Marco Vannini
DIALETTICA DELLA FEDE
Nuova edizione ampliata
Le Lettere
II
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
Prima di affrontare il concetto hegeliano della fede è interessante vedere come esso si presenta, proprio a metà del cammino
della storia della mistica1 tra Eckhart ed Hegel, nella grande figura di Giovanni della Croce (1542-1591). Ai suoi tempi dovette subire la incomprensione e la persecuzione dei “confratelli”,
che lo tennero perfino in un orrido carcere e continuarono a
tormentarlo fino alla morte, ma poi la Chiesa cattolica lo ha annoverato tra i suoi santi e lo ha dichiarato Dottore, mistico per
eccellenza. Come tale, egli ha goduto e gode di grandissima stima tra teologi e filosofi – Jacques Maritain, Edith Stein, Simone
Weil, Karol Wojtyla, ecc. lo hanno considerato maestro – ma bisogna subito notare come anche nello stesso ambito ecclesiale vi
siano state voci autorevoli, come quelle di Karl Rahner o Anselm
Stolz, che ne hanno messo in dubbio addirittura la cristianità,
considerandolo piuttosto un mistico vicino alla spiritualità delle Upanishad – opinione, questa, che è stata peraltro sostenuta
anche da studiosi indiani2. A parer nostro si sbagliano, perché
la cristianità di san Giovanni della Croce è chiara come la luce
meridiana, però è un errore significativo, non certo un’assurdità, in quanto il mistico castigliano è cristiano come lo sono stati
Eckhart prima di lui ed Hegel dopo di lui, ossia in un modo uniRimando in proposito alla mia Storia della mistica occidentale. Dall’Iliade a
Simone Weil, Mondadori, Milano 20092.
2
Cfr. Swami Siddhesvarananda, Pensiero indiano e mistica carmelitana, Āram
Vidyā, Roma 1977.
1
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MARCO VANNINI
versale, davvero cattolico nel senso etimologico della parola, e
perciò non inseribile nelle categorie consuete dell’appartenenza
ecclesiale, ma in quelle più ampie della mistica, di ogni tempo
e di ogni luogo. È quanto sostiene anche lo studioso di Giovanni della Croce più attento, libero da preoccupazioni dottrinali,
Jean Baruzi3, e non a caso, perciò, si è di recente riconosciuta e
sottolineata la vicinanza, e anche in certo modo dipendenza, del
mistico spagnolo da Plotino4.
Il legame tra Giovanni della Croce e Meister Eckhart non è
solo concettualmente evidente, ma anche storicamente dimostrabile5. Il mistico spagnolo, infatti, conosceva bene le opere di Taulero, più volte ristampate, prima in tedesco, poi anche in latino, tra
la fine del ’400 e i primi del ’500, tradotte in castigliano nel 1551,
e tra i sermoni del domenicano strasburghese ve ne erano molti in
realtà eckhartiani, tra cui alcuni dei più importanti ed “arditi” del
Meister6. Proprio al sovrano di Spagna Filippo II, allora re anche
Cfr. Jean Baruzi, Saint Jean de la Croix et le problème de l’expérience mystique, Alcan, Paris 1924.
4
Lo ha fatto André Bord, nel suo Plotin et Jean de la Croix, Beauchesne, Paris
1996. Lo studio di Bord è stato da me ampiamente utilizzato nel mio La religione
della ragione, Bruno Mondadori, Milano 2007, capitolo 4, «La mistica», che verte
appunto su san Giovanni della Croce, e cui mi permetto qui di rimandare. La traduzione ficiniana delle Enneadi era ben nota nella Spagna del sedicesimo secolo,
nelle varie edizioni che si succedettero, a partire dal 1492, e se ne trovano numerosi
esemplari nelle biblioteche che Giovanni ha frequentato da studente: cfr. Luis E.
Rodriguez, La formaciòn universitaria de Juan de la Cruz, Junta de Castilla y Leòn,
Valladolid 1992.
