STRUTTURA, ATTIVITÀ E IDENTITÀ DEI CENTRI ANCeSCAO NEL TERRITORIO BOLOGNESE: QUALI SCENARI PER UN POSSIBILE SVILUPPO? di Luca Martignani e Matteo Orlandini 1. Premessa: contesto di analisi e obiettivi della ricerca I centri anziani, gli orti e le associazioni culturali della rete ANCeSCAO di Bologna rientrano nel vasto panorama della società civile organizzata, che in Emilia Romagna ha una tradizione solida, duratura e fortemente propositiva. Il territorio emiliano è stato spesso elogiato per il suo forte civismo: partecipazione politica, organizzazione sindacale, volontariato, responsabilità sociale di impresa, idealità sono stati per anni i lustri di questa terra. Oggi, però, anche il civismo bolognese è in difficoltà. La crisi della politica e dell’economia sono sotto gli occhi di tutti e uno dei pochi luoghi di vero sviluppo, umano e sociale, sono le organizzazioni dell’economia civile. Queste organizzazioni possono davvero diventare il motore di una nuova speranza se non falliscono nel loro compito specifico: creare legame sociale. I centri associati ad ANCeSCAO svolgono questo servizio nel campo fondamentale dell’età anziana, aiutando questa fascia della popolazione a vincere la solitudine e l'emarginazione proprie della vecchiaia. Con la presente ricerca si segnala la necessità per i centri di riflettere su se stessi, sui propri punti di forza e di debolezza, oltre che sul contesto sociale in cui sorgono e si sviluppano. Questa necessità corrisponde all’obiettivo del rilancio e del potenziamento di tali realtà attraverso una comunicazione sociale più efficace e Luca Martignani è Ricercatore in Sociologia generale (Dipartimento di Sociologia. Università di Bologna). e-mail: [email protected] Matteo Orlandini e Dottorando di Ricerca in Sociologia (Dipartimento di Sociologia. Università di Bologna). e-mail: [email protected] La presente ricerca è stata condotta e realizzata sul campo da entrambi i ricercatori coinvolti. Per quanto riguarda la redazione di questo report, Luca Martignani ha scritto i paragrafi 2 e 3. Matteo Orlandini ha scritto il paragrafo 4. L’introduzione (paragrafo 1) e le conclusioni (paragrafo 5) sono il risultato di una comune riflessione e – in quanto tali – vanno attribuite a entrambi. Gli autori desiderano ringraziare tutti coloro i quali hanno fornito la loro disponibilità per la realizzazione degli incontri di intervista, senza i quali la scrittura di questo articolo non sarebbe stata possibile. Un ringraziamento particolare va a Meris Melotti, che è stato l’interlocutore principale tra il Coordinamento dei centri e lo staff di ricerca e che ha seguito e condiviso gli spunti, i dubbi e le interpretazioni che hanno conferito sostanza a questa indagine. 1 capillare. È quindi opinione di questo progetto che le attività di promozione, informazione e comunicazione passino per una migliore conoscenza del contesto che soltanto una puntuale ricerca sociologica può assicurare. L’obiettivo di questo progetto di ricerca è duplice. 1) In primo luogo si è inteso procedere ad una mappatura delle attività realizzate dai centri sociali esistenti sul territorio ed associati ad ANCeSCAO. La finalità di questa prima fase è stata quella di ottenere una descrizione puntuale delle differenti realtà associate, sottolineandone le peculiarità, le diverse modalità di lavoro, le logiche di coordinamento e gli eventuali spunti per l’innovazione delle attività dei centri. 2) In secondo luogo si è ritenuto opportuno definire alcune linee guida per lo sviluppo e il potenziamento della rete a cui i singoli centri afferiscono, nell’ottica di una maggiore integrazione di queste specifiche realtà associative nel contesto territoriale (istituzioni pubbliche, imprese ed aziende private, associazioni di volontariato, organizzazioni di terzo settore, mondo della cooperazione, etc.). Per corrispondere al duplice obiettivo che orienta questa ricerca, è stato necessario definire modalità specifiche per ogni fase del lavoro. 1) Abbiamo realizzato un’analisi in profondità delle organizzazioni considerate, allo scopo di considerarne i differenti profili organizzativi e le peculiarità contestuali che le caratterizzano. In conformità con questa esigenza, è stato individuato un insieme eterogeneo di centri che permettono di comprendere le differenti esperienze del modello ANCeSCAO. Questo insieme è stato monitorato con attenzione. Ciò ha permesso di individuare i punti di forza del sistema. 2) Per quanto riguarda la promozione di buone prassi legate alla propensione associativa e alla logica di collaborazione dei centri ANCeSCAO con le altre realtà territoriali, abbiamo proceduto a una indagine su queste ultime, concentrando l’attenzione sui soggetti di società civile e sulle amministrazioni pubbliche inclini a riconoscere il ruolo pro-sociale e attivo dei centri. In conformità con quanto sottolineato e con gli obiettivi della ricerca, la metodologia prevede una strumentazione plurale ed adeguata. Per realizzare la prima parte, orientata alla descrizione delle realtà associative e delle motivazioni alla loro base, abbiamo esaminato il materiale già esistente (bibliografia specialistica e riferimenti sitografici) e realizzato interviste in profondità e focus groups a testimoni privilegiati 2 (responsabili della rete ANCeSCAO). In secondo luogo, per reperire le informazioni necessarie per sottolineare le diverse attività realizzate dai centri e per definire alcune linee guida di sviluppo nel contesto di appartenenza, abbiamo interpellato i diversi attori sul territorio coinvolti a vario titolo come interlocutori dei centri stessi. Infine, naturalmente, siamo ricorsi all’osservazione sul campo delle differenti attività su un insieme ragionato di centri sociali afferenti alla rete ANCeSCAO. 2. La realtà oggetto dell’analisi: il disegno della ricerca I centri sono associazioni di promozione sociale (d’ora in poi, APS). I loro spazi sono normalmente concessi dal Comune (in regime comodato gratuito) e gestiti in sostanziale autonomia. Nell’ambito dei primi due incontri di consultazione con i responsabili della rete ANCeSCAO e i presidenti di alcuni dei centri sociali presenti sul territorio sono emerse alcune interessanti dimensioni descrittive delle realtà associative e delle loro attività. Tale descrizione (riportata di seguito con riferimento alle parole dei testimoni privilegiati, ossia dei diversi Presidenti e dei Referenti per i centri che a vario titolo hanno risposto alle domande di intervista) è stata utile per orientare la ricerca sul campo secondo le seguenti modalità: a) definizione di un quadro di variabili in base alle quali sviluppare una griglia di rilevazione delle informazioni utili per definire le logiche di azione e di promozione sociale attivate da ogni centro studiato; b) individuazione di un insieme rappresentativo di centri a cui richiedere la documentazione (materiale di II livello come: verbali; statuti delle associazioni; contratti; documentazione della macro-struttura ANCeSCAO; dati inerenti le dimensioni dei centri per numero di iscritti e tipologia di frequentazione, etc.) da esaminare per procedere nella descrizione della realtà associativa dei centri; c) individuazione di un insieme più ristretto di centri (20, distribuiti sul territorio di Bologna e Provincia) da analizzare in profondità, selezionati per significatività delle dimensioni, per collocazione territoriale e per natura delle attività svolte (informazioni tratte dalla fase b); d) realizzazione di interviste o colloqui con testimoni privilegiati esterni rispetto alla realtà dei centri (associazioni, sindacati, enti pubblici – tra cui un assessore provinciale e alcuni assessori comunali – organizzazioni di terzo settore, cooperative sociali, etc.) per determinare 3 se, come e secondo quale modalità di osservazione gli altri stakeholder del sistema di welfare locale si confrontano con i centri e con la rete che li coordina. Sulla base di quanto è emerso dall’analisi delle informazioni dei due incontri preliminari, la ricerca si è orientata sulle seguenti azioni: (1) Descrivere le attività dei centri e le loro problematiche (occhio interno); (2) Descrivere e spiegare le modalità e le ragioni alla base di una determinata opinione sui centri (occhio esterno); (3) Definire una matrice per l’osservazione dei centri e tracciare linee guida ed ipotesi per un loro sviluppo. In particolare, le attività del centro dipendono da alcune caratteristiche principali, ossia sono viste in funzione di una serie di elementi: A = f (a, b, c) Laddove: a) Dimensioni del centro b) Tessuto socio-economico e culturale nel quale il centro si inserisce c) Leadership specifica del centro Questa logica funzionalista è incompleta, poiché non coglie le modalità specifiche in base alle quali ogni centro attiva relazioni altrettanto specifiche nel progettare le proprie attività e nel rilanciare il proprio contributo nella definizione del tessuto organizzato della società civile di cui è parte attiva. La ricerca intende quindi mappare i centri attraverso una griglia di variabili di rilevazione delle logiche alla base delle attività che vengono