n.6
2
The Godfather
Richard Yates
di JACOPO CIRILLO
C
’è un sito che si chiama graziearcazzo.com, una sequela di frasi banali come “a terra c’è sporco” oppure “gli incidenti sarebbe meglio evitarli”. Fa davvero molto ridere ma, come spesso succede, fa anche pensare.
Una frase che per loro dovrebbe essere scontata è “mi piacciono i libri scritti
bene”. Una domanda che per i lettori dovrebbe avere una risposta scontata è
“i libri vi influenzano emotivamente”? Nell’uno e nell’altro caso ci potrebbe
essere qualcosa da ridire ma, invece di farlo noi, ci nascondiamo dietro al
simulacro di Richard Yates qui alla vostra sinistra.
Iniziamo dalla domanda. La risposta ovviamente è sì, “altrimenti che lo
leggo a fare un libro!” (cit.) Ma non è così semplice. Anzitutto perché bisogna partire dallo stato iniziale in cui ci si accinge a leggere: se sei triste e
leggi La compagnia dei Celestini, diventi davvero allegro? Ti senti davvero
alleggerito? Se sei in para e leggi Jacques il fatalista, sei davvero rassicurato?
E, domanda più difficile, se sei felice e ti cucchi Revolutionary road, proprio
di Yates, bisogna assicurare gli infissi per evitare tuffi fuori programma?
Revolutionary road è un libro tristissimo. Parla di una famiglia a pezzi e di
una coppia che non fa altro che respingersi. Mamma cara. Però è scritto benissimo – e anche tradotto benissimo, bisogna dirlo, grazie minimum fax.
A questo punto, se seguiamo le condizioni di verità delle due frasi iniziali,
la scenetta sarebbe più o meno così: trallallà, sono preso benissimo e mi
leggo un libro che è scritto bene, dunque mi piacerà di sicuro. Ehi, ma, è
davvero triste, mi influenza emotivamente e, tutto ad un tratto, la mia presuria bene (cfr. Carlo Pastore, Punizioni!, Finzioni n.5) svanisce in un lago
di dolore. Ma allora non mi è piaciuto. Ma è scritto benissimo. Ma mi ha
intristito. Ma se una cosa mi intristisce, dunque mi peggiora, e mi piace?
Questa drammatizzazione è un po’ esagerata, lo ammetto, tuttavia l’idea è
che non ci sono verità assolute in letteratura, alla faccia dei vecchi tromboni
esegeti. Non è detto che un grande libro debba influenzare emotivamente
per essere degno di questo nome come non è detto che debba essere scritto
bene per piacere. Revolutionary road è triste e scritto benissimo ma queste
due categorie non sono sullo stesso piano dunque non si pestano i piedi.
Io l’ho amato per la scrittura e la sua forza emotiva ma non mi ha intristito
affatto. E questo non toglie nulla alla sua grandezza. Qualcuno può averlo
odiato o amato per come l’ha fatto sentire all’ultima pagina, senza curarsi
del periodare limpido e sempre lucido.
Qualcun altro, poi, può aver goduto di entrambe le cose. Dunque gli è
piaciuto? Beh, grazie ar cazzo.
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Sommario
La citazione del mese
Beaten Beatitude
Nobel minori
Libri (quasi) mai letti
Letterature Involontarie
Punizioni! Biografie Edulcorate
Le città letterarie
Viaggi
5
6
7
9
10
12
13
14
16
Pillole di Scienza
Oh, Scena!
La lettera che muore
Mattoni
I ferri del mestiere
La posta dei lettori
Ghost World
Iperboloser
Contributi da
17
18
19
20
21
22
24
25
26
Editoriale
Questo è un numero di conferme.
Mattoni di Filippo Pennacchio e Libri (quasi) (mai)
letti di Maria Giovanna Ziccardi superano il fatidico
scoglio della seconda puntata, diventando a tutti gli
effetti voci importanti di Finzioni che, come sempre, si
permette di pesare i libri con il bilancino e, addirittura,
non leggerli ma usarli per pareggiare le gambe dei tavoli.
simulacro.
C’è Raymond Carver e Pirandello, c’è una meravigliosa graphic novel con un re scimmia e un bambino American born Chinese, c’è Yates e una citazione del mese
talmente difficile che, a leggere bene, la spiegazione non
c’entra assolutamente nulla.
Simone Rossi se la fa e se la scrive nelle città letterarie,
parlando del suo libro e della sua città preferita che è chi non la conosce?! - Lalibela.
Benvenuti su Finzioni, dunque. Il numero sei.
ps Fabio Paris stavolta parla di cacca profumata. Tenete Finzioni nel bagno, vi terrà compagnia. E lasciatelo
lì, per quelli che verranno dopo di voi.
Poi c’è la nuova rubrica a tutta riflessione di Michele
Marcon, La lettera che muore, in cui si parla della difficoltà di noi giovani con gli occhiali nel dire parole come
La Redazione
4
I
l mondo della forma soggiacente è un oggetto di
discussione insolito perché, in realtà, esso è una
modalità della discussione stessa. […] Quando si cerca
di analizzare queste modalità di discussione ci si trova
di fronte a quello che si potrebbe definire un problema
di piattaforma. L’unica piattaforma da cui si può partire è la modalità stessa.
Robert M. Pirsig
La citazione del mese
Lo Zen e l’arte della manutenzione della
motocicletta di JACOPO CIRILLO
U
na citazione pesissima questo mese, non c’è che dire.
Robert Pirsig, oltre a manutenere
la sua motocicletta con arte e con
Zen, si faceva di questi viaggi. Ma
l’argomento è interessante: che
succede quando l’oggetto di discussione è in realtà una modalità
della discussione stessa. Direte:
ma quando cacchio può capitare
una roba del genere? È come dire
che invece di cucinare un piatto
di bucatini all’abbacchio cucinassi
il libro di ricette corrispondente.
Dirò: l’esempio sembra una puttanata (soprattutto per il miscuglio
di due piatti tipici romani che di
solito sono separati) ma in realtà è
concettualmente esatto: io applico
a una modalità – il libro di ricette
che, appunto, spiega il modo per
cucinare – la modalità stessa. Lo
cucino.