5
Cfr. innanzitutto J. Orcibal, St. Jean de la Croix et les mystiques rhéno-flamands, Desclée, Paris 1965; Id., La rencontre du Carmel théresien avec les mystiques
du Nord, Paris 1959; R. Blumrich, La difusion de la “mìstica alemana” en el mundo latino, e T. H. Martin, Los Mìsticos Alemanes en la España del XVI y XVII, in AA.VV.,
La Espiritualitad Española del siglo XVI, Pontificia Universitad de Salamanca, 1990,
pp. 83-91 e 217-228. Martin riporta, opportunamente, l’opinione del p. Crisògono
de Jesùs, carmelitano e insigne studioso sanjuanista: «L’autore che più ha influito
su san Giovanni della Croce è Taulero […] Due spiriti gemelli, amici delle altezze e
nemici di tutto quello che non è fede, croce e perfetta carità. La storia della mistica
non conosce due mistici tanto simili. Leggendo Taulero, san Giovanni della Croce
dovette sentire simpatia per quel frate domenicano che pensava come lui».
6
Cfr. in proposito la Introduzione a Giovanni Taulero, I sermoni, a cura di M.
Vannini, Paoline, Milano 1997, pp. 47-56.
3
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
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dei Paesi Bassi, era stata dedicata dal certosino Lorenzo Surius la
traduzione latina dei Sermoni tauleriani (1548) – anzi, ancora prima, nel 1540, quella del tedesco Johann Wild (Juan Fero), vicario
generale dei francescani in Spagna7.
Che Giovanni della Croce abbia letto Taulero è dimostrato
sia dal lessico da lui impiegato, sia dal fatto che i due autori
non hanno solo affinità di temperamento e profonda parentela spirituale8, ma addirittura un sistema comune. La necessità
del distacco, dell’abbandono di tutte le potenze dell’anima,
in modo che essa divenga assolutamente vuota, nuda, pura e
astratta, come se fosse uscita da se stessa – ovvero riportata al
fondo della sua essenza –; la concezione di Dio come agente e
dell’uomo come paziente, per cui, una volta tolti gli ostacoli e
posta l’anima in attesa, Dio non può fare a meno di effondersi
in essa, sono elementi comuni al domenicano e al carmelitano.
Ancora: la creatura può sfuggire allo spazio e al tempo e vedere
Dio senza mediazione, ovvero coglierlo nel fondo dell’anima,
ove egli dimora essenzialmente e attualmente. I due mistici trovano persino accenti identici nel commentare l’evangelico «tutte
le cose mie sono tue» (Gv 17, 10), parlando con gli stessi termini
dell’uguaglianza d’amore tra l’uomo e Dio9.
È proprio da un sermone di Taulero, anzi, che Giovanni
della Croce riprende il suo concetto davvero cruciale di “notte
oscura”: si tratta del sermone che parte dal versetto di Luca,
5, 3, Duc in altum10, ove si racconta l’episodio della pesca miracolosa. Le parole rivolte da Pietro a Gesù: «Maestro, abbiamo lavorato tutta la notte e non abbiamo preso nulla», vengono
spiegate dal domenicano tedesco nel senso che il «lavoro della
notte» cui i pescatori/discepoli si sono dedicati consiste «nella
Cfr. J. Orcibal, Le rôle de l’intellect possible chez Jean de la Croix. Ses sources
scholastiques et nordiques, in La mystique rhénane, Colloque de Strasbourg, 16-19
mai 1961, Paris 1963, p. 264.
8
Ivi, p. 265.
9
Ivi, pp. 265-267. Orcibal cita in extenso i passi delle opere di Giovanni della
Croce (Cantico, Fiamma, Salita) in parallelo ai sermoni tauleriani, per cui la concordanza appare evidente al di là di ogni dubbio.
10
Lo si può leggere in: Giovanni Taulero, I sermoni, cit., pp. 626-632.
7
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MARCO VANNINI
più vera, assoluta povertà e nel totale annientamento di se stessi,
nel quale non si vuole, non si ha, non si desidera, non si cerca
altro che Dio stesso e nulla di proprio, nell’abbandono, nella
povertà, in tenebre dense e fitte e nella desolazione, tanto da
non trovare nessun appoggio e da non sperimentare né luce né
ardore»11. Questo lavoro della notte, cioè di spogliamento, di
distacco, ha come esito appunto il nulla, l’annichilamento di se
stessi e, proprio così, l’unione dell’anima con Dio. Nulla, nada, è
infatti, accanto a notte, noche, cui è strettamente correlata, l’altra
parola-chiave del linguaggio sanjuanista. Sì, perché al nulla dell’anima, ovvero all’anima che si è fatta nulla, corrisponde il nulla
divino12: Dio stesso si può mostrare solo come nulla: «Quando
Saulo vide il nulla, allora vide Dio», recita il sermone eckhartiano sulla conversione di san Paolo che Giovanni della Croce
leggeva, ancora una volta come opera di Taulero13.