incoraggiate o, viceversa, abbandonate. Da questa griglia abbiamo tratto le domande utili per la rilevazione delle informazioni sul campo tramite le interviste e i colloqui in situazione da realizzare presso i centri selezionati, oltre a determinare il livello di apertura/chiusura dei centri sociali verso il proprio interno e verso l’esterno/sociale, determinando dunque la capacità di auto-osservazione delle proprie attività, del 4 proprio posizionamento nei confronti degli altri stakeholder, della propria capacità di riflettere sulle logiche di adozione di uno specifico stile associativo e della propria identità culturale. Utilizzo categoriale (per soli anziani) Agire tradizionale Vs. Vs. Utilizzo universale (centro aperto a tutti) Agire progettuale (in quanto razionale rispetto al valore associativo) Prevalenza di legami bridging o linking Apertura (a problematiche sociali emergenti) Prevalenza di legami bonding Vs. Chiusura (rispetto alle problematiche esterne al Vs. territorio in cui il centro si sviluppa) Collocazione sul territorio urbano Vs. Collocazione su un territorio periferico o rurale Reticolarità minima, obbligata e difensiva Vs. Stile reticolare preferenziale e volontario Stile solipsistico e autoreferenziale Vs. Stile sussidiario, collaborativo, plurale Orientamento individualistico rispetto alle attività Vs. Orientamento associativo del centro nel promuovere da parte dei soci attività pro-sociali Utilizzo strumentale del centro per una sola attività Vs. Utilizzo plurale ed espressivo del centro per diverse di interesse attività in esso incluse come opportunità Immagine del centro come involucro che contiene Vs. Immagine del centro come effetto emergente delle attività attività che lo determinano come relazione sociale Autonomia formale dal sistema politico Vs. Autonomia sostanziale Dilettantismo (prevalenza di buon senso e buona Vs. Professionalità dei dirigenti (prevalenza di volontà nel guidare il centro) qualifiche tecniche istituzionalmente riconosciute) Leadership come legittimazione fondata sul carisma Vs. Leadership come legittimazione fondata sulle personale competenze Comunicazione intesa come circolazione di Vs. Comunicazione intesa come diffusione di un informazioni rilevanti per l’organizzazione messaggio comune condiviso culturalmente Variabili per l’individuazione delle semantiche che definiscono lo stile dell’attività dei centri. Verso quale pattern? 3. La dimensione interna ai centri: attività, struttura e identità In questo paragrafo tratteremo il tema della dimensione interna ai centri. Con tale dimensione intendiamo innanzitutto la descrizione delle tipologie prevalenti di attività che si svolgono nell’ambito delle associazioni prese in analisi e che costituiscono la “ragione vivente” delle associazioni stesse. Infatti, come emergerà dal paragrafo 3.1., è proprio per rispondere al bisogno associativo di persone che condividevano la volontà di svolgere insieme determinate attività (prettamente ludiche, enogastronomiche ed orientate a consolidare il criterio guida della socievolezza) che i centri si sono sviluppati e consolidati sul territorio. Da questa prima evidenza empirica deriva anche la riflessione in base alla quale le attività dei centri definiscono la ragione pratica su cui si fonda l’attività di promozione sociale statutariamente accordata ai centri stessi, oltre ovviamente alla struttura che le singole organizzazioni realizzano in base ai vincoli ed alle abilitazioni presenti nelle concrete dimensioni territoriali. La struttura dei centri è dunque variabile dipendente delle attività che li costituiscono e delle dimensioni economiche, demografiche, territoriali, politiche e culturali che caratterizzano le diverse articolazioni del territorio considerato. 5 Il carattere multidimensionale e mutevole del contesto di analisi è successivamente alla base della progettazione di nuove attività, che contribuiscono alla definizione di scenari di sviluppo variabili rispetto alla natura associativa e promozionale di ogni centro. 3.1. Nascita e attività dei centri: il primato della socievolezza Come emerge dalle interviste, la stragrande maggioranza dei centri si forma per iniziativa spontanea di gruppi di anziani la cui necessità prioritaria sta nello stare insieme in forma organizzata. La ragione di base dei centri e della loro identità iniziale è riconducibile all’inesistenza di organizzazioni simili sul territorio, soprattutto per quanto riguarda i centri di provincia. La variabile centro/periferia assume in questo senso un ruolo essenziale. Prendiamo innanzitutto i centri più periferici. In alcuni casi, i centri sono nati in seguito a un finanziamento di origine mista (mix pubblico-privato; in cui comunque l’apporto dell’ente pubblico si rivela decisivo per l’avvio delle attività) su pressione di comitati cittadini di anziani. Così si esprime il direttore di un centro sorto in un paese vicino a Bologna: Allora, questo centro... è nato dalla richiesta dei cittadini, mi è stato detto eh, perché da interviste fatte dal Comune c'era la richiesta di un posto dove ritrovarsi per le persone già avanti, di una certa età, diciamo così, qui […] i giovani vanno a Bologna, le persone anche che lavorano, vengono a casa, famoso discorso del paese dormitorio, ecc. È stata fatta questa richiesta, il comune ha venduto la farmacia, mi sembra, comunale, e con i soldi della farmacia e altri soldi chiaramente, ha fatto questa struttura. Abbiamo cominciato a lavorare sei anni fa, cominciato a provare un po’, ogni tanto si ballava […] il bar ha sempre funzionato prima, adesso, vedete, è deserto praticamente, ma d'inverno è tutto pieno, abbiamo sempre, tra mezzogiorno, tra la mattina e il pomeriggio, un centinaio di persone mattina, centinaio pomeriggio. Però ci sono persone che vengono la mattina, si prendono un caffè, giocano a carte […] quindi col caffè stanno insieme agli amici, giocano a carte, fanno qualche cosa, per tutta la mattinata, al costo di un euro, chiaro che […] al costo di un caffè […] negli altri bar sono cose che non possono fare. Per i centri più periferici, la costruzione di una struttura organizzata per trascorrere la vita quotidiana non assume soltanto la valenza ludica e difensiva nei confronti dei prezzi di mercato (che resta determinante) ma rappresenta anche la costituzione di una identità permanente del civismo cittadino; il perno di ogni attività culturale organizzata, di ogni iniziativa civica per la raccolta di fondi, di ogni festa paesana e di qualsiasi iniziativa che necessiti della risonanza necessaria per coinvolgere la popolazione matura in logiche associative non orientate al puro passatempo individuale. La dimensione della memoria civica, per esempio, diventa determinante non soltanto nel ri-affermare periodicamente i valori della Resistenza ma anche e soprattutto per 6 sottolineare il carattere di testimonianza vivente che i centri di questo tipo rappresentano al di là della speranza di vita e delle condizioni di salute individuali dei singoli frequentatori. In altre parole, il centro è l’edificazione di una memoria storica che comprende anche le ragioni della sua costruzione. Si tratta di una dimensione locale della memoria, la cui importanza riguarda soprattutto il consolidamento del legame (bond) associativo tra coloro i quali sono già partecipanti stabilmente delle attività del centro. Stabilita tale identità collettiva, la dimensione ludica si esercita proprio nell’idea del training individuale e della conservazione delle abilità individuali e della lucidità. Circa 40 anni fa anche gli anziani venivano da un percorso, diciamo, semicontadino, perché poi l'inurbamento, quindi la cultura anche dell'aggregazione era differente […] Ci siamo detti: fate il possibile perché la gente venga fuori di casa, anche solo a giocare alle carte […] perché il gioco delle carte fa lavorare il cervello, tira via la gente di casa, che non rimane lì sola, quindi sta in compagnia. Quindi la funzione, si potrebbe dire, è sociale.. La semantica del sociale che emerge dai colloqui e dall’osservazione diretta delle realtà considerate si caratterizzata come segue. (1) Innanzitutto è una semantica prevalentemente ludica, in quanto ad essere più rappresentative dei centri sono le attività finalizzate all’intrattenimento, al gioco e alla cucina intesa come pratica conviviale tra gli associati. Nelle associazioni di maggiori dimensioni e in quelle che si sovrappongono largamente all’immagine di un quartiere, i pranzi sociali e il turismo sono anche le principali fonti di finanziamento (insieme con il bar). Non mancano tuttavia significative attività rivolte al contesto sociale di riferimento, come laboratori linguistici per donne immigrate; laboratori informatici e di lettura, corsi di teatro, circoli letterari e allestimento di mostre fotografiche e di pittura. Si tratta tuttavia di esempi non rappresentativi della struttura “normale” di un centro, poiché le aspettative degli associati si riflettono innanzitutto nelle attività prioritariamente ludiche. Inoltre, la difficoltà organizzativa alla base di attività non sempre richieste rende la diffusione delle