Yacú un Griot racconta l’Africa Nera Antonio Di Pietro prefazione di Antonella Castelnuovo narrazione di Emanuela Nava À les enfants de l’École Centre B de Nouna A cura di: Istituto Comprensivo “F. Lippi” (Prato) Provincia di Prato Circoscrizione Prato-Nord Consiag Assesorato Pubblica Istruzione - Comune di Prato Porto Franco - Regione Toscana Casa dei Popoli di Coiano (Prato) Ass. “Il Sicomoro” (Prato) LudoCemea Fotografie: Emiliano Cottini, Yacouba Dembelé e Antonio Di Pietro. Un sentito ringraziamento a Giuseppina Cappellini che, con la sua grinta, ci ha permesso di stampare questa documentazione. Un ringraziamento alle insegnanti che hanno partecipato al “Progetto Yacù”: Grazia Abbatiello, Emilia Anniballo, Anna Belliti, Giuseppina Bovini, Nunzia Centenni, Maria Colomba Cereste, Clorinda Cuoco, Anna De Furia, Gabriella Fauceglia, Valentina Gagliardi, Antonio Garganese, Loretta Muratori, Paola Muratori, Anna Magliaro, Marisa Sica, Viggiani Giuseppina. Un particolare ringraziamento da parte di Yacouba Dembelé al prof. Moretti e al dott. Valeri dell’ospedale di Careggi (Firenze). Tipografia Coppini, Firenze 2006 In copertina: disegno fatto da un bambino, con l’indicazione di creare una “cartolina” che riporti come immagine il ricordo più bello del “Progetto Yacù”. 2 PREFAZIONE Una questione di metodo Antonella Castelnuovo Docente di Comunicazione Interculturale - Università di Siena Scrivere una prefazione in un “diario” diretto ai bambini, significa anticipare un qualcosa che dia un valore in più alle aspettative promesse da un titolo ludico e ammiccante come “Yacù. Un Griot racconta l’Africa Nera”. Questo valore non può consistere in una “premessa”, bensì deve offrire un’ulteriore “promessa”, un qualcosa di nuovo che il lettore non si aspetta, e che, in tal senso, può essere letta come parte integrante del libro stesso ed in sintonia con esso. Tutto ciò si basa sulla curiosità ed è con questa che mi impegno a stimolare il lettore. Il volume si snoda con ritmo veloce e continui cambi di prospettiva (domande, racconti, rievocazioni, musiche, giochi) che non sono solo racconti per i bambini, bensì prodotti creati con loro e per loro. L’approccio è multidisciplinare e si attua su più livelli conoscitivi; i linguaggi pluriformi coinvolgono le diverse esperienze sensoriali del corpo e della mente: l’ascolto, il movimento, la danza, la manualità, i simboli, ma anche le emozioni e gli affetti, investendo tutti i processi che portano alla crescita e allo sviluppo infantile. La prospettiva è di tipo interculturale: lo scambio continuo di riflessioni, domande, raffronti di vita, permettono il fluire significativo di esperienze che possono essere assimilate dalla mente infantile proprio perché vicine, ma anche paradossalmente lontane. Lo scambio reciproco dei punti di vista e delle prospettive aiuta a capire se stessi attraverso l’altro che è diverso ma paritario e quindi anche profondamente simile a noi. Educare all’interculturalità oggi, in Europa, significa, a mio avviso, lavorare contemporaneamente su un doppio binario: quello dell’alterità e dell’identità, della diversità e della somiglianza, della vicinanza e della lontananza, poiché ogni identità si forma e si rafforza attraverso la dinamica tra opposizioni e raffronti. In questo senso il “diario” di Antonio Di Pietro aiuta a formare identità modulari e complesse, non rigide e assolute, aperte al raffronto e alla comparazione con l’altro, in senso non stereotipato ed acritico, ma conoscitivo ed inquisitivo. In tal modo esso offre una metodologia di lavoro ed un approccio didattico che diventano metafore dell’apprendimento poiché evoca immagini ed oggetti che si basano su strumenti della vita infantile di tutti i giorni, stimolando la creatività, l’immaginazione ed il contatto con l’altro. Il messaggio aggiuntivo della mia prefazione è racchiuso nel valore di questo metodo, non esplicitato nella presente documentazione, ma che ho colto leggendo qua e là tra le righe. 