GRUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi RASSEGNA STAMPA Anno 7o, n.6 - Giugno 2014 Sommario: C'era una volta, anzi mezza……………………………………………………………………………………pag. 2 Esiste la critica fotografica in Italia? Si, no, forse…………………………………………………pag. 4 La fotografia è un (dito) indice………………………………………………………………………………pag. 7 Abbasso il selfie, viva l'autoritratto.………………………………………………………………………pag.10 Tutto un riguardar di sguardi………..………………………………………………………………………pag.12 L'Hemigway a Guidi" la Fotografia è mutazione continua"..…………………………………pag.14 Che fine hanno fatto i personaggi di alcune storiche fotografie……………………………pag.16 Il piccolo guru, Blow-Up, i bambini e le fotografie..………………………………………………pag.21 Il fotografo col suo bicchiere sulla sponda del fiume.……………………………………………pag.25 Ti vedo, non ti vedo, cioè ti parlo....………………………………………………………………………pag.27 I miraggi della fotografia…..……………………………………………………………………………………pag.29 Torino: Festival della fotografia storica.…………………………………………………………………pag.30 Considerazioni di un idiota sulla fotografia d'arte.....……………………………………………pag.31 Sei camera chiara…………………..………………………………………………………………………………pag.36 Lo choc delle neo-foto………….…………………………………………………………………………………pag.38 Fulvio Roiter……………………….……………………………………………………………………………………pag.40 Scianna e i grandi scatti della sua vita…..…………..…………………………………………………pag.42 Togliamocelo dalla faccia…..……………………………………………………………………………………pag.43 Foto mia, proteggimi dall'arte…………………………………………………………………………………pag.46 Helmut Newton e sua moglie, erotismo, paesaggi..………………………………………………pag.49 Fotografi, fotografanti e fotografisti.………………………………………………………………………pag.51 L'anarchico che ha messo a fuoco Napoli….…………………………………………………………..pag.53 …………………… 1 C’era una volta, anzi mezza di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Jason Eskenazi, Crimea, © Jason Eskenazi, g.c. “Forse dovrei smettere di guardare nel mirino”,confessa Jason Eskenazi al New York Times, non riesco del tutto a capire se con vero o ironico disappunto. Ma direi il secondo dei due, dal momento che delle sue involontarie “mezze foto”, forse inquadrate meglio di quelle che aveva pensato lui tutte intere, ha fatto un’opera,Double Zero. Che adesso potete vedere aFotoleggendo, la la bella rassegna romana di Officine Fotografiche, assieme a diverse altre cose interessanti. Il fotogramma zero-zero è la fotografia che non doveva esistere. Un embrione di foto destinato ad abortire, è l’immagine a rischio, è una potenza che difficilmente può sfociare in atto. Stiamo parlando, ovviamente, di pellicola. La meccanica del caricamento dei rullini in piena luce esigeva un sacrificio. Alcuni centimetri di film, quelli necessari per l’aggancio al rullo di trascinamento, venivano inevitabilmente esposti alla luce, anneriti sul negativo, quindi sbiancati sul positivo. Corrispondevano ad almeno due fotogrammi. Per maggior sicurezza, i professionisti giravano e scattavano a vuoto tre volte prima di cominciare a inquadrare sul serio. Ma i più tirchi, o distratti, tentavano lo scatto già dal terzo. Magari non proprio con un’inquadratura imperdibile. Il fotogramma zero-zero, dunque, è un azzardo, un caso, una scommessa. La prima foto di un rullo, se tentata così, è una foto più leggera, quasi preterintenzionale, una fotografia dispensabile, non necessaria già in partenza. Se viene, bene, altrimenti pazienza. Come un attore che per provare il microfono recita a mezza voce un brano a caso della sua parte, o quel che gli viene in mente, o un “provassssì-prova”. Come un pittore che prova il colore su un bordo della tela, senza far troppo caso alla precisione del segno. 2 Sono fotografie a mezza voce, che di solito nessuno vedra, se la luce se ne è mangiata un pezzo. Be’, non era importante. E invece magari sì. Per l’eterogenesi dei fini estetici. Perché Eskenazi, cinquantaquattrenne fotografo del Queens con una passione per l’Europa dell’Est, s’è accorto che il dimezzamento dovuto dall’azzardo, anziché togliere, aggiungeva un valore misterioso al fotogramma, un “senso di perdita”. E le ha pazientemente messe da parte per anni, le sue foto dimezzate. Per lui sono “un omaggio alla pellicola: un effetto che si è perso nell’era del digitale. Erano fotografie in divenire”. Non solo. Quei fotogrammi incompleti, amputati, incredibilmente erano ancora fotografie ben riuscite, ben composte, anche se non volute così dal loro autore. Ben composte da chi, allora? La risposta, per me, è facile: dalla fotocamera. Vogliamo dirlo più forbitamente? Dall’inconscio tecnologico della fotocamera. Che qui dimostra in un modo nuovo quel che Franco Vaccari aveva capito molti anni fa: che lo strumento sa strutturare culturalmente, esteticamente le immagini che produce anche in assenza di una volontà specifica del fotografo. Jason Eskenazi, Kabul, © Jason Eskenazi, g.c. Nel caso del fotogramma zero-zero l’inconscio tecnologico funziona in un modo particolare, che comunque Vaccari apprezzerà ugualmente : componerecuperando l’errore, rimpastando una composizione danneggiata, riquadrando e “salvando” l’immagine d’autore perduta. Conosco almento un altro autore che ha fatto una cosa simile: Chris Harding,cartoonist americano, ma lo ha fatto con l’estremo opposto della pellicola, la coda, quella che rimane nel rullo. Niente immagini qui, solo il confine slabbrato fra pellicola vergine e pellicola che ha preso luce. Guardando bene, da vicino, quel bordo giratodi novanta gradi somiglia a un orizzonte, e suggerisce paesaggi fantastici. In questo caso, forse, parlerei addirittura di subconscio tecnologico: qui 3 visualizziamo non la competenza segreta della fotocamera, ma addirittura i suoi sogni. In ogni caso, per Eskenazi questo corpus fotografico è “un omaggio alla pellicola”, un saluto all’amica e compagna di tante avventure. Lo capisco, ma credo sia a miglior ragione un esperimento sulla potenza silenziosa di quell’altra compagna d’avventure che è la fotocamera, che invece è ancora al fianco del fotografo. E che sa fare il suo mestiere molto, molto bene. Che poi, è quel che Eskenazi alla fine ricava come morale: “Quando inizi il mestiere, fotografi senza pensarci su tanto. Ecco, forse dobbiamo pensare meno e tornare a questo stadio primitivo”. Mi permetto di tradurre così: l’entusiasta debuttante, insicuro di sé, è felice quando le sue fotografie “vengono bene”, forse intuisce che una parte del merito è della macchina, ma la lascia fare. Però in seguito, man mano che acquista mestiere e sicurezza, diventa geloso, cerca di appropriarsi di tutto il merito: “ora so come si fa”. E dimentica che anche la fotocamera “sa come si fa”. Oppure lo ricorda benissimo, ma non lo vuole ammettere, neanche a se stesso, e rivendica caparbiamente come sua scelta consapevole certi risultati che invece lo hanno sorpreso, che non erano come li aveva voluti, che ha semplicemente “accettato”. “Il caso è un apporoccio sensato alla composizione?”, si chiede James Estrin del blogLens. Io risponderei di sì, ma non è davvero e del tutto il “caso”, se c’è di mezzo un meccanismo programmato apposta per cavare fuori anche dal caso qualcosa di buono. Ogni fotografia, forse, è randomness improved, casualità aiutata. Bravo chi se ne rende conto. Tag: Chris Harding, film, fotografia analogica, Fotoleggendo, James Estrin, Jason Eskenazi, Lens blog,Officine fotografiche, rullini Scritto in analogica, Autori, Inconscio tecnologico | 26 Commenti » Esiste la critica fotografica in Italia? Si, no, forse di Maurizio G. De Bonis da http://www.huffingtonpost.it/ Esiste oggi una vera e propria critica fotografica in Italia? È possibile fornire una risposta a una domanda tanto generica? Forse bisognerebbe iniziare dal quesito che (si) pone Elisa Medde nel suo saggio (Di cosa parliamo quando parliamo di fotografia?) inserito nel libro intitolato Generazione critica - La fotografia in Italia dal Duemila (Danilo Montanari Editore - 2014). La domanda appena evocata è: che cos'è la critica e qual è il suo ruolo? Per chi come me proviene inizialmente dalla critica cinematografica suona un po' come un esercizio retorico, visto che in ambito cinematografico partecipo ormai da decenni a convegni e incontri che si occupano di questo 4 problema. La critica cinematografica riflette da molto tempo sul proprio ruolo (sempre più marginale purtroppo) e, pur tra mille difficoltà e faticando a cogliere determinate innovazioni scaturite soprattutto grazie al web, ha assistito alla nascita di una "nuova" generazione di critici sempre più liberi, per non dire "anarchici", rispetto alle accademie e ai poteri forti. Elisa Medde, dunque, riflette sulle modalità per"rinnovare la pratica della critica... per renderla stimolante, inclusiva, davvero contemporanea". Proprio questa riflessione sembra essere la cartina di tornasole del ritardo incredibile che la fotografia italiana (nella pratica artistica e in quella critico/divulgativa), con le dovute eccezioni, vive tutt'ora, tra protezionismo culturale e tendenze iper-accademiche. Ma proprio il libro Generazione critica si mostra come un tentativo positivo di dare voce a una "nouvelle vague" italiana fatta di studiosi nati negli anni Settanta. Questi ultimi, grazie ad alcuni saggi, cercano di studiare, capire e divulgare l'opera di artisti loro coetanei. Ebbene, questa impostazione se da un lato ha fornito compattezza al percorso divulgativo ha però innescato per l'ennesima volta quel processo di provincializzazione che riguarda l'intero sistema della cultura fotografica italiana, pur con alcune eccezioni. Nonostante ciò, alcuni passaggi di questo volume possono fornire al lettore degli spunti di riflessione di notevole interesse. Mi riferisco soprattutto ad alcuni brani dei testi firmati da Daniele De Luigi e da Sergio Giusti. Il primo, nel suo Brand New Real, effettua un'analisi relativa al reportage e all'immagine documentaria che senza alcun dubbio posso definire coraggiosa, specie per un "giovane" critico che deve sapersi barcamenare in un sistema come quello italiano nel quale prendere una posizione precisa può risultare professionalmente controproducente. Per chi come me insiste da anni su determinati argomenti, generando sempre un certo sgomento nel mondo fotografico italiano, leggere che il "reportage, ancora oggi è incardinato in schemi ripetitivi ed è refrattario a riconoscere i propri limiti"e che "la fotografia come documento ha subito diversi attacchi negli ultimi 5 decenni, spesso non immeritati", è stata una sensazione di autentico sollievo. De Luigi si spinge addirittura a stigmatizzare (è su questo aspetto sono perfettamente d'accordo con lui) le "ingenue" affermazioni di una star del mondo dei fotoreporter come James Natchwey, il quale ha dichiarato:"una volta che hai visto, sai". Questi passaggi, per chiunque si occupi di fotografia in modo oggettivo e non da una posizione di (presunto) potere, sembrano evidenziare delle ovvietà, addirittura delle banalità. Eppure, se un critico della "nuova generazione" come Daniele De Luigi ha sentito l'esigenza di esternare in modo lucido queste sue posizioni significa che in Italia c'è ancora bisogno di divulgare queste idee (che evidentemente disturbano, e personalmente ne so qualcosa). E ciò non è certo un segnale positivo. Ne Lo spettacolo e lo spettro: la fotografia e il velo del contemporaneo, Sergio Giusti elabora un percorso critico legato al pensiero dello sloveno Slavoj Žižeke alla questione (anche questa se vogliamo obsoleta, ma non per l'Italia) del valore dell'immagine nell'ambito dei sistemi di comunicazione di massa. Ogni immagine veicolata attraverso la televisione è falsa (tutte, dall'intrattenimento alla pseudo programmazione culturale e sociale, telegiornali compresi). Tutto vero, tutto giusto, tutto però ampiamente sviluppato (con impostazioni differenti ed esiti diversi) da significativi intellettuali del Novecento come Pier Paolo Pasolini, Guy Debord e Jacques Lacan (per altro citati dallo stesso Giusti). Žižek è semplicemente arrivato con un po' di ritardo. Ha avuto il merito, però, di andare nella fossa dei leoni (esattamente come fece Pasolini più di quaranta anni fa), cioè in televisione, per cercare di scardinare da dentro un sistema di comunicazione secondo il quale "solo ciò che è preparato per essere spettacolo(anche la fotografia di reportage, aggiungo io) può materialmente esistere". A tal proposito, è divertente il modo in cui Giusti apre il suo saggio, e cioè evocando la grottesca apparizione di Žižek nella trasmissione di Fabio Fazio, Che tempo che fa. Apparizione triste e assurda esattamente come quella che ha visto protagonista, sempre da Fazio, il cineasta e fotografo David Lynch. Žižek e Lynch, due intellettuali (consapevoli di quello che stavano facendo) trasformati dalla tv in immaginispettacolo costruite per esistere dentro un sistema di informazione medio(cre), senza qualità. Generazione critica - La fotografia in Italia dal Duemila A cura di Marcella Manni e Luca Panaro Danilo Montanari Editore - 2014 Pagg.61, ISBN 978-88-98120-39-0 Saggi di: Daniele Casciari, Jacopo De Gennaro, Giovanni Sellari, Guido Meschiari, Tommaso Mori, Daniele De Luigi, Pier Francesco Frillici, Sergio Giusti, Elisa Medde, Luca Panaro, Carlo Sala www.danilomontanari.com www.generazionecritica.it 6 La fotografia è un (dito) indice di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Con il suo noto sarcasmo insulare, Ferdinando Scianna un giorno ha spiegato le regole fondamentali da seguire per chi scrive un testo di introduzione a un libro fotografico. Ci sono due cose, diceva, che vannoobbligatoriamente scritte. La prima è che nell’era del digitale la fotografia è morta. La seconda è che bisogna abbandonare l’idea che le fotografie abbiano un qualsiasi riferimento con la realtà. Statisticamente, temo abbia ragione:è quel che si legge quasi ovunque. Per fortuna, c’è un libro che demolisce quei due luoghi comuni. Non è un saggio critico, non è un pamphlet polemico. A dire la verità, non è neanche un libro in senso pieno, perché di parole scritte se ne trovano ben poche, quasi solo foto, e senza didasdcalie. Poco più piccolo di una cartolina, appena 64 pagine, pochi euro il prezzo, due milioni di copie vendute dal 1992, quando in epoca pre-Web l’editore Graf ebbe la semplice utile idea di un traduttore univerdale tascabile. Adottato, assicura l’editore, anche dai caschi blu Onu in missione, e dai logopedisti. Il titolo del libretto, Point It, è anche il suo semplice manuale di istruzioni per l’uso: non sai il nome di una certa cosa in una lingua sconosciuta? Bene, trovala e indicala. Il gesto maleducato per eccellenza (“Non indicare col dito!”) è riabilitato in linguaggio d’emergenza. Del resto, la fotografia non è stata definita un segno indicale? Be’, il dibattito su Peirce è feroce e io me ne tengo alla larga, ma di sicuro è un segno indicante. Fate la prova. Cuscino, aspirina, autobus, pomodoro…: puntate il dito “e tutto il mondo vi capirà”. In un mio libro, Point It mi è servito per chiarire qualche punto fermo sulle caratteristiche della fotografia come messaggio. In particolare sul rapporto fra le parole, le cose e le immagini. Un tema che piacque molto a un grande filosofo del Settecento, Jonathan Swift, ingiustamente declassato a scrittore di libri di fantasy. 