Da Taulero – ovvero da Eckhart – il mistico carmelitano
riprende anche il concetto fondamentale di propietad: si tratta
della traduzione castigliana del latino proprietas, con il quale veniva reso, a sua volta, il tedesco eigenschaft dei sermoni dei due
domenicani14. Esso indica quello che agostinianamente si chiama amor sui, l’amore di se stesso, che tutto riporta al proprio,
all’egoità, e che costituisce perciò la radicale opposizione a Dio,
al Bene, che è invece l’universale. La rinuncia alla propietad, ovvero a se stessi, è certamente la rinuncia più forte, il distacco
più totale, ma è precisamente quell’abrenuntiare se ipsum che il
Cristo richiede a chi vuole seguirlo: questo l’insegnamento che
i “mistici del Nord” – da Eckhart alla cosiddetta Teologia te11
Cfr. p. 631, op. cit. Sul tema, si veda A. M. Haas, “Die Arbeit der Nacht”.
Mystische Leiderfahrung nach Johannes Tauler, in: Die dunkle Nacht der Sinne. Leiderfahrung und christliche Mystik, a cura di G. Fuchs, Düsseldorf 1989, pp. 9-40.
12
Cfr. Meister Eckhart, Il nulla divino, a cura di M. Vannini, Mondadori,
Milano 2001.
13
Si tratta del sermone Surrexit autem Saulus de terra (I sermoni, cit., pp. 488495). Era presente nelle Opere di Taulero stampate a Basilea nel 1521 e poi, tradotte in latino, a Colonia nel 1548 e ancora nel 1553.
14
Lo abbiamo tradotto in genere con “appropriazione”. La parola esiste immutata anche nel tedesco attuale, ma i traduttori moderni la rendono talvolta con
Selbstsucht, o Ichsucht.
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
51
desca15, passando appunto per Taulero – ripetono con sublime
monotonia, come fa anche Giovanni della Croce. Parlando ad
esempio della più dura delle “notti”, quella dello spirito, scrive:
Nostro Signore soggiunge che la via della perfezione è stretta. Con
questa espressione vuole insegnarci come l’anima che desidera
avanzare in questo cammino deve non solo entrare per la porta angusta liberandosi dei beni sensibili, ma anche restringersi, espropriandosi e sbarazzandosi completamente di quelli spirituali […]
L’anima deve non solo essere sbarazzata da tutto ciò che le viene
da parte delle creature, ma camminare annichilita ed espropriata
anche di tutto ciò che è proprio dello spirito. Per istruirci e spingerci su questo cammino, al capitolo ottavo di S. Marco (34-35),
Nostro Signore esprime quella mirabile dottrina […]: Se qualcuno
vuole seguire la mia via, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua. Colui infatti che vuol salvare la sua anima la deve perdere, e
chi per me la perderà la guadagnerà16.
Il legame tra Hegel e Giovanni della Croce non è invece storicamente dimostrabile – quasi sicuramente il filosofo tedesco
non conosceva direttamente le opere del mistico castigliano –,
ma è indiscutibile sotto il profilo spirituale. Lo sottolinea anche
uno degli studiosi sanjuanisti contemporanei più importanti,
Georges Morel17, che rileva innanzitutto le similitudini, almeno
formali, di Giovanni della Croce con quello che si considera il
più mistico dei filosofi d’Occidente, ovvero Spinoza: entrambi
hanno provato la passione dell’Assoluto; entrambi hanno desiderato non i segni, ma la realtà stessa; entrambi hanno ricono15
È questo il titolo (Theologia deutsch) che Lutero dette al Libretto della vita
perfetta, opera di un anonimo Cavaliere teutonico di Francoforte, quando lo fece
stampare, considerandolo una delle opere più importanti di tutta la storia del cristianesimo. Un giudizio che è stato, paradossalmente, ripreso da Schopenhauer,
che lo colloca tra i più importanti dell’umanità, accanto a Platone e a Buddha. Cfr.
Anonimo Francofortese, Teologia tedesca. Libretto della vita perfetta, a cura di M.
Vannini, Bompiani, Milano 2009.
16
Salita del monte Carmelo, II, 7, 3-4, pp. 88 s. Citiamo sempre dalla edizione
delle Opere, a cura del p. Ferdinando di S. Maria, O.C.D, Roma 1967.
