchina fino all’abitato di Roncone. Dalla sua piazza,
posta nella parte alta del paese, bisogna seguire le indicazioni per Ristorante
La Pozza. Si percorre quindi una strada asfaltata, assai stretta, per alcuni
chilometri, che supera il declivio orientale del monte Stablel (m 1845). Questa
strada, alla fine, giunge a lambire una baita in corrispondenza della quale
compare il segnale di divieto di transito ai mezzi non autorizzati. Qui è
necessario parcheggiare (poco spazio disponibile). La strada da percorrere in
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automobile viene evidenziata in bianco sulla cartina di questa pagine (aggiunta
mia in quanto non cartografata sulla IGM 1:50.000)
A questo punto si prosegue a piedi oltre il segnale di divieto di transito,
seguendo la carrareccia dapprima in cemento e poi sterrata che sale con
tornanti regolari in un ricco bosco misto (faggi e abeti rossi) per poi finalmente
sbucare nell’ampio pascolo costituito da tutto il versante di monte meridionale
che congiunge il Dosso dei Morti alla vetta del Monte Stablel.
Il passaggio al pascolo avviene nel punto in cui la carrareccia aggira e supera il
costolone meridionale di quest’ultimo monte.
Con pendenza moderata supera, lasciandola sulla destra, Malga Pozza e quindi
taglia diagonalmente con un lungo traverso diretto a ovest tutto il versante di
monte per poi guadagnare, quasi, la linea di cresta, con alcuni ampi tornanti.
La carrareccia termina in corrispondenza di Malga Avalina, un alpeggio
costituito da una abitazione e una grande stalla. A Malga Avalina è bene
rifornirsi di acqua. All’interno della stalla vi è un’ottima sorgente di acqua
freschissima.
A questo punto si prosegue per sentiero, contornando la bella pozza di alpeggio
antistante la malga stessa. Questo sentiero, attualmente non in ottimo stato di
conservazione, doveva essere una importante mulattiera militare. Esso taglia
diagonalmente ed in costante pendenza tutto il versante orientale che discende
direttamente dalla vetta del Dosso dei Morti. Esso termina e si perde nel
pascolo in corrispondenza di un costolone pascolivo che discende dalla vetta. A
questo punto è bene puntare verso la vetta, con salita più ripida nel pascolo,
cercando di trovare la via con pendenza minore fra le irregolarità del terreno. E’
facile individuare il solco di una vecchia trincea quasi interrata. Io consiglio di
seguire questa fino alla piccola anticima della montagna. Si segue poi per un
centinaio di metri la larghissima sella che la collega alla cima. In tutto il percorso
il panorama diviene man mano più vasto.
Dalla cima del Dosso dei Morti (m 2183) si segue poi un sentiero di cresta, ciò
che rimane del percorso militare che univa questa montagna alla vetta del
Monte Corona (m 2.508) (altrimenti detto Corno Vecchio). Tutto il sentiero è
attualmente percorribile.
Ci si dirige lungo questo tracciato senza mai perdere di vista la vasta conca che
rimane, più in basso, sulla destra. Quando il dislivello fra la linea di cresta che si
sta percorrendo e il fondo della conca sembra essere minimo, senza percorso
obbligato, ci si abbassa verso di essa, scendendo senza traccia, attraverso un
vastissimo pendio a rododendri, verso il fondo della conca. La discesa non è
pericolosa e ci consente di arrivare al fondo di questa piccola valle dove,
soprattutto ad inizio estate, si raccolgono le acque di scioglimento della neve.
Alla estremità opposta della conca si raggiunge una carrareccia che va seguita
verso destra (seguendola a sinistra si raggiunge Malga Stablo Fresco sotto la
cima del Monte Corona). Questa carrareccia in lieve pendenza percorre tutto il
versante settentrionale del Dosso dei Morti fino a giungere a Malga Avalina. Da
questo punto in poi il ritorno segue il tragitto dell’andata.