Che mal di testa! E che indigestione! Ma per la letteratura è illuminante. Premessa: una buona
parte dei letterati ritiene che la
critica letteraria (o, diremo noi, i
discorsi sui libri) non sia anch’essa letteratura ma solo – appunto –
accessorio. Che non abbia dignità
propria ma solo riflessa. E che men
che mai possa essere considerata
un genere letterario. Probabilmente, come dice il vecchio Bob, è un
problema di piattaforma. Parlare
di recensioni/critiche/discorsi in
quanto genere letterario significa
attribuire a una modalità di discussione lo statuto di oggetto di
discussione. Ai migliori chef parrebbe una pazzia ma a noi, onnivori, sembra essere la cosa più bella
della letteratura: la sua continuità,
la sua monoplanarità.
Se il valore dei libri è determinato dai discorsi dei lettori e non
da vecchi tromboni esegeti, allora
i romanzi, i commenti ai romanzi,
anche le puttanate dette sui romanzi sono tutti sullo stesso piano, sulla stessa piattaforma. Non
si accavallano ma rinviano uno
all’altro, costantemente. Pensiamo
a un dizionario: non so che significa la parola “abbacchio”. Vado a
5
vedere e imparo che l’abbacchio è
un agnello da latte macellato. Ma
non so che significa la parola “latte”. Vado a vedere e scopro che è un
liquido bianco opaco prodotto dalla secrezione eccetera. E che vuol
dire “secrezione”? E “membrana”? E “organismo”?[1] Ecco come,
in linea teorica, il dizionario non
spiega nulla ma, semplicemente,
rinvia. Collega una parola con altre
dieci, venti, cinquanta e ognuna
di queste con altrettante, creando
una rete senza centro e senza scalini: tutta sullo stesso piano. Nessun
termine è più sburo degli altri.
E allora, fateci godere di questa
meravigliosa proprietà! La letteratura, i discorsi sulla letteratura, i
generi letterari, la critica, la recensione, la puttanata, sono tutte modalità e oggetti della discussione
culturale.
[1]
Chi scrive assicura i lettori di conoscere perfettamente il significato di
questi vocaboli.
Beaten Beatitude
Sulla strada
di JACOPO DONATI
K
erouac tagliò dei rotoli di
carta da lucido perché entrassero nella sua Underwood
portatile, li incollò uno all’altro e
cominciò a scrivere. Nessun margine, nessuna interlinea, un unico lunghissimo paragrafo. C’è da
immaginare la faccia dell’editore
quando si vide recapitare quel rotolo illeggibile lungo più di 36 metri. Ora, quel rotolo, fa il giro dei
musei e delle librerie perché è un
libro di culto della letteratura americana. Sulla strada fu rimaneggiato, censurato, distillato, perché
non urtasse troppo il pubblico, e la
versione sugli scaffali delle librerie
non è, purtroppo, quella originale.
Sono serviti 50 anni perché la Vikings pubblicasse il vero contenuto
del rotolo.
Kerouac divenne famoso con
Sulla strada e con lui pure i beat.
Fu una genesi involontaria del
movimento e può sembrare una
scelta strana, questa. C’è chi probabilmente avrebbe piazzato Sulla
strada all’inizio, nel primo articolo, mentre io lo tengo per ultimo.
In fin dei conti è da lì che è scoppiata la beat generation, perché
non parlarne subito? Perché Sulla
strada descrive ciò che è avvenuto
prima della scoperta dei beat da
parte della gente e perché, se non
si conosce qualcosa dei personaggi
che animano le pagine di questo libro, tutto risulterà inevitabilmente
meno eccitante.
Ad essere sinceri, Sulla strada
non lanciò solo Kerouac dandogli una fama inaspettata, né diede
semplicemente il via ai beat: riuscì
a racchiuderli tutti come fosse una
capsula del tempo e obbligò i media a fiutare finalmente il cambiamento che, di lì a dieci anni, avrebbe rivoluzionato prima gli Stati
Uniti e poi il mondo.
Sulla strada parla del viaggio di
Kerouac (Sal Paradiso) e del suo incontro con Neal Cassidy (Dean Moriarty). E di quello con Ginsberg. E
di quello con Burroughs e tutti gli
altri beat. Kerouac rimbalza da una
costa all’altra del continente, in
un viaggio verso nessun posto, in
giro per gli Stati Uniti, un viaggio
che più che attraversare Stati attraversa persone. Forse anche una
metafora della vita? Questo non lo
so, ma di sicuro trasuda vita. Nel
jazz, nella follia di Neal Cassidy e
nelle conversazioni a lume di benzedrina, c’è solo che vita. Nei lavori
umili e nelle storie dei compagni di
viaggio, solo vita. Esperienza, frenesia e amore per quella vita che
Kerouac definisce sacra e preziosa
in ogni momento.
I beat sono quelli che la scienza
chiamerebbe “forme di passaggio”.
Sono americani post-bellici, con la
barba fatta e i capelli tenuti corti, la
camicia bianca infilata nei pantaloni. Dentro, però, dentro al cranio
o in qualche ventricolo cardiaco,
sono gli hippie dai capelli lunghi
e dai sogni ancor più lunghi. Sulla
strada, a conti fatti, è un blocco di
roccia che la biblioteca vi fornisce
e in cui voi, pennello e piccone alla
mano, liberate i fossili dai sedimenti polverosi. I beat li ritroverete
6
tutti lì dentro, immobili come insetti nell’ambra, eppure così vivi da
fare impressione. Questo è il merito
di Sulla strada. Non è il capolavoro
di Kerouac, come molti vogliono
far credere, ma l’album fotografico
della beat generation. Le pagine di
Sulla strada possono essere considerate delle Polaroid beat. Ogni
capitolo te li mostra così com’erano
60 anni fa, immersi nelle loro vite e
attorniati dalle persone che incontravano tutti i giorni. Burroughs
non aveva ancora ucciso sua moglie e di sicuro neppure sospettava
l’avrebbe fatto, Ginsberg ancora
non aveva pubblicato Urlo e altre
poesie e nessuno di loro poteva immaginare quanto grandi sarebbero
diventati i loro nomi. Erano tutti
vivi, all’epoca, e nessuno di loro
aveva dovuto scendere a compromessi con la società che li acclamava. Erano ancora perfettamente
liberi, e non solo sulla carta.
“Perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli
che sono pazzi di vita, pazzi per
parlare, pazzi per essere salvati,
vogliosi di ogni cosa allo stesso
tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune,
ma bruciano, bruciano, bruciano,
come favolosi gialli fuochi artificiali che si spandono come ragni
attraverso le stelle e nel mezzo si
vede il bagliore azzurro centrale
dell’esplosione e tutti fanno Oooohhh!” (Sulla strada, capitolo I)
I beat erano vita e non desideravano altro che vita.
Nobel Minori
“La chiesa della solitudine”
di M.G. Deledda
M
aria Grazia Deledda è un
Nobel caduto nell’oblio:
snobbata nelle università e nei licei, è oggi sconosciuta alla maggior
parte dei giovani lettori. Aprite la
vostra letteratura italiana, quella
che usavate a scuola, e ritenetevi
di VIVIANA LISANTI
fortunati a trovare qualche paginetta che la riguarda. Nella mia ad
esempio, (Leggere il mondo di Segre
e Martignoni), il “profilo letterario”
della scrittrice sarda è inquadrato nella più ampia cornice della
“letteratura regionale”, e consta di
7
pochi miseri paragrafi e un brano
antologizzato tratto da Canne al
vento (Mondadori, 238 p., € 8.40).
Cercando qualche altro riferimento, con l’aiuto dell’indice dei nomi,
ho ritrovato la povera Deledda citata a proposito dello sbeffeggio
anni di educazione ufficiale, la sua intera cultura è frutto di uno studio da autodidatta.
confezionato a suo danno da Luigi Pirandello, collega
e amico, o così almeno credeva Grazia, in Suo marito
(Newton & Compton, 224 p., € 3), romanzo del 1911 che
ridicolizza la figura di un’artista, ricalcata appunto su
quella della scrittrice, che cerca di affermarsi nell’ambiente romano con l’aiuto del marito/manager.
La chiesa della solitudine (Mondadori, 224 p., € 6,20) è
l’ultimo romanzo pubblicato in vita e dà anche il nome
alla chiesetta costruita in sua memoria a Nuoro, dove
oggi si trova la tomba. Curiosamente la protagonista
del romanzo, Maria Concezione, è una giovane donna
ammalata di cancro al seno, male che portò la stessa
scrittrice alla morte, avvenuta nel 1936.
Ingiusto destino per una donna che è riuscita ad abbattere molte barriere nella sua vita pur di compiere
l’unico destino per lei possibile, quello di scrivere, e che
vanta di essere la seconda donna al mondo e l’unica italiana fino ad oggi, insignita del Nobel per la letteratura
nel 1926.
La vicenda di Maria Concezione è talmente tragica da poter perfino essere ridicola perché richiede la
comprensione di un mondo talmente lontano e arcaico da sembrare assurdo. La prima cosa che sappiamo
di Maria Concezione è che durante un’operazione per
estirpare un cancro al seno, le è stata asportata una
mammella: questo fatto costituisce un motivo di sofferenza fisica e psicologica per la donna, e al tempo stesso
di profonda vergogna e senso di colpa nei confronti del
piccolo paesino sardo in cui vive. Concezione è quindi succube di una credenza primitiva che vede nella
malattia una colpa, una sorta di punizione divina per
qualche misfatto compiuto. Il misfatto in questione è
rintracciato dalla donna in un episodio dell’adolescenza, quando soleva intrattenersi fra i cespugli con un
giovanotto, senza che tra i due vi fosse un fidanzamento ufficiale. Già di per sé un comportamento che può
compromettere a vita la credibilità di una giovane, si
aggiunge l’aggravante: il giovanotto è un delinquente,
è arrestato e in carcere si suicida.
Il percorso letterario della Deledda è costellato di
ostacoli che, allora più che oggi, potevano essere insormontabili: innanzitutto l’essere donna a fine ‘800
comportava essere automaticamente esclusa dalla possibilità di ricevere un’educazione completa; in secondo
luogo non bisogna dimenticare la barriera linguistica.
Deledda, infatti, nasce a Nuoro nel 1871 e quindi parla
e scrive in sardo, che non è un dialetto, ma una vera e
propria lingua. Lo sforzo di aver imparato una lingua
straniera, l’italiano, e servendosi di questa aver scritto
più di 30 romanzi e 400 racconti, è ancora più ragguardevole se si prende in considerazione che, a parte tre
Il cancro quindi giunge a ricordare e rinvigorire il
senso di colpa che ha da sempre attanagliato la donna, la quale ora sembra avere una testimonianza in
più, visibile sul proprio corpo in quella terribile menomazione, della macchia che sporca la sua coscienza e
che è necessario lavare con la sofferenza.. Decide allora di sacrificare ciò che più le è caro, Aroldo, il quale,
all’oscuro dei segreti tormenti dell’amata, quasi impazzisce cercando una spiegazione all’improvviso rifiuto.
Concezione, vittima di un passato che torna inesorabile si ritira a vita nella casa che condivide con la madre,
adiacente ad un’austera e spoglia chiesa, dove l’unica
consolazione sembra essere la statuetta in legno della
Madonnina, nella sua nicchia azzurra, pronta a sfidare
l’oscurità della più sconfinata solitudine.
La filosofia che sottende a questo romanzo, che fondamentalmente tratta di una vicenda interiore, un Delitto e Castigo sardo, è spietata: nella battaglia contro
il fato l’uomo ne esce sempre sconfitto; siamo “come
canne al vento”, meglio piegarsi e arginare i danni, che
combattere e rischiare di spezzarci.
8
Libri (quasi) mai letti
“Odissea” di Omero
di MARIA GIOVANNA ZICCARDI
S
e è vero che “la letteratura è anche i discorsi che si fanno sui
libri”, la letteratura, scusate, a volte
crea paradossi.
