Lyceum n. 41 - Maggio 2011 Editoriale La Scuola pubblica è la Scuola democratica La solidarietà, la tolleranza, la libertà di pensiero, l’entusiasmo dei docenti, in questo momento storico, costituiscono l’unico argine alla deriva antidemocratica che ci riporterebbe indietro di secoli La Scuola pubblica, garanzia di buoni Valori. Un altro anno scolastico si avvia alla conclusione con i soliti problemi, le consuete attese e le naturali speranze. Mai come in questo periodo la fine di un anno scolastico è stata accompagnata da una serie di polemiche, attacchi e contestazioni che stanno rendendo il contesto socioculturale della società italiana a dir poco scandaloso, proprio mentre non mancano eventi storici di enorme rilevanza, che stanno sconvolgendo ed infiammando, con sviluppi imprevedibili, la sponda meridionale del Mediterraneo. Altre situazioni terribili sono state registrate e tramandate dalla storia in epoche precedenti e a diverse latitudini. Quindi, si potrebbe dire, niente di nuovo e di diverso rispetto alla normale quotidianità che ci circonda e ci avvolge; eppure l’attuale sta- gione mi mortifica e mi addolora più di qualsiasi altra precedente esperienza. È mia ferma convinzione che nel momento attuale, gravato da annosi problemi economici e sociali, sia necessario riaffermare con forza il ruolo fondamentale della Scuola pubblica, affinché essa, oltre a tramandare la cultura del passato, Lyceum Maggio 2011 3 4 sia sempre più aperta alle istanze dell’oggi e alle sfide del domani. La società guarda, con grande preoccupazione, al degrado del comportamento sociale, alla base del quale vi sono la noncuranza ed il disprezzo per la cultura, a torto giudicata priva di rilevanza e ricaduta economica, ma soprattutto alla perdita di valori come l’onestà e la moralità sempre più trascurati e screditati, quando non addirittura sostituiti da altri. La Scuola pubblica, per la sua stessa storia, ha il dovere di difendere quei valori, la cui pratica è condicio sine qua non di ogni attività intellettuale e della stessa vita civile del paese. Piero Calamandrei, nel discorso pronunciato al III Congresso in difesa della Scuola pubblica a Roma l’11 febbraio 1950, affermava: “La scuola di Stato deve essere una garanzia, perché non si scivoli in quella che sarebbe la fine della scuola e forse la fine della democrazia e della libertà.” Questa volta proprio non mi va giù che si continui a parlare di “cattivi valori” che i docenti trasmettono ai giovani durante le ore di lezione. Invece di soffermarci su queste polemiche provinciali, bisognerebbe riflettere sul fatto che gli sconvolgimenti di questi giorni devono indurre al potenziamento dei valori, universalmente riconosciuti come tali, e alla capacità di ragionare e riflettere in maniera autonoma, senza condizionamenti dottrinali o convenienze di schieramento, sul futuro del nostro essere italiani. È triste dover confrontarsi con revisionismi storici e politici proprio nella ricorrenza dei 150 anni dall’unità dello Stato nazionale italiano. Siamo convinti che dalla crisi finanziaria ed economica possiamo uscire solo con un grande sforzo generale che si fondi sul realismo e sulla responsabilità e scommetta su innovazione e formazione. La nostra Nazione si presenta ancora giovane e quindi fragile, nonostante siamo riusciti attraverso la Scuola a formare il cittadino nuovo con una sola lingua e cultura. Oggi le difficoltà sono tante e pericolose; soprattutto si avvertono fremiti di disgregazione che fanno tornare indietro le lancette della Storia. La Scuola ha il dovere di dare di più e meglio a chi parte da condizioni di svantaggio. La crisi certamente acuisce questo smarrimento, rendendo ancora più nevralgico l’intervento dei diversi soggetti sociali, in particolare della Scuola; ma è proprio in questo difficile momento che quest’ultima deve rivendicare a sé il ruolo di soggetto sociale e, soprattutto, di guida spirituale per coniugare coesione e sviluppo. La Scuola deve imporsi al Paese tutto per il suo rigore morale ed intellettuale nei confronti dei giovani e per i giovani, per costruire quel futuro che non spazzi via la tradizione e il passato, ma li valorizzi e li attualizzi nella società globale del futuro. Ormai, tutti sono convinti, nel mondo contemporaneo, del fatto che la vera ricchezza, più che dalle materie prime, proienga dalle conoscenze e da tutto il capitale umano. Se vogliamo continuare ad essere una pietra miliare nella storia dell’umanità e competere da pari a pari con le grandi potenze economiche, non possiamo prescindere da una Scuola di qualità che ha le sue radici profonde nell’impegno dei docenti e nel merito degli studenti. La società che abbiamo ereditato dalla generazione precedente riconosce alla Scuola il dovere di dare di più e meglio a chi parte da posizioni di svantaggio. La meritocrazia verrà solo dopo che avremo sanato le differenze che derivano dai diversi contesti territoriali e sociali. In un momento così difficile è necessario che si faccia squadra, che si lavori tutti insieme per aprire nuove prospettive ed indicare nuovi orizzonti ai giovani che ci stanno davanti. È più che mai il momento di trasmettere agli studenti quei valori che sono propri di una società civile e democratica: la solidarietà, la comprensione, la tolleranza, la libertà di pensiero. È il momento di insistere nello sviluppare nei ragazzi la capacità critica, la capacità di interpretare ciò che accade nel mondo in cui vivono. La Scuola statale, la Scuola pubblica, è la Scuola di tutti, è la Scuola democratica dove esiste il confronto e in questo momento è l’argine alla deriva antidemocratica che ci riporterebbe indietro di secoli. Il dovere di chiedere alla Politica una Scuola migliore. Proprio quest’anno scolastico, il primo che ha visto la riforma entrare nelle aule della Scuola secondaria di secondo grado, dopo tanti altri tentativi naufragati, circa quarantamila docenti vanno in pensione senza tentare di resistere a questo nuovo “status” sociale, perché le condizioni di lavoro di oggi non sono quelle di una volta e i docenti non sono più rammaricati per il fatto di andare in pensione; anzi, se non fosse per gli alunni, la pensione verrebbe paragonata alla libertà per l’ergastolano, una gioia da conquistare! Eppure proprio in questo momento, mi si presenta nella mente un sogno, un bel sogno che mi riporta il sorriso e la gioia per il lavoro e per il domani. Voglio chiedere a tutti gli operatori scolastici, ed in particolar modo ai docenti, di non far venire mai meno l’entusiasmo dei primi anni d’insegnamento, di continuare ad affrontare gli anni di servizio che restano con lo spirito dell’esploratore e la gioia della scoperta, di vivere una nuova stagione, senza pensare a ciò che manca, quanto, piuttosto, a tutto ciò che possiamo e vogliamo fare. Sono certo che, così facendo, faremo un grande favore a noi stessi e a tutta la comunità! In questo sogno, qualcosa va chiesto anche ai politici, nazionali e locali, che parlino meno della Scuola, dei suoi operatori, delle discipline e dei programmi ed operino, invece, nel realizzare strutture più adeguate, ma soprattutto nel porre la formazione dei giovani al vertice del bene comune a cui sono invitati a dedicarsi. Nel sogno di una Scuola migliore non possono restare fuori i giovani, i nostri studenti. A loro voglio dire semplicemente che essi sono il futuro e per quel futuro è giusto pretendere l’impegno dei docentiformatori, è giusto richiamare ai propri doveri istituzionali i politici e quanti hanno il dovere di fornire supporto alla formazione; ma è altresì vero che essi debbono impegnarsi, impegnarsi molto per realizzare i loro sogni; diversamente questi resteranno nel cassetto e noi tutti saremo cancellati come tutti i “vinti” che la Storia ha conosciuto. Solo il riconoscimento dell’importanza della coerenza, della dignità, della sincerità e dell’impegno come condizioni necessarie per conseguire gli obiettivi che ogni operatore scolastico si pone, permetterà ai giovani di diventare cittadini consapevoli e non sudditi inerti. Giuseppe Vastola Dirigente Scolastico del Liceo Classico “T. L. Caro” con sezioni annesse di Liceo Scientifico e di Liceo Linguistico - Sarno Lyceum Maggio 2011 5 l'opinione Una prospettiva americana sui 150 anni dell’Unità italiana UN PAESE ANTICO SUL LIMEN DELLA MODERNITÀ S 6 Senza l’Italia, impensabile l’America pesso durante la prima lezione di un corso di lingua italiana alla mia Università di Towson, nel contesto di una conversazione libera su quel che gli studenti già sanno (o credono di sapere) dell’Italia e degli Italiani, faccio una domanda ridicola: l’Italia è un paese antico o nuovo? “Antico! Antichissimo! Leonardo-Infernogondole-Le quattro stagioni-Colosseo-VesuvioTorre Pendente-Davide!” Con un lieve sorriso delfico poi dico, “Ma pensate che l’Italia è libera e unita solo dal 1861.” Fulmine – wow. Stupisce proprio che un Paese notoriamente pieno di “roba antica” sia più giovane del nostro, che si sia liberato durante la nostra Guerra Civile, conflitto che era già sintomo di stanchezza e di delusione morali in uno stato invecchiato al di là dell’innocenza delle origini rivoluzionarie del 4 luglio 1776. Ci colpisce nella vanità, perché ci consideriamo sempre un popolo nuovo, pieno di speranza, ricco di possibilità; quasi fa male pensare che la veneranda Penisola sia veramente più giovane di noi. Ma reca anche una certa soddisfazione psicologica: che sotto certi aspetti questo “Vecchio Mondo”, di cui l’Italia fa parte e dal quale possiamo anche sentirci giudicati, non è poi così maturo – le complicatezze della democrazia parlamentare che dall’Oltreoceano a volte vengono caratterizzate come puro caos, o la squallida vicenda di Amanda Knox , o Mafia/Camorra, o in chiave positiva la pizza, il film d’essai del giorno (ce n’è sempre uno: Io sono l’amore, qualche anno fa La vita è bella, poco prima Il postino, e poco prima di ciò Cinema Paradiso), Valentino-stilista/ Valentino Rossi, la Coppa Mondiale, o la strepitosa contemporaneità di Jovanotti. Ecco la doppia immagine che ha l’Italia all’estero. Da un lato è ed è sempre stata patria della Cultura con la C maiuscola: belle arti, splendido patrimonio letterario che non rispetta frontiere (la Commedia di Dante appartiene al retaggio spirituale e intellettuale dell’umanità e non solo dell’Italia), profonde radici e lunghe tradizioni, leggendaria eleganza. Dall’altro, appare in prima pagina, va di moda, ci affascina e attira con attrattive, non dell’Antico, ma del Duemila. Nel salutare i centocinquanta anni dello Stato Italiano, chiudo con un accenno a un legame ben più profondo di quelli suggeriti sopra, che riflettono stereotipi e proiezioni al limite del nevrotico. E questo legame quale sarebbe? Ricordiamo che il nostro Abraham Lincoln, nei giorni più cupi della Repubblica Americana, in cui tutti i sogni della democrazia e dell’uguaglianza rischiavano di andare in aria, invitava Garibaldi ad essere generale honoris causa degli eserciti del Nord. Non a caso, e non solo per l’immenso prestigio del gran Liberatore in questo emisfero, ma perché l’italianità stessa era già simbolo di libertà e di solidarietà umana. Dal libero Comune medioevale all’Umanesimo della Rinascita con il suo culto della dignità e creatività individuali, dalla schietta veracità dell’Eppur si muove di Galileo al fiero e personalissimo grido del Sempre libera verdiano, l’Italia traccia una lunghissima traiettoria verso la democrazia. Senza l’Italia, impensabile l’America. John C. McLucas Professore ordinario di Lingua e Letteratura italiana e Direttore del Dipartimento di lingue straniere, Università Towson, Baltimora, USA AN AMERICAN PERSPECTIVE ON THE the opinion 150TH ANNIVERSARY OF ITALY’S UNIFICATION I IS ITALY OLD OR NEW? usually start my Italian 101 classes here with an open discussion of what students already know (or think they know) about Italy and Italians. At a certain point, I ask a dumb question: “Is Italy an old country or a new country?” “It’s old, of course – way old! Look at Leonardo da Vinci – or Dante’s Inferno – or gondolas – or Vivaldi’s Four Seasons – or the Colosseum – or Mount Vesuvius – or the Leaning Tower of Pisa – or Michelangelo’s “David”! Then with a smug little smile I say, “Actually, Italy became a free and independent country only in 1861.” This always gets a great reaction: “Really? Wow!” Students are amazed that a country which is famous for “old stuff” is actually newer than ours, that it gained its freedom while we were already fighting our Civil War. That conflict was a symptom that our nation was already to some extent morally tired and disillusioned, that we had aged beyond the innocent revolutionary fervor of July 4, 1776. It hurts our pride in a way to think of Italy as “younger” than we are, because we like to see ourselves as a new people, fresh and hopeful, with our best days still before us. At some psychological level, however, it’s also somewhat satisfying to think that in some ways the Old World of which Italy is part, which we sometimes imagine looks down on us, isn’t really all that grown up. We look at the twists and turns of parliamentary democracy and characterize them as mere chaos; we see the awful Amanda Knox case, the Mafia, or – more cheerfully – pizza, the latest Italian art film (at any given time, there’s always one that everyone has seen: “I am Love,” “Life is Beautiful,” “Il Postino,” or “Cinema Paradiso”), Valentino the designer or Valentino Rossi the motorcycle racer, the World Cup, or the always-amazingly hip Jovanotti. This is Italy’s dual image for the rest of the world. On the one hand, Italy is and has always been the land of capital-C “Culture,” with its fine arts, its truly global literary tradition (Dante’s Divine Comedy belongs to the spiritual and intellectual heritage of humankind, not just of Italy), its deep roots, its legendary elegance and beauty. On the other hand, Italy shows up in the headlines, it’s trendy, and it charms and attracts us with the lure, not of the ancient and venerable, but of the here and now. In honoring the 150th anniversary of Italian independence and unity, I want to close by mentioning what I think is a much deeper connection than those listed above, which mostly reflect foreigners’ stereotypes of and slightly morbid projections onto Italy.What connection am I talking about? Let’s recall that our revered Abraham Lincoln, in the darkest days of our Republic, when it seemed that all our dreams of freedom and equality might go up in smoke, asked Garibaldi to serve as honorary general of the Union forces. This was no coincidence, and it was not motivated only by Garibaldi’s huge prestige as a freedom fighter in South America. Rather, it reflected the fact that Italy in and of itself was already synonymous with liberty and human solidarity. Starting with the free city-states of the Middle Ages and going through the Humanist cult of individual dignity and creativity, from the frank truthfulness of Galileo’s famous, “And yet it does move” through the fierce, soaring cry for personal freedom in Verdi’s “Sempre libera,” Italy has always been on a pioneering trajectory towards democracy. Without Italy, there could be no United States of America. Period. John C. McLucas “Professor of Italian Language and Literature, Chair of the Department of Foreign Languages Lyceum Maggio 2011 7 8 Strumenti Non c’è limite, per essere in tema, alla produzione scritta, frutto di studio, approfondimento, riflessione ed elaborazione personale di idee che ruotano intorno a fatti concreti per coglierne il senso più profondo. È il caso del contributo del Prof. Alfonso Tortora sul rapporto Dommatica ed Eresie, in cui centrale è la figura di Alfonso M. de’ Liguori; una vera e propria lezione di storia, politica e religione che dà la sensazione di tornare, da studenti, nelle aule universitarie. Le lezioni, si sa, richiedono attenzione ed energia mentale e fisica; perciò, immaginando di ricaricarsi con una buona cioccolata calda, ci immergiamo nell’affascinante storia del cacao, a tratti suggestiva e misteriosa, come la Venezia de Il fuoco, vissuta in tutto il suo incanto in un rapporto d’amore tra sogno e realtà, dove il tempo sembra sospeso. Il tempo che è protagonista nell’opera di Giorgio Vasta, quel tempo in cui, come da recensione qui presentata, si sarebbe dovuto amare ma non lo si è fatto. E cosa dire del viaggio nel Risorgimento, trasportati dalla musica e dagli inni, dai più ai meno noti, che ad esso hanno fatto da colonna sonora? Un viaggio ugualmente originale è quello che ci introduce nell’opera del Verga, soprattutto laddove viene meno il muro di impersonalità dello scrittore; ma anche alla filosofia liminare di Maria Zambrano, all’insegna dell’identificazione tra pensare ed essere vivente, preludio al romanticismo amaro del Professore che ha conquistato l’Ariston, cantando “la vita dell’uomo tra silenzio e tuono”. Strumenti/Liminarismo Manifesto del Liminarismo 10 Nella società contemporanea, complessa, stratificata e dinamica, appare utile – a livello metodologico – porre attenzione non solo alla struttura generale e compatta di un fenomeno, ma alle sue interne, sottili e impercettibili parti, perennemente soggette a modificazioni e a reinterpretazione e profondamente in contatto fra loro attraverso una serie di linee di “soglia” (limen) e di “confine” (limes). In tale ottica (definibile pertanto come liminaristica) diventa interessante studiare i passaggi da un’epoca a un’altra, da un fenomeno a un altro, da una concezione a un’altra ed analizzare: • il senso del limite e della soglia che viene continuamente varcata e spostata nelle tappe dell’esistenza vista come “formazione” e “costruzione” nell’ambito di una visione, che, pur se cangiante, non è relativistica; • il senso dell’impegno culturale come ricerca di un orizzonte di valori e di significati delle azioni: la crisi della società contemporanea può essere attribuita a una mancanza di senso da dare alle cose; • i nessi fra fenomeni diversi o contrapposti (ad es. tra religione e magia o tra cultura alta e cultura popolare o, più generalmente, tra passato e presente), che spesso sono alla base dell’identità di una nazione o di una comunità; • il valore dell’integrazione fra gruppi etnici diversi e dell’apertura verso l’altro; • la funzione del diritto in regime di democrazia e in regime di dittatura; • il carattere di margine e di eccentricità (nel senso di “fuori dal centro”) evidente in tutti i personaggi, gli eventi, le idee di avanguardia e di innovazione; • il carattere, anch’esso positivo, della marginalità (come scrigno di conoscenze tradizionali) delle culture popolari; • il ruolo della contaminatio fra culture diverse; • la demarcazione fra la normalità e la “a-normalità”; • il valore euristico del dettaglio, che, talvolta in un’opera d’arte può configurarsi come rivelatore in maniera più proficua dell’aspetto macroscopico; • il confine fra il gioco come piacere e il gioco come malattia; • il tasso potenziale di innovazione insito in un’operazione di traduzione, intesa come “tradurre”, “tramandare”, “tradire”, in una parola, riscrivere, reinterpretare, transcodificare e dunque personalizzare in maniera originale e irripetibile un testo; • il superamento del limite come propensione verso la conoscenza; • il concetto matematico di limite come valore al quale tendere; • il processo, nella ricerca scientifica, “per tentativi e per errori”. La Direzione e la Redazione di Lyceum Manifesto of Liminarism In light of contemporary society, complex and dynamic stratification, we believe the time is right to pay attention - at a methodological level - not only to the general concrete structure of a phenomenon but also to its internal, subtle, almost imperceptible parts. These are always subject to modifications and new interpretations, and are linked at a deep level by means of a network of lines corresponding to both “threshold” (limen) and “boundary” (limes). According to this vision of the world (which we call Liminarism), it is intriguing to study the transitions between eras, phenomena, and concepts, and to analyze the following: - the sense of both limit and threshold, constantly crossed and/or displaced through the stages of a life understood as “formation” and “construction”, in the context of a vision which, while certainly subject to change, is not merely relativist; - the sense of cultural engagement as the search for a horizon of values and of meaning in actions: the crisis of contemporary society can be attributed to a failure to find any meaning to give to things; - the connections among diverse or contrasting phenomena (for example, between religion and magic or between high culture and popular culture, or, more generally, between past 11 and present) on which national or community identity is frequently based; - the value of integration among diverse ethnic groups and openness to the other; - the function of law within both democratic and dictatorial regimes; - the marginal, eccentric character (“eccentric” in the sense of “outside the center”) which appears in all persons and events and in avant-garde or innovative ideas; - the marginal character of folk-cultures (which may in fact be a positive advantage) as repositories of traditional knowledge; - the role of contaminatio among differing cultures; - the line between normality and “ab-normality”; - the interpretive and investigative importance of details, which may sometimes yield richer insights into a work of art than its macroscopic aspects; - the boundary between play as a form of pleasure and play as a form of illness; - the potential for powerful innovation implicit in the act of translation, understood as “translating” [tradurre], “handing down” [tramandare], and “betrayal” [tradire] - in a word, rewriting, reinterpreting, recodifying, and hence personalizing a text in a deeply original and unrepeatable form; - the crossing of boundaries as a movement towards knowledge; - the mathematical concept of limits as a value to be striven for; - the process of “trial and error” in scientific research. The Directors and Editors of Lyceum La traduzione in lingua americana del Manifesto del Liminarismo è stata realizzata dal Prof. John C. McLucas, Capo del Dipartimento di Lingue Straniere all’Università “Towson” di Baltimora. Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo 12 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua araba dalla Prof.ssa Maria Albano dell’Università di Macerata Manifest Liminaryzmu 13 Il Manifesto del Liminarismo è stato tradotto in lingua polacca dal Dott. Gennaro Canfora, alto funzionario dell'Istituto Italiano di Cultura a Varsavia. Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo SAGGI 14 il “simbolo tridentino” e la “teologia riformata” In margine alle opere di Alfonso M. de’ Liguori contro le eresie S ulle opere dommatico-erudite di Alfonso M. de’ Liguori. Il 1772 è l’anno in cui Alfonso M. affida alle cure della stamperia di Gianfrancesco Paci di Napoli1 le bozze di una sua ulteriore fatica dal titolo, emblematico e significativo, Trionfo della Chiesa cioè Istorie dell’eresie Colle loro Confutazioni, opera che, opportunamente riletta ed emendata lo stesso anno dal de’ Liguori, vedrà la stampa in edizione definitiva e “a spese Remondini di Venezia” l’anno seguente, vale a dire nel 1773. In quel tempo Alfonso M. era Vescovo di S. Agata de’ Goti, lo sarà dal 1762 al 17752, e già qualche anno prima si era espresso sul tema dell’eresia sia con una Breve dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli, oggidì nominati materialisti e deisti, stampata in Napoli da Pellecchia nel l756, anno coincidente, tra l’altro, con la morte di uno dei suoi più importanti maestri di dogmatica e di morale, il canonico Giulio Nicola Torno, sia con un’Opera dommatica contro gli eretici pretesi riformati, stampato in Napoli ancora dal Paci nel 1769 e corredata da due appendici pubblicate a parte, ma con la stessa data, e contenente i seguenti titoli: 1) Del modo come opera la grazia nella giustificazione del peccatore e 2) Dell’ubbidienza dovuta alle definizioni del Concilio [di Trento], per conseguenza alla Chiesa cattolica romana, fuori di cui non vi è salute. In una più recente classificazione dell’abbondante, ma non eccezionale, per l’epoca in cui visse, produzione letteraria di Alfonso M. proposta da Francesco Chiovaro, il quale formula la sua proposta, assumendo come punto di partenza la sicura ed ancora oggi accreditata catalogazione offerta dal belga Maurice De Meulemeester nel 19333, almeno due delle tre opere su menzionate, vale a dire l’Opera dommatica e il Trionfo della Chiesa, rientrerebbero tra le «opere dommaticoerudite» del Vescovo di Sant’Agata dei Goti4; mentre, in luogo della Breve dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli, egli colloca in questo nuovo ordine un’altra opera del Santo scrittore, il cui titolo è Verità della Fede contro i Materialisti che negano l’esistenza di Dio, i Deisti che negano la religione rivelata, ed i settari che negano la Chiesa Cattolica essere l’unica vera, edita in Napoli dal Di Domenico nel 17675. Non è possibile in questa sede seguire le esatte motivazioni di queste inserzioni ed esclusioni proposte dal Chiovaro, le quali, indubbiamente, anche da un punto di vista filologico riflettono alcune rilevanti varianti contenutistiche dei testi fatti oggi rientrare tra le opere erudite del moralista napoletano. Ma forse appare importante precisare almeno che alla base di questo nuovo raggruppamento, stilato anche su basi comparative tra le edizioni apparse vivente l’autore e quelle stampate postume, si collocano soprattutto gli «indici» di proposte editoriali, che sembrano muoversi in relazione al momento storico in cui videro la luce e, pertanto, verso i gradi di acculturazione e di sociabilità dei destinatari dei discorsi proposti 15 dal Vescovo di Sant’Agata dei Goti in relazione 6 alla sua articolata opera pastorale . Conviene a questo punto lasciare la parola al Chiovaro ed al suo esercizio di lettura storica. «Come per tutte le opere alfonsiane – scrive il Chiovaro – l’apogeo editoriale delle Opere dommatico-erudite si situa nel secolo XIX; ma l’ultimo quarto dell’Ottocento segna la fine della fortuna editoriale di questo tipo della letteratura alfonsiana: fra il 1871 e il 1876 si registrano le ultime edizioni. Quest’ultima costatazione – precisa il Chiovaro – merita qualche approfondimento. Che le Opere dommatico-erudite si siano stampate durante un secolo costituisce già un grosso successo. E questo fenomeno bisognerebbe spiegarlo. Forse bisognerebbe cominciare col chiedersi se il relativo successo di queste opere alfonsiane non sia indice della povertà dell’erudizione cattolica durante questo periodo: in Italia prima (105 edizioni), ma anche nell’area francofona (48 edizioni) e nei paesi di lingua tedesca (16 edizioni) senza contare con la potenziale diffusione delle traduzioni latine (10 edizioni […])»7. Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo 16 Si ripropone qui per il Chiovaro il problema, del tutto evidente nell’Ottocento, della circolazione e ricezione delle Opere dommatico-erudite di Alfonso M. e del rapporto genealogico che si pone, per ragioni evidentemente storiche, tra questi scritti e le istanze culturali avanzate dalla società del tempo in cui videro la luce: il Settecento. Sappiamo che dell’Opera dommatica, vivente l’autore, se ne stampò una sola edizione; che anche del Trionfo della Chiesa cioè Istorie dell’eresie, ancora vivente l’autore, se ne stampò una sola edizione; infine, che della Verità della Fede contro i Materialisti, in vita l’autore, se ne stamparono ben tre edizioni8. Quindi, se ne deduce che i primi due argomenti, nonostante il carattere pastorale e lo stile divulgativo, non ebbero quella penetrazione attesa in mezzo alla società del tempo. Indiscutibilmente, l’operetta che ebbe un certo successo editoriale è la Verità della Fede contro i Materialisti, che dovette in qualche misura meglio rispondere ai bisogni spirituali e, soprattutto, culturali del tempo. Abbiamo prima richiamato il canonico Giulio Nicola Torno, maestro di Alfonso M. di dogmatica e di morale presso il Seminario napoletano, Studium profondamente rinnovato e non solo nella docenza teologica dal cardinale Cantelmo Stuart9. Sarà proprio il canonico Torno, com’è noto, nella sua qualità di “amico, estimatore e revisore ecclesiastico di Giambattista Vico, a trasmettere ad Alfonso M., da un lato, la più chiara comprensione dell’opera del Vico “giudicato ‘oratore’, ‘giureconsulto’, ‘erudito’ nonché ‘theologus’, mentre dall’altro, ha notato il Giannantonio, «quell’atmosfera intellettuale opposta a quella dei Caravita, perché il Torno era curialista o antiregalista intransigente»10. Sarà ancora il Torno che consiglierà ad Alfonso M. di leggere la Medulla Theologica di Louis Abelly (1604-1691), «che con metodo cartesiano esponeva idee essenziali e distinte», mentre per la morale suggeriva al de’ Liguori la Théologie morale di François Genete (1640-1703) di indirizzo probabiliorista11. Così facendo l’antigiansenista Torno avvezzava i suoi allievi alla tolleranza per la dogmatica e al rigore per la morale. Ora, personaggi anche apparentemente così lontani gli uni dagli altri come il Torno, l’Abelly, François Genete offrono una comune lezione di cultura, su cui Alfonso M., homo seriosus, costruirà la sua breve, ma intensa riflessione/confutazione sui “materialisti e i deisti”, proponendo per questa specifica circostanza l’idea di una nuova “eresia”, specialmente con riferimento al “Deismo”, che nega la “rivelazione” come fatto del pensiero, ma anche come negazione della mediazione di un Dio creatore del mondo e ispiratore nell’uomo dell’anima immortale12. D’altra parte, ben conosciamo la posizione teorica del Vico, a cui Alfonso M. pur Giambattista Vico si ricondusse e non solo per 13 via del Torno , e la sua decisa opposizione al metodo razionalistico proposto dal Cartesio. Proprio in sintonia con il pensiero del Vico, per Alfonso M. il metodo matematico-deduttivo, come risultato del filosofare, non riusciva a dar conto dell’autonomia del “probabile” e del “verosimile”, elementi della speculazione che venivano, per converso, ben espressi dall’eloquenza, dalla retorica, dalla poesia. Pertanto, per Alfonso M. il “materialismo” ed il “deismo” si presentavano come aspetti della demagogia del suo tempo e, quindi, come negazione dell’ordine costituito e rappresentato dalla Santa Chiesa Cattolica14. I “confini” dell’eresia. L’idea dell’«eresia» intesa come «demagogia» ha una lunga storia in età moderna, ma che in pieno Illuminismo settecentesco si mostra – forse per la prima volta in maniera evidente – come problema da storicizzare non in relazione al passato storico, ma al presente «riformato» da comprendere soprattutto a partire dalle sue stesse radici. In questa direzione si muovono alcune considerazioni di Alfono M. verso i «latitudinaristi»15. Il terreno sociale su cui si innestava il concetto di “riforma”, poi, – riecheggiando qui le tesi classiche avanzate da Reinhart Koselleck nella sua Critica illuministica e crisi della società borghese del 195916 – implicava un processo di ammodernamento laico della società, schema interpretativo, questo, dominante tra i philosophes settecenteschi, al cui vertice si collocava il pensiero illuminato mediato dall’azione dello Stato, la cui opera combatteva un’aspra battaglia contro la onnipotenza del clero e la manomorta ecclesiastica, cacciando i Gesuiti (1773, l’ordine venne soppresso da Clemente XIV), diminuendo di assai il numero dei conventi e degli ecclesiastici, imponendo una legislazione giusrisdizionalistica mirante a colpire anche, ma in maniera certamente più morbida, i ceti feudali. Questi temi si ritrovano, per così dire, diluiti nella materia dogmatica e con un elevato grado di erudizione da Alfonso M. nella Verità della fede contro i materialisti che negano l’esistenza di Dio, i deisti che negano la religione rivelata, ed i settari che negano la Chiesa Cattolica essere l’una vera. Un’opera che oggi sarebbe possibile definire di stringente attualità culturale e politica per l’epoca in cui vide la luce, dove Alfonso M. riprende il tema della “Verità della fede” contro i “materialisti”, i “deisti” ed altri settari, ai quali rimprovera di negare, tra l’altro, che la Chiesa cattolica fosse l’unica vera Chiesa voluta da Cristo17, confutando inoltre alcune opere, una delle quali era quella di Helvétius intitolata l’Esprit, di chiara ispirazione volteriana, dove si conteneva il motivo antropologico, etico e politico della “materia pensante”, che aveva nella stessa Francia suscitato le reazioni della Sorbona. Ma è in quest’opera che si esprime soprattutto una interessante analisi della patogenesi della società del tempo in cui viveva Alfonso M. ed è qui che viene espressa dal moralista napoletano una precisa posizione di avversione contro chi pretendeva, partendo dal principio di un ordine cosmico naturale, una contrapposizione tra società, Stato e Chiesa cattolica. Del resto, non si dimentichi che Alfonso M. rivestiva i panni del missionario, del predicatore, del Pastore e del fondatore di un ordine religioso, che per il Tanucci “odorava” di gesuitismo, i cui compiti lo impegnavano anche in una rigorosa valutazione scritta della morale sulla politica, del privato sul pubblico e, quindi, sulla assoluta pos- Lutero brucia la scomunica sibilità e capacità di organizzare e di pianificare la realtà sociale, cui era soggetta, ma sempre nel rispetto dell’ordine ecclesiastico romano. È qui che si coglie nella sostanza – come ha ben visto Giuseppe Galasso – uno dei sensi più profondi contenuti nelle Riflessioni utili a’ Vescovi per la prattica di ben governare le loro Chiese, operetta scritta da Alfonso M. nel 1745. Ciò sarà visibile anche e soprattutto durante il suo episcopato in Sant’Agata dei Goti. Ermeneutica dei riformatori. In un interessante contributo dedicato alla figura di Lutero nella cultura italiana del Settecento, Daniele Menozzi ben sottolinea come in quest’epoca in Italia «l’urgenza della lotta controriformistica sia ancora così vivamente avvertita da impedire ogni sforzo di storicizzazione del contesto della riforma, dal momento che poteva suonare come pericolosa concessione dell’avversario»18. Aggiungiamo, inoltre, che l’immagine dei riformatori Lutero, Calvino, ma non diversamente Zwingli ed altri, emergente dalla complessiva letteratura controversistica del tempo, ribadiva, nella sostanza, l’inclinazione libertina e sovversiva di questi personaggi, il cui animo, individualmente assunto, tendeva a liberarsi dai rigori della vita ecclesiastica e a dedicarsi ai piaceri della vita materiale e alla disorganizzazione della società. Questo imperante punto di vista si raccoglieva tanto nel manuale della Historia ecclesiastica di Amat de Graveson (1721) 19 Lyceum Maggio 2011 17 Strumenti/Liminarismo 18 quanto nell’Istoria di tutte le eresie […] compendiata ed accresciuta da G. Lancisi nel 173320. La continuità dei tradizionali modelli interpretativi dei riformatori Lutero, Calvino ed altri, subisce qualche sensibile mutamento tra il primo ed il secondo Settecento nel contesto cattolico italiano e ciò per effetto – ha scritto il Menozzi – anche delle «traduzioni delle storie ecclesiastiche di Claude Fleury e B. Racine»21, dove un Calvino, ad esempio viene presentato con un maggior controllo critico, venendo addirittura accreditato, al pari di Lutero, come uomo di non comune sapere teologico. Non va qui sottaciuta, inoltre, l’importante traduzione italiana del Dizionario delle eresie del Pluquet curata dal Contin22, opera in cui Calvino e Lutero si presentano, tra gli altri, come uomini dotati di logica e orientati ad eliminare dalla Chiesa cattolica ogni forma di abuso e di scandali, ma che poi avevano, comunque, oltrepassato ogni limite di sopportabile carità cristiana e dato mostra di eccessivo orgoglio23. Per converso, ben conosciamo la decisa opposizione del Giannone ai dogmi intransigentemente sostenuti da Lutero e Calvino e ciò lo avvicina molto all’eredità della Controriforma su questi temi. In Muratori, invece, la prospettiva interpretativa dei Riformatori, con speciale riferimento a Lutero e a Calvino, «si sposta da oggetto di controversia teologica a terreno per l’indagine storica»24, traslazione concettuale, i cui riflessi si avvertono anche nell’esame dottrinale condotto dal Genovesi nel volume Universae christianae theologiae elementa dogmatica historica critica, apparso postumo. Eresie, eretici e processi. L’esame filologico della Bibbia, che ancora in pieno Settecento mancava, tra l’altro, di un’adeguata esegesi, portò Alfonso M. a ritenere la storia come una moltitudine di processi, più o meno obbligati, da cui derivavano, come causa diretta o indiretta, gli eventi materiali ed ideologici che, pervadendo l’uomo, lo Pietro Giannone attraversavano e ne definivano la sua condizione soggettiva. Tutto ciò, dobbiamo precisare, in perfetta sintonia con il pensiero giuridico napoletano ben orientato da Giambattista Vico e da Pietro Giannone. Del resto, vale la pena qui ricordare come il de’ Liguori, fu discepolo di Domenico Aulisio (1639-1717), giurista indirizzato alla storicizzazione della realtà e ad una genesi concreta del diritto25. Alfonso M. visse, ed intensamente, le premesse e le conseguenze del rinnovamento culturale napoletano della piena età moderna, le cui premesse si annidavano nel Seicento, il secolo della crisi, per intenderci, ma anche il tempo della rinascita delle Accademie – si pensi, per fare un solo esempio, all’accademia di Medinacoeli – del rinnovamento linguistico e delle nuove eresie. Circolavano le opere di Gassendi, di Cartesio, di Galilei e l’ipotesi atomistica aveva prodotto i Novatori, ben presto accusati di ateismo. Ma il dibattito culturale tra Sei e Settecento proponeva essenzialmente e per voce dell’Aulisio, maestro di erudizione oltreché di diritto, l’esame dei fatti in luogo delle teorie. Da qui ne risultava la «valorizzazione della storia con inevitabili riferimenti alla Chiesa, alle sue secolari vicende e segnatamente agli eventi delle sue origini evangeliche»26. Vigeva, inoltre, il problema del giansenismo. Dibattuto appariva il tema della teologia scolastica e la sua validità. Ricche d’inquietudini e d’intrecci con la scuola giurisdizionalistica si presentavano, poi, le diverse controversie sulle origini stesse della Chiesa, ripresentando un’accesa discussione sulla metafisica e sulla condizione ecclesiastica. Non ai margini di tutto ciò, ma al lato di questi dibattiti si muoveva una corrente di pensatori che cercava una certa conciliabilità tra la “nuova scienza” e la fede cattolica, operando delle serie distinzioni tra tradizionalismo scolastico e conservatorismo ecclesiastico. Espressione matura e, dunque, erede di questa corrente di pensiero, fu senz’altro l’opera pastorale e teologico-morale di Alfonso M., il quale si muoverà, come ben mostra il suo operato nella qualità di Vescovo di Sant’Agata dei Goti, ma non solo in quella circostanza, nel segno sia di un rinnovamento delle strutture ecclesiastiche di sua pertinenza, sia nello spirito di affermazione della predicazione itinerante come valore dell’apostolato. In questo sia pur rapido quadro di riferimento si coglie il senso dell’Opera dommatica contro gli eretici pretesi riformati, stampato in Napoli da Paci nel 1769 e corredata da due appendici pubblicate a parte, ma con la stessa data, e contenente i seguenti titoli: 1) Del modo come opera la grazia nella giustificazione del peccatore e 2) Dell’ubbidienza dovuta alle definizioni del concilio [di Trento], per conseguenza alla Chiesa cattolica romana, fuori di cui non vi è salute. Alfonso M., da giurista quale era e da buon allievo dell’Aulisio, in quest’opera – su cui manca ancora una attenta riflessione storica – si esprime, tra l’altro, contro la Storia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi, argomentando sulla apologia e sulla demagogia del Sarpi e, pertanto, attribuendo allo stesso la responsabilità di aver diffuso la peste dell’errore, ossia l’eresia. Basti qui, per il momento, aver accennato al tema, che riprenderemo più diffusamente in altra sede. Tra eresie e confutazioni. Una ulteriore, anche se ancora rapida osservazione richiede il Trionfo della Chiesa, all’interno della quale ritroviamo pure buona parte delle confutazioni relative all’intransigenza dei dogmi dichiarati dai Riformatori ed in particolare da Giovanni Calvino. In primo luogo occorre dire che l’opera si articola in tre volumi, di cui il primo tratta delle eresie che vanno dai primi secoli della Chiesa fino al secolo XIV (Giovanni Hus, la sua condanna, ecc.); il secondo comprende il periodo che va dal secolo XVI (Lutero, Calvino, ecc.) fino ai Quietisti e alle questioni della “affettata santità” (Molinos, ecc.); il terzo è interamente dedicato alle “Confutazioni” delle varie eresie descritte nei volumi precedenti. Occorre dire subito che l’opera, nel suo insieme, riflette il clima culturale dell’età muratoriana. D’altra parte, questo dato emerge dalle stesse parole del Vescovo di Sant’Agata dei Goti, il quale, nelle intenzioni premesse all’opera, così scrive: «mi ha spinto a dar fuori quest’Opera il vedere, che gli Autori moderni, i quali meglio hanno appurati i fatti, han parlato dell’Eresie, scrivendo essi dell’Istoria universale della Chiesa, come han fatto il Baronio, Fleury, Natale Alessandro, Tillemont, Orfi, Spondano, Rainaldo, Graveson, ed altri; ond’essi – prosegue il Nostro – han parlato di ciascuna Eresia, in diversi luoghi, secondo l’ordine de’ tempi, ne’ quali è uscita fuori quell’Eresia, o ha fatto progresso, o è stata abbattuta; e perciò il Leggitore ha da scorrere diversi luoghi dell’Opera per informarsi della nascita, del seguito, e della sconfitta, che quell’Eresia ha avuta. Io – continua Alfonso M. – all’incontro ho procurato di unire insieme nello stesso luogo tutte le notizie, che a ciascuna Eresia si appartengono»27. Ma appare decisamente interessante seguire ciò che immediatamente dopo scrive Alfonso M., poiché dalle sue stesse parole si evidenzia un ulteriore, interessante carattere dell’iniziativa. «Di più – aggiunge il de’ Liguori – non tutti i nominati Scrittori hanno addotte le confutazioni dell’Eresie; e queste confutazioni io le collocherò nella seconda Parte di quest’Opera. Non prenderò però tutte a confutarle, ma quelle sole che hanno avuto maggior seguito, come sono state quella di Sabellio, di Ario, di Pelagi, di Macedonio, di Nestorio […], degl’Iconoclasti, de’ Greci, e simili. Delle Eresie poi, che hanno avuto minor seguito, accennerò in breve solamente gli Autori, e gli errori, la falsità de’ quali si conosce dalla loro evidente insussistenza, o pure dalla confutazione che addurrò delle altre Eresie più celebri, che poc’anzi ho nominate»28. Dunque, dal contesto affiora chiaro il proposito di Alfonso M., che appare essere quello di Lyceum Maggio 2011 19 Strumenti/Liminarismo Cardinal Querini 20 compendiare, in un’opera sistematica ed organica, su basi comparative e valutative propriamente storiche l’insieme delle eresie e, cosa ancora più interessante, per asserzione dello stesso de’ Liguori viene espressa la necessità di confutare «nella seconda Parte di quest’Opera» alcune delle eresie storicamente documentate. Certo, nel 1756 c’era stata l’opera del cardinale Angelo Maria Querini, espressione di una necessità di avvicinare il contesto dogmatico protestante con quello cattolico29. Ma l’operazione del Querini aveva riscosso scarso successo negli ambienti ecclesiastici30. Più tardi, circa un decennio dopo, il Trionfo della Chiesa, pur servendosi di un titolo che appare un puro espediente retorico, nel suo insieme si ispirava, almeno nella compilazione, al pari del Baronio e della più generale trattatistica controriformata, alla rivendicazione dell’eccellenza della storia sacra sulla profana. In essa si insisteva sull’affermazione della qualità e della verità tracciata dalla scuola cattolica e tridentina sulla rivalutazione dei sacri testi, riproponendo in campo cattolico il rinascere della critica testuale, poco congeniale, per converso, agli eretici Lutero e Calvino, sui quali, però, il moralista napoletano cerca un allargamento delle indagini storiche. In quest’ultimo punto rileviamo un interessante momento di modernità. La Controriforma, infatti, come ben sappiamo, puntando al rafforzamento dell’autorità della Curia romana, aveva, tra i secoli XVI e XVII potenziato e moltiplicato la visibilità della Chiesa cattolica mediante la costituzione di nuovi ordini religiosi o strutture confraternali ad essi affiliate. Ma ciò aveva prodotto un duplice effetto: da un lato, la concreta limitazione e diminuzione dell’autorità e delle autonomie episcopali, dall’altro la frantumazione, nel corso del secolo XVII, dei canoni della trattatistica «istorica» nata come risposta a Flacio Illirico e ai suoi collaboratori. Vi era stato, poi, tutto un immaginifico barocco, che aveva prodotto nel corso del Seicento e parte del primo Settecento un folto fiorire di storie universali della Chiesa, all’interno di ognuna delle quali, sul modello della storiografia rinascimentale, venivano adattati e modellati i fatti storici narrati secondo un criterio egocentrico, che meriterà ai Gesuiti l’appellativo di solipsi, come scriverà Lucio Cornelio Europeo, noto anche come Melchior Inchoffer, nella sua Monarchia Solipsorum scritta nel 1645. Nel Trionfo della Chiesa, invece, la stessa utilizzazione della dogmatica cattolica ritrovava il senso più pieno nella confutazione alle eresie occorse in tutti i tempi, a cui si collegavano, in una sorta di continuità temporale, soprattutto quelle dichiarate da Lutero e da Calvino. Sul vero senso delle Scritture. Scrive Alfonso M.: «Calvino adottò quasi tutti gli errori di Lutero, il quale prima adottati aveva quasi tutti gli errori delle antiche Eresie […]»31. In questo modo Alfonso M., collocando gli errori di Lutero e di Calvino nel passato storico, si avvicina di molto all’idea dell’intuizione cristiana espressa nel Triregno dal Giannone, per il quale la dolorosa miseria della condizione umana si lega all’errore compiuto nel passato e che senza la mediazione sacramentale propria dei cattolici si traduce in atto di fiducia nelle capacità dell’uomo, da cui deriverebbe il fervore della Riforma32. «Circa la sagra Scrittura – scrive il Vescovo di Sant’Agata dei Goti – Calvino nel suo libro contra il Concilio di Trento per I. toglie alla Chiesa l’autorità d’interpretare, e giudicare del vero senso delle scritture […]»33. Riaffermato il valore divino della Scrittura, avendone confutati alcuni precisi dogmi enunciati da Calvino, restava aperto ad Alfonso M. il grave problema dei rapporti esistenti tra la filosofia e i «Libri sacri approvati dal Concilio». Inoltre, la riduzione del Cristianesimo ai dogmi dell’Incarnazione del Verbo, della resurrezione dei morti nel giorno del giudizio, della vita eterna successiva, assumeva nell’ottica di Lutero e di Calvino, secondo Alfonso M., un preciso significato politico, in quanto minava alle basi la potenza mondana della Chiesa cattolica. Ma questa semplificazione del contenuto della fede riduce sensibilmente, secondo il Vescovo di sant’Agata dei Goti, la possibilità di un accordo tra religione e filosofia. Qui Alfonso M. cerca di rintracciare in Calvino, ma anche in Lutero, in perfetta sintonia con lo schema generale della sua opera dedicata alle eresie, elementi epicurei, materialistici, stoici, rintracciabili anche nelle posizioni gassendiane e cartesiane, la cui rigidità rende impossibile ogni accordo fra filosofia “moderna” e Scrittura. Per Alfonso M. la ragione non escluderebbe la fede, a condizione che la ragione si subordini alla Tradizione dettata dai Sacri Canoni. Alfonso M. rimprovera, ad esempio, a Calvino di essere troppo“conchiuso” nei suoi principi, nei suoi dogmi, «pertanto», annota il moralista napoletano, «dice Calvino che i Sagramenti non han virtù di conferir la grazia, ma solo di eccitar la fede, siccome la predicazione della Divina parola; e perciò si burla de’ termini ex opera operato, come noi diciamo; dic’egli, esser questa un’invenzione di Monaci ignoranti»34. A differenza di Calvino per Alfonso M. la verità della fede può essere raggiunta una volta per tutte. Essa non è sottoposta ad alcuna prescrizione di tempo, ad alcun patrocinio di persona, né a qualunque privilegio di nazione. Qui viene affermata, in opposizione a Calvino il valore storico di una verità eterna, che il tempo può riscoprire. La Chiesa cattolica, perciò, si pone come depositaria di verità rivelate e deve, pertanto, ottenere obbedienza assoluta. Quando cadono dubbi sopra alcuni punti di fede già rivelata, nota Alfonso M. nel confutare a Calvino la derisione del «carattere sagramentale che s’imprime per lo 1 In una lettera del 27 marzo inviata al Remondini di Venezia, Alfonso M. parlava del Paci definendolo “il mio stampatore”. Cfr. O. Gregorio, Valore critico delle edizioni Remondini e Paci, in S. Alfonso M. de Liguori, Opere Ascetiche, a cura di O. Gregorio, G. Cacciatore, D. Capone, Introduzione Generale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1960, p. 80. 