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Il Monte Re di Castello dalla dorsale del Dosso dei Morti
Verso Stablel Fresco
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L’INAFFERRABILE PASSO RONDON
Il fascino ammiccante dell’irraggiungibile
Domenica 21 giugno 2009
“Come è lento il tempo nel consumare l’essenza delle cose”
La zona del Passo del Termine ha suscitato fin dall’inizio nel mio animo il
desiderio di percorrerla. Sarà forse stato quell’appellativo di “Termine” ad
indicare la “terra ultima” ad esercitarne il fascino oppure quella sensazione di
“fine” che già aveva sedotto mio padre e che lo aveva convinto ad
accompagnarmi in una delle mie esplorazioni della zona. Esattamente venti
anni fa mi sono recato al Passo del Termine per la prima volta. Da allora la mia
frequentazione si è fatta più insistente e mi ha spinto ad esplorare anche le
zone circostanti. Dalla zona del Termine, con percorsi segnalati, si può
raggiungere il Passo di Serosine ed il Monte Listino e ricollegarsi all’Alta Via
dell’Adamello. Ma io sono particolarmente incline a ciò che non è codificato. Mi
lascio sedurre dai nomi e dal paesaggio: E così mi sono spinto al Passo del
Gelo, ho salito il Monte del Gelo e, per ben due volte, ho provato l’autentica
emozione di “camminare sospeso sulla fune” nell’ardito percorso della cresta di
Cima Blumone, la montagna che separa il Passo del Termine dal Passo del
Gelo. E’ stato proprio dalla Cima di Blumone, in una occasione salita con
l’amico Marco, che la mia attenzione venne attratta da una linea che tagliava
alla base tutta la immane parete nord del Monte del Gelo. Ad occhio nudo
poteva sembrare uno strato di roccia, oppure una piccolissima cengia.
La vista suggeriva però anche che potesse trattarsi di un vecchio sentiero, allo
stesso modo del “sentiero delle Cingie” della Cima di Caione.
La sua osservazione con il binocolo non lasciava dubbi: era un sentiero, anzi,
alcuni punti sostenuti da muretti di pietre a secco suggerivano la sua natura di
mulattiera militare. In alcuni tratti essa scompariva, travolta dalle frane e dai
cedimenti del terreno nonchè dalle frequenti slavine che imperversano in questa
zona. Un rapido consulto alla tavoletta IGM 1:25.000, disegnata su quella
austriaca del 1905 e aggiornata al 1920 inequivocabilmente indicava la
presenza di una mulattiera che congiungeva il Passo del Gelo al Passo di
Rondon, un altro luogo sperduto, sicuramente presidiato durante la Prima
Guerra Mondiale, ma sconosciuto agli alpinisti o agli escursionisti essendo
frequentato solo da cacciatori.
Si completa così il fascino di questi luoghi. Dal sapore di “finis terrae” del Passo
del Termine, là dove termina una valle, dove passa il confine, si traghetta
immediatamente con il pensiero alla solitudine fredda e remota del Passo del
Gelo e del Passo Rondon. Luoghi estremi, dove lo scorrere del tempo dà l’idea
del lento decadere delle cose, non solo di quelle umane ben rappresentate dai
ruderi del Termine e la cui osservazione mi porta al pensiero del tempo
eracliteo, ma anche di quelle della natura, di quel lento e inesorabile
trasformarsi che però va oltre la logica di Eraclito e mi suggerisce la visione di
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Schopenhauer: tutto cambia come epifenomeno ma la cosa in sé rimane poiché
nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma.
L’escursione al Passo Rondon spinge a suggestioni di lontananza, di
solitudine, a testimonianze di presenze antiche. A causa dell’abbandono degli
antichi sentieri si ha sempre l’impressione di compiere un cammino esplorativo
fatto di paesaggi inimitabili. Lontano da sguardi indiscreti, quasi appartati in un
angolo di monte che sembra riserbare un mondo a sé, si può godere di quella
bellezza remota che solo i lunghi tragitti meditativi ci sanno regalare.
Il Passo del Gelo e quello di Rondon hanno il sentore di luoghi gelidi, dove la
neve alberga a lungo, dove i venti del nord soffiano insistenti e dove
l’escursione diviene cosa da pionieri.
Passaggio su placca di neve tra il Serosine e il Gelo
ITINERARIO
Il cammino prende l’avvio dal parcheggio antistante la Centrale del Caffaro alla
estremità settentrionale della piana del Gaver. Un sentiero segnalato con indicazione
del Passo del Termine inizia subito ad impegnarsi sulle pendici meridionali del Cornone
di Blumone. Si entra quindi nell’alta valle del Caffaro e si prosegue verso settentrione
con un cammino che alterna pendenze moderate a pendenze più ripide. Si supera la
Malga Blumone di Mezzo, ormai diroccata e si perviene ad una piana, teatro sovente di
alluvioni da parte del torrente. Qui il sentiero è stato distrutto da una recente slavina. Si
supera agevolmente questo tratto per recuperare nuovamente la traccia segnalata che
a questo punto supera un gradino per portarsi ad una condotta interrata che taglia
diagonalmente tutto il versante orientale del Cornone di Blumone (essa porta acqua dal
Lago di Serosine alla Centrale del Caffaro), Sulla destra il torrente disegna una
splendida cascata. Ora il sentiero diviene più pianeggiante e giunge ad una zona di
avvallamenti morenici (acqua freschissima da una fonte sulla sinistra). A destra il
torrente forma piscine di acqua limpidissima alimentato da un notevole getto di acqua
che sgorga dalla destra. Si perviene quindi a ciò che resta del Casinello di Blumone (m
2099) che preannuncia una bella vallata piana racchiusa dalle pendici occidentali del
Serosine a destra, lo Scoglio di Laione a sinistra e chiusa a nord dalla mole della Cima
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di Blumone (m 2.565). Questo pianoro, forse letto di un antico lago, è popolato da
numerose famiglie di marmotte.