Il caso: l’Odissea. L’Odissea non è
più un libro, è nient’altro che letteratura. È un enorme esercizio intellettuale snocciolato dalla cattedra
al popolo. L’eterno (e un po’ sterile)
dilemma del sapere a prezzo di supermercato. Ma non perdiamoci:
io vorrei soltanto mettere a fuoco
questo: dell’Odissea tutti sanno,
tutti parlano, e pochi, pochissimi,
se la sono letta davvero. Per intero,
per piacere. Io di lei che ne ho fatto?
Ho imparato a memoria il prologo
in prima liceo. Perfino la traduzione me l’hanno data già pronta
per essere ben compitata. Qualche
anno dopo ho letto una bella lettura di Citati sul perché, il per come e
il per dove delle peripezie di Ulisse.
Senza mai partirci, con Ulisse.
Insomma, vittima anch’io di una
secolare congiura: sverginare
l’Odissea. La spiegazione che diventa dispersione, vivisezione. E
distilla la bellezza in teoria. Non
è certo con la bella figura davanti
alla Prof che fai tua una storia. E
del resto, chi ce lo fa fare di andare a leggerci un presunto mattone
di cui sembra che sappiamo più di
Omero stesso (e i più preparati aggiungono: “che non si sa nemmeno
se sia esistito”)? Sì, appunto, siamo
preparati. Nessuno può dire di non
conoscere l’Odissea esattamente
come nessuno può dire di conoscerla “dal vivo”.
Vi pare che ci stiano privando di
poco? E che in fondo sarebbe noioso-difficile-alienante leggercela
tutta, da soli? E’ sempre la solita
storia del “non abbiamo gli strumenti per”. Può essere, ma perché
non provarci… Magari in una bella
traduzione con qualche nota qua
e là, tanto per frugare nel backstage; o semplicemente tenendola
sul comodino come un pacchetto
di caramelle, sfogliandola come si
sfogliano le poesie di Montale.
Il fatto è che Omero (o chi per lui) ci
lascia un esperimento narrativo da
brivido, che merita la pienezza di
una lettura solitaria, abbandonata,
im-mediata, gratuita, non spossata
dai chiarimenti. Il sottotesto, per i
capolavori, è soltanto un orpello.
La complessità dell’intreccio e dei
caratteri è tutta orchestrata dalle
parole, le vere registe dell’opera.
Le parole, nella lingua greca, sono
capaci di sprigionare una potenza
di significato tale da trasformarsi
in microstorie dentro la storia. E
nell’Odissea le vedi danzare insieme, in movimento come onde,
combinando luci e specchi, intrecciando enigmi e trabocchetti,
celando sentimenti come segreti,
perché l’ombra a volte è più importante della luce. Un aggettivo è
sempre di più di se stesso; aggiunge, precisa, ritorna, rimanda, ricorda, colora, racconta, tesse l’immagine e crea l’atmosfera. Atmosfere
sempre calibrate su ogni singola
fase di questa spettacolare partita
col destino, il Fato, che qualcosa di
più del capriccio degli dei.
9
Omero combina poesia e prosa
insieme. E l’intero delle due è più
della loro somma; è musica, affresco, forza espressiva incontenibile
eppure sempre in equilibrio con
l’insieme. Vale quel piccolo sforzo
che, causa le nostre (più o meno
granitiche) abitudini narrative, il
testo ci chiede.
Leggiamola, l’Odissea, dopodiché
la filologia, la bibliografia, Citati e
la Prof, ci rendono ottimi servizi.
Però leggiamola. Senza intimorirci, ma rivendicando il diritto alla
sua bellezza. Che è poi il diritto di
dire “mi fa schifo”.
Letterature
involontarie
Dai Plasmon a Gateshead. I misteri calcisitici
del Fullerene C60
di EDOARDO LUCATTI
A
l giornalismo sportivo piace
dire che “la palla è rotonda”.
Addetti, nerd e maniaci sanno però
che la palla non è affatto rotonda.
Nella sua forma classica, piuttosto,
si tratta di un solido archimedeo
composto da 12 pentagoni e 20 esagoni, disposti in modo che ciascun
pentagono sia circondato da 5 esagoni. Pare che il colpo di genio sia
venuto al fullerene C60, una molecola composta da 60 atomi di carbonio sistemati proprio in questo
modo. Modo curioso, a ben vedere:
in sua virtù qualcosa di squadrato,
di massimamente squadrato, rotola e, soprattutto, rotola un po’ dove
gli pare, finendo davanti ai piedi
delle persone più diverse.
nuamente: “Beviti quattro whiskey,
vai in campo e spaccali tutti” dice,
ma Pippo apre i suoi grandi occhioni, non capisce assolutamente
nulla e guardando un punto imprecisato nel muro color bresaola
mangia un altro plasmon. “Cazzo”
pensa suo padre. Il problema è che
Pippo sta cercando di rilassarsi,
perché fra poco gioca e la tensione
lo divora. Soffre di insonnia, sapete? Non ha altra preoccupazione al
mondo se non quella di giocare a
calcio, eppure soffre di insonnia. A
36 anni, Pippo segna ancora e per
festeggiare aggiunge un po’ di pomodoro alla pasta in bianco. ‘Vaffanculo’, a conti fatti, mi sembra il
minimo.
Così, una volta fermatasi, la palla
guarda in su e, se tutto è ‘pallosamente’ andato come doveva ‘pallosamente’ andare, vede Filippo
Inzaghi. Quest’uomo, oltre ad aver
realizzato una quantità elefantiaca
di goal, incarna le virtù dell’atleta
perfetto ed esprime nella vita privata tutta la noia della quale solo in
campo trova il modo di farsi perdonare. La sua dieta è lageristica: bresaola scondita, petto di pollo, pasta
in bianco e biscottini plasmon. Suo
padre lo prende per il culo conti-
Se qualcosa va storto, invece,
la palla si ferma davanti a piedi
sporchi di vomito e se guarda in su
vede Paul Gascoigne, il talento inglese di Gateshead, postaccio tanto
umido che non si riesce mai a capire dove finisca la pioggia e dove
cominci la birra. Gemma assoluta
del calcio britannico, Paul Gazza
Gascoigne, che in virtù dell’ingiustizia cosmica morirà sicuramente
nel giro dei prossimi cinque anni,
ha un solo problema: confonde l’alcol con l’aria e quindi beve sempre.