3 Toscana, terra dei popoli e delle culture Lanfranco Binni Coordinatore del progetto “Porto Franco - Toscana, terra dei popoli e delle culture” della Regione Toscana Il progetto “Yacù”, ideato e coordinato da Antonio Di Pietro, in collaborazione con Yacouba Dembelé, s’inserisce a pieno merito all’interno del progetto “Porto Franco – Regione Toscana”. “Porto Franco” è uno strumento di apertura della Toscana alle pratiche interculturali sui terreni del confronto di genere, del confronto tra generazioni, dell’incontro e del confronto tra nativi e migranti. “Toscana, terra dei popoli e delle culture”, promosso e coordinato dalla Regione, si sta oggi evolvendo come progetto di sviluppo delle potenzialità umane. In generale, la “poetica” multidimensionale del progetto “Porto Franco” ricerca l’incontro tra persone, linguaggi, esperienze che normalmente non comunicano. La pratica di attraversamento della complessità, nello spazio e nel tempo, propone una concezione dinamica e in continua trasformazione delle “identità” delle persone e dei territori. Sul tessuto sempre più ordinario e stabile delle attività sviluppate dai quasi 100 “Centri Interculturali” che fanno parte della rete promossa dal progetto, programmate dai tavoli di coordinamento provinciali, si innestano progetti speciali di rilevanza regionale, nazionale e internazionale, promossi direttamente dalla Regione Toscana. È un processo complesso e innovativo, difficile, sperimentale, che richiede una continua rielaborazione delle esperienze necessariamente “diverse”, sulle frontiere più ardue della cultura contemporanea nel suo difficile confronto con la complessità della globalizzazione, delle migrazioni, dei nuovi linguaggi della comunicazione. Eppure l’esperienza dei primi cinque anni di “Porto Franco” ci dice che la Toscana intende operare attivamente su questo terreno, per costruirsi come territorio sempre più consapevole e civile. Per più motivi “Porto Franco” ha voluto sostenere il “Progetto Yacù” e promuovere questa poetica documentazione. 4 Il “Progetto Yacù” Luciana Bigagli Coodinatrice Centri Interculturali Porto Franco - Prato A Prato, l’idea progettuale di un’apertura della Toscana al confronto multiculturale e interculturale, tra generi, generazioni e persone, si è trasformata in un processo reale. Le politiche territoriali pratesi sono centrate sulla convinzione che la diversità sia un valore fondamentale per la crescita della persona e per lo sviluppo di una cittadinanza attiva. Valorizzare le diversità significa sviluppare strategie di conoscenza e di confronto che investono la società nella sua complessa realtà, dalla scuola alla sanità, dall’urbanistica all’arte contemporanea, fino ad arrivare alla quotidianità. In tutta la Toscana, ben duecento Comuni hanno aderito al progetto “Porto Franco” creando più di cento “Centri Interculturali”. A Prato, all’interno di questa rete, sono nati due centri interculturali: la “Casa dei Popoli” di Coiano ed “Il Sicomoro” di Tobbiana. Ambedue stanno sviluppando un’attività progettuale comune, rivolgendo l’ambito d’intervento anche nelle scuole, ai bambini, alle famiglie, agli insegnanti, attraverso incontri, feste, dibattiti, laboratori e formazione. Fra le iniziative dei centri interculturali pratesi, le proposte di Antonio Di Pietro hanno ricevuto molto interesse. I suoi progetti (dall’animazione in piazza ai laboratori musicali nelle scuole, dalla formazione di educatori all’incontro con i genitori) sono stati sempre più richiesti da adulti e bambini. Dopo alcuni anni di queste esperienze, è nata la sfida di proporre il “Progetto Yacù”. Il “Progetto Yacù” è cresciuto con la voglia di far lavorare insieme un Griot dell’Africa e un esperto di cultura ludica e musicale della tradizione europea. Un incontro per dare la possibilità ai bambini di confrontarsi in modo attivo con due “cantastorie metropolitani”: Yacouba Dembelè e Antonio Di Pietro. Il “Progetto Yacù” è nato con l’intenzione di facilitare una comune comprensione, un interesse verso l’incontro di culture e una valorizzazione delle diversità. Possiamo affermare, da quello che abbiamo ascoltato dalla voce dei bambini, dai commenti dei genitori e dalle riflessioni delle insegnanti coinvolte, che gli obiettivi progettuali siano stati ampiamente raggiunti. Ne sono prova le parole e le immagini di questa documentazione che aprono nuovi ed ottimistici spiragli nella direzione di un futuro diverso. 