Fabio Cagnetti
Si dice twentytwelve, non
two thousand
twelve
Un diario di viaggio scritto a un mese e mezzo di distanza, confessione di un
gastrofanatico impenitente. Uno di due. Quella qua sotto è la fredda
cronaca, non romanzata, scrittura non creativa. True story.
Livorno, prologo. Quando nessuno ti tiene il cane e vuoi evadere ti
rimangono solo due scelte: Sicilia o Sardegna. E quando analizzi i termini e
le condizioni delle compagnie di navigazione, scopri che solo Livorno ti farà
evitare i canili di bordo lasciandoti portare in cabina il terzo compagno di
viaggio. Il meno gastrofanatico, ma fino a un certo punto: sa detestare la
dieta a base di crocchette demmerda come un figliuol prodigo può schifare
(nei miei sogni) i grassi idrogenati.
Livorno, prologo, pomeriggio già buio, voglia di qualcosa di buono.
Consultiamo il Tomo Biblico, “le focacce sono speciali, provate soprattutto
quella provola e pomodoro… ottima anche la pasticceria, dalla Sacher al
babà al tortino alla ricotta”. This must be the place. Siamo freccia scoccata
dall’arco del Tom Tom, il luogo nonluogo è illuminato a festa. Complimenti
per la festa, una festa del cazzo. Delle focacce non v’è traccia, tutto il salato
a disposizione per l’aperitivo sono delle tartine con spalmati sopra due
decenni, nessuno dei quali è il nostro o quello prima. Tavolino, mestizia,
tartine, per me un Negroni. Il posto in realtà è una pasticceria tout court,
alcuni dolci sono palesemente chimici, altri sembrano avere una bella faccia,
ne riempiamo un vassoio per il viaggio. E poi andiamo in orbita da Gagarin, il
cibo della Vostok non è roba liofilizzata da cosmonauti tristi ma il glorioso
Cinque e Cinque, un panino ripieno di torta di ceci che ci rinfranca, prima di
correre verso il porto.
Andiamo a bordo, cazzo. I dolci fanno schifo, ma schifo vero. Bella prova,
Tomo Biblico!
Alla luce di tutto questo, continueremo ad appellarci a te come all’oracolo di
Delfi, true story. Fortunatamente non abbiamo bisogno di cibarci, giriamo
per i ponti quando i più sono ormai chiusi in cabina. Un piano bianco come
la neve, una donna di colore, physique du role da cantante soul, suona e
non è un film.
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Non prendiamo veramente del cibo, guardiamo delle serie tv belle ma
soporifere finché alle sei, due ore prima dello sbarco, gli altoparlanti della
nave iniziano a romperci il sonno, mi hanno detto che si dice così.
L’inquietudine vera è che ci sono dei crocieristi di Capodanno, a bordo di
questo traghetto che vorrebbe essere una nave da crociera ma non ci riesce
meglio di quanto la mia bici riesca ad essere un autoarticolato.
A Golfo Aranci non vediamo aranci, del resto Novi Ligure mica è in Liguria.
Passeggiamo sulla spiaggia, sai che c’è? Fa freddo. E allora andiamo dritti
verso piccoli grandi dolmen e beviamo a Luras il primo di una sequela più o
meno interminabile di caffè bruciati. Viaggiamo un po’ nella storia vinicola e
agricola della Sardegna nel museo locale, che in realtà visitiamo solo per
prenderlo in mano. Su mazzolu. Il minaccioso malleo d’olivastro con cui la
femmina accabadora terminava terminali con un colpo bene assestato
sull’osso parietale. Eutanasia portali via, cos’è antico e cos’è moderno non lo
so più. Ci teniamo leggeri, solo un piatto in trattoria segnalatissima a
Calangianus. Il piatto diventa uno più un mix di antipasti e mezzo dolce,
qualcosa è buono ma i sottaceti del cazzo e quant’altro ci fanno pensare che
in fin dei conti non è che ci fosse granché da segnalare, a Calangianus. Per
cui tanto vale fermarsi a visitare tutte le chiese romanico-pisane lungo la via,
prima dell’ultimo capodanno dell’umanità, a dar retta ai Maya. E dopo che il
21 dicembre prossimo venturo non sarà successo un cazzo mi raccomando,
tutti a dire che secondo Unix il mondo finirà nel 2038.