attività stesse frammentaria e spesso legata alla buona volontà e alla sensibilità culturale dei leader formali o informali dei centri che le adottano. Questo emerge chiaramente dalle testimonianze di alcune referenti dei centri per progetti specifici: Loro [i frequentatori dei centri, NdR] leggono, chiacchierano, e stanno qua tranquillamente. Poi abbiamo provato, perché chiaramente il centro solo col bar non lavora, perché i prezzi sono abbastanza economici. […] Abbiamo provato ad avviare dei corsi, corsi di ginnastica, quindi siamo partiti con lo yoga, con un corso di ballo, inizialmente per un'ora. 7 Adesso i corsi di ballo sono diventati di 6 ore nella settimana, e poi dopo il ballo è piaciuto, poi chiaramente, col fatto che c'è questa scuola, gli allievi, diciamo così, vengono volentieri a ballare, per cui da subito, praticamente, si è partiti col ballo tutti i sabati sera. Poi di altre cose, di altre attività, abbiamo fatto... mi viene in mente così, un corso per sommelier, perché mi piaceva l'idea. Abbiamo fatto degli incontri di lettura. Ecco, quello è andato progressivamente […] si è chiuso il discorso degli incontri di lettura. Mi sarebbe piaciuto provare a fare il tango argentino, perché ci son già persone diverse, anche come età. Poi dopo […] proprio perché mi sto rendendo conto che l'età del centro si sta alzando, l'età dei frequentatori del centro. E anche per cercare di avvicinare dei possibili volontari, perché anche come volontari stiamo calando. Stiamo calando di numero. Allora, io ho iniziato questa scuola di inglese fra gli insegnanti di questa scuola per stranieri, e diciamo da un anno soprattutto a questa parte, abbiamo una collaborazione più fattiva con l'ufficio stranieri della CGIL, che ci fornisce anche il materiale didattico […] un contributo per le spese di gestione, e in questa scuola noi ospitiamo soprattutto, anzi direi quasi esclusivamente immigrati, alcuni lavorano, alcuni non lavorano, però l'idea appunto è quella di aiutare queste persone non solo a fare un primo intervento di pronto soccorso linguistico, che comunque è importante, ma anche di dare la possibilità anche di far conoscere un po' più della cultura cittadina italiana. […] E direi che questa collaborazione, dal mio punto di vista, potrà continuare ancora negli anni futuri, salvo poi problemi di ristrutturazione che avremo nel prossimo anno, perché lo stabile verrà ristrutturato, quindi abbiamo minor spazio da dedicare ad alcune attività, vediamo se in qualche modo riusciamo a salvarne qualcuna, a me piacerebbe che questa potesse avere una continuità, ecco, nel tempo... Noi faremo anche il catering per la summer school, l'abbiamo fatta l'anno scorso, quest'anno la faremo solo per il Cinema Ritrovato, se ci fosse stato... hanno soppresso alcuni festival quest'anno, per motivi di budget, ma anche quelli, per esempio il festival di Slow Food, finché c'è stato, erano ospitati qui. Con Slow Food abbiamo fatto una serie di lezioni di cucina, gestita da loro, ma nei nostri locali, e quest'anno ne abbiamo fatte mi pare almeno un otto, dieci, adesso non ricordo il numero esatto. Tra l'altro sempre con Slow Food l'anno scorso un sabato mattina in cui il mercato della terra non era possibile farlo all'interno del cortile della cineteca perché c'era il film, e anche quest'anno ci hanno richiesto questa cosa, di farlo qui. (2) In secondo luogo, è una semantica anti-mercantile, in quanto risente del distacco e di una sorta di resistenza ideologica agli indicatori che – nella prospettiva decisamente anti-liberista dei frequentatori dei centri – rischiano di trasformare le associazioni di promozione sociale in semplici circoli o in imprese di servizi. Tali indicatori sono di vario tipo e vanno dall’apertura della partita IVA alla concessione dei locali in affitto per attività richieste da persone non iscritte ai centri (come compleanni o cene aziendali). La necessità materiale di favorire talvolta l’insorgere di logiche di mercato interne ai centri (attualmente, la percentuale di centri che hanno partita IVA è compresa tra 40% e 50%) non fa che rafforzare la distanza simbolica dalla cultura mercantile, che viene 8 esorcizzata come deriva capitalista rendendo manifeste le resistenze degli intervistati nel procedere verso ulteriori “concessioni” al vil denaro. La gestione di un bar e di un ristorante non è più come un tempo dove anch'io mi mettevo il grembiulino e facevo il caffè. Bisogna avere fatto un corso, bisogna avere il libretto, bisogna avere tutta una serie di adempimenti e sapere anche di che cosa si parla. (3) In terzo luogo, è una semantica prettamente “civica” in quanto interpreta l’azione e la valenza sociale dei centri come partecipazione degli anziani al dibattito pubblico. I centri si auto-osservano come realtà associative che rappresentano un tassello fondamentale nella vita quotidiana di destinatari (prettamente anziani) che – diversamente – non avrebbero un luogo dove riunirsi e incontrarsi. In alcuni casi, la cultura civica del centro si sovrappone alla cultura politica dei fondatori o degli attuali direttori di riferimento. In questo senso, laddove si tende a proclamare una decisa autonomia dell’organizzazione dal mercato si osserva la contemporanea tendenza ad allineare la propria ideologia guida con quella della sinistra organizzata (con particolare riferimento al PCI bolognese dell’epoca Zangheri e Imbeni). Rispetto ai centri più periferici, nelle associazioni di città prevalgono comunque logiche “locali” che indicano alcune delle dimensioni più interessanti di radicamento del legame sociale nel territorio del quartiere. Complessivamente, si può notare come la dimensione ludica sia sempre prevalente. Al contempo, si registra una maggiore conflittualità sull’attribuzione delle competenze e sulla possibilità di partecipare ad iniziative di più ampio respiro con altre associazioni (soprattutto nei centri di dimensioni più consistenti). Inoltre, emerge anche una maggiore conflittualità col direttivo e con le altre associazioni (soprattutto se imputate dell’accusa di eccessiva vicinanza al mercato). La crisi c'è, ma la prospettiva sarebbe quella di recuperare lo strumento che è stata l'autogestione, quindi la sensibilità delle persone a mettersi in campo e responsabilizzarsi, perché questa qui è senz'altro la forma vincente migliore. Lo è stato nel passato, non è detto che adesso, se io vado alla ricerca appunto di una forma di gestione sociale diversa, non è per negare quell'altra, o sostituirla, però […] il lavoro che ho fatto, porta in evidenza che le debolezze sono tante, per cui c'è il pericolo d'implosione […] perché ancora questi luoghi danno l'opportunità di non ghettizzarsi all'interno di un bar, e quant'altro. Però per fare questo hanno bisogno di gente che si senta motivata, stimolata, e che quindi sviluppi degli interessi anche per il centro […] Se noi prima […] avevamo venti tavoli che giocavano a carte, oggi ne abbiamo quattro o cinque. È un indicatore. Le attività dei centri sono quindi essenzialmente orientate a consolidare la coesione sociale interna alle singole associazioni (corsi e laboratori di teatro; gruppi di lettura e gestione della 9 biblioteca; ginnastica della mente1; cene e pranzi sociali; gioco delle carte). A tali attività si associano quelle finalizzate al riconoscimento di esigenze sociali specifiche (come i laboratori linguistici per l’inclusione sociale delle donne immigrate comunitarie ed extracomunitarie) e quelle orientate all’autofinanziamento (bar e pranzi sociali). Alcuni referenti (normalmente provenienti da centri situati in periferia) espongono le diverse attività, sottolineandone la natura ispirata da criteri universalistici, progettuali e aperti nei confronti delle più scottanti sfide sociali (come per esempio l’immigrazione). Il contenuto e il tipo di attività non dipendono soltanto dalle risorse disponibili ma anche dalla dimensione normativa dei centri ed anche da quella culturale che ne orienta lo stile specifico. Vedremo queste dimensioni nei prossimi paragrafi. 