17
Cfr. Georges Morel, Le sens de l’existence selon saint Jean de la Croix, 3 voll.,
Aubier, Paris 1960-1961.
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MARCO VANNINI
sciuto che Dio non è accessibile che tramite Dio stesso e che, in
verità, è la causa che manifesta gli effetti, ben più che l’inverso18.
Ma, ben oltre Spinoza, è appunto con il cristiano Hegel che
il mistico castigliano ha una profonda consonanza. Si vedano le
strette somiglianze tra certi temi della Fenomenologia dello spirito e quelli della Notte oscura o del Cantico spirituale: senza voler
praticare il minimo concordismo, è raro veder sorgere dal fondo
dell’essere umano questo medesimo appello: l’Assoluto, e non
delle immagini! La vicinanza che si mostrava tra le preoccupazioni di Spinoza e quelle di Giovanni della Croce, si presenta qui
in modo più stretto: per lui, come per Hegel, l’accesso al regno
dello spirito presuppone necessariamente un lungo e paziente
soggiorno nella notte, nella sofferenza, nell’agonia. Per entrambi
gli autori si può dire che al centro della loro dottrina è l’idea della morte, ovvero il riconoscimento della finitezza radicale delle
cose come motore del movimento grazie al quale si esce da noi
stessi per guardare in faccia l’Assoluto. La Fenomenologia dello
spirito e l’opera del mistico spagnolo sono entrambe la storia
di un individuo che, morendo alla sua particolarità, portando a
compimento ed esaurendo tutte le “figure” incontrate sulla sua
strada, penetra infine nel mondo non-figurativo19.
È grazie ad Hegel che la morte è reintrodotta al centro del
reale, non per costrizione, non per accettazione stoica, ma per il
lucido e libero riconoscimento dell’eterno all’opera nel mondo:
La morte è la cosa più terribile e tener fermo ciò che è morto è ciò
cui si richiede la massima forza […] ma non quella vita che inorridisce davanti alla morte, schiva della distruzione, bensì quella
che sopporta la morte e in essa si mantiene, è la vita dello spirito.
Esso conquista la sua verità solo a patto di ritrovare se stesso nella assoluta lacerazione. Esso è questa forza, ma non alla maniera
stessa del positivo che non si dà cura del negativo, come quando
di qualcosa noi diciamo che non è niente o che è falso, per passare
«L’anima conosce le creature attraverso Dio e non Dio attraverso le creature […] Questa secondo modo di conoscere è secondario, ma l’altro è essenziale»
(Fiamma viva d’amore, IV, 5). Cfr. Morel, op. cit., vol. I., p. 22.
19
Cfr. Morel, op. cit., pp. 29 s.
18
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
53
molto sbrigativamente a qualcos’altro; no, lo spirito è questa forza
solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso
di lui. Questo soffermarsi è la magica forza che volge il negativo
dell’essere20.
Quella che Hegel chiama “morte” – erede in ciò di una tradizione che risale a Platone, ovvero al concetto di filosofia come
melètema thanàtou, esercizio di morte21, che percorre tutta la
storia della mistica22 – è precisamente ciò che Eckhart chiama
“distacco” e Giovanni della Croce “notte”.
Il filo conduttore del cammino spirituale, che conduce attraverso la notte, la morte – anzi, le notti, le morti – è appunto
la fede.
In estrema sintesi, il discorso si può sintetizzare in tre punti.
Il primo: Giovanni della Croce insegna la possibilità di una
completa unione dell’anima con Dio, fondata sul fatto che Dio
stesso è il centro, o la sostanza, dell’anima. Trovare il centro
– Meister Eckhart dice prevalentemente il “fondo”, ma è la medesima cosa23 – dell’anima è dunque trovare Dio, e trovare Dio è
trovare se stessi nella propria vera realtà sostanziale, al di là delle
caratteristiche accidentali e superficiali.
Il secondo: L’unione con Dio è possibile solo attraverso
la via del distacco, ovvero la rimozione di tutto ciò che è superficiale e accidentale, operando una completa purificazione
dell’anima. Essa implica una sorta di progressiva spoliazione,
una serie di dolorosi passaggi per mettere a nudo la sostanza
dell’anima – quelle, appunto, che il mistico castigliano chiama
“notti”.