7 Il suo Gulliver, viaggiatore semantico, a un certo punto sbarca a Lagado, città immaginaria abitata da sapienti, proprio mentre vi si svolge un curioso esperimento sul linguaggio: l’abolizione delle parole. Per comunicare, i lagadesi avrebbero dovuto servirsi esclusivamente di oggetti da mostrare all’interlocutore alla bisogna. Riportando dunque la comunicazione fra uomini alla solida, indiscutibile aderenza alle cose. Purtroppo, ben presto gli ardimentosi linguisti inventati da Swift s’imbattono in una difficoltà insormontabile: è impossibile girare il mondo portando sulle spalle giganteschi fagotti pieni di tutti gli oggetti di cui si pensa di aver bisogno per comunicare. E l’esperimento fallisce. Forse sarebbe riuscito se gli scienziati di Lagado avessero preventivamente inventato la fotografia. Che miniaturizza l’aspetto delle cose facendo e evaporare il peso, ma lasciandone intatto il senso. Che è poi quel che fa il nostro libretto del viaggiatore: vocabolario “comprensibile in tutte le nazioni civili che usano più o meno gli stessi tipi di utensili”, per usare proprio le parole dello scrittore inglese. Che cosa ci dice dunque Point It, che la fotografia è la lingua universale di cui andava in cerca Lagado? Non esageriamo. Puntando appropriatamente il dito a pagina 13 posso dire a un cameriere coreano o inuit “voglio un’aragosta” (che lui ci accontenti, è un altro discorso). Ma di certo, a ditate, non potrò comporre una frase come “no grazie, le fragole mi fanno venire l’orticaria”. Tantomeno spiegare la politica italiana al vicino di tavolo. La fotografia, me lo avete sentito dire altre volte, manca di verbi. Ma a quanto pare manca anche di molti sostantivi e aggettivi generici e astratti: l’orticaria ad esempio non c’è e non potrebbe esserci, né nel libretto né nei fagotti di Lagado. Eppure, entro certi limiti, la sostituziione della parola con l’immagine funziona benissimo. Sopra i banconi dei fast-food e sui menù dei ristoranti etnici ci sono le fotografie delle portate, anche un muto può ordinarle senza sbagliarsi. Se indicate al cameriere l’immagine di un hamburger al formaggio, è piuttosto improbabile che vi serva un frappé. Dunque nelle fotografie siamo quasi sempre in grado di riconoscere 8 qualcosa di effettivo e concreto, oggetti appartenenti alla realtà, e di condividere questo riconoscimento con altri anche senza parlare. Grazie alle fotografie possiamo addirittura accedere a un livello elementare di generalizzazione di quegli oggetti (può darsi che, non avendo la pera che avete indicato, il cameriere, avendo capito che avete voglia di frutta, vi controproponga un’albicocca). Sento già l’obiezione: anche un disegno può servire allo scopo, anche un disegno poco realistico, simbolico. Un fiore disegnato da un bambino può non somigliare a nessun fiore esistente in botanica, ma noi ci vediamo e capiamo “fiore”. Certo, per chiedere una mela a un fruttivendolo thailandese può bastare disegnarla con un po’ di abilità. Ma già chiedere un cappuccino, con solo una matita in mano, diventa un problema: disegno una tazzina fimante, e mi arriva un tè. Un disegno (tranne forse disegni molto realistici, molto fotografici) si ferma a un limite. Questo limite credo sia la vecchia bistrattata soglia fra indice e icona. In realtà, Point It non contiene immagini di oggetti generici. Contiene fotografie di oggettispecifici (a pagina 13 non c’è l’immagne di un’aragosta ideale, c’è la foto di una creta aragosta che è stata reale), oggetti che però possiamo indicare per chiederne di simili. La frase sottintesa dal dito puntato dunque non è “voglio un’aragosta” e neppure, ovviamente “mi porti proprio questa aragosta” ma: “vede? Questa è la foto di un’aragosta. Sa di cosa parliamo? Bene, ne vorrei anch’io una”. Sarebbe come indicare l’aragosta che il nostro vicino ha già nel piatto. Mica vogliamo che il cameriere gliela porti via per darla a noi. Il signore, qualunque ncosa pensi della referenzialità fotografica, nons arebbe d’accordo. La differenza puiò essere sottile, ma per una filosofia della fotografia è importante. Col dito indice, su una foto, non tocchiamo l’idea platonica di un certo oggetto, ma la forma fenomenica (tradotta in immagine) di un oggetto singolare. E questo può avere le sue controindicazioni. Perché una fotografia racconta un oggetto specifico, e di questo dice molte più cose di quelel che pensiamo o vogliamo che dica. 9 Esempio: a pagina 23 ci sono fotografie di camere da letto. Due letti singoli, un letto matrimoniale. I primi hanno una coperta a fiori rossi sgargiante, il secondo una coperta bianca. Se indico la foto con i due letti al concierge, gli sto dicendo chenon voglio una camera matrimoniale ma una a due letti singoli, oppure che adoro le coperte colorate? Se indico un piatto, che nella foto è bianco, voglio un piatto purchessia o voglio un piatto bianco? E come faccio per dire che il mio piatto è sporco e ne voglio uno pultio? Se indico la bottiglia del whisky, che nella foto ha l’etichetta Jack Daniel’s, voglio un whisky qualunque o un Jack Daniel’s? Se indico La Coca-Cola, mi andrà bene anche la Pepsi? E ancora, se indico la foto del museo a un addetto dell’ufficio turistico, gli sto chiedendo quali musei ci sono in città, dov’è il museo delle antichità greche, o dovè quel proprio quel fregio lì? Morale: come linguaggio universale, la fotografia fa un po’ fatica a cavarsela fra particolare e generico, fra generale e specifico. Insomma il suo vocabolario è semanticamente ambigo e confuso, le sue mille parole a volte non sono ben scandite. Ma una cosa è certa, che anche quando non ci aiuta, anche quando il cameriere insiste a versarci il Jack Daniel’s invece del Ballantine che avremmo preferito, dimostra che le fotografie sono sempre fotografie di qualcosa. Tag: Charles S. Peirce, Ferdinando Scianna, Graf, icone, indice, Point It, segno, Semiotica Scritto in icone, Semiotica, Senza categoria, turismo | 11 Commenti » Abbasso il selfie, viva l'autoritratto di Marie McGrory, dal blog PROOF di http://www.nationalgeographic.it FOTOGALLERIA Quando National Geographic ha chiesto ai suoi lettori di provare a fotografare se stessi, i risultati sono stati al di sopra delle aspettative PRECEDENTE SUCCESSIVO 10 Secondo me la femminilità di una donna è insita nel modo in cui porta i capelli. Questa sono io, sopra un vetro, che metto in evidenza la mia femminilità. -Helene Barbe, National Geographic Your Shot Vedi anche 170 anni di autoscatti La mania del selfie secondo i fotografi di NG Il selfie: in una giornata tranquilla, è probabile che ne veda una ventina sui social network. In altre giornate, potete star certi che ne vedo a centinaia. Di recente, per l'iniziativa Your Shot, i fotografi di National Geographic Mark Thiessen e Becky Hale hanno chiesto ai lettori di cimentarsi con l'autoritratto. Devo dire che inizialmente non ero affatto entusiasta dell'idea. L'avvento del selfie mi ha lasciata molto perplessa riguardo la scarsa originalità della sua interpretazione. Unselfie è tra le immagini più facili in assoluto da scattare; in fondo molti di noi hanno una macchina fotografica puntata in faccia ogni volta che prendono in mano il telefono. I selfie sono un modo per mettere in mostra un nuovo taglio di capelli o il vestito dela domenica. O un modo in cui un gruppo di persone può scattarsi una foto senza dover interagire con uno sconosciuto. Scattati a distanza di braccio o allo specchio, i selfie sono diventati un'immagine talmente comune per me che mi ero quasi dimenticata il luogo meraviglioso e vulnerabile da cui hanno avuto origine. Naturalmente, nell'editare le foto commissionate per Your Shot, ho visto un buon numero di selfie classici. E anche questi hanno il loro perché, in determinate situazioni. Tuttavia, dopo un paio di settimane di arrivi di foto, ho cominciato a sentirmi meglio, e mi è tornato alla mente un termine che era rimasto fuori dal mio vocabolario per troppo tempo: autoritratto. Un autoritratto non è un selfie. È una fotografia splendida, che rivela qualcosa del suo autore. Un buon autoritratto è estremamente difficile da realizzare. Dopo aver passato in rassegna migliaia di queste immagini, sono rimasta colpita nel constatare che le foto finali, quelle selezionate, erano quasi tutte prive di volti riconoscibili. Non c'è bisogno di vedere il volto di una persona per percepirne l'essenza... la battaglia di Ocean con il cancro, la lotta di Katrina con l'invecchiamento, l'amore di Amanda per la panificazione... Queste immagini mi hanno ricordato il motivo per cui mi piaceva tanto studiare autoritrattistica nei miei corsi di fotografia alle superiori. Nell'autoritratto l'artista mostra se stesso così come vuole essere visto, rivelando qualcosa di profondamente personale, illustrando qualcosa che non è in grado di spiegare a parole. Tutte queste riflessioni hanno dato vita a un'animata discussione nel nostro ufficio sugli autoritratti che più amiamo: qualcuno ha ricordato l'autoritratto "riflessivo" di Maynard Owen Williams, qualcun altro Untitled 96 di Cindy Sherman. Ricordando opere più recenti, a me è venuto alla mente il lavoro di Kyle Thompson. In conclusione, questo progetto sull'autoritratto ha decisamente rivitalizzato il mio amore nei confronti di quei momenti crudi e rivelatori in cui il fotografo rivolge la macchina fotografica verso se stesso. 11 Tutto un riguardar di sguardi di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Due si sono perse. Due sole, su duecento circa. Solo due, l’un per cento. Quota fisiologica, anzi decisamente bassa. Gli autori del volume Revisioning Venice, lo storico della fotografia Angelo Maggi e il fotografo Giampaolo Romagnosi, chiedono scusa, ma in due casi, due vedute veneziane minori di Ferdinando Ongania, non è stato proprio possibile capire dove le foto furono scattate, e quindi non è stato possibile rifotografarle. Curioso, perché per quasi tutte le altre il problema sembra essere stato l’opposto: nulla o quasi è cambiato, e le vedute create un anno fa sembrano del tutto identiche a quelle create centovent’anni fa. Forse anche per la scelta volutamente mimetica di stampare le foto di adesso, si suppone siano immagini digitali, nella stessa tonalità brunoseppia di quelle di allora - ammesso che gli originali di Ongania (apprendo da Alberto Novo, che ringrazio, trattarsi di heliogravure) avessero proprio quella tonalità e non sia anche questa una scelta, diciamo, di “color nostalgia”. In ogni caso, questa omologazione tonale fa sicuramente parte di quel che dirò alla fine. Per distinguerle a volte bisogna inoltrarsi nei dettagli, più edilizi che architettonici, nei particolari mininimi, come nel gioco “trova le differenze” della Settimana Enigmistica, oppure sbirciare l’abbigliamento di un passante. Tutto questo ci dice, credo, alcune cose su Venezia e alcune sulla fotografia, e soprattutto alcune cose sulla fotografia di Venezia. Quel che cambia, a volte, è solo la sicura mano pittoresca degli operatori di Ongania, che sapevano come comporre alcuni piccoli dettagli, come (nel 12 fotoconfronto che vi mostro) l’ombra che si ritrae per incorniciare di sole il pozzo al centro della calle, una condizione di luce che era piuttosto difficile da replicare. I progetti rifotografici, almeno da quando Mark Klett negli anni Settanta si mise sulle tracce dei fotografi esploratori ottocenteschi del West americano, non sono più una novità, e neppure una curiosità: sono un genere fotografico che ha ormai una sua storia e una sua dignità. Architettonica, documentaria, artistica. Temo di avere contribuito anch’io a qualcosa del genere, diversi anni fa, per un volume di Franco Fontana. Solo che il loro scopo apparente, il più ovvio, il primo che viene alla mente, quello cioè di istituire un fotoconfronto attraverso il tempo, di permettere una storia comparata dell’evoluzione dell’ambiente antropizzato, forse non è la loro vera natura. C’è qualcosa di specifico fotografico nel fascino, indiscutibile, che hanno i fotoconfronti a distanza di tempo. Ultimamente sono diventati una specie di gioco virale, non potevi aggirarti in rete senza trovare qualcuno che aveva “scoperto” il divertimento di sovrapporre una vecchia veduta, una foto d’archivio, una cartolina, magari brandendola in mano, a distesa di braccio, al paesaggio com’è diventato oggi. La pubblicità se n’è accorta e, come sempre fa, ha sfruttato l’idea. Né gli uni né l’altra però vogliono produrre documenti sul trascorrere del tempo e la mobilità degli spazi. È la pura e semplice possibilità di sovrapporre due sguardi a distanza di tempo che attira e affascina. È un’altra, credo, delle proprietà esclusive della fotografia, che mi piace molto andare a cercare. Solo la fotografia rende possibile ri-guardare uno sguardo già guardato. Ricalcarlo e ripeterlo variandolo nella continuità. Perché la fotografia è condivisione di sguardi, nello spazio e – ecco qui – anche nel tempo. Caro postero, ti affido il mio sguardo su questo luogo. Quando vorrai, riguarda attraverso i miei occhi, con i tuoi, e mescola i nostri sguardi. Ammettetelo, è una bella magia. Una comunione umana del tutto particolare e molto emozionante. Sono certo che Romagnosi 13 potrebbe confermare quel che dico. Quanto a Venezia, riguardare gli antichi sguardi talvolta ha qualcosa di – diciamolo – deludente. Venezia cambia poco. Quasi niente. In qualche caso, la fotografia di oggi sembra addirittura più antica di quella di ieri: forse dipende dall’effetto di certi “restauri conservativi” che creano una patina di passato che in passato non c’era… Eppure Venezia è cambiata parecchio, nel corso millenario della sua storia. La città medievale non è quella rinascimentale che non è quella ottocentesca. Ma ad un tratto sembra aver smesso di cambiare, almeno nel suo cuore più conosciuto e frequentato. Fatti salvi gli arredi urbani di servizio, i motoscafi, e poco altro, Venezia ha bloccato la sua immagine urbana più o meno alla seconda metà dell’Ottocento. Vuol dire qualcosa