5 Il senso del narrare Giuseppina Cappellini Insegnante - Coordinatrice “Progetto Intercultura” Scuola Elementare Ciliani di Prato L’arrivo nella scuola di alunni provenienti da varie nazioni del mondo ha “costretto” molti fra noi insegnanti ad interrogarsi sul significato di questa presenza e, più in generale, sul senso da dare al vasto concetto d’intercultura in relazione al nostro ruolo di educatori. La dimensione progettuale è divenuta essenziale: seria, condivisa, continuativa nel tempo che comprendesse attività significative, non sporadiche né folcloristiche. La scuola non può accettare l’indifferenza, deve dare l’opportunità ad ognuno di poter emergere con dignità, di poter riconoscere il valore delle proprie origini e di potersi esprimere. Abbiamo ritenuto importante coinvolgere i migranti adulti che potessero “narrare”, raccontare ai nostri alunni quali fossero le loro storie di vita, i loro giochi, le loro favole… Narrare e raccontarsi, ascoltare e ascoltarsi formano l’identità di una persona. Lavorando in questa direzione abbiamo incrociato “Porto Franco”, “Il Sicomoro” e in particolare siamo entrati in contatto con Antonio e Yacù: due narratori-musicisti. La narrazione attraverso parole, suoni, ritmi, sapori ha coinvolto particolarmente i nostri alunni ed è nato un rapporto molto interessante che ha “costretto” anche gli adulti a ripensarsi, a rivedere la propria storia, a valorizzarla per poterla raccontare e per poter rispondere agli interrogativi non banali dei bambini. Dall’altra parte abbiamo assistito a una crescita nei ragazzi italiani del desiderio di conoscenza rispetto a paesi e storie lontane da loro e del mutare l’atteggiamento da semplice curiosità verso Yacù al rispetto ed al riconoscimento di valore. E i numerosi bambini cinesi, pachistani, albanesi presenti nelle classi? Sono stati soprattutto loro a non rimanere indifferenti, si sono lasciati coinvolgere e molto gradualmente hanno preso coraggio, si sono fatti avanti e, se pur fra mille insicurezze, hanno iniziato a raccontarsi anche loro. L’esperienza con Antonio e Yacù ha lasciato, dunque, una “impronta tattile”: l’indifferenza ha lasciato il posto alla “contaminazione” nel senso positivo e originario del termine. E’ stato lasciato un segno in ognuno di noi, ognuno è stato “toccato” se pur a livelli diversi e con diversi effetti. In questo senso credo che le emozioni condivise anche con la scrittrice Emanuela Nava stia a testimoniare la fecondità delle interazioni avvenute e ci dia un’ulteriore spinta per continuare a lavorare ancora in questa direzione. 6 Un Griot incontra i bambini Antonio Di Pietro Referente nazionale LudoCemea – Università di Firenze Questo libretto vuole essere un diario dedicato ai bambini ed alle insegnanti che hanno partecipato al “Progetto Yacù”, una documentazione per chi avrebbe voluto affacciarsi nelle classi per vedere ed ascoltare quanto svolto, una raccolta di giochi, canti e notizie per chi vuole conoscere un frammento della cultura dell’Africa Nera. Un libretto ambizioso, certo, ma forse proprio perché fatto con ostinata grinta e passione, frutto di una progettazione e di un’amicizia cresciuta nell’arco di tre anni. Il primo anno di lavoro è stato centrato sul mettere a confronto due culture musicali: quella dell’Africa Nera e quella europea. In questo caso, una particolare attenzione è stata posta al canto ed alla costruzione di strumenti musicali con materiali di riciclo. Durante il secondo anno lo “sfondo integratore” di riferimento è stato il “ritmo della vita”. In tale direzione, sono stati proposti alcuni rituali che scandiscono il passare del tempo fra Nouna (un villaggio del Burkina Faso) e Prato (la città che ha accolto questo progetto). Il terzo anno è stato caratterizzato dalla dimensione relazionale, a livello ludico e musicale. Sono stati proposti giochi del Burkina Faso e dell’Italia, alcuni simili ed altri assai diversi, così come sono stati insegnati alcuni balli tradizionali. Nel corso di questi anni, i percorsi realizzati hanno avuto una progettazione tematica, ma la vera caratteristica di quanto svolto è relativa al fatto che ogni incontro in ciascuna classe è stato programmato a seguito delle domande che i bambini facevano sull’Africa. Riflessioni che, per forza di cose, hanno offerto una particolare occasione per prendere coscienza anche del proprio quotidiano, per valorizzare alcuni valori e per interessarsi all’altro. Alcune di queste domande sono state riportate, come filo conduttore, nelle pagine seguenti. Il punto di partenza di ogni percorso è stato quello di lavorare sulla decostruzione di stereotipi, come ad esempio che «In Africa si muore di fame, si va vestiti scalzi, ci sono mosche e leoni…». Il secondo passo è stato quello di non creare il “mito del buon selvaggio”, ovvero che «In Africa è tutto più tranquillo, sono tutti onesti, c’è il