2 Su questo periodo cfr. M. Campanelli, Centralismo romano e «policentrismo » periferico. Chiesa e religiosità nella Diocesi di Sant’Alfonso Maria de Liguori, Milano, Franco Angeli, 2003. 3 Bibliographie de st. Alphonse M. de Liguori, première partie, Louvain/La Haye, Imprimerie St-lphonse/ Nijhoff,1933. 4 F. Chiovaro, Sincronia e diacronia della tradizione in S. Alfonso M. de Liguori, in Alfonso M. de Liguori e la società del suo tempo. Atti del Convegno internazionale per il Bicentenario della morte del santo (1787-1987), Napoli, S. Agata dei Goti, Salerno, Pagani 15-19 maggio 1988, a cura di P. Giannantonio, Firenze, Olschki, 1990, pp. 139-160: qui pp. 144-145. 5 Ivi, p. 145. 6 Su cui cfr., tra gli altri numerosi contributi quelli di A. De Spirito, A. Marranzini e M. Campanelli, in La figura e l’opera di Alfonso de Liguori nel Sannio, a cura di A. De Spirito, Milano, Ancora, 1999. Più di recente sul rapporto tra dottrina e pratica pastorale di Alfonso M., intravista, però, attraverso le suggestioni prodotte in don Giueppe De Luca e Gabriele De Rosa, si veda A. De Spirito, Sant’Alfonso, san Gerardo, don Giuseppe De Luca e lo storico Gabriele De Rosa, in «Spicilegium Historicum Congregationis SSmi Redemptoris», 58 (2010), fasc. 2, pp. 229-279. 7 F. Chiovaro, Sincronia e diacronia della tradizione in S. Alfonso M. de Liguori, cit., pp. 147-148. 8 Ivi, pp. 144-145. 9 Cfr. A. M. Tannoia, Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso M. Liguori vescovo di S. Agata de’ Goti e fondatore de’ preti missionari del SS. Redentore, rist. anast., Materdomini Valsele, Tipografia Materdomini, 1982, p. 168-71. Per «gli anni di Seminario» cfr. anche T. Rey-Mermet, Il santo del secolo dei lumi. Alfonso de Liguori (16961787), Roma, Città Nuova,1983, pp. 165-191. Sul Torno e la sua incidenza intellettuale su Alfonso de’ Liguori cfr. le rapide, ma puntuali indicazioni in D. Capone, Le citazioni nelle opere ascetiche di S. Alfonso, in Opere ascetiche. Lyceum Maggio 2011 21 Strumenti/Liminarismo Battesimo, la Cena, e l’Ordinazione»35, la Chiesa nel deciderli non può errare, perché allora decide come congregazione nella quale presiede lo Spirito santo, che non può errare. Inoltre, l’enorme semplificazione introdotta da Calvino nella dogmatica ridurrebbe, per Alfonso M., di molto le competenze della Chiesa e ciò non potrebbe mai essere. In definitiva, per concludere qui queste noterelle su di una ricerca appena iniziata e ancora tutta da volgere, intento di quest’opera di Alfonso M. è di far vedere 22 «che la Chiesa Cattolica Romana è fra tutte le altre Chiese l’unica vera, dimostrandosi la cura, che Dio ne ha tenuta, facendola sempre restar vittoriosa contra tutte le persecuzioni de’ suoi nemici»36. E ciò è in continuità con una lunga tradizione ecclesiastica, le cui radici affondano le proprie basi nella logica della Controriforma. Alfonso Tortora Università di Salerno Introduzione Generale, cit., pp. 291- 388, in particolare pp. 341- 343 e nota n. 1, senza dimenticare dello stesso autore, Primi incontri di s. Alfonso con la filosofia, in O. Gregorio, D. Capone, A. Freda, V. Toglia, S. Alfonso de Liguori. Contributi bio-bibliografici, Brescia, Morcelliana, 1940, pp. 169 ss. 10 Cfr. P. Giannantonio, A.M. de Liguori e la cultura del suo tempo, in Alfonso M. de’Liguori e la società civile del suo tempo, cit., p. 16. 11 Ibidem. 12 Cfr., su ciò, R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori e la filosofia del Settecento, in Alfonso M. de’Liguori e la società civile del suo tempo, cit., pp. 127-138. 13 Sul punto cfr. A. Battistini, Convergenze e divergenze culturali tra Vico e de Liguori, in Alfonso M. de Liguori e la civiltà letteraria del Settecento, Atti del Convegno internazionale per il tricentenario della nascita del Santo (16961996), Napoli 20-23 ottobre 1997, a cura di P. Giannantonio, Firenze, Olschki, 1999, pp. 269-295. 14 R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori, cit., pp. 131-132. 15 Alfonso M. de Liguori, Breve dissertazione contra gli errori de’ moderni increduli, cit., p. 47, su cui v. le considerazioni di R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori cit., pp. 134-135. 16 Trad. it. Bologna, il Mulino, 1972. 17 Cfr. R. Franchini, Alfonso Maria de Liguori, p. 130. 18 D. Menozzi, Lutero nella cultura italiana del Settecento, in Lutero in Italia. Studi nel V centenario della nascita, a cura di L. Perrone, introduzione di G. Miccoli, Casale Monferrato, Marietti, 1983, p. 145. 19 Romae, apud F. Gonzagam, 1717-1721. 20 Roma, per Girolamo Mainardi, 1733. 21 D. Menozzi, Lutero nella cultura italiana del Settecento, cit., p. 156. 22 F. A. Pluquet, Dizionario delle eresie, degli errori, e degli scismi: o sia memorie per servire all’Istoria degli Sviamenti dello Spirito umano rapporto alla Religione Cristiana, a cura di T. A. Contin, Venezia, presso Gian Francesco Garbo, 1771 (ediz. seconda, «corretta ed aumentata di un Sesto Tomo intorno le Frodi degli Eretici dello stesso Traduttore»). La prima edizione è del 1767. 23 D. Menozzi, Lutero nella cultura italiana del Settecento, cit., p. 157. 24 Ivi, p. 150. 25 P. Giannantonio, A.M. de Liguori e la cultura del suo tempo, cit., p. 9. 26 Ibidem, p. 13. 27 Alfonso M. de Liguori, Trionfo della Chiesa […], Napoli, Paci, 1772, pp. 9-10. 28 Ivi, p. 10. 29 Su cui cfr. C. Castelli, Il card. Angelo Maria Querini, in «Brixia sacra», 12 (1920), pp. 103-137. 30 Ciò si collocherebbe come indice dei dissapori esistenti tra il cardinale Querini e papa Benedetto XIV. Sul punto cfr. C. Castelli, Il card. Angelo Maria Querini, cit. 31 Alfonso M. de Liguori, Trionfo della Chiesa, cit., II, p. 487. 32 Cfr. B. Vigezzi, Pietro Giannone riformatore e storico, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 255. 33 Alfonso M. de Liguori, Trionfo della Chiesa, cit. p. 487. 34 Ivi, p. 494. 35 Ibidem. 36 Ivi, I, p. 1 Antropologia e psicoanalisi Un alimento liminare: la cioccolata “A dangerous temptation?” B reve storia del cacao dall’anno Mille a.C. alla scoperta dell’America. ll cacao entra nella storia del genere umano prima dell’anno mille a. C., nella regione del Centroamerica. Gli Olmechi, stabilitisi in un’area corrispondente al Messico centro-meridionale, furono la prima popolazione civilizzata del Mesoamerica ad utilizzarla; la loro civiltà prosperò tra il 1400 ed il 400 a.C. e ad essa viene attribuita l’usanza del gioco della “pelota” e dei sacrifici umani. Gli Olmechi diedero il nome di “Kakawa” alla pianta del cacao. Fu, però, presso le popolazioni dei Maya e degli Aztechi che si diffuse grandemente l’uso del cacao. I primi agricoltori di cacao furono i Maya; questa antica civiltà, che si è estinta per cause misteriose nel X secolo d.C., occupò la parte meridionale dell’attuale Messico e della penisola dello Yucatan. Secondo una leggenda, il cacao sarebbe stato introdotto per volontà del loro terzo re Hunahpu ed abitualmente veniva consumato come bevanda calda. Gli Aztechi furono una popolazione di origine settentrionale, tribù dei Nahua. In nahuatl, il linguaggio nativo degli Aztechi, “Azteco” significa “colui che viene da Aztlan“, terra degli aironi: una regione mitica nel nord del Messico. Gli Aztechi si riferivano a loro stessi come Mexica o Tenochca: l’uso del termine “aztechi” come nome generico per designare tutte le genti accomunate da tradizioni, abitudini, religione e lingua ai Mexica è stato introdotto dal geografo tedesco Alexander von Humboldt. Gli Aztechi occuparono tutto il centronord dell’attuale Messico, fondando la città di Tenochtitlan, l’odierna Città del Messico. Questa fu costruita, secondo la leggenda, verso il 1325 o il 1370 su un’isola del lago Texcoco e fu la prima sede della monarchia azteca, iniziatasi con Lyceum Maggio 2011 23 Strumenti/Liminarismo 24 re Acamipichtli. I Mexica erano soliti Anche la cioccolata era una bere la cioccolata fredda e, nella bevanda riservata a nobili, sacerdoti loro lingua Nahuàtl, chiamavano e guerrieri. Questa meravigliosa beil cacao “cacahuatl” e la cioccolata vanda era usata anche in cerimonie “xoxocoatl”. L’etimologia delle pareligiose, venendo accostata alla role “cioccolato” e “cioccolata” podivinità Xochiquetzal, o Ichpuchtli, trebbe derivare dall’accostamento che, secondo la mitologia azteca di due termini di lingua azteca: xoc, è il nome della dea dei fiori, della il rumore che la bevanda provoca fertilità, dei giochi, della danza e quando viene sbattuta per ottenere dell’agricoltura, oltre che degli artila schiuma, e atle, l’acqua che si giani, delle prostitute e delle donne aggiunge al cacao per ottenere la incinte. Secondo la tradizione l’imbevanda insieme a spezie o pepeperatore Moctezuma II beveva fino Alexander von Humboldt roncino, mancando lo zucchero, a 50 tazze di cioccolata al giorno ed sconosciuto agli Aztechi. una, sempre, prima di accedere alla stanza di una L’alimentazione azteca comprendeva ceredelle sue favorite. Presso le popolazioni mesoaali, fagioli, chili e pomodori, che sono tuttora mericane pare si svolgessero veri e propri riti di importante parte della dieta Messicana. Inoltre, culto durante l’operazione della coltivazione del gli Aztechi pescavano gli Acocil, piccoli crostacei cacao: il cibo degli dei consacrava un’alleanza che abbondavano nel lago Texcoco, nonché tra l’uomo e la divinità; durante tutto il periodo alghe dalle quali ricavavano una sorta di torta. della coltivazione del cacao l’intera popolazioTra gli alimenti erano preminenti gli insetti, ne si sentiva coinvolta in una totale astinenza come grilli, vermi, formiche, larve, utili per la sessuale a cui facevano seguito, al momento loro abbondanza di proteine, e ancora oggi della raccolta, delle cerimonie orgiastiche che considerati una prelibatezza in alcune parti del andavano a rispecchiare quell’unione tra Dioniso Messico. In particolare, erano e sono tuttora oge l’uomo. Questi sono esempi della tradizionale e getto di allevamento, nel Lago Texcoco e in altri leggendaria potenza afrodisiaca della cioccolata, laghi salati, alcune specie di cimici acquatiche, che verrà poi confermata, nei secoli successivi, da note con il nome di axayácatl, e le cui uova sono famosi personaggi. utilizzate per produrre l’ahuautle, il ricercato In relazione alla loro esigua disponibilità ed “caviale messicano”. alla importanza e valore (nutritivo e simbolico) Gli Aztechi utilizzavano in modo estensivo del loro prodotto, i semi del cacao erano usati l’agave americana, dalla quale ottenevano cibo, in operazioni di scambi commerciali e, per un zucchero, nonché fibre per corde e vestiti. Dalla certo esteso periodo della loro storia, il cacao rappianta si ricavava infine il pulque, una bevanda presentava per loro quella che per noi è oggi la fermentata con un contenuto alcolico paragonamoneta, un vero e proprio “oro nero”; naturalbile a quello di una birra, e liquori quali Tequila e mente più grossi erano i semi più valore essi Mezcal che contiene all’interno un piccolo verme, avevano: così, ad esempio, per l’acquisto di un che deriva da una larva che vive nell’agave. Tali tacchino o di uno schiavo occorrevano circa 100 bevande alcooliche erano riservate alla sola semi grossi; mentre una dozzina erano necessari classe dei nobili e dei sacerdoti; il resto della poper guadagnarsi la compagnia di una prostituta e polazione poteva bere solamente nel corso delle 10 per l’acquisto di un coniglio. Ai semi più piccoli cerimonie religiose (ciò era concesso anche ai spettava invece una funzione più propriamente prigionieri prima di essere sacrificati). Ubriacarsi gastronomica o anche farmaceutica: gli Aztechi prima dei 60 anni era comunque proibito; per le se ne servivano come ricostituenti oppure li prime violazioni vi era una certa tolleranza, ma utilizzavano per risanare le piaghe. l’ubriachezza ripetuta era punibile con la morte. 1502: un anno liminare per la gastronomia riconducibile ad un antico rettile volante del europea. La data ufficiale della “scoperta del tardo Cretaceo, il Quetzalcoaltlus il cui nome cacao” è il 30 luglio 1502, giorno in cui gli Aztederiva appunto da Quetzalcoatl. I resti fossili chi, andati incontro alla Santa Maria, offrirono di questo pterosauro gigante sono stati rinvea Cristoforo Colombo, durante il suo quarto e nuti per la prima volta negli anni ’70, e furono ultimo viaggio alla ricerca dell’oro, oltre a tessuti descritti da Douglas A. Lawson nel 1975. I ritroe cuoio lavorato, anche la loro moneta, cioè i vamenti erano molto frammentari, ma le poche semi di cacao. ossa degli arti, paragonate a quelle del grande Alla storia del cacao e della conquista delle Pteranodon, furono sufficienti a ricostruire uno Americhe è legata anche la leggenda del dio pterosauro dall’apertura alare di circa 18 metri, Quetzacoàltl (Kukulkan in Maya) che letteralovvero un’apertura alare pari a quella di un cacmente significa serpente con piume di Quetzal. ciabombardiere, dal collo smisuratamente lungo, La mitologia narra che il Dio possedesse un imcon il cranio che doveva essere molto più grosso menso tesoro composto da tutte le ricchezze del di quanto precedentemente ipotizzato, ma di mondo, oro e argento, pietre verdi chiamate chalcostituzione leggera e fornito di una cresta, che chiuitl ed altri oggetti preziosi, come una grande avrebbe potuto giustificare l’impressione della abbondanza di alberi di cacao di diversi colori. presenza di piume. La leggenda narra che, quando Quetzalcoàtl era Tuttavia solo alcuni anni dopo gli europei ancora un re, a causa di una grave malattia che lo avranno modo di apprezzare questo cibo divino; aveva colpito, venne spinto a bere una pozione così infatti, nel 1753, Carl Linnaeus (1707-1778) che anziché guarirlo lo portò alla pazzia: egli fuggì chiamò la pianta del cacao : “Theobroma cacao allora verso il mare su una zattera di serpenti linn”, a conferma della bontà del suo frutto intrecciati. Nel fare ciò Quetzalcoàtl promise che (“ες” «dio» , “ρµα” «cibo»). Furono i monaci 25 avrebbe fatto ritorno per riprendersi il suo regno spagnoli, grandi esperti di miscele e infusi, a sonell’anno posto sotto il segno del “Ce-acatl”. stituire il pepe e il peperoncino con lo zucchero e Secoli più tardi, nel 1519, anno sotto il segno del la vaniglia creando una bevanda dolce e gustosa; “Ce-acatl”, una grande nave carica di uomini con ai monaci spagnoli va anche il merito di aver sotscintillanti armature con scaglie di serpente ed tolineato l’alto potere nutrizionale del cioccolato. elmetti piumati, fece la sua comparsa vicino alla In Toscana si cominciarono ad aggiungere alcuni costa orientale del regno azteco. particolari ingredienti: le scorze fresche di cedrata Immediatamente l’imperatore Montezuma e limoncello, aromi di gelsomino, cannella, ambra credette alla profezia, pensando che lo spagnolo e muschio. fosse la reincarnazione del “Serpente piumato” ed Protagonista indiscussa era la cioccolata al accolse pacificamente quella nave gelsomino del Granduca Cosimo III pronto a restituire il regno al Dio dei Medici, inventata nel Seicento Quetzalcoàtl (che nella tradizione dallo scienziato Francesco Redi e era bianco ed aveva una fluente da considerare come il primo vero barba). Fu così che Hernàn Cortès esperimento di ingegneria botanied i suoi uomini furono accolti con co-culinaria. La sua preparazione, grande sfarzo e vennero offerti infatti, era stata descritta in una molti doni quali oro, argento, pietre ricetta che elencava in dettaglio inpreziose, schiave e… cesti pieni di gredienti, dosi e procedimento, ma semi di cacao, accompagnandoli proprio per tale motivo divenuta un con coppe di oro piene di cioccolata vero e proprio segreto di stato tanto offerta da bere. che poteva essere gustata solo alla Secondo alcuni, il mito di Quetcorte del granduca. La cioccolata Carlo Linnaeus zalcoàtl aveva un’origine reale era particolarmente gradita alla Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo 26 corte del re Sole, dove se ne apprezzavano anche le qualità afrodisiache: Madame de Pompadour soleva mescolarla all’ambra grigia, mentre Madame du Barry la offriva ai suoi amanti. Goethe, dal canto suo, non viaggiava mai senza portare con sé la sua cuccuma per la cioccolata. Nell’Inghilterra del ‘700, i Quaccheri detenevano il primato di maestri cioccolatai: osteggiati in tutti i lavori tradizionali, trovarono in quel nuovo mestiere il loro lucroso rifugio. Inoltre, consideravano il cioccolato una valida alternativa all’alcool e, per sanare la piaga dell’alcolismo, crearono e diffusero in tutto il paese le “Sale da cacao”, antagoniste delle peccaminose birrerie. L’italiano Giacomo Casanova (1725 - 1798) era solito “stimolare” le sue performances erotiche bevendo tazze di cioccolata. L’elenco di personaggi famosi “affezionati” al cacao continua ancora per arrivare ai maestri cioccolatieri: in Olanda Coenraad Johannes van Houten (1801, Amsterdam - 1887, Weesp) inventa una macchina per estrarre il burro di cacao, la bevanda comincia a diventare più fluida e quindi più gradevole, attraverso l’eliminazione della componente amara del gusto: “Dutch process”; in Svizzera, alla fine del 1800, lo Svizzero Daniel Peter aggiunge al cioccolato del latte condensato, ottenendo un cioccolato al latte di consistenza solida. Sempre alla fine del 1800, un altro svizzero, Rudolph Lindt, sviluppa un metodo nuovo ed originale per raffinare il cioccolato, il risultato è un prodotto finito estremamente fine: è il cioccolato fondente. Un confine incerto: cacao1, cibo divino e remedium o noxa patogena? Resta ora da affrontare il problema se questo cibo divino debba essere considerato una potenziale “noxa” ovvero un “remedium”. Certamente siamo a conoscenza del fatto che tra i vari potenziali “triggers” della crisi emicranica, in particolare tra quelli alimentari, la cioccolata può essere fattore importante e piuttosto frequente. Qui riporto un parziale elenco di “triggers” alimentari: • Formaggi piccanti o stagionati, • Salumi (hot dog, pancetta, prosciutto e salame) • Agrumi • Grassi o fritti • Cioccolato, noci • Glutammato monosodico • Coloranti, additivi • Aringhe marinate, fegatini di pollo • Gelato • Yogurt, panna acida • Carne ed estratti vegetali • Carne di maiale e frutti di mare • Fichi in scatola, fagioli, pomodori • Astinenza di bevande che contengono caffeina (caffè, tè, tutte le “Cola” soft drink) • Bevande alcoliche (vino rosso, birra) • Aspartame, nitriti, solfiti. Del resto qualcuno ha asserito che la cioccolata rappresenta la conciliazione degli opposti, perché è : sia solida che liquida, chiara e scura , dolce e amara, bisessuale (‘’cioccolata’’, una bevanda calda, ‘’cioccolato’‘, tavoletta fredda e dura). Dunque ritengo giusto considerare anche gli aspetti positivi di questo importante nutriente che contiene quasi 380 componenti chimici. Analizziamo alcuni di essi: 1. I Flavonoidi e i lipidi d’origine vegetale (rappresentati dall’acido stearico, palmi- 2. 3. 4. 5. tico ed oleico, presenti nel burro di cacao) esplicano una importante azione antiossidante ed ipocolesterolemizzante. Alcuni suoi componenti esercitano una importante azione protettiva sui denti; il Fluoro è un importante costituente dello smalto, i Fosfati bloccano gli acidi formati dal metabolismo degli zuccheri, i Tannini, contenenti il 6% di polidrossifenolo, inibiscono lo sviluppo di batteri. Il Triptofano che è un amminoacido essenziale ed è fondamentale nella produzione della Vitamina B3, Niacina, e del neurotrasmettitore serotonina. La Teobromina e la Caffeina; fanno parte della classe delle methylxanthine, come la teofillina; tra le due la Teobromina è l’alcaloide principale del cacao (in molta minor misura è presente la caffeina: in effetti un grammo intero di cioccolato al latte non contiene più caffeina di una tazza di caffè tipico “decaffeinato”) ed è presente anche nel tè e nel guaranà. La Teobromina ha un sapore amaro che è responsabile del gusto tipico del cacao; ha effetto stimolante, antiartmico, ipotensivo, antiasma, vasodilatatore (afrodisiaco?). Attenzione a non dare la cioccolata ai nostri cani: in essi (come nei cavalli) può determinare effetti tossici molto pericolosi, quali aritmie cardiache e crisi epilettiche! La Phenylethylamina - PEA -, definita anche anfetamina endogena, è una sostanza amfetaminosimile in grado di favorire il rilascio di Noradrenalina e Dopamina (quest’ultima in particolare nei centri del “reward” mesolimbico), con potenziale effetto di migliorare memoria e tono dell’umore; essa viene catabolizzata da Mono Amine Oxidasi type-b (= phenylethylaminasi); viceversa IMAO-b, quali Selegilina e Rasagilina, farmaci antiparkinsoniani, sono in grado di prolungare l’azione benefica del PEA nella cioccolata. 6. Il Tetrahydrocannabinolo (THC) invece non è significativamente presente nella cioccolata e questo dimostra come non si possa diventare “abusers” farmacologici dalla cioccolata 7. L’Anandamide letteralmente deriva da Ananda ( parola che in sanscrito significa “divina beatitudine”) e Amide; essa è una amide che fa parte della categoria degli Endocannabinoidi (questi si giustappongono agli Esocannabinoidi o Fitocannabinoidi, esogeni, di origine vegetale); tali sostanze interagiscono con recettori di 27 due tipi: CB1 (soprattutto distribuiti nel cervello ed in alcuni organi interni) e CB2 (sulle linfocellule T del sistema immunitario e nel SNC, con azione anti-infiammatoria e immunomodulatrice. Le funzioni degli Endocannabinoidi sono tuttora oggetto di studio, ma probabilmente sono molteplici ed inerenti a meccanismi quali: regolazione dei circuiti cerebrali del vomito, modulazione dell’appetito e della spasticità (sclerosi multipla), attività analgesica, intervento in processi che regolano la memoria, azione anticonvulsivante, vasodilatante e ipotensiva, regolazione dei processi riproduttivi, modulazione della risposta immunitaria, azione antiossidativa , funzione “anti-stress” simile alle endorfine, regolazione dei processi di proliferazione cellulare (tumori) 8. L’ N-oleolethanolamina and N-linoleoylethanolamina rappresentano composti strettamente imparentati con l’Anandamide, essendo in grado di prolungarne gli effetti, rallentandone il metabolismo. Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo A conclusione, voglio ricordare con ammirazione le parole di un grande ricercatore di conoscenza, quale fu Alexander von Humboldt (1769-1859), che, pur mancando delle attuali nozioni, scrisse: “In nessun altro posto la natura ha stipato la più importante quantità di sostanze nutritive in un posto così piccolo come ha fatto con il seme del cacao”. Giacomo Visco Neuropsicologo e Psicoanalista 28 1 “Il cacao merita sicuramente il nome di teobroma (cibo degli Dei)! È cibo e bevanda, è conforto al ventricolo e sferza il cervello: eccita l’intelligenza e nutre riccamente. Conviene ai vecchi e ai giovani, ai deboli e alle persone prostate da lunghe malattie. Per chi lavora, il cacao offre un eccellente cibo mattutino”. Così scriveva nell’800 Paolo Mantegazza, fisiologo, antropologo, patriota e uomo politico italiano, anticipando gli effetti di questa sostanza su cuore e cervello, pur senza conoscerne appieno i componenti. letteratura italiana/1 Un rapporto “in limine” tra sogno e realtà piacere”), non possiamo pensare che tutte le vicende del romanzo veneziano siano state vissute in prima persona dall’autore. Per il “vate” conta solo la verità dell’arte: così il paesaggio toscano de “La sera fiesolana” è il calco di quello umbro che troviamo appuntato in occasione di un suo viaggio ad Assisi. D’Annunzio non solo non ha partecipato al funerale di Wagner, ma non si trovava neppure a Venezia. Ha cominciato a conoscerla e a vagheggiarla attraverso gli scrittori che hanno contribuito a crearne il mito a partire dalla seconda metà del Settecento. Innanzitutto Ruskin, (ne “Le pietre di Venezia” troviamo “Là sono stati 29 lavorati i marmi di mille montagne, e le offerte di mille isole si sono incontrate in un’unica nube d’incenso – e da questa mascherata da questa danza di regni e di tempi è sorta un’unica fantastica armonia marina, la più dolce di quante l’anima umana abbia mai concepito”), la cui suggestione è tanto potente da influenzare profondamente anche Proust, che lo traduce in Francese, e Pater, il quale, parlando di Giorgione, asserisce che tutte le arti aspirano costantemente alla musica; ma anche Barrès che la associa alla morte miasmatica (“La morte di Venezia”), de Régnier che la interpreta come sopravvivenza di un tempo ormai passato (vittima anche lui, secondo i superstiziosi, di quella Ca’ Dario che D’Annunzio definiva “una vecchia cortigiana piegata sotto il peso dei suoi monili”), Diehl che tende a identificarla con Bisanzio (studioso della civiltà bizantina, ha dedicato alla città veneta “Venezia. Una repubblica patrizia”). Lyceum Maggio 2011 Ca’ Dario n un romanzo così sofferto dall’autore e così, per molti versi, disomogeneo come “Il fuoco” sono sicuramente tra le pagine più toccanti e coinvolgenti quelle che descrivono il funerale di Wagner a Venezia. Il protagonista, Stelio Effrena-D’Annunzio, non appare un distaccato osservatore esterno delle esequie, ma un protagonista attivo con i suoi compagni. I particolari così precisi, l’emozione a stento trattenuta creano nel lettore il convincimento che è proprio stato D’Annunzio a portare il feretro o per lo meno che l’autore ha assistito in prima fila al funerale. Il mondo pareva diminuito di valore. Stelio Effrena domandò alla vedova di Riccardo Wagner che... fosse concesso l’onore di trasportare il feretro dalla stanza mortuaria alla barca e dalla barca al carro. Tanto fu concesso. Tuttavia a una lettura un po’ meno ingenua ci si accorge della trasfigurazione epica cui l’evento è soggetto: Wagner è “l’eroe”; la fedele compagna, quasi con stile formulare, viene definita “donna dal volto di neve”, che potrebbe ricordare, tra l’altro, “Isotta dalle bianche braccia”. Ad ingannarci cospira anche la propensione evidente ne “Il fuoco”, ma presente in gran parte della produzione dannunziana, a inserire elementi autobiografici e scritture private che, però, non contribuiscono a ricostruire realisticamente la sua vita, ma a forgiarne il mito. Come non può essere totale l’identificazione con Andrea Sperelli (l’”imaginifico” non era né nobile, né romano come il protagonista de “Il Richard Wagner I D’Annunzio e Venezia Strumenti/Liminarismo 30 Stando alle fonti più attendibili, non ultima Gino Damerini col suo “D’Annunzio e Venezia”, il primo incontro con la città che tanto lo suggestionò avvenne solo nel 1887, ben quattro anni dopo la morte del compositore tedesco. Due furono gli avvenimenti che attirarono il poeta a Venezia: l’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II e l’apertura della Sesta Esposizione nazionale d’Arte. Il primo contatto vero con la città è, quindi, di natura politica e nazionalistica, ma anche pervaso da suggestioni artistiche. Questi due aspetti attraversano tutta la produzione dannunziana da “Il fuoco” a “La nave”. La Serenissima diventa per lui non solo la città d’arte e decadenza, che aveva conosciuto attraverso il filtro della letteratura, ma anche la protagonista del sogno politico di dominio sul mare che trova la sua espressione più enfatica nella tragedia “La nave”. Probabilmente D’Annunzio tornò a Venezia diversi anni dopo, grazie al suo traduttore francese Hérelle, in una veste molto più privata, solo nel ’94. Ma anche qui la confusione tra biografia e letteratura agisce: ne “Il trionfo della morte” Giorgio Aurispa passa due giorni al “Danieli” L’hotel “Danieli” con la sua amante, Ippolita Sanzio. Rivissero di minuto in minuto i due giorni di vita segreta, nell’albergo Danieli, i due giorni d’oblìo, di suprema ebrezza, in cui parevano entrambi avere smarrito ogni nozione del mondo e quasi ogni conscienza del loro essere anteriore. Non mancano particolari realistici (o apparentemente tali): Ricordi il frappé del Danieli, a Venezia? Ah, come mi piace quando scende lento lento a fiocchi! Nei lettori nacque la certezza che anche l’autore avesse soggiornato nel lussuoso albergo veneziano con Barbara Leoni. Se fino al ’94 il fascino di Venezia è soprattutto artistico e letterario, a partire forse da quest’anno entra in scena la più grande attrice italiana dell’epoca, Eleonora Duse: quella che diventerà la Foscarina de “Il fuoco”. Anche qui le leggende abbondano; ci possiamo limitare a menzionarne due: il primo episodio sarebbe avvenuto a teatro nel camerino dell’attrice, dove il poeta l’avrebbe sorpresa in lacrime (recitava ne “La signora delle camelie”) e le si sarebbe rivolto definendola “grande amatrice”; il secondo aneddoto, invece, riguarda un incontro a Venezia tra il giovane, stremato da una notte di vizi, e la Duse che gli avrebbe chiesto di scrivere per il teatro. Sull’autenticità dei due episodi vi sono forti dubbi. Comunque dal sodalizio artistico e sentimentale con l’attrice nasceranno molte delle più importanti tragedie dannunziane e si rafforzerà il rapporto viscerale con la città lagunare, vera protagonista del romanzo; ma ciò che attirerà l’interesse morboso dei lettori sarà soprattutto l’identificazione della coppia Stelio-Foscarina con quella Gabriele-Eleonora. Eppure probabilmente la malia de “Il fuoco” nasce proprio dalla rappresentazione di Venezia, dapprima città ignea e poi della tenebra, del silenzio. Il personaggio della Foscarina trae la sua linfa vitale non solo dal suo amore infelice (il suo senhal è Perdita) o dalla sua rappresentazione nicianamente dionisiaca, ma anche dall’ identificazione esplicitata più volte con la città lagunare: Anch’egli tremava nell’intimo cuore, avendo innanzi a sé le due mire verso di cui si tendeva in quella sera la sua forza come un arco: la città e la donna, entrambe tentatrici e profonde, e stanche di aver troppo vissuto, e gravi di troppi amori, e troppo da lui magnificate nel sogno, e destinate a deludere la sua aspettazione. Venezia e l’attrice sono accomunate dalla loro potenza di seduzione, dalla corrosione del tempo (lei si riconosce nelle statue mutile delle ville sulla Riviera del Brenta) e dai troppi amori, ma anche dall’ossessione del labirinto che percorre tutto Eleonora Duse nella “Signora delle camelie” il romanzo (momento chiave lo smarrimento in quello di Stra) e soprattutto dalla corruzione che nasce dal contatto con la gente: per l’attrice il suo pubblico, per Venezia i turisti dal “piede profanatore”. Anche per Venezia, quindi, può valere quanto Pirandello denunciava per Roma attraverso le parole di Anselmo Paleari ne “Il fu Mattia Pascal”: I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro... Carlo Pica Docente di Lettere Liceo Scientifico “Ugo Morin” Mestre - Venezia 31 Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo letteratura italiana/2 Un romanzo liminare Il tempo materiale Quello in cui si sarebbe dovuto amare e non lo si è fatto U 32 no dei periodi più difficili dell’Italia unita è stato sicuramente quello del terrorismo brigatista. È un periodo da non dimenticare perché l’Italia appare ancora oggi una nazione immatura che non ha voglia di fare i conti fino in fondo con la sua storia e, perciò, come dice Giorgio Vasta, rischia di implodere, tornare al punto di partenza. Il romanzo di Vasta, ambientato negli anni delle Brigate rosse, offre l’occasione per riflettere su questo periodo ma anche sulle occasioni perse, dall’unificazione politica in poi, perché il nostro diventi un paese normale. Tra realtà e letterarietà. Il tempo materiale, pubblicato dalle edizioni minimum fax, è il primo romanzo di Giorgio Vasta, un giovane scrittore siciliano trapiantato a Torino. Primo romanzo, ma opera già matura e di grande interesse, che racconta la vicenda di tre ragazzini palermitani, emuli, nel 1978, delle azioni delle Brigate rosse. La storia in sé non è particolarmente originale, se non per l’età dei tre protagonisti e della loro vittima, tutti poco più che bambini. E, tuttavia, la scelta dell’età rappresenta un elemento di non trascurabile importanza e niente affatto s e co n d a r i o. Anzi, potremmo dire che è un elemento liminare che Giorgio Vasta decide le sorti del romanzo, perché se Nimbo, Raggio e Volo, - gli appellativi sono nomi di battaglia che i ragazzi scelgono per evitare la banalità dei nomi comuni - avessero avuto qualche anno in più, l’opera sarebbe potuta essere derubricata ad una sorta di cronaca di uno dei tanti fatti generati in quegli anni dall’imitazione delle imprese brigatiste e realmente accaduti in luoghi periferici, rispetto ai centri più direttamente coinvolti, della nostra nazione. Ed invece, l’età dei protagonisti fa del romanzo di Vasta un’opera emozionante, metaforica, ma più illuminante di un trattato di sociologia, come si tenterà di spiegare brevemente. Partiamo dunque dal profilo psicologico dei tre ragazzini. Mihaly Csikszentmihalyi, direttore alla Claremont University di California e pioniere della psicologia positiva, sostiene che ognuno deve riuscire a sviluppare il suo potenziale in famiglia, a scuola, sul lavoro per poter allontanare gli spettri dell’aggressività, del terrore e della disperazione. Nel romanzo di Vasta i tre protagonisti danno l’idea di non riuscirci. Il primo a mostrare tutta la carica distruttiva che lo pervade è Nimbo. Fin dalle prime pagine egli mostra la sua attrazione per il male, quando di nascosto tortura con del filo spinato un gatto malandato, denominato lo storpio, al quale la madre, detta lo Spago, porta da mangiare. La scena descritta è violenta nella sua banalità e normalità e ci richiama alla mente analoghe angherie sugli animali alle quali abbiamo assistito da bambini, angherie tali da costringerci a rivedere i diffusi stereotipi sulla bontà dei fanciulli. Per di più, la violenza appare inspiegabile perché non trova una giustificazione nella famiglia, che è tutto sommato normale anche se un po’ amorfa, né nella società palermitana, che in questo romanzo non si presenta con la sua consueta durezza o spietatezza. La violenza nasce in Nimbo stesso, dalla convinzione di essere un eletto e dalla sua logica deformata dall’anaffettività, dal suo essere mitopoietico, come lo aveva definito la sua maestra, fabbricatore di parole che hanno una forza ed un valore in sé, senza che siano legate alle cose e ai sentimenti. Anzi, quando i sentimenti provano ad affacciarsi, Nimbo, almeno in una prima fase, li teme, rifiuta di viverli, come nel caso di una bambina sua coetanea che egli chiama bambina creola della quale preferisce non sapere nulla, per lasciarla nell’indeterminatezza, come un fenomeno, senza l’oltraggio di una storia. A Nimbo, voce narrante del romanzo, di cui non conosciamo il nome reale, si affiancano i due compagni di scuola, Bocca e Scarmiglia, appellati con i nomi di battaglia di Raggio e Volo dal momento in cui i due ragazzi, insieme al protagonista, decidono di passare dalle parole ai fatti e di costituire una cellula combattente sull’esempio di quelle delle Brigate rosse. Raggio e Volo, nonostante tratti in comune con Nimbo, come la passione per la politica, l’avversione per l’ironia, l’idea di superiorità rispetto alle persone dialettofone sulla base delle competenze linguistiche, presentano anche delle caratteristiche peculiari. Volo, per esempio, appare come l’ideologo del gruppo e in un certo senso il leader, colui che riesce a fare un ragionamento partendo da un’intuizione altrui, a trasformare, come dice Nimbo stesso, una scintilla in un falò; Raggio, invece, è più modesto e lo dimostra anche nella scelta del nome di battaglia, da lui giustificata col fatto che il raggio è ciò che mette in comunicazione il centro con la periferia. Tutti e tre i protagonisti, tuttavia, vanno alla ricerca dell’affermazione di sé. E ciò è evidente in alcune pagine centrali del romanzo, quando, dopo un pedinamento, fatto a scopo di esercitazione, di un uomo scelto a caso, prima Raggio e poi Nimbo, incalzano Volo con una serie di domande che servano a definire chi è il nemico. Le risposte sono tanto allucinanti quanto illuminanti: Il nemico perfetto non esiste. Il nemico reale è sempre imperfetto: non è mai perfettamente maligno, mai perfettamente invincibile. Ha tratti mansueti, persino teneri. È vulnerabile. L’unico nemico perfetto è quello che generi tu stesso. E all’obiezione che un nemico imperfetto permetta di vincere molto facilmente, Volo risponde: E chi 33 ha detto che vogliamo vincere? Ma la psicologia dei protagonisti è ulteriormente chiarita dal pensiero di Nimbo riportato non a caso in quarta di copertina: Fin dall’inizio il nostro sogno è stato diventare dei socrate della lotta armata: inevitabilmente sconfitti, ma orgogliosamente sconfitti. E a quel punto, nella sconfitta, invincibili. La conseguenza di questi ragionamenti è, dal punto di vista narrativo, la scelta dell’incolpevole compagno di classe, Morana, come vittima da sacrificare, per la realizzazione dei farneticanti progetti di lotta armata al sistema. Ma, nel lettore la deformata logica dei protagonisti produce come conseguenza lo squarcio improvviso e senza timori di un velo che ha impedito a molti di noi di capire gli anni terribili del terrorismo, quelli in cui il paese perse l’innocenza, e le Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo 34 motivazioni che spesso ne erano alla base. La volontà autodistruttiva da una parte e l’orgogliosa affermazione di sé come esseri superiori dall’altra mettono in luce aspetti presenti non solo nei tre ragazzini del romanzo ma in tanti protagonisti della lotta armata negli anni terribili della storia repubblicana e mostrano quanto infantilismo possa esserci in ideologie ignare della compassione, basate solo su una sproporzionata presunzione che si