che quella sia anche l’epoca della fotografia commerciale, degli album Ongania, appunto, da vendere ai turisti, delle cartoline illustrate, dei chiari di luna (fatti con una monetina in camera oscura…) di Carlo Naya? Venezia non è rimasta fedele a se stessa, ma alle immagini commerciali di se stessa, alle immagini di massa di se stessa disseminate nel mondo con la volonterosa collaborazione di milioni di viaggiatori e di turisti. Esiste una Venezia immaginaria, una Venezia di immagini, eppure più stabile e solida di quella vera, una Venezia diffusa nei cassetti, sugli scaffali, nelle immagini mentali di milioni di persone lontane, che ha preso il sopravvento sulla Venezia della storia, e le impedisce, nel bene e nel male, di seguire la storia, perché è quella Venezia che ci si aspetta di ritrovare, in quel vero lavoro gigantesco di rifotografia permanente che è la fotografia dei turisti. Venezia è incatenata alle sue stesse fotografie. Nessuno potrà liberarne l’immagine, se non forse nuove fotografie. Per questo, finora, rifotografarla è una ridondanza un po’ deludente. Ma quella plasmata dalle neo-foto come sarà? Tag: Angelo Maggi, Carlo Naya, Ferdinando Ongania, Franco Fontana, Giampaolo Romagnosi, Mark Klett, rephotographing, rifotografia, Venezia Scritto in architettura, generi, turismo | 11 Commenti » L’Hemingway a Guidi «La fotografia è mutazione continua» di Gian Paolo Polesini da http://messaggeroveneto.gelocal.it/ La virata romagnola ti giunge forte e chiara. Quell’arrotondare le parole combinato con l’atteggiamento affabile, tipico delle gente dell’Italia di mezzo sponda adriatica, è smistato dal maestro cesenate durante una lunga chiacchiera. Guido Guidi, riferimento assoluto della fotografia urbana, abbellirà lo studio con un premio Hemingway, «per la visione del paesaggio 14 non ecologista né memoriale - dice proprio così la motivazione - eppure dissacratoria rispetto a quella tradizionale...». A calamitare la giuria è stato un libro, uno dei tanti a sua firma, Guido Guidi. Cinque paesaggi 19831993. Per conoscerlo meglio l’opportunità è vicina: oggi, alle 18.30, all’ufficio spiaggia 2 di Lignano, dove l’artista dialogherà con Alberto Garlini. Salta invece l’incontro con Abraham Yehoshua in programma domani, alle 18.30 al Kursaal: lo scrittore sarà a Lignano per la cerimonia di sabato sera (cui si accederà su invito). - Guidi, lo trova un giudizio corrispondente? «Guardi, io sono lo spettatore del mio lavoro. Tento di conoscere il mondo, m’interrogo su cosa c’è da vedere. Ecologista? Più meno che più. Inquadro senza maschera e senza intenzione alcuna di convertire chicchessia. La mia è solamente una posizione frontale. Ci pensa la macchina poi a dare il responso. Diceva Antonioni: “La poesia della fotografia si forma guardando il risultato”. C’è un processo infinito capace di trasformarmi scatto dopo scatto. Quello precedente indica nuove strade a quello successivo. Una mutazione continua». - Il signor Ernest ha trovato posto nella sua biblioteca? «Da giovane li sfogliai quasi tutti i romanzi. Incontri letterari necessari se frequenti una facoltà creativa. Architettura, per precisare. Comunque ricordo un aneddoto sullo scrittore. Hemingway e Marc Evans si frequentavano a Cuba. Il fotografo di Liverpool finì i soldi e spiegò all’amico il motivo di quella valigia in mano. Restò ancora a lungo, l’americano gli pagò il soggiorno. Piccole storie utili a comprendere l’anima vera di certi personaggi». - Folgorato dalla macchina fotografica? 15 «Percepivo un’attrazione, diciamo a quindici anni, sebbene studiassi con tenacia le tecniche di pittura. Era una specie di slogan di fine Ottocento: «I fotografi sono pittori falliti». - Be’, adesso ’sta affermazione è andata in prescrizione... «Diciamo che quadri e fotografie godono di una stretta parentela. Della camera oscura ne scrisse persino Leonardo, in un Rinascimento ricchissimo di straordinari dipinti. Come vede l’intreccio è alquanto antico». - È vero che lei si costruì un apparecchio da solo? «Non fu un’impresa, mi creda. Avevo soltanto bisogno di uno strumento di grande formato, totalmente assente nel mercato. E mi divertii a sperimentare. D’altronde è fondamentale non seguire le orme altrui». - Com’è cambiata in tanti decenni di sguardi la natura italiana? «Che le periferie, un mio pallino sin dagli inizi, ormai sono diventate il centro di molte città. Brutte? Può darsi, disadorne, squallide, a volte, eppure affascinanti nella loro eterna malinconia. Può darsi, poi, che la fotografia dia una svolta al senso, non certo alla prospettiva». - Dalla pellicola al digitale. Rivoluzione pari a quella del cinema quando dal muto si passò al sonoro? - Direi meglio dal bianco e nero al colore, e dico come paragone. È cambiato indubbiamente il passo del mestiere. ben più semplice adesso maneggiare sistemi autonomi. Basta schiacciare il pulsante e guardare subito il risultato. Vuol mettere la suspense dell’immagine che si forma galleggiando nella bacinella? Io continuo così. Il digitale lo uso soltanto quando insegno. Per praticità». - Italo Zannier, lo spilimberghese. Fu il suo mentore... «Fondamentale conoscenza. Mi insegnò la storia. Bisogna stringere in pugno il passato di qualsiasi lavoro, metti meglio i piedi nel futuro». Che fine hanno fatto i personaggi di alcune storiche fotografie? di Federica Proietti da http://cultura.notizie.it/ Che una foto vale più di mille parole è vero, ma non è mai stata raccontata tutta la sua storia … “The Afghan Girl” è uno dei più famosi ritratti che il mondo abbia mai visto. L’articolo prosegue dopo il video Il suo villaggio era stato appena bombardato, i suoi genitori uccisi, e aveva camminato attraverso le montagne per raggiungere il campo dei rifugiati. Era apparsa sulla copertina del National Geographic nel giugno del 1985, che aveva poi ottenuto migliaia di lettere da persone che volevano mandarle soldi, adottarla, e sposarla. Il National Geographic la ha definita 16 la fotografia più famosa nella loro storia. 17 anni dopo, Steve McCurry decise di cercarla e finalmente dopo una lunga ricerca e diverse indagini riuscì a trovarla. Il suo nome è Sharbat Gula. Vive in montagna a Tora Bora con il marito e tre figli. 17 L’8 giugno. 1972, Nick Ut stava scattando delle foto al di fuori del villaggio di Trang Bang, nel Sud Viet Nam. Kim Phuc di 9 anni era con la sua famiglia quando gli aerei Sud vietnamiti li scambiarono per soldati. Era nuda perchè i suoi vestiti erano stati bruciati. Da sinistra a destra sono: i fratelli Phan Thanh Tam, Phan Thanh Phouc, Kim Phuc, ed i suoi cugini Ho Van Bon, e Ho Thi Ting.Nick Ut e alcuni altri giornalisti le avevano salvato la vita correndo in ospedale ed ottenendo delle cure per lei e per i suoi parenti. Nick Ut ha vinto il Premio Pulitzer nel 1973 per questa fotografia. Quando era adolescente, Kim Phuc è stata accettata alla facoltà di medicina, ma è stato costretta a uscire dal regime comunista. Nel 1982, il primo ministro del Vietnam le permise di andare a studiare a Cuba. Nel 1997, ha fondato la Fondazione Kim Phuc, che fornisce assistenza medica e psicologica a bambini vittime di guerra. Ora lei è un medico, moglie e madre di due figli e risiede in Canada. Ninalee Craig è la donna in questa leggendaria fotografia “American Girl In Italy” scattata da Ruth Orkin nel 1951. Ninalee ha detto, ” Alcune persone vogliono usarlo come un simbolo di molestie nei confronti di donne, ed è quello per cui abbiamo combattuto tutti questi anni. Non è un simbolo di molestie. E’ un simbolo di una donna in un tempo assolutamente meraviglioso! ” Nel 1951 aveva 23 anni, aveva appena lasciato il suo lavoro, e aveva trascorso più di sei mesi in viaggio attraverso la Francia, la Spagna e l’Italia da sola, qualcosa che poche donne facevano allora. 18 Oggi Ninalee Craig ha 86anni ed è nonna di dieci nipoti e bisnonna di sette. Vive a Toronto, in Canada con il marito. Qui lei indossa lo stesso scialle che indossava nella famosa fotografia. “Il Nirvana Baby”, fotografato da Kirk Weddle, è una delle più famose copertine di album nella storia della musica. “La mamma era alla mia sinistra, e aveva soffiato una boccata di aria sul viso del bambino”, ricorda Kirk. «Allora lo immergemmo e dopo lo scatto lo tirammo fuori. Lo abbiamo fatto due volte. ” Il Dipartimento della direzione artistica della discografica aggiunse poi l’amo da pesca e la banconota del dollaro come rifiniture. Il bambino Nirvana ha ora 22 anni. Il suo nome è Spencer Elden ed è uno studente d’arte presso l’Art Center College of Design. I suoi genitori sono stati pagati 200 dollari per la fotografia originale. Spencer dice che ancora oggi si presenta al popolo come il ” Bambino Nirvana “. 19 “Wait For Me, daddy” è una delle fotografie più famose della Seconda Guerra Mondiale scattata nel 1940 a New Westminster, Canada , da Claude Dettloff non appena il Reggimento BC marciò in guerra. Il piccolo Warren Bernard di 5 anni si liberò da sua madre per dare un ultimo addio a suo padre. Questa fotografia è stata descritta in Life Magazine. Cinque anni dopo aver scattato la fotografia, Dettloff seppe che il sergente Jack Bernard tornò a casa dalla guerra. Oggi Warren “Whitney” Bernard ha 79 anni e vive con la moglie Ruby a Tofino. Ha tre figli e tre nipoti. 20 Cinque amici sono stati fotografati da Ringo Starr nel corso del primo viaggio dei Beatles negli Stati Uniti nel 1964. I ragazzi avevano saltato la scuola per inseguire i Beatles mentre erano in città. Bob Toth ha detto di essere stato sospeso da scuola per tre giorni. Tuttavia, 40 anni dopo, il suo preside ha ammesso che era stata una “buona idea”.: Bob Toth, Gary Van Deursen, Suzanne Rayot, Arlene Norbe e Charlie Schwartz. La foto è stata ricreata nel 2013, dopo l’appello di Ringo Starr per avere informazioni dei cinque adolescenti che egli immortalò in una Chevrolet Impala con la sua macchina fotografica. Il viaggio per riunirli è stato organizzato dalla NBC. Come nel 1964 la vettura è stata guidata da Gary Van Deursen, ora 68 anni, che ha descritto la ricerca di Starr per gli amici 49 anni dopo come ” una cosa incredibile, non sapevo che avesse neppure scattato una fotografia”. Queste fotografie e le storie che si nascondono dietro ognuna di loro sono semplicemente affascinanti. Ho guardato la “American Girl In Italy” e mi sono sempre chiesta che cosa rappresentasse. E’ bello scoprire quale fosse il vero significato. Più informazioni phuc, Nirvana su: afghan girl, american girl, fotografia, kim Il piccolo guru, Blow-Up, i bambini e la fotografia di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it C’era una volta un piccolo profeta cileno dal sorriso timido che cercò di 21 salvare il mondo dal mondo stesso. Sergio Larrain, Passage Bavestrello, Valparaiso, Chile, 1952. © Sergio Larrain / Magnum Photos, g.c. Era armato solo di «un rettangolo nella mano»: la cornice di un’immagine. Si chiamava Sergio Larrain e si considerava un «cacciatore di miracoli», come tutti i fotografi non presuntuosi. Ed è come fotografo che lo troverete citato nei libri, è come fotografo che lo vedete ricordato in questa retrospettiva delle sue opere, a due anni dalla scomparsa, nel castello di Bard incastrato fra le Alpi che forse gli avrebbero ricordato le Ande del suo esilio di meditazione. Perché, è vero, Larrain, l’amico di Henri Cartier-Bresson e di Pablo Neruda, fu fotografo e lo fu nell’Olimpo dei reporter, recluta sudamericana dell’agenzia Magnum, ma lo fu per poco più di una decina d’anni. Per il resto della sua vita fu… chi lo può dire davvero. Un guru, un viaggiatore, un mistico eremita, un filosofo, forse un emarginato, un uomo fragile spesso a rimbalzo tra Lsd e psicanalisi. Un uomo pieno di amore per la vita. Un vagabondo del dharma. «Il vagabondo di Valparaiso» lo battezzò proprio Neruda, sfogliando il suo capolavoro, il ritratto di quella «rosa immonda», la città «appesa sulle colline, poema che lega le Ande e il Pacifico». 22 Circolano leggende, su di lui. La più insistente vuole che sia stata una sua fotografia, scattata nei primissimi Sessanta a Parigi, di sera, vicino a Nôtre Dame, una misteriosa scena d’amore colta senza volerlo dall’obiettivo nell’ombra della cattedrale, a ispirare da lontano il film Blow Up di Michelangelo Antonioni. Dicono che Julio Cortazar, che era anche lui a Parigi all’epoca, vide quella foto e ci imbastì un racconto noir, protagonista un fotografo: Las babas del diablo. Antonioni avrebbe letto il racconto, eccetera. Ma nessuno dei tre ha mai parlato di questo complicato triangolo, e Agnès Sire, curatrice della mostra e amica di Larrain, a domanda risponde scettica: «la trama quasi poliziesca di Cortazar non appartiene all’universo di Sergio». Chissà. Era un universo pieno di cose. E di svolte improvvise. Larrain, “el Queco” per gli amici, era nato in una famiglia ricca di Santiago, figlio di un architetto rinomato, aveva studiato ingegneria forestale a Berkeley, un ragazzo quadrato e promettente. Nel 1949, col suo primo stipendio, comprò due cose. Un flauto traverso, che restituì presto al negozio. E una Leica IIIC, «non perché volessi fotografare, solo perché era l’oggetto più bello in vetrina». Però la usò. Vagabondò con lei nelle strade, cercando. Ne fece il suo karma: «una buona fotografia nasce solo in uno stato di grazia». Cominciò a pubblicare, sul Cruzeiro. Storie, luoghi, reportage. Qualche divinità della lente lo aveva caro. Mandò le sue fotografie al MoMa: il grande Edward Steichen gliene comprò quattro, «fu come se mi fosse apparsa la Vergine in camera». Viaggiò. Europa, Oriente. A Parigi conobbe il pontefice del reportage: Cartier-Bresson, che lo apprezzò e lo chiamò in Magnum. Le sue foto somigliavano di più, per inquietudine e sabotaggio dei canoni, a quelle del ribelle Robert Frank: ma con HCB aveva in comune l’umanesimo, l’amore per le forme pure, il fascino per il buddismo, l’idea che le fotografie sono un dono dell’istante, una soglia che conduce al senso. Le chiamava le sue satori. Fece il reporter, lo fece pure bene. Per Paris Match, lo scoop delle foto del matrimonio fra lo Scià di Persia e Farah Diba. In Sicilia, per Life, colpo grosso: fingendosi turista cileno scattò il ritratto all’imprendibile Genco Russo, il padrino dei padrini, l’erede di don Calò Vizzini. Ma «la pressione giornalistica», scrisse a HCB, «distrugge il mio amore per la fotografia». Precedendo Salgado di trent’anni, cercò le origini del mondo in Patagonia, nel Pacifico, in Oriente. Ma il suo vero mondo erano le strade del suo continente. Che nelle sue immagini sembrano popolate solo di meninos de rua. Bambini: uno straordinario fotografo di bambini. Con allarmata tenerezza. Come Lu Xun, pensava che in un mondo che cannibalizza se stesso l’unica residua speranza fosse: mettere al sicuro gli innocenti. Aveva conosciuto un maestro di meditazione, Oscar Ichazo, studioso e insegnante di filosofie orioentali. Per qualche anno visse nella sua comune, ad Arica. Poi provò ancora ad affrontare il mondo. Era alla Moneda l’11 settembre 1973, il giorno del martirio di Allende: le sue foto uscirono anonime, con quelle di altri fotografi, per evitare rappresaglie. 