ritmo nel sangue, si fa sempre festa…». C’è sempre una “via di mezzo” (interculturale?) e questa è stata individuata attraverso giochi, balli, canti, attività espressive, musicali e manuali, facendo interessanti chiacchierate con i bambini, guardando foto e video. Sappiamo bene che “pensare” passa attraverso le emozioni e il corpo. Per questo, abbiamo proposto canti, giochi, balli, l’utilizzo di strumenti musicali, l’assaggio di tè e di 7 “strumenti musicali” del Burkina Faso. Non tutto è stato immediato ed apprezzato allo stesso modo, ma questo sta alla base dell’accettazione delle differenze e della sospensione del giudizio. Dare valore a una persona con la pelle nera (nelle diverse classi che abbiamo incontrato, gli unici contatti che i ragazzi hanno avuto con gli africani è stato quello con i “vù cumprà”) è stato molto incoraggiante per i bambini pakistani, bulgari, cinesi, cileni, brasiliani, ecc. presenti in tutte le scuole coinvolte nel “Progetto Yacù”. Ascoltare i racconti di un Griot, osservare il relativo interesse dei compagni e delle insegnanti verso un paese sconosciuto, per alcuni bambini è stato uno stimolo per raccontarsi. Qualcuno ha raccontato com’è fatta la scuola in Cina, altri hanno ricordato le montagne medio-orientali, qualcuno ha sfoggiato proverbi in dialetto salentino, altri ancora si sono sbilanciati in canti e balli dell’Est-Europa. Tutto ciò ha acquisito un “significato aggiunto” quando i racconti di Yacù sono diventati un motivo per valorizzare anche la cultura d’appartenenza, quella italiana. Sono stati proposti parallelismi fra racconti, giochi e canti della tradizione italiana e quella subsahariana. Un modo per fare multicultura e ricordare le radici dei bambini italiani. Oltre al conoscere una cultura lontana, a fare un’esperienza “altra” ed allo scoprire le proprie tradizioni, in un certo senso, la vera finalità di questo progetto è stata quella di levare la cravatta all’insegnante europeo e mettere la maglietta al musicista africano. In che senso? Riguardiamo il disegno riportato in copertina. Abbiamo un cerchio di bambini che si tengono per mano. Poi, c’è un “omino” calvo con occhiali e cravatta (e sarei io) e un “personaggio nero” con treccine e a petto nudo (che sarebbe Yacù). Io non porto la cravatta e Yacù non è mai stato a petto nudo nelle scuole! Che cosa significa tutto questo? Ripercorriamo la curiosità dei bambini, che delineano il percorso di lettura di questa documentazione, per individuare possibili risposte, per sollevare nuove domande e per abbattere qualche stereotipo. 8 Chissà cos’hai sentito dire sull’Africa. E forse hai voglia di sapere se sono vere certe cose. Mi presento, sono un Griot, mi chiamo Yacouba Dembelé, ma tutti mi chiamano Yacù. Cercherò di rispondere ad alcune domande su come si vive a Nouna, il villaggio del Burkina Faso dove sono nato e cresciuto. In molti paesi africani i genitori danno il nome ai bambini a seconda di quello che prevedono per il loro futuro. Yacouba significa Giacobbe, ma il mio vero nome è Aladarì, cioè “Domandiamo alla divinità”, perché alle divinità è stato affidato il mio destino. 9 Il Burkina Faso è un paese dell’Africa dell’Ovest. La così detta Africa Nera. Per raggiungere l’Africa Nera, dall’Italia bisogna attraversare il deserto del Sahara. Il Sahara visto dall’aereo. 10 Le domande dei bambini sull’Africa Lo sai quanto sono lunghi i coccodrilli? Sono molto lunghi, come una stanza e ci vogliono cinque cavalli per spostare un solo coccodrillo. Ci sono pesciolini nell’acquario? In Africa non c’è molta acqua… a Nouna, il villaggio dove sono nato e cresciuto, non ci sono acquari in casa. L’acqua la prendiamo dal pozzo. Sicuramente in Africa ci sono i leoni! È vero. I leoni vivono nella foresta. E quando una persona lo incontra può fare due cose… o scappare … o suonare la “Danza del leone”. La “Danza del leone” è una musica che fa addormentare i leoni. È vero che si possono incontrare le scimmie? Le scimmie ci sono, però cercano di non farsi vedere. Le scimmie entrano nelle case per rubare le cose da mangiare. Per fortuna ci sono i cani che fanno la guardia… 11 E i serpenti velenosi… ci sono? Certo, infatti i cacciatori quando vanno nella foresta portano sempre con sé una “ pietra nera” che serve per guarire dal morso. La pietra nera va strofinata sul morso del serpente velenoso. Questa pietra assorbe il veleno. Poi, per depurarla dal veleno, la pietra va messa