10
Anche prima di giocare? Qualcuno
pensava di no, che questo – cazzo –
almeno questo non fosse possibile.
Nel 1992, con la maglia della Lazio,
segna un goal di una bellezza ridicola, scartando settecentoventisei
avversari in un nulla di tempo.
Dopo un po’ dirà: “Ah ah ah! Ero
ubriaco fradicio!”. Vero? Falso?
Chissà. Nel frattempo entra ed esce
da stati comatosi, lo ricoverano con
la stessa frequenza con cui voi altri
andate a cacare e lo arrestano ancora più spesso. Ma quel goal, quel
goal incredibile, anche a distanza
di anni, il vecchio Gazza non se lo
scorda. Qualche mese fa, cacciato
a pedate da un pronto soccorso in
cui era arrivato schiumando chissà cosa dalla
bocca, finisce addosso
a un suo vecchio fan.
Questo lo riconosce e gli
dice: “Cristo, ma tu sei
Gazza. Quella volta con
la Lazio hai fatto un goal
impressionante!”. Gazza
sorride, perché ok che
beve ma è pur sempre un
gran simpaticone, e dice:
“Me lo ricordo come fosse ieri, ragazzo. Giocavamo contro il Napoli di
Maradona. Fu una cosa
memorabile”.
Due cosette, gente.
Due cosette veloci veloci.
La prima: quando Gazza fece quel goal, Maradona non giocava più nel
Napoli. La seconda: la
squadra a cui lo fece non
era nemmeno il Napoli.
Era il Pescara. E a Pescara c’è parecchia gente
che ve lo può confermare. “Ah ah ah! Ero ubriaco fradicio!” dice Gazza.
Chissà. A Gazza piacciono i goal e i giocatori che
ne fanno tanti: un giorno
va da Beppe Signori, suo
minuto e prolifico compagno di squadra, e gli
chiede: “Ma come fai a segnare così
tanto con quel fisico di merda che ti
ritrovi?”. Poi farnetica qualcosa su
un paio di squinzie che lo aspettano in qualche bettola, abbandona
la squadra senza dire nulla e si ripresenta il giorno dopo, a meno di
quattro ora da una partita di serie
A, mentre tutti i compagni sono a
tavola con il mister. Siamo in un ristorante di Roma, e Gazza ci entra
nudo. “Eccomi mister – dice chiappe all’aria in mezzo ai camerieri
– Mi hanno detto che mi stava cercando così sono venuto subito, così
com’ero”. Poi sparisce di nuovo, si
fa male e finisce in squadre sempre
più inutili, bevendo perfino tra un
tempo e l’altro. A un allenamento,
un giorno, libera in campo un tacchino con un fischietto scocciato
sul becco e comincia a corrergli
dietro. Durante la partita successiva ruba il cartellino giallo all’arbitro e prima di ridarglielo fa finta
di ammonirlo: uno dei due guardalinee comincia a piangere dalle
risate. Nella stessa partita, o forse
in un’altra, l’arbitro alza il braccio
per fischiare una punizione, lui lo
raggiunge da dietro, sporge la testa
e gli annusa l’ascella. Cose così.
Nel 2007 viene operato d’urgenza
per un’ulcera perforante, la moglie
lo lascia e lo riprende. All’inizio di
quest’anno, però, è lui a piantarla:
gli ha imposto di scegliere fra lei e
gli Iron Maiden, e a Gazza piacciono molto gli Iron Maiden. Così arriva a Budapest per seguire la band
ma si chiude in albergo e ci rimane
per 48 ore, da solo, a bere, finché
qualcuno non sfonda la porta o lo
estrae mezzo morto. “Sono in Francia, vero?” chiede Gazza. Un’altra
possibilità, gli serve un’altra possibilità. Invitato a far parte dello staff
tecnico del Newcastle, Gazza sale
sul treno e il 4 giugno, a Newcastle
- che diamine! - ci arriva davvero.
Solo che è in condizioni pietose e
frana addosso a un uomo, che riesce a reggerlo a malapena. “Chi
sei?” gli chiede. “Che cazzo ne so?”
risponde Gazza “So solo che al Napoli ho fatto un goal assurdo”.
Vorrei dirvi questo: non è importante che vi interessi il calcio. A
quelli a cui piace Inzaghi, del resto,
non può piacere “il calcio”. Ma pure
per godersi Gascoigne non è necessario amare il calcio. È qualcosa
di diverso, qualcosa che oscilla
nell’aria come una fetta di bresaola caduta nella schiuma di una
Guinness, vaga fluttuanza di sorti,
sfere e gomiti. Per fortuna c’è Youtube, miei cari. Cercatevi Inghilterra Scozia, Campionati Europei del
1996. E sappiate che quella cosa lì,
quella dannata meraviglia di Gazza, è successa davvero.
11
Verboso
metro
20
15
10
5
0
Ritaglia il verb osomet ro
e attaccalo sulla schien a
del tuo amico verbos o
Punizioni!
Verboso
metro
L’eloquio deloquia: lo si
parametri, dunque, in
funzione di soglie di
verbosità che ne dipanino
l’evolvere, l’involvere e
l’avvolvere.
Da 0 a 5 espressioni
verbose.
Latenza del verboso. Il
singolare riluce nel
pauperismo dei villici,
ramingo dinoterio prosodico
scampato all’impudente
glaciarsi del dire.
Da 5 a 10 espressioni
verbose.
Brezza verbosa. Distendesi
l’eloquio lungo plaghe
d’orpelli musabili,
muscovite di senso che
rattiene la voce in
gibigiana.
Da 10 a 15 espressioni
verbose.
Telluria verbosa. Ciacchero
clivo del sema che
incerona l’abisso a meta,
liberando legioni d’una
lutulenza che ‘l pudore
tenea per ascosa.
Da 15 a 20 espressioni
verbose.
Verbocrazia. Tripudio
fulgente della lingua: di
fuètto s’agguizzano i
nervi palatali; ne
promana un sentire che
mal s’addice al fucato
anelito del frasaio e ben
si predica, invece, d’un
dire-miele la cui voce per ovunque - si dissipa.