23 Sergio Larrain, Main street of Corleone, Sicily, 1959. © Sergio Larrain / Magnum Photos, g.c. La tragedia del suo paese finì per convincerlo: le fotografie non cambiano il mondo. Dal 1978 scelse l’eremo. A Tulahuèn, nel nord del Cile, studiò la sua Via, la chiamò solo Yoga, ma era la sua, c’entrava ancora la fotografia, ma fatta solo per se stessa, fotografia del fotografare. Non si limitò a contemplare il «punto kath», quattro dita sopra l’ombelico. Da quell’eremo cominciò a scrivere. Lunghe lettere battute a macchina agli amici, ad Agnès, a HCB, omelie senza arroganza, inviti accorati a salvare il mondo dalla corruzione, dalle convenzioni, dall’autoannientamento. Accompagnate da piccoli libri fatti a mano, disegni a matita, pitture a olio, poesie. Come si «mantiene la vita vivente» in un mondo di convenzioni? Bach, scrive, ne fu capace. E come si ammansisce il «predatore» umano? Il fotografo protagonista del racconto di Cortazar sembra rispondergli: «Fra i molti modi di combattere il nulla, uno dei migliori è scattare fotografie, attività che dovrebbe essere insegnata ai fanciulli». Siamo proprio sicuri che quella storia di Blow Up non sia vera? [Una versione di questo articolo è apparsa su La Repubblica il 25 giugno 2014] Tag: Angès Sire, Bard, Blow Up, Calogero Vizzini, Genco Russo, Henri CartierBresson, Julio Ichazo, Pablo Cortazar,Life, Lu Neruda, Paris Xun, Magnum, Michelangelo Match, Robert Frank,Salvador Antonioni, Oscar Allende, Sebastião Salgado, SergioLarrain, Valparaiso Scritto in fotogiornalismo, Storie, Venerati maestri | Un Commento » 24 Il fotografo col suo bicchiere sulla sponda del fiume di Leonello Bertolucci da http://www.ilfattoquotidiano.it/ Paolo Ventura, Iraq, 2008 (courtesy @HastedKraeutlerGallery) Il tempo è azione, la fotografia è istantanea quindi più si riferisce ad una cosa statica più è vera. (Philippe Daverio) Cosa ci fa un fotografo con un bicchiere in riva al fiume? E’ solo la metafora stessa di ciò che fa il fotografo: immerge per un attimo il bicchiere (la sua macchina fotografica) nel fiume che scorre (la vita) riempiendolo (scattando). Già, è questo contemporaneamente il grande limite della fotografia e la sua grandiosa unicità: da un flusso che scorre davanti all’obbiettivo preleva un frammento, una quantità infinitesima; ferma, congela e ci consegna – ad arbitrio del fotografo – una parte per il tutto; ma fino a che punto rappresentativa di questo tutto? Un limite, questa sua “fissità”, questa sua immobilità, che da sempre la fotografia ha cercato di bypassare con tecniche e scorciatoie nel tentativo di surrogare il movimento: il mosso, il panning, la sequenza, eccetera. Oppure, per converso, proprio la comprensione scientifica del movimento si è avvalsa della fotografia e della sua capacità di scomporlo e “farlo a pezzi” per mostrarlo nel suo farsi. A partire da questa sua peculiarità, la domanda delle domande sulla fotografia è sempre la stessa: ma davvero può, e quanto può, una fotografia rimandare al fatto e alla scena che si sono svolti (svolgersi significa avere un andamento variabile) davanti alla macchina fotografica? Non è un caso se la fotografia è ritenuta da molti la più ambigua tra le rappresentazioni della realtà (ammesso che possa tentare di rappresentarla…). Ci stiamo inoltrando in un paradosso: la fotografia, considerata “lo 25 specchio del reale”, vista comeil meno fedele tra gli specchi possibili. Insomma: la parte per il tutto non è detto che funzioni, e quanti sono gli autori in grado di mettere davvero tutto il fiume in un bicchiere? Fuor di metafora, rispetto a un momento preciso fissato nel fotogramma la vita ha avuto un prima e un dopo: ve n’è traccia e consapevolezza dentro a quel rettangolo? Philippe Daverio, da fine osservatore e curioso prima che attento studioso di estetica, arte, comunicazione, in un’intervista sulla fotografia ha detto la frase riportata all’inizio del post. Egli è scettico sulla possibilità che l’istantaneità di una foto sia in grado di rappresentare adeguatamente un’azione, e conclude dunque che la fotografia si avvicina alla realtà quanto più il soggetto è “senza vita”, privo di un divenire e in qualche modo svuotato del tempo che scorre: la natura morta è perciò, secondo Daverio, il solo soggetto fotografabile senza presunzione, l’unica possibilità di raccontare la verità tramite la fotografia. Molto interessante, e naturalmente molto opinabile. E allora, visto che navighiamo tra i paradossi, con un magnifico paradosso rispondo a Daverio e rilancio. Prendiamo la fotografia dei marines in Iraq visibile all’inizio: una foto d’azione, puro reportage in zona di guerra. Azione che più azione non si può: soldati in azione. Dietro quel muro con l’effigie di Saddam Hussein immaginiamo colpi, spari, esplosioni, urla, paura, adrenalina, nemici, cambi continui di situazione. Cosa potrà mai riportarci questa fotografia di tutto ciò? Forse molto poco, dando così ragione a Daverio. Ma la notizia è questa: i soldati che vedete sono pupazzi e tutta la scena è un diorama, un fantastico “presepe” realizzato in maniera certosina dal fotografo Paolo Ventura nel suo studio. Egli ricostruisce mondi e visioni che prima immagina e solo successivamente materializza, in miniatura, davanti al suo obbiettivo. Poi, finalmente, li fotografa. Ogni foto presuppone settimane di lavoro per il Paolo Ventura artigiano e una frazione di secondo per il Paolo Ventura fotografo. O meglio: tutta la vita del Paolo Ventura fotografo artigiano. Dunque, la scena di guerra in Iraq è una natura morta senza azione né svolgimento. Eccolo il paradosso: stando alle parole di Daverio, essendo tecnicamente la foto di una cosa statica e inanimata, la foto della guerra in Iraq di Paolo Ventura è la più vera tra tutte le foto di guerra possibili, mentre noi sappiamo essere totalmente inventata e artificiale. Ma forse… volando un po’… Forse, con uno scarto del pensiero, fuori da troppi schemi e schermi, è invece proprio così: la foto di guerra di Paolo Ventura, fatta di compensato, stracci e cartapesta, è la più vera di tutte le foto di guerra mai scattate, con buona pace di Bob Capa, Eugene Smith, Don McCullin, James Nachtwey e via elencando. Nel senso che è la più coincidente tra la visione che il fotografo ha della guerra e quello che ne restituisce in fotografia. Vista così – ancora in pieno paradosso – l’operazione fotografica ha bisogno di una “ricostruzione” per aderire totalmente alla verità; quale verità? Non certo un’imprendibile verità oggettiva, ma la verità intima e personale del fotografo, ciò che lui immagina verità. In questo percorso non c’è alcuna distorsione, alcuna forzatura, alcuna truffa. 26 Finta senza finzione, falsa senza falsificazione, quella di Paolo Ventura è forse davvero la fotografia più vera, e in ogni caso la più onesta. Commenti (6) Più formazioni su: Fotografi, Fotografia, Fotoreporter, Iraq, Philippe Daverio. Email Ti vedo, non ti vedo, cioè ti parlo di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Mi sto divertendo come un ragazzino a imparare come si usa Snapchat. Pian piano capisco, l’unica cosa che forse non riuscirò a capire è perché dovrei usarlo. Ma questa domanda, ormai mi sono convinto, con le piattaforme di sharing è superflua, o si risponde da sé. Si condivide per condividere, punto. E non è detto che sia una cosa insensata. Condividere è una bella cosa. La domanda, piuttosto, è questa: perché dovrei preferire proprio questo modo di condividere le immagini, che è molto particolare, come sapete. Con Snapchat le foto che spedisco ai miei contatti, infatti, restano sullo schermo del destinatario per pochi secondi, poi scompaiono per sempre. Io che le spedisco ne conservo copia, ma loro no. Al suo apparire, la app col fantasmino in giallo è stata accolta come una bizzarria. Oppure, e c’è del vero, come uno strumento ideale per il sexting: quella piccola perversione erotica che consiste nel far vedere ad altri le proprie foto sessualmente esplicite. Con Snapchat è un vedo – non vedo più, che qualcuno può trovare molto sexy ed eccitante, ma non troppo compromettente. Come aprirsi l’impermeabile in pubblico e chiuderlo subito, ci capiamo. Ma a parte questo uso diciamo amatoriale, a cosa può servire 27 condividere immagini che il destinatario avrà appena il tempo di intuire, certo non di esplorare, certo non di apprezzare come immagini? Appunto: non sono davvero immagini, almeno non lo sono più nel senso che la cultura occidentale ha dato alla parola: oggetti visuali permanenti. Sono un’altra cosa. Cosa? Sono ancora fotografie? Certo che sì. Sono mutazioni del fotografico. La stirpe delle neofoto si sta velocemente specializzando, articolando in specie e generi. La fotografia autodistruggente di Snapchat porta semplicemente all’estremo una tendenza già implicita nella condivisione della fotografia su altre piattaforme: la progressiva trasformazione delle fotografie da deposito a flusso Su Flickr, per dire, le fotografie sono ancora largamente deposito: archivio, scatola virtuale, album, benché conservato nella nuvola. Su Facebook gli album ci sono ancora, e vengono a volte sfogliati dagli amici, ma già contano molto di più le ultime foto postate, quelle che compaiono nella colonna delle notizie, quelle condivise sulle bacheche personali. Su Instagram, prevale decisamente il flusso: risalire a foto postate anche solo una settimana fa è faticoso e chiaramente disincentivato dal meccanismo. Su Snapchat, esiste solo il flusso. Senza alcuna scatola della memoria, risuona solo l’eco dell’ultima immagine condivisa, che rimane per un po’ nella nostra mente. Dissoluzione dell’immagine? Alleggerimento impressionante del senso? No, trasformazione dell’immagine in cose che conosciamo bene. Da millenni. Che cosa? Parole. Le fotine di Snapchat sono come le parole di una conversazione. Le parole di un dialogo orale, anche le più belle del mondo, anche un “ti amo”, scompaiono nel momento stesso in cui vengono pronunciate. Di loro resta solo l’impressione che ci hanno lasciato nell’anima. Snapchat porta all’estremo, almeno finora, la mutazione del fotografico in pratica conversazionale. Non stravolge il modo tradizionale delle relazioni: semplicemente aggiunge alla relazione in modalità verbale, mimica, gestuale, una nuova gamma di segni, una relazione visuale che sta assolutamente sullo stesso piano delle parole, dei gesti, delle espressioni del volto, e questo accade per la prima volta nella storia delle immagini. È una opportunità, a mio parere, entusiasmante. Se la sappiamo usare bene, abbiamo una modalità relazionale in più. E sta tutta nello spirito e nella tradizione della fotografia, che è sempre stata condivisione fra esseri umani di sguardi gettati sul mondo. Forse per questo si sta affermando con una velocità che a me personalmente sorprende: se sono vere le statisticheche trovo segnalate su Photoskine (Linda sei sempre una eccellente scout), Snapchat ha superato Facebook e stracciato Instagram per numero di immagini caricate ogni giorno. Ah, ovviamente per ogni nuova legge c’è un nuovo inganno, ed è del tutto possibile, a chi riceve una foto biodegradabile, catturarla e renderla permanente. Servono un po’ di prontezza e le dita come tentacoli di un polipo, ma ogni device è in grado di scattare uno screenshot mentre l’immagine effimera è ancora sul display (ma che diavolo di lingua sto parlando?). 28 Snapchat aggirato: lo screenshot di una foto che avrebbe dovuto dissolversi sette secondi dopo… Però è un po’ come se, durante una conversazione, uno dei due interlocutori avesse nascosto nel taschino un registratore acceso, senza che l’altro lo sappia. Non si fa. È maleducato. Comunque ho provato, con l’aiuto di mio figlio che ormai appartiene alla stirpe con mutazione genetica del pollice girevole, e funziona. Ho anche notato che Snapchat se ne accorge e manda al mittente un messaggio allarmato di avviso: guarda che Xy ha catturato la tua immagine! Quindi, porcellini del sexting, non vi fidate troppo del vedo – non vedo più… L’occhio vuole sempre la sua parte. Tag: condivisione, Facebook, Flickr, fotografia, Instagram., sexting, sharing, Snapchat Scritto in after photography, condivisione, fotografie private, Immagine e Internet | 10 Commenti » I miraggi della fotografia di Lucia Trisolini da http://www.unisob.na.it/ "Non occorre che le fotografie diano delle risposte ma che pongano delle domande". La differenza secondo Michele Smargiassi, autore del blog Fotocrazia su repubblica.it è tutta lì: nelle domande che la fotografia nonostante l' uso e l'abuso delle moderne tecnologie riesce tuttora a porre. Si è tenuta nella sala d'ercole a Palazzo Reale la seconda officina della Repubblica delle idee dal titolo "la fotografia e i suoi miraggi". Bandite nel corso del dibattito tutte le nostalgie su ciò che è passato, sulla presunta autenticità delle fotografia analogica e sulla innegabile falsità di quella digitale. Attraverso una serie di immagini proiettate sullo schermo in sala, 29 Michele Smargiassi ha dimostrato come in passato anche la fotografia analogica sia stata capace di mentire alla storia con decisioni umane e inconscio-tecnologiche. "Per difenderci da una foto falsa dovremmo sapere cos'è una foto vera. Ma una foto non è mai vera, può solo assomigliare al vero", ha osservato. In questa prospettiva, ha detto: "Photoshop non deve essere considerato il male assoluto. Può servire al venditore di fumo ma è altrettanto meraviglioso perché capace di inventare mondi". Nel corso del tempo sono cambiati gli strumenti tecnici che permettono di immortalare un evento e con la diffusione di smartphone e tablet chiunque può essere in grado di farlo. "Ma non mi sento minacciato dai fotografi improvvisati, ha detto Smargiassi- il mestiere del fotoreporter è di tutt'altra natura". Il suo compito è quello di comporre le testimonianze, di rendere comprensibile la causa che ha condotto all'effetto immortalato nell'immagine. "Ho riso quando ho letto sui giornali che, in occasione del terremoto in Emilia, anche stavolta tweetter era arrivato prima del giornalista. È come