nel latte di mucca e il latte diventa nero. Dove si trova questa pietra nera? Come si fa a trovarla? Anche Indiana Jones la cercava! Nessuno sa dove si trova. La pietra nera si tramanda di generazione in generazione, quella che vendono al mercato è falsa. Al mercato, un medico mostra una pietra nera… ma falsa! Allora, la pietra nera è una magia? La pietra nera è una medicina naturale. Comunque, in Africa ci sono numerose famiglie (etnie) di cacciatori che fanno le magie: sanno far “sparire” e “apparire” le persone. Anche i fabbri, fanno le magie. Possono mangiare il fuoco, camminare sui carboni ardenti… 12 Ci sono le strade, le piazze, le vie? I villaggi sono piccoli e per le strade si cammina a piedi. Tutte le famiglie si conoscono… basta chiedere per trovare qualcuno. Inizio strada di collegamento fra due villaggi. E come ci si sposta da un villaggio all’altro? A piedi, a cavallo, in bicicletta, con il motorino, con l’autobus… ma vicino al deserto serve il cammello. Le strade asfaltate ci sono soltanto nelle grandi città. 13 Com’è fatta una casa? Ci sono diversi tipi di case, moderne e tradizionali. In città sono fatte con mattoni e un tetto di lamiera. Le case dei villaggi sono costruite con mattoni fatti di terra e paglia. Una volta costruita la casa, viene messo l’olio di karité sulle mura esterne per far scivolare la pioggia. E i villaggi vengono costruiti vicino a un pozzo… l’acqua è fonte di vita per tutti i popoli. Casa di una città di oggi. Casa tradizionale dei Peul, etnia di pastori. Villaggio ricostruito con creta paglia e materiali di riciclo. 14 Com’è fatta la cucina? Utilizziamo tre pietre per fare il fuoco. Oggi si costruiscono cucine in fango perché permettono di risparmiare la legna da bruciare. La cucina è fuori dalla casa… del resto, tutta la giornata la passiamo all’aperto. La casa è una stanza unica, con alcuni letti per dormire la notte. Se una casa è fatta da una sola stanza per dormire, dove fate la pipì? (Questa è una domanda che fa arrossire anche chi ha la pelle nera!) La pipì la facciamo come tutti, però in un campo. E se mentre fai pipì arriva un serpente? Meno male che c’è la “pietra nera”! Ma quanto è grande una casa? Una casa è larga come un cerchio formato da venti bambini che si tengono per mano. Dentro c’è un letto e un baule dove mettere le cose più importanti. Le porte non sono chiuse a chiave. I ladri sono rari e poi… non c’è molto da rubare. Casa disegnata dai bambini, dopo aver visto foto e video di Nouna. 15 Come fate a vivere in una casa così piccola? Nelle case si dorme solamente. Gran parte della giornata la passiamo all’aperto… fa molto caldo in Africa. Infatti, i vestiti sono leggeri e… di cotone colorato. In Africa si fanno ancora i colori naturali: il rosso si fa con il gambo del miglio, il nero con il carbone, il blu da una polverina prodotta da un insetto mentre si costruisce la propria casa. Bambine vestite a festa durante l’ultimo giorno di Ramadan (nono mese lunare nel calendario musulmano). Lavoro al telaio. rr gg gg Un modo per rifare stampe su vestiti è quello di procurarsi una patata, ritagliarla creando diverse forme, inzupparla nel colore e utilizzarla come timbro. 16 Giocavi quando eri bambino? Al ritorno da scuola si stava con la propria famiglia e si giocava con tutto ciò che c’era a nostra disposizione. Poi, si aspettava il fresco della sera per poter giocare in gruppo … e tutto iniziava con una conta. Nelle scuole del Burkina Faso, ogni classe è formata da circa ottanta bambini. Bambini che giocano mentre una mamma lava i panni. Funé, sorella di Yacù, insegna una conta di quando lei era bambina. 17 Quali erano i tuoi giochi preferiti? I giochi che preferivo erano tre. Cocò Si formano due file parallele a una distanza di circa 4 metri. Una fila è composta da maschi e l’altra da femmine. Una bambina, estratta a sorte, prende un foulard e lo lancia sopra la fila dei maschi. Il bambino a cui arriva il foulard inizia il gioco. I bambini cantano la prima parte del canto e le femmine continuano con la seconda parte. Il bambino che inizia il gioco, ballando, si avvia verso l’altra fila e sceglie una bambina a cui offrire il foulard. Il gioco riprende con la bambina scelta che va verso la fila che ha di fronte. In questo caso, la prima parte del canto è cantata dalle femmine, mentre la seconda dai maschi. Cocò ricorda molti giochi cantati della tradizione europea, come “Ho scelto la più