Più di 20 espressioni
verbose.
Verborrimìa. Il nulla
s’attarda nel discorso e
ne fa vano asfodelo.
“Ho 13 anni e voglio morire” di Ohthilie Bailly
di MICHELE MARCON
S
tavolta mi tocca la punizione.
Autoinflitta, tra l’altro. Ma diciamo pure che mi è capitata un po’
per caso quando mi sono ritrovato
tra le mani un romanzo dal titolo
quanto mai agghiacciante: Ho 13
anni e voglio morire. Sottotitolo:
L’esperienza dolorosa di un’adolescente che sceglie di rinunciare alla
vita. In copertina una ragazzina
con gli occhi tristi e i capelli rossi, una che, coi tempi che corrono,
molto probabilmente sarebbe una
“emo”.
Premessa. Qualche mese fa mio
fratello si è diplomato con una tesina sul suicidio e questo libro di
tale Othilie Bailly, autrice francese
avvezza a trattare i problemi adolescenziali, era uno dei suoi testi di
riferimento. (?!) Badate bene, mio
fratello non ha letto né Foscolo né
Schopenhauer, e non c’è da meravigliarsi che sia uscito giusto giusto
col 61. E non c’è neppure da meravigliarsi che il mio approccio iniziale alla lettura fosse un tantino
diffidente.
Per prima cosa scopro che è un
libro del ’96, e mi dico: “Cavolo, anche io nel ’96 avevo 13 anni…”. Proseguo la lettura e inizio a conoscere
meglio la piccola Agnès, depressa
perché frequenta un “istituto” e
non una “scuola”. Mmm… anche
io alle medie ero in un istituto: Istituto Salesiano Enrico di Sardagna.
Ma che diavolo…
12
E qualche pagina più tardi mi
tocca la rivelazione più dolorosa. I
genitori di Agnès vivono una profonda e orribile crisi coniugale. Anche i miei, proprio in quel periodo,
decisero di separarsi. Un brivido.
Identificazione totale. Tranne per
il fatto che io non ero e non sono
mai stato un emo. Resto comunque
spiazzato.
Dopo lo scetticismo iniziale ho
proseguito la lettura tutto d’un
fiato scoprendo che Agnès è una
ragazza forte e con le spalle larghe, rimanendo sconcertato una
volta giunto al finale aperto. Ma si
suicida o no? Per il benessere della
mia salute emotiva mi sono detto che Agnès DEVE essere ancora
viva. Agnès è una tipa tosta, mica
come tutti quegli emo rammolliti
dei giorni nostri. Però la domanda
ha continuato ad assillarmi qualche giorno, tanto che sono andato a
controllare i tassi di suicidio adolescenziale e di divorzio, fonte ISTAT,
dal 1996 a oggi. C’è stata una crescita del 10% dei suicidi, mentre i
divorzi sono aumentati addirittura
dell’80%. Ma, considerando che il
90% dei suicidi tra gli adolescenti
è causato da traumi familiari, ho
tirato un sospiro di sollievo. Facendo la proporzione, i suicidi in rapporto ai divorzi sono nettamente
diminuiti. Mi piace pensare che il
libro della Bailly abbia influito positivamente sugli andamenti percentuali.
iniezione di fiducia. E ora voi, genitori. Se vi è balenata
in mente l’idea di separarvi, pensateci bene… sono solo
dei bambini, è una tragedia che già a 13 anni siano portati ed escludere il futuro dalle loro vite.
A questo punto, siccome mi sono inflitto una punizione che si è rivelata ben più dura della lettura di un
brutto libro, perché ha riaperto ferite che credevo cicatrizzate ormai da tempo, lasciate che mi sfoghi con
un bel pistolotto finale. Non voglio dire che i ragazzi
che superano il divorzio dei genitori e l’idea del suicidio siano meglio degli altri, ma è evidente che si cresce
superando gli ostacoli della vita, e superare indenni
ostacoli di questo calibro non può che essere una bella
Detto questo, come fossi il parroco che ha appena
pronunciato il predicozzo, non mi resta che chiudere
salutando tutti con un bell’Amen.
Biografie edulcorate
Raymond Carver
di ANDREA MEREGALLI
C
arver sì. Carver no. Carver
boh. Alla fine sì. Raymond
Carver. Un tipo spesso. Ma perché
tutte queste remore? Non è forse,
il Carver, un maestro della shortstory? Un precursore della teoria
dell’omissione? Uno che ha frequentato, proprio come me, corsi
di scrittura? Non è forse un poeta,
perdiana? Sì! Lo è! Lo è, dannazione! E si direbbe anche un fottuto
alcolizzato cronico! Ma non è facile
come sembra. Il Carver, intendo.
Una biografia del Raymond. Un po’
Bukowski un po’ Hemingway un
po’ Paul Gascoigne.
Nasce nel nord, stato di Washington, è il 1938. Vent’anni dopo
è già sposato, ha una figlia e ha
all’attivo molteplici traslochi. Con
la giovane moglie si trasferisce in
California. Poi tornano nel nord,
dove Raymond mette in bolla la
consorte per la seconda volta e
attacca con i corsi di scrittura creativa. E finalmente. Arriva il mentore. Tutti voi stavate aspettando
un mentore. Io lo aspetto tuttora.
John Gardner. Chi? John Gardner.
Ah, certo, John. Il professore che
inizia il buon Raymond ai piaceri
della letteratura seria, con fronzoli
e, perchè no, altisonante. Sicché, il
nostro uomo della biografia attacca
a frequentare gli ambienti intellettuali: coppe di champagne, mani
sotto il mento, voce impostata.
I racconti di Carver incominciano a essere pubblicati su riviste più
o meno importanti. Ma il grano si
fa attendere. Nel 1964 ottiene una
borsa di studio di 500 dollari per
un master di scrittura creativa. Che
figata. Ma se ne va a Sacramento e
trova lavoro come custode di un
ospedale, un ottimo impiego (secondo lui, ovvio) che gli permette
di scrivere lontano dalle due piccole pesti. Come commenta lui stesso: « Devo dire che l’influsso più
grande sulla mia vita, e sulla mia
scrittura, è venuto, direttamente o
indirettamente, dai miei due figli.