dire che il ferito sotto le macerie è arrivato prima del fotografo", ha ironizzato Smargiassi. Oggi esiste il selfie che ha reso la fotografia "conversazionale" ma che non è giornalismo, solo una nuova poetica fotografica. Comprensibili, però, nel corso della discussione, le nostalgie degli anziani, uno dei quali prendendo la parola ha detto: "Ho rovesciato i mie cassetti per tenere in mano una fotografia di mio nonno; oggi se i giovani rovesciassero un'intera casa, non la troverebbero". Colpa di queste foto fast-food che hanno fatto perdere il gusto della buona tavola in fotografia e la bellezza di conservare i ricordi. "Tutto vero, ha detto Smargiassi- con la proliferazione di scatti fotografici è chiaro che i giovani avranno sicuramente un rapporto diverso con le immagini rispetto al passato. Ma non bisogna disperare. Fino a 3 anni fa non avremmo neppure immaginato un dibattito del genere e non è detto che le cose non cambieranno. Ne riparliamo tra 5 anni". Torino: Festival della fotografia storica di G.C. da http://www.pensieridintegrazione.it/ Dall’Australia degli aborigeni all’Alaska dei ghiacciai o di ciò che ne resta, passando per una Mantova sott’acqua dopo l’alluvione del 1917, i navigli di Milano e i birrifici del Biellese, per poi spingersi oltre le sponde dei fiumi del Congo. È un affascinante viaggio spazio-temporale quello proposto da “Memorandum”, il festival della fotografia storica che sta facendo tappa a Torino fino al 20 luglio, nel Palazzo della Regione Piemonte in piazza Castello 165. La quarta edizione della rassegna dedicata alla fotografia storica presenta 14 nuove mostre provenienti da altrettanti archivi e tutte ad ingresso gratuito. Un “tour fotografico” partito da Biella, che è approdato a Torino al Palazzo della Giunta regionale del Piemonte e in seguito toccherà Roma e Mantova. Il fulcro del percorso di questa edizione di Memorandum è il progetto fotografico–scientifico di Fabiano Ventura, fotografo e alpinista, che ha documentato gli effetti dei cambiamenti climatici in Alaska, Caucaso e Karakorum negli ultimi cento anni. Partendo dagli scatti di Vittorio Sella, Ardito Desio, Massimo Terzano, Mor Von Dechy e Wlliam Osgood Field, 30 Ventura ha ripreso, ghiacciaio dopo ghiacciaio, le stesse identiche inquadrature. Ne scaturisce un confronto fra storico e contemporaneo che lascia stupefatti, sia per la bellezza delle immagini, sia per il profondo mutamento del pianeta che rivelano. L’esposizione è aperta al pubblico dal martedì alla domenica dalle 11 alle 19, con giorno di chiusura il lunedì. Questo il programma completo: Sulle tracce dei ghiacciai - Alaska, Caucaso e Karakorum: le fotografie contemporanee di Fabiano Ventura a confronto con le immagini storiche di cinque archivi internazionali. Magreb 1934 - Viaggio nell’Africa del Nord 1964-2014 a 50 anni dalla morte di Guglielmo Alberti, Centro Studi Generazioni e Luoghi - Archivi Alberti La Marmora, Biella. L’Africa di Giacomo Savorgnan di Brazzà, Archivio Storico Capitolino, Roma. Disegnati con la luce: installazione video realizzata con materiali delle scuole di tutto il Piemonte. Obiettivo sul fotografo - Un secolo di operatività del Gabinetto fotografico Nazionale, ICCD Istituto Centrale del Catalogo e della Documentazione, Roma. La memoria dell’aborigeno - L’arte fotografica di J. W. Lindt, Museo Nazionale Preistorico Etnorafico “L. Pigorini”, Roma. Il viaggio della lana, DocBi Centro Studi Biellesi, Biella. La dolcezza inquieta, Archivio di Luigi Cavagna, Voghera. Il Movimento FLUXSUS 1962-2012, Archivio Garghetti, Milano. I navigli di Chierichetti, Archivio Chierichetti, Milano. Storia di una piccola grande birra, Archivio Birrificio Menabrea, Biella. Cartoline dalla città sott’acqua, Archivio di Stato di Mantova. “19211953 Immagini dall’archivio privato del fotografo Franco Bogge”, Archivio Fondazione Cassa di Risparmio di Biella. Scatti d’autore, Festivaletteratura, Mantova (in mostra sotto i portici di Piazza Castello). Ad organizzare l’evento, l’Associazione Stilelibero e il Museo Regionale di Scienze Naturali del Piemonte. In allegato, l’invito all’inaugurazione e una foto in mostra. Considerazioni di un idiota sulla foto d’arte di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Fotocamera per fotografie concettuali. Funziona ad acqua, anche calda. 31 (Avviso ai naviganti: questo è un articolo polemico e idiosincratico, direi anzi che è un articolo idiota, da ἰδιώτης, ossia personale, privato, riferito a se stesso. Dunque chi prevede di arrabbiarsi leggendolo, lo salti, e passi al successivo). La “giovane fotografia d’arte”, guai a chi la tocca. Per aver espresso un suo parere personale, anzi un suo disinteresse personale verso certi fotografi contemporanei che ”copiano quello che hanno fatto i pittori con cinquanta, cento, anni di ritardo”, Gianni Berengo Gardin è stato recentementedescritto su un blog di critica d’arte più o meno come un fotografo rigido, privo di curiosità, diffidente e chiuso, che rilascia opinioni facilone, superficiali e banali, vittima assieme alla sua generazione di fotografi di un senso di inferiorità e di autodifesa, infine sfidato a sostenere le sue affermazioni davanti a un “democratico” consesso di “fotografi-artisti (e non), critici, galleristi, storici della fotografia e direttori di festival e musei”. Mah… Berengo è un signore, io invece sono un “idiota”, e non ho problemi a fare esempi, senza necessità di fare nomi perché, ahinoi, non è questione di persone, ma di tendenze quasi di massa… Eccoti dunque, o giovane artista fotografo, una lista parziale, incompleta e aggiornabile di suggerimenti per creare i tuoi prodotti, etichettandoli come fotografia d’arte, in modo che sicuramente non piacciano a me, ma piacciano a molti. Parti per una profonda emotiva commovente indagine sul tuo vissuto, fotografa tutti gli oggetti della tua esistenza, non ti chiedere perché a qualcuno dovrebbe fregargliene qualcosa di come vivi il tuo vissuto, sei un artista! Il tuo vissuto è universale! Parti con la tazza incrostata del tuo gabinetto, prosegui col tuo spazzolino da denti spelacchiato. Anche i tampax usati possono andare. Non avere limiti né pudori. Donne nude. Non si sbaglia mai. Mica roba porno, eh. Erotismo sublimato. Mettici specchi (molto simbolici), ottimo un crocifisso, molte corde, macchie di incerta provenienza, magari sangue, così si capisce che le tue foto non servono ai ragazzini per farsi le pippe. Se poi ti inventi uno pseudonimo giapponese, hai fatto bingo. Racconta con le foto l’alzheimer di tua nonna, povera stella, i suoi oggetti, a lei ormai incomprensibili, la sua desolata camera da letto, la sua modesta cucina, il suo telefonino orfano, mi raccomando mettici ampie dosi di sfocatura metaforica e di ombre belle chiuse che suggeriscano il dramma della perdita del mondo interiore, così il cliente si commuove. Lavora sul corpo delle donne, col corpo delle donne, se sei una fotografa usa il tuo stesso corpo, autoritratto e doviziosamente esposto in tutti i suoi quarti e tagli, e se qualcuno osa fare dell’ironia dagli del solito maiale maschilista. Costruisci una storia romanzesca partendo da un album di fotografie trovato su una bancarella, rifotografalo, filtralo, rimasticalo, devi solo avere l’accortezza di chiamarlaarchive-art, oppure mash-up, in italiano rimediazione, infatti in genere sono lavori molto, molto rimediati. 32 Serbatoio della creatività della fotocamera per foto concettuali. Componi giganteschi cataloghi di oggetti in posa, meglio se sovresposti, sottesposti, calligrafici, strapazzoni o neo-blossfeldiani, a colori o in bianconero ma mi raccomando sempre in tonalità omogenee perché magari il cliente cerca una nuance che stia bene in cadenza con il rivestimento del divano; comunque guarda, per non sbagliare fai sempre una serie in scala di grigi e bianchi, che stanno bene su tutto, fidati. Studia un reportage empatico sul clocharddietro casa, che naturalmente dovrai presentare come un poeta negletto, unoswami incompreso e affascinante, mostra la sua branda, il suo pattume, il taccuino su cui scrive cose profondissime (però solo di sbieco, che non si leggano davvero), la scatoletta di tonno che è il suo misero pasto, naturalmente fai tutto con “grande rispetto per la dignità della persona” e producilo su grande formato in stampa fine art. Descrivi una comunità attraverso i ritratti: pianta una cabina di posa in piazza, attacca ai muri dei volantini e aspetta che il narcisismo popolare faccia il suo effetto, li avrai tutti in fila davanti all’obiettivo, dài che il fotografo ci fa il ritratto, poi ce ne regala anche una copia, e tu in due giorni ti fai una collezione di facce di anziani, facce di giovani, facce di bambini, mi raccomando le rughe in megapixel e la perfetta definizione dei peli sulle orecchie… Ci sono tutti? Bene, hai spiegato il mondo attraverso la fisiognomica, Lombroso è vivo e scatta insieme a te. Puoi fare lo stesso con i disastri della guerra spiegati con i ritratti dei soldati, o delle mamme dei soldati, o ancora meglio delle mamme dei soldati che mostrano la foto dei figli soldati morti in guerra. O con il dramma dell’emarginazione raccontato con una bella galleria di facce di emarginati, o con l’immigrazione raccontata dalle facce di di immigrati. Il volto è lo specchio dell’anima, no? C’è bisogno d’altro? Vogliono qualcosa più dell’anima? Il contesto? Ma sei un artista, mica un fotogiornalista! Paesaggi, ritratti, still-life, puoi fare qualsiasi vecchia cosa purché sia destrutturata:qualsiasi immagine banale diventa intellettuale, per esempio, se la dividi in due, tre, dieci, ottanta frame e ne fai un bel 33 fotomosaico alla Hockney. In alternativa: scegli la nebbia. Nebbia fitta, fumo avvolgente, che ricopre e smussa tutto, immergi qualsiasi soggetto nella nebbia e vedrai che funziona, cos’hai fotografato? Non si capisce, dunque è arte. Ricorda, un fotografo artista non vende quella cosa orrenda che è la realtà, vende fumo. Compra un bel supermacro e fai foto de-contestualizzate di dettagli di oggetti, libri antichi, pentole, giocattoli, gusci di cozze, quel che cavolo trovi in giro senza faticare tanto, poi cerca un critico che te le giustifichi come “anti-realistica suggestione della cosalità”. Essenzializza. Spoglia. Minimalizza. Togli. Una linea d’orizzonte. Mare che confina col cielo. Nebbia che sfuma nella nebbia. Le distese omogenee di qualsiasi cosa, purché irriconoscibile, sono oro. Meno c’è, nelle tue foto, più lo spettatore intimidito pensa che ci sia. Oppure inventati un personaggio: basta una modella, un amico, vestili come dei deficienti, mettili in posa come delle bambole, in situazioni incongrue o provocatorie, qualcuno troverà tutto molto dissacrante e destabilizzante, e dopo, per dirla alla Cochi e Renato , “la galleria fotografica adiacente / ti lancia sul mercatooooo / sottostanteeee”. Non trascurare i teatrini di pupi tardo-decadenti, huysmansiani e para-surrealisti, basta un po’ di sartoria teatrale e qualche passaggio al mercato delle pulci, con cento euro di materiale di base te la cavi, un’amica che ti fa da modella la trovi, poi osa: metti un maiale vivo su un frigorifero, vedrai che qualcuno apprezza. Sangue, polvere, un salto dal macellaio a prendere un po’ di frattaglie fresche (“Oh, ma quanti gatti c’ha a casa lei?”), aiutano. Ah, poi bisogna desaturare bene, che mica deve sembrare una “fotografia realistica” eh, ci capiamo. Paciuga, spennella, mix-media, andrà bene tutto, ricorda le paroline magiche, giclée, carta cotone, stampa su tela… ricorda che fai parte di una grande tradizione ultracentenaria, quella dei fotografi che si vergognano di fare fotografie. 34 Perlustra luoghi desertificati, fabbriche dismesse, appartamenti fatiscenti, cerca bene, c’è sempre la scrivania con gli oggetti “che sembrano essere stati abbandonati all’improvviso”, la stanza “che ancora porta i segni di chi la abitò”, carte da parati slabbrate, muri con la muffa e cacche di topo valgono come il tesoro di Alì Babà, gli oggetti diventano orfani e metonimici, erompe il senso della perdita, vai vai, che vai sul sicuro. Fai una gita al mare d’inverno, si mangia bene e non c’è gente, poi dopo la frittura mista e il caffettino fatti un giro in spiaggia e fotografa le sdraio con la neve, gli ombrelloni coperti dal cellophane, non ti sbattere tanto, il resto lo fai in post, tutte le visioni “straniate” di luoghi fuori stagione vanno forte. Vuoi restare in città? Fai un bel giretto col vespone, cerca vedute urbane senza qualità, le periferie da cross-processare, fotografare sbilenche, risaturare, ipersaturare, filtrare, flashare, crea alienazione urbana a colpi di livelli e istogrammi di Lightroom. Avrai fatto un grande “lavoro di analisi dello spazio contemporaneo”. Filtra. Senza pudore, come i ragazzini: instagramma, clicca, stonda, sfuma i bordini in nero, carica i colori: naturalmente la tua è una consapevole assunzione dei linguaggi di massa, tu lo fai in maniera intelligente perché sei l’artista, anzi la tua è una critica culturale alla nonfotografia di quei decerebrati col telefonino. E naturalmente scegli la tua strada personale e unica, senza timore scegli se vuoi stare fra i gurskini, i ruffini, i ghirrini, i becherini, gli hoferini, i salgadini, i witkinini, i wallini, i fontanini, i lachapellini, gli arakini, i maccurrini (se vedo in mostra un altro reportage sul Maha Kumb Mela o sulla festa di Holi, giuro, chiamo la questura), nonché le woodmanine, le goldinine, le shermanine… Molte di queste cose, in realtà, quando le ho viste per la prima volta, mi hanno incuriosito, interessato, in qualche caso convinto. Purtroppo hanno colpito molti altri, che le hanno copiate senza neppure capirle per intero. Gli epigoni che pensano o fanno finta di non esserlo sono la malattia dello scambio culturale. In questo non sono d’accordo con Berengo Gardin: i nuovi fotografi artisti non copiano i pittori di cent’anni fa, si copiano soprattutto fra loro, ma senza ammetterlo. Eppure in generale tutte queste cose che vi racconto le vedo realizzate di solito con maestria tecnica invidiabile, con padronanza assoluta degli strumenti, e con una notevole capacità di assorbire, far proprio e riproporre uno stile. Non c’è dubbio, sono cose da professionisti dell’immagine. Dell’immagine come processo, voglio dire. Ma verso quale meta procede il processo? La mia impressione: la competenza tecnica di tanti giovani foto-artisti è notevolmente superiore alla loro immaginazione. Possiedono tutti gli strumenti per fare qualcosa di buono, ma non sanno cosa. Sono alla disperata di ricerca di idee che diano un senso alle cose che materialmente sanno fare benissimo. 