20
Cfr. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., Prefazione, vol. I, p. 26. Sulle
radici e sul significato “mistico” della filosofia di Hegel, vedi anche i capp. 5 e 6 del
mio Mistica e filosofia, Le Lettere, Firenze 2007.
21
Cfr. Platone, Fedone, 67 e.
22
Cfr. Theo Kobusch, Freiheit und Tod. Die Tradition der “mors mystica”
und ihre Vollendung in Hegels Philosophie, in «Theologische Quartalschrift», 164
(1984), pp. 185-203. È questo il tema del mio La morte dell’anima. Dalla mistica
alla psicologia, Le Lettere, Firenze 20042, cui mi permetto rimandare.
23
Cfr. in proposito il mio Meister Eckhart e il fondo dell’anima, cit.
54
MARCO VANNINI
Il terzo: percorrere la via del distacco è possibile solo grazie
alla fede, che è la potenza negativa, per così dire, che incessantemente rimuove l’accidentale e conduce in quel nulla che è il solo
“luogo” ove si trova Dio. Quest’ultimo è il punto che Giovanni
della Croce sviluppa con una ricchezza superiore anche a quella
di Eckhart e della mistica tedesca, da cui pure lo aveva ereditato, e che prepara già, in certo modo, la riflessione hegeliana sul
nulla e sull’essere.
Quanto al primo punto, il mistico castigliano insegna che «il
Signore dimora sostanzialmente ed è presente in qualsiasi anima, anche in quella del più grande peccatore della terra»24, per
cui l’unione con Dio si compie «nel centro dell’anima, cioè nella
sua pura e intima sostanza, in cui dimora come Signore»25.
Spiegando i versi:
O fiamma d’amor viva,
che soave ferisci,
dell’alma mia nel più profondo centro,
Giovanni della Croce spiega infatti che «centro dell’anima è
Dio», in quanto «noi chiamiamo centro più profondo di una
cosa l’estremo a cui possono giungere il suo essere, la sua vita,
la forza della sua azione e del suo movimento, senza poterlo oltrepassare», ed è appunto nel centro, o sostanza dell’anima, che
avviene «questa festa dello Spirito santo», ovvero l’unione con
Dio26.
Quanto al secondo punto, che è quello di gran lunga più
sviluppato nell’opera sanjuanista, basti citare questo passo, all’inizio della Salita:
Possiamo dire che tre sono i motivi per i quali il cammino che l’anima compie per giungere all’unione con Dio può chiamarsi notte. Primo, a causa del termine da cui essa muove; l’appetito deve
privarsi di tutti i beni temporali di cui gode, rinunciando ad essi:
24
25
26
Salita del monte Carmelo, II, 5, 3, p. 79.
Fiamma viva d’amore B, 4, 3, p. 822.
Ivi, I, 9-12, pp. 737 s.
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
55
rinuncia e privazione che per tutti i sensi dell’uomo costituiscono
una vera notte. Secondo, per il mezzo o la via attraverso la quale
l’anima deve tendere all’unione con Dio; tale mezzo è la fede, che
per l’intelletto è oscura come la notte. Terzo, per la mèta cui è
diretta, Dio, il quale è ugualmente notte oscura per l’anima, finché
questa rimane nel mondo. Queste tre notti devono succedersi nell’anima, o, meglio, l’anima deve passare per esse prima di giungere
all’unione divina27.
In questo passo compare anche la fede, che viene definita “oscura come la notte” per l’intelletto – e ciò conduce immediatamente al terzo punto.
Ben oltre la notte del senso, infatti, la notte dello spirito, cioè
la fede, è più oscura, perché la prima riguarda la parte inferiore,
cioè sensitiva, dell’uomo, mentre la seconda concerne la parte
superiore o razionale: essa è quindi più interiore e più oscura
perché priva l’anima della luce della ragione o, per meglio dire,
l’acceca28.
Invero le tenebre dello spirito sono maggiori di quelle del senso, come il buio è più tenebroso della notte, perché di notte, per
quando fonda essa sia, si può sempre vedere qualcosa, mentre se è
buio non si scorge niente. Nella notte del senso resta un po’ di luce
perché rimangono, senza essere accecati, l’intelletto e la ragione,
mentre la notte dello spirito, cioè la fede, priva di tutto, sia nell’intelletto che nel senso29.