avviluppa intorno a vere e proprie ossessioni. Quanta banalità possa, insomma, esserci nel male. Nel romanzo la via di uscita è la maturazione di Nimbo. Il suo doloroso percorso di formazione, dopo averlo portato all’inferno, gli fa vedere la luce e la possibilità di resurrezione grazie alla bambina creola, una Beatrice muta, perché per un mitopoieta la salvezza non può venire dalla dottrina ma da un silenzio purificatore delle troppe parole che si sono nutrite di se stesse. Nella società è, invece, più difficile dire quale sia l’antidoto; forse è la memoria, perché non si perda la consapevolezza conquistata dopo il dolore. dosi di immagini e suoni provenienti da scritture meno alte come la radiofonica, la cinematografica o la televisiva. Tutto ciò non dà però luogo ad un impasto costruito in maniera cerebrale ma ad una fusione in cui i confini si sfumano in una riconciliazione linguistica che stride paradossalmente sia con la storia narrata che con l’età del narratore- protagonista e crea uno spiazzamento nel lettore, sempre più affascinato, nel corso della lettura, dalla capacità narrativa e, per contrasto, sempre più inorridito dalla profondità del male e del dolore narrato. Ma, dunque, se lo stile non deve essere fine a se stesso ma mezzo per dire delle cose si comprende facilmente che la proliferazione linguistica della quale Nimbo si fa veicolo è funzionale al senso della storia raccontata. E cioè, dato che Nimbo è esigente, disprezza tutto ciò che è banale e non ama le approssimazioni ma vuole dare a ogni cosa il nome specifico, per lo scrittore è stato necessario utilizzare termini ricercati e parole tratte da linguaggi specifici e settoriali. Questa scelta stilistica sembrerebbe richiamare la teoria verghiana della forma inerente al Una scrittura liminare tra realismo e visiosoggetto, se non fosse che nel romanzo di Vasta il narietà. In un’intervista rilasciata a Marta Ciccolarealismo è fatto a pezzi, perché nessun ragazzino ri Micaldi, Giorgio Vasta ha dichiarato che spesso di undici anni pensa e parla come Nimbo. Eppure lo stile non viene inteso come un mezzo per quel linguaggio così elevato ed irrealistico per dire delle cose ma come un fine. Otteun undicenne serve a illuminarne il caratnendo uno stile si diventa identificabili, tere e a definirne la personalità meglio si produce una situazione del tipo: di qualsiasi descrizione, a far cogliere dimmi in che modo scrivi e ti dirò chi come dietro quei ragionamenti ci sia sei. E, siccome si ha disperatamente il malessere esistenziale di chi non bisogno di conoscere la propria si rassegna ad essere uno dei tanti, identità, allora si farà di tutto per destinato a scomparire. Non a caso mescolare tra loro degli elementi Nimbo afferma che le Brigate rosse specifici che la conferiscano. Ma nascono dal desiderio disperato se lo stile si trasforma in questo, in di esistere al centro del tempo. Nel questa prigione volontaria, allora, secuore infuocato della storia. Per non condo Vasta, è meglio correre il rischio scomparire, per restare visibili. di non averne uno e sperimentare. Ma le analogie/opposizioni con Con questo romanzo che oscilla tra Verga non si fermano qui. Come nei MalaGiovanni Verga realismo e fuga dalla realtà, Giorgio Vasta voglia alle vicende della famiglia Toscano sembra proprio che non abbia avuto timore di fanno da sfondo gli anni successivi all’unità d’Italia sperimentare, creando una lingua lucidissima che e la narrazione è disseminata di precisi riferimenti amplifica la letterarietà con la cura della parola storici, così anche ne Il tempo materiale compama realizza pure un’azione di ibridazione, serveniono continui richiami a fatti e personaggi degli anni della lotta armata. Tuttavia, come Ma anche un altro scrittore italiano precisa lo stesso Vasta in una nota di sembra aver lasciato il segno nella prosa fine opera, la cronologia reale del di Vasta: è Dino Campana che l’autore 1978 è stata in parte modificata siciliano cita espressamente come suo secondo necessità drammamodello nell’intervista indicata in preturgiche e le inesattezze sono cedenza. Del plurilinguismo generoso funzionali alla storia raccontadi Campana che spazia dal registro ta, con un chiaro disinteresse aulico a quello popolaresco la traccia documentario. evidente è nell’impasto linguistico di Il gioco di richiami e oppocui si è detto. Ma l’influenza dell’ausizioni nei confronti dell’illustre tore dei Canti orfici appare particolarconterraneo risulta ancora più mente evidente nelle ultime pagine del evidente nell’uso frequente dei romanzo in cui Nimbo appare immerso soprannomi che non sono, però, in un vortice che infrange i confini di ne Il tempo materiale, né antifrastici spazio e tempo, in un’unione simbolica con Dino Campana né realistici, ma piuttosto avvolgono la bambina creola e con il Tutto, che cancella in un senso di mistero e di indecifrabile parole e apre ad un pianto purificatore e lità coloro ai quali sono riferiti. E, dunque, se chi liberatorio. legge I Malavoglia apprende subito che la famiEd è giunto il momento allora di chiederci glia Toscano, in contrasto con il nome, di voglia perché questa scelta di visionarietà dietro la facdi lavorare ne aveva tanta, chi cerca di avere dei ciata realistica di una storia generata dal sequeprecisi indizi sulla personalità o le caratteristiche stro Moro. Probabilmente Vasta, con la sensibilità dei personaggi di Vasta rimane piuttosto deluso dell’artista, si è reso conto che comprende meglio 35 e non ricava granché dai nomi dei familiari di di altri il proprio tempo chi ne svela gli aspetti più Nimbo: la Pietra, lo Spago, il Cotone. reconditi e meno evidenti, chi si allontana dalla Vasta, insomma, sembra fare riferimento in cronaca per cogliere le motivazioni più profonde modo ostentato a Verga, ma per prenderne le che hanno portato alla disumanità. E ciò è utile distanze, e se Verga, adottando l’artificio della non solo per una corretta comprensione della regressione dell’autore colto al livello della renostra storia recente ma anche per cercare di altà popolare che vuole rappresentare, simula capire perché ancora oggi, come sostiene lo il linguaggio dei suoi personaggi e ne adotta la scrittore, l’Italia sia un Paese dalla crescita morale mentalità, Vasta si impone ai protagonisti del bloccata, un organismo che ha mancato tutte le suo romanzo, pur assumendone il punto di vista, sue occasioni di rinnovamento. attraverso una lingua colta e irrealistica. Elsa Franco Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo Musica e storia Risorgimento in musica Appunti di viaggio sulla strada dell’unificazione d’Italia I 36 n occasione delle celebrazioni per i 150 anni dello Stato unitario, è doveroso ricordare l’importanza che rivestì la musica, vera “colonna sonora” di ideali e avvenimenti storici. In tale contesto, il mio discorso vuole essere più evocativo che accademico, al fine di comprendere che le gesta dei Risorgimentali non si ispiravano solo a grandi momenti corali di sommi musicisti, ma erano anche accompagnate da compositori meno noti e da testi di inni patriottici meno aulici, ma forse più aderenti alla sensibilità e alle passioni della gioventù del tempo. Ma parliamo prima della “missione” sociale della musica. Il personaggio politico che in quegli anni volle dare una dignità “dottrinale” all’arte dei suoni fu Giuseppe Mazzini. Il fondatore della “Giovine Italia” ed eroico animatore della Repubblica Romana, amico e sostenitore di Garibaldi, fu sempre, nella testimonianza di Saffi, suo collega nel Triumvirato romano, “attentissimo a tutto ciò che usciva di nuovo nel mondo musicale”. Per questo Mazzini, esperto chitarrista, esecutore di Rossini, Paganini e Giuliani, scrisse nel 1836 il saggio Filosofia della musica. Rifacendosi al compito sociale, civile ed educativo della musica già espresso dai Greci, egli si rivolge soprattutto al melodramma, forma musicale fondamentale nell’Italia del tempo e terreno ideale per realizzare un collegamento della musica con le altre arti, in particolare con la letteratura. Secondo Mazzini si deve evidenziare in esso l’importanza dei contenuti del libretto e lo si deve liberare dal mero virtuosismo della vocalità. La musica deve attenersi “alla verosimiglianza storica, afferrare il concetto di un’ epoca e metter- lo in atto”. In questo senso il teatro musicale ha la funzione di spronare verso gli obiettivi politici da raggiungere e grande importanza ha il coro in quanto voce del popolo. Mazzini aggiunge che l’Italia è piena solo di “maestri e trafficatori di note”. È necessario che un grande riesca a “trarre la musica dal fango o dall’isolamento in che giace per ricollocarla dove gli antichi grandi, non di sapienza, ma di sublimi presentimenti l’avevano posta accanto al legislatore ed alla religione”. È quasi una profezia, visto che pochi anni dopo il giovane Giuseppe Verdi comincerà a raccogliere i suoi primi grandi successi. Fu proprio Verdi ad accettare l’invito di Mazzini a musicare nel 1848 l’inno Euterpe Patria. Il testo è opera del giovane Goffredo Mameli che l’anno prima aveva scritto, in collaborazione con il musicista Michele Novaro, Il canto degli italiani, nostro attuale inno nazionale. Verdi, entusiasta per i moti rivoluzionari milanesi, compone questo inno popolare “a voci sole” sul testo di Mameli, che non potrebbe essere più esplicitamente patriottico: “Fuoco, per Dio, sui barbari, / sulle perdute schiere”, “La tricolor bandiera / che nata tra i patiboli / terribile discende / fra le guerresche tende”, “Noi lo giuriam per i martiri, / uccisi dai tiranni / pei sacrosanti palpiti / compressi in cor tant’anni”. È doveroso fare a questo punto riferimento alle “ scene famose” del melodramma verdiano usate dai patrioti per cementare il loro sentimento nazionale. Ricordiamo il coro Va’ pensiero del Nabucco (Milano 1842), su libretto di Solera: “Oh mia patria sì bella e perduta!” (di cui esiste persino una trascrizione “popolare” per organetto di Bar- beria), il coro del Macbeth (Firenze 1847) su libretto di Piave: “Patria oppressa!”, il coro de I lombardi alla prima crociata (Milano 1843) su libretto di Solera: “O Signore, dal tetto natio”, il coro da La battaglia di Legnano: “Viva Italia! Sacro un patto”. Quest’opera, Giuseppe Verdi composta da Verdi con evidenti finalità di propaganda risorgimentale su libretto di Cammarano, viene rappresentata per la prima volta a Roma al teatro Argentina il 27 gennaio 1849. Nella Roma senza il Papa della Repubblica Mazziniana, il titolo posto all’inizio del quarto e ultimo atto dell’opera: “Morire per la patria” è sicuramente emblematico. Va anche ricordato che la Norma di Bellini, rappresentata per la prima volta senza problemi di censura a Milano nel 1831, venne proibita dagli Austriaci nel 1859 perché i Milanesi, che di lì a poco, con la seconda guerra d’Indipendenza, avrebbero ottenuto la libertà, si sarebbero facilmente identificati nel coro “Guerra! Guerra!”. Per ciò che riguarda i musicisti “minori” è bene ricordare alcuni inni popolari e cori patriottici composti nella Milano del 1848. Il trentenne Antonio Bazzini compone, su testo di Antonio Buccelleni, l’inno Il vessillo lombardo: “Su lombardi, al vessillo di guerra / liberiamo l’italica terra”; Stefano Ronchetti compone su testo di Giulio Carcano un Inno nazionale in occasione delle solenni esequie pei morti nella rivoluzione di Milano scritto per ordine del Governo provvisorio: morti che “Per la patria il sangue han dato esclamando Italia!”. Il ventiquattrenne Jacopo Foroni compone su testo anonimo L’italiana – grido di guerra all’unisono. Il giovane Foroni, a Milano per la fortunata rappresentazione della sua prima opera Margherita, partecipa ai combattimenti delle Cinque Giornate; la musica e il testo ben riflettono la violenza degli scontri e le motivazioni dei patrioti: “Quante l’ambasce / fur dei scannati / e quanti gemiti / fur dei calcati”, “passiam dei lurchi sull’ossa infrante”, “l’immondo sangue inondi il suol”. Alcune romanze da camera sono pure ispira- te ai fatti del Risorgimento. È il caso di due composizioni del musicista Angelo Mariani e del suo poeta Giovanni Pennacchi che parteciparono come volontari alla prima guerra d’Indipendenza: La fidanzata del guerriero ucciso sui Campi di Lombardia e L’amante del volontario italiano che sottolineano l’eroismo dei patrioti e delle loro donne, tutti disposti ad accettare il sacrificio per la patria. Michele Novaro, il musicista di Fratelli d’Italia e il poeta Francesco Dall’Ongaro scrivono Il canto del dragone e La bandiera italiana che fanno parte della raccolta di Canti popolari italiani pubblicata nell’antologia Viva l’Italia (Lucca 1860). Non vanno inoltre dimenticati alcuni brani strumentali che evocano situazioni e personaggi del Risorgimento. Il compositore Ernesto Cavallini scrive una romanza per clarinetto e pianoforte dal nostalgico titolo Lontano dalla patria. Padre Davide Maria da Bergamo (al secolo Felice Moretti) compone la fantasia per organo Le sanguinose giornate di marzo, ossia la rivoluzione di Milano. 37 Il più famoso Amilcare Ponchielli, autore della Gioconda, scrive nel 1882 l’elegia per banda Sulla tomba di Garibaldi. La composizione gli è stata commissionata dal comune di Cremona per commemorare Goffedro Novaro l’eroe dei Due mondi a un mese dalla morte. Il brano si presenta come un’ampia parafrasi dell’inno garibaldino musicato da Alessio Olivieri sui versi di Luigi Mercantini All’armi all’’armi, si scopron le tombe si levino i morti (1858). Questa elegia per banda, nella sua forma puramente strumentale senza testo cantato, rappresenta un solenne e commosso omaggio all’eroe di Caprera, la cui Impresa dei Mille fu determinante per l’unità d’Italia. Ruggero Prospero Stipendium Bayreuth 1992 Docente di Filosofia e Storia Liceo Scientifico “G. Bruno” Mestre - Venezia Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo Avi Trezza Analisi testuale Il padre del Verismo era davvero uno scrittore impersonale o il latente teorico di uno slittamento lirico ondeggiante nel magma di focalizzazioni composite? 38 L Verga liminare a scena più rappresentativa della tecnica dell’impersonalità ne I Malavoglia di Giovanni Verga è quella descritta nelle pagine conclusive del romanzo, nella quale icasticamente ci viene presentata la scena dell’ultimo addio del giovane ’Ntoni al suo paese natio Aci Trezza. Prevalente è l’utilizzo di una focalizzazione esterna, palese nelle espressioni dialettali (“buscarmi il pane”) e nella gestualità (“stette zitto a guardare intorno con gli occhi lucidi”), che esprimono appunto quel senso di istantanea rappresentazione di una realtà altra dalla weltanschauung dello scrittore. Queste sono appunto alcune delle spie dell’impersonalità verghiana: in particolare, la gestualità in maniera liminare rappresenta anche un’introiezione dell’autore nella mente dei personaggi secondo la massima di Maupassant L’art exprime le dedant par le dehors. Il passo “parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle” è un esempio di questo uso liminare delle due focalizzazioni: infatti, con questa descrizione Verga ci dà l’impressione di un narratore oggettivo, che ci delinea una scena, alla quale assiste per caso. D’altro canto, questa espressione rientra anche in una focalizzazione interna, che squaderna il mondo interiore del personaggio, sottoposto a un processo di reificazione che lo riduce ad un nulla. Questo muro di impersonalità, che separa lo scrittore dai suoi personaggi, viene meno in alcuni momenti, durante i quali uno spiraglio di personalizzazione riesce a far breccia. Perciò, la focalizzazione esterna è intervallata da fugaci istanti di focalizzazione interna, grazie alla quale temporaneamente l’autore si pone come personaggio fra i personaggi (che “soffre” con una sorta di “slittamento lirico” con loro”). Questo avviene nell’utilizzo dello sgrammaticato “che” invece del “dove”, e questo è icasticamente descrittivo del linguaggio ricco di errori, tipico delle comunità rurali meridionali. Lessemi, inoltre, propri del sottocodice popolare sono poi i nomi delle costellazioni “i tre Re” e la “Puddara”, quest’ultima descritta come una chioccia con i suoi pulcini, un’immagine presente anche nel Gelsomino notturno di Giovanni Pascoli. Altro esempio di focalizzazione interna è la massima popolare “perché il mare non ha paese nemmeno lui”, che manifesta l’ingaglioffirsi dello scrittore che si abbassa a livello dei figli della sua penna, assumendo la visio mundi popolare. La massima popolare si differenzia dal proverbio, poiché essa ha valenza solo per le classi subalterne e quindi non ha carattere universale, tanto che essa è introdotta da un perché pseudo-obiettivo, che indica la parziale obiettività di tali sentenze. Questi proverbi sono il preludio al superamento di un nuovo limen: rappresentano, infatti, un intermezzo fra la focalizzazione interna e quella zero. La non focalizzazione è il colpo finale che abbatte il bastione apparentemente inespugnabile dell’impersonalità. L’autore, che nella prefazione de L’amante di Gramigna si era abbandonato ad una accorata perorazione della tesi dell’impersonalità, secondo la quale lo scrittore non deve lasciare traccia di sé nell’opera d’arte, dimostra tutto il suo essere nell’ossessivo refrain “devo andarmene”. Tale iteratio è un pendant del fatalismo di Verga, infatti, nell’ottica verghiana ’Ntoni è un vinto dal fato economico. Questo personaggio, però, riesce a trovare alla fine una rivalsa nel sacrificio volontario a favore dei suoi cari; e da giovane sconsiderato e desideroso di cambiare il suo status quo si trasfigura in una variatio del protagonista canonico di Verga,“eroe silenzioso del dovere”. Il carattere splendidamente reduplicativo della narrazione ben si caletta per entro questo clima popolareggiante, fatto di ripetizioni, non consone ad uno scrittore magister linguae come Verga. Ormai lo scrittore dell’impersonalità deve cedere il posto a uno scrittore/personaggio che vede il mondo attraverso gli occhi del giovane ’Ntoni, e insieme a lui è partecipe della sua ironia nel parlare della nuova giornata di Rocco Spatu. Questo personaggio, per molti versi simile a ’Ntoni, è l’archetipo dello scansafatiche, che, però, tuttavia comincerà una sua giornata (sebbene non di lavoro) in un mondo, al quale ‘Ntoni non appartiene più. L’estraniamento del personaggio dal suo mondo natale è un ultimo elemento di focalizzazione interna che 39 sottolinea il parallelismo liminare fra il personaggio e lo scrittore, perché l’autore è del tutto a suo agio nel parlare dell’estraniarsi di ’Ntoni da un mondo, quello popolare, che anche per lui è sempre stato estraneo e lontano. Carmine Rosario Gigi III B Liceo Classico Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo Filosofia Vent’anni fa moriva Maria Zambrano, grande pensatrice liminare Una “filosofia vivente” “Siamo così abituati alle vecchie contrapposizioni tra pensiero e passione, tra spirito e vita, che in certo modo ci meraviglia l’idea di un “pensiero appassionato”, in cui pensare ed essere vivente si convertono in una stessa cosa” 40 che, trascurando altri aspetti della vita. Proprio per questo, María Zambrano invita il pensiero ad abbandonare qualsiasi sistema filosofico, (Hanna Arendt, Heidegger o quel «castello di ragioni, muraglia chiusa del il pensiero come attività pura) pensiero di fronte al vuoto», per intraprendere un viaggio fra quelle acque rimaste ancora in gran parte inesplorate, alla ricerca di una «filosofia vivente», disposta a confrontarsi con l’essere entativo d’incontro fra verità della “raumano nella sua interezza, disposta, con un imgione” e verità del “cuore”. Il percorso pegno sia intellettuale che viscerale, a dar voce speculativo di María Zambrano (Vélez a ciò che resta in silenzio, a rendere manifesta – Màlaga 1904 – Madrid 1991), una delle voci l’oscurità, l’altro lato dell’esistenza, quello esiliato, più originali della filosofia contemporanea, nasce muto, nascosto ma intimamente «sentito», unico dalla consapevolezza che solo un incontro fra filocapace di liberare dalla tendenza assolutizzante e sofia e poesia, possa dar vita ad un sapere capace di imporre l’umiltà, condicio sine qua non per ogni di cogliere la totalità della realtà e l’uomo nella cammino di conoscenza completa. sua interezza. Uomo e realtà, infatti, possono La Zambrano, quindi, auspica una «contaessere integralmente tutelati solo da un sapere in minazione» della filosofia con la vita, sulla base grado di esplorare anche quel «logos che scorre di una necessità connaturata e reciproca che nelle viscere», che invece la tradizione fivita e pensiero hanno: la vita, infatti, senza losofica ha per lo più ignorato. Infatti, pensiero rimane sola e ribelle, mentre il secondo la filosofa spagnola -che su pensiero astratto, puro, «senza vita», vaga questo punto, come su altri, è conabbandonato, incapace di superare i procorde con i pensatori dell’Esistenpri confini e quelli della propria struttura. zialismo, della Fenomenologia e E ciò riduce l’uomo al delirio: «se infatti del Decostruzionismo-, l’uomo si perde il contatto con la realtà si delira: occidentale, affidandosi compledelira la ragione in una pura forma senza tamente al Logos ed ai processi vita, impassibile e senza tempo; e delira la conoscitivi logico-formali, ha contrivita in un vagare spettrale e senza figura, in buito alla nascita di una filosofia dalle caratteristiche strettamente scientifi- María Zambrano una dispersione umiliata e rancorosa». T Una ragione aperta all’eterogeneo. Vita e attimo il metodo rigoroso e andandole incontro. pensiero non sono due mondi eterogenei o due Ecco che allora l’unica forma di conoscenza che cosmi autosufficienti, ma una sola realtà, quella possa garantire la «vera oggettività» è, per Zamesistenziale, che è inserita in un organismo che è brano, come lei stessa scrive in El realismo español l’uomo, e, pertanto, la speculazione filosofica non como origen de una forma de conocimiento, il deve trascurare e sentire come estraneo nessun realismo come «modo di trattare con le cose». elemento o aspetto umano, primo fra tutti quel «frammento di cosmo che è l’anima» e, non da Il realismo come metodo di innamoramenultimo, quello che, per Zambrano, è stato spesto. Il realismo -secondo le chiarificanti parole di so ingiustamente identificato con la «prigione un’attenta studiosa di Zambrano, Pina De Luca- è dell’anima»: il corpo. Per essere realmente vivente uno sguardo ammirato sul mondo che vi si depola filosofia deve dunque riconoscere non solo ne senza nessuna pretesa di ridurlo a qualcos’all’anima ma anche il corpo, quale fonte di creatitro. Per tale adesione disinteressata il realismo è vità e trascendenza, quale «luogo pulsante che un essere innamorati del mondo [...]. Non vi è, media il contatto con le forze sacre della materia però, in ciò la violenza del possesso ma dediziovivente, con i residui della matrice originaria da ne, cura, minuziosa attenzione. L’amore ha qui, cui l’uomo si è strappato per vivere come un per la Zambrano, il segno dell’eros platonico: gli essere indipendente». Pertanto, secondo María sono perciò estranee la violenza e l’ingiustizia Zambrano, solo una ragione «riformata», ossia (Introduzione a Filosofia e Poesia). più malleabile e aperta al difforme e all’eteQuesta caratteristica dell’innamoramento è rogeneo, disposta ad accogliere anche quelle tipica del realismo spagnolo (Zambrano lancia verità non rischiarate dalla luce dell’intelletto una sfida alla tradizione filosofica considerando ma, tuttavia, «sentite» dentro, può contribuire la cultura spagnola come una modalità di co41 a fondare una nuova conoscenza, più noscenza in grado di risollevare aderente alle multiformi sfaccettature l’uomo occidentale dalla crisi che dell’umano esperire. sta attraversando), e ancor di più Alla luce di considerazioni come di quel suo tratto caratteristico queste si potrebbe attribuire alla filosoe radicale che è il materialismo fia zambraniana, con tutte le dovute ed considerato come «la consainnegabili differenze, il motto oraziano crazione della materia», da non adottato nel corso del ‘700 dagli illumiintendersi, tuttavia, come un nisti e in modo particolare da Immanuel idealismo europeo rovesciato, Kant, ossia il «Sapere aude»: abbi il perché il materialismo spagnolo coraggio di sapere ma, sembra quasi presenta, al contrario di quello Immanuel Kant che aggiunga la pensatrice spagnola, europeo, un’inclinazione più non solo ciò che è nei limiti della sola ragione, teorica, più dogmatica, più appassionata tale da ma anche gli «interminati spazi» e i «sovrumani apparire astratto, «ma si tratta di un’astrazione silenzi» «di là da quella» che fungono “da liquido che non ha origine nell’intelletto bensì nella amniotico, da placenta sempre vivificante per la passione». Questo materialismo come «pratica verità stessa” la quale se, come ci tramandano i amorosa», come adesione innamorata alle cose, filosofi greci, è a-lethéia, dis-velamento, necessita in cui avviene un «materiale parteciparsi di di un precedente nascondimento. soggetto e cosa», si sviluppa, per Zambrano, in Se l’essere, dunque, prima di svelarsi si vela, senso radicale nella poesia. Solo il poeta, infatti, per conoscerlo occorre raggiungerlo nella caverè capace di fare di se stesso uno spazio vuoto in na oscura del suo primo darsi, e ciò comporta un cui le cose si depongono nella loro materialità abbandono, un immergersi fiduciosi negli abissi, e come tali in lui vivono [...]. Solo a colui, infatti, laddove la verità nasce, dimenticando per un che in sé sperimenta la forza dell’impotenza, che Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo 42 conosce la «passività per Il senso dell’incontro fra filosofia e poesia. amore», la realtà si fa Ecco che, finalmente, ci appare evidente il senso incontro. ultimo dell’incontro perseguito da María ZamPosta in questi termibrano fra filosofia e poesia; solo una conoscenza ni, tuttavia, sembrerebbe poetica, infatti, dalla «profonda radice d’amore», che la soluzione prospetnata dalla simbiosi di lucidità intellettuale e di tata da María Zambrano, sapere emotivo, può accogliere anche le verità affinché l’uomo possa «dell’altro» ed effettuare quel connubio degli rimanere fedele ad ogni opposti capace di realizzare il prodigio di vivere possibilità dell’essere, sia tra i due, «conseguendo il nous senza perdere offerta dalla poesia e che, l’anima; addentrandosi per quanto è possibile Heidegger pertanto, la sua opera nella libertà senza annientare né umiliare la vita non possa rientrare pienamente nella categoria delle viscere». Proprio in nome di un’«armonia speculativa. In realtà, la questione è molto più sotdei contrari» (più vicina alla danza eraclitea che tile. La riflessione zambraniana, infatti, non è volta non alla calma unità realizzata dal concetto), ad individuare e descrivere il pensiero della poesia, per mezzo della quale possano coesistere in una ovvero a sostituire il come della poesia a quello «lotta amorevole» tutti i termini in conflitto tra del pensiero. È, questo, un tema fondamentale loro senza che né l’uno né l’altro domini defigià per Heidegger, al quale la Zambrano rivolge nitivamente la scena dell’esistenza, Zambrano un ringraziamento perché, senza la sua «giusta inizia un percorso di riforma della ragione, fama un fatto del genere, pur apparendo in affinché essa possa tornare ad appassioaltri testi, non sarebbe stato riconosciuto narsi alla sua più grande antagonista: e nemmeno intravisto». la vita. Il tutto, però, è condotto Grazie ad Heidegger,che fa del linsecondo un movimento che non guaggio poetico la dimora dell’Essere, cede mai alla tentazione di imporre «risulta che le è necessario [alla filoso«con la spada», sia pure quella della fia] tornare alla poesia, attenersi, onde parola, la verità di cui Zambrano si riaversi [...] ai luoghi dell’essere da quefa messaggera. sta indicati e visitati».Pertanto, l’intento María Zambrano indica un senzambraniano, ben lungi dall’esaltare le tiero, mostra immagini, figure che ragioni della poesia per mortificare possano «innamorare» ed essere F. Nietzsche quelle della ragione, è quello di «riseguite; il suo pensiero si fa guida connettere poesia e pensiero riattivando “l’impeto affinché ognuno possa, individualmente e appassionato” che la poesia ha trattenuto per sé personalmente, dare forma a quel contenuto e di cui il pensiero è divenuto privo [...] perché impetuoso, caotico, indeterminato e sfuggente vi sia altro pensiero, un pensiero che sia spazio che è la vita; la sua parola poetica, mediatrice tra di nascite», un pensiero che, come un grembo la luce e l’oscurità, tra il linguaggio e il silenzio, materno, sia in grado di accogliere «l’altro da sé» tenta di insinuarsi nelle più profonde caverne in un’unione-nella-differenza, perché: «l’essere è delle viscere umane (si potrebbe azzardare, sulle “vario non uno”, è “radicale eterogeneità” che per orme di Nietzsche e Freud), laddove è rinchiuso pensarsi richiede mobilità, “continuo spostamento e risuona il mistero dell’origine, per rischiararle dell’attenzione” [...]. È allora necessaria la “fede” sia e risvegliarle cautamente. “poetica” che “razionale” per arrivare a comprendeMaria Alvino re che l’uno soffre di “incurabile alterità”». II C Liceo Classico Musica & poesia Chiamami ancora amore: il romanticismo amaro Il ritorno del Professore Roberto Vecchioni conquista l’Ariston, e l’Italia stessa. “I n questo disperato sogno, tra il silenzio e il tuono, difendi questa umanità... anche se restasse un solo uomo.” Un grido, un’esortazione, una supplica: la voce calda di un uomo che, da solo e solo con le sue parole, fa bruciare le ferite ancora aperte di un mondo indifferente al suo stesso dolore. E canta la disperazione, quella di un’esistenza trascinata tra il silenzio della sua solitudine e il tuono di ogni suo pensiero. Come qualunque insegnante degno di tale definizione, Roberto Vecchioni, il professore, vuole darci tutto ciò che possiede; un magister vitae che dall’alto della sua esperienza ci tende una mano: vuole farci conoscere, vuole farci vedere le luci e le ombre, le gioie e i dolori di un mondo che assaporiamo senza gusto, ciechi di fronte ai suoi più rivelati segreti. Alunni svogliati, noi. Eppure lui non si arrende. Timidamente si insinua come un tarlo, e il suo grido corrode ogni fibra del nostro corpo. Si abbassano le luci, all’Ariston. Il palco è grande, forse troppo per chi ormai da anni è uno spettatore distratto di una realtà da lui lontana. Però, quello stesso palco, oggi, si estende ai suoi piedi. Ai piedi dell’asceta, che ritorna tra le persone che lo hanno amato e aspettato, e riprende ad ammaliarli come se l’incanto non si fosse mai spezzato. Il rituale applauso si spegne tra le mani della platea. Silenzio. Gli occhi socchiusi; l’orchestra è in attesa, le dita afferrano il microfono. Con un morbido movimento della mano del maestro, 43 la bacchetta lascia che quel silenzio si rompa. “E per”. È una storia già cominciata, quella che le sue parole costruiscono: è stata scritta a caratteri cubitali, raccontata da mezzi busti davanti a una telecamera, condivisa col mondo sul web. È la storia di uomini che, sospinti dal vento della libertà, tagliano le proprie radici in cerca di notti più serene, uomini, donne, bambini per i quali il mare che doveva essere la strada per la libertà diventa la culla del sonno senza risveglio; è la storia di chi ha visto impotenti le proprie idee imbavagliate con la forza; è la storia del sudore non retribuito sulla fronte di chi ogni notte è costretto ad ascoltare il pianto del suo bambino, debole ai morsi della fame; è la storia della “generazione X” di questi anni zero, che si guarda intorno e vede soltanto terra bruciata, eppure dei valori ancora ce li ha, la forza di ribellarsi per difendersi da chi la sta silenziosamente uccidendo ancora ce l’ha; è la storia di tossicodipendenti la cui droga sono i soldi e il potere, che calpestano tutto e tutti pur di averne ancora e ancora e ancora; è la storia di troppi vasi di terracotta, che, pur di non essere mandati in frantumi, sacrificano la propria Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo coscienza; è la storia di tutti noi, e di tutto quanto è stato nostro da sempre, e ora non ci appartiene più: i nostri ricordi e la memoria di ciò che siamo stati, la nostra vita e la nostra voglia di vivere. Ma la speranza, quella no: la speranza non ci ha ancora abbandonati nell’oblio di questa notte senza luce. E prende vita, voce, colore e consistenza proprio grazie a noi, alla nostra arte di saper tradurre in una realtà tangibile che i nostri sensi possono percepire ogni eterea sen- 44 sazione, ogni pensiero, ogni emozione. La nostra speranza vivrà fintanto che avremo delle idee con cui alimentarla; idee immutabilmente vive, come le stelle e come le farfalle che volano per tutta la loro vita, ma ancor di più idee immortali, al pari della forza di una madre che ama e pari all’amore di Dio stesso. In questo sputo di universo, dove “adda passà a nuttata” (per dirla con Edoardo), dobbiamo avere il coraggio di chiamarci ancora con il nome E per la barca che è volata in cielo Che i bimbi ancora stavano a giocare Che gli avrei regalato il mare intero Pur di vedermeli arrivare Perché le idee sono voci di madre Che credevano di avere perso E sono come il sorriso di Dio In questo sputo di universo Per il poeta che non può cantare Per l’operaio che non ha più il suo lavoro Per chi ha vent’anni e se ne sta a morire In un deserto come in un porcile E per tutti i ragazzi e le ragazze Che difendono un libro, un libro vero Così belli a gridare nelle piazze Perché stanno uccidendo il pensiero Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Che questa maledetta notte Dovrà pur finire Perché la riempiremo noi da qui Di musica e parole Per il bastardo che sta sempre al sole Per il vigliacco che nasconde il cuore Per la nostra memoria gettata al vento Da questi signori del dolore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Che questa maledetta notte Dovrà pur finire Perché la riempiremo noi da qui Di musica e di parole Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore In questo disperato sogno Tra il silenzio e il tuono Difendi questa umanità Anche restasse un solo uomo Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Continua a scrivere la vita Tra il silenzio e il tuono Difendi questa umanità Che è così vera in ogni uomo Chiamami ancora amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Che questa maledetta notte Dovrà pur finire Perché la riempiremo noi da qui Di musica e parole Chiamami ancora amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore In questo disperato sogno Tra il silenzio e il tuono Difendi questa umanità Anche restasse un solo uomo Perché le idee sono come farfalle Che non puoi togliergli le ali Perché le idee sono come le stelle Che non le spengono i temporali Chiamami ancora amore Chiamami ancora amore Chiamami sempre amore Perché noi siamo amore più dolce, più romantico, più significativo, più bello che ci sia: amore. Sorride, il professore. Percepisce la sincerità di quell’applauso, legge l’emozione sui volti sconosciuti. Abbandona il palco con passo incerto: sa quello che ha fatto. Ci ha innalzati al cielo, per poi restituirci immediatamente a questo stanco suolo, raccontandoci i suoi pensieri. Adesso, tornati quaggiù, sentiamo davvero di stare sprofondando, a fondo, sempre più a fondo. Non abbiamo appigli, assolutamente nulla a cui aggrapparci. Ciascuno di noi è terribilmente solo nella sua consapevolezza. E allora ci torna in mente il suo sorriso, tranquillo e affabile, che pare ora come ora volerci dire soltanto una cosa: non aver paura. Mirella Astarita, II A Rosachiara Caldiero, I A Liceo Classico 45 Lyceum Maggio 2011 Strumenti/Liminarismo Un Un poeta poeta liminare: liminare: TThomas homas S Stearns tearns E Eliot liot L’ARTISTA MODERNO GETTATO NELLE FAUCI DELLA VITA 46 Un passato che si dissolve. Un nuovo mondo che emerge. La poesia si trasforma, perdendo il suo ruolo consolatore. Thomas Stearns Eliot vacilla sul sottile fil rouge tra l’aridità spirituale e la sterilità del mondo moderno nel suo poema Terra desolata. Un nichilista che trova speranza in un’inquieta e purgatoriale conversione. I caratteri liminari del poema Terra Desolata. La cultura occidentale in frantumi. La solitudine dell’artista alienato. Una tradizione letteraria, quella vittoriana, che scivola via nella nullità del passato. Il poeta si sente disorientato in una crisi cosmica, in cui la poesia modernista diventa una poesia di immagini, temi e frammenti. L’immagine viene intesa non più come simbolo nel senso medioevale, romantico o simbolista, ma come correlativo oggettivo, corrispondenza oggettiva, perciò non personale, del sentire. Teorizzata da Thomas Stearns Eliot, questa tecnica consente di esprimere emozioni come l’autore stesso affermò: l’unico modo per esprimere un’emozione in forma d’arte consiste nel trovare un correlativo oggettivo; in altre parole, una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiscano la formula di quella particolare emozione; tale che, quando i fatti esterni, che devono terminare in esperienza sensoriale, sono dati, l’emozione immediatamente è evocata. Sin dalle sue prime poesie il limen tra il bello e lo squallido permette ad Eliot di criticare la vacuità e la frivolezza di Boston e di Londra, che vengono contrapposte a visioni di lirica bellezza. Eliot, infatti, apre la terza sezione, Il sermone del fuoco, del suo famoso poema, Terra desolata, con il fiume Tamigi, visto nel suo moderno stato di squallore e sudiciume che stride con l’immagine mitica del Tamigi dell’epoca elisabettiana. Ma Terra desolata è incentrato soprattutto sul confine tra l’aridità spirituale e la sterilità del mondo moderno. “Aprile è il più crudele dei mesi”: con queste parole iniziali, transcodificate da Geoffrey Chaucher (Il prologo dei Racconti di Canterbury), Eliot presenta un’immagine inusuale dell’amabile mese primaverile che nell’incipit di La sepoltura dei morti (prima sezione di Terra desolata) è descritto come portatore di un’estate arida. Caratteristiche importanti di tutto il poemetto sono la simultaneità, che rende possibile il contrasto tra cultura passata e sterilità moderna, e la decontestualizzazione, che provoca nel lettore un senso di spaesamento e di shock. Eliot, infatti, pone la sua visione di desolazione e aridità spirituale in un implicito contrasto con il mondo dei poeti più antichi, suoi maestri. A volte potrebbe sembrare un’antitesi ironica, ma la poesia ormai ha perso il suo ruolo consolatore per esprimere l’estrema inutilità provata dall’uomo, trovandosi A limen poet: THOMAS STEARNS ELIOT The modern artist thrown in the jaws of life T he limen characteristics of the famous poem The Waste Land. Western culture in fragments. The solitude of the alienated artist. The Victorian literary tradition which slides in the vacuity of the past. The poet feels bewildered in a cosmic crisis, in which the modernist poetry becomes poetry of images, themes, fragments. The image is not considered anymore a symbol according to the medieval, romantic or symbolistic sense, but as objective correlative, objective correspondence, therefore not personal, of the feelings. Theorized by T. S. Eliot, this technique allows the poet to express feelings, as the author himself claimed: “The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked”. As from his first poetry the limen between the beauty and the shabbiness lets Eliot criticize the shallowness and the uselessness of Boston and London, which are set against views of lyrical beauty. In fact Eliot opens the third section, The Fire Sermon, of his famous poems The Waste Land, with the river Tames, seen in its modern state of wretchedness and filth, which clashes with the mythical image of the river, during the Elizabethan age. But The Waste Land revolves in particular around the border between the spiritual dryness and the sterility of the modern world. “April is the cruellest month” with these A dissolving past. An emerging new world. Poetry is transformed, losing his consoling role. Thomas Stearns Eliot staggers on a fine fil rouge between spiritual aridity and sterility of modern world in his famous The Waste Land. A nihilist who finds hope in a restless and purgatorial conversion. first words, transcoded from Chaucer, Eliot portrays an unusual image of the spring like a lovely month, which in the incipit of The Burial Of Dead (the first section of The Waste Land) is described as bearer of a dry summer. The important features of all the poem are: the simultaneity, which makes possible the contrast between the previous culture and the modern sterility, the econtextualization, which produces in the reader’soul a sense of disorientation and shock. In fact Eliot underlines his vision of desolation and spiritual dryness in an unexpressed contrast with the world of the most ancient poets, his masters. Sometimes this could seem an ironic contrast, but the poetry now has lost its consolatory role to express the extreme sense Lyceum Maggio 2011 47 Strumenti/Liminarismo a dover vivere in un mondo sterile, dove nulla ha più significato. 