Al Casinello di Blumone si scende sulla destra al letto del torrente e lo si attraversa per
imboccare l’evidente sentiero che sale sul versante destro, segnalato, che conduce al
Passo di Serosine (m 2426). Lo si segue per una decina di minuti in modo da portarsi
sul versante meridionale di questa elevazione e lo si abbandona in corrispondenza di
un valloncello erboso che scende dalla sinistra. Si sale il valloncello senza tracciato, si
supera un piccolo passetto e si ritorna in vista del pianoro del Casinello di Blumone,
questa volta circa 150 metri più in basso e sulla sinistra. Si trova una traccia che va
seguita verso nord lungo il pendio della montagna e che termina in corrispondenza di
una maggiore accentuazione del pendìo stesso. Bisogna superare questo passaggio
con un poco di prudenza (molta attenzione in caso di neve residua !!) e si perviene ad
una piccola scarpata erbosa che permette di vedere a sinistra un profondo vallone che
precipita nella piana del Casinello e sulla destra una vasta zona torbosa residuo di un
antico lago. A questo punto la geografia del posto è evidente. Al di là della zona
torbosa abbiamo tutta la frastagliata dorsale che congiunge il Monte del Gelo al Monte
Serosine (m 2577). Il nostro percorso prosegue su terreno libero, a festuca ovina,
verso nord in direzione di una propaggine erbosa che scende dalla Cima di Blumone.
Qui si trova una debole traccia che si impegna in un valloncello assai largo che si
incunea fra la Cima di Blumone (m 2.565), a sinistra, e il Monte del Gelo a destra. Si
perviene rapidamente con modesta salita al Passo del Gelo (m 2.319) dove si trova un
muro a secco di trinceramento.
Dal Passo del Gelo una mulattiera in granito scende di alcuni metri e quindi si dirige
con percorso in pendenza moderata verso nord-est tagliando alla base tutta la parte
nord del Monte del Gelo (m 2.621). Giunge quindi sotto una forcella e qui comincia a
salire verso destra in modo da arrivare all’intaglio del Passo Rondon (m 2.484). Il tratto
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che va dal Passo del Gelo al Passo Rondon può presentare punti disagevoli che
devono essere superati con prudenza e piede fermo.
Ho evidenziato questo tragitto sulla carta IGM con colore rosso.
Possibili Variazioni:
1. Dal Casinello di Blumone ci si può dirigere con sentiero segnalato facile al Passo del
Termine (linea verde).
2. Per gli amanti del brivido. appena prima del Passo del Gelo, si può risalire senza
percorso obbligato, sulla sinistra, tutto il ripido versante erboso della Cima di Blumone
per guadagnare la larga cresta che conduce ad una anticima e quindi alla sua cima (m
2565). Da qui si segue sempre la cresta che diviene sottile e strapiombante da ambo i
lati (in alcuni punti “passo da modella” con un piede davanti all’altro). Il percorso è
altamente spettacolare ma altrettanto ardito (da vietare a coloro che soffrono di vertigini
o che non sono abituati a percorsi di questo genere). Si giunge infine in vista del
sottostante Passo del Termine. Appena prima della discesa, attenzione sulla sinistra
per recuperare l’esilissima linea di un vecchio sentiero di arroccamento della Prima
Guerra Mondiale (linea verde punteggiata).
3. Dal Passo Rondon, con percorso su magro pascolo fra rocce e erba si scende un
vallone compreso tra la Cima di Rondon e la Cima di Bozzolo sino a trovare (attenzione
!!) una traccia che percorre trasversalmente, mantenendo la quota, tutto il versante
detto “il Tendone” fino ad allacciarsi a sud con l’evidente sentiero che scende dal Passo
di Serosine. Percorrendo quest’ultimo verso destra si rimonta il Passo di Serosine per
poi scendere al Casinello di Blumone (linea viola).