Il primo di una serie di agriturismi e bienbì uno più dog-friendly dell’altro.
Krug a stomaco vuoto, è bello viaggiare in macchina, puoi portarti dietro le
bottiglie che vuoi e anche i bicchieri. Nel caso specifico i costosissimi Riedel
Sommeliers, soffiati a mano da vergini austriache nelle notti di luna piena. Il
problema, ovviamente, sono le vergini. Il cielo del Capricorno veglia su di noi
e sul cane che non si perde veramente, mentre i racconti di capodanni
sfigati fanno svanire l’ansia con le bollicine del Krug.
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Guido nella jungla per poi perdermi nei vicoli ciechi di Sennori, e faccio il
patetico forestiero che si perde e chiama. Il nostro capodanno è circondato
da Kent’Annos di solitudine, in un posto che non vediamo veramente, dato il
buio pesto. Però sul cibo c’è solo da alzare le mani. Tutto biologico, tutto
ben scelto, rassicurante e confortevole ma un successo dietro l’altro, i vini
tengono botta, specie un Moscadeddu da attaccarsi alla boccia. Intorno a
noi tanta sfiga, una tavolata di hipster sassaresi, le splendide voci, i balli di
gruppo e il trenino. Sì, abbiamo fatto il trenino eccome. Poi gli hipster
sassaresi se ne vanno e a quel punto giriamo i tacchi pure noi. S’è visto di
peggio.
L’alba di un nuovo anno, si fanno armi e bagagli, più i secondi che le prime, e
si va a rendere grazia a un patriarca del vino italiano, a un caposaldo, a un
enoeroe. La Malvasia di Bosa è vino magico, intenso, potente, glicerico,
avvolge corpo e anima come una confortevole coperta con le maniche.
Usciamo felici, breve stop a satollarci di bottarga e carciofi, chiamiamo una
cioccolateria segnalataci come strepitosa solo per constatarne la chiusura,
effettuiamo soste nuragiche assortite e poi verso Alghero, la città di Antonio
Marras.
Qui mostreremo la nostra vera natura andando a cenare in uno stellato la
sera del primo gennaio, quando solo i gastroforzati possono pensare di
ingerire del cibo, let alone un menu degustazione di dieci portate, peraltro
proposto a un prezzo piuttosto ridicolo.
Per farla corta, per farla breve, mangiamo divinamente, una prima cena
dell’anno bisesto che stabilisce uno scomodo benchmark per le
trecentosessantacinque a venire. Fantastica la variazione di agnello
menteca… mantecato alla menta con carciofi e olive, ma a brillare sono
soprattutto i primi. Non so quante volte ho mangiato un piatto armonico e
glorioso come i Culurgiones di patate, calamari al nero, vongole e ricci, cime
di rapa all’aglio; alcune, ma lì erano i Passard e i Bottura, gli Alajmo e i
Vissani.
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Dalla lista dei vini scegliamo ciò che vogliamo, col dolce ci propongono ciò
che avremmo voluto, tutto perfetto salvo il coro di castrati che continua a
farsi beffe di noi in sottofondo. La nostra specie incrocia spesso suoi simili,
alle mie spalle un amico gallerista, volto noto della scena romana, per non
dire Mentana.
"Il 21 inauguro la mostra di due artiste iraniane, di cui una, tra l'altro,
bellissima. I quadri... quelli di quella bella sono belli, quelli di quella così così
sono... così così"
"Sono autoritratti?"
Palindromia è ciò che manca a casa mia, ma non nella penisola del Sinis.
Lungo la via scorgo un cartello, indica un produttore di vino. Quello che il
giorno prima, a Bosa, ci era stato suggerito come grande interprete della
Vernaccia di Oristano. E in effetti lo è. Ah, la Vernaccia. Grande vino da
meditazione, ma non solo, è più versatile di quanto si pensi, e stimola
l’abbinamento. Dieci anni in botte di castagno e prezzi piccoli piccoli,
saccheggiamo la cantina e in futuro ben altri quantitativi avrebbero
raggiunto il mio quartier generale. Ripartiamo per fermarci a Cabras, la
Vosne-Romanée della bottarga. Prendiamo in mano il Tomo Biblico e
rastrelliamo tre indirizzi: il primo, molto boutique, è chiuso, riaprirà nel
pomeriggio, gli altri due sono drammaticamente chiusi e non si sa se
riapriranno nel pomeriggio.