Con questa opera di privazione, di spoliazione, ovvero «salendo
per la divina scala della fede», l’anima «cambia in divino l’abito
e il portamento umano» salendo per mezzo della fede, penetrando fin nelle profondità di Dio30.
Salita del monte Carmelo, I, 2, 1, p. 17.
Cfr. ivi, II, 2, 2, p. 70.
29
Ivi, II, 1, 3, pp. 68 s.
30
Cfr. ivi, II, 1, 1, p. 67. L’espressione “profondità di Dio” rimanda direttamente a 1 Cor 2, 10, ove l’Apostolo contrappone all’uomo “psichico” l’uomo
“spirituale”, il quale, appunto, scruta tutto, anche “le profondità di Dio”.
27
28
56
MARCO VANNINI
Lo stesso concetto è ripetuto nella Notte oscura, ove lo si specifica anche per le altre potenze dell’anima, volontà e memoria:
[L’anima dice:] In povertà, abbandono, distacco da tutte le mie
apprensioni, vale a dire nell’oscurità del mio intelletto, nella aridità della mia volontà, nell’afflizione e nell’angustia della memoria,
lasciata all’oscuro in pura fede, che è notte per tali potenze naturali, uscii da me stessa […] Questa fu per me una grande fortuna,
poiché, annichilite e addormentate le potenze, le passioni, gli appetiti e le affezioni del mio spirito, con le quali sentivo e gustavo
imperfettamente Dio, passai dal mio modo umano di operare a
quello divino del Signore, cioè: il mio intelletto uscì fuori di sé,
da umano diventando divino, poiché, unendosi con Dio, mediante
questa purificazione, non intende più servendosi del suo vigore e
della sua luce naturale, ma della sapienza divina, con la quale si
è unito; la mia volontà uscì da sé, facendosi divina, giacché, unita
con l’amore divino, non ama più imperfettamente con le sue forze
naturali, ma con le forze e la purezza dello Spirito Santo […] similmente la memoria ha cambiato le proprie apprensioni in quelle
eterne di gloria31.
Si noti quell’“uscii da me stessa”. La spoliazione più piena, il
distacco più forte, è infatti quello dall’egoità, per cui – come
insegna Eckhart – l’anima deve rinnegare se stessa, “uscire da se
stessa”, “morire”, se vuole davvero distaccarsi. Importante, poi,
non è solo il riferimento alla volontà, che è la potenza, ovvero la
facoltà, più direttamente interessata al distacco, ma anche quello
alla memoria, perché è in essa, secondo l’antropologia scolastica
che Giovanni della Croce utilizza, che stanno le “immagini”, ovvero le rappresentazioni, ivi comprese quelle di Dio:
Nessuna forma e notizia soprannaturale che può cadere nella memoria [ovvero di cui ci si può fare un’immagine] è Dio, per cui l’anima si deve spogliare di tutto ciò che non è Dio per andare a Lui
[…. ] Quelli che non vogliono privarsi della dolcezza e del gusto
della memoria nelle notizie [ovvero nelle immagini] non pervengono al sommo possesso e alla perfetta dolcezza, perché “colui che
31
Notte oscura, II, 4, 2, p. 406.
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
57
non rinuncia a tutto quanto possiede non può essere suo discepolo” (Lc 14, 33)32.
È qui presente il tema davvero cruciale del superamento anche
delle immagini di Cristo, necessaria perché si compia l’unione
tra l’anima e Dio. In forza di ciò molti hanno pensato che Giovanni della Croce non sia altro che un seguace delle Upanishad,
senza comprendere che egli sta in realtà qui seguendo fin nel
profondo l’insegnamento del Maestro, che disse ai suoi discepoli – anzi, ormai “amici” –: «È bene per voi che io me ne vada,
perché, se non me ne vado, non verrà a voi lo Spirito santo. Se
invece me ne vado, lo manderò a voi» (Gv 16, 7).
È del tutto probabile, anzi, che il mistico castigliano abbia
in mente il “Prego Dio che mi liberi da Dio” che, nello stesso
senso, era stato pronunciato da Eckhart nel sermone che verte
appunto sulla povertà dello spirito, e che Giovanni della Croce
aveva letto, ancora una volta, nelle opere di Taulero33.
Per lo stesso motivo, ai nostri giorni, Simone Weil scrive che
«Il contatto con le creature ci è dato tramite il senso della presenza. Il contatto con Dio ci è dato tramite quello dell’assenza.