48 L’uso del metalinguaggio di un uomo abbandonato da Dio. Questo disinganno politico è da relazionarsi con lo stato di spaesamento in cui si trovava quella generazione che aveva sprecato la propria giovinezza nella Prima Guerra Mondiale. L’uso del metalinguaggio diventa l’unica soluzione per proporre nuovi valori in un mondo in cui, di fatto, i criteri di giudizio sono ormai del tutto dissolti. Perciò la poesia di Eliot si pone al limen tra le leggende e i miti classici, le bellezze antiche e lo squallore delle osterie, ma con versi taglienti e duri e con un’alternanza di termini aulici e colloquiali. Reagendo al razionalismo cerebrale del Settecento e al vaporoso sentimentalismo romantico, Eliot propugna una poesia che sia un mélange di intelletto e sentimento, risalendo alla lezione dei poeti metafisici e al simbolismo universale di Dante, che è per lui: «la più grande intensità emotiva del suo tempo, basata su quello che costituisce il pensiero del suo tempo». Del Sommo Poeta vorrebbe imitare le “chiare immagini visive”, nel tentativo di riproporre a orecchi umani il messaggio dell’ineffabile divino come nei Quattro Quartetti. Quindi la prima fase della poesia di Eliot è data dal tema della solitudine dell’uomo, abbandonato da Dio in cui non crede più, estraneo alla società che lo circonda (è il motivo della Canzone d’amore di Alfred Prufrock) e che è in decadenza, priva di morale, incapace di agire, sostanzialmente alienata. La posizione del poeta è quella di uno spettatore coinvolto, ma anche ironicamente distaccato, legato all’arida finzione delle forme borghesi, ma chiuso a ogni intervento liberatore sul piano sia della storia che su quello della religione. Dall’incertezza ironica, inquietantemente esistenziale, si passa a una visione più angosciata del mondo visto come “cumulo d’immagini spezzate”. Da posizioni nichiliste alla conversione. La meditazione sul tempo, cioè sulla storia e sul rapporto del divino con essa, introduce un processo di meditazione interiore, che porta Eliot ad aderire alla Chiesa d’Inghilterra nel 1927. Gli anni ‘20 e ‘30 furono molto importanti per il poeta, perché trovò nella religione la via d’uscita dal nichilismo della sua prima fase, che esprimeva un mondo privo di significato, in cui al crollo dei valori tradizionali non seguì la nascita di nuove certezze, ma un mondo di morti viventi. La sua graduale accettazione della fede cristiana si ritrova nelle sue opere scritte alla fine degli anni ‘20: Il Viaggio dei Magi e Mercoledì delle ceneri, anche se questa ricerca raggiunge il suo culmine in un’opera teatrale molto famosa: Assassinio nella cattedrale, basata sul martirio di Thomas Becket. Con la conversione Eliot trova, invece, una risposta e una speranza concreta che colma la sua attesa; ma si tratta sempre di una speranza e un’attesa inquiete, ansiose, purgatoriali, che si placano solo nel mistico invito all’umiltà, al distacco, all’introspezione. E se Eliot avesse sempre avuto dentro di sé questa speranza? Potrebbero esserci elementi cristiani nella Terra desolata? Probabilmente, il riferimento biblico alla figura di Gesù Cristo, chiamato “Figlio dell’uomo” (prima sezione), oppure il ruolo rigeneratore dell’acqua (quarta sezione) affiorano all’interno del poema come spie dell’ossessiva ricerca, condotta dal poeta, per medicare quelle ferite che svuotavano di significato la vita e il mondo. La conversione diventa, quindi, il punto di arrivo di un’anima errante nel fluttuante caos della vita. Quattro quartetti costituiscono una summa della poesia eliotiana. Il mondo qui non è più caos di immagini spezzate, ma viluppo apparentemente caotico, significante d’indizi e congetture che suggeriscono un universo duraturo al di là delle loro false parvenze. Il nostro mondo è fenomeno, ma proprio come segno dell’infinita, trascendente realtà divina. Il modello poetico è il Dante del Paradiso: nasce, così, una musicalità quasi paradisiaca, che consente di placare la profonda crisi esistenziale di un’intera era. Valeria Fortuna Gigi Caterina Ambrosio III B Liceo Classico of the uselessness felt by a man who has to live in a sterile world, where nothing has a meaning anymore. The use of a metalanguage of a man abandoned by God. This political disillusion is to be compared with the state of shock in which that generation, who has thrown away her youth in World War I, finds iself. The use of a metalanguage becomes the unique solution to suggest new values in a world where, actually, the valuation methods have disappeared. So Eliot’s poetry places itself in the limen between legends and classical myths, rituals, ancient beauties and the shallowness of the taverns, using sharp and strong verses and an alternation of aulic and colloquial terms. By reacting to the rationalism of the eighteenth century and the brain hazy romantic sentimentalism, Eliot advocates a poem that is a mélange of intellect and feeling, going back to the lesson of the metaphysical poets and the universal symbolism of Dante who is for him: “the greatest emotional intensity of his time, based on what is the thought of his time”. Of the Great Poet he would like to imitate the “clear visual images” in an attempt to reproduce to human ears the message of the ineffable God as in the Four Quartets. So the first phase of Eliot’s poetry is given by the theme of human solitude, a man abandoned by God, whom he does not believe in outsider of the society around him (this is the reason for The love song of J. Alfred Prufrock), which is declining, without morals, unable to act, substantially alienated. The position of the poet is that of an involved spectator , but also ironically detached, linked to arid pretence of bourgeois forms closed to every liberating intervention both in history and in religion. He moves from ironic uncertainty, disturbingly existential into a more anxious view of the world as a “heap of broken images”. From nihilist positions to the conversion. The meditation about time, that is about history and the relationship with the divine, introduces a process of inner meditation, which leads Eliot to adhere to the Church of England in 1927. The ‘20s and ‘30s were very important for the poet, because he found in the religion the way out of the nihilism of his first phase, that expressed a world with no meaning, where the collapse of traditional values did not follow the birth of new certainties, but a world of the living dead. His gradual acceptance of Christian faith is reflected in his works written in the late ‘20: The Journey of the Magi and Ash Wednesday, although the search reaches the climax in a very famous play written by Eliot: Murder in the Cathedral based on the martyrdom of Thomas Becket. With the conversion Eliot finds , however, an answer and a real hope that fills his waiting, but it is always a hope and an expectation restless, anxious, purgatorial, which appeases only in the mystical invitation to humil49 ity, detachment , introspection. And if Eliot had always had this hope within himself? Might there have been Christian elements in The Waste Land? Perhaps the biblical reference to the figure of Jesus Christ, called “Son of Man” (first section), or the regenerative role of water (fourth section) emerge from the poem as spies of the obsessive research, led by the poet , to cure the wounds that rob life and the world of meaning. The conversion thus becomes the culmination of a soul wandering in the fluctuating chaos of life. Four Quartets are a culmination of Eliot’s poetry. The world here is no longer the chaos of broken images, but seemingly chaotic tangle, meaning of clues and conjectures that suggest a world of lasting beyond their false appearances. Our world is a phenomenon, but as a sign of the infinite, transcendent, divine reality. The model is the poetry of Dante’s Paradiso: almost a musical paradise originates, it can appease the deep existential crisis of a whole era. Valeria Fortuna Gigi Caterina Ambrosio III B Liceo Classico Lyceum Maggio 2011 Percorso Apre la szione dedicata al 150° dell’Unità d’Italia la lectio magistralis di Raffaele Cananzi su “Risorgimento e Costituzione”, di cui, per esigenze editoriali, si propone la prima parte, rinviando al prossimo numero della Rivista la pubblicazione della seconda. L’atmosfera di cui è pregno lo scritto fa da sfondo alle vicende di Jacopo Ortis in perenne peregrinazione dal centro natio (Venezia) a quello ideale (Roma) e poi politico (Milano) fino al centro dei centri: la morte da suicida. Ma peregrino è anche il ghibellin fuggiasco, la cui condizione di grande esule ne fa il profeta dell’italianità e il vate dell’unità linguistica. Quell’italianità che si fa sentimento, emozione, speranza, illusione e disincanto nel filo rosso della storia di un mosaico a rischio, ma ben rappresentato da due icone dure a morire pur tra schiamazzi e derisioni, quasi a voler simboleggiare la forza che si sprigiona dalla vita di una donna-patriota senza tempo. E, rimanendo nell’orizzonte femminile, ci incamminiamo lungo un percorso che si avvia con la Rivoluzione Partenopea, passa per il Risorgimento ed arriva alla Resistenza, con accompagnatrici eroiche ed esemplari: le sorelle d’Italia. L’argomento del prossimo Percorso è: 150 anni dall’Unità d’Italia Sui temi della Giustizia, della Costituzione e dell'Identità nazionale italiana il Prof. Francesco Paolo Casavola, Presidente emerito della Corte Costituzionale, terrà una Lectio magistralis agli studenti del Liceo “T. L. Caro” il 27 maggio. Il testo sarà pubblicato nel prossimo numero di Lyceum. Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 53 Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 54 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 55 Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Programma del Convegno 56 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” A 150 anni dall’Unità d’Italia Un Convegno-Evento G Promotori: il Liceo “T. L. Caro” di Sarno, l’Istituto Superiore “Da Vinci” di Poggiomarino e l’ITC di Nocera Inferiore. Con il Patrocinio dell’Università di Salerno. Tra i Relatori anche il Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale della Campania, dott. Diego Bouché. randissimo successo di pubblico e di critica per l’Evento-Convegno di tre giorni: 7, 8 e 9 aprile. Un titolo pregnante: “A 150 anni dall’Unità d’Italia, percorsi e riflessioni”. Promotori: il Liceo Classico “T. L. Caro” di Sarno, l’Istituto Superiore “Leonardo da Vinci” di Poggiomarino e l’Istituto Tecnico Commerciale “Raffaele Pucci” di Nocera Inferiore, con il patrocinio dei rispettivi Comuni e dell’Università di Salerno. Con questa Manifestazione, circa duemila studenti coinvolti: anche la Valle del Sarno vuole presentare al pubblico giovanile e, al tempo stesso, agli addetti ai lavori aspetti inediti sulle vicende del Risorgimento in terra campana e sugli sviluppi storici dopo l’Unità. Il fine è quello di fare emergere nel cuore e nella mente delle nuove generazioni quell’amore per l’Italia, che negli ultimi anni avanza prepotente. Perché, pur in questi nostri tempi tristi, un numero sempre più crescente di persone afferma di amare l’Italia, la sua bandiera, la sua storia. Segnate dalle lacrime e dal sangue di chi ha costruito l’identità nazionale. L’Evento prende l’avvio dal Centro Sociale di Sarno, giovedì 7 aprile, in cui il Liceo Classico, dopo i profondi e sentiti interventi del Dirigente Scolastico Prof. Giuseppe Vastola e del Sindaco Avv. Amilcare Mancusi, presenta come Relatori: il Prof. Vincenzo Pacifici (Università “La Sapienza” di Roma) che illustra una relazione inedita di Luigi Minervini sulle province napoletane del 1861, il Prof. Luigi Rossi (Preside Facoltà di Scien57 ze Politiche Università di Salerno) che spiega l’attualità del Risorgimento, il Prof. Alfonso Conte (Università di Salerno) che affronta il problema del Mezzogiorno nel Risorgimento, e il Prof. Franco Salerno (Docente a contratto dell’Università di Salerno e Docente del Liceo Classico “T. Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 58 L. Caro”) che fa conoscere le “Sorelle d’Italia”, cioè le patriote del Risorgimento e oltre. Il Prof. Vastola modera il dibattito con grande maestria, illustrando anche come tutta l’attività didattica del Liceo Classico, Scientifico e Linguistico sia, durante quest’anno, dedicata proprio ai 150 anni dall’Unità d’Italia. Fa, poi, un cenno all’attualità e al problema dell’immigrazione. Ed esorta i suoi giovani studenti, presenti in sala, a non negare mai nessun evento storico: un Popolo senza Storia non ha ragione di esistere. E’ la volta dei saluti istituzionali: Il Sindaco Mancusi, che ha anche la Delega alla Cultura dell’Amministrazione sarnese, svolge un intervento emblematico sulla riscoperta della parola “patriottismo” e del suo significato storico e politico più ancestrale. Stigmatizza le posizioni partitiche separatiste ed esalta il ruolo della figura del Presidente della Repubblica: un ruolochiave, un ruolo decisivo per la nostra democrazia. La Storia è quella che si sviluppa attraverso i secoli e questo anniversario non deve essere meramente celebrativo, ma significativo di un popolo che ha sempre reagito ai momenti bui. Il Sindaco chiude con un messaggio rivolto ai ragazzi, i quali devono conoscere il passato per attualizzare il presente e costruire già da ora il futuro dei loro figli. Il Prof. Pacifici, invece, relaziona su un tema difficile e lo fa con toni critici verso le correnti separatiste nel nostro Governo. Alla luce di una Relazione di Minervini, delinea le difficol- tà dello Stato italiano a costruire il sogno dei patrioti di una Nazione libera e giusta: anche le soluzioni forti post-unitarie avevano come fine il preservare le grandi conquiste ottenute con il sangue degli Italiani. Significativo è il giudizio di Minervini sulla popolazione meridionale come generosa e capace di grandi imprese. Del resto, il contributo del Sud all’Unità oggi non è più da nessuno posto in dubbio. Il Prof. Rossi con una trovata geniale, scende in platea e interagisce con gli alunni. Insieme a loro, fa la differenza tra il termine “vacanza” e la parola “festa”. Legge un passo dei “Promessi Sposi” di Manzoni e lo riscrive in chiave attuale, ponendo dei giusti parallelismi tra due Italie così temporalmente diverse, eppure così politicamente simili. E, poi, analizza magistralmente l’Inno di Mameli: dal punto di vista musicale, dal punto di vista letterale, dal punto di vista affettivo. Cantiamo l’Inno emozionandoci. Cantiamo l’Inno ora, come se fosse allora: le note iniziali di trombe e tamburi per richiamare l’attenzione, le note sincopate come il battito del cuore, le pause, gli alti e i bassi…e un sì carico, sentito, deciso, fiero: noi siamo italiani, sì! Innovativa, la conferenza del Prof. Franco Salerno sulle “Sorelle d’Italia”. Un tema generalmente trascurato. Le donne, infatti, sono state nell’Ottocento dietro le barricate e si son battute come leonesse contro il tallone di ferro dell’Austria; ma quasi nessuno le ha ricordate. La Relazione, arricchita da recitazioni degli studenti, è partita da Luisa Sanfelice, ultima martire della Rivoluzione napoletana del 1799: dalla sua decapitazione nasce il Risorgimento, che vede Nord e Sud uniti nella lotta. Dalla milanese Adelaide Cairoli, madre di quattro giovani morti per la Patria, a Cristina Belgiojoso Trivulzio, che conduce duecento napoletani a combattere nelle Cinque giornate di Milano; dalla veneziana Adele Cortesi, che lancia il primo manifesto delle donne patriote femministe, all’eroica protagonista del Risorgimento meridionale Antonietta De Pace, è tutto un elenco toccante e Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” sorprendente di grandi donne. Donne, che hanno dato un tributo altissimo di sofferenza e di sangue nel dopoUnità e nella guerra di Resistenza, in cui è risuonato profondo e forte il loro “Viva l’Italia”. Le conclusioni al Prof. Conte, che si è fatto portavoce della tesi secondo cui il Sud ha vissuto il Risorgimento non come una guerra di conquista subìta, ma come l’azione consapevole di un popolo unito e desideroso della libertà. Artigiani e professionisti, intellettuali e popolani: è stato questo crogiuolo di ceti e di classi così composito che ha garantito il successo di un sogno grandioso come l’Unità d’Italia. Di cui bisogna, soprattutto oggi, in tempi aspri e difficili, conoscere i Valori. Per recuperare e rinsaldare il senso dello Stato e delle Istituzioni. Bravissimi tutti gli studenti che hanno letto dei loro scritti inediti ed originali sul tema “Perché amo l’Italia”, che, davvero ci rendono fieri di essere italiani. Molto applaudite, infine, le performances dei ragazzi de La Nave dei Folli che, tra l’altro, hanno anche suonato e cantato live l’Inno d’Italia, con la particolarissima riscrizione del M° Ciro Ruggiero. Davvero complimenti ad una Scuola pubblica di fine qualità che abbiamo l’onore di avere sul nostro territorio e che vanta iscritti da tutto il comprensorio dell’Agro. I riflettori si sono poi spostati l’8 aprile a Poggiomarino, nell’Aula Magna dell’Istituto Superiore “Leonardo da Vinci”, diretto dal Preside Prof. Filippo Filosa. Dopo l’intervento, appassionato e coinvolgente, del Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale della Campania, Dott. Diego Bouché, il Prof. Marco Sagrestani, dell’Università di Firenze, ha relazionato sul Granducato di Toscana nel Risorgimento, il Prof. Vincenzo Pacifici si è soffermato sui Deputati campani nella prima Camera unitaria, l’On. Avv. 59 Raffaele Cananzi, Ex Presidente Nazionale Azione Cattolica, ha chiarito i nessi tra Risorgimento e Costituzione e il Prof. Giuseppe Palmisciano, dell’Università di Viterbo, ha offerto una panoramica sul Risorgimento nell’Agro sarnese. Giornata conclusiva a Nocera, il 9, nell’Aula Magna dell’ITC. Introdotti dal Dirigente Scolastico Prof. Donato Viscido, si sono alternati: il Prof. Giuseppe Cacciatore, dell’Università “Federico II” di Napoli, relatore sulle filosofie del Risorgimento, il Prof. Marco Sagrestani, autore di un intervento sul Plebiscito nel Granducato di Toscana, il Prof. Maurizio Martirano, dell’Università di Potenza, studioso della cultura napoletana postunitaria, e il Prof. Graziano Palamara, dell’Università di Salerno, che ha trattato il dibattito su Napoli capitale. Viridiana Myriam Salerno Addetto stampa del Convegno In questo numero di Lyceum vengono pubblicati la prima parte della Relazione dell’On. Avv. Raffaele Cananzi e l’intervento del Prof. Franco Salerno. Gli altri testi appariranno nel prossimo numero. Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 60 Lectio magistralis Risorgimento e Costituzione Il testo dell'Avv. On. Raffaele Cananzi, qui pubblicato, è la prima parte della Lectio magistralis, svolta l’8 aprile 2011, nell'Aula Magna dell'Istituto Superiore “Leonardo da Vinci” di Poggiomarino. La seconda parte sarà pubblicata nel prossimo numero di Lyceum. Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Premessa Oggetto della riflessione sono due eventi distinti della nostra vicenda nazionale. Non solo distinti ma anche temporalmente distanti. Il Risorgimento, secondo forse la più accreditata storiografia contemporanea, è, infatti, un periodo della storia italiana che si tende a racchiudere fra gli ultimi anni del 1700 e il 1870, anno nel quale, con la conquista di roma, si chiude il processo dell’unificazione dell’Italia. Gli anni, invece, della Costituzione repubblicana appartengono al XX secolo e, con riguardo alla caduta del fascismo e agli eventi che hanno portato, con la fine della seconda guerra mondiale, al suffragio universale di maschi e donne e alla scelta della forma repubblicana, possono datarsi a partire dal 1943. La Costituzione repubblicana viene redatta nel corso degli anni ’46 e ’47 dall’Assemblea Costituente, entra in vigore il 1° gennaio del 1948 e continua ad essere ancora oggi la legge fondamentale della Repubblica italiana. È evidente la distanza temporale fra i due eventi. Ma questo certamente non basta per escluderne ogni connessione e, soprattutto, per esentarci da una profonda ricerca circa lo spirito, gli intendimenti, la natura dei valori e l’ampiezza degli orizzonti che hanno animato i due eventi. Lontani nel tempo, ma vicini nello spirito e nella sostanza della vicenda italiana? Per rispondere con un minimo di fondamento a questo interrogativo occorre avere a cuore una disamina equilibrata di un lungo itinerario. L’equilibrio, soprattutto se chi scrive non è uno storico di professione, è quello che non si fa prendere la mano da una retorica che vorrebbe vedere sempre e, comunque, luci splendenti lungo questo cammino, ma è anche quello che non s’immerge in una pregiudiziale valutazione complessivamente negativa che finirebbe con la rappresentazione di un generale gioco di ombre e di messaggi di sciagure e di ingiustizie. Il quadro, come di consueto nelle umane cose, è di luci e di ombre. Questa forma di equilibrio va sempre tenuta presente; per quanto attiene al nostro argomento; essa interessa assai di più il momento risorgimentale rispetto a quello costituzionale sulla cui vicenda i pareri sono meno discordanti. Sul risorgimento, invece, in occasione dei centocinquant’anni dell’unità d’Italia si è aperta, non senza qualche asprezza, una disputa assai vivace1 nella quale certamente non entrerò cercando, invece, di sottolineare quei profili che hanno avuto maggiore risonanza e hanno accompagnato il cammino del popolo italiano che si è poi in qualche modo ricapitolato, e rigenerato, nella vicenda della Costituzione del 1948. il patriottismo nazionale: alle origini di un sentire comune È forse l’idea di “nazione” che anima sia la vicenda risorgimentale sia quella costituzionale, anche se la diversa condizione storica e il concreto vissuto degli italiani nei due distinti momenti assegnano a questa idea una rilevanza differente. Nel pensiero di Norberto Bobbio -il grande filosofo torinese del ‘900- “ patriottismo nazionale” e “patriottismo costituzionale” hanno una diversa sostanza ma possono ben essere coniugati insieme. La vicenda della nazione, nella quale si 61 configura e si sviluppa quella della Costituzione repubblicana, ha un singolare itinerario in quell’articolato territorio che dalle Alpi alla Sicilia vede snodarsi il corpo della Penisola e di alcune isole ad essa collegate per tradizioni, cultura e, spesso, per vicende storiche. Le culture su questi territori e, dunque, anche i costumi delle diverse popolazioni, ebbero matrici diverse. Matrici fenicie, greche, etrusche e latine furono presenti ed esercitarono, ora più ora meno, vaste e incisive influenze che resistettero per tempi diversi rispetto al successivo amalgama di Roma, che anche per la provincia Italia operò costruendo unità pur nella varietà delle originarie posizioni etniche, morali e culturali. L’influsso di Roma, prima repubblicana e poi imperiale, rispetto alla provincia più prossima al centro politico e culturale, fu di amplissima portata e di fortissima incidenza, sicché l’amalgama romano rispetto all’Italia fu non solo duraturo ma riuscì a plasmarne le ulteriori forme e, in qualche modo, a segnarne orizzonti e destini Al tramonto dell’Impero romano d’occidente l’Italia conservava, come risulterà qualche tempo Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 62 dopo dai codici giustinianei, la denominazione di domina provinciarum. Questa “signora delle province” romane subì invasioni di popolazioni germaniche, longobarde, franche, arabe, normanne, ma molte di queste forme culturali assorbì nelle sue usanze e nei suoi costumi e di alcune seppe assumere stili e lettere così ampliando il proprio bagaglio culturale e respingendo, però, ogni visione localistica. Nel primo millennio dopo Cristo nell’Italia dei barbari, dell’Impero carolingio, germanico e bizantino resta forte il senso universale che sprigiona da Roma, prima sede e fonte dell’Impero e poi sede primaziale e luce spirituale di una religione, il Cristianesimo, che per sua stessa natura si definisce universale. Come è stato notato il fatto che Roma abbia costituito il centro dell’Impero e del Papato è stato motivo di orgoglio ma anche ragione di singolare travaglio per l’Italia. In Italia si è generato uno spirito universalistico che, per un verso, per molti secoli ha oscurato quello nazionale e, per altro verso, ha fatto sì che i conati imperiali per la costruzione di un’Italia politicamente unita siano stati sempre vanificati dalla presenza del potere temporale della Chiesa, che ha conservato ed esteso il suo dominio su vaste zone della penisola. Peraltro questo sentire universale degli italiani, che sarà elemento costante, ora più ora meno presente, della cultura italiana renderà idoneo il patrimonio spirituale, etico e culturale dell’Italia ad esprimere un respiro globale e un orizzonte planetario che ne costituiranno carattere costitutivo e ragione di universale apprezzamento. Percorso artistico-letterario Anche la visione politica di Dante si muove in chiave universalistica fra Impero e Papato ma la sua poesia realistica, nella nuova lingua, non manca di richiamare la condizione dell’Italia, implicitamente auspicandone una diversa e più espressiva di uno spirito nazionale. Nel canto del Purgatorio dove si incontrano due mantovani, Virgilio e Sordello, l’invettiva dell’esule fiorentino suona come un forte richiamo per un risveglio dello spirito nazionale. “Ahi serva Italia, di dolore ostello, Nave senza nocchiero in gran tempesta, Non donna di province, ma bordello!” È vero che l’Italia è serva perché non considerata ed abbandonata dall’Imperatore ma anche perché priva di uno spirito di cittadinanza nazionale, luogo di grandi ingiustizie e sofferenze, nave senza governo e incapace di darsi una meta ed un porto dove approdare, non più signora fra le province di Roma ma sede di corruzione e di mancanza di dignità civile. Dante indica la necessità di una svolta nello spirito degli italiani(più che nella vicenda italiana) una svolta che proprio dalla poesia cosiddetta “politica e civile” prende le mosse per la nuova lingua che restringe l’universalità del latino e per una proiezione dell’unità religiosa già da secoli raggiunta nella penisola, unità che considera il dato universale (cattolico) né contrastante, ma coniugabile, con uno spirito nazionale né necessariamente collegato al potere temporale del Papa. Leonardo Olschki2 così scrive su Dante: “L’impronta che Dante ha lasciato su tutta la civiltà italiana è evidente ovunque, ma per certi rispetti imponderabile… L’influenza di Dante non si avverte in un campo particolare della letteratura e dell’attività artistica, ma nell’atmosfera generale della vita italiana, nella riverenza e nella familiarità che circondano il nome e la memoria del poeta, nella notorietà delle leggende popolari e degli aneddoti scherzosi che si sono formati intorno a lui e soprattutto nell’impronta che il suo genio ha dato alla lingua italiana. Per più di sei secoli il popolo italiano ha trovato nella Com- Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” creazioni musicali, forme culturali tutte che hanno reso altissimo il genio italiano. Di questo ricco itinerario non posso che richiamare pochissimi che con le loro opere di natura filosofico-letteraria hanno reso nel loro tempo vivo e plastico il sentimento della nazione. Niccolò Machiavelli, Tommaso Campanella, Giuseppe Parini e Vittorio Alfieri. Parini, prete milanese, mise in luce gli ozi raffinati degli aristocratici fannulloni e le ingrate fatiche del popolo operoso ed affamato, esaltando le virtù sociali, la dignità umana, la patria terra. I medesimi sentimenti morali e sociali fece rivivere il conte Vittorio Alfieri con il suo odio per la tirannia e il suo culto per le patrie glorie. Con le tragedie, i poemi satirici, gli scritti politici Alfieri si rese vate di una forte indignazione morale verso ogni tirannia ed ingiustizia e di un appassionato patriottismo lirico e intellettuale. Con 63 la Vita e le Rime di Vittorio Alfieri siamo all’alba dell’ottocento. È tempo di Risorgimento non come diversità ma come forma di incarnazione del patriottismo nazionale che assume forma di vissuto concreto e di realtà politico-esistenziale del popolo italiano. Niccolò Machiavelli media una fonte inesauribile di insegnamento ed ispirazione, di conforto e diletto. La vita tutta della nazione si è venuta identificando con essa, e nel corso di tante generazioni ha attinto vitalità, forza e grandezza dalla meditazione sulle infinite esperienze individuali e nazionali rispecchiate nell’opera di Dante come in un libro sacro che assommi in sé tutti gli aspetti dell’attività nazionale e della saggezza umana”. Se Dante fu sommo maestro dello spirito nazionale con la poesia e la lingua nuova, Giotto lo fu con la sua pittura ispirata “dallo stesso sentimento di comunione immediata con gli aspetti del mondo reale, dallo stesso godimento delle sue apparenze naturali ed umane da cui Dante era stato affascinato”. Forse si può dire che da questo processo di nuova umanizzazione prende forma un sentire nazionale che trova nel Petrarca il cantore (sì di Laura ma anche) di un patriottismo nazionale che trovava fondamento negli antichi valori civili e morali, da cui trae ragione, per un tributo alle qualità umane del popolo italiano, instillando nella coscienza nazionale l’idea dell’unità spirituale dell’Italia. “L’esaltazione poetica del Paese in versi3 e in prosa, l’incessante evocazione delle glorie della patria, l’appassionata esaltazione delle sue bellezze nelle epistole e nelle rime infusero negli italiani un sentimento patrio permeato di lirismo, bensì ancor vago ed indeterminato, ma pregno di una sostanza spirituale che contrastava palesemente col gretto e rabbioso particolarismo dei signori e delle repubbliche d’Italia”. Questo patriottismo nazionale che si rivela nella letteratura e nell’arte del Trecento, non nella forma politica ma in quella dell’unità spirituale e morale del popolo italiano per storia, cultura, lingua, religione ed arte, attraversa tutta la vicenda italiana costituendo ora parte essenziale ora marginale di un processo nel corso del quale cultura dominante sono le lettere o le arti figurative o il fervore filosofico o gli entusiasmi scientifici o le Spirito e valori del Risorgimento italiano Che il patriottismo nazionale avesse avuto un orizzonte limitato -nel senso che non fosse inclusivo di una visione di nazione-Stato e, dunque, di una dimensione geopolitica indipendente- può desumersi dal fatto che fino al 1775 non sembra si sia parlato di “risorgimento” ma soltanto di “resurrezione”, “rinascita”, “rigenerazione”. Un’espressione nazionale che non fosse meramente geografica era certamente auspicata ma non in stretto riferimento ad una nuova condizione di indipendenza politica. Ciò è tanto vero che quando Saverio Bettinelli, gesuita, conia il termine “Risorgimento” e pubblica, appunto nel 1775, “Del Risorgimento d’Italia negli studi, nelle arti, nei costumi dopo il Mille”, nessun riferimento è percepibile circa una concezione Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 64 politica della nazione, essendo lontana l’idea che l’unità nazionale potesse essere realizzata nelle condizioni politiche di quel passaggio storico che inglobavano, fra l’altro, non solo l’esistenza di uno Stato pontificio assai esteso ma anche forti interessi delle altre potenze europee. Il Bettinelli richiama, in fondo, quegli elementi dei quali il patriottismo nazionale si era fino ad allora sempre più alimentato. Come nota Giuseppe Galasso (4) l’evoluzione dell’idea nazionale si verificò quando una relazione intrinseca “si determinò fra l’idea nazionale e le idee di libertà e di democrazia nella grande congiuntura europea della fine del XVIII secolo, quando l’idea di Stato fu fatta pienamente coincidere con quella di nazione, e di nazione innanzitutto come popolo sovrano. Perciò il “buon patriota” era allora il rivoluzionario che rappresentava il popolo-nazione nei suoi diritti sovrani e nelle sue istanze di libertà e democrazia, e la patria non era tanto “la terra dei padri” quanto il paese in cui ciascuno si riconosceva e sentiva la paternità universale dei diritti imprescrittibili dell’uomo come individuo e come corpo sociale”. Come per gli altri popoli europei anche per gli italiani la rivoluzione francese del 1789 generò un’idea più compiuta di nazione ed i primi a sentirsi investiti dell’alta missione di rigenerare la nazione nel quadro dei nuovi principi di libertà, uguaglianza e fraternità furono i “patrioti” napoletani con la sfortunata ma nobile rivoluzione del 1799. Ma a quella che Galasso (5) chiama “la successiva fase romantica di elaborazione e di formulazione dell’idea nazionale” che “diede a quest’ultima…la sua massima e più alta consistenza” si perviene in Italia non solo a seguito della rivoluzione francese ma anche della presa d’atto che un’unità politica è possibile dopo lo sfaldamento e la ricomposizione dei vari stati italiani ad opera di Napoleone nella sua prima campagna d’Italia. Quasi a meglio sottolineare questa possibilità come una naturale conseguenza della dominazione napoleonica in Italia è l’appello all’indipendenza di Gioacchino Murat proclamato nel 1814, che accende ulteriori speranze. Ma non nel cuore di molti. Nell’intermezzo napoleonico Ugo Foscolo, personalità cosmopolita come quella dell’Alfieri, poeta di grande umanità e profonda sensibilità, politicamente democratico, aveva già scritto sia le Ultime Lettere di Jacopo Ortis sia quel capolavoro della poesia civile che porta il titolo Dei Sepolcri, nel quale le alte memorie del passato sono un grande viatico di speranza per il futuro dell’Italia. Il proclama di MuGioacchino Murat rat fa breccia nello spirito di un altro grande italiano: Alessandro Manzoni che scrive Aprile 1814 e Il proclama di Rimini. Né può esser sottaciuto che nel 1818 vengono pubblicate a Roma per la prima volta le due odi patriottiche di Giacomo Leopardi All’Italia e Sopra il monumento di Dante, canti pur toccati da qualche accento retorico ma che non smentiscono il grande lirismo del poeta di Recanati e la sua anima universale che, però, sente forte la storia, la cultura, l’arte ed il genio tutto della sua Italia. In questo clima nascono in quegli anni le prime sette segrete che avranno come principale la Carboneria ed in cui affiliazione e giuramento hanno non un generico obiettivo umanitario ma un sempre più chiaro e affinato orizzonte in cui si staglia un arcobaleno di libertà, indipendenza ed unità. Il patriottismo nazionale assume una chiara connotazione politica e con queste associazioni segrete si tenta di suscitare nuovi aggregati, di minare le forze armate e la pubblica amministrazione negli stati governati dallo straniero, di far giungere nelle scuole e nelle famiglie il messaggio dell’unità nazionale e delle libertà democratiche mentre si attuano forme cospirative che inquietano il potere straniero. Le forme tipiche letterarie, intellettuali ed artistiche del Romanticismo europeo non mancano in Italia; ma qui è nello spirito patriottico e Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” risorgimentale, è nell’azione politica ed in eroiche e sanguinose imprese di patrioti rivoluzionari che questa corrente di pensiero trova una peculiare forma di incarnazione. La mobilitazione politica del popolo italiano avanza rapidamente e fermenti rivoluzionari esplodono dal 1820 in avanti. I moti lombardi del 1821 ispirano al Manzoni Marzo 1821, dove l’Italia, fra l’Alpe ed il mare, viene cantata “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor”. Quello del poeta lombardo è un canto di speranza, tanto che quest’ode non potrà che essere pubblicata soltanto nel 1848 quando il rischio dell’esilio, delle prigioni e delle torture sarà certamente minore. Al canto di questi grandi poeti –Foscolo, Leopardi, Manzoni che, pur con diverse matrici spirituali e morali e, dunque, con differenti visioni del mondo e della vita, cantano con identica passione lirica l’amore per la libertà e per l’indipendenza di un’Italia unita– si accompagna il canto di molti altri minori ma non meno amanti della patria. Berchet e Pellico, Giusti e Niccolini, Grossi e Tommaseo, Prati e Mameli (quest’ultimo l’autore dell’inno nazionale italiano, morto giovanissimo combattendo per la Repubblica romana). “Tutti questi Silvio Pellico poeti esprimevano il fervore, le speranze e le delusioni della nazione che andava sorgendo dalle trascinanti passioni rivoluzionarie e che nello stesso tempo si sentiva inceppata nel suo impeto unitario dalla coscienza della propria debolezza ed impreparazione. In un momento di tanta importanza storica il paese avrebbe avuto bisogno non solo di bardi, cospiratori, profeti e martiri, ma anche di capi politici dotati di una visione lungimirante e di potere persuasivo, capaci di trasformare un vago stato d’animo in una concreta convinzione e le effusioni liriche (e musicali come quelle di Giuseppe Verdi) in azioni ben determinate e in un’organizzazione efficiente”(6). Le basi ideologico-politiche dell’indipendenza È in questo contesto -di moti insurrezionali spesso domati nel sangue (anche l’Italia libera 65 indipendente ed unita nasce da non pochi martiri), di nobili ideali, di alto lirismo- che le linee di pensiero e di azione più politicamente caratterizzate e le forme organizzative più idonee si manifestano fra il 1830 e il 1870. Credo che, in estrema sintesi, si possa dire che le linee politiche sulle quali si è costruita l’indipendenza della nazione e la formazione dello Stato italiano sono state fondamentalmente quattro. La linea di pensiero religioso-democratico (Dio e Popolo) di Giuseppe Mazzini con la sua “Giovane Italia” che inizialmente attirò la grande maggioranza dei patrioti in un alone di religione civile e nella convinzione che l’insurrezione popolare avrebbe dato vita ad una repubblica scacciando gli stranieri dal suolo della nazione. Le imprese mazziniane furono sfortunate e represse. Il sogno dell’esule genovese non aveva i necessari presupposti perché si potesse avverare ma certamente contribuì non poco a tenere alto lo spirito nazionale e forte il sentimento di servire il nuovo ideale di una sola Italia anche a costo della propria vita. Ebbe, invece, successo l’impresa di Giuseppe Garibaldi -l’eroe mitico dei due mondi- con la Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 66 quale il Regno delle Due Sicilie fu sottratto ai Borbone e affidato a Teano nelle mani di Vittorio Emanuele II di Savoia, re del piccolo Regno di Sardegna. Garibaldi si rassegnò al sogno repubblicano perché comprese che la possibile via dell’unificazione passava attraverso il re di Sardegna non per i meriti della dinastia dei Savoia ma per la grandissima abilità politico-diplomatica di quello che fu certamente uno dei più grandi statisti dell’800: Camillo Benso conte di Cavour. Questa impresa di Garibaldi avvenne alle soglie della proclamazione del Regno d’Italia; ma prima di questa terza linea di azione un’altra aveva avuto singolare svolgimento negli anni ’40 ad opera del sacerdote liberale Vincenzo Gioberti che, come Garibaldi, all’inizio aveva fatto parte della Giovane Italia. Gioberti scrisse Del primato morale e civile degli italiani (1843) sollecitando l’adesione degli italiani ad un modello federale degli Stati esistenti sotto l’egida spirituale del Papato e quella militare del re di Sardegna e così offrendo un’impostazione neo-guelfa alla soluzione del problema italiano nella luce dell’attaccamento alle tradizioni regionali e religiose. Questo disegno del Gioberti ebbe largo seguito di cattolici e non, anche perché fu sostenuto dalle speranze che suscitarono le prime riforme amministrative del nuovo Papa Pio IX, che però mutò atteggiamento quando si trattò di partecipare alla guerra contro l’Austria e di fronte alle insurrezioni del 1848 che scoppiarono in ogni parte del paese e che costrinsero lo stesso Papa, il Granduca di Toscana, il Re Carlo Alberto del Piemonte e Ferdinando di Napoli a concedere gli Statuti come primo segnale di riconoscimento delle libertà civili dei cittadini dinanzi all’assoluto potere dei sovrani. Le linee di pensiero e di azione di Mazzini e Gioberti non ebbero concreta traduzione sotto l’aspetto conclusivo della vicenda unitaria ma certamente con- tribuirono ad ampliare il consenso allargando la base popolare verso la triade valoriale della libertà, dell’indipendenza e dell’unità. La positiva linea di azione di Garibaldi fu, invece, ben utilizzata da Cavour che giungeva a concludere il processo unitario dell’Italia nel 1861 dopo che da dieci anni prima, quale primo ministro del Regno di Sardegna, da abilissimo politico e diplomatico aveva tessuto una tela complessa con tutte le potenze europee interessate e, pur sconfitto talvolta nelle operazioni belliche, era riuscito a conquistare la Lombardia e ad annettere al Regno dei Savoia, con i plebisciti popolari, il resto dell’Italia geografica ad eccezione del Veneto e dello Stato pontificio sostanzialmente ridotto al territorio laziale. Cavour muore qualche mese dopo la proclamazione del Regno d’Italia e, a seguito di trattative diplomatiche, nonostante la sconfitta italiana del 1866, il Veneto viene ceduto all’Italia e nel 1870 Roma viene occupata dalle truppe italiane e il Papa si ritira nelle mura Vaticane. Si completa così il processo unitario. Già dal 1861 gli italiani erano messi alla prova nel senso di costruire una realtà etico-sociale e politicoeconomica che fosse non solo rispettosa dei valori nazionali che avevano sostenuto il cammino risorgimentale, striato da non poco sangue, ma capace di ampliare portata e significato dei medesimi valori di libertà, indipendenza e unità per rendere Re Carlo Alberto l’Italia un paese Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” degno delle storia delle sue origini, delle tradizioni antiche e nobili della sua gente e del suo genio per il quale ha sempre ricevuto ossequio ed ammirazione. Il primo tempo dell’Italia unita (1861-1945) Non intendo certamente fare alcuna sintesi storica di questo lungo periodo dell’Italia monarchica, ma soltanto sottolineare alcuni profili della vicenda italiana al fine di mettere in risalto luci ed ombre di un itinerario difficile in cui i valori risorgimentali non sempre hanno brillato e lungo il quale, quindi, le condizioni del popolo italiano non sempre li hanno pienamente espressi. Il centralismo statale voluto da Cavour e mantenuto dai suoi successori, nonostante le spinte federaliste di Cattaneo, non ha giovato a risolvere quello che è sembrato subito un problema fondamentale della nuova realtà italiana. Le condizioni socio-economiche del Mezzogiorno al momento dell’unificazione non erano le stesse di quelle del Nord. Sul punto occorre considerare la grandissima quantità di analfabeti, la condizione di povertà di grandissime masse di contadini nelle campagne del Regno borbonico, la diversità delle complessive condizioni igienico-sanitarie e dei servizi pubblici allora esistenti fra Napoli e alcune altre città rispetto al resto del Regno, la modesta realtà industriale e dei trasporti, considerando anche che le più fiorenti industrie meridionali erano per la grande maggioranza statali. Certamente il sistema dei grandi feudi esistenti al Sud non aiutò il processo di sviluppo economico a favore dei contadini, anche per le resistenze degli agrari. La non sempre efficiente amministrazione non aiutò, d’altro canto, la nuova organizzazione statale trasferita sul modello piemontese all’intero territorio nazionale. La questione meridionale non viene però percepita ed assunta dagli organi centrali del nuovo Stato in tutta la sua vastità e complessità ma, a causa degli episodi di brigantaggio pur presenti, viene considerata essenzialmente come questione di ordine pubblico con forme repressive di singolare violenza estesa ad intere comunità e capaci di colpire con i briganti anche contadini, esasperati dalla miseria, e legittimisti borbonici, difensori nostalgici del passato regime. Nei primi quarant’anni dell’Italia unita, la mancanza di un serio approfondimento della realtà socio-economica del Mezzogiorno e di conseguenti politiche volte ad agevolare uno sviluppo economico capace di generare forme propulsive locali, non solo non ha iniziato un superamento del dualismo italiano, ma ne ha in qualche modo, anche se inconsapevolmente, agevolato il processo. Segno palese fu la grande emigrazione dei meridionali in cerca di lavoro e il grande divario di reddito pro capite per quanti riuscirono a restare in Italia allocati in gran parte presso le pubbliche amministrazioni. Nonostante la legge speciale per Napoli agli inizi del ‘900 e un processo di lenta e circoscritta industrializzazione, accompagnato da una buona scolarizzazione che comportò una notevole diminuzione dell’analfabetismo, il paese duale 67 persisteva con evidenza anche dopo la prima guerra mondiale. Questa tragica guerra, che contò centinaia di migliaia di morti e feriti, oltre a completare l’unificazione servì a cementare lo spirito nazionale fra le varie parti del Paese, ciascuna delle quali sacrificò al fronte molte giovani vite. L’aggravata condizione economica dell’Italia nel dopoguerra rese ancora più chiara su questo piano la dualità, evidenziando come il problema del Mezzogiorno fosse certamente la più rilevante questione nazionale che l’Italia si trascinava dalla sua unificazione. Il ventennio fascista provvide sì alla bonifica delle paludi, a qualche limitato processo di industrializzazione attraverso l’IRI costituito negli anni ’30, ma contò soprattutto sulla possibilità di utilizzare le masse meridionali come forza di colonizzazione nei territori del Nord-Africa, ritenendo