Con le facce tese tutti incazzati neri, e con le pive nel sacco, shalala, ci
consoliamo con la più celebre cantina per la Vernaccia, oggi relegata ai
margini della produzione aziendale, e dopo un’ampia degustazione ci diamo
a un pranzo –nel ristorante più plausibile nei dintorni- che ci sconcerta per
l’incapacità dei locali di fare sistema e valorizzare le proprie eccellenze. “Ma
la Vernaccia non è un vino da pasto!”, veniamo ammoniti prima di vederci
serviti due calici di sfuso dall’odore e dalla temperatura del piscio.
Con quegli spaghetti con la bottarga, una Vernaccia seria avrebbe fatto
faville. Ripartiti, ci fermiamo nella suggestiva San Salvatore di Sinis, celebre
set di film spaghetti western, prima di riempirci gli occhi della magnificenza
di Tharros, e del sole con quindici gradi, senza bottiglia di rum.
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Alla fine il primo dei tre hotspot della bottarga decide di aprire, e dopo un
pellegrinaggio al bancomat più vicino ci impossessiamo di quattro baffe
dell’oro di Cabras, prima di un trasferimento non proprio breve verso il
fucking middle of nowhere. Il nostro bienbì ha una pizzeria al piano
inferiore, e mentre ci sistemiamo inizia un teatrino sul pizzeria sì pizzeria no.
Io sono quello del pizzeria no. Testardo come me medesimo, parto alla
ricerca di tavole plausibili in una provincia di cui fino a minuti prima ignoravo
l’esistenza – Medio che? In medio stat virtus, in medio stat pure uno dei più
celebrati chef sardi, inspiegabilmente ritiratosi in mezzo al nulla dopo i fasti
cagliaritani. Tre chilometri scarsi di strada, la controparte capitola e siamo di
nuovo in macchina. Lo chef ha una mano felice, ma nel menu degustazione
ci sono inspiegabili ridondanze di ingredienti e soprattutto di consistenze,
zuppa di qua zuppa di là; certo, qui può avere senso tenere il freno a mano
tirato per venire incontro alla clientela, o no?
Sipario, due umani e ncane a S’Ortu Mannu, il parco degli olivi millenari.
Brividi dinanzi a tanta magnificenza, torno bambino in un bosco fatato,
pensare che i più antichi di questi alberi sono stati piantati dai Romani è
mindfuck di quelli veri. Cagliari, giri per il centro e la Fortezza, gelateria
segnalatissima e ovviamente chiusissima, tutto molto bello ma necessitiamo
di cibo, niente di speciale visto che ci attende una cena seria, e dobbiamo
temporeggiare visto che è troppo presto per fare checkin al bienbì. La
Lonely Planet segnala un tratto di spiaggia che tra novembre e febbraio si
affolla di banchetti di pescatori che vendono ricci ed altre amenità: da
paura, abbiamo anche lo Champagne! Peccato che di ricci e pescatori non vi
sia neanche l’ombra. Caffè sulla spiaggia con i vetratoni, si vede subito che
d’estate qui è party party party, la Cagliari bene che si accalca; diciamo che
d’inverno la situazione è più calma.
Non beviamo alcolici, e ci nutriamo di un panino con lo sconforto, di livello
“vabbè dai, ar cane sì”, gradino appena superiore a “manco a li cani”. Nostra
meta è Quartu Sant’Elena, e imbracciato il Tomo Biblico ci accorgiamo che
pullula di gastrososte plausibili, un pastificio artigianale, una pasticceria e
una gelateria che è proprio quello di cui abbiamo voglia, nonostante la
stagione.