In confronto a questa assenza, la presenza diviene più assente
dell’assenza»34.
Sta di fatto, comunque, che Giovanni della Croce insegna
una dottrina del vuoto assoluto:
Salita del monte Carmelo, III, 7, 2, pp. 241 s.
È il sermone Beati pauperes spiritu, presente nell’edizione di Basilea di Taulero: cfr. Meister Eckhart, I sermoni, cit., pp. 388- 396. Al tema è dedicato il mio
Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna, Bompiani, Milano 2010. Molto significativo anche il sermone eckhartiano che commenta
proprio Gv 16, 7, Expedit vobis ut ego vadam: lo si può leggere in Meister Eckhart,
La nobiltà dello spirito, a cura di M. Vannini, Piemme, Casale Monferrato 1996,
pp. 209-219.
34
Cfr. S. Weil, Quaderni II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, p. 168.
La scrittrice francese fu appassionata estimatrice di Giovanni della Croce: cfr. in
proposito Sabina Moser, La fisica soprannaturale. La scienza in Simone Weil, ed. S.
Paolo, Cinisello Balsamo 2011.
32
33
58
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Per lasciarsi guidare rettamente dalla fede [per giungere all’unione
divina] l’anima deve rimanere all’oscuro non solo secondo la parte
che riguarda le cose create e temporali, che è quella inferiore e
sensitiva, ma si deve anche accecare e ottenebrare secondo quella
relativa a Dio e alle cose dello spirito, che è la parte superiore e
razionale, di cui sto ora parlando. È chiaro quindi che un’anima,
per giungere alla trasformazione soprannaturale, deve oscurarsi e
trascendere tutto quanto, di ordine sensitivo e razionale, compete
alla natura, perché soprannaturale è ciò che è al di sopra della
natura, la quale dunque rimane al di sotto.
Ora, poiché questa trasformazione e unione non è in potere del
senso e dell’abilità umana, l’anima, per ciò che dipende da lei,
deve svuotarsi volontariamente e in modo perfetto di quanto può
accadere in essa in forza della parte superiore e di quella inferiore,
cioè secondo l’affetto e la volontà. Chi potrà poi impedire a Dio
di operare a suo piacimento nell’anima rassegnata, annichilita e
nuda? Questa però deve liberarsi da qualunque cosa che può dipendere dalla sua abilità, in maniera che, quantunque essa riceva
molti favori soprannaturali, debba sempre, come un cieco, rimanere nuda e all’oscuro nei confronti di essi. Deve, quindi, appoggiarsi alla fede oscura [cioè senza contenuto alcuno], prendendola
per guida e luce, senza attaccarsi a cosa che comprende, gusta,
sente e immagina, perché tutto ciò è tenebra, da cui sarà tratta
in errore, mentre la fede è superiore a tale modo di intendere, di
gustare, di sentire e di immaginare35.
Sono le tre virtù teologali ad operare, insieme, il vuoto delle tre
potenze dell’anima. Infatti la fede opera il vuoto e l’oscurità della conoscenza nell’intelletto, la speranza il vuoto di ogni forma
di possesso nella memoria, la carità il vuoto e lo spogliamento
nella volontà di ogni affetto e di ogni gaudio di ciò che non è
Dio – scrive ancora Giovanni della Croce nella sua Salita36.
Fondamentale è il capitolo ottavo del secondo libro, ove si
dimostra che nessuna creatura e nessuna notizia acquisibile dall’intelletto possono servire all’anima come mezzo per l’unione
con Dio e che l’unico mezzo proprio e adeguato a tale fine è la
35
36
Salita del monte Carmelo, II, 4, 2, pp. 74 s.
Cfr. ivi, II, 6, 2, p. 84.
LA FEDE COME “NOTTE OSCURA”
59
fede. Infatti, dato che tutti i mezzi devono essere proporzionati
al fine (assioma della filosofia scolastica), e stante la differenza
infinita tra creatura e creatore, fra cui non v’è alcun rapporto e
somiglianza essenziale, è impossibile che l’intelletto possa comprendere Dio per mezzo delle creature.