bella” (Italia), “Mai più saremo buoni” (Francia), “Un mugnaio bello e buono” (Inghilterra)… Cocò Prima parte: Cocò coco dalilà (Caro/a, caro/a ti do fiducia) Seconda parte: Sopana so bailelelelè (Salta, presentati e fai vedere come balli). Un mugnaio bello e buono Un mugnaio bello e buono, sempre solo abitò, macinando ricco diventò. Di grano e di farina, le sue mani riempì, mentre macinava chi rapì? 18 Guenghenì E’ un gioco attraverso il quale si sfidano i villaggi limitrofi. Si gioca dopo un mese dal termine della raccolta. Vincere a questo gioco è di buon auspicio, perché significa aver avuto un ottimo e nutriente raccolto. Per giocarlo si formano due file parallele (ognuna rappresenta un villaggio) con al centro una pelle di iena imbottita d’erba secca, altrimenti si può utilizzare una palla. Al «Via!», due giocatori corrono a prendere la palla. Chi la prende deve portarla nel proprio campo. Il giocatore che non ha la palla si cimenta contro l’avversario, per levargliela di mano e portarla nel proprio campo. Chi porta la palla dalla sua parte fa conquistare un punto alla propria squadra. Vince la squadra che riesce a portare più volte la palla nel proprio campo. Guenghenì Una vera e propria prova di forza. Yokoromansà I giocatori indossano una maschera e tengono in mano due bastoni per rappresentare un animale. Il gioco, cantato e danzato, si sviluppa in tre fasi: A) camminata in cerchio battendo a tempo i legni; B) ballo imitando un animale a quattro zampe; C) ballo-lotta (senza toccarsi) fra due persone che si muovono come l’animale rappresentato dalla propria maschera. Yokoromansa Il testo (impossibile da trascrivere) narra: «È arrivato un animale feroce e bisogna mettersi al riparo (A). Facciamogli vedere come può ballare un animale (B). Gli animali forti si sono incontrati… inizia la lotta! (C)». 19 Oltre a questi quali giochi facevi con i tuoi amici? Si facevano giochi con le pedine sulla sabbia o su un tavoliere; poi, si giocava anche a Awelé e Wali. In alcuni villaggi l’Awelé è un gioco sacro, riservato ai sacerdoti durante il giorno e alle divinità quando è notte. Lo scopo di questo gioco non è proprio eliminare l’altro, ma lasciare all’avversario la possibilità di continuare la sfida. Per giocare occorre muovere i semi da una buchetta all’altra. Chiedere all’avversario di far rivedere la mossa rischia di offenderlo, perché nell’Africa Nera “barare” è quasi inconcepibile. Awelé ricostruito con le scatole delle uova. Il Wali (molto simile a Filetto) si può ricostruire con cartoncino, spiedini e colla. Ceci, fave secche, sassolini, conchiglie sono ottime pedine. 20 … e con i tuoi genitori? Per noi bambini era un “gioco” anche stare accanto agli adulti mentre facevano il tè. Per fare il tè occorre una preparazione ben precisa… e senza utilizzare il cucchiaino! Il tè è la prima cosa che s’inizia a preparare quando arriva un ospite. I bambini vanno a cercare legnetti per accendere il fuoco, la mamma prepara il vassoio, il papà accende il fuoco e prepara il tè. Si preparano due teiere, di cui una piena d’acqua che si mette sul fuoco. Quando bolle l’acqua si aggiunge tè verde (un bicchierino). Poi, si mescola il tè da una teiera all’altra (per eliminare le bolle d’aria e assicurarsi un tè forte) e si aggiunge zucchero di canna (un bicchierino). Quando il papà valuta che il tè è pronto, si inizia ad offrirlo al più anziano. Il primo tè, forte e amaro, lo bevono gli uomini. Il secondo tè, leggero e delicato, spetta alle donne. Il terzo tè, dolce e soave, è riservato ai bambini. Un assaggio che incuriosisce. 21 Il tè africano ha un sapore strano. Può far male? Bere “questo” tè fa molto bene: aiuta anche a digerire il riso, il miglio, il pollo, il mais, il tho (una specie di polenta)… I piatti africani sono “armonici”. Chi cucina mescola i sapori dei vari ingredienti per creare un piatto unico con un sapore uniforme. Proprio come accade in un’orchestra: diversi strumenti musicali (gli ingredienti) suonano per creare un “brano unico” (una pietanza squisita). Preparazione del tho e del pollo. Ce le avete le pentole, i piatti…? Gran parte degli utensili, come pentole, tazze, mestoli, sono fatti con la calebasse: una specie di grande zucca che serve anche a costruire strumenti musicali. Calebasse con miglio (che scivola sulla mano), arachidi, semi di zucca, carrube. 