questa la migliore soluzione del problema occupazionale. La seconda guerra mondiale con i Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 68 milioni di morti operò distruzioni ingenti in tutto il nostro paese e, pur nelle degenerate condizioni complessive, registrò alla fine del conflitto il permanere di un divario fra Nord e Sud che diventava, nell’impegno ricostruttivo del paese, la questione nazionale di maggior rilievo umano, politico ed economico. Dopo oltre ottant’anni di storia unitaria l’Italia presentava una questione economica nazionale assai aggravata per gli effetti di una guerra perduta. All’interno di essa v’era una questione meridionale ancora di gigantesche proporzioni sotto il profilo economico e sociale. V’era poi una questione politico-istituzionale di rilievo che l’unificazione italiana aveva ben indirizzato sui temi dei diritti e delle libertà civili e politici. Sul piano politico, però, il processo era stato molto lento, non agevolato da formazioni politiche coese e programmaticamente opposte. Quello che si chiamerà il “trasformismo italiano” è quasi subito presente nel percorso politico dell’Italia unita e genererà quel “notabilato” della classe politica che contrassegna molti decenni di vita unitaria. La democrazia cresce lentamente e quando, nelle elezioni del 1913, si arriva al suffragio totale maschile il passaggio da una democrazia “bambina” a “giovane” viene interrotto prima dalla guerra mondiale e poi da formazioni politiche –socialiste e cattoliche, le prime rigenerate ma divise al loro interno (socialisti e comunisti) e le altre nuove (il Partito Popolare di Luigi Sturzo)– incapaci di collegarsi per arrestare un processo di lotte e confusione che porterà al governo presieduto da Benito Mussolini, conclusione imposta anche con una certa violenza e avallata dalla monarchia. In pochi anni la “democrazia bambina” scompare definitivamente in un regime autoritario e dittatoriale, in cui i partiti non hanno più diritto di cittadinanza, la libertà di pensiero e di espressione è tolta o gravemente censurata, la libertà di insegnamento ed educazione è solo quella fascista, l’etnia ebraica viene perseguitata. Mussolini stringe un’alleanza con il nazismo e fa entrare in guerra l’Italia accanto alla Germania di Hitler. L’immane catastrofe della guerra combattuta su più fronti, la caduta di Mussolini sfiduciato dai suoi stessi uomini del Gran Consiglio, l’armistizio richiesto ed ottenuto dall’Italia, l’abbandono di Roma da parte del Re e del Governo italiano, l’occupazione del CentroNord d’Italia da parte dei tedeschi appoggiati da Mussolini che governa da Salò con milizie fasciste, questo complesso di avvenimenti pone gli italiani democratici in una condizione di riconquista della libertà, dell’indipendenza e dell’unità. Sono anni di nuovo risorgimento e di preparazione ad una nuova alba dell’Italia unita: Resistenza e Costituzione gettano le fondamenta della nuova democrazia italiana. Resistenza e Costituzione La Resistenza fu un movimento militare e civile che perseguì due obiettivi necessari per consentire all’Italia di riprendere un cammino di libertà ed indipendenza. Si trattava, infatti, di liberare il paese sia dalla presenza dell’invasore tedesco con il quale, dopo l’armistizio, si era determinata una condizione bellica, sia dalla ancora persistente presenza al Nord di un governo fascista guidato da Mussolini e protetto dalle forze tedesche. Poiché alle dipendenze del governo fascista di Salò agivano con non pochi militari, Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” già dell’esercito regolare italiano, civili italiani, la Resistenza costituì anche una sorta di guerra civile per liberare definitivamente il Paese da una perniciosa appendice fascista la cui permanenza avrebbe generato non pochi problemi nei rapporti con i vincitori della guerra, con i quali l’Italia avrebbe dovuto stipulare il trattato di pace. Nel processo unitario dell’Italia la Resistenza resta un passaggio significativo che può ben essere salutato come il secondo Risorgimento italiano perché gli ideali che informarono il movimento popolare furono sostanzialmente la riconquista delle libertà civili e politiche, che il fascismo aveva cancellato dalla concreta vita degli italiani, la rinnovata indipendenza del paese dall’invasore tedesco e la determinazione di un’ unità di governo che rispondesse all’esigenza unitaria della nazione. Questo movimento popolare fu guidato dalle forze politiche che in Italia già dal 1942 avevano cominciato a ricostituirsi come principio plurale per un processo democratico, forze politiche già presenti nel governo al Nord, alternativo a quello fascista di Salò, e costitutivo del Comitato di Liberazione Nazionale che guidò grande parte delle operazioni belliche e politiche della Resistenza. Non mette conto qui ripercorrere il processo politico che portò alle elezioni del 2 giugno del 1946 ma solo evidenziare che quella vicenda elettorale determinò, per un verso, uno iatus nell’itinerario dello Stato unitario mutandone la natura da monarchica in repubblicana e, per altro verso, pose le basi, con l’elezione dei componenti di un’Assemblea Costituente, perché l’antica democrazia bambina potesse, in virtù di un rin- novato risorgimento spirituale morale e politico, riprendere il proprio cammino, consentendo al popolo italiano di raggiungere forme concrete di maturità democratica. Il risveglio alla democrazia trovò in campo dispiegate e, perciò, rappresentate nell’Assemblea Costituente tre formazioni politiche di diversa storia e matrice culturale: quella social-comunista di matrice marxista; quella laico-repubblicana di matrice liberale; quella democristiana di ispirazione cattolica. Le grandi distanze nei principi fondamentali delle tre correnti di pensiero e le forti contrapposizioni politiche determinatesi negli anni ’46-’47 per il governo del Paese non facevano certamente sperare bene per un processo costituente. La sensibilità umana dei costituenti non poteva non tener conto della tragedia della guerra e delle condizioni morali e materiali in cui il paese si trovava in quegli anni. La loro dimensione morale non consentiva di far valere lo spirito di parte sul reale interesse generale e sull’oggettiva necessità di porre basi chiare e condivise alla ricostruzione dello Stato 69 unitario, idonee premesse per l’edificazione di un concorde patto di convivenza. La loro preparazione culturale e politica li induceva ad un discorso alto e profondo, capace però di vincere sterili e polemiche contrapposizioni e di concorrere a condividere valori provenienti da ogni parte che comunque fossero oggettivamente assai significativi nell’ottica della costruzione di un bene comune in un orizzonte dagli ampi sviluppi. I nostri padri costituenti dettero, anzitutto, un timbro esemplare alla nostra democrazia facendo risaltare la dimensione dialogica come essenziale e idonea a ricercare, pur nella naturale contrapposizione di maggioranza e minoranza, la soluzione più adeguata per il governo dei processi sociali. La loro dialettica fu alta, anche accesa ma di contenuti chiari, mai strumentale ma volta a dare consistenza a principi e valori fondativi che hanno retto al vaglio di un tempo complesso globale e veloce qual è quello vissuto anche dal nostro Paese in quest’ultimo trentennio. La loro capacità di sintesi fu ammirevole perché nobilitata dalla passione di aprire agli italiani un orizzonte ricco di possibili mete civili e sociali e Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 70 perché idonea a dare luce ad un cammino di democrazia matura. La nostra Carta Costituzionale non determinò una sorta di do ut des, un “compromesso” fra principi e valori delle tre culture presenti nella Costituente perché lo spirito non fu quello di uno scambio. Fu, invece, quello di una reciproca accoglienza di quanto, con convinzione nascente da un dialogo alto e serrato, fu quasi unanimemente ritenuto giusto -a prescindere dalla provenienza culturale- porre a fondamento morale, giuridico e politico del nuovo Stato repubblicano. I costituenti acquisirono così un grande merito storico perché seppero distinguere dalla pur ferrea lotta ideologica e politica che in quegli anni attanagliava il Paese l’opera fondativa della Costituzione. Questa nasceva dalla tragedia morale e materiale della guerra e dalla comune passione della Resistenza e non solo per quella contingenza doveva valere ma per reggere a lungo la comune convivenza degli italiani. . Da questa condivisa origine umana e civile e per questo orizzonte, anch’esso pienamente condiviso, si volle una Carta che, in quanto posta a fondamento, non fosse possibile cambiare se non con determinate e assai più rigide procedure di quelle di una legge ordinaria. Per questa ragione si dice che la nostra Costituzione è “rigida”. E più tardi la Corte Costituzionale, il supremo organo di garanzia dell’ordinamento costituzionale e, dunque, di uno Stato democratico e di diritto, dirà che quella rigidità si muta in una non revisionabilità giuridicamente rilevante non solo per quanto espressamente previsto nella stessa Costituzione (art.139) -la forma repubblicana- ma per tutti quei principi che dal complesso normativo si evincono come “supremi” e, dunque, determinativi delle qualità non solo fondative ma perennemente caratterizzanti il nostro ordinamento repubblicano. Su alcuni principi della prima legge dello Stato Di alcuni di questi principi, che accanto alla loro rilevanza giuridica esprimono valori di alta pregnanza etica e, perciò, di indirizzo morale per la vita sociale e civile degli italiani, è bene dare qualche esemplificazione perché il discorso non resti meramente astratto. Il principio personalistico, per il quale la persona umana è posta al centro dell’ordinamento, non in quanto individuo né in quanto numero di una massa ma, come uomo o donna, inserita nella fitta trama di relazioni sociali dove si svolge la sua personalità, titolare di diritti inviolabili, che lo Stato non può non riconoscere, e protagonista nell’ordinamento repubblicano. Questo principio, per un verso, sottolinea la peculiare importanza che per l’ordinamento italiano assume la dignità della persona umana, costituita da quella irripetibilità, da quella inalienabilità –non può essere né comprata né venduta-, da quella inviolabilità fisica e morale –non può essere né violentata, né sottoposta a tortura, né uccisa, neppure per volontà dello Stato (pena di morte) sia in pace che in guerra, né soggetta a lesioni o minacce– che fanno di essa persona sempre un fine e mai un mezzo (I. Kant). Dunque la persona non può mai essere cosa, né mai essere strumentalmente usata. Per altro verso lo stesso principio porta al recupero ed alla valorizzazione delle formazioni sociali in quanto realtà funzionali allo sviluppo e al perfezionamento della persona umana. Il principio di eguaglianza, strettamente legato a quello personalistico perché in un ordinamento democratico e plurale le persone non possono che essere tutte eguali Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” per la legge e per le azioni poste in essere dalle istituzioni della Repubblica che ha il compito “di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Cost.). Il principio di solidarietà, che impone a ciascuno e a tutti di non chiudersi in una dimensione egoistica, consumistica e utilitaristica ma di considerare che va sempre tenuta presente la stretta relazione di interdipendenza fra l’agire del singolo e il bene comune. V’è il dovere di farsi carico, ciascuno per la sua parte, delle esigenze della più ampia comunità di appartenenza e, perciò, di rendersi concretamente partecipi sul piano sociale, politico ed economico offrendo il proprio contributo perché la dignità delle altre persone sia effettivamente tutelata e l’eguaglianza sostanzialmente raggiunta Le norme economiche della Costituzione (cosiddetta Costituzione economica: artt.41,42 e 43) sono fortemente segnate dal principio di solidarietà. Il principio di sussidiarietà, che salvaguarda le autonomie delle istituzioni pubbliche consentendo a quelle più vicine alle persone (per es. municipalità e comuni) di assolvere le loro funzioni che vengono integrate solo in via sussidiaria da altre istituzioni a più larga competenza (province, regioni e stato). Nel contempo garantisce anche un ausilio orizzontale consentendo l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale come il volontariato o il no profit (art. 118 Cost.). Si tratta di un esplicito riconoscimento della funzione sociale della società civile. Dunque, sussidiarietà verticale e orizzontale ampliano i profili di autonomia ma, nel contempo, corresponsabilizzano ad una dimensione di servizio reciproco. Il principio di laicità, che non poco ha fatto discutere, anche in tempi recenti, nel nostro paese. Questo principio non è espressamente sancito nella nostra Costituzione ma lo si desume dagli artt. 2, 3, 7, 8,19 e 20 della Costituzione, come ampiamente e puntualmente motivato dalla Corte Costituzionale nella chiara e “storica” sentenza del 1989. Nella Costituzione francese la laicità dello Stato è dettata espressamente ed ha un senso di esclusione di ogni religione e collegata morale dalla sfera pubblica. In Italia, invece, la laicità assume una connotazione diversa. La sfera religiosa è autonoma e non può invadere quella politica, nel senso che l’autorità ecclesiastica non può compiere scelte politiche. La libertà religiosa individuale, collettiva e istituzionale ed in ogni forma di culto, che non contrasti con il buon costume, è garantita anche nel senso che le autorità ecclesiastiche o le comunità religiose possono esprimere il loro pensiero su questioni pubbliche, assumendo quella rilevanza che compete in una libera democrazia alle formazioni sociali. La Costituzione, sostanzialmente, riconosce un favor religionis e, per quanto attiene alla religione cattolica, con il Concordato pure richiamato nella Carta, auspica una piena collaborazione per il bene del Paese nella convinzione 71 che il fattore religioso sia significativamente importante per la coesione sociale. Lo Stato, di conseguenza, non interferisce nella vita religiosa del Paese o nella sfera morale delle singole persone i cui comportamenti vengono giudicati, ed eventualmente sanzionati, solo se contrari all’ordinamento statale. Il principio di laicità rende rispettosi dell’autonomia delle realtà temporali ma non implica una separazione fra le attività delle Chiese e le attività dello Stato ma solo una doverosa distinzione, tenendo conto che le une e le altre si rivolgono alle stesse persone ed intendono conseguire, sotto profili diversi ma collegati, il bene comune . Nei primi dodici articoli della Costituzione, sotto la rubrica “Principi fondamentali”, oltre quelli già citati, i Costituenti hanno anche inserito: il diritto al lavoro e il concorso di ciascun cittadino al progresso materiale o spirituale della società; la tutela delle minoranze linguistiche; la promozione dello sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica; la tutela del paesaggio -e, Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” dunque, dell’ambiente- e del patrimonio storico e artistico; il rispetto del diritto internazionale, della relativa condizione giuridica dello straniero e del suo diritto all’asilo nel territorio della Repubblica per cause politiche; il ripudio della guerra come strumento di offesa e la promozione della pace e della giustizia fra le nazioni; il tricolore come bandiera della Repubblica. 72 Prima e seconda parte della Costituzione La Carta Costituzionale contiene poi due parti. La prima parte concerne “diritti e doveri dei cittadini” e si compone di quattro titoli: rapporti civili ( libertà personale, di corrispondenza, di domicilio, di riunione, di associazione, di pensiero, di stampa; diritto a non essere privato per motivi politici del nome, della cittadinanza e della capacità giuridica; dovere di dare prestazioni personali se imposte per legge; diritto al giudice naturale; esistenza del reato solo se già previsto dalla legge; presunzione di innocenza sino alla condanna definitiva; pene, escluse quella di morte e le torture, con funzione rieducativa; divieto di estradizione del cittadino per reati politici; responsabilità diretta dei dipendenti pubblici ed indiretta dei relativi enti pubblici per violazione di diritti); rapporti etico-sociali (riconoscimento della famiglia fondata sul matrimonio e diritti e doveri di genitori e figli; protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù; tutela e promozione della salute; libertà di arte e scienza; la scuola aperta a tutti con almeno otto anni di istruzione obbligatoria e gratuita; autonomia dell’università); rapporti economici (tutela del lavoro, diritto alla retribuzione, lavoro femminile, assistenza sociale e privata, diritto al lavoro di inabili e minorati; libertà dei sindacati e diritto di sciopero; libertà dell’iniziativa economica e garanzia della proprietà privata e loro funzione sociale; bonifiche e trasformazione del latifondo; espropriazione per fini di pubblica utilità; funzione sociale della cooperazione; tutela e sviluppo dell’artigianato; partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese; tutela del risparmio); rapporti politici (diritto di voto e di associazione in partiti politici; proposte popolari di leggi; accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive; difesa della Patria; dovere di pagare i tributi; dovere di fedeltà alla Repubblica e di esercitare le funzioni pubbliche con disciplina ed onore). La seconda parte concerne l’ “ordinamento della Repubblica” e si compone di sei titoli: il Parlamento (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica; il procedimento di formazione delle leggi ordinarie, dei decreti-legge in caso di urgenza e dei decreti legislativi delegati dal Parlamento al Governo); il Presidente della Repubblica (elezione e funzioni); il Governo (il Consiglio dei ministri; la pubblica amministrazione; il Consiglio di Stato; la Corte dei Conti); la Magistratura (giudici ordinari e pubblici ministeri; giudici amministrativi; giudici contabili; Consiglio superiore della magistratura; prerogative dei giudici; organizzazione spettante al Ministro della giustizia; norme sulla giurisdizione e obbligo dell’azione penale da parte del pubblico ministero); le Regioni, le Province, i Comuni (sono oggi tutti enti costituzionali in cui si articola, con lo Stato, la Repubblica italiana; regioni a statuto speciale con più ampia autonomia sono Sicilia, Sardegna, Trentino- Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia e Valle d’Aosta; le altre sono a statuto ordinario e oggi hanno potestà legislativa generale, ad eccezione di quelle materie che sono dalla Costituzione -art.117- demandate alla esclusiva competenza dello Stato, mentre l’esercizio delle competenze amministrative dovrebbe essere di norma delegato dalla Regione ai Comuni e alle Province; sono anche previste Città metropolitane; tutti questi enti territoriali hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa; il Governo ha un potere di sostituzione in casi espressamente previsti; dall’art. 121 all’art. 133 la Costituzione disciplina la costituzione delle Regioni e le leggi regionali); Garanzie Costituzionali (sono gli ultimi sei articoli della Carta e disciplinano la compo- Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” sizione e le funzioni della Corte Costituzionale nonché le leggi di revisione costituzionali con le questioni sulla rigidità della Costituzione di cui sopra ho fatto cenno). Un intento didattico-esortativo La ragione per cui ho sommariamente dedicato una pagina alla descrizione dei titoli che costituiscono il contenuto della Costituzione è meramente didattico-esortativo. Intanto auspico che questo scritto vada soprattutto in mano a docenti e studenti e che la lettura del sommario costituzionale susciti in tutti la sana curiosità ad andare a leggere integralmente il non lungo testo costituzionale. Nella lettura non bisogna avere fretta ma dedicare qualche ora leggendo ogni giorno un titolo e cercando di memorizzare oltre ciò che più personalmente colpisce anche quello che costituisce il contenuto essenziale. Se, poi, ci si fornisce di un facile testo di commento si vedrà che il tutto diventa più interessante e il senso della cittadinanza e dell’appartenenza, ad uno Stato dotato di una Carta fondamentale così alta , certamente registrerà maggiore consapevolezza, incrementando il legittimo desiderio del cittadino di essere pienamente responsabile e partecipe al processo di sviluppo e di sempre maggiore modernità ed umanizzazione della propria nazione. La lettura del testo costituzionale deve sempre farsi accompagnare dal pensiero che nei primi quarantacinque anni di applicazione dei valori etici e dei principi giuridici contenuti nella Carta il nostro Paese è diventato una potenza mondiale anche dal punto di vista economico, mantenendo il suo primato come nazione di arte, cultura e storia. All’Italia, almeno fino agli anni ’90, si è guardato con rispetto ed ammirazione ed effettivamente noi italiani abbiamo ragione, fino a quegli anni, di essere sanamente orgogliosi. Dalle macerie materiali e morali della guerra abbiamo con tenacia,passione e dedizione ricostruito il Paese dandogli una spinta vertiginosa in modo da generare un boom economico e da ridurre il dualismo fra Nord e Sud. Nonostante la crisi petrolifera dei primi anni settanta ed i primi preoccupanti segnali del terro- rismo, che avrebbe reso bui non pochi anni successivi della Repubblica, l’Italia procedeva sulla via di importanti riforme imposte, appunto, dalla effettiva costruzione di uno Stato democratico,di diritto e sociale quale disegnato dalla Costituzione post-bellica. Negli anni ’50 con la Comunità del carbone e dell’acciaio si era aperto il lungo e ancor oggi travagliato, ma importantissimo, processo europeo. Con la riforma agraria, con il piano per la costruzione di case economiche e popolari, con l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno si apriva un capitolo di riforme sociali e di interventi pubblici che promuovevano l’economia nell’intero Paese e facevano guadagnare al Mezzogiorno un passo più spedito e lungo per accorciare il divario. L’industrializzazione si allargava nel Paese e si incrementava soprattutto nel Nord anche in virtù dell’ausilio singolare di mano d’opera che l’emigrazione dalle zone del Sud ha continuato a fornire per qualche decennio. La condizione socio-economica degli italiani, con un notevole risparmio familiare o con l’acquisto della casa, migliorava nettamente di anno in 73 anno e, in virtù della qualità e dell’innovazione sul piano industriale, anche il trend delle esportazioni si incrementava e l’Italia assumeva nel contesto internazionale una posizione di rilievo per la sua capacità economico-finanziaria. Nel 1956 entra in funzione la Corte Costituzionale e si dà vita a quella giurisprudenza che, superando le forme delle sentenze di mero accoglimento o di mero rigetto delle questioni di legittimità costituzionale, consente alle norme della Carta di avere una capacità espansiva sul piano interpretativo in modo da superare ogni perniciosa cristallizzazione che non avrebbe corrisposto allo spirito costituente. L’opera della Corte è ampiamente meritoria per lo sviluppo e il progresso della società democratica Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Giacomo Brodolini nel nostro Paese e per la grande apertura dell’Italia ai nuovi processi di internazionalizzazione e di globalizzazione che all’epoca della Costituente erano soltanto concettualmente embrionali. Negli anni ‘70 lo Statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia, il complesso delle leggi che adegueranno l’ordinamento militare allo spirito della Costituzione, l’entrata in funzione delle assemblee elettive e delle giunte delle Regioni a statuto ordinario, segnano momenti di singolare importanza per l’attuazione della Costituzione; così come più tardi la revisione del Concordato fra Stato italiano e Chiesa Cattolica, l’approfondimento del principio di laicità, nonché profonde riforme delle autonomie locali e della pubblica amministrazione. Queste ultime riforme furono condotte a buon fine, negli anni novanta, a Costituzione invariata ma sostanzialmente sollecitarono, per una piena applicazione e per una più completa attuazione del principio di sussidiarietà, la riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione. Fu così conferita a Comuni, Città metropolitane, Province e Regioni quella più forte autonomia costituzionale che ha consentito di parlare, impropriamente, di un federalismo italiano sul quale, con molte incertezze e contrastanti posizioni politiche, stanno faticosamente provvedendo Parlamento e Governo. Questo federalismo è auspicabile solo se effettivamente sarà graduale, cooperativo e solidale. 74 La nostra democrazia si è dimostrata solida sul piano della lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, alla realizzazione dello stato sociale, allo sviluppo dell’occupazione e dell’economia, alla utilizzazione delle nostre bellezze paesaggistiche e del nostro grande patrimonio storico, artistico, letterario, archeologico e scientifico. La scolarizzazione e l’alfabetizzazione ha compiuto giganteschi passi in avanti e nel cinema, nel teatro, nella moda e nell’utilizzazione dei media e dei sistemi digitali l’Italia non ha mancato di far sentire la sua capacità di incidenza e di creatività a livello mondiale. Nella luce della Costituzione del 1948 il nostro Paese ha espresso una democrazia matura e ha raggiunto la dimensione di una grande nazione che si ascrive fra i fondatori dell’Unione Europea e fra le più industrializzate nazioni del mondo. Credo che si possa affermare che, tra molte luci e certamente alcune ombre, il nostro patto costituzionale ha segnato di libertà, progresso sociale e maggiore giustizia il cammino degli italiani fino alla fine del secolo scorso, anni nei quali con sacrificio e con capacità di direzione politica siamo riusciti ad entrare nel sistema dell’euro mantenendo una posizione di primo piano nel consesso europeo ed internazionale. Raffaele Cananzi Ex Presidente dell'Azione Cattolica e già Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio 1 In occasione del 150° dell’unità d’Italia sono stati pubblicati molti testi fra i quali: Alberto Mario Banti, Il Risorgimento, Laterza; Luigi Ganapini e Alberto De Bernardi, Storia dell’Italia unita, Garzanti; Pino Aprile, Terroni, Piemme; Giacomo Biffi, L’unità d’Italia, Cantagalli; Aldo Cazzullo, Viva l’Italia, Mondadori; Carlo Fruttero e Massimo Gramellini, La patria bene o male, Mondadori; Emilio Gentile (a cura di Simonetta Fiore), Italiani senza padri, Laterza; Massimo Viglione, 1861. Le due Italie. Identità nazionale,unificazione,guerra civile, Ares. 2 Leonardo Olski, L’Italia e il suo genio, Mondadori-Milano, 1953 3 Della “Poesia civile e politica” v’è un’ampia antologia nel volume omonimo della collana dell’Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1995. Il volume contiene una interessante introduzione di Mario Lunetta, oltre singole premesse ai vari periodi (secoli) in cui il volume è suddiviso. È evidente che non tutto il genere poetico può essere ascritto alla rigenerazione dello spirito nazionale degli italiani, ma certamente spunti e orientamenti in questo senso sono in alcuni autori che non cito nel testo. 4 Giuseppe Galasso, voce Nazione in Enciclopedia del Novecento, Istituto Enciclopedia Italiana- Roma 1998 5 Giuseppe Galasso, ibidem 6 Leonardo Olski, op. cit. Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” IDEE il filo rosso un modo nuovo di guardare al risorgimento è quello per cui, senza sminuire l’opera di statisti come cavour, patrioti, politici e filosofi come mazzini, combattenti come Garibaldi, si rivalutano sentimenti, emozioni, speranze ed illusioni di persone comuni. Quelle che, in maniera sempre più incisiva, agiranno, per e in nome dell’italia, perché fiduciosi nonostante tutto. date ed eventi rilevanti 17 marzo 1861, 3 novembre 1918, 25 aprile 1945, 2 giugno 1946, 1 gennaio 1948, 27/28 marzo 1994… Sono solo alcune delle date più significative nella storia d’Italia tra XIX e XX secolo, tenute insieme da una forza per alcuni essenziale, perché storicamente efficace, per altri del tutto marginale, perché oscurata da idee, teorie e metodi, patrimonio esclusivo di personalità deputate a gestire la politica sia interna che internazionale dell’Italia. È la forza di migliaia di persone, uomini ma anche donne, che hanno dato un contributo notevole all’evoluzione del nostro paese in senso liberal-democratico, a partire dal Risorgimento, fenomeno da cui si snodano e si dipartono le vicende salienti dello stato-nazione; ma anche di quanti, e sono centinaia di migliaia, che ad esso hanno guardato con simpatia, trepidazione e partecipazione, e che, nel più completo anonimato, hanno inseguito, voluto e messo in atto un ideale di libertà e di indipendenza, erede del più genuino giacobinismo francese, quello che, per fare un esempio emblematico, ispirò la breve e travagliata vita della Repubblica Partenopea (gennaio/giugno 1799). Dato che induce a riflettere, soprattutto in ragione di un contesto storico, quello che connota l’Ottocento e parte del Novecento, in cui i 75 problemi erano tanti e troppo spesso di una gravità inaudita (analfabetismo largamente diffuso, suffragio ristretto, sfruttamento delle classi rurali ed operaie, condizioni igienico-sanitarie al limite della decenza, parziale sviluppo delle vie e dei mezzi di comunicazione…e l’elenco potrebbe continuare) ma che non hanno frenato gli animi nelle svariate ondate rivoluzionarie prima e belliche poi e che hanno guidato l’azione sotto l’impulso dell’emozione e della suggestione ispirate da ideali di rinnovamento, inizialmente mitizzati e via via interiorizzati a tal punto da far emergere una matura opinione pubblica, portatrice di un inedito spirito di appartenenza nazionale. Rinnovamento che le tre guerre d’indipendenza identificano con la liberazione dallo straniero e l’unificazione territoriale, raggiunte anche grazie all’azione di gente comune, stanca di essere vessata ed umiliata: il numero degli affiliati alle sette, dei rivoltosi del’20-’21, degli iscritti alla Giovane Italia, di coloro che scendono in piazza o partono volontari o guerreggiano nell’esercito regolare del Regno di Sardegna o organizzano Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” in dono, passivamente) e, a seguire, con la nascita della Prima Repubblica e della Costituzione. Impegno di lotta messo in versi, come sempre in maniera efficacissima, da Giuseppe Ungaretti: Qui vivono per sempre/gli occhi che furono chiusi alla luce/perché tutti/li avessero aperti/per sempre/ alla luce. 76 ospedali e servizi di collegamento nel 1848-49, che tessono trame insurrezionali nei primi anni cinquanta, che si arruolano volontari nel 1859, nel 1860 e nel 1866, che vanno a votare ai plebisciti, che si affollano ai funerali di Mazzini, di Vittorio Emanuele, di Garibaldi e di altri ancora, è assolutamente imponente (Alberto Mario Banti – Paul Ginsborg, Per una nuova storia del Risorgimento, in Storia d’Italia, Annali, 22, Il Risorgimento, Einaudi, Torino 2007). Rinnovamento che la fine della Prima Guerra Mondiale vede concretato nel completamento dell’unificazione, con un tributo in termini di vite umane elevatissimo: quanti dei cosiddetti “giovani del ‘99” sacrificarono sè stessi in nome di un patriottismo (poco conta se realmente nato nel proprio intimo o indotto dall’entusiasmo collettivo che esplose nelle radiose giornate di maggio) che si poneva oltre ogni prospettiva di pericolo, di insidia, di malessere fisico e psichico, perché di reale c’era solo la bellezza della guerra in nome dell’Italia? Rinnovamento che, sullo scorcio del ventennio fascista e della Seconda Guerra mondiale, si identifica con la liberazione, (protagoniste, ancora una volta, tante giovani vite confluite nei vari Comitati e Brigate con un unico scopo: resistere e sconfiggere il nemico interno ed esterno. Con questo impegno di lotta il popolo italiano, non trascinato da una dinastia, da un esercito o da un governo legittimo, ha riconquistato la libertà con le sue forze e con i suoi sacrifici, senza aspettarla Valori e principi spesso calpestati Inevitabile e doveroso, a tal punto, un bilancio in termini di riconoscimenti politici, civili e sociali, oltre che culturali. Innegabili il diritto alla libertà di pensiero, di parola, di coscienza, all’uguaglianza dinanzi alla legge, al voto, al lavoro, allo sciopero, all’istruzione, alla salute…ma altrettanto innegabili gli sviamenti che, già nel corso della prima repubblica e, poi, nel passaggio alla seconda e, in maniera ancora più devastante, negli ultimi quindici anni hanno demarcato la disparità (tra i pochi ed i molti) a tutti i livelli, ma essenzialmente a livello economico-sociale. Ci si riferisce, in sintonia con l’evento che apre questo contributo, ad uno dei problemi storici più dibattuti e controversi, che ancora non trova risposte adeguate, anzi è aggravato dalla proposta di legge sul federalismo fiscale che, secondo il parere autorevole di esperti economisti, taglierebbe fuori il grosso delle città del Sud riproponendo, anche se per altre vie, la cosiddetta Questione meridionale. Tema, come dicevamo, difficile da affrontare soprattutto se si parte dalla domanda in merito all’esistenza, oggi come ieri, di “due Italie”. Domanda a cui rispondono affermativamente gli storici di “destra”, perché convinti Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” che vengono dallo stato, c’è il rischio reale che la democrazia venga sostituita dal populismo. Se questa è quell’ “Unità” (termine da assumere nei suoi molteplici significati) così ardentemente voluta da italiani fiduciosi in un avvenire il più possibile sgombro da problemi di tal genere, ebbene bisogna ripartire dal senso più vero di italianità, quello che va ben oltre un fatto puramente nominale. che la storia d’Italia sia, fin dall’inizio, una storia a due velocità, a causa dell’arretratezza delle strutture economiche e sociali del Meridione (arretratezza, é doveroso aggiungere, non certo dovuta al caso). Affermativamente rispondono anche gli storici di “sinistra”, pur se per motivi diversi: il Meridione è diventato un’Italia di serie “b” perché colonizzato dall’Italia del Nord con un carico fiscale che ha consentito l’accumulazione di capitali necessari per la sua industrializzazione. Ma a queste due analisi contrapposte, che hanno dominato il dibattito storico per più di un secolo, se ne aggiunge una di stampo revisionista che trova in Giuseppe Giarrizzo, autore di Mezzogiorno senza meridionalismo, uno degli esponenti principali e per il quale non esiste e non è mai esistita una separazione territoriale netta fra un Nord sviluppato e un Sud sottosviluppato, ma un insieme di realtà diverse al Nord come al Sud, e qui, in modo particolare, diverse aree con problemi comuni non adeguatamente affrontati dalla politica. Pertanto, afferma l’autore, sarebbe più corretto parlare di una “questione urbana” meridionale e di una fragilità strutturale del sistema produttivo, entrambe derivanti dal tipo di sviluppo che si è scelto per il Sud. Interpretata in un modo o nell’altro, rimane il problema di fondo: a 150 anni dall’Unità, come afferma Carlo Galli ne la Repubblica del 27 dicembre 2010, la frantumazione del ceto medio creato dalle passate politiche di Welfare è già in atto, e si polarizza tra pochi ricchi e molti poveri; le forme giuridiche dell’uguaglianza – la legalità, i diritti civili – sono minacciate dall’insicurezza e dalla paura, e, a fronte dei nuovi messaggi biopolitici La Storia al cinema Appare appropriato, a questo punto, il titolo del film di Mario Martone Noi credevamo che, a mio avviso, si presta ad una duplice interpretazione, ovvero “ noi avevamo fede”, ma anche “noi ci illudevamo”, laddove la prima inerisce alla fiducia fatta propria da quanti hanno combattuto e sacrificato la propria vita, non solo per l’unità territoriale ma anche per una maggiore giustizia sociale che equilibrasse il rapporto tra i vari strati sociali. Ciò che in parte, grazie all’azione di partiti e sindacati e di una politica volta ad accorciare le distanze tra paese legale e paese reale, pur se tra 77 alti e bassi, si è verificato ed ha portato l’Italia, nel 1957, a far parte della CEE e a vivere il cosiddetto miracolo economico, anche se con una ricaduta, di lì a pochi anni, particolarmente dolorosa: il fenomeno dell’emigrazione dal polo agricolo al polo industriale del paese, non senza disagi, umiliazioni, rimpianti. Mentre la seconda fa leva sull’illusione che, già nell’immediato clima postunitario, viene stroncata dalla consapevolezza che ideali nobili sono stati traditi; consapevolezza che si rafforza sotto la guida di Fancesco Crispi, un primo ministro che diede all’Italia nascente un’impostazione non proprio progressista e bassamente colonialista, determinando il disincanto in quanti si convincono sempre più che non saranno mai considerati parte integrante di uno stesso Stato, perché ritenuti scarsamente o per niente produttivi, inattivi, passivi, costretti a vivere in aree condizionate dal permanere del latifondo, primo ostacolo per un’economia dinamica e competitiva, oltre che da politici locali poco o per niente attenti ai problemi dei cittadini, e da cittadini pronti a tutto pur di raggiungere i propri scopi (ieri come oggi). Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 78 Aree, come è ben noto, in cui nascerà il brigantaggio quale unico modo possibile per contrastare una misera esistenza, terreno fertile per ogni forma di vessazione e di conseguente resistenza. Nonostante, secondo quanto emerso dall’Archivio di Stato Torinese, il notevole apporto popolare al progetto di Garibaldi: gente umile che, dalla Sicilia alla Lucania, dalla Calabria alla Campania, in 40.000, si era unita alle camicie rosse e che, con il regio decreto dell’11 novembre 1860, si vide negato dal governo di Torino l’immissione nelle truppe regolari. Volontari, di cui sono emersi nomi, mestieri, paesi d’origine, e, a simbolo dei quali basta citare Carmine Crocco, combattente con Garibaldi al Volturno, destinato a diventare uno dei protagonisti del brigantaggio postunitario, le cui origini vanno cercate anche nel tradimento sabaudo delle aspettative suscitate dai garibaldini nelle popolazioni del Meridione. Naturalmente, con ciò, non si vuole giustificare un fenomeno che nasce e si attesta al di fuori della legalità, ma solo cercare di capire la causa prima all’origine di un evento doloroso che, purtroppo, è gradualmente degenerato in vere e proprie associazioni a delinquere, male indomabile del nostro Paese e di uomini spesso conniventi e collusi pur di vedersi riconosciuto un seggio in Parlamento o in qualsiasi altra “stanza dei bottoni”, contravvenendo in tal modo ad ogni principio etico ma, soprattutto, determinando l’imbarbarimento della politica e dell’economia. E, effetto disastroso, alimentando un sentimento di sfiducia nei milioni di giovani, quinta generazione di quegli uomini e quelle donne che hanno dato il proprio contributo per un’Italia dal volto più umano e solidale, perché convinti che al di fuori della logica della democrazia non si potesse vivere nel rispetto del prossimo. Giovani che, nonostante la valida formazione, fatta di lodevoli capacità e competenze, sono costretti a lasciare il proprio caro pezzo d’Italia pur di vedersi riconosciuto effettivamente il principio lavorista sancito agli artt. 1 e 4 della Costituzione. Un obiettivo comune È il motivo principale che ha indotto gli studenti italiani a lottare uniti, contro una riforma che è ispirata e retta, per gran parte, da parametri anticostituzionali e che induce a valorizzare il giudizio espresso dallo storico Emilio Gentile nel saggio edito da Laterza Né stato, né nazione. Italiani senza meta, secondo cui la fiducia dei cittadini è necessaria alla salute di uno Stato democratico, tanto faticosamente costruito, come l’ossigeno è necessario alla vita degli esseri umani. Fiducia che viene meno quando scelte politiche utilitaristiche offendono e calpestano la dignità dei “fratelli d’Italia” che, paradossalmente, si sentono davvero tali solo quando tutti uniti e col cuore in gola applaudono la Nazionale che scende in campo. Fiducia che, però, va alimentata quotidianamente a partire dalla famiglia e dalla scuola e con l’ausilio di ogni altra agenzia educativa: continuiamo a parlare ai giovani di oggi di altri giovani che non inseguivano il potere personale e che credevano solo in un mondo migliore. Tanto, affinchè, contro il rischio di forme estreme di qualunquismo, si riesca a trasmettere il significato più profondo dei principi vitali del paese; un paese che ha bisogno di una nuova classe dirigente, determinata, preparata, ma soprattutto memore di quel filo rosso che percorre un pezzo di storia italiana e che troppo spesso si è tentato di spezzare. Angelina Rainone gennaio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” letteratura & risorgimento/1 La patria perduta di L Jacopo Ortis a seconda parte delle Ultime lettere di Jacopo Ortis racconta in tutte le edizioni un viaggio effettivo per località reali, tra sformando le discontinuità geografiche e statali e l’assenza di una meta definita nella ricerca dello “stato-nazione”. Nell’Ortis 1802, incentrato sull’indipendenza italiana, lo spostamento circolare, che consente di concludere il racconto dove era cominciato, ripro duce fedelmente i movimenti di Foscolo tra 1799 e 1802. Rovigo, Ferrara, Bologna, si configurano come fermate di passaggio verso Firenze –cuore della cultura italiana– e la Toscana –costellata dalle sofferenze che nella storia hanno segnato la gente comune–, ma non verso l’agognata Roma, dove a Jacopo è impedita l’entrata: «Addio. Roma mi sta sempre sul cuore».1 Il febbrile vagabondare, circoscritto solamente all’Italia settentrionale, poiché non oltrepassa Firenze e la Toscana, acuisce la verifica morale e politica del protagonista, inserita in un ordine naturale imperniato sull’irreversibile diritto della forza e sul tramonto di popoli e regni. Di conseguenza, il cammino tra una storia interrotta, imbrigliata nelle riv alità locali in cui gli stessi italiani si lavano «le mani nel sangue degl’italiani» (EN, IV, p. 137) e «guardano come barbari tutti quegl’italiani che non sono della loro provincia» (p. 233), conduce a incroci retor ico-letterari (i monumenti e le città H. Bonaventure Monnier, Esilio toscane, i guerrieri e le battaglie medioevali) e a incontri mancati o realizzati (Alfieri, Parini), attardandosi su scorci simbolici come le acque profonde e vorticose del Po o il profilo accidentato e selvaggio delle Alpi Marittime, preparazione 79 allo sguardo «dall’alto»2 sulla storia degli uomini e delle nazioni. Ma il vagare «di città in città» nutre una più sofferta partecipazione alle sorti nazionali, di cui è spia l’immagine associata all’uso di “patria”. Per quanto le occorrenze siano equamente ripartite, nella prima parte il lemma, laddove non abbia valenza generica, si riferisce per lo più in maniera centrifuga alla burrascosa situazione di Venezia dopo la caduta delle speranze di libertà, avvertita quale cesura storica, mentre il richiamo agli italiani e all’Italia pare risuonare di una connotazione più che altro spaziale, accomunando gli abitanti della penisola nel destino di un umiliante tradimento. Basti pensare alla celeber rima lettera dell’11 ottobre 1797 («Il sacrificio della nostra patria è consumato ... [...] Poiché ho disperato e della mia patria e di me stesso ...»: p. 137) o a quella del 16 ottobre in relazione alle traversie di Lauretta («Suo padre e i suoi fratelli hanno dovuto fuggire la loro patria ...»: p. 139). La posizione collima con quella di Foscolo, che, appena rientrato nella Serenissima, il 19 giugno 1797 proclama alla Società d’Istruzione Pubblica Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 80 la volontà di lottare per la città lagunare: illustri, puntualmente codificata «La Repubblica Cispadana m’accolse, e mi da un lessico rituale («io adorafregiò d’onori non troppo a me cari, perché va», «contemplandole io tremava non erano onori della mia Patria; ma la preso da un brivido sacro», «pie Patria divenne libera, ed io volai …».3 zolle», «andare a Roma a proLa prospettiva cambia allorché Jacopo, strarmi», «Sull’urna tua, Padre spostandosi, dilata i limiti geografici, perDante!... Abbracciandola mi sono ché, a contatto con le ferite inferte, il concetto … genuflesso»: pp. 227, 233 e 265). della piccola patria viene con vitalità incorporato Già l’incuria colpevole, che ha ridotto l’abidentro quello della grande patria. L’orizzonte itatazione di Petrarca ad Arquà a «un mucchio di liano si profila distesamente nelle due lettere carruine» tra «ortiche» ed «erbe selvatiche» (p. 152), dinali del 4 dicembre 1798 e del 19-20 febbraio sfocia nell’acre invettiva contro l’«irreligione» 1799: «… sovente ho guardato con una specie di dei proprietari e nell’appassionata esortazione compiacenza le miserie d’Italia, poiché mi parea a non tradire la memoria patria («O Italia! placa che la fortuna e il mio ardire riserbassero a me l’ombre de’ tuoi grandi!»), vera base della civiltà. solo il merito di liberarla» (EN, IV, p. 238); «i gemiti Strettamente concatenato a questo lamento, di tutte le età, e questo giogo della nostra patria l’accenno alla commiserevole vita di Tasso, pernon ti hanno per anco insegnato che non si dee seguitato dalla malvagità e dall’ingiustizia degli aspettare libertà dallo straniero?» (p. 241); «Io odo uomini, inaugura il canone della nuova nazione la mia patria che grida» (p. 244); «Conosco i disaitaliana. Galileo, Machiavelli, Michelangelo, i stri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia «primi grandi Toscani», gli «avanzi della nostra patria mi aspettano?» (p. 263). In quello stesso grandezza» di Roma (pp. 232-233), si allineano torno di tempo Foscolo si pronuncia chiaramente retrospettivamente quali sacrari di una devo in favore del progetto italiano: nella Dedicatoria zione patriottica, sepolti, però, nell’oblio. a Bonaparte (1799) l’estinzione del debito conL’impossibilità di trasformare il coraggio in tratto a Campoformio reclama il compenso della azione allontana il giovane dalla percezione del dignità di nazione all’Italia (EN, VI, pp. 163-164); presente: dalla pace euganea, in cui «mi riesce nell’Orazione a Bonaparte (1801-1802) il sacrificio di dimenticarmi ch’io vivo» (p. 140), si trascorre di Venezia è risarcito in una repubblica nazionale riconosciuta come soggetto politico (pp. 225-226). Jacopo invoca una comunità di legami sociali e storici, l’eredità di prin cipi intorno a cui si raccoglie l’idea di una nazione, ma il paesaggio tracciato abbraccia i brandelli di un insieme lacerato («Nulla ti manca se non la forza della concordia»: EN, IV, p. 260), svela la negazione di una nazione («le nostre terre non porgono né tugurj né pane a tanti Italiani che la rivoluzione ha balestrati fuori del cielo natio»: p. 233), non sortisce nessuna appartenenza. Il tragitto, frustato dalle vergogne con temporanee e sospinto verso il passato, acquista sempre più le sembianze di una discepolanza affollata di ombre Il trattato di Campoformio Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” rapidamente all’accostamento del proprio destino a quello degli spiriti sublimi, quando le dolenti parole di Tasso morente strappano un’ammissione rassegnata: «e’ mi par di conoscere chi forse un giorno morrà ripetendole» (p. 311). Dalla lettera fiorent ina del 27 agosto 1798 questa consonanza ideale risuona a tutto tondo: Casa di Petrarca ad Arquà davanti alle tombe dei grandi, in dissidio con la società a causa del suo «libero genio» (pp. 157 e 163-164), Jacopo, che anche per il signor T*** ha «il cuore e le virtù di un altro secolo» (p. 216), si riconosce loro concittadino, colmando la distanza che separa dalla realtà la civiltà letteraria.4 Ortis, insomma, è trascinato lontano dal centro, sia esso quello nativo (Venezia), sia quello ideale (Roma), autobiograficamente sempre vivo nel cuore, sia quello politico (Milano). Gli resta soltanto l’eterno presente della cultura (Firenze e la Toscana, terra beata delle «sacre muse» e delle «lettere»: p. 232), di cui non si fregia la capitale politica: «Chiesi la vita di Benvenuto Cellini a un librajo: – non l’abbiamo. Lo richiesi di un altro scrittore e allora quasi dispettoso mi disse, ch’ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente il francese, e appena intende lo schietto toscano» (p. 235), dimostrazione della crisi nazionale, perché ogni nazione ha una lingua, si riconosce nella propria tradizione e attraverso il proprio idioma interviene nella vita collettiva: «È legge riconosciuta da per tutto che il forestiere abbia il torto, se non parla la lingua del paese dove egli è. I Francesi beffano gli Italiani che stando in Francia non parlino bene il francese; in Italia s’ingegnino essi d’imparare a parlar l’italiano» (EN, VI, pp. 84-85). Nell’atmosfera greve, nell’«aria morta», nel «poco cuore» di Milano (EN, IV, p. 245), ammorbata dall’occhiuto spionaggio sui pensieri e sulle parole (p. 234), vilmente prona al padrone d’oltralpe con la sua massa di adulatori e di postulanti, si toccano con mano il degrado dei valori civici fondamentali e il diritto impunemente violato. Nel disprezzo di tutto ciò che sente di italiano persino il venerando Parini «paventa di essere cacciato dalla sua cattedra e di trovarsi costretto dopo settanta anni di studj e di gloria ad agonizzare elemosinando» (p. 235). A Ventimiglia, giunto ai confini dell’Italia, davanti allo spettacolo maestoso e inospitale della natura, l’avvertimento dello scacco materiale e morale smaschera la società quale «necessaria nem ica degli individui», naturalmente simili gli uni agli altri, al di là dell’insediamento geografico: «anche nelle terre straniere ti seguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte» (pp. 262-263). Di conseguenza, dopo l’ulteriore incontro con l’ex tenente della Cisalpina, depauperato di uno spazio abitativo proprio in quanto esule disperato (p. 251: «Emigrò per la pace di Campo-Formio»), il viaggio, programmato verso la Francia (pp. 25381 254 e 266), si arresta. Jacopo, mettendo una pietra tombale sopra tutte le speranze, rinuncia all’idea di varcare la frontiera fisica, perché nessun passaggio potrà mai segnare una svolta. In una situazione in cui «noi tutti Italiani siamo fuorusciti e stranieri in Italia» (p. 233) e «in uno stato ov’io sono reputato straniero» (p. 236) ha già la consapevolezza di sentirsi esule, di non essere radicato in una realtà nazionale («Così io grido quando io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano e rivolgendomi intorno io cerco né trovo più la mia patria»: p. 260), di non potersi integrare con il conformismo spregiudicato e con la bassezza servile dei conterranei, con «questa razza d’uomini tanto da me diversa» (p. 166). Icona della corsa sfrenata a presentarsi credibili interlocutori del vincitore diventa, dall’Ortis milanese, Odoardo. La sua visione meccanicamente fredda della vita, scandita dall’orologio e dagli affari, ne designa l’appartenenza a un contesto sociale molle e abietto, pronto ad approvare le catene di Campoformio (p. 212) e, di conseguenza, a ostracizzare le qualità antiche di Jacopo. Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Così, in assenza di qualsiasi trasformazione, alla richiesta affannosa e inevasa d’asilo («Ma dove cercherò asilo? in Italia? infelice terra! premio sempre della vittoria»: p. 138), dà rispo sta risolutiva il suicidio, gesto estremo che si paga per conservare l’autenticità nel mondo impraticabile alla virtù e per mondarsi dai mali umani (p. 288): «... quale asilo ci resta? ... Per noi dunque quale asilo più resta fuorché il de serto, o la tomba?» (p. 233). In una condizione inceppata, dove è improponibile ogni forma di collaborazione con chi ha con le armi tradito ogni aspettativa di indipendenza, la rivolta si compie con l’autodistruzione, morte auspicata anche per l’intera patria e l’intera stirpe: «Ahi, se potessi, seppellirei la mia casa, i miei più cari e me stesso per non lasciar nulla nulla che potesse inorgoglire costoro della loro onnipotenza e della mia servitù! È vi furono de’ popoli che per non obbedire a’ Romani ladroni del mondo, diedero alle fiamme le loro case, le loro mogli, i loro figli e sé medesimi, sotterrando fra le immense ruine e le ceneri della loro patria la lor sacra indipendenza» (p. 143).5 Valerio Vianello Università di Venezia 82 1 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis. Nelle tre edizioni del 1798, 1802, 1817, a cura di G. Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1970, p. 264 (Edizione Nazionale, vol. IV: EN, IV). 2 «Io guardando da queste alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro gl’invasori vendetta» (EN, IV, p. 260); «Ma, mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni, e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo?» (p. 262). Sul tema vd. E. Guagnini, Un Foscolo odeporico ovvero La ricognizione del dolore, in Aa.Vv., Studi di Letteratura italiana per Vitilio Masiello, a cura di P. Guaragnella e M. Santagata, Roma-Bari, Laterza, 2006, II, pp. 21-30. 3 U. Foscolo, Scritti letterari e politici dal 1796 al 1808, a cura di G. Gambarin, Firenze, Le Monnier, 1972, p. 13 (EN, VI). 4 «Non sono obnoxius a verun municipio: ogni terra d’Italia m’è patria natia, e a me basta di non uscire d’Italia: ed in Italia io vivo non tanto con quelli che stanno abitandola in questo mortalis aevi spatium brevissimo, quanto con que’ magnanimi che l’hanno da molti e molti secoli addietro abitata, e con quelli più di noi fortunati, forse, Che questo tempo chiameranno antico: – però chi ha riverenza per gli avi nostri, e cura amorosa de’ posteri loderà almeno l’intento delle mie lunghe fatiche»: Epistolario, a cura di P. Carli, Firenze, Le Monnier, 1954, vol. IV, pp. 374375 (a Giambattista Giovio, settembre 1813). 5 A detta di Girolamo Politi, è l’identica furente reazione invocata da Foscolo dopo il trattato di Campoformio in una delle ultime sedute della Municipalità, quando spinse «il suo furore fino all’eccesso d’insinuare accaloratamente al suo uditorio di correr a metter fuoco alla Città ne’ siti principali, onde il tiranno dell’Austria abbia più tosto motivo di piangere sulle ceneri di Venezia che di esultare sulla sua schiavitù» (dispaccio ad Antonio Micheroux del 13 novembre 1797, riportato in C. Del Vento, Un allievo della rivoluzione. Ugo Foscolo dal «noviziato letterario» al «nuovo classicismo», Bologna, Clueb, 2003, p. 69). Del resto, Jacopo «instigato una sera da Odoardo che giustificava il trattato di Campo-formio, si pose a disputare, a gridare come un invasato, a minacciare, a percuotersi la testa, e a piangere d’ira» (EN, IV, p. 212). Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” letteratura & risorgimento/2 Dante Alighieri: il Grande Esule Il Profeta dell’Italia unita L’italianità come valore e l’unità linguistica della Penisola traspaiono in filigrana dalla biografia del Sommo Poeta e tra gli aurei versi della Commedia T ra Arte e Politica. Nel 1300 Dante è noto come poeta e come priore del Comune di Firenze. Il 15 giugno del 1300 si tengono le elezioni politiche: la fazione dei Guelfi Neri contro quella dei Guelfi Bianchi. Vincono i Guelfi Bianchi e tra i nuovi Priori c’è anche Dante. Ma il primo problema da affrontare è una condanna -lasciata sospesa dalla fazione dei Neri- contro tre banchieri fiorentini: Simone Gherardi Spini, Noffo Quintavalle e Ser Cambio da Sesto, che avevano tramato per consegnare Firenze al papa Bonifacio VIII. La condanna, inflitta a questi nuovi Priori, era il taglio della lingua; i nuovi Priori, tra i quali Dante, confermano ed eseguono la terribile sentenza. Da quel momento il nome di Dante è scritto in eterno nel libro dei Guelfi Neri. Il 27 gennaio del 1302, un banditore con gonnella e mantello verde percorre a cavallo il centro e i sobborghi di Firenze, suona la lunga tromba d’argento: «le donne spaurite spiano dai balconi, gli uomini corrono in strada per ascoltare la novità». Il banditore srotola con lentezza professionale la pergamena e legge con «voce clara et bona» la condanna al pagamento di cinquemila fiorini inflitta dal Podestà Cante de’ Gabrielli a quattro cittadini fiorentini: ad un giurista, a due agenti di cambio e ad un poeta. Il poeta è Dante Alighieri. La sentenza non parla di colpe specifiche, ma accenna vagamente a illeciti guadagni, corruzione elettorale, amicizie con persone sospette e ribellione al sommo pontefice. Ma Dante non si presenta al podestà per giustificarsi né paga la multa. Viene condannato all’esilio perpetuo e alla confisca dei beni. È il 10 marzo del 1302. Il poeta fiorentino comincia a percorrere la lunga via dell’esilio, un calvario che durerà vent’anni, imparando a sue spese «come sa di sale / lo pane altrui e com’è duro calle / lo scendere e il salire per l’altrui scale (Pd. XVII, 59-60). Dante, dotto nello scrivere e nel parlare. pensoso del “bene comune”, eroe del suo tempo, rivela la sua grandezza e suscita Lyceum Maggio 2011 83 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Giambattista Vico L’idea di patria percorre a più riprese l’opera dantesca, intendendosi con essa non solo un substrato di sentimento e di cultura, ma anche un territorio con ben delimitati confini. Inaugura Dante la cultura dell’italianità che larga parte avrà poi nel pensiero del Petrarca, del Machiavelli, del Vico, dei nostri risorgimentalisti, dei soldati della Grande Guerra. A tal proposito si racconta un episodio del 10 novembre 1915. Il poeta Giosuè Borsi di Livorno teneva con sé una minuscola edizione della Divina Commedia. Ma, mentre usciva dalla trincea per andare all’assalto, una pallottola lo fulminò al cuore e i compagni che tentavano di soccorrerlo videro spuntare da sotto la giubba, dalla parte sinistra, il piccolo divin poema insanguinato. Italianità e libertà vengono da Dante difese con ogni forza morale e intellettuale e segnano le tappe fondamentali del suo esilio. Egli aveva prima lottato per la sua Firenze ed ora si trova a dover peregrinare per tutta l’Italia settentrionale, da una corte all’altra, postulando la protezione e l’ospitalità dei principi. Quel sapere, ch’era stato per lui tramite di libera professione, ora dovrà porlo al servizio dei potenti. Egli stesso si sente continuamente esposto al capriccio degli eventi e all’umore mutevole dei Signori che lo ospitano. Le vicende dell’esule accendono una luce nella storia politica dell’Italia centro-settentrionale del XIV secolo «con un’epopea di nomi e Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta non donna di province, ma bordello! (Pg. VI, 76-78) [...] e ora in te non stanno sanza guerra li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode di quei ch’un muro e una fossa serra (Pg. VI, 82-84) Francesco Petrarca 84 l’ammirazione unanime quando la miseria umana ne sfuma l’immagine, riportandolo uomo tra gli uomini, attraverso la sofferenza dell’esule. La solitudine, la carenza degli affetti familiari, l’assenza dei beni, che pure amareggiano la sua giornata, lasciano spazio al più cocente dolore di vedere infranto quel rapporto tra Stato e Chiesa, che avrebbe dovuto assicurare agli uomini la pace universale. Per Gioacchino Paparelli, Dante è un contestatore in polemica con gli uomini che rappresentavano le istituzioni laiche e religiose del suo tempo, e la sua Commedia è una lunga lettera di un condannato a morte. Il conflitto tra l’eroe e i tempi iniqui, nel quale si polarizza la vicenda dantesca dell’esilio fino alla «conquistata pace» della funzione catartica dell’Arte con la stesura del suo capolavoro, non esaurisce la dilacerazione tutta umana e intima dell’uomo, ma ne esalta la figura del martire. Dante si presenta nelle vesti di un illuminato, di un profeta che rivela in ogni istante il gran segreto della vita. Maestro di vita e di poesia, trasfonde l’una nell’altra da impareggiabile artista e versa nella poesia il tema della libertà, sentita e perseguita dall’uomo, cittadino di Firenze prima e dell’Italia poi, tanto da sopportare con dignità morale ed intellettuale le amare vicissitudini dell’esilio. L’italianità è un valore. Dante è legato alla coscienza nazionale dei vari momenti storici dell’Italia e lamenta la situazione politica dei suoi tempi: Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” di luoghi» che è possibile definire «geografia dell’esilio», a tratti meravigliosamente descritti da rappresentare vere e proprie brochures turistiche. Potremmo supporre che tali luoghi abbiano dato a Dante l’idea dell’ambientazione di molti episodi, nonché della struttura stessa del capolavoro della Divina Commedia. «L’aiuola che ci fa tanto feroci» diventa «lo giardino de lo imperio» (Pg. VI, 105), se si considera la bellezza di tanti castelli disseminati sulla Penisola italiana ed in cui feste, danze, cacce e tornei allietano l’esistenza dei feudatari, sublimata e ingentilita dalla presenza dell’intellettuale e dalla sua poesia. Dante, Vate dell’unità linguistica. Il poeta fiorentino trova ospitalità in Lunigiana presso i marchesi Malaspina; a questi feudatari parve una vera fortuna l’incontro con un uomo che non soltanto sapeva leggere e scrivere, ma possedeva una certa pratica di affari politici e diplomatici. E, durante il suo esilio, Dante soggiorna in Val d’Arno nel Casentino, a Lucca, a Verona presso Cangrande della Scala, a Treviso, presso Gherardo da Camino, a Padova, e proprio a Padova incontra Giotto (1266-1337). Il celebre pittore lavora a Padova alla Cappella degli Scrovegni e, mentre è intento alla pittura con i suoi allievi, arriva Dante. Giotto salta giù dall’impalcatura e con le mani sporche di colore abbraccia il grande poeta. I due più grandi uomini del secolo, il genio della penna e il genio del pennello, si scambiano notizie su Firenze e sulle rispettive famiglie. Guido Novello, signore di Rimini, nipote di Francesca da Rimini, chiama Dante a Ravenna: è un onore per lui avere come ospite colui che aveva immortalato il tragico amore dell’infelice zia. Ma, quando scoppiano controversie tra Venezia e Ravenna, Guido Novello, nell’imminenza del pericolo, manda Dante come ambasciatore a Venezia. Siamo in estate, e, durante il viaggio di ritorno, nell’attraversare le valli di Comacchio, zona infestata dalla malaria, Dante si ammala. Giunto a Ravenna la situazione si aggrava e nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321, all’età di 56 anni, muore il Grande Esule, padre della lingua italiana. “La storia della lingua italiana, come espressione della nostra cultura, è lunga e ricca, mentre breve è la storia unitaria” ha detto il Presidente della “Società Dante Alighieri”, Bruno Bottai, ed ancora -come ha sostenuto il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano- “La lingua italiana parlata e scritta rimane un fat85 tore caratteristico e fondamentale della nostra unità nazionale. È il grande concetto romantico di nazione che fece esclamare a Manzoni “Uni per te di lingua e di cor”, e che vede nel comune substrato linguistico il riconoscimento di un’appartenenza culturale e politica. Il Grande Esule si erge, sin dal suo tempo, come Vate di unità linguistica, maestoso profeta di quella sensibilità e ricchezza spirituale di umana sapienza che promana dalla lingua italiana, degna dell’ “Aula”, luogo in cui la comunità tutta si riconosce, ancora oggi, per alti sentimenti civili, morali e politici. L’Esule ha trovato la sua terra, si è liberato dal marchio dell’infamia e si è rivestito di luce ... italiana”. Pina Basile Università di Salerno Presidente Società “Dante Alighieri” Comitato di Salerno Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” unitÀ d'italia/storia e controstoria Eroiche ed esemplari le donne che hanno dato un potente contributo di idee e di sangue al Risorgimento e ai 150 anni di storia della nostra Patria. L uisa Sanfelice, prima martire del Risorgimento. Quell’11 settembre del 1800 era una bella giornata, con l’ultimo sole dell’estate, quel sole che ti riscalda, che ti entra fin nelle ossa. Luisa Sanfelice, capelli al vento, salì sul patibolo di Piazza Mercato a Napoli. Aveva un tenero sorriso sulle labbra rosee e carnose. La Luisa Sanfelice 86 Sorelle d’ Italia larga tunica bianca lasciava immaginare il suo corpo sinuoso e profumato. Anche i popolani, accorsi per lo spettacolo, rimasero sgomenti per la sua morte e fecero a pezzi il boia, che aveva sbagliato due volte il colpo e le aveva mozzato la spalla e un braccio. Prima di Luisa erano stati uccisi la scrittrice Eleonora Pimentel Fonseca, il giurista Mario Pagano, il sacerdote Domenico Troisi, il duca Gennaro Serra e tanti tanti altri patrioti. I 120 martiri della Rivoluzione Partenopea del 1799. Che, nata il 21 gennaio, fu soffocata nel sangue, dopo 144 giorni, il 14 giugno, dall’azione congiunta delle truppe borboniche e delle bande dell’Esercito della santa Fede, che, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo, si macchiò, tra l’altro, come ha documentato Maria Antonietta Maciocchi, di uno stupro di massa di quaranta suore, avvenuto nel maggio 1799 nel Monastero del Soccorso di Altamura, in provincia di Bari. Per 15 terribili mesi si protrasse la lunga scia di condanne e di esecuzioni. Il sogno di patria e di Repubblica dei patrioti napoletani era durato quanto un breve soffio di vento, un lieve profumo di rosa, un fugace sguardo d’amore. Ma la Costituzione Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” di questa Repubblica rimase celebre religione sociale e civile) nell’età risornella storia del diritto, perché prevedeva gimentale. Di lei Giuseppe Garibaldi provvedimenti favorevoli ai ceti meno disse: “L’amore di una madre per i figli abbienti, come l’abolizione dell’imposta non può nemmeno essere compreso diretta sul capofamiglia e del dazio sugli dagli uomini [... ]. Con donne simili alimenti, e contemplava per i funzionari una nazione non può morire.” benestanti la rinuncia allo stipendio. Cade Ed eccezionale è la vita anche la Repubblica Napoletana, la reazione Cristina della milanese Cristina Trivulzio Belborbonica ritorna al potere, si scatena Trivulzio giojoso, nata nel 1808. Immortalata Belgiojoso da parte dei lazzari la caccia ai giacobini in un celebre ritratto di Hayez, ispira e alle loro donne. Ma inizia da Napoli una nuova a Stendhal la duchessa Sanseverina de La Certosa fase della storia, che è rimasta scolpita nel cuore di Parma ed è amica di grandissimi intellettuali di tutti gli Italiani: il Risorgimento. europei, come il poeta tedesco Heinrich Heine, il compositore ungherese Franz Liszt e lo scrittore Il 1848 e le donne. Dal 1799 al 1848 c’è un francese Alfred De Musset. Organizzatrice di inlungo periodo in cui la fiaccola patriottica rischia surrezioni, nel 1834, giunge a finanziare il colpo di essere spenta. Brillano sotto la cenere solo di mano mazziniano nel Regno di Sardegna, in cui le idee degli scrittori e le azioni dei testimoni, i peraltro perde la vita Giovanni Battista Scapacciquali credono che il destino dell’Italia non possa no, considerato la prima Medaglia d’Oro al Valor rimanere quello di una nazione divisa e schiava Militare del futuro esercito italiano. Rifugiatasi a dello straniero. E questo messaggio di speranParigi, trasforma il suo palazzo in un falansterio, za ha il colore di grida e di volti femminili. Ma cioè una comunità secondo il modello del socialipochi hanno ricordato il ruolo delle donne nel smo utopistico, proposto da Charles Fourier. 87 Risorgimento. Esse stavano nelle strade dietro Trovandosi poi a Napoli nel 1848, pochi giorni le barricate mentre si battevano come leonesse prima delle cinque giornate di Milano, parte contro il tallone di ferro dell’Austria; ma quasi subito per questa città, pagando il viaggio ai nessuno le ha viste. Esse stavano davanti ai fucili circa 200 napoletani che decidono di seguirla. che sparavano sul loro petto, ma la Storia (quella Persi poi i suoi beni, sequestrati dal Maresciallo ufficiale) non se n’è quasi mai accorta. Per cui, se austriaco Radetzky, scende in difesa della Repubdovessimo scorrere i fotogrammi di un tradizioblica, a Roma, dove recluta centinaia di infermiere nale film sull’Unità d’Italia, vedremmo che i registi insieme con Giulia Bovio Paolucci ed Enrichetta e i protagonisti hanno tutti rigorosamente nomi di Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane: costitue cognomi maschili. Proviamo allora a svelare iscono così un eroico triumvirato femminile, che l’identità, segreta e misconosciuta, umiliata ed i giornali reazionari chiamano invece il “trio delle offesa, delle nostre “Sorelle d’Italia”. meretrici infami”. Vede coronato il sogno di Roma Partiamo dal Nord. La prima patriota italiana capitale nel 1870, ma l’anno dopo muore. Al suo che balza ai nostri occhi, archetipo funerale (cosa che nemmeno oggi dell’eroe plutarchiano al femminile, desta meraviglia!) non partecipa non è una moglie, non è una fidanzata, nessuno dei politici dell’Italia che ella ma emblematicamente una madre: cosi coraggiosamente ha contribuito Adelaide Cairoli (nata a Milano nel a rendere unita e indipendente. 1806 e morta nel 1871), che ebbe cinque figli maschi, di cui quattro Risorgimento ed emancipaziomorirono per la patria. Ella incarnò ne femminile. Contemporaneamencosì in maniera sublime il prototipo te anche il Veneto diventa centro di laico della Mater dolorosa, oggetto di Olio attivissimo della resistenza allo Domenico Romano un vero e proprio culto (tipico di una (1860-75) straniero, che avrà il suo clou nell’in- Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” surrezione del 17 marzo 1848 a Venezia. In questo clima non va sottovalutato un episodio curioso, come quello successo il 6 gennaio. La ballerina Fanny Cerrito, per uno spettacolo al Teatro “La Fenice” di Venezia (si intitola “La Siciliana” in omaggio all’insurrezione della Sicilia: straordinaria prova di un gemellaggio ideale Nord-Sud), si presenta con un costume tricolore, che fa andare letteralmente in visibilio il pubblico. Fulmini e saette, invece, da parte dell’Amministrazione austriaca, che d’ora in poi vieta la fabbricazione di “stoffe patriottiche”. 88 A questo episodio “mondano” segue la trafila degli eventi della Repubblica di Venezia. Il suo leader è, senz’altro, Daniele Manin; ma oggi molti storici (da Alvise Zorzi a Paul Ginsborg) sostengono che l’insurrezione veneziana è condotta sull’onda della mobilitazione femminile, oltre che studentesca. In prima fila, le aristocratiche e le borghesi raccolgono fondi a favore dei feriti. A Padova, ad esempio, Angelina Cristina Sartori e Annetta Giustiniani organizzano, come racconta un giornale dell’epoca (Il Caffè Pedrocchi), una colletta, girando in carrozza. E una loro amica, Elisabetta Michiel Giustinian, moglie di Giobatta Giustinian, futuro primo sindaco di Venezia italiana, risponde fieramente alle minacce di arresto da parte della polizia austriaca gridando di essere pronta ad andare in carcere. Intanto, sempre a Venezia nel ’48, vengono pubblicati e diffusi i primi giornali di patriote, come Il Circolo delle donne italiane. Di quest’ultimo è portavoce Adele Cortesi, repubblicana veneziana, che, nel primo editoriale (chiamato Proemio) di questo giornale femminile, scrive: “La nostra causa è decisa; ed è perciò che anche noi vogliamo prendere parte agli interessi della patria [... ] Noi abbiamo già un diritto alla riconoscenza dell’Italia: sin dai tempi dell’austriaco fummo esiliate alla campagna o all’estero per le collette raccolte a pro’ dei martiri: raccogliemmo dunque le offerte per la patria, vestimmo i militi fratelli, li assistemmo negli ospedali. Ora vogliamo di più: vogliamo educarci, noi e i nostri figlioli. Nessuno potrà negare che il pregiudizio di non istruire le femmine non sia ricaduto sopra gli uomini. Se escludete le donne, intanto cominciate a ridurre a mezzo la vostra universalità. Per voi le donne [... ] divengono angeli; ma angeli sono quando educano i figli al buon costume, alla religione, al sacro fuoco della patria.” Un manifesto, come si vede, che potrebbe ispirare una moderna rivendicazione dei diritti delle donne. Donne, Risorgimento e Sud. Passando al Sud, tra le tante patriote vogliamo scegliere, per iniziare il nostro breve viaggio, da una poetessa siciliana, morta a 26 anni: Giuseppina Turrisi Colonna (1822-48), che nel 1843 scrive un’Ode rivoluzionaria intitolata Alle donne siciliane, in cui, con un linguaggio che ancor oggi sorprende, sostiene che la donna (ma lei usa l’espressione il sesso femminile) non deve essere né trastullo né servo, ma merita dignità conforme alla realtà femminile. Ispirandosi a questi versi, il 20 giugno 1848 un gruppo di 136 signore di ogni età si riunisce a Palermo in casa della Duchessa Guidolfi e, sventolando il tricolore, lancia un manifesto politico e un giornale (La Tribuna delle Donne), in cui chiede il suffragio elettorale femminile. È da questo clima che nascono donne combattenti come Lucia Salvo, di Siracusa, che, durante la Spedizione dei Mille, fa la staffetta per i cospiratori e ha il coraggio di introdurre nel carcere alla Vicaria i messaggi per i detenuti politici, giungendo a nascondere le armi sotto le gonne. Ma la donna che più si distinse nell’attività di patriota fu Antonietta De Pace (1818-1894), originaria di Gallipoli (Lecce). Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” La madre era Luisa Rocci Cerasoli, una nobildonna d’origine spagnola, i cui fratelli avevano partecipato attivamente alla Repubblica napoletana del 1799. Mazziniana e repubblicana, iscritta alla Giovine Italia, partecipò ai moti del 1848 a Napoli. Fu protagonista di azioni rischiose e clamorose, legate ai rapporti che ella manteneva con i prigionieri politici. Riuscì, ad esempio, ad ottenere un lasciapassare per accedere al carcere di Procida, sostenendo falsamente che avrebbe dovuto contrarre matrimonio con Aniello Ventre, uno dei cospiratori, reclusi nella fortezza isolana. Altrettanto rocambolesca fu la vicenda del suo arresto, avvenuto il 26 agosto 1855. Come scrisse Beniamino Marciano (sacerdote liberale vissuto a Striano che poi ella sposò nel 1876), Antonietta -per non svelare la rete dei cospiratori- dinanzi alle guardie borboniche “si tolse dal petto due proclami di Mazzini, ne fece una pillola, poiché Mazzini usava la carta velina, e in faccia a loro li inghiottì”. Rinchiusa in una cella angusta, per circa quindici giorni, senza potersi mai né distendere su un letto, né lavare, subì ripetuti interrogatori notturni. Divenuta un caso internazionale e difesa a spada tratta da autorevoli giornali stranieri come il francese Journal des debats e l’inglese Times, fu sottoposta a 46 udienze in un processo penale, dal quale riuscì con la sua dialettica a rigettare ogni incriminazione. Il coronamento della sua battaglia si verificò il 7 settembre 1860: accanto a Giuseppe Garibaldi che entrava trionfalmente a Napoli vi erano, insieme agli ufficiali soltanto due donne, Emma Ferretti e Antonietta De Pace, vestita con i colori della bandiera italiana. Dall’Unità d’Italia alla Resistenza. Dopo l’Unità d’Italia il contributo femminile alla causa della Nazione continuò ad essere determinante. Un contributo di tragica umiliazione e tremendo dolore, perché furono le donne a pagare drammaticamente gli errori, che, nell’immediato periodo post-unitario, furono commessi dallo Stato italiano durante la repressione del brigantaggio. Che ebbe anche un significato di resistenza da parte dei poveri e dei diseredati, degli umiliati e degli offesi del Sud nei confronti delle nuove élites borghesi e dei “galantuomini”, i quali passarono dall’appoggio ai Borbone al sostegno del blocco moderato. Ne è testimonianza l’eccidio della città di Pontelandolfo, che nel 1861 fu rasa al suolo insieme a quella di Casalduni, per essersi schierata al fianco del brigante Cosimo Giordano. Gli abitanti di queste città erano, a loro modo, patrioti, perché amavano la “terra dei loro padri”. Tremendo è il racconto di Antonio Ciano: “Pontelandolfo Irma Bandiera fu messa a ferro e fuoco. Tutto il paese bruciava. Nicola Biondi, contadino sessantenne, fu legato ad un palo della stalla 89 da dieci bersaglieri, i quali denudarono la figlia Concettina, di sedici anni, e tentarono di violentarla. Ma la ragazza difese strenuamente l’onore. Dopo un’aspra colluttazione, sanguinante cadde a terra esanime. [... ] Il saccheggio e l’eccidio durarono l’intera giornata del 14 agosto 1861. Donne seminude, sorprese mentre dormivano, cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani ed avvenenti, venivano violentate e poi uccise”. Poco si parla di queste stragi, come poco si parla delle patriote del Risorgimento. Su di esse difficilmente vedremo delle fiction. Su di esse difficilmente ascolteremo nei talk show opinioni e vedremo litigi. Di fronte ad esse per anni, per decenni abbiamo preferito girarci dall’altra parte e fingere che nulla fosse successo. Come non vedremo fiction sulle donne della Resistenza antifascista e antinazista. Noi qui vogliamo ricordare solo la vita e la morte di due di queste persone speciali. La prima è la bolognese Irma Bandiera, arrestata dai fascisti il 7 maggio 1944. Le trovarono addosso documenti cifrati, per loro incomprensibili. Fu Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 90 il Valor militare: “Due tenere figliolette, l’attesa di una terza, non le impedirono di dedicarsi con tutto lo slancio della sua bella anima alla guerra di liberazione. In quindici mesi di lotta senza quartiere si dimostrava instancabile ed audacissima combattente, facendo della sua casa una base avanzata delle formazioni partigiane[... ]. Catturata, fu sottoposta alle torture più atroci per indurla a parlare: le furono strappati i seni e cavati gli occhi, ma ella resistette imperterrita allo strazio atroce senza dir motto. Dopo dura prigionia, con le carni straziate, ma non piegata nello spirito fiero, dopo aver assistito all’esecuzione di dieci suoi compagni, affrontava il plotone di esecuzione con il sorriso sulle labbra e cadeva invocando un’ultima volta l’Italia adorata”. Franco Salerno Gabriella Degli Espositi torturata per ore ed ore per cercare di estorcerle i nomi dei compagni. Ci erano riusciti -dovettero pensare- con questi metodi con altri partigiani, uomini grandi e grossi; figurarsi con questa signorina esile e fragile. Ma si sbagliavano. Infierirono su di lei con ogni genere di tortura e mutilazione, per sette giorni, arrivando perfino ad accecarla. Il 14 agosto la portarono moribonda sotto le finestre di casa sua, chiedendole per l’ultima volta di parlare. Ma lei tacque. La finirono lì, impotenti, con una furibonda scarica di mitra e se ne andarono bestemmiando. Qualche mese dopo toccò all’emiliana Gabriella Degli Esposti, uccisa il 17 dicembre 1994. Straziante è la motivazione per la Medaglia d’oro a lei conferita per Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” italia ed europa L’ italia fulcro della coscienza europea Dai movimenti di unificazione nazionale al sorgere dei nazionalismi L ’epopea napoleonica ebbe l’effetto di alimentare gli ideali dell’indipendenza nazionale in Europa, e ciò avvenne in particolare in Italia e in Germania. A partire dal 17 marzo 1861, l’Italia è stata proclamata Regno d’Italia, divenendo una realtà politica e territoriale unitaria, dopo sette secoli di frammentazione, durante i quali altri avevano deciso il destino delle genti che vi dimoravano. Tra i protagonisti del movimento di unifi- cazione italiana si ricorda il conte Camillo di Cavour. Grazie alla sua abilità diplomatica, il re Vittorio Emanuele II poté contare sull’appoggio della Francia contro l’Austria che portò all’unificazione dell’Italia centro-settentrionale. La spedizione dei Mille, guidata da Garibaldi, e la conquista del Regno delle due Sicilie portarono al completamento del processo unitario del Regno d’Italia. 91 Un altro personaggio storico che con la sua ideologia ha contribuito all’unificazione nazionale fu Mazzini, il quale intese la nazione come un tutto organico che si concretizza nella coscienza che il popolo matura di sé. Nell’ottica mazziniana, la volontà e la piena coscienza del popolo diventano una “condicio sine qua non” del processo unificatore. Ma Mazzini, nell’esaltare la nazione, la pone in stretta connessione con l’umanità europea, per cui compito dell’Italia sarà quello di prendersi cura dell’Europa, riscattando prima la propria libertà, e poi quella degli altri popoli ancora schiavi. Questa “coscienza europea” mancava del tutto alla classe politica della neo-nazione germanica, in cui l’artefice dell’unificazione (gennaio 1871) fu il cancelliere Otto Von Bismarck. Costui, a differenza Otto Von Bismarck del moderato conte di Cavour, Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 92 europeo-umanitario”. Nel giro di pochi decenni, il termine “nazionalismo” ha smarrito l’autentica idea di nazione, e di conseguenza è avvenuta la trasformazione dei «nazionalismi patriottici», basati sul principio dell’autodeterminazione dei popoli, in «nazionalismi aggressivi», in relazione allo sviluppo di dinamiche capitalistiche, imperialistiche, nonché razziste, affermatesi in Europa verso la fine del XIX secolo. Questo complesso intreccio storico-sociale ben si riflette sul pensiero di Max Weber (1864-1920), studioso di formazione giuridica ed economica, il quale elaborò l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik), come modello per l’agire politico dell’uomo moderno, e tra l’altro comprende in sé sia la fedeltà ai propri principi che la prescrizione di tener conto delle conseguenze delle scelte operate. Maria Teresa Risi Federico Chabod negava il valore dell’Europa, per affermare lo Stato singolo, per cui l’unificazione nazionale della Germania segnò l’inizio di una nuova fase storica,in cui il principio nazionale tende ad imporsi allo spazio europeo, mettendo a rischio l’equilibrio dell’Europa e degli imperi austro-ungarico, ottomano e russo. Riguardo a questo aspetto drammatico dell’ultimo periodo dell’Europa scrive Federico Chabod: “La nazione era stata affermata in connessione con la libertà e l’umanità. Ma questa trinità fu ben presto infranta. Si assiste allo spostarsi dei valori costitutari della nazione, cioè della “volontà” e della “coscienza” in un “a priori”, fisso e immutabile, di carattere etnico; il sorgere dei vari nazionalismi, chiusi in se stessi, portò rapidamente all’esasperarsi del senso nazionale, e al suo allontanarsi da ogni altro sentimento Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” scienziati e risorgimento/1 I matematici per l’Unità d’Italia Italia, un Paese “di santi, poeti, navigatori...” e anche di matematici. Perché hanno avuto un ruolo cruciale nella formazione del moderno Stato italiano. I n occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia ci sembra opportuno sottolineare l’importanza che la matematica ha avuto nello sviluppo sociale e culturale del Paese. Il ruolo di questa scienza nel processo unitario è stato spesso sottovalutato eppure eminenti matematici sono stati coinvolti, sia a livello scientifico che politico. Mazzini, Garibaldi e Cavour sono, doverosamente, i nomi che più frequentemente vengono ricordati nelle manifestazioni ufficiali, mentre personaggi come Francesco Brioschi, Enrico Betti o Luigi Cremona sono praticamente sconosciuti ai più. Invece, è interessante notare come si possa trovare un notevole parallelismo tra le vicende della storia della matematica e quelle della storia della civiltà e di come la ricerca scientifica si intrecci con la lotta risorgimentale. Il periodo pre e post unitario fu ricco di fermenti sia in campo politico che culturale, in particolare nella ricerca matematica, e gli studiosi italiani riuscirono rapidamente a ottenere riconoscimento internazionale. Enrico Betti, matematico di Pistoia, fu direttore della Scuola Normale di Pisa. Importanti i suoi studi sulle equazioni algebriche e la teoria dell’elasticità. La sua opera, diretta ed indiretta, contribuì in modo essenziale e risollevare il livello degli studi matematici in Italia. Francesco Brioschi, insigne matematico di Milano, contribuì alla diffusione di alcune teorie algebriche prima note solo all’estero. I suoi contributi riguardarono la risoluzione mediante funzioni ellittiche delle equazioni di 5° e 6° grado. Fu membro e successivamente presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Felice Casorati, laureato in ingegneria, fu assistente di Brioschi e professore di algebra e geometria analitica all’università pavese. Contribuì in modo essenziale a far conoscere la teoria delle funzioni 93 di variabile complessa. Luigi Cremona, laureato in ingegneria, insegnò geometria superiore e statica grafica, di cui è considerato uno dei fondatori. Fra i contributi personali alla matematica si ricorda lo studio delle corrispondenze algebriche birazionali, che sono dette giustamente “cremoniane”. Eugenio Beltrami, matematico cremonese, studiò in particolare le superfici a curvatura costante. I suoi lavori, redatti in forma chiara ed elegante, sono divenuti dei modelli per lo stile matematico. Angelo Genocchi iniziò come giurista, poi si dedicò alla matematica interessandosi della teoria dei numeri. È ricordato per il “Genocchi – Peano”, trattato di matematica. Ma quello che appare singolare è che questi matematici non furono soltanto brillanti ricercatori o insigni studiosi, ma ebbero anche parte attiva nelle vicende del Risorgimento e nella vita politica dopo l’unificazione. La massima espressione della partecipazione degli scienziati italiani al Risorgimento è Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” 94 senz’altro la costituzione del Battaglione degli universitari pisani formato da studenti e professori tra cui figurava Enrico Betti che con loro combatté volontario a Curtatone e Montanara. Ma questo non fu l’unico episodio importante che vide coinvolti i matematici, infatti Francesco Brioschi aveva partecipato alle Cinque giornate di Milano; il giovanissimo Luigi Cremona prese parte alla Prima Guerra di Indipendenza e si guadagnò i gradi di sergente durante la difesa della Repubblica di Venezia fino alla resa. Angelo Genocchi partecipò ai moti di Piacenza e fu costretto, al ritorno degli austriaci dopo la battaglia di Custoza, all’esilio. La partecipazione dei matematici italiani alle battaglie del Risorgimento ed alla vita politica non si esaurì con il 1849. Eugenio Beltrami fu licenziato per motivi politici dall’amministrazione delle strade ferrate del Lombardo-Veneto nel 1859. Una volta raggiunta l’Unità d’Italia, questi scienziati, in