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A qualche centinaio di metri da dove ci eravamo fermati vediamo i
baracchini dei pescatori di ricci che smontano, oscuriamo il cielo di
imprecazioni e di conseguenza comincia a piovere. Facciamo terno con la
chiusura centralizzata di gelateria, pasticceria e pastificio, sconfitti ci
ritiriamo nelle nostre stanze prima di cenare con due enostrippati autoctoni
dal celebrato Luigi Pomata.
In una serata di bevute serie, la conversazione è piacevole, così come il cibo,
decisamente orientato verso il mare e lavorato con mano leggiadra.
Sicuramente il più contemporaneo come impostazione dei non proprio
pochi ristoranti timbrati. A me però ogni volta che viene nominato lo chef
viene da ridere, pensando al Pomata di Febbre da cavallo. Cosa ci vuoi fare?
Buonanotte
La mattina monta un maestrale di quelli da ricordare, i traghetti non
partono e il nostro è l’indomani. E vabbè. Next stop: Barbagia!
Qualcuno mi spieghi per favore perché quasi tutti i comuni della provincia di
Nuoro cominciano per O. Quasi tutti, ma non Gavoi, che dà il nome a uno
dei formaggi che più amo, IL formaggio da usare per la cacio e pepe,
checché si dica del pecorino romano, che a ben vedere se non esiste poco ci
manca. Capisco che l’affumicatura con legni di mirto lo renda per molti ma
non per tutti, e non ugualmente adatto a tutti gli usi, ma per quello
specificato il Gavoi è semplicemente magnifico, alla Tradizione a Roma costa
tipo 45 euro al chilo ma è un salasso cui volentieri mi sottopongo. Il Tomo
Biblico segnala un produttore, andiamo a fare scorta. Strade suggestive,
nuvole basse all’improvviso, nulla e poi nulla per chilometri. Il produttore
non ha indirizzo, per fortuna sul Tomo Biblico c’è il telefono. Sbagliamo
strada andando a Ollolai, riscendiamo e chiamiamo dal centro di Gavoi,
risponde una signora, la titolare, che ci indirizza dal figlio che è in azienda,
sulla strada per Fonni. Ma non abbiamo più contanti, dobbiamo trovare un
Bancomat e ci affidiamo al Tom Tom, che mi fa percorrere una strada
sterrata messa peggio dell’Appia Antica per ritornare sulla via maestra e
risparmiare forse duecento metri impiegando un quarto d’ora in più.
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Prendiamo il bivio per Ollolai e ci inerpichiamo fino a una filiale del Banco di
Sardegna, con l’ATM all’interno, chiusa e che non avrebbe riaperto prima di
tre ore circa. Gli altri Bancomat sono a distanze in doppia cifra, ne proviamo
un paio passando di nuovo per Ollolai, non troviamo nulla. Ci arrendiamo,
decidiamo di raggiungere il casaro senza denaro contante, con poca fiducia
nelle carte ma tanta nella capacità di convincimento, extrema ratio c’è il
libretto degli assegni, altre soluzioni non ci sono.
Chiamiamo altre tre volte prima di trovare la strada, l’azienda è nel vero
middle of nowhere, adiacente a un santuario. Individuiamo la direzione
giusta e mi inerpico su una tremenda stradina sterrata. Incontriamo chi
dovevamo, stava scendendo in macchina. Mi presento, aggiungendo, cosa
vera, di essere un curatore del Tomo Biblico. Risposta: “e cos’è?”. Lo spiego,
ottengo un “ah, io non leggo molti libri”. Ok. Ma la madre ci aveva mandati
quassù avendo capito che fossimo grossisti interessati ad acquistare chissà
quante forme, per le nostre esigenze saremmo dovuti scendere di nuovo a
Gavoi. Un gregge di pecore blocca la strada, per la quarta volta saliamo
verso Ollolai, la filiale è aperta ma il bancomat non funziona. Tuttavia
scopriamo che ce n’è uno a Gavoi. Perso il conto dei passaggi per
l’intersezione Gavoi-Ollolai, riusciamo finalmente a fare denaro e fissare un
appuntamento con la signora, individuata più o meno al terzo tentativo. Il
profumo della stanza di stagionatura è inebriante, assolutamente
inebriante. Paghiamo la nostra forma dieci euro al chilo, al lordo della
benzina e dei neurodeliri. Soldi spesi bene, col senno di poi, e vuoi mettere
le risate.