22 Quali strumenti suonate? Il Djambé (tamburo) è lo strumento più conosciuto. Poi c’è la Kora, la Sanza e tanti tipi di sonagli che guardacaso sono costruiti con la calebasse. Kora, appartiene alla famiglia delle arpe-liuto, è costituita da una zucca semisferica ricoperta di pelle di capra attraversata da un manico sul quale sono fissate circa venti corde. Un’orchestra formata da soli strumenti di zucca (calebasse). 23 A parte il Djambé… quali altri strumenti ci sono in Burkina Faso? C’è il Balafon, un antico xilofono in legno, che viene utilizzato per accompagnare la danza e il canto. Il Tamà, è un tamburo che parla la nostra lingua. Con questo strumento, quando ero in un campo a giocare, mio padre mi chiamava per farmi ritornare a casa. Balafon, costruito con tavolette di legno (Yorokò) e zucche come casse di risonanza. Viene suonato con battenti di legno ricoperti di caucciù. Djambé, tamburo a calice in legno (Lenghé) e pelle di capra. Si suona con le mani. Yacù che suona il Tamà. Il Tamà è un piccolo tamburo a clessidra con pelle di pitone. Si tiene sotto un braccio e si suona con un battente a forma di punto interrogativo. 24 E tu cosa suoni? Io suono il flauto (Flé) così come mio nonno. Mio nonno suonava per far ballare le maschere. Io ho imparato a suonare il flauto ascoltandolo per tutta la mia infanzia. E’ così che ho imparato a suonare… è quello che avviene nelle famiglie dei Griot. Suoni altri strumenti? Io e tutti i miei fratelli, già da quando eravamo molto piccoli, si suonavano le prime cose che si trovavano: barattoli, legni… Flé, il “flauto dei pastori” costruito con una canna di fiume (Tambié) senza nodi interni. Bambini di famiglia Griot (Coulibaly) che suonano strumenti di riciclo. Per suonare un ritmo bastano legni ricavati da manici di scopa. 25 Quali strumenti musicali si possono costruire con materiali di riciclo? Quando i colonizzatori portarono in America gli africani, questi non avendo calebasse a disposizione… si ricostruirono i propri strumenti con oggetti di uso quotidiano. Molti strumenti musicali si possono costruire con i materiali di riciclo. Così tanti che è possibile creare una piccola orchestra… e suonare per la «Fiera di Mastr’André»! Zufolo: un tubo forato (l’imboccatura) e un pezzetto di busta di plastica legata ad una estremità. Dialogo fra zufolo e tamburo. … Aramiré Aramiré. Alla Fiera di Mastr’Andrè! (gioco popolare italiano). 26 Come si dice musica nella tua lingua? Può sembrare strano, ma nella mia lingua non esiste la parola musica e neanche danza. Al massimo si dice un qualcosa del tipo “andiamo a suonare” (folì) o “facciamo una danza” (don). Nella musica africana, il ballerino è un direttore d’orchestra. I musicisti suonano interpretando i suoi movimenti. I passi della danza africana s’ispirano alla raccolta dei frutti, al lavoro agricolo… ogni passo è una “frase gestuale”, ha un preciso significato, racconta un momento della vita quotidiana. I balli italiani sono un po’ diversi! Ci si tiene molto per mano… e ci si abbraccia spesso! Braccetto durante la “Vinchia”, ballo collettivo dell’Appennino Tosco-Emiliano. 27 Quindi, durante il giorno andavi a scuola, giocavi, suonavi, aiutavi i tuoi genitori… E prima di andare a letto mio nonno e mia nonna raccontavano a me, ai miei fratelli e ai miei cugini (la mia è una famiglia numerosa!) una storia come questa… Emanuela Nava racconta una storia, mentre Yacù suona la Kora. IL BAMBINO CHE NON SAPEVA RISPETTARE LA IENA (Narrazione di Emanuela Nava) Tanto tempo fa il Padre delle Cose creò gli uomini e gli animali. Agli uomini e agli animali disse: - Andate e riproducetevi. Ai bambini e ai cuccioli disse: - Rispettate tutti: esseri umani e animali. E chi è più vecchio di voi, chiamatelo mamma e papà. Così i bambini, quando incontravano la Iena (la Iena s’incontra sempre per strada), dicevano: «Na Niwulà» che significa «Ciao Mamma». Ma c’era un bambino che non voleva ubbidire e diceva: «Surugù Ifò», che significa «Ciao Iena». Allora un giorno la Iena lo mangiò. I genitori del bambino, non vedendo tornare a casa il figlio, andarono dalla Iena e le chiesero: «Surugù, tu che sai tutto, sai forse dov’è nostro figlio?» Ma la Iena rise e rispose solo con un canto: Kurunì Kurunì Kurunì… Baba Kurunì… Allora i genitori corsero a chiamare i cacciatori. I cacciatori vennero e ammazzarono la Iena. Ma quando tornarono al villaggio, non sembravano contenti. Si recarono sotto il baobab, dove le donne e gli uomini li stavano aspettando. «Abbiamo ucciso la Iena!», esclamarono. «Ditelo ai vostri figli, ma dite loro anche che chi non sa rispettare i Vecchi, non può diventare grande». 