3.2. La dimensione normativa: tra autonomia formale e dipendenza sostanziale da altre sfere Alcuni referenti sostengono la necessità di ripensare la dimensione associativa, uscendo dalla logica di isolamento dei centri e dalla loro rappresentazione di meri luoghi di svago e di aggregazione per anziani. Ovviamente, tale immagine è quella da contrastare mediante un’attività promozionale, la cui finalità dovrebbe essere quella di rappresentare invece il potenziale generativo di legame sociale mediante le attività che i centri realizzano. La fuoriuscita dall’orizzonte strettamente residuale dei centri è però condizionata anche dalle modalità che gli altri attori adottano per osservare queste realtà associative. Il sistema pubblico-istituzionale e parte delle altre realtà di società civile continuano a vedere nei centri l’espressione di una forma realizzata di privatismo associativo o di mutualismo, evitando di riconoscerne il potenziale generativo in termini sociali, con particolare riferimento alla creazione del bene comune mediante azioni solidali sul territorio. Una simile rappresentazione potrebbe essere arginata dallo sviluppo di partnership e collaborazioni con altri soggetti del mondo associativo (come ARCI, ad esempio) oppure con soggetti del territorio appartenenti alla pubblica amministrazione (come i quartieri o le biblioteche). Tali ipotesi collaborative sono tuttavia difficili da realizzare, per ragioni che vengono ipotizzate e approfondite nell’ambito degli stessi incontri di consultazione. Per alcuni, tali resistenze sono motivate dall’ambiguità riconosciuta da alcuni attori nei confronti della dimensione politica delle organizzazioni oggetto di analisi. Ad una apartiticità formale corrisponde un orientamento politico 1 Ci pare opportuno sottolineare che ad uno dei presidenti contattati per i primi incontri di consultazione non piace utilizzare il concetto di memoria, anche se questo è sintomo di una semantica categoriale della memoria stessa, ritenuta un attributo individuale degli anziani e che gli anziani tendono a perdere se affetti da forme di patologia degenerativa come la demenza o l’Alzheimer. Emerge l’idea di memoria collettiva, ma nella misura in cui la dimensione della memoria è richiamata nell’ambito dell’attività dei centri, diviene prioritario un atteggiamento difensivo nei termini della sua versione più individualistica e biologica e più propositivo rispetto a quella civico-politica. 10 sostanziale che alcuni attori del territorio sostengono dovrebbe essere chiarito. In aggiunta, i centri continuano ad essere percepiti come serbatoio di voti ai quali il principale partito di riferimento può rivolgersi in corrispondenza delle differenti campagne elettorali. Chiaramente l’aderenza a una precisa ideologia politica è un condizionamento culturale che occorre considerare, e che non è buono o cattivo in linea di principio. Per esempio, orienta la nascita e lo sviluppo dei centri mediante la propria influenza nel definire il legame sociale alla base della creazione dei centri aggregativi in base alla comune appartenenza ideologica. Così confermano le testimonianze di alcuni presidenti di centri della città: Nel crescere, e nel nascere [i centri, NdR] sono venuti sull'onda, diciamo, non dico da condizionamenti, però da collegamenti con i partiti di massa: il PCI, la DC. C'è questa storia, appunto, di gente che ha acquisito delle sensibilità e le ha riversate in un momento in cui c'è stata una domanda negli anni '80, di questi luoghi, che quindi l'amministrazione comunale ha avuto l'intelligenza, dico io, di saper cogliere l'esigenza, e a fronte già di una realtà associativa, che erano appunto quelli delle ARCI […] Le parrocchie, sì, le parrocchie, quindi ho fatto riferimento prima alle ARCI, che venivano dalla.[…] erano la casa del popolo, fondate dal PCI. La provenienza era di sinistra, della sinistra organizzata, che quindi prima […] è venuta fuori negli anni '80 questa domanda, quindi, come dicevo prima, giustamente le amministrazioni comunali hanno dato ascolto, c'è stata anche la promozione dei sindacati, perché hanno spinto anche loro […] Naturalmente, al tema della comune appartenenza-provenienza politica (ed anche alla precedente esperienza di alcuni dirigenti divenuti poi presidenti di centri) rispetto a partiti e sindacati si associano le sfide dell’effettiva autonomia culturale, normativa, gestionale ed operativa dei centri nei confronti del sistema politico locale, degli enti locali e della pubblica amministrazione. Uno dei temi più scottanti è certamente quello della relazione tra i Comuni e i centri che sorgono normalmente in locali offerti in comodato d’uso gratuito dai Comuni stessi. Questo elemento è certamente utile per i centri, poiché permette loro di abbattere costi fissi legati all’affitto o alla gestione dei locali. Tuttavia, ciò colloca i centri in una posizione asimmetrica rispetto agli enti locali, configurando un rapporto di potere pesantemente sbilanciato in favore di questi ultimi che – di conseguenza – non sono automaticamente propensi a considerare i centri come associazioni sociali autonome ma come camere di compensazione di attività di importanza variabile. In altre parole, i centri considerano i Comuni come centri di potere benevoli ma paternalistici, mentre i 11 Comuni ritengono i centri come comitati decentrati di azione pubblica. Nel territorio di riferimento, questo reciproco scetticismo è mitigato dalla comune appartenenza ideologica. Sì. E questo appunto, nell'84, è stato l'unico luogo di aggregazione sociale, perché il comune ha reso disponibili questi spazi, però fin quando non c'è stato nel 2000 l'investimento che ha ristrutturato il territorio, qui non c'era nessuno, ecco, c'eravamo noi con una serie di problemi enormi sulla sicurezza e sul disagio sociale, che quindi ce li abbiamo di tutti i colori, ecco. Alcuni centri, grazie soprattutto alla capacità organizzativa dei loro leader, hanno riflettuto sulla questione e tendono ad imputare questa paradossale coesistenza di autonomia formale e dipendenza sostanziale dei centri rispetto al sistema pubblico alla scarsa capacità del direttivo di ANCeSCAO di interpretare e diffondere una cultura autonoma dei centri come associazioni di promozione sociale specifiche. Nella prospettiva dei centri più critici, il direttivo tende a privilegiare la trasparenza e l’autonomia delle associazioni soltanto nei confronti del mercato for profit, mentre mostra una maggiore accondiscendenza nei confronti del sistema politico e di quello dei partiti, penalizzando questioni cruciali come il coordinamento tra le attività propriamente sociali e la diffusione delle informazioni tra i diversi centri. Alcuni direttori e volontari di associazioni situate nel centro storico e nella prima periferia bolognese si esprimono in questi termini specifici: Detto questo, non è tutto rose e fiori, nel senso che […] appunto, resistenza all'interno del centro e […] devo dire che l’ANCeSCAO aiuta zero, per qualunque tipo di cosa. Noi […] abbiamo cercato di coinvolgere l'ANCeSCAO anche perché sono direttamente coinvolti loro […] nel senso che noi avevamo definito col Comune che non avremmo pagato le spese ordinarie […] Sì, io ho iniziato col centro stranieri della CGIL a fare lezioni di italiano per gli immigrati nel 2008, e appunto grazie a quello poi sono venuto in contatto col centro, perché prima anche io non lo conoscevo, devo ammettere, fino a due anni fa […] anche questo dà un'idea della scarsa comunicazione che fornisce ANCeSCAO anche in città sui centri sociali, e ho scoperto che sono appunto 107 nella provincia, cosa che per me era inimmaginabile fino a pochi anni fa. Abbiamo organizzato quattro serate di spettacoli di beneficenza […] poi abbiamo dato anche qualche soldino a Unicef per Haiti, e hanno [il direttivo di ANCeSCAO, NdR] trovato da dire perché noi abbiamo fatto delle attività che non fossero a favore dei soci. Allora, a noi vengono a dir questo quando, ripeto, io non sto prendendo ad esempio altri centri perché li critico, perché secondo me fanno benissimo, ma in altri centri fanno la festa dell'unità, i pranzi per chiunque glieli chieda e fanno bene! Il direttivo potrebbe creare le condizioni per potenziare la diffusione delle informazioni sul radicamento delle associazioni sul territorio e creando opportunità per favorire l’integrazione tra le 12 sfere della società civile coinvolte e i singoli individui interessati a conoscere i centri e a collaborare con essi. In questo modo, il direttivo, dimostrerebbe di comportarsi in maniera realmente sussidiaria. Uno dei problemi più scottanti rimane quello del ricambio generazionale e del coinvolgimento dei volontari (motivato ovviamente non soltanto dalla chiusura autoreferenziale delle attività ma anche da una inadeguata cultura dell’autonomia dal mercato, dalla società civile organizzata e dal sistema politico-istituzionale). Ad alcuni è stato proposto e poi han detto "beh, sì, perché no". Quest'anno, per esempio, di volontari, son stati due, una coppia, marito e moglie che son venuti al bar e poi dopo si sono ripresentati in cucina, ecc. Gli altri han provato il bar e poi non è piaciuto, non si sono riavvicinati per vedere se c'erano altre opportunità, altri posti dove potersi collocare. Non si son più visti. Probabilmente sbagliamo anche noi l'approccio, non lo so, però... Mah, probabilmente è una questione di mentalità, perché io […] sono entrata a far parte del comitato di gestione e avevo poco tempo, venivo alle riunioni e facevo il bar il sabato […] la domenica mattina, perché avevo solo quell'orario lì. Ma adesso vedo quelli che vanno in pensione che dicono "mah adesso mi godo un po' la pensione, poi vedo […] se ho voglia di fare, ecc." Per me è una mentalità. […] Io avevo voglia di fare qualche cosa per gli altri e. […] infatti quando finirò il mio mandato […] ad ottobre, farò qualche cosa di altro, di volontariato. [Con riferimento alle persone che lavorano al bar di un’associazione situata a Bologna, nel centro storico, NdR] non sono volontari a titolo gratuito […] ho fatto un esempio estremo, però ormai funziona così dappertutto. Io tra l'altro faccio parte anche di Amnesty International di Bologna, e tempo fa c'è stata una polemica, perché la segretaria internazionale uscente si è beccata qualcosa come una buonuscita mi pare 300.000 euro, una cosa del genere. […] Il mio discorso è che appunto il volontariato puro come lo intendiamo noi ormai si sta esaurendo, se non per qualche organizzazione cattolica forse, poi non so neanche lì se esista ancora il volontariato puro […] L’analisi condotta sulla dimensione normativa dei centri permette di isolare almeno tre punti essenziali per proseguire l’indagine e rilanciare il potenziale generativo delle realtà considerate. (1) Uno dei punti dirimenti rispetto alla dimensione normativa dei centri riguarda la variabile legata all’estensione dell’utilizzo dei centri a categorie di persone che non siano necessariamente anziane. La ricomposizione di questa coppia di variabili è quindi all’origine della capacità di ogni associazione di favorire un ricambio interno e una continuità dell’impegno dei volontari. Naturalmente, la chiusura autoreferenziale delle attività e la criminalizzazione del mercato non consentono ai centri di restituire all’esterno un’immagine coerente e moderna con il concetto di autonomia operativa dal politico, soprattutto se permane il fraintendimento in base al quale la nozione di civismo e l’attributo di “civico” si sovrappongono con l’idea di “partitico”. 