Sono nati prima che avessi vent’anni, e dal primo all’ultimo giorno
13
che abbiamo vissuto sotto lo stesso
tetto, circa diciannove anni in tutto, non c’è stata una singola zona
della mia vita nella quale il loro pesante, talora malefico influsso non
sia arrivato. »
Verso la fine dei sessanta per
Carver la musica cambia. Ha più
tempo per scrivere e, soprattutto, si butta nella poesia. Vive un
decennio (’60-’70) relativamente
tranquillo, con lavori impiegatizi
e racconti e poesie pubblicate qui
e pubblicate lì. Nei primi anni settanta vedono la luce raccolte di poesia e di racconti. Ma l’alcolismo,
di cui soffre praticamente dalla nascita, lo trascina sul lastrico. E qui
ha inizio un tira e molla piuttosto
noioso. Lavori che cambiano, racconti e poesie, litigi con la moglie,
botte alla moglie, corna alla moglie, sputi alla moglie. Insomma, ci
siamo capiti.
Nel 1977 conosce Tess Gallagher,
una poetessa. E indovinate un po’.
Dice ciao ciao alla prima moglie e
si accoppia con la Tess. Il connubio è una bomba. Specialmente nei primi anni ottanta. « Non ho mai vissuto
prima un periodo in cui scrivere mi abbia dato tanta
gioia. Mi sentivo ardere. »
morte con dignità e con paura raffinata.
Se ne va il 2 agosto del 1988. A me piace ricordarlo
così.
« E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto? Sì. E cos’è che volevi? Sentirmi chiamare amato, sentirmi amato sulla terra. »
Viaggi. Premi. Racconti. Poesie. Deve solo scrivere.
Allora fallo, Ray. Do it. Ma, rogna nera, nel settembre
1987 un’emorragia al polmone. Un anno dopo, metastasi al cervello. Eppure sono di questi anni le sue poesie
più belle. Toccanti. Tristi. Rassegnate. Si prepara alla
Le città letterarie
Addis Abeba (anzi, no: Lalibela)
di SIMONE ROSSI
U
na volta sono stato in Etiopia, ci ho scritto un libro e
questo è un pezzo del libro. Mi hanno chiesto di fare finta di essere uno
scrittore che dà il suo contributo
alla rubrica Città letterarie. Io ho
detto: “Sì! Faccio qualcosa su Addis
Abeba! Che bello! Che facile!”. Poi
14
ho riaperto il mio libro - non lo riaprivo da un anno - e ho scoperto che
il mio pezzo preferito non parla di
Addis Abeba, ma di Lalibela. Allora
ecco un pezzo su Lalibela.
Lalibela sono undici chiese scavate nella roccia da un re-monaco
del 14esimo secolo che si chiama
Lalibela. Scavate, capito? Non sono
chiese, cioè edifici edificati mattone su mattone: sono sculture, cioè
togliere roccia a cucchiaiate finché
non rimane solo quello che deve
rimanere. Lalibela ci ha messo 24
anni a scavarle tutte, con martello
e scalpello. Si è fatto aiutare da 40
mila operai. E dagli angeli, che di
notte continuavano il lavoro iniziato di giorno. Lalibela in amarico antico significa “mangiatore di
miele”: il nome glielo dà sua madre,
quando lo trova nella culla circondato da uno sciame di api senza
nemmeno un becco. Da queste
parti le api significano: Santità.
C
osì dice la leggenda: Lalibela Mangiamiele ha un fratello geloso, e il suo fratello geloso un
bel giorno decide di ucciderlo. Lo
avvelena, e Lalibela dorme un sonno di morte per tre giorni. Durante
questi tre giorni Lalibela visita tutti
i cerchi del cielo e arriva in Paradiso. Ma poi torna giù, perché Dio
gli dice: Lalibela, costruirai una
nuova Gerusalemme in Etiopia, a
immagine e somiglianza della Gerusalemme del cielo, così che il Mio
popolo possa adorarMi.
I monaci di Lalibela sono dei
vecchietti di centotrent’anni con
la pelle del colore del tufo. Pregano tutto il giorno, sgranando rosari grandi come corone d’aglio e
leggendo l’Antico Testamento da
libricini in cartapecora vecchi di
secoli: li riconosci perché hanno
un mantello giallo come l’oro, e
perché i loro occhi sembrano non
guardare da nessuna parte. Opppure sono ciechi. Quando viene
sera i monaci dormono in dei loculi scavati nelle pareti di roccia.
Loculi, cioè: tombe. Buchi larghi a
malapena per starci accovacciati, e
lunghi giusti per starci stesi: come
larve, come pipistrelli, come talpe.
Come animali.
Mi viene da pensare che questi
uomini abbiano abolito tutto ciò
che c’è di umano in un uomo, per
rimanere animali in tensione verso
il divino. L’umano - il cervello, il
raziocinio - ti fa pensare, ragionare, dubitare. L’animale non pensa,
non ragiona, non dubita. L’animale
crede, l’animale è fedele. I frati do-
15
menicani si chiamano domenicani
perché vuol dire Domini canis, cioè
“cane del Signore”: la fedeltà cieca,
prostrata, assoluta. Spaventosa.
Ma interessante. Interessante
perché con un abbandono del genere ti ritrovi tra le mani una potenza creatrice niente male: ogni
oggetto diventa magico, e a furia
di lucidarlo di carezze prima o poi
Qualcuno ci si specchia dentro: le
leggende in un posto come Lalibela
sono più delle notizie. Quella vasca, per esempio.
(Poi c’è tutta la leggenda della
Vasca della Fertilità, ma era troppo
lunga e non ci stava.
Tratto, con qualche modifica
impercettibile, da La luna è girata
strana di Simone Rossi, che sono io.
Edizioni Zandegù, 12 euro, sicuro
come l’oro che la tua libreria di fiducia non ce l’ha. Però lo puoi ordinare: c’è questa cosa, si chiama internet e offre un sacco di possibilità)
H
o riso tantissimo leggendo
la recensione di Watchmen
di Marina Pierri (Finzioni n°1)
all’idea che la narrazione fosse deficiente nel senso latino di deficere.