Per eventuali informazioni contattatemi o scrivetemi.
Il Cornone di Blumone dal Casinello di Blumone
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SALVARE LE ALPI
UNA COPERTA GEOTESSILE PER SALVARE IL GHIACCIAIO
Il primo esperimento italiano di protezione attiva su ghiacciaio intrapreso da Lievissima
in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, ha ottenuto risultati positivi e di
grande interesse scientifico: alla fine di ottobre 2008, quando l’esperimento si è
concluso, lo spessore di neve non disciolta e di ghiaccio sopravvissuto alla stagione
estiva raggiungeva quasi due metri di altezza.
Lo scorso 14 maggio il team di ricercatori dell’Università di Milano, sotto la guida del
Prof. Claudio Smiraglia (Presidente del Comitato Glaciologico Italiano), ha steso, per la
prima volta in Italia, sul ghiacciaio Dosdè Orientale, nel settore montuoso PiazziDosdè, una copertura sperimentale di geotessile. Il telo – un “non tessuto” bianco puro
– agisce creando una barriera fisica tra i raggi solari e la neve e il ghiaccio sottostanti.
Limitandone così la fusione durante il periodo estivo. Il geotessile, steso su una
porzione sperimentale di 150 mq, ha ridotto l’ablazione della neve invernale e
primaverile e soprattutto del ghiaccio sottostante preservando uno spessore
complessivo di 190 cm (uno strato di 75 cm di neve densa e compatta al di sopra di
115 cm costituiti da ghiaccio di ghiacciaio). Lo spessore di neve presente sul ghiacciaio
a maggio, tenendo conto della sua densità, equivaleva a 129 cm di acqua, quello
presente a ottobre equivaleva a 56 cm di acqua. L’esperimento ha permesso così di
salvare il 43% di spessore dell’acqua rappresentata dalla neve compatta presente al
momento della stesura del telo sul ghiacciaio e soprattutto di azzerare la fusione del
ghiaccio sottostante (i 115 cm salvati equivalgono a 105 cm di acqua e rappresentano
lo spessore di ghiaccio perso dal ghiacciaio nelle zone non coperte dal telo). In totale,
tenendo conto anche del ghiaccio preservato dalla fusione, si è salvato uno spessore
di acqua di 161 cm. Il volume di acqua preservato è risultato di circa 115 mc,
corrispondente a 115.000 litri.
La riduzione dei ghiacciai alpini è un fenomeno che si sta accentuando negli ultimi anni
a causa del riscaldamento climatico in atto. Infatti, oltre l’80% dei ghiacciai sta
manifestando chiari e visibili impatti di questi cambiamenti e gli oltre 800 ghiacciai
italiani nell’ultimo secolo hanno mostrato ingenti perdite, areali e volumetriche. Sono ad
oggi possibili pochi interventi diretti a mitigare gli effetti del riscaldamento atmosferico
sui ghiacciai alpini, tra questi uno dei più efficaci si è rivelato l’utilizzo di una copertura
protettiva superficiale.
“E’ certamente impensabile intervenire con strategie di protezione attiva su tutti i
ghiacciai italiani, ma, grazie alla iniziativa attuata, abbiamo potuto verificare
l’applicabilità e l’efficacia delle strategie di mitigazione attraverso la sperimentazione su
un ghiacciaio campione. Visti i risultati più che soddisfacenti che hanno permesso di
preservare indenne dalla stagione estiva una parte della neve invernale e tutto il
ghiaccio sottostante la copertura” – afferma il Prof. Smiraglia – “questo approccio
potrebbe avvenire applicato in particolari situazioni, ad esempio laddove finestre
rocciose emerse dalla superficie glaciale agiscono d’estate come vere e proprie
trappole di calore ampliando la fusione glaciale e portando in ultima analisi alla
disgregazione di interi apparati. In questi casi una copertura bianca riflettente come il
geotessile (che tra l’altro scherma completamente la radiazione UV molto energetica)
potrebbe ridurre efficacemente l’assorbimento di energia e quindi l’emissione di calore
da parte delle rocce e limitare la fusione glaciale”.
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CRONACA DI UN ESPERIMENTO.
Il ghiacciaio del Dosdè Orientale, circa un chilometro quadrato di superficie, è dotato di una
lingua che fluisce nella valle del Dosdè, dove si concentrano gli apparati glaciali del gruppo
Piazzi. Questi ghiacciai sono abitualmente in fase di intenso regresso a seguito del
riscaldamento climatico in atto: il ghiacciaio Dosdè Orientale dal 1997 ad oggi ha perso
mediamente uno spessore di acqua pari a 14 metri.