13 (2) Un secondo punto (correlato con il precedente) riguarda la variabile che orienta lo spirito delle attività del centro: alcuni propendono per un utilizzo tradizionale dei centri (svolgere le attività gestionali e routinarie) mentre altri tendono ad aprirsi a progetti innovativi come partner di altre realtà di terzo settore e con soggetti della pubblica amministrazione. (3) Un terzo punto (che può rappresentare l’estensione del precedente, in quanto ne configura l’orientamento epistemologico di base) riguarda la variabile di apertura/chiusura del centro non soltanto rispetto alle attività da svolgere, ma anche e soprattutto nei confronti dell’ambiente sociale complessivo. Si suppone che un orientamento all’agire progettuale sia la conseguenza di una riflessione sulle condizioni di possibilità e sulle modalità di apertura dei confini (fisici e culturali) del centro alle principali logiche di trasformazione del contesto sociale in cui essi sorgono. Ovviamente, per favorire il ricambio e per rilanciare l’attività dei centri sul territorio occorre investire non solo nella dimensione comunicativa e organizzativa delle singole associazioni e soprattutto nella cultura che orienta lo spirito in base al quale le attività vengono promosse. Perché si affermi un’immagine più coerente con il potenziale generativo che i centri potrebbero catalizzare, la cultura associativa non può soltanto consolidare il legame sociale interno in base al criterio della socievolezza tra gli associati. Ciò porterebbe a giustificare implicitamente una governance prettamente difensiva, una chiusura operativa delle attività e dei confini, una sostanziale dipendenza dal territorio e dall’ente locale, una leadership fondata sulle caratteristiche individuali o sulla retorica della partecipazione politica alla creazione di un’agenda di attività standard. La cultura associativa che favorirebbe il coinvolgimento dei centri nell’arena pubblica della rigenerazione del welfare locale implica invece la capacitazione (Nussbaum 2000; trad. it. 2001) delle realtà analizzate come risultato di un principio di regolazione sussidiaria (Donati e Colozzi 2005) delle risorse e delle attività, oltre ovviamente a una più incisiva immagine dell’appartenenza dei centri alla sfera del civile (Donati e Colozzi 2001; Bruni e Zamagni 2004). Vedremo questi aspetti nel prossimo sottoparagrafo. 3.3. La dimensione culturale: il problema dell’identità e della sua rappresentazione all’esterno In questo sottoparagrafo viene presa in considerazione l’analisi della dimensione culturale dei centri, intesa in un duplice senso. 14 (1) In primo luogo, consideriamo i valori costitutivi dell’identità delle associazioni. (2) In secondo luogo, vengono richiamate anche le rappresentazioni che i centri danno di loro stessi sulla base di una specifica identità condivisa. Ovviamente, questa seconda dimensione ha una portata simbolica la cui definizione sociale dipende anche dal modo in cui le realtà che costituiscono il contesto di riferimento osservano a loro volta i centri stessi (tale argomento specifico sarà oggetto dell’intero paragrafo (3). In questo senso, anche la dimensione culturale dei centri ha un carattere propriamente riflessivo, poiché risulta da un continuo aggiustamento tra la dimensione interno-interno (come i centri si osservano); la dimensione interno-esterno (come i centri osservano la realtà circostante) e la dimensione esterno-interno (come la realtà circostante osserva i centri). Lo stesso si può dire della dimensione normativa che – come abbiamo visto nel sottoparagrafo precedente – risulta dalla relazione tra le variabili apertura/chiusura nei confronti della realtà circostante. […] E poi appunto le rivendicazioni sindacali, le lotte fra sindacato e cooperazione, due percorsi […] con delle conflittualità incredibili, che adesso certamente la conflittualità fra datore di lavoro e lavoratore ci deve essere, perché altrimenti è tutto appiattito e quant'altro, tu lo potrai gestire attraverso la concertazione, per minimizzarla, se la direzione politica accoglie il filone […] Poi certamente non potrai mai azzerare tutto quanto, anche perché sarebbe comunque un danno, perché tu non puoi appiattire […] tutto[…] tutto uguale […] per cui un minimo di conflittualità è anche segno di democrazia. (1) Dal punto di vista dei valori costitutivi, l’identità dei centri risulta da una cultura di base prettamente riconducibile alla partecipazione alla Resistenza (da cui il valore della memoria civica alla base di diverse attività interne) e alle lotte sindacali e operaie ed alla costituzione di luoghi associativi come le Case del Popolo. Il valore della partecipazione ha come condizione di base una solida fiducia nei confronti della democrazia procedurale (soprattutto con riferimento all’uguaglianza formale tra gli individui e alla collegialità delle decisioni; criteri in base ai quali viene definito il funzionamento dei comitati di gestione). Alla democrazia procedurale sul piano politico corrisponde una cultura della responsabilità sociale improntata ai criteri del civismo e del rispetto delle regole del dialogo democratico tra gli attori del territorio. Su queste basi, la cultura dell’incontro tra le parti sociali non può che essere ancora definita in termini di concertazione (retaggio della cultura sindacale condivisa da alcuni leader formali e informali dei centri) 15 richiamata soprattutto per dirimere questioni interne e prettamente strumentali (affittare o meno i locali, pagare o meno i baristi, valutare la corrispondenza di ogni attività alla dimensione statutaria delle APS e ai vincoli imposti dalla burocrazia). L’idea di inclusione sociale di specifiche categorie (come gli immigrati) viene contemplata su base individualistica (le donne, i minori, gli islamici, i cinesi) in maniera conforme con la logica liberal-democratica di riconoscimento dei bisogni individuali in un’ottica di rafforzamento delle pari opportunità (Rawls 1996; trad. it. 1999; Sen 2011). La dimensione dei valori di riferimento (religiosi, educativi, familiari, etc.) di ogni singola categoria viene considerata prettamente privata. La sola appartenenza simbolica e culturale a cui viene riconosciuta una valenza propriamente pubblica è l’appartenenza politica, ancora concepita come distinzione moderna destra/sinistra e come ulteriore ri-distinzione interna alla definizione di sinistra (socialdemocrazia o comunismo?). (2) Dal punto di vista delle rappresentazioni (soggettive, eppure condivise) che i centri si assegnano, emerge con chiarezza come la cultura di riferimento delle associazioni sia improntata a un’idea di laicità che considera come privatismo qualsiasi riferimento etico al di fuori della sfera politica. Questo elemento costituisce un limite per l’elaborazione simbolica che dovrebbe orientare le attività dei centri e i percorsi di elaborazione di partnership con soggetti pubblici o di privato sociale. Lo scetticismo che alimenta parte dei comitati di gestione dei centri nei confronti delle realtà del territorio (accusate di essere eccessivamente istituzionali o “bianche”) male si associa con l’idea di autonomia culturale e operativa dei centri stessi. Questi ultimi rimangono imbrigliati tra una autonomia formale dalle strutture politico-partitiche ma – al contempo – ne risultano sostanzialmente influenzati, in quanto incapaci di dotarsi di una cultura operativa differente (spesso tacciata di trasformismo o di qualunquismo). Da tali riflessioni deriva che una comunicazione promozionale delle attività interne ai centri non dovrebbe puntare soltanto sulla diversificazione delle attività in essi presente, ma anche e soprattutto sulle modalità per conferire un senso associativo (ossia meta-individualistico e non puramente aggregativo) all’organizzazione dei centri. Questo problema specifico richiama lo snodo cruciale dell’immagine che i centri offrono di loro stessi all’esterno, soprattutto con riferimento alle reali capacità di trasmettere un potenziale innovativo e generativo di tessuto sociale. Evidentemente, tali capacità hanno come conditio sine qua non l’abilità di rappresentare un’autonomia culturale e un’effervescenza progettuale che di fatto mancano a gran parte delle realtà considerate. 