Similmente, tutto ciò che l’immaginazione può rappresentare e
l’intelletto ricevere e intendere in questa vita, non è né può essere
mezzo prossimo per l’unione con Dio. Infatti l’intelletto non conosce altro che ciò che è contenuto e si presenta sotto le forme e le
immagini delle cose, che si ricevono per mezzo dei sensi corporei,
cose che non possono servire come mezzo, per cui l’intelletto non
può trarre alcun profitto dall’intelligenza naturale. Ma neppure da
quella soprannaturale, per quanto è possibile qui in terra, nel carcere del corpo, per cui neppure notizia o percezione soprannaturale, in questa vita, può servire come mezzo per l’unione d’amore
con Dio. Infatti tutto ciò che può essere appreso dall’intelletto,
gustato dalla volontà ed elaborato dall’immaginazione è molto dissimile e non proporzionato a Dio37.
Si deve qui sottolineare come non si escluda solo la presunta conoscenza di Dio a partire dalla natura, ma anche quella cosiddetta soprannaturale (Giovanni della Croce accetta sì il paradigma
tomista naturale-soprannaturale, ma ne rifiuta le conclusioni), e
ciò include tanto le cosiddette rivelazioni particolari, delle quali
il mistico castigliano è infatti critico rigoroso, ma anche quelle
“notizie” (noticias) nelle quali si fa consistere la Rivelazione in
universale.
Dio è spirito e preferisce manifestarsi allo spirito, in cui v’è più sicurezza e profitto per l’anima, che non ai sensi. In essi, infatti, c’è grande pericolo di inganno, perché il senso corporeo vuole giudicare le
cose dello spirito così come egli le percepisce, mentre sono tanto
diverse quanto il corpo lo è dall’anima e la sensibilità dalla ragione.
L’ignoranza del senso nei confronti delle realtà spirituali è pari, o
anche superiore, a quella di un giumento sulle cose razionali38.
37
38
Ivi, II, 8, 4, p. 96.
Ivi, II, 11, 2, pp. 103 s.
60
MARCO VANNINI
Non è un caso se gli stessi discepoli, che pure erano stati vicini
al Salvatore, ebbero difficoltà a comprendere le parole di Dio –
anzi, le fraintesero e caddero in errore39. Perciò non dobbiamo
prestare troppo credito alle parole e rivelazioni, anche se provengono da Dio, perché ci possiamo molto ingannare nella loro interpretazione40. Molto significativamente, a queste osservazioni,
segue il passo cruciale di 1 Cor 2, 14-15, evidentemente caro al
mistico castigliano:
L’uomo animale non percepisce le cose dello Spirito di Dio, che
sono per lui stoltezza e non può intenderle perché spirituali; invece l’uomo spirituale giudica tutte le cose41.
Solo lo spirito, parte superiore dell’anima, ha rapporto e comunicazione con Dio, e perciò solo l’uomo spirituale «penetra
e giudica tutto, perfino le profondità di Dio», afferma quindi
Giovanni della Croce, riprendendo e proseguendo la citazione
paolina precedente42.
La comunicazione di Dio sostanziale ed essenziale non si
può comunicare ai sensi43, e perciò:
L’intelletto, per disporsi alla divina unione, deve restare puro e vuoto
di tutto ciò che può cadere sotto il dominio dei sensi e nudo e sgombro anche da tutto ciò che può cadere con chiarezza nell’intelletto
stesso, intimamente pacificato e muto, stabilito nella fede, la quale soltanto è il mezzo proporzionato all’unione dell’anima con Dio
[…]. Infatti, essendo Dio infinito, quella ce lo propone infinito44.
In quanto movimento verso l’infinito, che incessantemente rimuove il finito, il determinato, perché non Assoluto, la fede
Cfr. ivi, II, 19, 9, pp. 154 s.
Cfr. ivi, II, 19, 10, p. 155.
41
Ivi, II, 19, 11, p. 156. La citazione sanjuanista si limita a questi versetti, ma il
passo paolino va letto per intero, per comprenderne tutta la portata mistica.
42
Cfr. ivi, III, 26, 4, p. 291.
43
Cfr. ad es. Cantico spirituale B, 19, 5, p. 610.
44
Salita del monte Carmelo, II, 9, 1, p. 99 [traduzione rivista e integrata da
una riga non presente nella versione italiana cit.].
39
40
INDICE GENERALE
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
p.
7
I. Fede come distacco in Eckhart. . . . . . . . . . . . . . . .
»
9
II. La fede come “notte oscura” . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
47
III. Il concetto hegeliano della fede . . . . . . . . . . . . . . .
»
65
IV. Il contenuto cristologico della fede . . . . . . . . . . . .
» 109
Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 145
Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
» 153
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