35 Temo che sia frutto di una certa mania per i workshop ipertecnici che si innesta su una mancanza di cultura visuale, mai imparata a scuola. Se il problema dell’artista, un tempo, era forse avere grandi idee ma deboli strumenti per realizzarle, un grande desiderio a cui non riusciva a seguire l’atto, ed era quindi una sorta di impotentia coeundi, adesso prevale un superomismo da Viagra digitale, però emotivamente frustrato: come artista mi sento un vero stallone, purtroppo non riesco a innamorarmi. Ma non è una cosa di adesso. Quando i ragazzini bravini con i gessetti andavano a studiare a bottega dall’artista-artigiano, la frustrazione del “so come fare ma non so cosa fare” gli veniva risolta in partenza: per anni, quel che imparavano tecnicamente a fare si esercitava su stili collaudati, su canoni formali tradizionali, sicuri, da imparare ed applicare. Il ragazzo di bottega prima stendeva i fondi, poi completava i panneggi, poi magari gli veniva concesso qualche dettaglio delle mani, un volto mai, o solo alla fine. Se era un artista davero, dopo qualche anno si rompeva le scatole di rifare le cose del maestro e provava a cambiare l’ovale del viso, il sorriso, la tavolozza, a fare del suo, con prudente orgoglio. Quelli che ci riuscivano. Quelli che avevano i numeri. Quel che accade con la fotografia, medium generoso, che accorcia drasticamente l’apprendistato artigiano, è purtroppo questo: puoi fare, puoi farlo benissimo, ma non saicosa fare. Ma non c’è problema. Così come i software inclusi negli apparecchi e quelli di post-produzione aiutano i dilettanti meno attrezzati ad evitare lo scalino della competenza tecnica, così altri sistemi sociali dell’arte aiutano gli aspiranti artisti senza ispirazione ad aggirare il blocco creativo. Ci sarà sempre una galleria disposta, pagando, ad esporti come un astro nascente, una rivista che lo confermerà, ci sarà un critico disposto, anche gratis, a trovare alle tue opere un senso che neanche tu avevi immaginato. Le tue cose saranno reclutate nel sistema, senza esame d’ammissione, magari per essere subito masticate e risputate; se sei fortunato invece saranno accettate e rilanciate. E tu ancora non saprai bene cosa hai fatto, anche se saprai benissimo come l’hai fatto. Ma a quel punto non servirà più darti da fare: a trovarti un senso ci penserà qualcun altro. Beninteso, se qualcuno vuole appendersi sul divano le cose che ho descritto sopra, scegliendo magari la cadenza giusta di colore, non ho nulla da dire. Non ho nulla contro i complementi d’arredo. Né contro chi vuole nobilitare con l’arte un divano letto (e riletto). Tag: creatività, David Hockney, fotografia d'arte, Gianni Berengo Gardin Scritto in creatività, critica, dispute | 154 Commenti » Sei camere chiare da http://undo.net/ PALAZZO BARBO', TORRE PALLAVICINA (BG) FINO AL 31.8 Sei fotografi dalla collezione di Massimo Minini. Immagini di Julia 36 Margaret Cameron, Wilhelm Von Gloden, Ghitta Carell, Georges Vantongerloo, Luigi Ghirri, Francesca Woodman sono ospitate nelle sale del palazzo cinquecentesco. Francesca Woodman, Untitled, Providence, Rhode Island, 1978, printed 2008, gelatine silver estate COMUNICATO STAMPA a cura di Angela Madesani Domenica 29 giugno, alle ore 11:00, nelle sale di Palazzo Barbò a Torre Pallavicina, ha luogo l'inaugurazione della Mostra “Sei camere chiare sei fotografi” della collezione Massimo Minini, a cura di Angela Madesani. L'evento si colloca all'interno della rassegna Odissea 2014 – Festival della Valle dell'Oglio. Immagini di Julia Margaret Cameron, Wilhelm Von Glöden, Ghitta Carell, Georges Vantongerloo, Luigi Ghirri, Francesca Woodman ospitate nelle sale affrescate del palazzo cinquecentesco. Viene così a crearsi un dialogo tra la storia dell’arte e la storia della fotografia attraverso sei importanti e non prevedibili protagonisti. La scelta dei nomi è stata operata insieme alla curatrice da Massimo Minini, che da oltre quarant’anni è titolare a Brescia di una delle più interessanti gallerie italiane. Minini è certo un gallerista, ma anche un attento quanto curioso collezionista. La tensione è quella di conoscere, di capire, di raccogliere. La mostra conduce lo spettatore in un raffinato cammino che dalla vittoriana Julia Margaret Cameron, che ha realizzato con la fotografia quello che altri facevano in pittura, porta al Barone von Glöden, con le sue atmosfere mediterranee e ai ritratti dell’alta società di Ghitta Carell. In Italia quasi sconosciute sono le immagini che l’artista belga Georges Vantongerloo, firmatario del manifesto di De Stijl, realizzava delle sue sculture. 37 La mostra presenta anche i lavori di due artisti più vicini a noi, l’americana Francesca Woodman con le sue immagini in bianco e nero, di tematica esistenziale, e Luigi Ghirri con la sua sensibilità per il colore e per il senso stesso delle immagini. La mostra è accompagnata da un catalogo, edito da Shin, in cui è pubblicata un’intervista a Massimo Minini di Angela Madesani, realizzata in occasione della mostra. Inaugurazione Domenica 29 giugno ore 11 , Palazzo Barbo'-via Torre 19, 24050 Torre Pallavicina (BG) - Apertura mostra: il sabato ore 17/20, domenica ore 15/20. Ingresso gratuito Lo choc delle neo-foto di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it “Tutti fotografi!”… E adesso sfogate pure la vostra irritazione, amici fotografi professionali. C’è poco da fare. Se lo dice ancheParis Match… Vi ricordate lo slogan con cuifu lanciato nel 1949 l’aggressivo settimanale francese? Le poids des mots, le choc des photos… Non so se sarà davvero unochoc, non credo, l’iniziativa lanciata da Paris Match per la prossima festa nazionale francese del 14 luglio. “Costruiamo assieme il più grande album colelttivo di una sola giornata in Francia, è l’invito semplice e suggestivo. Spedite alla piattaforma online già predisposta, le immagini geolocalizzate verranno via via spillate al loro posto su una mappa interattiva della Francia. Una specie di Panoramioistantaneo. “Mandate le vostre foto” ormai è un ritornello comune su tutti i siti del giornalismo online. La più banale e semplice delle interazioni visuali con i lettori. Credo di avere già raccontato che l’idea è molto, molto più vecchia dell’apparizione di Internet. 38 E dunque pas de choc, e ormai anche pas de chic in questa giornata dello scatto collettivo lanciata con enfasi (si conta sulle foto di tutti, dal presidente della Repubblica in giù). La formula del ritratto fotografico simultaneo e collettivo di un paese intero è altrettanto risaputa, fu la base di una serie di volumi ideati dal fotografo Rick Smolan e dall’editore David Elliot Cohen, dal titolo A Day in the Life of…, che ebbero una certa fortuna negli anni Settanta, affidata però a uno squadrone di fotografi ben scelti. L’idea di coinvolgere una massa di fotografi “volontari”, invece, nella creazione di un album collettivo realizzato in un solo giorno, l’abbiamo sperimentata prima noi, qui in Italia, sempre per un anniversario patriottico: fu la grande impresa della Fiaf, dal titolo Passione Italia, che per il centocinquantesimo compleanno dell’unità nazionale coinvolse 4500 fotoamatori e produsse quasi 35 mila immagini. Neppure lo slogan “Tutti fotografi” che campeggia in testa al lancio pubblicitario dell’iniziativa mi pare possa essere più scandaloso. Si può discutere se fotografi equivalga a fotografanti, ma non si può negare che oggi tutti quanti siamo in grado, in qualsiasi momento della nostra giornata, di scattare una fotografia. E dunque perché ve ne parlo? Per via di quella colonna di destra dove compaiono i logodei sostenitori dell’iniziativa. Guardate bene. Io mi sarei aspettato di trovarci almeno il marchio di una rete telefonica. O di un providerdi servizi di condivisione di immagini: che so, Instagram, Facebook, Flickr. Non ci sono. Forse non ne hanno bisogno, a loro basta mettere il cesto sotto l’albero: le mele ci cadranno dentro da sole. Spiego dopo. Ci sono invece: una rete televisiva, una radiofonica, un’agenzia di servizi turistici, il prestigioso Cnrs , e poi, e soprattutto: la Canon, la federazione francese dei circoli fotoamatoriali, il Salon de la Photo, e il festival fotogiornalistico Visa pour l’image. Mobilitazione massiccia di istituzioni e imrpese della fotografia tradizionale per un progetto che pende vistosamente sul versante della neo-fotografia. Non vi sembra un po’ come se dicessero: be’, avete vinto voi? Ho qualche dubbio, infatti, che un’iniziativa così imponente, almeno nelle intenzioni, possa diventarlo davvero se non si metterà in moto in modo virale la spinta dei fotocellulari. Proprio l’esperienza Fiaf di tre anni fa dimostrò che, sollecitando la sola partecipazione di fotoamatori evoluti, per quanto massiccia, si può arrivare a ordini di grandezza delle poche migliaia di persone coinvolte. Tante, in senso tradizionale. Ma credo che l’obiettivo Paris Match sia più ambizioso, non so, mi sembra. Ma se lo è, e se riuscirà a totalizzare cifre più grandi, lo dovrà a quella parte della fotografia che viene considerata una concorrente pericolosa, una sorella infantile, da chi è solito frequentare istituzioni e comprare macchine fotografiche evolute come quelle che portano i marchi degli sponsor. Di fatto, questa iniziativa mi sembra un grande placet, un tacito 39 certificato di legittimazione rilasciato dalla fotografia tradizionale a quella “disseminata”. Se non altro perché ne conferma l’ideologia, ne utilizza i modi di condivisione e gli strumenti tecnici di restituzione (mentre gli esempi che citavo prima avevano per destinazione essenzialmente un libro). In questo senso, anche se non sono direttamente coinvolti né tecnicamente nè come sponsor, i social network dell’immagine condivisa saranno, alla fine, i grandi beneficiari di questo gigantesco spot pubblicitario. Che si può dire? Che il mondo della fotografia evoluta si taglia le gambe da solo? Che cede alla potenza del numero? Che si converte a un mercato ormai decisivo per la sua stessa sopravvivenza? Forse lo choc, oggi è questo. Lo choc delle neo-foto. Ed è difficile resistergli. Tag: David Elliot Cohen, Facebook, Fiaf, Instagram., Internet, Paris Match, Passione Italia, Rick Smolan Scritto in condivisione, Immagine e Internet, massificazione | 54 Commenti » Fulvio Roiter SPAZ IO EXC ALIBUR, VI GEVANO (PV) FINO AL 30 LUGLIO 20 14 40 Amazzonia. I suoi reportage sono composti da scatti che immortalano i volti di Indios ritratti nel loro ambiente naturale, foglie bagnate dalla pioggia tropicale, fiumi immensi che tagliano un verde intenso. CO MUNICATO STAMPA a cura di Luca Temolo Dall'Igna e Riccardo Mazzoni Il Brasile non è solo Mondiali di Calcio e l'Amazzonia non è solo Manaus dove l'Italia ha giocato contro l'Inghilterrà. La mostra Amazzonia racconta attraverso lo sguardo di Fulvio Roiter, artista colto e sensibile, un'altra Amazzonia che servizi e cronache “mondiali” non riusciranno mai a raccontare. Fulvio Roiter è uno dei più grandi fotografi del panorama italiano. I suoi reportage, le sue romantiche immagini di Venezia, il suo racconto per scatti del “Cantico delle Creature” di San Francesco hanno commosso ed emozionato migliaia di persone. Vincitore di numerosi premi e autore di reportage che hanno segnato la storia della fotografia Roiter è l'autore delle emozionanti immagini scattate in Amazzonia durante il suo primo viaggio in Brasile. Sono passati quasi sessant'anni da quel 1957 ma le 46 fotografie esposte, 23 a colori e 23 in bianco e nero, restituiscono intatta l’emozione di quei luoghi incantati: l'Altra Amazzonia che forse tra non molto non potremo più vedere. In questi scatti si percepisce palpabile il coinvolgimento di chi sta dietro l’obbiettivo: volti di Indios ritratti nel loro ambiente naturale, foglie larghissime bagnate dalla pioggia tropicale, fiumi immensi che tagliano un verde intenso, semplici imbarcazioni di pescatori e chiazze di vegetazione variopinta diventano dialoghi dell’anima che commuovono e ispirano. Questa mostra, insieme all'esposizione che si tiene presso la Pinacoteca Civica Casimiro Ottone di Vigevano delle sue spettacolari immagini dedicate al “Cantico delle Creature” di San Francesco, segna l'inizio della collaborazione tra il Comune di Vigevano, Spazio Excalibur, la galleria cittadina dedicata all'arte, il fumetto, l'illustrazione e la fotografia, la Fondazione Franco Fossati e Fermo Immagine il Museo del manifesto cinematografico di Milano. Spazio Excalibur, Corso Genova, 114 Vigevano (PV)- tutti i sab e dom 10-13 e 15-18- Ingresso libero 41 Scianna e i grandi scatti della sua vita di Leonardo Jattarelli da http://spettacoliecultura.ilmessaggero.it/ «I miei ritratti della memoria» L’ultima foto del suo magnifico libro Visti&Scritti ha pensato di dedicarla al suo portinaio di Milano, faccia rugosa, occhi buoni. Ha da poco compiuto ottant’anni: «E tutti in famiglia gli hanno ripetuto per l’ennesima volta che è ora di smettere... È vero, ma è vero soprattutto che la sua vita è il lavoro. Non ha potuto costruirsi un’alternativa. Quest’uomo mi ha insegnato molto. Ogni volta che i miei malanni e le mie stanchezze prendono il sopravvento penso a Edoardo, e questo mi aiuta a rimettere le cose nella giusta prospettiva». Eccolo, uno dei tanti ritratti allo specchio di un maestro della fotografia, Ferdinando Scianna, settant’anni, di Bagheria. Il suo antico, elegante accento siciliano mentre ti parla ha il sapore di salsedine e di sigaro, e se sfogli il suo grande “album di famiglia” ti verrebbe voglia di averlo conosciuto quest’uomo quand’era ragazzino e la macchina fotografica per lui era già la stilografica dello sguardo. Ferdinando Scianna sarà a Roma oggi all’Auditorium Parco della Musica (alle 21 al Teatro Studio, poi alle 22,30 firma copie nella libreria Notebook dell’Auditorium) per parlare del suo straordinario libro, edito da Contrasto, ma soprattutto per un incontro d’eccezione «che ho fortemente voluto. Perché lui non è soltanto uno che di mestiere recita ma riesce a far coincidere la lucidità storica con la materia del suo essere attore». Con Toni Servillo, l’ormai mitico Jep Gambardella della Grande bellezza da Oscar «parleremo di cinema, teatro e ovviamente di fotografia di cui è grande conoscitore. Lo conobbi un giorno mentre recitava un testo di Eduardo, me lo fece incontrare Mimmo Palladino. Con Toni abbiamo sempre discusso molto e questo ci ha aiutati a farci comprendere». In “Visti&Scritti”, Scianna riesce con l’abilità di uno scrittore dal sapore neorealista a dare corpo ad un sogno che rivendica quasi come diritto: «Ho 70 anni e fotografo da 50. Queste cose qui si fanno solo ora e volevo dare vita ad un libro di scritti e ritratti che non fosse soltanto una silloge di immagini ma il racconto di un lungo dialogo. È un volume autobiografico e le persone che ci abitano dentro appartengono alla mia piazza». Nella piazza ci sono tutti: i volti anonimi e le facce della storia, da una Donna con bambino ritratta a Licata nel ’67 ad un Venditore di coltelli di Bagheria (1982) fino alla schiera degli illustri, Leonardo Sciascia e Rafael Alberti, Jean-Luis Barrault e Jorge Luis Borges, Monica Bellucci ed Enzo Ferrari, Emilio Greco e Renato Guttuso e Montale, Monicelli, Rosi e Roland Barthes, Scorsese e Skàrmeta... 