Archiviata, si spera a lungo, la pratica Gavoi-Ollolai, facciamo rotta verso
Orgosolo, dove i murales ci lasciano a bocca aperta e il wind chill ci entra
nell’anima. Le vent nous portera. Guess what? Il Tomo Biblico segnala un
negozio, il Cortile del Formaggio, che già ci stuzzicava le tre volte che ci
siamo passati davanti. Entriamo nel cortile, suono, nessuna risposta.
Chiamo, nessuna risposta. Attendiamo. Richiamo. Risposta. Non ci sono,
sono chiusi e anche se ci fossero e fossero aperti in questo momento non
avrebbero niente da venderci.
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Hellyeah. Per soddisfare la nostra insaziabile brama di cibo troviamo, più su,
un negozio di prodotti tipici che avevamo notato ore prima ma che era
chiuso –con un cartello “torno subito”- e non segnalato dal Tomo Biblico.
C’è ancora il cartello.
Chiamiamo, qualcuno verrà ad aprirci. Nel frattempo la controparte mi
segnala la necessità di acquistare del torrone sardo. Il Tomo Biblico rivela
che l’indirizzo numero uno è a Tonara, provincia giusta ma 52 chilometri e
un’ora di viaggio nella direzione sbagliata. Imprechiamo. Ci aprono, c’è il
torrone di quell’azienda di Tonara. Bbbbbbbbbuciodeculo! Prendiamo quello
e del carasau che sgranocchiamo e facciamo rotta verso Mamoiada, la città
dei Mamuthones e dei fuochi nella notte di Sant’Antonio: paese che vai,
fuochi nella notte che trovi. In realtà Mamoiada era sulla mia cartina per un
altro motivo: è il Grand Cru del Cannonau. Vecchie vigne ad alberello, terre
rosse, struttura enorme ma sapidità e acidità che tengono insieme vini
strepitosi il cui equilibrio è tutto verso l’alto, un must. Ci attende quello che
per il mio gusto è il più capace vignaiolo di Sardegna, nome giovane (prima
annata in bottiglia la 2004, ma da una vigna di più di ottant’anni) e già alto
nel firmamento dell’enoitalia di oggi. Ha appena ammazzato il maiale, ci
invita a cena. Maiale ok, vino ok, pecorino ok, carciofi in iperspazio.
Facciamo una certa, e poi quattro amici al bar, un invito per l’indomani a
pranzo, grappe artigianali finché stanotte non diventa stamattina, o quasi.
Non ci corichiamo prima delle quattro, non sono ancora le nove quando il
telefono squilla e ci viene chiesto dove siamo. Dove potremo mai essere?
Dopo tre telefonate e un paio d’ore siamo in cantina.
Assaggiamo con evidente soddisfazione, lascio in dono uno Champagne e
uno Chenin, ricevo in dono un Cannonau, un Moscadeddu e la bottiglia di
birra bevuta la sera prima, riempita della grappa di qualche ora prima. Daje.
E insomma, siamo invitati al Pranzo della Befana a casa del secondo miglior
produttore di Mamoiada. Un’intera famiglia schierata, dai patriarchi
centenari giù fino agli infanti. Vini generosi e a tratti commoventi, una
cucina verace dai sapori autentici, fuori il sole e la neve e poi ancora il sole.
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A una certa riusciamo a uscire, ma veniamo praticamente costretti ad
andarci a fare una birra con i ragazzi, tanto il bar è di strada! Questa un
tempo era terra di sequestri, ma essere sequestrati in questo modo è
divertente, o almeno per me lo è stato; il resto della ciurma potrebbe
decisamente dissentire. E insomma, birra con i ragazzi.
“Tornate a trovarci per Sant’Antonio?”
“Eh, ma è fra dieci giorni…”
“Vabbè dai, allora per Carnevale!”
“Eh, mo vediamo”.
E poi via, dritti verso il Continente che non ci contiene.
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I Racconti Gastronomici nascono da un’idea di
Mariachiara Montera & Fabrizio Roych
del blog
www.thechefisonthetable.it
Foto di Mariachiara Montera
Logo di Susanna Rumiz
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