Estate 2007: per ampliare la raccolta di dati meteorologici sopraglaciali è stata collocata dai
ricercatori dell’Università di Milano, sempre nell’ambito del progetto di ricerca supportato da
Lievissima, una stazione meteorologica automatica sulla superficie del ghiacciaio, la più alta in
Lombardia su ghiacciaio (m 2.740), per raccogliere dati importanti sui flussi termici ed
energetici.
14 maggio 2008: per la prima volta in Italia, si è proceduto alla stesura di una parcella
sperimentale di geotessile sulla superficie del ghiacciaio. La superficie sottoposta a protezione
si estendeva per 150 mq. Per mantenere stabile la posizione del telo sulla superficie del
ghiacciaio si sono dislocati lungo il perimetro dei blocchi rocciosi ricoperti con porzioni di telo
stesso; l’intera superficie appariva perfettamente bianca ed omogenea.
Giugno 2008: ad un mese dalla stesura si è osservato un apparente innalzamento del telo di
30 cm rispetto alla superficie glaciale circostante – la neve sotto il telo si è fusa più lentamente
di quella circostante esposta direttamente alla radiazione solare. Verso la fine del mese i
risultati erano ancora più visibili: lo spessore della neve sotto la copertura geotessile
raggiungeva i 60 cm a monte e i 40 cm a valle.
Luglio 2008: l’altezza del manto nevoso protetto dal geotessile è risultata pari a 140 cm a
monte e 80 cm a valle; i rilievi nivologici indicano una riduzione di spessore generale della neve
invernale di 2 m, che invece sotto la superficie del geotessile si è preservata al 60%,
registrando un abbassamento al di sotto del metro.
Agosto 2008: quando la superficie glaciale si trovava quasi totalmente libera dalla copertura
nevosa, il geotessile manifestava ancora più chiaramente la sua efficacia. La porzione protetta,
rappresentata sia da neve compatta sia da ghiaccio di ghiacciaio, emergeva ormai di circa 190
cm a monte e 120 cm a valle.
Ottobre 2008: conclusione dell’esperimento e sintesi dei dati raccolti: nella zona non protetta si
è avuta una perdita di 244 cm di acqua equivalente (129 cm costituita dalla copertura nivale e
115 cm dal ghiaccio vivo), nella zona protetta si è avuta una perdita di 73 cm (tutti dalla
copertura nivale in quanto la protezione del ghiaccio è stata totale). In sintesi la protezione ha
ridotto l’ablazione totale del 66%.
NOTIZIE RELATIVE AL GHIACCIAIO DOSDE’ EST (da catasto ghiacciai lombardi)
Occupa quasi per intero il bel vallone posto a settentrione del circo racchiuso tra il Sasso di
Conca e la Cima di Lago Spalmo (m 3294). La localizzazione geografica di detto vallone
rispetto al solco principale della Val Viola sottrae al ghiacciaio la qualifica di apparato vallivo che
forse meriterebbe in virtù delle caratteristiche intrinseche. Sono ben documentate le sue
variazioni storiche: gli archi morenici concentrici che si incontrano al di sopra del risalto a 2300
metri di quota, a poche decine di minuti dagli alpeggi, testimoniano del massimi raggiunti nella
Piccola Età Glaciale, che trovano riscontro nella notevolissima morena ad arco in destra
idrografica. Sino agli Anni Trenta la lingua raggiunge ancora la quota di 2395 m ed è
chiaramente visibile dall’Alpe Dosdè. Segue una lunga fase di ritiro che fa arretrare la fronte di
296 m in 21 anni (1953). Successivamente, mediante regolari controllo, Bellotti misura un
ulteriore arretramento di 268 m in 27 anni (1970). Quindi dal 1932 al 1970 il ghiacciaio presenta
un ritiro lineare di oltre 500 metri, con una perdita di superficie stimata ad un quinto di quella
totale. A partire dal 1971 si verifica una inversione di tendenza che porta ad una avanzata totale
di 108 metri in 14 anni. Il 1985 segna l’inizio del nuovo ritiro, tuttora in corso, notevolmente
accelerato dagli eventi alluvionali del 1987 che hanno avuto effetti marcatissimi su questo
apparato.