42 Scianna, cosa è rimasto della Bagheria dell’infanzia negli “scatti” della sua vita? «La rivendicazione dell’identità è un fatto inevitabile. Andai via dalla Sicilia a 22 anni quando la mia educazione sentimentale si era ormai già arricchita della cultura, dei sapori, delle luci dell’isola. Con tutto ciò alla fine misuri la tua esistenza e la fotografia mi ha insegnato che gli altri siamo noi e che il nostro destino è nelle mani di chi incontriamo». Due personaggi su tutti hanno plasmato la sua formazione: Leonardo Sciascia e Cartier Bresson. «Sciascia lo incontrai quando avevo 19 anni. Lui mi trattò da grande e apprezzò le mie foto sulle feste popolari a Bagheria. È lo scrittore, l’intellettuale che mi ha donato una prospettiva, che mi ha strutturato. È stato un maestro, un padre, un amico. Mi disse, una volta, che sulle persone ci si può scrivere anche una tesi di laurea. Bresson è arrivato molto tempo dopo, una vicinanza che è durata oltre vent’anni». Nei 350 scatti in bianco e nero contenuti nel suo libro, accompagnati dalle parole di un taccuino personale, si avverte il peso della memoria... «Perché la parola “memoria” per me è sinonimo di “fotografia”. Per la prima volta con l’invenzione della fotografia abbiamo potuto conoscere le facce dei nostri nonni. Siamo stati a tu per tu con le tragedie della Storia e con le sue parentesi dolci, come le gambe della Monroe. Ogni foto costruisce memoria, fosse anche per un solo istante». Qual è il ritratto che le sta più a cuore? «Sentimentalmente sono legato ad una foto che scattai a Sciascia nel ’64 a Racalmuto. Nella parrocchia di Sant’Anna, davanti all’urna con il Cristo morto, vidi due bambine, mi avvicinai fulmineo e con la coda dell’occhio vidi Leonardo che si avvicinava. Aspettai che si inserisse nella scena, poi si voltò verso di me e scattai». E accadde qualcosa... «Cinquant’anni dopo ricevetti una mail da una certa Antonietta La Mantia. Mi disse che avrebbe voluto tanto una stampa di quella foto. Era lei una delle due bambine ritratte con Sciascia. L’altra, mi disse, era morta. E come scrivo nel mio libro, appresi quella notizia “con un dolore di lutto. Perché quelle due bambine le ho sempre sentite parte della mia famiglia”». + PER APPROFONDIRE Scianna scatti vita memoria foto fotografia Togliamocelo dalla faccia di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Credevo fosse una battuta, o tuttalpiù un giochino grafico che rimbalza qua e là sul Web, al quale anche il vostro Fotocrate non ha saputo resistere. Invece no, eccolo lì il cartello, visto qualche giorno fa in profumeria: “Provate le nuove creme aeffetto Photoshop“. Sta diventando, pare, un’espressione comune nel mondo della cosmetica, ecco un ritaglio da una rinomata rivista femminile: 43 “Il sogno di tutte? Avere a disposizione Photoshop incorporato nel nostro specchio, per cancellare immediatamente rughe, colorito spento, pori dilatati e macchie e ottenere un viso radioso e impeccabile in poco tempo”. È anche una moda virale sul Web, non c’è programmino di fotoritocco online che non abbia rapidamente aggiunto, negli ultimi tempi, una gamma di strumenti “makeup” fatti apposta per addolcire, levigare, plasmare i lineamenti del viso (fotografato): antirughe, fondotinta, rossetto, eyeliner, mascara, allunga-ciglia, eccetera, tutto in un clic. Ma per l’appunto, finora erano le trousse elettroniche che imitavano i trucchi del visagista. La partita s’è ribaltata: adesso è il virtuosismo degli strumenti di fotoritocco, evidentemente molto più potenti di quelli artigianali, a prendere il sopravvento, a fare da modello, da esempio, da parametro. La cosmetica invidia la cibernetica. Mi chiedo, se questo è lo scenario, se abbiamo un qualche senso contromisure come quelle invocate da due esponenti politiche americane, bipartisan, la repubblicana Ileana Ros-Lehtinen e la democratica Lois Capps, che invitano il mondo della pubblicità e dell’editoria femminile a fermarsi in tempo, a smettere di proporre modelle-dee photoshoppate in modo frustrante e irraggiungibile per le donne di questo mondo. Non che un rischio non esista. Le diete estreme a base di pixel, che riducono le forme delle modelle a dimensioni impossibilmente sottili, sono state giustamente additate come istigatrici di pericolosissimi e frustranti tentativi di emulazione da parte delle adolescenti, fonti di complessi di inferorità e di crolli di autostima che possono anche avere conseguenze drammatiche nei caratteri più deboli. Una serie di misure anti-photoshop vennero inserite in Francia all’interno di una legge sulla cura dei distrubi alimentari. 44 Siamo già oltre, temo, la possibilità di arrestare la deriva dell’emulazione. Qualunque ragazzina, oggi, può stilizzarsi, ritoccarsi, dimagrirsi, levigarsi con pochi colpi di mouse, otap di dita, magari direttamente sul display dello smartphone, prima di condividere sulsocial network preferito la propria immagine irreale, magari maldestramente e ridicolmente pasticciata. Ma se fosse solo un gioco di società, come appiccicare sulle proprie foto ricordo glistickers di Hello Kitty o i cuoricini, non ci sarebbe nulla di drammatico. Il corpo reale e il divertimento virtuale resterebbero in mondi separati, “guarda come sarei se…” va benissimo, se resta a questo stadio siamo ancora nella dimensione del gioco, e se la cosmetica della propria immagine fotografica resta confinato in un mondo diverso da quello della cosmetica da cassetto del bagno di casa. Rimane una governabile gestione del proprio look virtuale. Ma se i persuasori occulti e palesi, il mondo dei media, i giornali femminili, la pubblicità dei cosmetici, se insomma tutto l’apparato ideologico che crea il “discorso della bellezza” e dell’adeguatezza sociale rovescia il quadro, e indica nei miracoli senza limite di Photoshop (che può farti dimagrire fino a svanire, può lisciarti come una lastra di marmo, come nessuna crema reale potrebbe mai fare) il modello da imitare, il parametro da raggiungere, se l’effetto Photoshop, che ovviamente sbaraglia qualsiasi effetto cosmetico tradizionale, diventa la pietra di paragone dimogni cosmetica manuale, allora quella soglia di distinzione, che è una soglia di sicurezza, temo sia stata ormai abolita. Chi pensa che “effetto Photoshop” sia solo una divertente metafora, dovrebbe riflettere meglio sul messaggio che questa retorica trasmette. Quando la più importante immagine di se stessa che un’adolescente vuole arrivi alla cerchia delle proprie amicizie non è la faccia con cui esce di casa al mattino, ma la foto postata su Facebook, quando è a suon di likeche una adolescente misura il proprio successo relazionale, allora “effetto photoshop” rischia di diventare non più una scelta, ma un obbligo sociale, per cercare disperatamente di essere “alla pari”. Un messaggio terribilmente efficace. E non per l’abilità del pubblicitario o del giornalista di turno. Perché dimosra come “Photoshop”, non come nome commerciale, non come strumento reale e del tutto legittimo di lavoro grafico, ma come metafora, idea, modello, sia già entrata nel nostro immaginario attraverso il linguaggio, e abbia fatto il nido nell’armadio delle nostre metafore d’uso comune. Credo abbia ragione Riccardo Falcinelli, che in un opportunissimo manuale di autodifesa dai tranelli del visuale (Critica portatile al visual design, sul quale meriterà di tornare) definisce Photoshop “una forma simbolica”, ossia una struttura fondamentale, ancorché inconscia, della nostra cultura, una struttura artificiale ma scambiata per naturale, attraverso la quale interpretiamo il mondo che vediamo, come è stata ed è tuttora, dopo oltre mezzo millennio, la prospettiva rinascimentale con tutte le sue regole. La pubblicità, questo lo sappiamo tutti, è un supplizio di Tantalo, la 45 pubblicità non ci vende certi prodotti di cui abbiamo bisogno, ma ci rivende la nostra insoddisfatta brama di volerli tutti. L’immagine fotografica, accuratamente costruita, l’ha sempre aiutata nel compito, meendoci sotto naso merci raggiungibili per (non) soddisfare desideri irraggiungibili. Ora l’immagine artificiale, creata in laboratorio, diventa essa stessa il modello irraggiungibile. L’immagine pubblicitaria sta raggiungendo la sua perfezione: non vende più merci, vende se stessa. Ma sotto il cerone di crema o di pixel ci siamo sempre noi, esseri grandiosamente imperfetti, e lo sappiamo. Tutto il rischio dipende da quanto sappiamo sopportarlo, accettarlo, rivendicarlo. Tag: Ileana Ros-Lehtinen, Lois Capps, Photoshop, Riccardo Falcinelli Scritto in Senza categoria | 11 Commenti » Foto mia, proteggimi dall’arte di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it In alto i fotocellulari: i musei si arrendono. Nell’impossibilità materiale – dicono loro – di reprimere uno per uno tutti i fotografanti fotocellularici, o nella poca disponibilità – temo io – dei custodi a trasformarsi in repressori di scatti abusivi a tempo pieno, si adotta la soluzione italiana: quel che non riesci a vietare, lo autorizzi. Grazie al decreto cultura approvato il 22 maggio scorso dal Consiglio dei Ministri, nessuno potrà più dirvi nulla se fotografate con lo smartphone la Veneredel Botticelli, o qualsiasi altra opera d’arte esposta da un’istituzione culturale pubblica. L’articolo 12, infatti, corregge la normativa vigente con queste disposizioni: Sono in ogni caso libere, al fine dell’esecuzione dei dovuti controlli, le 46 seguenti attività, purché attuate senza scopo di lucro, neanche indiretto, per finalità di studio, ricerca, libera manifestazione del pensiero o espressione creativa, promozione della conoscenza del patrimonio culturale: 1) la riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né l’uso di stativi o treppiedi [...]. Va da sé, ripeto, che è una specie di sanatoria. Perché questo permesso, i visitatori dei musei se lo prendono da soli da tempo, intrepidamente e senza alcuno scrupolo. Selve di fotofonini s’innalzano come le lance dei guerrieri di fronte al condottiero vittorioso, da ogni comitiva, il povero cicerone parla al vento mentre i turisti non guardano affatto l’opera che hanno fatto tanta strada per vedere di persona, ma la sbirciano attraverso il filtro del display. Peggio per quei pochi visitatori obsoleti che, pervicacemente, pretenderanno ancora di guardare l’opera a occhio nudo, sempre che riescano a intravvederla nei varchi fra uno schermino e un altro. Mai come oggi viaggiare è una strategia per accumulare immagini. Ma per cosa? per farne cosa? Come Fotocrazia ha già raccontato, un movimento organizzato di nomeInvasioni Digitali ha rivendicato il diritto di fotocattura della visita a un museo in nome della condivisione orizzontale della cultura, con qualche ragionamento non del tutto infondato sulle modalità odierne di comunicazione delle esperienze vissute e della dialettica culturale. Del resto, erano stati i sindacati dei custodi del Louvre, già qualche anno fa, a prenderela parti dei visitatori col dito sul clic, in nome di un semplice atto di tolleranza: chi siamo noi per proibire al pubblico di godere come crede l’opera, chi siamo noi per imporre un tipo di approccio (quello classico, contemplativo e passivo) piuttosto che un altro (acquisitivo e attivo)? Anche qui, c’è del vero. Evito quindi giudizi snob. Però mi chiedo ancora cosa se ne faranno, tornati a casa, i visitatori smartfonici, di quelle immaginette atroci, deformate nella prospettiva e falsate nei colori che saranno riusciti a catturare dalla seconda fila, magari con le teste in mezzo. Le faranno vedere agli amici? Le verseranno tutte sui social network? In verità, vedo più pizze in tavola e piedi in spiaggia, su Facebook e Instagram, che Goya e Giotto. Allora è un consumo privato? Le riguarderanno nostalgici, a casa? La scaricheranno in un hard disk, ne faranno collezione? Come una volta avrebbero comprato le cartoline? Ma qualsiasi foto trovata con Google e scaricata in due secondi è molto migliore di quella fatta da sé. Credo che non faranno nulla di tutto questo. Probabilmente non riguarderanno mai la loro pessima foto di un Mantegna, di sicuro non più di una volta, e presto la cancelleranno dalla memoria del fotofonino. Le uniche immagini con qualche possibilità di secondo sguardo saranno forse i selfie a braccio teso, ecco la mia facciona che si staglia sulla Madonna del Cardellino, la pubblico subito su Facebook/Instagram… Ma anche in questo caso, durerà qualche secondo, due sorrisi, e fine. 47 Non si fotografa più per portare via. Si fotografa per essere lì. È del tutto sbagliato pensare che la fotofagia bulimica dei visitatori di museo sia la premessa a un consumo differito, domestico, privato dell’opera. La fotografia rabdomantica da museo fa parte di una etologia dell’incontro con l’opera. Fotografare col cellulare è un gesto che si va ad aggiungere a quelli che accompagnano l’approccio del visitatore comune all’opera d’arte, incombenza imbarazzante, che mette in soggezione. Avvicinarsi. Un passo avanti, leggere il cartellino con il titolo (operazione che in gerere dura di più della contemplazione del quadro). Passo indietro, contemplazione assorta. E qui comincia il problema. Cosa si fa, come ci si deve comportare quando si guarda un quadro? Dove si deve guardare? Per quanto tempo? In che modo? Nessuno ce l’ha insegnato a scuola. A scuola ci hanno insegnato solo a dire “che bello!”