particolare matematici, si ritrovarono naturalmente a partecipare alla costruzione del nuovo stato, nel tentativo di superare le disomogeneità che l’Italia appena realizzata presentava. Le menti illuminate della classe dirigente dell’Italia post-unitaria, prendendo a modello altri paesi europei, individuarono nella promozione della ricerca scientifica uno degli obiettivi prioritari da perseguire per fare uscire il Paese dalle condizioni di arretratezza. La matematica, indiscussa punta di diamante della scienza italiana, rappresentò la forza trainante di questo progetto di rinnovamento. Genocchi fu senatore del Regno d’Italia. Betti ebbe importanti cariche politiche, fu in più occasioni deputato eletto in Parlamento, segretario generale del Ministero della Pubblica Istruzione e senatore del Regno a partire dal 1884. Brioschi, che fu deputato e senatore, si impegnò nella realizzazione di un sistema educativo nazionale con indirizzo tecnicoscientifico che culminerà con la creazione del Politecnico di Milano. Ebbe un ruolo importante anche nell’organizzazione del Catasto Italiano. Eugenio Beltrami, fu presidente dell’Accademia dei Lincei succedendo a Brioschi e nel 1899 fu nominato senatore del Regno. Infine Cremona, senatore dalla XIII legislatura, dedicò molte delle sue energie alla costruzione dell’Italia unitaria sacrificando notevolmente la sua attività di matematico. Fu Ministro della Pubblica istruzione nel 1898, anche se solo per un mese. La sua influenza sull’organizzazione degli studi matematici in Italia fu enormemente superiore a quella che poteva derivare da questo solo mese di responsabilità diretta ministeriale e si esplicò soprattutto in Senato, in cui la sua autorità nelle questioni scolastiche era grandissima, e nei concorsi. Il rifiorire degli studi dopo l’Unità d’Italia avvenne, quindi, in un sistema progressivamente ordinato della pubblica istruzione ed il sistema di concorsi nazionali dotò anche le università minori di professori di grande qualità per periodi più o meno lunghi. L’unificazione, nei primi decenni e fino all’inizio della prima guerra mondiale, produsse una benefica liberazione di energia, che favorendo i contatti internazionali e incrementando le opportunità per gli studiosi, agevolò lo scambio di rapporti scientifici. Nelle scienze matematiche, in particolare, l’Italia arrivò a occupare uno dei primi posti in Europa. Fu un matematico, Vito Volterra, a dare vita al Consiglio nazionale delle ricerche tutt’ora punto di riferimento in campo scientifico e tecnico. Le celebrazioni del 150° ci hanno dato l’occasione per ricordare scienziati che hanno onorato la nostra Nazione fin dalla sua costituzione. Sono stati uomini che non si sono sottratti all’impegno politico e sociale dando prova, in Parlamento, di grandi capacità anche al di fuori dell’ambito strettamente scientifico. Aniello Della Rocca Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” scienziati e risorgimento/2 Il ruolo della scienza nel Risorgimento italiano “Quale ruolo ha avuto la cultura scientifica nel periodo del nostro Risorgimento? Pochi ne parlano. Molti scienziati, invece, hanno combattuto in prima linea per l’Unità d’Italia e, dopo l’unificazione, si sono impegnati a sviluppare una nazione moderna, industriale e tecnologicamente avanzata.” L a cultura scientifica ha avuto un ruolo importante anche se spesso non riconosciuto nel Risorgimento italiano. Accanto a letterati, filosofi, musicisti, gli scienziati italiani hanno contribuito alla maturazione di una coscienza nazionale, promuovendo le idee di libertà e di unità, essenziali per la nascita di una nazione. Nella prima metà dell’Ottocento, la scienza italiana era molto indietro rispetto a quella dei paesi europei come l’Inghilterra, la Francia e la Germania che avevano scienziati illustri come Sadi Carnot, Gay-Lussac, Dulong e Petit, Faraday, Coulomb, Lavoisier, solo per citarne alcuni. Le cause erano molteplici. La frammentazione del territorio nazionale in tanti Stati comportava una maggiore difficoltà di dialogo fra gli scienziati. Le industrie dotate di macchine tecnologicamente avanzate per l’epoca erano quasi assenti. La mancanza di finanziamenti pubblici per la ricerca scientifica da parte dei vari Stati richiedeva, che, per cominciare a lavorare nel campo delle scienze, si doveva possedere notevoli risorse economiche e poi, solo se la ricerca effettuata era valida, si poteva ottenere un finanziamento. Negli Stati europei scientificamente più avanzati, l’epoca dello scienziato benestante che inventa nel chiuso del suo studio era finita da quando la Rivoluzione Industriale si era affermata. In questi Stati, lo sviluppo scientifico e tecnologico erano riconosciuti come fattori produttivi di ric- chezza. Si comprese che il progresso tecnologico, non poteva essere affidato solo ad artigiani che lavoravano su basi esclusivamente empiriche, ma aveva bisogno di scienziati che, risolvendo i problemi legati all’aumento di produzione mediante le loro conoscenze scientifiche, ottenevano il massimo profitto possibile dalle innovazioni 95 tecnologiche. La scienza andava sempre più legandosi con il mondo della produzione e fare lo scienziato assunse il significato di lavorare per lo sviluppo tecnico-economico del paese. In Italia tutto ciò non avvenne, almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento. La ricerca scientifica viveva una situazione di profonda arretratezza. D’altra parte, i ricercatori italiani non erano isolati dal resto dell’Europa, ma intrattenevano rapporti con gli scienziati dei Paesi scientificamente più avanzati, e avvertivano che la situazione in cui versava l’Italia non era più sostenibile. Nella speranza di porvi rimedio, diedero vita al primo Congresso degli scienziati italiani a Pisa nel 1839, in cui venne stabilito di incontrarsi regolarmente ogni anno in varie città d’Italia. Questo fu un evento importantissimo perché, per la prima volta, gli scienziati italiani avevano l’occasione di scambiarsi idee in modo diretto e di instaurare rapporti personali e professionali. Con il primo Congresso nasceva così una comunità scientifica nazionale prima ancora della nazione stessa! I Congressi furono autentici eventi scientifici Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Macedonio Melloni 96 nel 1811. I suoi studi furono rivolti alla meccanica celeste e tra i suoi lavori più importanti ricordiamo un nuovo metodo per determinare l’orbita delle comete e lo studio della rotazione del sole. Nel 1841 venne nominato professore di fisica matematica e meccanica celeste all’Università di Pisa. Partecipò ai moti del 1820-21 e fu costretto ad espatriare e vivere per circa 15 anni esule tra la Svizzera, la Gran Bretagna e l’Argentina. Tornò in Italia nel 1835 e nel 1848 partecipò alla prima guerra d’indipendenza comandando, con il grado di Maggiore, il battaglione Universitario di Pisa durante la battaglia di Curtatone e Montanara. Quando l’Italia fu unita nel 1961 fu nominato senatore del Regno. Si spense a Pisa nel 1863. Amedeo Avogadro nacque nel 1796 a Torino da una nobile famiglia. Si laureò in giurisprudenza e successivamente si specializzò in legge ecclesiastica. Praticò la professione giuridico amministrativa per un certo tempo ma la sua vera passione erano le scienze fisiche e matematiche. Egli scrisse due memorie in una delle quali descrive la legge, che recita: “Volumi uguali di gas, alla stessa temperatura e pressione, contengono lo stesso numero di molecole” con cui è possibile determinare non solo le masse molecolari ma come conseguenza anche le masse atomiche. Gli venne assegnata la cattedra di Fisica sublime all’Università di Torino nel 1820 ma poiché prese parte ai moti rivoluzionari del 1821 contro il re di Sardegna fu allontanato dall’Università e solo nel 1834 fu richiamato ad insegnare su quella cattedra. Nel 1956 morì a Torino. Insieme a Melloni, Mossotti e Avogadro ricordiamo anche Carlo Matteucci (1811-1868), fisico, fondatore della rivista “ Il Nuovo Cimento” che ancora oggi è pubblicata, e Ministro della Ottaviano Fabrizio Mossotti anche se, durante i lavori era inevitabile parlare di politica. Gli scienziati si rendevano conto che il maggior ostacolo al progresso scientifico italiano era proprio la frammentazione in vari Stati e che solo con l’unità, la scienza avrebbe potuto godere di una rapida evoluzione e l’intera società si sarebbe avviata verso un rinnovamento culturale. In questi Congressi, quindi, oltre ad impegnarsi per lo sviluppo delle scienze, i partecipanti si proponevano di risvegliare il sentimento di fratellanza e di nazionalità nel popolo italiano. In tale prospettiva, si possono comprendere gli slanci patriottici della maggior parte degli scienziati italiani del Risorgimento. A tal proposito, ricordiamo di seguito alcuni scienziati patrioti . Macedonio Melloni, nato a Parma nel 1798, divenne professore della cattedra di fisica presso l’Università di Parma nel 1824. È considerato il fisico della radiazione infrarossa: e g l i s o s te n n e che la radiazione ultravioletta e infrarossa sono manifestazioni diverse di uno stesso fenomeno. Ebbe una fitta corrispondenza con Michael Faraday, il padre fondatore dell’elettromagnetismo, con cui scambiava sia idee scientifiche che politiche. Fu premiato dalla Royal Society per i suoi lavori scientifici, con la Rumford Medal, una specie di premio Nobel dell’epoca. La sua vita non fu facile perchè per aver partecipato ai moti del 1831 dei Ducati di Parma e di Modena, fu perseguitato e costretto a fuggire in Francia. Nel 1838, ritornò in Italia e si stabilì a Napoli dove fondò l’osservatorio meteorologico alle falde del Vesuvio. Quando nel 1848 scoppiarono i moti insurrezionali, non poté fare a meno di parteciparvi ed ancora una volta fu punito e destituito da tutte le sue cariche. Morì nel 1854 a Portici, prima dell’Unità d’Italia. Ottaviano Fabrizio Mossotti nacque nel 1791 a Novara e si laureò in matematica e fisica Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Antonio Pacinotti Pisa, giovanissimo inventò quello che fu poi chiamato l’anello di Pacinotti, si racconta proprio mentre partecipava alla seconda guerra d’indipendenza. Questa invenzione rivestì un’enorme importanza perché essa sta alla base dei motori elettrici a corrente continua e quindi alla base dello sfruttamento a livello industriale dell’energia elettrica. Successivamente Galileo Ferraris (18471897) ingegnere e scienziato realizzò altre due invenzioni che da più di un secolo svolgono un ruolo essenziale nella nostra vita quotidiana: il trasformatore e il motore elettrico a corrente alternata. Il primo riesce a trasformare la tensione delle correnti alternate, favorendone il trasporto anche a distanze continentali; il secondo riesce a ricavare energia meccanica dalle correnti alternate. 97 Una storia particolare ebbe lo sfortunato inventore patriota Antonio Meucci. Nacque a Firenze nel 1808 e studiò all’Accademia delle Belle Arti. Partecipò alle cospirazioni del 1833 Antonio Meucci e 1834 e fu imprigionato per tre mesi. In seguito, per sfuggire alle persecuzioni politiche, partì per Cuba nel 1835. Nel 1849, ottenne la trasmissione della parola per via elettrica, inventando il telefono. Depositò un brevetto temporaneo per la sua invenzione che non riuscì a rinnovare alle successive scadenze annuali a causa di problemi economici. Così quando Alexander Graham Bell presentò la sua domanda di brevetto per il telefono, ottenne la regolare concessione. Solo molti anni dopo, una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti riconobbe a Meucci la priorità dell’invenzione. Fu grande amico di Giuseppe Garibaldi, che ospitò nella sua Lyceum Maggio 2011 Galileo Ferraris Pubblica Istruzione dopo l’Unità nel 1862; Riccardo Felici (1812-1902) fisico noto per aver fornito una formulazione matematica della legge di Faraday sull’induzione magnetica (l’altra è dovuta a Newmann), prese parte alla battaglia di Curtatone insieme a Mossotti. Nella seconda metà dell’Ottocento, la situazione politica nel Piemonte cominciò a cambiare con l’affermarsi della figura di Cavour, che era riuscito ad imporre un programma economico di industrializzazione e ad avviare un processo di modernizzazione dello Stato. Egli credeva che per industrializzare il paese era necessario far ricorso alle tecnologie allora più avanzate come l’energia elettrica. Quando l’Unità d’Italia verrà progressivamente portata a compimento, gli scienziati patrioti che avevano partecipato attivamente alle guerre d’indipendenza furono coinvolti nella realizzazione del disegno di Cavour. Essi contribuirono a trasformare il paese e la sua organizzazione sociale da uno stato semifeudale basato sull’agricoltura in una moderna nazione industrializzata. Furono una parte fondamentale della nuova classe dirigente e alcuni di loro diventarono ministri, deputati o senatori impegnandosi, con la loro attività politica, a superare le arretratezze e le disomogeneità regionali. La ricerca scientifica italiana risentì del cambiamento politico e cominciò ad essere maggiormente competitiva con quella degli Stati europei più avanzati, anche se incontrò notevoli difficoltà nel trasferire i prodotti della ricerca in una dimensione produttiva. Questo perché ancora non esistevano industrie che rendevano possibile quello che noi oggi chiamiamo il binomio ricerca- sviluppo. Con questa realtà si scontrarono gli scienziati Antonio Pacinotti e Galileo Ferraris. Le loro geniali invenzioni contribuirono in modo decisivo allo sviluppo delle tecnologie applicate all’elettricità, fino ad allora usata solo per l’illuminazione. Antonio Pacinotti (18411912), allievo di Mossotti a Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” casa a Clifton. Insieme costruirono una fabbrica di candele dando lavoro a molti esuli italiani. Non tutti sanno che Garibaldi era un appassionato cultore della scienza e della tecnologia. Meucci morì nel 1889 a Clifton e la sua casa è attualmente sede del museo Meucci e Garibaldi. La scienza italiana, dall’Unità ai nostri giorni, ha raggiunto spesso vette di assoluto valore, basti ricordare i premi nobel Guglielmo Marconi, inventore della radio ed Enrico Fermi, che con i “ragazzi di via Panisperna”, collaborò alle ricerche sull’energia nucleare, fino ad arrivare ai nostri giorni con Renato Dulbecco, Carlo Rubbia e Rita Levi Montalcini. Scienziati, tecnici e inventori sono stati protagonisti in questi 150 anni di storia italiana. La cultura scientifica ha avuto e continua ad avere, un ruolo importante dovuto essenzialmente alla rilevanza profonda dei contributi applicativi e delle scoperte che incidono sulla struttura economica e sul benessere della nazione. Adele De Santis 98 Bibliografia M. Cialdi, Reazioni Tricolori, Franco Angeli. L. Russo, E. Santoni, Ingegni Minuti, Feltrinelli. A. Guerraggio, P. Nastasi, L’Italia degli scienziati, Saggi Bruno Mondadori. Basilio Catania, Antonio Meucci una vita per la scienza e per l’Italia, pubblicazione edita dall’ISCTI. Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” la poesia Il mosaico a rischio L’ombra del bello si contorna di rinnovata essenza, Sembra risvegliarsi lentamente, come una reminiscenza. I sorrisi dell’intelletto banchettano nella composizione armoniosa, Scevra da vincoli incatenanti, si manifesta rigogliosa Di forme e di colori, di rima e simmetria, Che trova ispirazione anche nella nostalgia. La musa ispiratrice, nella prospettiva appena nata, Mette a fuoco l’essenza umana come fonte ritrovata. Dolce anima palpitante trasuda sensazioni che sanno di vero, Che cammina disinvolto come un prode condottiero, Che indica la strada della nuova percezione: Mosaici perfetti son lo sfondo di questa dimensione. Come una rinascita dal torpore medievale Prendo ispirazione per narrar dello stivale La sua storia affascinante ricca di sangue assai versato Per urlare finalmente “il paese, il nostro paese è nato” Tutti uniti in un sol cuore La bandiera è il tricolore… …ma i selvaggi son sempre esistiti e stranamente da deboli menti riveriti, arroganza, odio e razzismo come sfondo del separatismo: finta chimera di venerazione in cui del tricolor vien fatta derisione. Nello Agovino Lyceum Maggio 2011 99 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Musica e risorgimento L’Inno di Mameli e la nostra storia Musica, storia e narrazione si fondono nel Canto degli Italiani, il nostro amato (e discusso) “Inno nazionale”. Tanta la storia racchiusa in quelle parole, enorme il fervore patriottico dei suoi compositori e, purtroppo, grande anche la nostra impreparazione sul suo significato e sulle sue origini. S critto nell’autunno del 1847 dallo studente genovese Goffredo Mameli, appena ventenne, e musicato poco dopo a Torino da 100 un altro genovese, Michele Novaro, il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l’Austria. L’inno, molto probabilmente, fu scritto da Mameli su richiesta di un altro eroe del nostro Risorgimento, Giuseppe Mazzini, il quale voleva creare un inno nazionale forte come la Marsigliese, ma con chiari richiami alla storia d’Italia e al sentimento degli Italiani. Fu così che “i figli della patria” francesi divennero “fratelli d’Italia”. Il testo fu poi inviato al compositore genovese Michele Novaro, il quale scrisse la musica di getto, cosicché l’inno poté debuttare il 10 dicembre 1847, quando, sul piazzale del Santuario della Nostra Signora di Loreto a Oregina (Genova), fu presentato ai cittadini genovesi e a vari patrioti italiani in occasione del centenario della cacciata degli austriaci dalla città. L’immediatezza dei versi e l’impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell’unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Esso accompagnò i nostri patrioti durante le Cinque Giornate di Milano, supportò Garibaldi e i suoi Mille durante la conquista dell’Italia meridionale e affiancò i bersaglieri nella presa di Roma. Il suo impeto fu così travolgente che sconfisse tutti i tentativi di divieto e censura delle autorità austriache. Chiaramente a noi moderni il testo sembra molto retorico, e la musica appare come una marcetta non troppo solenne. Ma quel testo scritto di getto, spontaneo, appassionato e composto poi da un giovanissimo combattente per la libertà (appartenente a quella generazione che lo storico francese Jules Michelet definì “misteriosa” perché “amava i sogni, disprezzava il successo e serviva la causa più con il sangue che con la vittoria”) sembrava il più adatto a simboleggiare la giovane Italia rivoluzionaria. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani –e non alla Marcia Reale, inno ufficiale del Regno d’Italia– il compito di simboleggiare la nostra Patria. Insomma, il Canto degli Italiani era divenuto il simbolo non solo del Risorgimento, ma di tutta la storia e la nazione italiana. Lo stesso accadde durante la Prima Guerra Mondiale: l’irredentismo che la caratterizzava, l’obiettivo di completare la riunificazione, trovò Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” facilmente ancora una volta un simbolo nel Canto ritrovare l’Italia del dopo Risorgimento. Un’Italia degli italiani. unita come non mai, che s’impose sugli oppresLe cose non cambiarono durante la dittatura sori stranieri grazie al suo senso di appartenenza fascista. Certo, al Canto degli Italiani furono molte a un’unica Patria. Oggi l’esortazione ad “amarci volte preferiti canti prettamente fascisti, ma esso e unirci sotto un’unica Bandiera” è quanto mai rimase comunque un simbolo inequivocabile attuale poiché è sempre più forte la tendenza dell’identità e dell’unità italiana anche nei periodi a mettere in discussione la nostra Patria. Contro più bui della sua storia. L’Inno di Mameli conserquesta moda l’Inno Nazionale può costituire un vò, dunque, la sua importanza ed è considerato antidoto molto efficace, purché lo si canti a voce da molti come l’inno “ufficioso” della Repubblica alta in ogni occasione, per dimostrare a noi stessi Sociale Italiana, accanto a Giovinezza e all’ufficiale e agli altri che ancora crediamo nella Patria, nella Marcia Reale. nostra storia e nei nostri eroi. Durante la Seconda Guerra Mondiale l’inno Raffaella Celentano di Mameli, insieme a molti altri canti partigiani, II A Liceo Classico risuonò per tutta l’Italia, venendo trasmesso sempre più spesso dalle FRATELLI D’ITALIA radio e dando coraggio agli italiani. In Fratelli d’Italia, Il suolo natio: questo periodo di transizione, sapenL’Italia s’è desta; Uniti, per Dio, do che il Paese stava per mettere in Dell’elmo di Scipio Chi vincer ci può? discussione la monarchia, il governo S’è cinta la testa. Stringiamci a coorte! adottò La Canzone del Piave come Dov’è la Vittoria? Siam pronti alla morte; inno nazionale provvisorio, sostiLe porga la chioma; Italia chiamò. tuendolo alla classica e monarchica Ché schiava di Roma 101 Dall’Alpe a Sicilia, Marcia Reale. Nel 1945, tuttavia, il Iddio la creò. Dovunque è Legnano; Canto degli Italiani vide riconosciuta Stringiamci a coorte! Ogn’uom di Ferruccio l’importanza che gli spettava quando Siam pronti alla morte; Ha il core e la mano; fu eseguito nell’Inno delle Nazioni di Italia chiamò. I bimbi d’Italia Verdi, affiancando gli ufficiali God Si chiaman Balilla; Save the Queen e la Marsigliese. Noi siamo da secoli Il suon d’ogni squilla L’inno passò dall’ufficioso all’ufCalpesti, derisi, I Vespri suonò. ficiale il 12 ottobre 1946, quando Il Perché non siam popolo, Consiglio dei Ministri della neonata Perché siam divisi. Stringiamci a coorte! Repubblica Italiana acconsentì ad Raccolgaci un’unica Siam pronti alla morte; adottarlo come inno nazionale provBandiera, una speme; Italia chiamò. visorio. Ma si sa: in Italia niente è più Di fonderci insieme Son giunchi che piegano definitivo delle cose provvisorie. E Già l’ora suonò. Le spade vendute; così Fratelli d’Italia è rimasto un inno Stringiamci a coorte! Già l’Aquila d’Austria provvisorio per vari decenni. BisoSiam pronti alla morte; Le penne ha perdute. gna aspettare il 2006 per ottenere Italia chiamò. Il sangue d’Italia un’ufficiale normativa che presenta E il sangue Polacco Fratelli d’Italia come inno definitivo Bevé col Cosacco, della Repubblica Italiana. Uniamoci, amiamoci; Ma il cor le bruciò. Fatto sta che la scelta dell’Inno L’unione e l’amore di Mameli non è certamente casuale Stringiamci a coorte! Rivelano ai popoli perché, dopo la caduta del Fascismo Siam pronti alla morte; Le vie del Signore. e le disastrose conseguenze della SeItalia chiamò. Giuriamo far libero conda Guerra Mondiale, occorreva Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” fantastoria Dal diario immaginario di Antonietta De Pace Gli ultimi istanti di una patriota e donna senza tempo C hampagne! Tutte quelle bollicine, le osservo mentre si rincorrono furiose nel mio calice di cristallo. Ne butto giù un sorso mentre mi avvicino alla finestra. Fuori il sole sta calando: gli ultimi raggi si tuffano nel limpido mare di Procida, mentre la luna inizia a vedersi nel cielo. Ormai anch’io come il sole sto tramontando, sono alla fine dei miei giorni, questa bronchite mi sta uccidendo. Sembra ieri che 102 mi trasferii nella bellissima Napoli e invece sono passati più di trent’anni. Grazie a mio cognato e compagno di avventure Epaminonda Valentino, che mi ha fatto conoscere questo posto da sogno, ed aiutare la sua calorosissima gente, Napoli è diventata la mia Napoli. Mi sento morire, ho la testa che mi gira, ma non mi riposo, nonostante gli inviti di mio marito a restare a letto sono voluta scendere in salotto. Mi viene da sorridere, non cambio mai! Sono sempre la solita sciocca e ostinata Antonietta. Non mi sono mai fermata davanti al dolore, ho sempre tirato avanti sorvolando sui miei problemi e cercando di risolvere quelli altrui. Mia madre non si spiegava perché nonostante avessi tutto: casato, ricchezza, educazione, istruzione … mettessi tutto da parte per combattere l’ingiustizia, la fame, la povertà. Avevo tredici anni quando portai a casa un bambino, il piccolo Vincenzo Veltrò, che era malato di malaria e aveva perso entrambi i genitori. Ma non dimenticherò mai Tonina, una donna che difesi tanto contro il marito che le usava violenza e le faceva mangiare avanzi e rifiuti. Le offrii un posto dove stare, vestiti, cibo ed un coltellino per tagliuzzarlo. Proprio con quello, però, lei uccise il marito. Mi volto. Mio marito, Beniamino, si sta versando dello champagne e mi guarda con lo sguardo innamorato. Sono ormai trentacinque anni che siamo insieme ma ogni giorno sembra il primo. Non saprei fare a meno di lui. Ricordo ancora quando lo incontrai per la prima volta a Striano, il suo paese natale, era il 1858. Lui era un prete liberale e per questo ci abbiamo messo un po’ per sposarci, ben venti anni, ma alla fine l’amore ha trionfato. Da quando ci siamo conosciuti siamo sempre stati complici non solo in amore ma anche in politica. Insieme abbiamo aiutato Giuseppe Garibaldi nel suo processo di unificazione dell’Italia. Mi siedo accanto a lui e guardo il mio bicchiere. Dentro riflette la luce rossa del tramonto, lo stesso rosso della distintiva camicia del nostro compagno Garibaldi. Che forte emozione quel 7 settembre 1860 quando lo accompagnai Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” nella sua entrata trionfale a Napoli. Mi sembra ancora di sentire quelle grida di festa e quell’odore di vittoria, di libertà. Sorrido. Sul tavolino c’è un volantino in cui si legge dell’Italia unita. Cosa non ho fatto per la mia Italia, mi sono fatta anche maschio. Sotto lo pseudonimo di Emilia Sforza Loredano ho mantenuto vivi i rapporti tra i mazziniani del Nord e quelli del Sud e nel 1848 ho combattuto al fianco di Valentino e Settembrini. Mi sentivo invincibile in quel periodo, ero una rivoluzionaria, una patriota, ero bella, passionale, ardente, coraggiosa. Si, coraggiosa. Non mi sono mai tirata indietro, mai fatta intimorire, nemmeno quando nel 1855 mi arrestarono. Che angoscia se ripenso a quei 18 mesi in carcere, sottoposta a 46 udienze! Illusi quei giudici che speravano di avere da me il nome di qualche cospiratore, ma niente, non dissi niente. Sono stanca, ho il respiro un po’ affannato. Mi avvicino a Beniamino, ci guardiamo. Ormai ho 75 anni e sappiamo entrambi che per via della malattia a giorni potrei anche morire, ma non ho paura. Non mi preoccupo per niente, ciò che desideravo di più ormai è compiuto, l’Italia è unita, ed anche grazie a me. Alzo il calice, Beniamino mi accompagna, voglio brindare a me, a lui, a noi, a questa agognata unità d’Italia per cui ho incessantemente lottato. Antonia Falco I B Liceo Classico 103 Lyceum Maggio 2011 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” Sventola, o bandiera identità nazionale La storia del nostro Tricolore dal 1796 a oggi “Tutti uniti in un sol fato stretti intorno alla bandiera griderem mattina e sera viva viva il tricolor, griderem mattina e sera viva viva il tricolor, il tricolor, il tricolor!” Q (Canzone politica popolare) uante volte, durante il Risorgimento italiano, si udirono queste parole in 104 segno di ammirazione e lode del nostro popolo per quell’Italia che finalmente riuniva, in un unico Stato, tutti i suoi territori sparsi. Quel semplice drappo di stoffa fissato ad un’asta era in grado di infiammare gli animi e di infondere un indomabile senso di appartenenza. E non erano stati scelti a caso i suoi colori. Il verde era simbolo della speranza, a lungo coltivata, di raggiungere un’Italia libera e unita e, inoltre, richiamava la macchia mediterranea, importante elemento paesaggistico del centro-meridione; il bianco era simbolo della fede cattolica e dei ghiacciai settentrionali delle Alpi; il rosso ricordava il sangue che gli uomini avevano versato per il loro Paese. Ma la vita del nostro tricolore è stata tra le più travagliate della storia. Utilizzato occasionalmente dai giacobini italiani per affermare la loro vicinanza ideologica alla Rivoluzione francese, fu disegnato in seno al Senato di Bologna il 18 ottobre 1796, e fece il suo ingresso ufficiale, nella storia ita- liana, a Reggio Emilia, il 7 gennaio 1797, dove fu acclamato come simbolo della Repubblica Cispadana. Napoleone Bonaparte lo adottò poi come bandiera nazionale del Regno d’Italia (1805). Nei tre decenni che seguirono il Congresso di Vienna (1814-1815), il vessillo fu soffocato dalla Restaurazione, ma continuò ad essere sventolato durante i moti del 1831, nelle rivolte mazziniane, nella disperata impresa dei fratelli Bandiera e nelle sollevazioni negli Stati della Chiesa. Nel 1848 il Tricolore sostituì lo stendardo azzurro sabaudo quale insegna del Regno di Sardegna, con l’aggiunta al centro dello scudo dei Savoia. Il 17 marzo 1861, dopo la proclamazione del Regno d’Italia, la bandiera continuò ad essere quella della prima guerra d’indipendenza. Ma la mancanza di una apposita legge al riguardo -emanata soltanto per gli stendardi militari- portò alla realizzazione di vessilli di foggia diversa dall’originaria, spesso addirittura arbitrari. Soltanto nel 1923 si definirono, per legge, i modelli della bandiera nazionale e della bandiera di Stato. Quest’ultima (da usarsi nelle residenze dei sovrani, nelle sedi parlamentari, negli uffici e nelle rappresen- Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” tanze diplomatiche) avrebbe ancora presentato l’icona della corona reale. Durante il secondo conflitto mondiale la Repubblica Sociale Italiana (RSI) adottò una propria bandiera e solo dopo la nascita della nostra Repubblica un decreto legislativo stabilì la foggia provvisoria della nuova bandiera, confermata dall’Assemblea Costituente nella seduta del 24 marzo 1947 e inserita all’articolo 12 della nostra Carta Costituzionale, che recita “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”: lo stemma sabaudo era stato eliminato. Certo è che, a qualsiasi periodo storico si faccia riferimento, balza in primo piano la grande forGiosuè Carducci za scaturita dal nostro tricolore e penetrata perfino nel cuore di grandi poeti. Non a caso il celebre Giosuè Carducci (1835-1907) sentì forte il bisogno di tenere, il 7 gennaio 1897 a Reggio Emilia, un discorso per celebrarne il centenario. Esso si apriva, emblematicamente, con un’esclamazione : “Sii benedetta!” e culminava con l’esaltazione dei tre colori della nostra bandiera. Purtroppo, oggi, seppur in condizioni istituzionali e sociali molto difficili, sembra che sia scemata la carica patriottica che il tricolore era sempre riuscito a trasmettere agli italiani. Tanto è avvenuto, forse, perché travolti dalla frenesia della vita, è difficile trovare il tempo di soffermarsi su quello che solo apparentemente è un pezzo di stoffa, ma che ha come essenza prima e ultima profondi valori d’identità. Ecco perché non si può guardarlo con ammirazione solo quando cinge le bare di giovani uomini morti per il proprio Paese, occasioni in cui dagli occhi di chi fissa quelle casse di legno scendono lacrime tricolori. Il valore e l’importanza della nostra bandiera andrebbe rammentata sempre come simbolo dell’unità. È quanto ha fatto Francesco Tricarico (cantante italiano nato a Milano nel 1971), che ha partecipato al festival di Sanremo 2011 con la canzone “3 colori”: “Quelli nella nebbia hanno una bandiera verde ricorda che la nostra tre colori ha la battaglia è già iniziata buona giornata cannoncini con le bocche in su partiremo noi da dietro con l’aiuto di San Pietro il destino poi ci guiderà quelli sul confine hanno una bandiera rossa ricorda che la nostra tre colori ha quelli nella nebbia hanno una bandiera verde ricorda che la nostra tre colori ha..” Sono passati più di duecento anni dalla nascita del tricolore, eppure una cosa è certa: gli ideali dell’uomo di allora, che vedeva il paese in ginocchio, sognava un’Italia migliore e cantava, devono nutrire l’animo e la mente dell’uomo di oggi, pur se in un contesto storico diverso, ma ugualmente gravido di problemi, che solo uniti si può cercare di risolvere. Loredana Gaudino IIIC Liceo Classico Lyceum Maggio 2011 105 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” storia Cavour e l’Italia Q Tra l’Italia e l’Italia mai più! uesti sono i miei fiumi che solcano le terre d’Italia in cui tante volte la vita si è riversata, si è persa, si è ritrovata come quando dal liquido amniotico tutto comincia. Dove è finito quel senso di appartenenza che Ungaretti ritrovava nei suoi fiumi? Le stesse 106 acque ancestrali che un tempo han destato le penne dei poeti sono ormai crepe d’acqua dolce tra volti fratelli ma lontani. È triste pensare che ad interromperne il naturale confluire sia la grande diga della politica che tenta di sradicare dall’Italia quel senso di unità nazionale che infervorò gli animi dei patrioti dell’800. Federalismo e Scissionismo sono oggi le parole chiave quando si parla della nostra Italia. Certamente, a suo tempo, Camillo Benso conte di Cavour, ministro del Regno di Sardegna, nonché primo presidente del Consiglio del neonato Regno d’Italia, sarebbe inorridito di fronte a siffatti progetti politici, preferendo una visione unitaria del suolo italico. Ma all’alba del centocinquantesimo anniversario della sua unità, l’Italia sembrerebbe aver dimenticato i meriti di quest’uomo, il quale vedeva nella creazione di uno stato territorialmente unito, il primo passo verso la concretizzazione del progetto di sviluppo e crescita economici e sociali da lui promossi per il Regno di Sardegna, da cui nascerà la futura Italia. D’altronde nel suo Chemins de Fer, Cavour afferma: «La storia di tutti i tempi prova che nessun popolo può raggiungere un alto grado di intelligenza e di moralità senza che il sentimento della sua nazionalità sia fortemente sviluppato: in un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità il sentimento della dignità personale esisterà solo eccezionalmente in alcuni individui privilegiati. Le classi numerose che occupano le posizioni più umili della sfera sociale hanno bisogno di sentirsi grandi dal punto di vista nazionale per acquistare la coscienza della propria dignità». L’unificazione italiana non era il solo obbiettivo di Cavour, molto ampia fu, infatti, la sua opera riformista che interessò ogni aspetto della vita sociale: dal potenziamento delle tecniche agrarie allo sviluppo dell’allevamento del bestiame, dal miglioramento dei mezzi di trasporto, soprattutto ferroviari, al sostegno della promulgazione dello Statuto Albertino; il tutto astenendosi da ogni potenziale rivoluzionario. Un realistico riformismo per necessità più che per convinzione il suo: le riforme vanno fatte quando non se ne può più fare a meno, quando insistendo con una politica reazionaria il rischio di una rivoluzione si fa reale comportando così la perdita del potere sino allora gestito. Alla nascita, nel 1847, del partito moderato come alternativa riformista ai movimenti di ispirazione democratica e insurrezionale aveva contribuito anche il pensiero politico del giovane aristocra- Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” tico piemontese che sulla base delle proprie idee liberali nel 1846 così scriveva: “In Italia una rivoluzione democratica non ha probabilità di successo [..]. Il partito favorevole alle novità politiche [..] non Alessandro Manzoni incontra grandi simpatie nelle masse...in genere assai attaccate alle vecchie istituzioni del paese. La sua forza risiede nelle classi medie e in una parte della classe superiore. Su queste classi [..] così fortemente interessate al mantenimento dell’ordine sociale le dottrine sovversive della Giovine Italia non hanno presa. Perciò ad eccezione dei giovani [inesperti ed ingenui] si può affermare che non esiste in Italia se non un piccolissimo numero di persone seriamente disposte a mettere in pratica i principi esaltati di una setta inasprita dalla sventura.” Parimenti a quanto sostenuto da Cavour, il popolo italiano sembrerebbe ancora una volta estraneo agli avvenimenti o molto più probabilmente ancora poco cosciente della propria identità nazionale. Non sono bastate le polemiche, gli appelli, i richiami ufficiali. La gran parte degli italiani non sa che nel 2011 ricorre il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Se si chiede ai giovani di esprimere un’opinione sul senso di quell’evento storico, quasi la metà è d’accordo nel ritenerlo poco o per nulla attuale. Ancora meno sono, a differenza degli adulti, i giovani che se ne sentono coinvolti personalmente, facendo sì che il futuro della nazione italiana sia sempre più velato da una patina di indifferenza e noncuranza. Ci sembra opportuno lasciare che siano le parole di Alessandro Manzoni ad esprimere tale atteggiamento nei confronti dell’esodo della propria esanime patria, priva ormai di ogni antica dignità: “Oh giornate del nostro riscatto! oh dolente per sempre colui che da lunge dal labbro d’altrui, come un uomo straniero, le udrà! Che a’ suoi figli narrandole un giorno dovrà dir sospirando: “Io non c’era”; che la santa vittrice bandiera salutata quel dì non avrà.” Lyceum Maggio 2011 Anna Casalino Denise Miranda Marilena Pacelli Ersilia Zuottolo II D Liceo Classico 107 Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” l'italia, oggi LA SOLITUDINE DEI NUMERI ZERO L Abbiamo fatto l’Italia, facciamo gli Italiani a solitudine è un fenomeno sociale che avanza, tipico soprattutto dell’ultimo decennio del XX secolo e in rapido aumento fino ai giorni nostri. Certo, non è un fenomeno solo dei nostri giorni: se leggiamo la poesia che Saba dedica alla Milano degli anni ’60 vediamo che anche allora questo fenomeno esisteva. È inevitabile, in ogni epoca, che qualcuno rimanga solo, ma a preoccupare sono i grandi numeri. Certamente la condizione di solitudine non avviene mai per caso o perché un particolare destino prenda di mira alcune persone. 