16 Esplicitati questi elementi, risulta probabilmente più chiara la valenza di rifugio (chiusura operativa ed avversione al rischio) che il criterio della socievolezza rappresenta in quanto principio cardine della cultura organizzativa dei centri. La chiusura diventa quindi un habitus a cui possono corrispondere eventualmente iniziative interessanti: non necessariamente la chiusura culturale si traduce in penuria di attività! Semplicemente il legame tra le due dimensioni diventa casuale e non necessario. Ciò che non si riesce a scalfire è il tendenziale scetticismo nei confronti di una realtà sociale in evoluzione. Se nell’ambito di tale evoluzione si considerano i tratti specifici della morfogenesi culturale (Archer 1995; trad. it. 1997) che rimette in discussione il carattere dicotomico delle categorie moderne su cui i centri continuano a basarsi (pubblico/privato; destra/sinistra; Stato/Mercato; profit/non profit) si può comprendere perché la vita interna ai centri continui ad assomigliare ad “un Paese per vecchi”. Come è possibile che il contesto vivente (il campo, si potrebbe dire con Bourdieu) dei centri esca dalla grammatica della socievolezza? Occorre un mutamento di prospettiva veicolato da una logica capace di distinguere e promuovere (Bourdieu 1979; trad. it. 1983; Donati 1991) la ricchezza associativa dei centri stessi. Questo aspetto sarà la cartina di tornasole del prossimo paragrafo. 4. Oltre la grammatica della socievolezza. Riflettere sull’apertura verso l’esterno/sociale Per uscire dalla grammatica della socievolezza, che è conseguenza della priorità assegnata alle sole attività interne, occorre perfezionare l’osservazione per ragionare sui problemi che impediscono ai centri di operare in modo autonomo e progettuale. La priorità della dimensione interna è a sua volta conseguenza di una logica difensiva nei confronti del contesto, che retroagisce sulle distorsioni della rappresentazione sociale dei centri stessi (è un centro per anziani, è un centro di partito, è un bar, e così via). Perfezionare l’osservazione significa orientare la ricerca verso due dimensioni di analisi distinte e interrelate: (1) come i centri ipotizzano di essere visti e (dis)conosciuti all’esterno; (2) come gli attori del territorio li osservano effettivamente. Questo sarà lo scopo dei prossimi due sottoparagrafi. 17 4.1. “Ma è un centro per anziani!”: come i centri pensano di essere visti dall’esterno Nel processo di reciproco riconoscimento tra soggetti (ego e alter, centri sociali e stakeholder) il tema fondamentale è quello delle identità e di come queste sono interpretate. Abbiamo già visto nei paragrafi scorsi le caratteristiche della cultura propria dei centri, in questo paragrafo cerchiamo di capire come questa cultura è interpretata alla luce del proprio ambiente esterno. La prima e più semplice constatazione è che i centri percepiscono di essere visti come luoghi destinati esclusivamente ad anziani, e come tali inaccessibili ad altre fasce di età. Ecco come alcuni referenti dei centri stessi dichiarano di essere rappresentati dai loro interlocutori: Io ho un cugino, che ha […] non ha ancora 60 anni, dice: “ah, io non mi posso mica iscrivere” – un mio cugino, eh – “al centro, perché non ho ancora 60 anni”. Io gli dico: “Ma guarda che non importa, se tu anche ne avessi 40 ti potresti iscrivere benissimo”. E lui: “Ma non è un centro anziani?!” ..si parla sempre poco del centro sociale in quanto punto di aggregazione globale, non... mentre invece è lasciato alla credenza popolare che il centro sociale sia solo per vecchi e basta. Invece qui noi siamo a disposizione... Noi qui abbiamo fatto concerti di tutti i tipi, dal clavicembalo, all'arpa, al jazz, alla lirica, al rock, ecc. ecc. ecc. Ma con dei fior di musicisti fra l'altro, qualitativamente abbiamo aperto una strada mica indifferente qui in paese. E quindi saremmo disponibilissimi ad accettare consigli su queste cose tranquillamente, perché voglio dire, se la qualità è buona e se il prodotto è buono, è sempre un piacere presentarlo. Siamo proprio a metà del guado, cioè cercare il nuovo ma senza abbandonare il vecchio. Deve essere un processo progressivo, anche lento, però va fatto. Sì, è difficile perché comunque la percezione che hanno i ragazzi, per esempio del DAMS, che girano qua, spesso sento i discorsi: “ah, ma tanto questo è un centro per anziani”… come dire: è una casa protetta, una casa di riposo, per cui hanno ancora molti questa percezione qui! […] Lo stereotipo è quello, il centro anziani! Poi vedono ovviamente persone di età avanzata e quindi l'idea è quella insomma, che si fanno determinate cose però rivolte solo a un certo pubblico. Noi però […] abbiamo diverse serate con teatro anche d'avanguardia, con musica blues, jazz, di cantautori ecc., che sono rivolte un po' a tutti, quindi […] Esiste quindi un forte pregiudizio nei confronti di realtà che hanno un carattere sociale e generale, come i centri ANCeSCAO, che vengono percepiti unicamente come centri per anziani e non come centri sociali. I centri reagiscono a questa etero-caratterizzazione mostrando, dati alla mano, che le attività tradizionali superano il target anziani: concerti, musica dal vivo, attività ludiche. Anche questo sforzo, se non entra nel processo di riconoscimento tra ego e alter, ha pochissimi risultati. Ossia, se l’unico sforzo comunicativo è contrastare la visione di alter (“sei un 18 centro anziani, non è un posto per me”) pubblicizzando le proprie attività (“no guarda che noi facciamo altre cose”), il risultato sarà deludente: non avremmo toccato quella grammatica della socievolezza che occorre che rimanga punto focale dei centri, ma che, se non è usata come trampolino di lancio per una socialità più allargata, diverrà il vero ostacolo alla fruizione dei centri in una dinamica intergenerazionale. Cosa significa utilizzare la socievolezza per arrivare alla socialità? È solo un gioco di parole? I centri per rispettare sé stessi hanno la necessità di continuare sulla via aggregativa, ma utilizzandola in chiave di creazione di rapporti di fiducia e di legame sociale. Una strada sembra essere quella indicata nelle interviste: attraverso la varietà e l’originalità dei progetti messi in campo, i volontari dei centri potenziano i centri stessi e creano coesione. - All’inizio dicevano […] “eh, cosa vuoi che andiamo alla XXX, là son tutti anziani, son tutti vecchissimi” - Invece non è più così - E secondo voi cosa ha fatto cambiare idea? - […]Guarda, ci sono dei centri anziani che vai dentro, lo percepisci nell’aria che è tutto….Insomma, secondo me noi qua ci abbiamo dato un’impronta diversa Qui si innesca anche una sorta di fiducia, di rapporto, di…una coesione… il fatto di essere così, diciamo, eclettici, cioè di non essere identificati con un’unica fascia di età o con un unico modello di progetto è, indubbiamente, la…la modalità più…cioè diciamo la via per essere più aperti all’esterno oltre che al proprio interno… In questi brevi stralci di interviste, c’è quel cambiamento di mentalità che può essere il passaggio dal centro per anziani al centro sociale. La reazione auto-protettiva dell’aver già aperto il centro all’esterno con nuove attività instaura una dinamica generativa se tocca l’identità profonda dei centri, ossia il loro essere luoghi di socievolezza per anziani. I centri sociali più generativi riportano tutti un percorso simile: una capacità di far emergere il volontariato di giovani pensionati che sono già nella “pancia” dell’associazione, la cura dei rapporti con le altre associazioni del territorio e la promozione di progettualità condivise, il mantenimento di un rapporto non cedevole con l’ente pubblico, la creazione di attività sociali rivolte ad una nuova “popolazione” del centro (bambini, stranieri, giovani, anziani). In effetti, il senso di questa promozione potrebbe essere: dalla socievolezza alla ad-sociazione. La prima è una componente di compagnia e vicinanza tra persone, che non ne co-implica il riconoscimento reciproco; la seconda è la creazione di un legame sociale, di un vincolo personale e relazionale. 