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NATURA DI GIUGNO
La Pulsatilla
L’escursione al Dosso dei Morti mi ha restituito la emozione dell’incontro con la
Pulsatilla. Quest’anno ne avevo incontrate poche. Anche la salita alle Case di
Bles, che notoriamente nella primavera abbonda di queste fioriture, mi aveva
privato della vista di questi bellissimi fiori. Complice la neve abbondante, che ai
primi di giugno doveva ancora sciogliersi, e le basse temperature (il 2 giugno si
è presentato alle Case con una bella nevicata), la Pulsatilla ha notevolmente
ritardato la sua comparsa.
Al Dosso dei Morti invece, sotto uno splendido sole, l’intero pascolo era in
preda ad una grande fioritura: soldanelle, genziane, genzianelle ed una grande
quantità di pulsatille.
Delle pulsatille mi colpisce la bellezza. Una bellezza transitoria ed effimera. Dal
suo fulgore infatti questo fiore trapassa nella forma di un pappo che nulla ha
che vedere con il fiore che lo ha generato. Tipica metafora della bellezza che
appare. Ma dietro l’apparenza le vera bellezza consiste in quella mirabile
macchina genetica e biochimica capace di trasformare il fiore nella sua forma
vegetativa. Verrebbe spontanea la stessa domanda che Junger si poneva
davanti allo scarabeo spagnolo: a che tanta magnificenza? Per che cosa tanto
splendore e tanto spreco di energia per poi ridursi ad un pappo insignificante
(almeno da un punto di vista estetico)?
Fino a poco tempo fa le pulsatille erano classificate tra gli anemoni ma i botanici
di oggi hanno preferito creare un genere a parte, con più specie che presentano
caratteristiche morfologiche diverse da quelle degli anemoni.
Certo questo è stata opera di botanici che amano fare “i piedi alle mosche”
(Favarger: Flore et vegetation des Alpes). A mio avviso l’appartenenza alla
categoria degli anemoni avrebbe certamente reso giustizia per quell’affidare i
propri semi al vento, ovvero, avrebbe certamente rispettato i criteri di una
impollinazione prettamente anemofila come quella che si realizza proprio a
proposito di pulsatilla.
La madre di Italo Calvino (Eva Mameli Calvino, Piante da fiore e ornamentali),
invece, appassionata di flora, considera ed avvalla la tesi della appartenenza al
genere degli anemoni in virtù della radice dorica (αµονα) amòna, sangue, per il
colore rosso dei fiori di Anemone hortensis, bellissimo fiore dei boschi cedui che
però non alberga nella provincia bresciana.
Lo Zangheri, autore della mia prima Flora d’Italia, a cui sono affezionato non
tanto per il sui contenuto ormai superato da testi più aggiornati, quanto per aver
condiviso i miei anni di studente, cita nel genere Pulsatilla le specie: Pulsatilla
alpina (comprendente le subspecie alpina ed apiifolia), la Pulsatilla vernalis, la
Pulsatilla montana, la Pulsatilla vulgaris e la Pulsatilla halleri.
A me sono particolarmente famigliari la alpina e la vernalis.
La vernalis, soprattutto, con quel tanto di attributo che va pensare all’inverno ed
invece trattasi di un fiore che annuncia la primavera.
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Le pulsatille infatti sono piante dalla fioritura precoce, alla stessa stregua dei
crochi e delle soldanelle. Esse seguono lo scioglimento delle nevi e si offrono ai
primi bombi in cerca di nettare. Punteggiano volentieri i prati di erba isiga (o
iscla come dir si voglia a seconda della località) quando il festuceto porta
ancora i segni dell’appiattimento nivale e il suo colore è ancora quello giallo
della festuca rinsecchita dai rigori invernali.
E poi che dire del nome? Un nome vibrante che reca il tono di una matrona
romana. Mi piace quell’assonanza terminale che mi ricorda Domitilla, Camilla,
tutti nomi che nulla hanno a che fare con il nostro fiore. Esso lo deve a quel suo
ritmico ondeggiare sotto la spinta delle correnti del vento che fanno si che
sembri pulsare. Alla fine pulsatilla (da pulsare, agitare) altro non fa che rifare il
verso ad anemone, da anemos, vento, inteso nella capacità di fare ondeggiare
i vegetali al suo passaggio. A meno che non si accetti la versione che vuole
Pulsatilla in grado di provocare, se ingerita, disordinate pulsazioni cardiache.