28 Che cos’è il baobab? Il baobab è un albero. È molto rispettato, perché fa un frutto (a forma di zucca) commestibile, perché con le foglie si può fare una salsa e perché, anticamente, le cavità nel suo tronco erano utilizzate come case. Il baobab fiorisce dopo la stagione delle piogge (che corrisponde all’estate europea). Questo albero è alto sino a 20 metri e il tronco può raggiungere 8 metri di diametro. Hai mai visto una iena? No, però ne ho sentito parlare. In Africa ci sono molte fiabe con le iene. La iena, nelle storie dell’Africa Nera, ha un ruolo che ricorda quello del lupo. La iena è spesso un’antagonista, è ingorda e punita per la sua crudeltà. In più, nelle favole africane, la iena è destinata alle beffe e agli scherzi. 29 E se una storia non bastava per farvi addormentare? Mio nonno ci cantava una canzone. Una delle mie canzoni preferite era “Dià Nanà” … e il canto dice “La gioia è arrivata”. Dià nanà Dià nani lé Dia oh Dià nanà Dià nani lé Oppure “Denko”, una ninna nanna che le mamme cantano il giorno del battesimo dei figli. Denko, denko (L’importanza del figlio) Ayo korafogna (Parliamone!) Mika fisa denko (Che cosa può essere più importante di un figlio) Ayo kora fogna (Fatemelo vedere!) Sono strane le parole del Burkina Faso! Nell’Africa dell’Ovest, dove io sono nato, ci sono più di 100 lingue… io ne capisco soltanto quattro: Julà, Bambarà, Boabà, Boamù. Nel mio villaggio si parla Julà. In Julà, come si dice “grazie”? Anicé. 30 BIBLIOGRAFIA Di Pietro A., Culture ludiche a confronto: il duello, in: “Educazione interculturale”, Erickson, Trento, vol. 3, n°1, gennaio 2005 Lelli S. - Russo P., Laboratori interculturali. La voce del Griot, Centro Interculturale Comune di Pontassieve - Biblioteca di Pace Firenze - Cultura della Pace, Firenze 2001 Grosléziat C., All’ombra del Baobab. L’Africa Nera in 30 filastrocche, Mondadori, Milano 2003 Leydi R., L’altra musica. Etnomusicologia, Giunti, Firenze 1991 Moccitto M., Mother Africa e i suoi figli ribelli, Teoria, Roma-Napoli 1995 Nava E., La bambina strisce e punti, Salani Gl’istrici, Firenze 2004 Nava E., I neri tamburi, Hablò, Milano 2005 Radin P., Fiabe africane, Einaudi, Torino 1955 Ruiller J., Homme de coleur, Bilboquet, U.E. 1999 Tadjo V., Tamburi parlanti, Giannino Stoppani, Bologna 2005 DISCOGRAFIA Farafina, Faso Denou, Realworld, Olanda 1993 Famille Dembelé, Ayra yo. La danse des jeunes griots, Amiata Records, Italia 1996 Koko du Burkina Faso, Balafon & tambours d’Afrique, Sunset, Francia 1992 FILMOGRAFIA L’autre école, di Joanny Nissi Traoré (Burkina Faso, 1986) Kirikù e la strega Karabà, di Michel Ocelot (Belgio/Francia, 1998) Kirikù e gli animali selavaggi, di Bénédicte Galup e Michel Ocelot (Francia, 2005) 31 Antonio Di Pietro, pedagogista ludico-musicale, si occupa di animazione educativa e di formazione. Ha diverse pubblicazioni al suo attivo (con La meridiana, Carocci, Erickson) e collabora alla rivista “La Vita Scolastica” (Giunti) per l’area delle attività espressive, di cui è coordinatore tecnico. E’ referente nazionale del “LudoCemea - Gruppo di ricerca e azione dei CEMEA italiani”, membro del gruppo “Jeux et Pratiques Ludiques” dei CEMÉA francesi e cultore della materia presso la cattedra di “Metodologia del gioco” all’Università di Firenze. Hanno collaborato – LUCIANA BIGAGLI, coordinatrice Centri Interculturali Porto Franco – Prato. – LANFRANCO BINNI, coordinatore del progetto “Porto Franco - Toscana, terra dei popoli e delle culture” della Regione Toscana. – GIUSEPPINA CAPPELLINI, insegnante elementare, si occupa del coordinamento del “Progetto intercultura” nella Scuola Elementare Ciliani di Prato. – ANTONELLA CASTELNUOVO, collabora con la Federazione italiania CEMEA, docente di Comunicazione Interculturale - Università di Siena. – EMILIANO COTTINI, laureato in Scienze Politiche, attualmente vive in Costa d’Avorio e si occupa di cooperazione internazionale con il Gruppo Abele di Torino. – YACOUBA DEMBELÉ, nato in Burkina Faso e di famiglia Griot. Incaricato dal Ministero della Cultura della Costa d’Avorio, suona in tutto il mondo come rappresentante dell’Africa occidentale – EMANUELA NAVA, scrittrice per l’infanzia ha collaborato alla trasmissione "L’albero azzurro" (Rai Uno) ed ha pubblicato sul tema dell’Africa. 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