19 4.2. I centri ANCeSCAO secondo gli amministratori pubblici Altri “portatori d’interesse” dei centri sociali sono sicuramente gli amministratori pubblici e i leader delle realtà associative. Con due focus groups abbiamo cercato di stimolare i due diversi target2. Gli amministratori pubblici hanno rappresentato i centri secondo tre costanti: (1) i centri come semplici spazi (ossia la rivendicazione di un legame di dipendenza dei centri dal potere amministrativo che ha concesso i locali); (2) i centri in cambiamento (cioè la maturazione di un’idea nuova dei centri che escono dalla settorialità del loro intervento); (3) i centri come luoghi di rigenerazione di relazioni, che rimandano alla possibilità di creare aree urbane in cui sia rispettata l’umanità della persona. Nell’analisi delle ricorrenze testuali, sono emerse nitidamente tre figure idealtipiche di amministratore che si relaziona con i centri: (1) L’amministratore “vigile urbano”: è il politico che, dirigendo un quartiere o un’amministrazione comunale, vede i centri come spazi collettivi il cui suolo è pubblico (lo stabile è quasi sempre del Comune) ed è sotto-utilizzato. Essendo semplicemente uno spazio (e non un luogo) occorre riempirlo di iniziative, eventi ed incontri. I centri ANCeSCAO sono visti semplicemente come i custodi degli immobili. L’amministratore rinvia, quindi, ogni richiesta di partecipazione attiva dei cittadini del suo territorio al centro. Non c’è progettualità condivisa, ma solo “regolazione del traffico”. (2) L’amministratore programmatore: è il politico che con un processo riflessivo è riuscito a cogliere la morfogenesi in atto nei centri (da centri per anziani a centri sociali, anche se gestiti da anziani), ma non fa nulla per valorizzarla direttamente. Tende piuttosto a cogliere le opportunità che una rete capillare come quella di ANCeSCAO può offrire ad una progettazione condivisa. Ha capito 2 Con i focus group abbiamo lavorato su alcuni aspetti: 1) la conoscenza dei centri e il loro inserimento nella rete ANCeSCAO; 2) l’opinione sulla diffusione della conoscenza dei centri; 3) le modalità con cui potrebbero essere rilanciati i centri; 4) la valutazione sul futuro dei centri come attori e partner in interventi di politica sociale. 20 che i centri hanno una buona capacità di produrre servizi e cerca di inserirli nella programmazione socio-sanitaria, lavorando in particolare sul fronte della solitudine degli anziani, sui rapporti con le scuole, sulle prestazioni di cura. Non ha un’idea dirigista del sistema pubblico per cui è il Comune che deve decidere le priorità e il Terzo settore eseguire le attività. Ha interiorizzato però un principio di sussidiarietà parziale e strumentale: valorizza le azioni dei partner per la propria utilità (che è comunque pubblica) e non anche per la crescita stessa dei centri. (3) L’amministratore suggeritore: è il politico che si fa coinvolgere nella vita dei centri, mantenendo comunque un profilo istituzionale. Vede i centri, così come le altre associazioni del territorio, come luoghi di relazioni significative, che però necessitano di lavorare su temi concreti per rilanciarsi anche all’esterno. Suggerisce che i temi caldi per i centri possano essere quelli legati agli stili di vita, alla salute e la solidarietà. Cerca di far capire che sono gli anziani attivi i custodi degli anziani fragili. Promuove l’idea dell’anziano come protagonista delle attività. Ha l’idea di una regolazione promozionale tramite partenariati e reti. 4.3. I centri ANCeSCAO secondo i referenti delle organizzazioni di Terzo settore Per i leader di Terzo settore, i centri sociali della rete di ANCeSCAO sono visti come luoghi potenzialmente generativi di legame sociale e di relazioni partecipate sul territorio, anche con riferimento alla definizione di nuovi servizi. I centri hanno l’enorme potenzialità di diventare punti di riferimento per i territori in cui sorgono, innanzitutto perché i contesti urbani e periferici sono contraddistinti dall’assenza di luoghi fruibili di socializzazione, in cui anche gli spazi interni ed esterni siano utilizzabili. I centri Ancescao sono una potenzialità enorme, però, purtroppo…l’impressione è che le potenzialità in concreto, quelle che si vedono da fuori, parlo di quelle sociali, non tanto di quelle politiche, non siano adeguate a quelle che sono le potenzialità. E i giovani hanno una grande disponibilità: si sono messi disponibili per qualche ora al bar a rotazione, quindi in mancanza di centri, se escludi la parrocchia io dei posti di aggregazione non ne vedo molti. Data la collocazione geografica, spesso in quartieri residenziali ed all’interno del parco, i centri sono visti come immediatamente aperti allo “sfruttamento” intergenerazionale. (1) La prima potenzialità riscontrata dagli stakeholder di Terzo settore è l’opportunità di divenire grandi centri di aggregazione stratificata. 21 Il centro sociale lo abbiamo pensato e lo pensiamo come una fondamentale antenna capace di intercettare un bisogno nascosto che gli enti istituzionali hanno difficoltà a cogliere. Però se facevamo la distribuzione in un centro anziani siamo tornati nella nostra sede, perché c’erano alcune problematiche […] stare insieme in uno stesso posto richiede tempo, non è scontato. (2) La seconda potenzialità riscontrata è la capacità di cogliere il bisogno sociale. Proprio perché collocati al centro di un territorio socialmente rilevante, i centri sono visti come dei luoghi in cui sarebbe possibile intercettare il bisogno sociale, anziano e non. In questo gli interlocutori potrebbero essere i servizi sociali, le associazioni che fanno animazione di strada e quelle che promuovono iniziative di prevenzione o educazione civica. Chi fa vivere questi centri sociali ha una professionalità (fare la sfoglia, aggiustare le biciclette…), sono persone che hanno acquisito una professionalità che ovviamente non hanno voglia di rifare otto ore al giorno, ma che possono trasmettere una conoscenza che potrebbe diventare un valore: l’apprendimento di un mestiere. (3) La terza potenzialità è riscontrabile nelle professionalità che le persone che frequentano i centri, soprattutto da pensionati, portano dalla loro vita lavorativa. Per persone che possono emergere da una situazione di disagio e che hanno bisogno di ricostruirsi un ambito di professionalità, l’incontro con dei “vecchi maestri” potrebbe essere decisiva per l’inizio di un percorso sociale capacitante. Il problema (specialmente delle lavoratrici del lavoro domestico straniere) è che mancano degli spazi per potersi incontrare il pomeriggio, il sabato e la domenica. E in questo il circuito dei centri sociali è cresciuto come un punto di riferimento per le badanti. Noi questo lo favoriamo. (4) La quarta potenzialità dei centri è la possibilità di dare una casa a culture “nomadi”. Gli stranieri sono un target privilegiato per il futuro dei centri: l’anziano è segno di stabilità e di sicurezza soprattutto per le immigrate africane e dell’est Europa. Iniziano a trovare nei centri un possibile luogo in cui le prime si emancipano e si integrano, grazie a corsi di lingua, cucina, o agli spazi per i minori, e le seconde si possono incontrare ed esprimere la propria identità culturale. Questi riscontri ribaltano l’idea che i centri siano solo “un paese per vecchi” e che la situazione di crisi sia difficilmente superabile. L’immagine del centro anziani come circolo chiuso nelle sue 22 attività ludiche e culinarie, riservate solo agli anziani che lo frequentano quotidianamente, non rende giustizia alla realtà. D’altra parte questo cliché tende a riprodursi perché le attività che vengono fatte con uno spirito progettuale più ampio o sono poco conosciute o non riesco a radicarsi perché spesso dipendono dalle personalità che guida quel centro. Il centro risulta così un contenitore di alcune soggettività che se da una parte promuovono le attività, dall’altra le possono anche imbrigliare. I leader delle organizzazioni di Terzo settore hanno sottolineato, infatti, come manchi una progettualità diffusa. Difficile in questo momento è riuscire a costruire di interesse informativo e sociale con la popolazione anziani i centri sociali. I centri vanno un po’ avanti sulla base delle soggettività, c’è una direzione di questi centri che se c’è uno che ha un interesse più per il teatro, invece che per la cultura, invece che dell’altra cosa, questo va…altrimenti io vedo lì da me, han cambiato il gruppo dirigente si sta spegnendo. Poi c’è quello più intelligente e coinvolge i giovani… Spesso le buone pratiche sono situazioni non pianificate, che rimangono espressione di sensibilità espresse a livello soggettivo o esternalità positive realizzate senza che alla base vi fosse una reale progettualità condivisa tra gli attori coinvolti. 