108 Dagli anni di Cristo all’era di Facebook è cambiato poco, i motivi di fondo sono spesso identici. Prima i lebbrosi ed i poveri venivano isolati, poi si passò alle streghe, agli alchimisti, agli ebrei. Oggi questo ostracismo è praticato nei confronti degli immigrati, regolari o irregolari, ammesso che una persona possa essere classificata o, ancor peggio, ritenuta degna di esistere e vivere in base a un pezzo di carta. E nella categoria dei reietti mettiamoci anche gli anziani, come giustamente fa Teresa Monestiroli in un suo articolo su “Repubblica”, abbandonati da figli che si dimenticano o fanno finta di dimenticarsi dei propri genitori, di chi li ha messi al mondo, solo perché questi diventano diversamente abili. Nella società moderna i freni vanno eliminati, non c’è spazio per coloro che ci rallenterebbero nella corsa verso la ricchezza. In un mondo partecipe o vittima della globalizzazione, un paese moderno si identifica nel suo “PIL”. Di ciò si è parlato nella trasmissione televisiva Report del 12 dicembre scorso. Ma capiamo bene che non è un numero che può identificarci. Ci sono i fattori società, legalità ed ecosostenibilità che sono più importanti, o quantomeno hanno lo stesso valore di quello economico. In un paese, quale l’Italia, in cui circa il 26% delle persone vivono in solitudine (fonte ISTAT) la questione sociale dovrebbe essere al centro del dibattito politico, di quello sano intendo, non di quello da campagna elettorale. Non si può considerare solo il dato economico: oltre al guadagno ed oltre ai flussi di denaro ci sono persone di cui tutti noi, tutta la società deve farsi carico tramite quel sistema di mutua assistenza di cui tutti noi dovremmo poter usufruire. Ormai solo dei grandi pensatori mettono in evidenza questo male della nostra società. Tra questi c’è il filosofo Umberto Galimberti, che in un articolo su la Repubblica del luglio 2007 evidenzia non solo il problema politico, spesso sottaciuto, ma anche quello tecnologico. Effettivamente è paradossale che nell’era dei social network, delle chat e del world wide web aumenti la solitudine. Le tre espressioni inglesi significano rispettivamente “rete sociale”, “chiacchierare” e “grande Percorso/Convegno “A 150 dall’Unità d’Italia” ragnatela mondiale”. A leggere il significato dei tre termini si penserebbe che indichino mezzi capaci di far comunicare e di far relazionare il mondo intero. E in effetti qualsiasi utilizzatore di Facebook o di un altro social network ha centinaia o addirittura migliaia di amici dei quali, tuttavia, al massimo conosce il 60-70%. Ma il problema principale è di andare al di là del contatto virtuale. Le nuove tecnologie hanno indiscutibilmente i loro pregi e vantaggi, ma tra questi di sicuro non c’è quello di garantire un’attiva vita sociale. Ci sono troppi avatar e pochi volti, troppe persone e poche comunità. Alla fine sono sempre i più deboli che soffrono, che ne fanno le spese e che talvolta muoiono nell’indifferenza di un mondo diventato individualista e spietatamente egoista. Si cerca la felicità nel lontano ignorando il vicino, si guarda al futuro ignorando il presente e si guarda a se stessi ignorando gli altri. Antonio Annarumma I C Liceo Classico L’elaborato è il prodotto di un’esercitazione in classe 109 Lyceum Maggio 2011 Orientamento Aspro e spesso ingiusto verso i Professionisti della Scuola è il dibattito agitato in questi mesi sulla formazione e sull’insegnamento pubblico, sui docenti e sui discenti. Una delle prove della vitalità del Pianeta Scuola è data dalla realizzazione dei Progetti PON, che si ispirano a progettualità e qualità, autonomia e interdisciplinarità. Queste Azioni a livello curriculare ed extra-curriculare, egregiamente portate a termine nel Liceo “T. L. Caro”, hanno fatto emergere non solo energie e potenzialità amplissime da parte degli studenti, ma anche profonda professionalità da parte dei Tutor e degli Esperti. In questo numero di Lyceum abbiamo pubblicato una parte delle prove di Scrittura creativa, redatte nell’ambito del PON “Stage di giornalismo”, che, tra l’altro, ha realizzato come prodotto finale un numero speciale del giornale Soci@l medium, pubblicato come Supplemento del Periodico Eventi, diretto da Livio Pastore. Altrettanto interessanti i Progetti POF Lettura, Incontro con l’Autore e Gli studenti a teatro. I Progetti PON del Liceo “T. L. Caro” Una Scuola di eccellenza P rogettualità e qualità. Autonomia e interdisciplinarità. Questi, i quattro punti cardinali di una Scuola pubblica moderna, eppur tesa a tesaurizzare esperienze e valori della migliore tradizione italiana. Un pianeta, quello dell’Istruzione e della Formazione, spesso trascurato e messo da parte, talvolta umiliato e offeso, che però ha dentro di sé energie e potenzialità amplissime. Capaci di operare una rivoluzione copernicana nelle coscienze e nella società. Il Liceo Classico di Sarno “T. L. Caro” (con sezioni annesse di Liceo Scientifico e di Liceo Linguistico) -guidata dal Dirigente Scolastico Prof. Giuseppe Vastola, manager attivo e sorretto da una profonda preparazione dal punto di vista sia didattico che istituzionale- si colloca in questa ottica da vari anni. Offrendo un’azione curriculare di altissimo livello e proponendo prodotti culturali di grande prestigio, come la Rivista “Lyceum” e l’attività teatrale. Ad essi si è aggiunta da tempo un’altra modalità finalizzata a raggiungere un potenziamento dell’offerta formativa: quella dei PON (Programma Operativo Nazionale). Si tratta di Progetti inseriti nel Piano Integrato 2010, volti a migliorare i “livelli di conoscenza e competenza dei giovani” e, più ampiamente, le “competenze per lo Sviluppo” (il cosiddetto Obiettivo C). Finanziati al 50 % dalla Commissione Europea e al 50% dallo Stato Italiano, sono seguiti da 324 allievi (circa un quinto dell’Istituto), essi si concluderanno tutti entro l’inizio del mese di maggio. La certificazione verrà messa agli atti negli scrutini di fine anno scolastico e, per gli 113 alunni del triennio, costituirà credito secondo i criteri stabiliti nel POF della Scuola. Ed inoltre ogni corsista riceverà una certificazione scritta sul percorso realizzato, sulle capacità, sulle abilità e sulle competenze acquisite. Vari sono questi Progetti attivi nel “Tito Lucrezio Caro” (coordinati dalla Prof.ssa Enza Salerno), che si distinguono tecnicamente secondo Azioni. L’Azione n. 1 (Codice: C-1- FSE- 2010 – 2929) prevede Interventi per lo sviluppo delle competenze chiave (comunicazione nella madrelingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza matematica e competenza di base in scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad apprendere, competenze sociali). I Progetti che vi rientrano sono: Parlare e scrivere correttamente 2, Problematizzazione e strategie risolutive, Matematica laboratoriale, Laboratorio di fisica 2, ECDL core 2, ECDL advanced 2, Le Creatività e cultura della ricerca. Queste le linee-guida per dar vita a una Scuola di qualità. Lyceum Maggio 2011 Orientamento scienze: patrimonio per il futuro 2, Improving my English 2, The Key to your Future e Paseando por España. I Progetti rientranti, invece, nell’Azione n. 4 (Codice: C – 4 – FSE – 2010 – 728) riguardano Interventi individualizzati per promuovere l’eccellenza. Essi sono: 6,02 x 10^ 23 risposte: la chimica, Sta114 ge di Giornalismo e Discere ad Certamen 2. Il Progetto riguardante l’Azione n. 3 (Codice: C-3- FSE- 2010 – 625) si configura come una serie di Interventi di educazione ambientale, interculturale, sui diritti umani, sulla legalità e sul lavoro anche attraverso modalità di apprendimento informale. La denominazione del Progetto è: Salvaguardia dell’Ambiente ed Ecolegalità. Esso è attuato insieme ad Enti partner: l’Associazione di volontariato “Legambiente Parco del Vesuvio ONLUS”, la “Cooperativa sociale ONLUS Archeosannio” e la “Cooperativa sociale ON- LUS Ambiente e cultura”. Collocato nell’ambito dell’iniziativa “Le(g)ali al sud: un progetto per la legalità in ogni scuola”, questo Progetto, della durata complessiva di 100 ore, prevede anche 40 ore di attività in situazione presso Enti e Associazioni, impegnate nel campo del recupero, della salvaguardia, della gestione e della tutela dell’ambiente e nella promozione di comportamenti “responsabili”. Altrettanto rivolto al sociale è il Progetto “Stage di giornalismo”, che produrrà, alla fine del Corso, un vero e proprio Giornale studentesco, “Soci@l medium”, il cui primo numero, prodotto l’anno scorso, sarà premiato il 5 maggio a Benevento dall’Ordine nazionale dei Giornalisti. Il prodotto di quest’anno, allegato ad uno dei prossimi numeri di “Eventi”, manifesta la voglia delle nostre “giovani penne” di leggere, in maniera originale, la realtà della società e dei sentimenti, del Pianeta-Scuola e delle tradizioni della nostra terra. Particolare rilievo avrà il “backstage” del Corso di Giornalismo, riservato al “Laboratorio di scrittura creativa”. Un Programma, dunque, nutrito e qualificato, volto a fare emergere le capacità dei giovani, spesso misconosciute e sottovalutate, nel progettare con creatività, cultura e serietà. Tre virtù fondamentali per dare vita, in tempi tristi di barbarie e di corruzione, ad una società più giusta e più attenta alla difesa dei grandi Valori della nostra Civiltà. Viridiana Myriam Salerno pon /stage di giornalismo Soci@l Medium Backstage I corsisti del PON hanno pubblicato un giornale, edito come supplemento del Periodico Eventi P ubblichiamo in queste pagine una parte delle esercitazioni e delle prove di scrittura creativa, che possono essere considerate una sorta di backstage rispetto allo “Stage di giornalismo”, un Progetto Pon che, tra l'altro, ha prodotto anche un giornale: Soci@l medium. Insomma, vi facciamo entrare nel laboratorio segreto (ora -in parte- non più) della nostra Redazione. Qui di seguito abbiamo posto un pezzo sui pensieri del lupo mannaro (l’autrice si è collocata dal punto di vista di questa anomala creatura). Nella pagina seguente vedrete gli esercizi sul I pensieri di un lupo mannaro Quella notte nella mia stanza l’unico rumore era il ticchettio di una pioggia troppo stanca per ritornare, troppo recente per sparire. Avevo iniziato a vedere il mio film preferito come abitudine del lunedì sera. Senza che me n’accorgessi, mi ritrovai serenamente addormentato. A svegliarmi fu il “buonanotte” di mia madre. «Spegni quella dannata tv e prima di andare a letto porta fuori la spazzatura, tocca a te stasera! » urlò. Passando per la cucina, mi avviai verso l’esterno. Uscito fuori, mi accorsi dell’incredibile spettacolo notturno: un raggiante plenilunio illuminava la fitta oscurità del quartiere. Un brivido di paura mi scosse. Sapevo che cosa sarebbe successo. Ebbi una sensazione d’improvviso tormento interiore tra desiderio di uccidere e istinto di sopravvivenza. Ma ecco che sentivo il nervosismo inondarmi mente e corpo e mi vedevo cadere a terra, come in preda ad un attacco epilettico: le mie membra si contorcevano ed ero travagliato da atroci dolori. Uno scatto di rabbia “Come va?”, la cui tipologia è stata inventata da Umberto Eco (si immagina di rivolgere questa domanda a personaggi famosi e si ipotizza una loro ironica risposta ispirata alla loro vita o alle loro idee), e una proposta di riscrittura dell’Inno di Mameli senza la vocale “e”. A seguire sono collocati gli esercizi sui lead di un articolo (su un attentato a Mosca) e su esempi inventati di reportage. Infine, esercizi sull’uso del sottocodice: uno consiste nel riscrivere una notizia (la rivolta in Algeria) usando vari sottocodici, un altro riscrivendola à la manière di Alessandro Manzoni. Buona lettura. sbilanciò il mio debole autocontrollo ed iniziai a tremare. Sentivo la mia temperatura aumentare gradualmente e il mio corpo cambiare. Dal riflesso del vetro della porta vidi rispecchiato un corpo umanoide, peloso, dal petto ampio, dalla testa di lupo e con zampe al posto delle mani. Contro ogni logica, non ero più nella mia forma umana. Stavo tossendo e, tra urla e ululati atroci, sputavo sangue. Scorsi con la coda dell’occhio la finestra della casa di fronte: una candida fanciulla si pettinava i lunghi capelli. Da lontano sono tutti così belli! Da vicino, invece, c’è la possibilità di riscoprirli anche buoni. Individuata la preda, tutto andava molto meglio. Udivo il fruscio debole del tappeto di foglie sotto le zampe, il sussurro delle ali di un gufo, il lamento dell’oceano ad occidente. Tutto questo e nient’altro. Sentivo i miei muscoli in tensione, sentivo tendini e ossa fremere dentro di me. Perso in quel vuoto, non sarei tornato mai più. Un urlo fuoriuscì dalla mia gola e accelerai il ritmo della mia corsa per sfuggire a me stesso. Giuseppina Iazzetta Lyceum Maggio 2011 115 Orientamento Cartesio “Come va?” “Penso, quindi bene.” “COME VA”? Dante “Come va?” “Mi sono smarrito.” Giotto “Come va?” “A colori” Giovanna la Pazza “Come va?” “Cose da matti!” Gianni Morandi “Come va?” “Andavo a cento all’ora.” 116 Conte Ugolino “Come va?” “Ho qualcuno sullo stomaco.” Dracula “Come va?” “Non sono in vena.” Copernico “Come va?” “Mi girano.” Enrico VIII “Come va?” “Non c’è più religione” Cupido “Come va?” “Un amore.” Gesù “Come va?” “È una croce!” Orazio “Come va?” “Un attimo.” Spinoza “Come va?” “In sostanza, bene.” Benedetta Allocca Gabriele Cialdini Yuri Gaito Simona Miranda e Francesco Piscosquito Inno di Mameli riscritto senza la vocale “e” Nativi d’Italia, L’Italia si riscatta; Il bronzo di Scipio Appoggia sul capo. Conquistiamo la gloria! Abbassi il suo capo Voluta da Dio Al giogo di Roma. Riuniamoci in falangi Affrontiamo il fato Affrontiamo il fato L’Italia gridò! Riuniamoci in falangi Affrontiamo il fato Affrontiamo il fato L’Italia gridò: “Sì!” Maria Alvino - Annalisa Carbone Autilia D’Avino - Maria Del Sorbo e Debora Tommaseo “Lead situazionale con particolare” di un articolo su un attentato in Russia La frenesia nei passi lenti. Cammina nell’aeroporto di Mosca: un uomo qualunque. La sua mano furtiva cerca con lucida disperazione il passaporto per l’inferno. Lo trova. Un urlo si dispiega, paura e rabbia nelle sue corde vocali. bloccano i caotici viaggiatori. Un attimo assordante, ne basta uno e poi il silenzio. Un silenzio tombale. Porta questo alla libertà? Mirella Astarita, Rosachiara Caldiero, Eliana D’Antonio, Ilaria Giordano, Marika Manna e Morena Vastola Due braccia smagrite avvolgono un involucro ormai irriconoscibile: un bambino. Un abbraccio: è l’unica immagine che brilla tra cumuli di polvere. Intorno, a parlare sono i bagagli, testimoni di un viaggio dirottato per sempre, quello di milioni di vita. All’alba della tragedia su Mosca piovono lacrime amare. Corpi innocenti hanno pagato un conto inaspettato. È forse l’ennesimo, vano, attacco di rabbia. Ma… Nunzia Annunziata, Armando Campolongo, Melania Dolgetta, Elisa Miranda, Cristina Pastore e Loredana Rega A distanza di due anni nella capitale russa incombe nuovamente il terrore. La storia si ripete. Verso le 18:25 ora locale, gli aerei smettono di decollare. Le urla dei turisti assordano l’aeroporto ormai distrutto. Lo sguardo vuoto e senza vita dei 35 morti si specchia nel letto ghiacciato del Volga. Gli attentatori ceceni con una rapida e violenta azione puntano le armi contro gli innocenti e cospargono di sangue un governo troppo dispotico, quello russo. Benedetta Allocca, Gabriele Cialdini, Yuri Gaito, Simona Miranda e Francesco Piscosquito Reportage su villaggio africano/1 La suola della mia scarpa toccò timidamente l’arida terra africana; si sentiva inadeguata tra le orme nude dei bambini affamati. Pance gonfie e sguardi vuoti adombrati da un sorriso vitale. Le mani tese mi chiedono la felicità di un attimo. Dicevano che sarebbe stata bella, l’Africa, ma il suo male ha contagiato anche me. Fame e solidarietà: vi ho raccontato la mia Africa. Mirella Astarita, Rosachiara Caldiero, Eliana D’Antonio, Ilaria Giordano, Marika Manna e Morena Vastola Reportage su villaggio africano/2 I primi raggi del sole penetrano attraverso le fessure della capanna. Qui siamo gli unici ad assaporare una tazza di caffè caldo che risveglia il ricordo degli incontri di ieri, quando, per la prima volta abbiamo incrociato gli sguardi disperati e affamati degli abitanti del villaggio di Mgogo. La fame in Veyula è il destino comune, ma non per questo meno drammatico. Dalle parole di Sarì, madre del piccolo Rafael, emergono chiare la rassegnazione di una donna arresasi al suo destino e la rabbia impotente di una madre consapevole del futuro di suo figlio. Rafael è un bambino di sei anni, di quelli che si vedono in tv con la pancia gonfia e gli occhi grandi. Sono gli unici protagonisti del suo volto. Quegli occhi noi ancora ce li abbiamo in testa, così come il rumore assordante del suo futuro. Maria Alvino, Annalisa Carbone, Autilia D’Avino, Maria Del Sorbo e Debora Tommaseo Lyceum Maggio 2011 117 Orientamento Reportage sul luogo di un’alluvione/1 Case sporche di fango violento; auto ribaltate dalle lacrime della montagna; persone private di un luogo a cui tornare; persone private dei loro cari da amare. Le urla giungono ovattate al mio angolo di salvezza. Se siamo davvero al sicuro, questo non lo so. Parole confuse si rincorrono in questa stanza angusta nella disperata ricerca della certezza che il proprio figlio sia ancora vivo, in questa Sarno in cui qualcuno ha già vissuto due alluvioni. Il 5 maggio 1998, il 25 novembre del 2032. La vendetta di una natura crudele o l’incuranza spregevole dell’uomo così palesemente egoista? Lina Mara Campaniello, Simona Ciaravolo, Antonella Correale, Antonia Falco, Stefania Marone, Giovanna Tramontano e Anna Saporito Reportage sul luogo di un’alluvione/ 2 118 New Orleans è un’indistinta distesa di fango. Noi giornalisti insieme ai più fortunati trascorriamo le giornate al limite tra l’oggi e il domani in baraccopoli occasionali, cercando di renderci utili il più possibile. Un simile cataclisma rovescia ogni equilibrio. La disperazione si respira nell’aria, si legge negli occhi di chi ormai ha perso molto più di un tetto, si sente nelle grida silenziose dell’impotenza. Ad un occhio esterno questa potrebbe sembrare una Apocalisse in anticipo. Case senza porte né finestre. Alberi spezzati e vite sradicate. Ma questa non è l’Apocalisse. Solo la più o meno diretta conseguenza del cinico progetto dell’uomo, a cui la natura non ha esitato a rispondere con altrettanta spietatezza. Che cosa ne sarà di quel fango, neppure chi ancora se lo scrolla di dorso può saperlo. Maria Alvino, Annalisa Rosa Carbone e Maria Del Sorbo Riscrittura delle notizie sulla rivolta di Tunisia, usando un sottocodice specifico Notizia: Pietre contro la polizia per “l’intifada” del pane. Ben Ali ordina la chiusura dei licei e delle università Riscrizione con il sottocodice medico La febbre del pane ha colpito anche la Tunisia. Dopo mesi di incubazione il virus è inesorabilmente esploso costringendo i giovani nord-africani ad una terapia d’urto senza precedenti. Per sedare la carestia pietre affamate sono state lanciate contro le camionette della polizia. Ben Ali ha perciò ordinato la chiusura di licei e università sperando di scongiurare la pandemia. Maria Alvino, Annalisa Carbone, Annalisa D’Avino, Maria Del Sorbo e Debora Tommaseo Riscrizione con il sottocodice musicale/1 Solfeggiano proteste a ritmo di note stonate, giovani solisti uniti in un coro. Spezzano le righe del pentagramma lanciando pietre a chi non capisce che il pane è la loro chiave di violino. Mirella Astarita, Rosachiara Caldiero, Eliana D’Antonio, Marika Manna e Morena Vastola Riscrizione con il sottocodice musicale/2 Rullo di tamburi: un coro di giovani scende in piazza, la loro. Note di violenza compongono una melodia agghiacciante. Il ritmo incalzante della fame si fa sentire. Pietre, strumenti stonati per le orecchie nemiche. Al cielo una sinfonia triste, si cala il sipario. Elisa Miranda, Cristina Pastore, Ilaria Giordano, Loredana Rega, Melania Dolgetta, Armando Campolongo. Riscrizione con il sottocodice storico “Il popolo non ha pane... Che mangi le brioches”: disse a suo tempo la regina Maria Antonietta d’Austria. Ben Ali, invece, reagisce chiudendo università e licei, tentando di soffocare l’insurrezione. Deborah Del Core e Giuseppina Iazzetta Riscrizione à la manière de Alessandro Manzoni Oltre lo mar nostro, culla di storie e civiltà, la gente molto diradata grida per la fame e per le ormai rie condizioni giornaliere, per lo più nel giovin popolo. I giovin di cultura poscia son accorsi al centro, adirati e pronti alla tenzone; con prodezza e rabbia a contrastare l’ormai esanime sistema, indi a dar sollievo alla vita resa ben cruda dai pesanti prezzi sul pane. Tutti gridan alla guerriglia, pria con sassi e dopo con le nude braccia, senza paura di perir, affinché lo pane fia per tutti. Gabriele Massimo Cialdini 119 Il Tutor dello Stage di giornalismo è la Prof.ssa Giuseppina Di Filippo, l'Esperto è il Prof. Franco Salerno. Soci@l medium è stato pubblicato a livello cartaceo dal Periodico Eventi ed è consultabile sul sito del Liceo (www.licei.org). Il numero di Soci@l medium dell'anno scorso ha ricevuto un Premio dall'Ordine Nazionale dei Giornalisti; la cerimonia di premiazione si è svolta a Benevento il 4 maggio. Il numero di Soci@l medium è stato presentato, nell’Aula Magna del Liceo, il giorno 12 aprile, alla presenza del Dirigente Scolastico Prof. Giuseppe Vastola, alla Stampa, alle Famiglie, alla Comunità scolastica. I Redattori del giornale, invitati dal Direttore di “Eventi” Livio Pastore, a dar vita, all’interno di questo Periodico, ad una pagina completamente auto-gestita sul tema “Pianeta Giovani”, hanno presentato al folto pubblico una versione “televisiva” degli articoli pubblicati: da essi hanno tratto dei testi light che hanno letto, a mo’ di servizi, in un TG virtuale, dotato di sigla, speakers e intervistati. Una Giuria di giovani presenti (della sezione D del Liceo Classico e del Liceo Scientifico) hanno premiato Marika Manna e Morena Vastola della II B Liceo Classico (Primo posto); Rosachiara Caldiero e Mirella Astarita della II A Liceo Classico e Simona Ciaravolo e Stefania Marone della I B Liceo Classico (Secondo posto ex aequo) e Benedetta Francesca Allocca e Yuri Gaito del Liceo Scientifico e Roberta Esposito e Alessia Minichini della I C Liceo Classico (Terzo posto ex aequo). Una Giuria tecnica di Giornalisti ha premiato Marika Manna e Morena Vastola della II B Liceo Classico e Antonia Falco della I B Liceo Classico (Primo posto ex aequo); Loredana Rega e Elisa Miranda della II B Liceo Classico e Rosachiara Caldiero e Mirella Astarita della II A Liceo Classico e Benedetta Francesca Allocca e Yuri Gaito del Liceo Scientifico (Secondo posto ex aequo) e Giovanna Tramontano e Mara Pasqualina Campaniello (Terzo posto). Lyceum Maggio 2011 Orientamento Progetto “officina d’autore” All’attenzione dei giovani studenti di Sarno Il “T. L. Caro” incontra 120 N Sales “I preti e i mafiosi” ote struggenti, quelle del violino di Giusy Adiletta, che ha presentato la “Meditazione” tratta dall’opera Thais di Itzhak Perlman; immagini sconvolgenti di vittime della mafia, quelle che scorrono sul muro dell’Aula Magna del Liceo “Tito Lucrezio Caro” di Sarno, in un’atmosfera coinvolgente ed emozionante. È così che inizia, nell’ambito del progetto “Officina d’Autore”, l’incontro organizzato dal Liceo sarnese con Isaia Sales, docente di Storia della criminalità organizzata nel Mezzogiorno d’Italia all’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli e autore del saggio intitolato I preti e i mafiosi. Al progetto, giunto al quinto anno di rea l i z z a z i o n e, hanno aderito le classi dell’indirizzo Brocca IV MS, III MLA e le classi II A, II B, II C del liceo classico ad indirizzo tradizionale. Dopo i saluti del preside, prof. Giuseppe Vastola, del rappresentante della casa editrice Einaudi, dott. Claudio Bartiromo, e della prof.ssa Giovanna Vaccaro, responsabile della funzione strumentale, la parola è passata al moderatore dell’incontro, prof. ssa Elsa Franco, che ha offerto brevemente alcuni spunti di discussione e ha sottolineato il valore di un testo che “non banalizza l’argomento dando risposte semplici a problemi complessi”. Ma, in maniera molto più dettagliata, le tante possibili spiegazioni al paradosso del rapporto tra Mafie e Chiesa vengono indicate e spiegate proprio dall’autore, che afferma: “Se la mafia è una mentalità, non si può escludere, dai nostri studi sull’argomento, la Chiesa, che ha forgiato la nostra mentalità”. Egli confessa, inoltre, di avere avuto “un’ insoddisfazione per tutte le spiegazioni del fenomeno mafioso”: proprio da questa mancanza, unita ad esperienze di carattere personale, nasce I preti e i mafiosi. Nella lunga e appassionata relazione Sales sottolinea come la Chiesa sia stata una delle prime Istituzioni ad aver portato la cultura anche tra le popolazioni rurali dell’Italia meridionale, influenzandone di conseguenza il modo di vivere. Nel silenzio della Chiesa rispetto alle mafie vi è pertanto la causa fondamentale della decisiva e duratura affermazione di queste nel sud Italia. Durante l’incontro Sales espone ai ragazzi, in modo semplice e lucido, il fenomeno dell’omertà da parte della Chiesa e addirittura la responsabilità di questa importante istituzione morale e religiosa nel convincere a volte mafiosi a non collaborare con la giustizia. Ma il discorso si allarga anche ad aspetti teologici, come quello del perdono. La pratica cattolica del perdono relativamente facile, spesso rimproverata ai cattolici dai protestanti, ha fatto ritenere a feroci assassini che basti una semplice pratica religiosa per stare in pace con Dio. Il contenuto del saggio descrive, quindi, una realtà che ci tocca direttamente: criminali e assassini che commettono delitti col crocifisso in tasca e si recano in chiesa a pregare che Dio finga di guardare altrove; preti indegni che, per paura o per interesse, tacciono anch’essi. Le domande si fanno incalzanti. Ad una Sales risponde: “Il problema della mafia non sono i mafiosi; essa è forte se ha relazioni con coloro che dovrebbero contrastarla”. E, quando ancora gli viene chiesto se i preti siano stati più complici o più ignavi in modo spiazzante afferma: “È più silenzio che complicità. Ma quanta complicità sta nel silenzio?”. Con l’esecuzione del “Primo movimento dal Concerto per due violini in la minore” di Vivaldi da parte di Giusy Adiletta si chiude, così come era iniziato, l’incontro. Le note, però, stavolta accompagnano i pensieri di tanti che hanno maturato una maggiore consapevolezza e forse hanno compreso che, per combattere le Mafie, non bastano gli interventi di polizia, ma è necessario cambiare mentalità. Oriana Mancusi II C Liceo classico Lyceum Maggio 2011 121 Orientamento progetto lettura Il “T. L. Caro” incontra Diego De Silva “Mia suocera beve” 122 “S piritus durissima conquit“. È con questo slogan che, una delle più autorevoli case editrici italiane, Giulio Einaudi, approda al Liceo “T. L. Caro” di Sarno. Suggestiva e stimolante è l’esperienza dello scorso 31 marzo. Alunni e docenti si ritrovano seduti l’uno accanto all’altro. Stavolta infatti non è una cattedra a separarli. Delle pagine, un inchiostro su della carta, una copertina rosso sgargiante si mimetizza col loro volto. Portano inciso, tra i lineamenti, il titolo di quel libro: Mia suocera beve. Il Dirigente Scolastico del Liceo “T. L. Caro”, prof. Giuseppe Vastola, con l’esaustivo aiuto della prof.ssa Giovanna Vaccaro, funzione strumentale attività extracurriculari, fa sì che i propri alunni aderiscano al progetto lettura sostenendo che Quando c’è qualco- sa da dire, i giovani ascoltano. Perché non renderli partecipi a una tale opportunità?! È con queste parole che il Dirigente anticipa l’entusiasmante incontro. Impregnata tra quelle mura vi è un’aria appagante. Di assoluto interesse. Come un libro possa suscitare tanto accanimento, è ancora da valutare. Rilevante, senza alcun dubbio, è la spensieratezza unitamente all’altrettanto coinvolgimento dell’autore. Diego De Silva incarna alla perfezione la semplicità, la scorrevolezza con cui Malinconico fa leggere di sé. Un avvocato, un filosofo involontario che fa della sua vita una dottrina. Trae da essa le peripezie più assurde, modellandole al suo ego ugualmente bizzarro. Un personaggio fuori dagli schemi. Un padre, un genero su cui s’abbattono le ingiustizie della vita. Ma la simpatia, la verità che traspare da ogni singolo capitolo sono la chiave di lettura della sua spiccata personalità. Il dibattito si apre. L’intensità dei sorrisi evolve. La curiosità prende voce, si fa sentire e trova risposta nella chiarezza del romanziere. Un uomo, anzitutto. Che trova riparo, nello scrivere, a quello che della vita ancora ci rimane. L’unicità delle sue dichiarazioni emoziona. Il suo dar libero sfogo ai pensieri, sorprende. Allo stesso modo, l’innata capacità di condurre il lettore oltre la peculiarità della concretezza. Ad interessare il giovane pubblico non è solamente il cordone ombelicale che fonde l’indole dell’autore col personaggio. Le problematiche giuridiche, istituzionali, sentimentali interrompono, difatti, i prolungati applausi. La prerogativa della realtà anima lo stesso autore. Lo spinge, ancora una volta, ad insinuarsi nei nostri panni. Come un padre. O forse di più. “I sentimenti non sono attendibili sulle parole. Più sono dichiarati, più sono fallaci, ragazzi. Ricordate questo: una persona innamorata ha timore dei propri sentimenti. Ma noi, abituati ai reality show, abbiamo perduto la sobrietà.” Francesca Quarto IIIB Liceo Scientifico 123 i m e r IP Brillantissimo successo dello studente Emilio Sepe della III MS (allievo della Prof.ssa Maria Teresa Sessa), che ha superato le Gare Regionali delle Olimpiadi della Matematica 2011, per cui è stato ufficialmente invitato a partecipare alle Gare nazionali che si svolgeranno dal 5 all’8 maggio a Cesenatico. Alle Olimpiadi di Scienze naturali 2011 (fase regionale) il Liceo “T. L. Caro” ha fatto registrare un risultato molto positivo, in quanto 5 suoi studenti figurano nei primi venti posti per la categoria Biennio e altri 5 nei primi venti posti per la categoria Triennio. Il “T. L. Caro”, pertanto, è il Liceo che ha il numero più consistente di allievi in questa importante graduatoria. La II B del Liceo Scientifico (coordinatrice: Prof.ssa Grazia Celentano) è stata insignita del Premio Jonathan 2011 (Primo posto) con un filmato sul fiume Sarno. Lyceum Maggio 2011 Orientamento Teatro/U na piacevolissima sorpresa I Menecmi: passato o presente? Un viaggio nell’epoca romana per capire esperienze moderne N ocera Inferiore, Teatro Diana. È una bella mattina invernale. Trecento studenti attendono con ansia l’apertura del sipario. Delle ombre inquietanti dal palco cominciano un lamento cantilenante: “Che tragedia! Che tragedia!” e noi, già con gli occhi che si chiudono, ci prepariamo ad assistere a quella che quasi tutti 124 pensano sia l’ennesima rappresentazione teatrale da sbadiglio: i Menecmi di Plauto. Molti hanno lo sguardo altrove. Altri sgranocchiano patatine disinteressati. D’un tratto compare una figura vagante: è il regista e primo attore Domenico Corrado. Alle sue prime battute scoppiano ovunque fragorose risate e un simpatico umorismo tra cadenze campane e siciliane anima la sala e ci diverte tutti. La noiosa opera teatrale si trasforma in un esilarante spettacolo. Scene comiche raccontano le vicende di due gemelli separati in tenera età. Uno è sempre vissuto a Siracusa, l’altro è cresciuto a Pompei: quando il gemello di Siracusa giunge a Pompei alla ricerca del fratello, viene scambiato per lui e comincia una lunga serie di spassosi equivoci. La storia ci appassiona. Il Pompeiano ci colpisce perché ci ricorda tanto uno “scugnizzo napoletano”: scapestrato, imbroglione, circondato da donne. Stridula, la voce della megera Fiorellino pizzica i nostri timpani e solletica la nostra allegria. Davvero ci stiamo divertendo? E chi se l’aspettava! Siamo partiti con il pregiudizio che il teatro sia noioso a priori. Oggi ci dobbiamo ricredere. Ma questa commedia non ci piace solo per il suo tono frizzantino. Anche perché riconosciamo in essa dei temi attuali. Ad esempio, la crisi d’identità. I due gemelli sono divorati dalla confusione. Dal caos. Da un senso di vuoto. Hanno smarrito la propria individualità. Riflettendo, ci rendiamo conto che anche noi giovani siamo spesso portati a perdere il nostro Io. Questo perché viviamo in una società che ci impone con prepotenza dei modelli legati alla materialità della vita. All’aspetto superficiale di ogni cosa. Le reazioni sono diverse. C’è chi si adatta. Chi no. E chi non si adatta si sente spesso escluso. È per questo che il gemello di Siracusa decide di assecondare le aspettative delle persone che incontra a Pompei. Si adegua alla vita dissociata del fratello che rispecchia la società di quel tempo. Pressoché tutti erano soliti avere una moglie e una concubina, truffare e utilizzare il proprio servo come complice dei numerosi misfatti. È proprio vero che il teatro appartiene al passato? Antonella Correale Anna Saporito I B Liceo Classico Itinerari In questa sezione Lyceum ospita i contributi degli studenti relativi ai Progetti teatrali delle due Compagnie operanti nel Liceo: L’Allegra Brigata (composta da allievi del Liceo Scientifico) e La Nave dei Folli (che annovera nelle sue fila studenti dei tre Plessi del Liceo). La prima ha prodotto uno spettacolo ispirato al Negromante dell’Ariosto e la seconda, con Facemmo un sogno, ha sviluppato un percorso storico-teatrale-musicale sul tema dei 150 anni dall’Unità d’Italia. Altri due pezzi riguardano il Progetto di Arte visiva e una proposta di “itinerari di scrittura” relativa alla tipologia B (articolo di giornale) della Prima Prova scritta prevista per l’Esame di Stato. La bellezza della disarmonia S empre più spesso la disarmonia viene intesa non come un concetto astratto, presente solo in un quadro del Novecento o in un’opera d’arte moderna, ma come qualcosa di reale che si può trovare nella vita di tutti i giorni. Ci sembra impossibile poter pensare di indossare una maglia e dei pantaloni dello stesso colore delle scarpe, rischiando quasi di diventare semplicemente una macchia gialla o verde nello spazio. Ci risulta più logico, invece, indossare maglia e pantaloni di colori diversi facendo comunque attenzione che non “stonino” fra loro. Questo perché, sicuramente, anche nella disarmonia c’è un ordine tale da dare un senso al caos generale. Un po’ come quando sulle nostre scrivanie si accumulano pile di libri, quaderni e fogli e non ci va di metterli in ordine perché a noi sta bene così, perché in questo modo trovare le cose ci risulta quasi più semplice. E se qualcuno ci rimprovera arriviamo anche ad appellarci ad Einstein: “Se una scrivania disordinata è sintomo di una mente disordinata, di cosa può essere segno, allora, una scrivania vuota?”. È proprio il disordine nell’arte, la disarmonia, il tema principale del progetto che, nel corso dell’anno 2010/11, il professore E. Terlizzi, con la collaborazione della professoressa A. Buonaiuto, ha tenuto presso il liceo classico “T. L. Caro” di Sarno. Vi hanno partecipato alcuni alunni dello stesso liceo che hanno elaborato vari lavori per avvicinarsi alla concezione artistica di disarmonia. Si è cercato di rappresentare l’essenza della realtà tramite segni disordinati, linee oblique e frammenti di immagini che scomponevano e quasi svisceravano l’aspetto esteriore della realtà stessa, come la vediamo tutti i giorni, per arrivare a mostrare ciò che può nascondere. Dietro ad un apparente e semplice caos sono state costruite armonie complesse a partire da elementi basilari come punti, colori e lettere. Questi elementi possono essere ritrovati in tutti i lavori realizzati durante il progetto, dedicati in particolare ai 150 anni di Unità che l’Italia, il 17 marzo 2011, ha festeggiato. Infatti, sempre rimanendo fedeli al tema della disarmonia, i lavori sono stati realizzati partendo da immagini di grandi uomini della storia italiana quali Cavour, Mazzini, Garibaldi e Dante e di 127 luoghi simbolo delle Tre Capitali. Sono stati utilizzati materiali diversi come carta da imballaggio, ritagli di giornale, stoffe e nastri tricolore. Le opere più originali, che meglio rappresentano il concetto di disarmonia, sono state esposte in occasione del convegno di Studi sull’Unità d’Italia tenutosi il 7 aprile presso il Centro Sociale di Sarno e verranno poi riproposte in una mostra nei corridoi del Liceo alla fine del progetto. Valeria Scognamiglio Martina Ranieri III MS Lyceum Maggio 2011 Itinerari teatro/allegra brigata N Il Negromante ovità. Passione. Coinvolgimento. Sperimentazione. Questi sono gli elementi che quest’anno hanno caratterizzato il laboratorio teatrale de L’Allegra Brigata. Con il passaggio di testimone tra la prof.ssa Antonella Esposito e le prof.sse Giovanna Vaccaro e Grazia Celentano e con l’esperto esterno Antonio Avigliano i giovani attori, noi, sono stati fin dall’inizio i veri protagonisti del palcoscenico e della magia che esso rappresenta. Non è stato facile all’inizio per la compagnia intraprendere un nuovo laboratorio senza la presenza della prof. Esposito che, con la sua caparbietà e la sua esperienza, per dodici anni ha guidato moltissimi ragazzi come noi. È stata, ed è tutt’ora, il cuore della Brigata, ma le referenti del progetto e il nostro regista hanno saputo sapien128 temente colmare questo vuoto col duro lavoro e con impegno costante. Così l’Allegra Brigata è riuscita a continuare la sua tradizione teatrale, anzi ancora più motivata di prima e carica di energia e passione nonostante si siano presentati numerosi ostacoli. Fondamentale per noi è stata la presenza L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità. (Ugo Foscolo) di alcuni ragazzi che hanno fatto parte della compagnia negli anni scorsi e che presi dallo spirito travolgente e coinvolgente della Brigata hanno voluto continuare a vivere questa esperienza unica sebbene non frequentino più il liceo. Essendo ragazzi come noi hanno compreso perfettamente le nostre ansie e i nostri timori e dunque hanno saputo aiutarci in una maniera del tutto unica ed efficace. Non meno importanti sono state le prof.sse Giovanna Vaccaro e Grazia Celentano che insieme ad Antonio Avigliano sono riuscite con tenacia a tirar fuori ciò che ognuno di noi aveva dentro valorizzando al meglio le nostre potenzialità. Suggestivo e valido è stato il training autogeno, che attraverso sensazioni acustiche e visioni immaginarie ha portato ad affrontare e a riportare le ansie e le tensioni di ciascuno: esperimento ben riuscito che ha facilitato l’unione del gruppo ma che ci ha fatto scoprire anche nuove tecniche di concentrazione e di comunicazione. Così con entusiasmo e pazienza ci siamo cimentati nella messa in scena del “Negromante” di Ariosto, uno dei grandi capolavori dell’autore ferrarese. La realizzazione e la ricerca degli oggetti per le scene ci hanno portati alla scoperta di tradizioni interessanti e affascinanti che altrimenti sarebbero rimaste a noi sconosciute. Per questo è importante servirsi di autori della tradizione letteraria, perché solo in questo modo si crea una sinergia e sintonia tra saperi curriculari ed extracurriculari. Sì perché la Brigata non è solo teatro, ma è formazione culturale, è vivere momenti indimenticabili in sintonia. È condivisione di emozioni è un modo per superare le proprie difficoltà. E nel mio caso il laboratorio di specializzazione teatrale dell’Allegra Brigata è stato molto utile, è riuscito a farmi superare la paura di stare in un gruppo e di relazionarmi con gli altri. Mi ha aiutato ad aprirmi, a superare la mia timidezza e come me tanti altri sono riusciti a migliorare la propria persona e ad accrescere il proprio bagaglio sia umano che culturale. Per questo la Brigata ogni anno accoglie un numero di ragazzi sempre superiore, perché non si limita a portare avanti un mero laboratorio teatrale, ma costituisce una vera e propria esperienza di vita. Alla base del lavoro, dunque, c’è anche l’analisi storico-temporale dell’epoca e l’indagine psicologica dei singoli personaggi. Una connotazione comica, particolare e dinamica è stata la rotta scelta dalla compagnia che ha voluto lavorare su una comicità che, sulle basi di quella ferrarese, risultasse più attuale e con un’ambientazione diversa. Colpi di scena, beffe, inganni e magia. Questo c’è da aspettarsi da uno spettacolo che ha appassionato tutti. Ma il lavoro continua e con l’appoggio che costantemente abbiamo dai nostri docenti vi aspettiamo con gioia la sera dello spettacolo. Yuri Gaito 4G Liceo “T.L.Caro” indirizzo SCIENTIFICO 129 Lyceum Maggio 2011 Itinerari teatro/nave dei folli Lo spettacolo sui 150 anni dall’Unità d’Italia Facemmo un sogno 130 Dare spazio ai pezzi piccoli della storia che non sono citati nei manuali, che hanno combattuto dietro le quinte delle grandi battaglie, che hanno dato inizio al Risorgimento, che hanno fatto l’Italia. L ottare! Per la patria, per la famiglia, per gli ideali, fino alla morte. Credere! Nei compagni, nei sentimenti, nella forza dei popoli, per conseguire un risultato. Urlare! Contro la dominazione straniera, contro i soprusi dei potenti, contro la soppressione della Giustizia e della Libertà, fino a perdere la voce. Questi i Valori che ispirano il nuovo lavoro de La Nave dei Folli. Che quest’anno mette in scena uno Spettacolo ispirato ai 150 anni dall’Unità d’Italia. Titolo: Facemmo un sogno (testo di Franco Salerno; regia di Angelo Pastore e Franco Salerno; arrangiamento e direzione musicale di Ciro Ruggiero; aiuto regia: Francesco Mancuso e Viridiana Myriam Salerno; danze a cura di Luisiana Levi; servizio fotografico a cura di Luigi Moscariello). Qual è lo scopo di noi ragazzi della Nave dei folli? Dare spazio ai pezzi piccoli della storia che non sono citati dai manuali, che hanno combattuto dietro le quinte delle grandi battaglie, che hanno dato inizio al Risorgimento, che hanno fat- to l’Italia. Sì, sono loro, gli Italiani che noi impersoniamo sul palco, che ci hanno affidato la loro memoria, che ci chiedono tra le righe delle loro storie personali di non essere dimenticati. E così dietro le pesanti coltri del sipario ci prepariamo a diventare Vittorio, Maria, Francesco, Luisa... Ogni volta che saliamo sulla scena gli occhi corrono sulle prime file per scorgere volti familiari. Il cuore accelera i battiti. I suoni degli strumenti che vengono accordati dai musicisti ci giungono alle orecchie; la mente ritorna alle ore passate insieme e un sorriso sorge spontaneo sulle nostre labbra. Quante difficoltà, quante paure abbiamo dovuto affrontare! Eppure quante risate, quanti indimenticabili momenti abbiamo vissuto! E nulla ci ha mai fermato. Abbiamo provato all’aperto, in classe, durante le vacanze da scuola e in ogni momento libero. Abbiamo riso dei nostri errori e gioito dei nostri successi. Ora siamo un gruppo, una compagnia, una grande famiglia, perché no? “Qual è il motto di quest’anno?” esclama qualcuno. Forse Tirem innanzi (“Tiriamo avanti”), nel senso di andare avanti e resistere per garantire un’identità nazionale. La storia entra in scena, e lo fa proprio attraverso una mente giovane, qualcuno che ama la verità. Una discussione accesa; fogli che vanno in pezzi; insulti e minacce; poi una scena familiare: è la vittoria del meta-teatro. Storie di leggi e innocenti puniti per aver desiderato la libertà, per essere stati sinceri in una corte di intriganti, di ipocriti, di pervertiti scorrono davanti ai nostri occhi e catturano la nostra attenzione. Ma facciamo silenzio, il carcere di Procida ha appena aperto le porte per noi. Non dovremmo essere qui, non dovremmo assistere ad una conversazione proibita. Quante persone hanno sofferto, hanno dato la vita per consegnarci quest’Italia che qualcuno disprezza o considera scontata. Come abbiamo fatto a non accorgercene per così tanto tempo? Tante persone umili ne sono state allontanate, a discapito del loro onore, della loro dignità: contadini, madri che sussurrano ninnananne ai figli appena nati, minatori (sono come gli elefanti, i minatori, non dimenticano niente) che non di- menticano l’umiliazione di essere estranei nella loro patria, e dovunque vadano. Alla fine di ogni spettacolo dall’alto i volti di attori e musicisti vengono illuminati: la magia è compiuta e noi lasciamo i panni dei patrioti e torniamo alla realtà per accogliere quel tumulto di applausi rivolti solo a noi. Il nostro compito è svolto, la nostra missione compiuta. Abbiamo portato in scena il Risorgimento, abbiamo salutato l’Italia unita, come se davvero avessimo contribuito a formarla. E così, oltre a rappresentare il sogno dei patrioti dell’Ottocento, vogliamo coltivare un altro sogno: che questa nostra “giovane” Italia possa resistere e ispirare dozzine e dozzine di rappresentazioni teatrali e romanzi e poesie e canzoni anche grazie ai nostri sforzi. Quegli stessi sforzi che ci apriranno le porte del futuro: futuro per il quale sapremo combattere; futuro che vedrà le nostre aspirazioni finalmente realizzati; futuro durante il quale porteremo nel nostro cuore tutti i meravigliosi ricordi del nostro viaggio alla scoperta dell’Italia unita. 131 Giovanna Tramontano I B Liceo Classico Lyceum Maggio 2011 Itinerari Itinerari di scrittura PRIMA PROVA SCRITTA: TIPOLOGIA B (ARTICOLO DI GIORNALE) Morire lavorando, lavorando per morire Sale a galla il mistero delle morti bianche, un alibi che tutti conosciamo, ma pur sempre un alibi. Bianche perché non c’è un perché. 132 È tutto a posto: sistemandosi lentamente il bavero della camicia, fissa spavaldo il cerchio di anime intorno a lui. Agghiacciante. Cammina accanto agli “sbirri” -è così che qui si chiamano- tranquillo. Un raggio di sole fa luce sulla sua, ormai sporca, persona. Dopotutto il sole è l’unica cosa che ci resta. Crolla lentamente il grattacielo di Mario De Meis, illustre proprietario dell’omonima impresa edile. A incastrarlo? Una trave difettosa, o, meglio, un’intera impalcatura che ha preso coscienza di sé, dei propri diritti. Un altro duro colpo per la bella Napoli, melodia dei sensi. 18 gennaio 2011: questa, una data da ricordare. Sale a galla il mistero delle morti bianche, un alibi che tutti conosciamo, ma pur sempre un alibi. Bianche perché non c’è un perché. In realtà, si finge che non ci sia, basta scrollarsi di dosso quei brandelli di vite e indossare un nuovo abito da sera, tutto ipocrisia. 6 Gennaio: Hassan, giovane muratore diciottenne, è sepolto da una raffica di mattoni. Pochi lo conoscevano, era di passaggio, come quasi tutti gli operai del cantiere. Al regista piace cambiare attori: molte comparse, nessun colpo di scena. Eppure, questa volta c’è stato un imprevisto. Il corpo del giovane giaceva inerme sull’asfalto. Per gli occhi dei passanti? Una vittima della strada, investita dall’ebbrezza di una ruota ubriaca. Fortuna che non è sparito, almeno qualcuno potrà piangere sul suo cenere muto. “A me mi dicevano di prenderli, poi li gettavamo in una fossa comune. Nessuno chiedeva niente e nemmeno io. Quando hai fame, non te ne importa se i soldi sono sporchi”: è cosi che esordisce un cinquantenne napoletano. Non si sa che cosa lo abbia spinto a parlare. “Eravamo cinque, chiedevamo lavoro. Ci dissero di lavorare ogni tanto, per trenta euro al giorno. I miei compagni sono spariti. Non fare domande: questo mi dicevano. E si lavorava un giorno in più”: con queste parole un altro testimone si fa avanti. E il Mezzogiorno batte il record con le morti sul lavoro. Italiani? Forse qualcuno. Immigrati? Almeno uno su sei. Si piange e nella calce si mescolano cemento e ossa. Non sorprendetevi: è una realtà nazionale, internazionale. Milletre- centosettantasei morti ogni anno, un paradosso. Non si lavora forse per vivere? Il tricolore mostra il vergognoso trofeo. È al primo posto sui grafici dell’ Eurispes. Seguono Germania e Francia, ottocentoquattro e settecentoquarantatre. Nu- meri che denunciano il mal funzionamento del sistema. Un minuto di silenzio. Chiediamoci se è giusto morire così. Elisa Miranda II B Liceo Classico Questo testo è la fedele riproduzione di un compito in classe, eseguito -in riferimento ai documenti riportati qui di seguito- secondo le modalità della Prima Prova scritta dell’Esame di Stato (tipologia B: articolo di giornale). DOC 1: In Italia. Nel 2010, nei soli cantieri edili, hanno perso la vita in 235. Uno su due muore al Nord, almeno uno su sei è un immigrato. Secondo Rovelli, non è raro che il corpo di qualche poveretto venga rimosso in tutta fretta per simulare un incidente stradale. O più semplicemente venga fatto sparire. DOC 2: In Italia 1376: la media annuale di morti sul lavoro calcolata dall’ Eurispes sui dati Inail relativi al periodo tra gennaio 2000 e ottobre 2010. DOC 3: Quattro: la media degli infortuni mortali al giorno. DOC 4: Siamo comunque primi nella classifica più terribile con 944 vittime contro le 804 della Germania e le 743 della Francia. Di più, tolta la Spagna, messa perfino peggio di noi, siamo in testa alla tabella degli incidenti mortali in rapporto al Pil: 68 ogni dieci miliardi di euro noi, 45 la Francia, 36 la Germania. Lyceum Maggio 2011 133