Il nostro botanico bresciano Arturo Crescini così descrive la Pulsatilla: “specie
perennante, alta dai 5 ai 12 cm, con fusto alla base legnoso, avvolto da guaine scure;
scapo eretto, in alto incurvato, con peli lanosi per lo più riflessi. Foglie basali ben
sviluppate alla fioritura, largamente lanose, con tre (fino a cinque) segmenti pennati,
profondamente divisi in 3-5 lacinie larghe 2-3 mm; foglie cauline con peli lanosi lunghi
fino a 5 mm, completamente divise in lacinie semplici triforcute. Fiore unico, pendulo;
petali bianchi all’interno, estremamente lanosi, rosei o violetti, alla fioritura di 5 x 15
mm, nel frutto allungati fino a 25 mm e più scuri”.
Questa descrizione si riferisce alla specie vernalis. Inutilmente cercheremo foglie
radicali alla fioritura nella alpina mentre i fiori sono intensamente gialli nella subspecie
alpina apiifolia, e pendenti, violaceo scuri nella Pulsatilla montana.
In ogni caso trattasi di piante pelose, con peli che interessano il fusto, le foglie ma
anche la estremità dei petali, al modo delle orecchie della lince.
La presenza di un apparato pilifero fa nascere spontanea la domanda del perché. Non
so se sia esatta la mia interpretazione, ma certamente dal punto di vista della fisiologia
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non è da scartare. Pulsatilla è genere precoce, con antesi ad alte quote, fra i 1.200 e i
2.500 metri, fra giugno e luglio, quando le temperature possono essere ancora basse.
Mi piace una analogia con i peli dell’uomo che si rizzano con la esposizione al freddo
per creare uno straterello di aria isolante nei confronti dell’ambiente esterno.
Pulsatilla montana
Le pulsatile appartengono alla famiglia delle ranuncolacee. Come tutte le ranuncolacee
contengono principi velenosi. Essi sono la anemonina e la protoanemonina. La
presenza di queste sostanze ne limita l’uso per via generale. La tossicità infatti si
esprime a livello renale, a livello del sistema nervoso centrale e a livello cardiaco.
Se ne consiglia l’uso solo attraverso prodotti per applicazione topica come le pomate.
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Pulsatilla alpina subs. Apiifolia
DAL CONSIGLIO DEL C.A.I. DI MANERBIO
•
Dal 31 maggio al 2 giugno si sono svolti i lavori di apertura e ordinaria
manutenzione alle Case di Bles. Quest’anno i lavori sono stati posticipati
di un mese a causa delle abbondanti precipitazioni nevose. Non si sono
rilevati danni strutturali agli edifici e al tetto. Si è proceduto comunque al
taglio, previa autorizzazione delle Autorità Forestali e di quelle Comunali,
di tre grossi larici la cui posizione risultava particolarmente minacciosa
per la integrità dell’edificio.
•
La escursione alla Bocchetta di Valmassa, prevista per il 19 luglio è stata
anticipata alla domenica 12 luglio. Dopo accurata verifica del percorso
scelto, il coordinatore della escursione, sig. Giuseppe Bravo, ha
espresso parere relativamente alla anticipazione di 30 minuti della
partenza da Manerbio. Pertanto, per detta escursione, la partenza
avverrà alle ore 6,30 da Piazza Falcone a (Manerbio ) invece che alle
ore 7.00 come da libretto.
•
La escursione alla Cima d’Asta, prevista per l’11 e 12 luglio è stata
posticipata al 18/19 luglio. Il cambiamento di calendario è dovuto alla
ritardata apertura del Rifugio Brentari a causa delle abbondanti
precipitazioni nevose. Nulla è cambiato riguardo agli orari di partenza. Il
coordinatore della escursione, sig. Fabrizio Bonera, comunica che i posti
disponibili sono esauriti.
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LE BUONE LETTURE
PER SEMINARE GUARDAVAMO LA LUNA
di Michela Capra
Edizioni GRAFO, Brescia 2008
Pp 269 – Euro 20.00
La cultura alpina di necessità passa attraverso gli uomini che hanno abitato la
montagna. Così le colline alle spalle della città di Brescia, città alpina per eccellenza
per lo sbocco delle tre grandi valli che verso nord penetrano nella regione delle Alpi,
diventano luogo di tradizioni ed usanze che meritano di essere recuperati.
I famigliari Ronchi sono il luogo in cui cresce tutto un popolo contadino, i roncher, i cui
usi, costumi e tradizioni hanno contribuito a plasmare una cultura locale che non può e
non deve essere dimenticata.