5. Conclusioni. Quali vie per lo sviluppo? Punti critici, punti di forza e possibili scenari Al termine della fase di rilevazione delle informazioni tramite colloqui finalizzati in situazione (interviste realizzate presso i centri selezionati e orientate ad approfondirne (1) storia; (2) attività e potenzialità; (3) criticità e linee guida di sviluppo) viene definita una data utile per commentare i risultati provvisori delle interviste e le impressioni generali derivanti dalla situazione osservata dai ricercatori. In primo luogo, emerge una riflessione generale sull’eterogeneità delle realtà osservate. Tale eterogeneità non è dovuta soltanto a indicatori di tipo quantitativo (dimensioni del centro, numero degli iscritti e ammontare di risorse disponibili) ma soprattutto a differenze di tipo qualitativo (collocazione, leadership organizzativa, specificità storiche e culturali, attitudine a definire partnership con altri soggetti del territorio, natura del legame con le amministrazioni di riferimento, capacità di rivendicazione della propria autonomia culturale e organizzativa, etc.). Tale eterogeneità condiziona in modo ambivalente l’analisi. Se da un lato, infatti, inibisce logiche di prematura generalizzazione rispetto ai problemi culturali e organizzativi dei centri, dall’altro 23 favorisce la classificazione di tali realtà in tipologie che risultano dall’intreccio tra le variabili fondamentali definite nel disegno della ricerca. Questa classificazione (che risulta dalla configurazione peculiare alla base della distribuzione di queste variabili) è utile per documentare l’attività svolta, ordinare il materiale e tracciare un’agenda condivisa in termini di linee guida per una opportuna valorizzazione delle realtà in gioco. Di seguito indichiamo i punti di forza e di debolezza riscontrati rispetto alle realtà in analisi. Punti di forza Punti critici Il numero dei soci, seppur in calo, è ancora molto L’uomo della strada percepisce i centri come alto. luoghi di aggregazione esclusivamente per anziani, non aperti al territorio, indisposti nei Ci sono nuove attività che hanno allargato la confronti di chi volesse parteciparvi. base sociale dei centri con ottimi risultati. Buona parte dei centri sono utilizzati e percepiti Le buone pratiche esistono e possono essere dalle amministrazioni locali come camere di condivise con semplicità. compensazione delle loro attività. I bilanci sono ancora piuttosto rosei. I centri esitano a proporre progetti innovativi. C’è un grande desiderio di cambiare una Quasi tutti i centri hanno difficoltà a rinnovare la situazione tradizionale e routinaria. classe dirigente e a trovare nuovi volontari I centri più periferici si sovrappongono quasi per I centri situati in alcune zone del centro storico intero al territorio e ai suoi interessi. della città sembrano non riuscire ad affermare la Si sta attivando un meccanismo riflessivo nella propria originalità associativa. dirigenza dei centri per pensare il cambiamento. La crisi economica attacca anche i pensionati, I margini di azione sono molto ampi sia per ciò con il rialzo dei costi dei consumi e l’incertezza che riguarda la parte di sostegno economico ai del futuro. centri sia per la messa in circolazione delle nuove attività sia per il senso di appartenenza ai centri. L’importanza della politica e del pubblicoamministrativo va calando e questo definisce uno scenario di opportunità per i centri. Punti di forza e di debolezza delle organizzazioni oggetto della ricerca Considerati i punti di forza e i punti critici, occorre ragionare sulle logiche e le possibili vie di sviluppo della realtà sociale che costituisce i centri. Emergono a tal proposito 4 scenari idealtipici distinti e capaci di cogliere le principali logiche di indirizzo: 1. Impresa per servizi e outsorcing (utilizzo universale; agire progettuale; apertura a problematiche sociali; reticolarità minima e dichiarata; collocazione in contesto urbano; stile solipsistico; orientamento individualistico della leadership; utilizzo strumentale del centro; immagine del centro come involucro che contiene interessi; autonomia esclusivamente formale dal sistema politico; professionalità dei dirigenti; leadership legittimata da competenze specifiche; comunicazione intesa come circolazione di informazioni rilevanti per l’organizzazione; relazione conflittuale con il coordinamento); 24 2. Perfezionamento della vicinanza al sistema politico (utilizzo categoriale; agire progettuale; collocazione in contesto urbano e rurale; apertura a problematiche sociali; reticolarità minima e dichiarata; stile collaborativo; orientamento vario della leadership; utilizzo strumentale del centro; immagine del centro come involucro che contiene interessi; autonomia formale dal sistema politico; dilettantismo dei dirigenti; comunicazione intesa come circolazione di informazioni rilevanti per l’organizzazione; relazione conflittuale o collaborativa con il coordinamento); 3. Implosione (utilizzo categoriale per soli anziani; agire tradizionale; collocazione in contesti rurali; chiusura rispetto alle problematiche esterne al territorio in cui il centro si sviluppa; reticolarità minima, obbligata e difensiva; stile solipsistico e autoreferenziale; orientamento individualistico rispetto alle attività da parte dei soci; utilizzo strumentale del centro per una sola attività di interesse; immagine del centro come involucro che contiene attività; autonomia formale dal sistema politico; dilettantismo e prevalenza di buon senso e buona volontà nel guidare il centro; leadership come legittimazione fondata sul carisma personale; comunicazione intesa come circolazione di informazioni rilevanti per l’organizzazione; relazione conflittuale con il coordinamento); 4. Capacitazione sussidiaria (utilizzo universale (centro aperto a tutti); agire progettuale (in quanto razionale rispetto al valore associativo); collocazione in contesto urbano o rurale; apertura (a problematiche sociali emergenti); stile reticolare preferenziale e volontario; stile sussidiario, collaborativo, plurale; orientamento associativo del centro nel promuovere attività pro-sociali; utilizzo plurale ed espressivo del centro per diverse attività in esso incluse come opportunità; immagine del centro come effetto emergente delle attività che lo determinano come relazione sociale; autonomia sostanziale; professionalità dei dirigenti (prevalenza di qualifiche tecniche istituzionalmente riconosciute); leadership come legittimazione fondata sulle competenze; comunicazione intesa come diffusione di un messaggio comune condiviso culturalmente; relazione collaborativa con il coordinamento. Ovviamente si tratta di scenari idealtipici, che non corrispondono alla realtà specifica ad ogni centro, quanto piuttosto a direzioni possibili, a linee di tendenza che possono coesistere in ogni 25 centro ed orientarne la successiva morfogenesi (Archer 1995; trad. it. 1997). Tali direzioni trovano un riscontro parziale nelle logiche definite dalla ricerca e monitorate sul territorio. Il tema che attraversa in maniera più problematica la rappresentazione socio-culturale dei centri condizionandone anche le capacità di azione e definizione di attività ha a che fare con la variabile autonomia/dipendenza. Si tratta di una categoria complessa, che influisce sull’immagine e l’operato dei centri definendo aspetti problematici rispetto alle seguenti relazioni: La relazione tra osservatore esterno e centro. Chi osserva la realtà dei centri dall’esterno (in qualità di “uomo della strada”) li percepisce normalmente come luoghi di aggregazione per anziani. Questo stigma (Goffmann 1963; trad. it. 2003) o stereotipo negativo (a volte confermato dalla logica di azione specifica dei singoli centri osservati) influisce sull’immagine dei centri, minandone la capacità di coinvolgere soggetti differenti e favorire un ricambio dei volontari coinvolti. A lungo termine questo aspetto si traduce in una limitata autonomia progettuale, spesso aggravata dalla convinzione che i centri sociali siano spazi del Comune e articolazioni più o meno periferiche del sistema pubblico e delle amministrazioni locali. La relazione tra Pubblica Amministrazione e centri. La specifica relazione che unisce questi soggetti definisce una situazione in cui normalmente il centro sorge in una struttura di proprietà del Comune e in comodato d’uso gratuito. Tale pratica si riflette in maniera non soltanto formale sui centri, che a volte sono utilizzati e percepiti dalle amministrazioni locali come camere di compensazione delle loro attività, in particolare quelle destinate agli anziani, al trattamento del consenso e alla promozione di particolari iniziative di sviluppo locale. La relazione tra i centri e il territorio. La collocazione territoriale è fondamentale per determinare il livello concreto di autonomia operativa dei centri. Tra di essi, quelli più periferici si sovrappongono quasi per intero al territorio e ai suoi interessi; mentre quelli situati in alcune zone del centro storico della città sembrano non riuscire ad affermare la propria originalità associativa. In particolare, restano intrappolati in schemi ideologici che tendono ancora a percepire il sistema politico-amministrativo come l’unico in grado di perseguire il bene pubblico; il mercato come un simbolo della disgregazione sociale e dell’interesse privato e la società civile come insieme articolato e oscuro di organizzazioni più o meno collaterali a un determinato orientamento politico-partitico. 26 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Archer, M. 1995 Realist Social Theory: The Morphogenetic Approach, Cambridge, Cambridge University Press, trad. it. La morfogenesi della società, Milano, FrancoAngeli, 1997. Bruni, L. e Zamagni, S. 2004 Economia civile, Bologna, il Mulino. Bourdieu, P. 1979 La distinction, Paris, PUF; trad. it. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, il Mulino, 1983. Donati, P. 1991 Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli. Donati, P. e Colozzi, I. 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