. Ma quando siamo al museo, qualcosa dobbiamo pur fare. Immobili davanti all’opera, attoniti, indifesi, cerchiamo ansiosamente strategie che non possediamo. Dove le cerchiamo? Nelle nostre protesi connettive-difensive. Il cellulare ci viene in soccorso, fornendoci la sicurezza di un gesto tanto inutile quanto abituale, rassicurante, consolatorio. Anche in altri casi della vita ci sono gesti che facciamo non perché servano a qualcosa, ma per reagire a una situazione di imbarazzo con un’attività. Quando ci inquadra una fotocamera, sorridiamo anche se non siamo felici o non c’è nulla che ci diverta. Una volta, ci si portava la mano alla bocca, per nascondere l’imbarazzo (che sta di casa fra i denti, pare). Se siamo inquadrati da una videocamera, facciamo magari ciao con la manina. Ultimamente il gesto compulsivo è fatto di linguacce, smorfiette. Non sono veri e propri gesti, sono reazioni corporali difensive a stimoli di disagio. Così una delle foto-torturatrici di Abu Ghraib giustificò il suo compulsivo pollice alzato sopra corpi martoriati di progionieri iracheni in quei terrificanti souvenir. Bene, di fronte al disagio in cui ci mette l’opera d’arte, il fotocellulare ci offre un’attività preimpostata, un gesto ripetitivo abituale e facile, che sostituisce quel rapporto che non riusciamo a stabilire con l’opera. Non riuscendo a fare mia l’opera con gli occhi, me ne approprio con la fotocamerina, vice-occhio tecnologico. Con lei almeno sono sicuro che qualcosa “ho preso”. Esperienza delegata, sguardo vicario. Lenisce quella variante della sindrome di Stendhal che ci quando abbiamo l’impressione di non aver “capito” l’opera d’arte che dovrebbe riempirci di emozione. Il fotocellulare, ansiolitico del museum-goer. Vogliamo proibire al visitatore disarmato di proteggersi come può dalla soggezione che gli incute l’arte? Sarebbe crudele, dopo avergli sottratto colpevolmente protezioni migliori, per esempio una seria educazione visuale a scuola, dove l’insegnamento della storia dell’arte è stato ridotto a dimensioni ridicole e umilianti per un paese come il nostro. Ma il modo in cui si “consuma” un’opera d’arte non è indifferente. Ha 48 conseguenze. Cambia il modo in cui l’arte viene vista. E quindi cambia il modo in cui viene presentata, offerta alla vista. Un approccio sempre più filtrato dai display, in un mondo dove ogni contenuto ci giunge da un display, solleciterà una presentazione dell’arte tendente al display. Non sto scherzando, questa coalescenza delle opere in lightbox sta già avvenendo. Trasformate da abili curatori in schermi luminosi, le opere d’arte saranno pronte per la loro transustanziazione in copie più vere del vero. Il sogno paradossale di Ando Gilardi, musei fatti solo di copie digitali ad altissima definizione (e gli originali, a degradarsi pure in cantina) potrebbe realizzarsi. [Grazie a Massimo Stefanutti per la segnalazione.] Tag: Ando Gilardi, arte, fotocellulari, fotografie, Invasionidigitali, Louvre, musei, smartphone Scritto in fotografie private, Immagine e Internet, massificazione | 20 Commenti » Helmut Newton e sua moglie, erotismo, amore, paesaggi di Paola Corapi da http://icon.panorama.it/ Lo sguardo di due grandi in mostra a Berlino Monica Bellucci, Monte Carlo 2001 (Credit: Helmut Newton Estate) 49 Nel mese di giugno 2014 la Fondazione Helmut Newton di Berlino (helmutnewton) compie 10 anni e il museo apre le porte al pubblico con una doppia mostra: Helmut Newton-Alice Springs: Us and Them e Sex and Landscapes con scatti inediti di Newton (dal 5 giugno al 16 novembre 2014). Alice Springs, all'anagrafe June Browne nella vita faceva tutt'altro, era un'attrice. Nel '48 sposò Helmut Newton, che all'epoca era un giovane fotografo in fuga dai nazisti e che si guadagnava da vivere scattando ritratti. Nel 70 lo sostituì, scattando, al suo posto, una pubblicità per le sigarette Gitanes. Da lì continuò a scattare sotto lo pseudonimo di Alice Springs (nomignolo scelto puntando il dito a caso su una mappa dell'Australia). Us and Them é una mostra, diventata anche libro di Newton e di sua moglie, un progetto che parla della loro vita insieme, che include degli autoritratti, dei ritratti scattati reciprocamente in momenti di grande intimità e allo stesso tempo ritratti di attori e artisti. Fotografie scattate tra gli anni 80 e gli anni 90 fianco a fianco a Parigi. Il progetto Sex and Landscapes, invece, viene realizzato da Newton tra il 1974 e il 2001 e indaga l'aspetto più intimo e meno noto dell'artista mostrando scatti dei famosi nudi vicino ai suoi inediti paesaggi. Newton ci rivela un mondo fatto di marine cupe e minacciose, statue barocche, onde fragorose, lunghe strade in pieno deserto sotto cieli di piombo, un parco di Berlino al crepuscolo, palazzi enigmatici di città notturne, ombre di aeroplani, il tutto intrecciato a immagini di forte erotismo, sempre con un tocco di grande stile e di glamour. Così lo descrive June Newton: Non volle mai definirsi un artista. Preferiva definirsi un mercenario che affittava il suo talento a chi pagava di più». «Scattavo foto ovunque – racconta l'artista nella sua autobiografia - ma non ho mai pensato che il mio lavoro fosse una forma d'arte. In ogni caso volevo prostituire questo talento che mi era stato dato. A Helmut piaceva molto parlare del suo lavoro, soprattutto degli aneddoti che comportava, ma non gradiva le spiegazioni e le analisi. Tutto ciò che aveva da dire era già nelle fotografie che, affermava, parlano da sole. E se alle sue immagini possiamo dare infinite interpretazioni è perché l’artista vi ha espresso in pieno le proprie complessità e contraddizioni. Una sorta di vasta autobiografia visuale all’interno della quale l’artista non fa distinzione fra le fotografie eseguite per un cliente o quelle scattate per lui. E la sua vera forza sta nella capacità di rimanere fedele al suo punto di vista in ogni circostanza. Newton accettava la realtà ma solo per renderla sogno: fu questa - estesa alla costante sessuale espressa in forme crudeli, ossessive- una delle chiavi del suo successo Helmut Newton-Alice Springs: Us and Them e Sex and Landscapes Fondazione Newton, Berlino, dal 5 giugno al 16 novembre 2014 50 Fotografi, fotografanti e fotografisti di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Via dei Fotografi, Scanno. Screenshot da Google Street View “Se hai l’ambizione di fare fotografie migliori, di impegnarti davvero per le tue immagini e le tue capacità. Se hai l’ambizione di guardare quel che fanno gli altri con le loro fotografie. In questi casi, sei un fotografo”. Bisogna proprio affrontarlo, il nodo di questa parolina, di questo sostantivo identitario che chiunque può mettersi addosso (“siamo tutti fotografi”) e chiunque altro può contestare (“la tua non è fotografia”). Mi convince la definizione di Joel Colberg, critico e blogger sempre da ascoltare (grazie a Federico Ciamei per la segnalazione) che ha sollevato una discussione su Facebook, che qui vorrei ampliare. Mi piace perché sgombra il campo da un equivoco lessicale: la sua definizione prescinde dal fatto che chi la indossa legittimamente sia o meno un professionista. Cavare o non cavare da vivere dalle fotografie non fa il fotografo, per Colberg, e sottoscrivo: perché “fotografo” non appartiene allo stesso gruppo semantico di “chirurgo” o “elettricista”. Quel che fa il fotografo, dice Colberg, è un certo atteggiamenti verso la fotografia. Qualcuno obietta, insinuante: sì, ma mentre non puoi operare un’appendicite in salotto, puoi cucinare una cena per gli amici, eppure non sei lo stesso un “cuoco”. Siamo sicuri? Quando mangio bene a casa degli amici, faccio i “complimenti al cuoco”. Diciamo che uso una metafora con una sfumatura iperbolica? Forse. In effetti, chi mi scrive una mail non lo chiamo “scrittore”. Ma io stesso, che scrivo per mestiere, che ricavo da vivere dall’uso professionale (speriamo…) delle parole, non mi definirei mai “uno scrittore”, e allora come la mettiamo? La mettiamo che le parole non vivono ben ordinate sugli scaffali dei lessicografi, ma nella realtà, dove devono aderire in qualche modo alle cose reali che descrivono. E la fotografia, presa nella sua interezza, non è una professione, ma una pratica. Anzi, un insieme molto vasto di pratiche che condividono l’uso 51 di uno strumento e l’ideologia del complesso rapporto con la realtà che quello strumento porta storicamente con sé. Quando la fotografia è nata, c’erano fotografi, ma non c’erano professionisti. E quando i professionisti fotografi arrivarono, si divisero il campo del fotografico con gli amatori fotografi, e le storie della fotografia si occupano degli uni e degli altri Forse più dei secondi che dei primi, perché per molto tempo l’innovazione, la creatività, la freschezza e la sperimentazione soni stati soprattutto dalla parte degli amatori. E se dovessimo riservare il monopolio della parola fotografo ai soli professionisti, ci troveremmo nel paradosso di avere una storia della fotografia piena di non-fotografi. Via della Fotografia, Roma. Screenshot da Google Street View La fotografia è una pratica, dicevo, quindi chi pratica una delle sue pratiche si definisce per quel che fa, e per come lo fa, e non per quel che è. La definizione di Colberg, come altre simili che potrebbero esserle affiancate, toglie la parola “fotografo” dal campo delle parole identitarie, per assegnarla come è giusto al campo delle parole efficienti. La differenza fra fotografo o non fotografo,in questa prospettiva, la fa quella che Colberg chiama “ambizione”, che io mi limiterei a chiamare “intenzione”. Badate bene: ambizione o intenzione che sia, non garantiscono il risultato. Si può dunque anche essere cattivi fotografi. Può darsi che questa definizione piaccia comunque ai “fotografi” che ci tendono a distinguersi dai “fotografanti”. Può darsi che accettino di concedere il certificato di qualità che sembra racchiuso in quella parola anche ai non professionisti, purché condividano una certa dose di consapevolezza, competenza, eccetera, a differenza della massa smartphonizzata. Sì, perché finora questa polemica sulle etichette io l’ho sentita venire soprattutto da chi usa la parola “fotografo” non tanto per definire se stesso in positivo, ma per definire in negativo gli altri. Io sono “fotografo” vuol dire: “e voi non lo siete”. Una definizione più escludente che identitaria. 52 A questi, posso solo dire una cosa: attenti, la definizione con cui questo articolo comincia si applica perfettamente anche al ragazzino Instagram. Anche lui vuol “fare fotografie migliori” (con i filtrini), anche lui “si impegna per le sue immagini” (le perfeziona, le organizza, le condivide), anche lui “guarda quel che fanno gli altri con le fotografie” (infatti ci mette i like). E allora, siamo daccapo? All’inizio, qualcuno pensò di definire i fotografi che praticano la fotografia con molto accanimento e grande intensità con la parola “fotografisti”. Potrebbe andare bene questa, a chi percepisce, magari con ragione, che i confini del suo mestiere sono sotto assedio? A me non sembra offensiva. Parola di giornalista. ——PS Per chi non sembra aver colto il senso delle illustrazioni di questo articolo, spiego: pensavo fosse chiaro il paradosso di queste due fotografie che raffigurano strade intitolate ai fotografi e alla fotografia (le due parole che i “veri fotografi” vorrebbero monopolizzare), ma sono state scattate da una fotocamera senza fotografo. Tag: FedericoCiamei, fotografante, fotografia, fotografo, Instagram. , Joel Colberg Scritto in definizioni, dispute, fotoamatori | 53 Commenti » L’anarchico che ha messo a fuoco Napoli di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Il caso compose, il mondo sorrise, Giannini colse e fermò. Una collaborazione ideale. © Guido Giannini, g.c. 53 Le fotografie si fanno, essenzialmente, per un motivo solo: perché il fotografo è lì quando una fotografia chiede di esistere. Milioni di fotografie nella storia volevano esistere, ma il fotografo non c’era, era in ritardo, o era distratto. Guido Giannini c’era. Lo ammetto, con un po’ di imbarazzo: prima di conoscerlo di persona, qualche giorno fa a Napoli, il suo nome era per me uno di quelli incontrati in qualche libro, in qualche citazione. Nei due volumi che Guido ha avuto la gentilezza di donarmi ho riconosciuto alcune immagini in cui mi ero già imbattuto. Ma un fotografo non è mai una sola immagine antologizzata da qualche parte. È un racconto che dura una vita. E quella di Giannini, classe 1930, è una vita che dovrebbe essere raccontata. Potrei dire di Guido quello che ne scrisse l’amico e collega Ermanno Rea: di lui, anche adesso, “non so quasi nulla di personale”. Lui non si racconta. Dalle testimonianze degli amici lo so anarchico dolce e inflessibile, sarcastico e divertito,fotografo a ondate, vocazione incastrata tra un mestiere napoletano e un altro: compreso uno napoletanissimo, l’uomo del banco dei pegni. So che cominciò con un’Agfa avuta in regalo, so che Napoli è il suo gigantesco zoo umano, riserva di caccia fantastica e inesauribile. So che non ha mai fotografato davvero la cronaca rude, né fatto ritratti ai potenti, se non a quelli che gli piacevano, per dire: Giulio Einaudi, Bruno Munari, Raffaele La Capria… So che è diventato il personaggio di un romanzo di Fabrizia Ramodino. So che le prime foto importanti gliele comprò Pannunzio per Il Mondo. E a dire il vero, pannunziane sono le sue fotografie migliori: stracci di vita di strada colti a guardia bassa, quando la realtà si diverte a mettere assieme gli opposti, ad accostare i diversi, quando la realtà prende in giro se stessa. Non aneddoti, ma incontri fortuiti“come quello di un parapioggia e di una macchina per cucire su un tavolo anatomico”, avrebbero detto i surrealisti. Un gigantesco sacco che cammina con le sue gambe, un cavallo bardato e ormeggiato a un molo, un Calvariovivente, una nobile mendicante violinista davanti a una vetrina di lusso, una sedia sul mare che aspetta il marinaio Godot… Ci sono due serie a cui Giannini ha dedicato una passione e una costanza particolari: quella dei ragazzi che si baciano, quella dei lettori che leggono. Due apparizioni contingenti dell’Amore che rapisce, travolge, sposta le automobili… La terza apparizione della passione è quella che non ha fotografato, perché è quella stessa passione che fa la fotografia: è l’amore per il mondo, amore arrabbiato, amore indulgente per le cose come sono, anche storte, anche sbagliate. Ma so di lui che, fedele al bianco e nero, scelse la pellicola a colori per racontare i Rom dei bordi della metropoli, e credo voglia dire qualcosa. 54 © Guido Giannini, g.c. E mi chiedo: di cosa parlano le storie della fotografia se non parlano dei fotografi come Giannini. E mi chiedo, che cosa è la fotografia se non è quell’amore controverso, anarchico e dolce per il mondo. Tag: Bruno Munari, Ermanno Rea, Fabrizia Ramodino, Giulio Einaudi, Guido Giannini, Il Mondo, Mario Pannunzio, Napoli, Raffaele La Capria Scritto in Autori, fotogiornalismo | Un Commento » Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore www.fotoantenore.org [email protected] a cura di G.Millozzi www.gustavomillozzi.it [email protected] 55