Michela Capra, giovane e intraprendente ricercatore di beni demo-etno-antropologici,
attraverso il metodo della intervista, della visita in loco e del recupero di materiale
iconografico ci regala questo splendido libro che Ella ha sapientemente redatto con il
metodo dell’archeologo. Questo non un termine curioso ad hoc per definire i metodi di
ricerca, bensì ciò che la stessa Autrice ha detto nel corso della presentazione: “tutto
quanto è stato documentato nel libro è attualmente pura archeologia”. E’ un mondo che
appartiene al passato e che difficilmente può rivivere se non attraverso il recupero della
memoria. Memoria non solo dei ritmi, dei tempi, degli usi, dei rituali, ma anche degli
ambienti in cui le attività dei roncher si svolgevano. Si scoprono allora una quantità di
sentieri che come un fitto reticolo percorrevano tutto il monte, in una trama di
comunicazione ma anche di solidarietà.
Riemergono così il Senter de le Strasere, il Senter dei Roncher, Il Senter de la Ca de
Bram, il Senter de Mes, e così via. Tracciati ormai perduti che dovrebbero essere
ripercorsi con la consapevolezza del lavoro e della fatica di chi abitualmente e
quotidianamente li percorreva.
La lettura del libro è piacevole e vivace. La mole di notizie veramente notevole.
Anche il titolo è accattivante. Parla di tempi non dettati dall’orologio ma dai ritmi della
natura, il tempo della montagna che troppo spesso gli escursionisti dimenticano, così
legati, come sono, ai tempi dell’orologio. Il libro di Michela Capra è un omaggio al
simbolismo della montagna.
P.S. Il libro è stato presentato nella Sala Conferenze del C.A.I. di Brescia. Sono
andato alla presentazione; l’Autrice si è rivelata una piacevole sorpresa.
Unico rammarico: eravamo presenti solo in otto. A testimonianza del fatto che i
frequentatori della montagna hanno ancora idee un poco confuse su quello che
si intende per cultura alpina.
La serata ha avuto una valenza decisamente superiore a quelle di tanti alpinisti
blasonati.
Mi sono accorto che trasmettere l’amore per la montagna richiede ancora molto
lavoro.
Sicuramente si tratterà, però, di una fatica gratificante.
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NOTIZIE IN BREVE
Girovagando per le montagne spesso il nostro
sguardo viene attratto dalle splendide fioriture.
Certamente è il senso estetico che ne viene
stimolato. Tuttavia sarebbe un errore soffermarsi
semplicemente all’apparenza della bellezza
estetica. Bisogna sempre domandarsi che cosa
c’ è dietro, oltre quella immagine che accarezza
il nostro senso e che rende piacevole la nostra
escursione. Il vero cultore della botanica non si
arresta alla morfologia ma cerca il senso della
funzione.
La minuscola pianticella raffigurata qui accanto è
la Arabis alpina, detta volgarmente Arabetta
alpina o Arabetta di monte. L’ho incontrata
soprattutto nei luoghi aridi e nei circhi glaciali del Monte Baldo. Ha una origine
eurasiatica, fiorisce da aprile a agosto ed appartiene alla famiglia delle Brassicaceae.
Mi offre lo spunto per considerazioni interessanti riguardanti i meccanismi genetici e
biochimici delle fioriture.
La maggior parte degli studi riguardanti i meccanismi della fioritura sono stati condotti
sulle piante annuali ed in particolar modo su una stretta parente della nostra Arabis, la
Arabidopsis thaliana. In letteratura pochi lavori invece sono stati condotti allo scopo di
chiarire di come sia regolata la fioritura nelle piante perenni, cioè in quelle piante che
vivono numerosi anni e sono soggette più cicli di fioritura. Uno studio condotto su
Arabis alpina ha permesso di identificare un gene, il PEP1 (perpetual flowering 1), che
regola tre caratteristiche chiave delle piante perenni. Esso viene coinvolto nella
limitazione della durata della fioritura, nell’impedire la fioritura di alcune parti della
pianta e nel limitare la fioritura alla stagione primaverile.
Il PEP 1 è l’ortologo del FLC (flowering locus c) repressore della fioritura in Arabidopsis
thaliana che, a mezzo di alcune modificazioni della cromatina, inibisce la fioritura per
tutto il periodo della esposizione a basse temperature.
Il PEP1 ha funzioni nelle piante perenni che non trovano corrispondenza in quelle
annuali e queste paiono essersi evolute attraverso modificazioni istoniche a livello dei
loci FLC e PEP1.
La biochimica molecolare e la genetica ci svelano meccanismi sopraffini che a volte
sembrano sopravanzare le nostre intuizioni.
Ciò rende ancora più vera la intuizione di Hegikan Roku :
“Il fiore adempie alla sua immanenza, l’intelligenza è implicita nel suo
schiudersi”
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NOTIZIARIO DEL C.A.I. DI MANERBIO