Il mondo é pieno di storie deficienti, di sensi latini di deficere, di storie che scemano e di persone sceme. Siamo incoerenti, malinconici
e bellissimi.
Scemano i propositi di Alvaro
nel romanzo di Jacques Cazotte. Stringe un patto con
Belzebù, che servirà il protagonista del romanzo a patto
che questi non lo faccia mai
soffrire. Il Diavolo gli si presenta sotto forma di una bellissima ragazza, e con una
serie di stratagemmi riesce a
spingerlo ad abbandonarvisi.
Solo alla fine Alvaro torna sui
propri passi ed allontana il
Demonio. Scemano i propositi
di Dorian Gray nel romanzo di
Oscar Wilde. Stringe un patto
con il Diavolo affinché in sua
di
vece invecchi un suo ritratto.
Così Dorian rimane giovane,
dandy e vittoriano mentre il ritratto invecchia sino ad assumere sembianze mostruose. Ancora alla fine
del romanzo, il protagonista torna
sui propri passi. Verrà ritrovato il
cadavere di un vecchio deformato
dalla depravazione accanto al quadro di un bel giovane. Scemano le
possibilità di un futuro sincero con
il proprio uomo al termine dalla
guerra ne Il Diavolo in Corpo, romanzo di Raymond Radiguet. Del
resto lo si é tradito per quattro anni
con un ragazzino troppo giovane
per essere chiamato alla leva. Concludiamo quindi quella che sembra una trilogia demoniaca con
Jacques che parte in guerra e Marthe che stringe una adultera storia
d’amore. Al termine della narrazione, Jacques torna dal fronte e
Marthe cresce un figlio che porta
il nome del protagonista e del quale non si conosce chi sia il padre.
Quando Marthe muore invoca il
nome del figlio, o forse dell’amante.
Scemo, dal latino sèmus, mezzo,
nel senso di mancante di una parte,
di poco senno. Storie che scemano
e persone sceme. Esco con una ragazza più grande di me e questa
mi paventa la possibilità di una
famiglia a breve termine. Sebbene
la sua presenza tra le emozioni di
una vita renda più leggero il peso
dell’esistenza, questo fatto mi allontana. Storie che scemano, visto
che al suo attuale uomo si guarda
Viaggi
pagina in una circolarità spossante ed artisticamente giustificabile
nella misura in cui possono esserlo
i concerti jazz di Woody Allen.
Del resto siamo fatti di contraddizioni, di cose giuste e sbagliate.
Siamo tanto tristi eppure bellissimi. Non scegliamo la vita come lei
sceglie noi, e nel suo giogo continuiamo a vivere e cantare e mangiare
e bere e fare l’amore nonostante
il dio che ci siamo
scelti e le troppe
vicende che ci colgono impreparati.
Camminando tra le
macerie ci comportiamo come pazzi,
scemi in storie che
scemano. Racconta Luciano de Crescenzo: «Se penso
di aver avuto quattro primi amori, e
non quattro amori
diversi [...] é perché
credo di essermi
innamorato sempre
della stessa persona
[...] che ogni volta ha voluto indossare un nome e un aspetto diversi
come la dea Tetide quando non voleva farsi possedere da Peleo. [...]
Io invece (e di questo sono sicuro)
non sono mai stato lo stesso uomo.
[...] Questa pertanto non é la storia
di un uomo e di quattro donne, ma
di una donna e di quattro uomini,
tutti innamorati di lei». Siamo malinconici e bellissimi.
Storie che scemano
e persone sceme.
ALESSANDRO POLLINI
bene dall’avanzare queste aspettative. Esco poi con un’altra ragazza
più grande di me e nulla smuove
questa volta i nostri sensi a parte
un bacio. Lei non rende più leggero neppure il peso della ricerca del
parcheggio e gioca ad essere adulta
con i ragazzini diciottenni. Persone sceme, visto che, allontanatomi,
mi cerca nuovamente dandomi la
possibilità di citare Alessandro
Bergonzoni: «A fare?», mentre saluto con la mano come la Regina
Elisabetta.
«“Mentire o morire?” Ma nemmeno questo alla fine importa. È
piuttosto una voluttà, la voluttà di
cedere senza volersi aggrappare.
Preferire questo a tutto il resto. Per
vocazione, per inclinazione a imboccare strade laterali. Lasciarsi
andare al dominio degli eventi, e
che scelgano loro la fine» sostiene
Vinicio Capossela nel suo primo
romanzo, che scema di pagina in
16
Mi sono venuti in mente in questo articolo: Jacques Cazotte - Il
Diavolo innamorato (Mondolibro,
90 pp. 4,13 euro); Oscar Wilde - Il
ritratto di Dorian Gray (Garzanti,
304 pp. 6,90 euro); Raymond Radiguet - Il Diavolo in Corpo (Newton
Compton, 123 pp. 5 euro); Vinicio Capossela - Non si muore tutte
le mattine (Feltrinelli, 333 pp. 16
euro); Luciano de Crescenzo - Vita
di Luciano de Crescenzo scritta da
lui medesimo (Mondadori, 2,52 pp.
8,80 euro)
S
e chiedete in un asilo “quali
sono i vostri sogni?” i bimbi
vi diranno un sacco di fregnacce,
ma statisticamente un corposo
gruppetto vi risponderà dicendo
che il loro sogno più recondito è la
cacca profumata. Son strani i bambini. Evidentemente qualcuno ha
fiutato l’affare e in giappone qualche anno fa inventarono e commercializzarono delle pillole che,
garantivano, avrebbero donato alle
feci un gradevole odore di gelsomino. Poi queste pillole furono ritirate
dal commercio perché tossiche, ma
questa è un’altra storia. Son strani
i giapponesi, ancora più dei bambini.
modo oltre a rendere il mondo un
posto migliore trova anche l’energia per campare! Che figata!! Infatti
questo fungo assorbe una molecola
di glucosio (zucchero, presente in
abbondanza nell’uva e nel malto
d’orzo) e la converte a sottoprodotti
meno energetici (alcool etilico) per
trovare l’energia per vivere. A questo punto espelle i sottoprodotti,
per lui dannosi, e continua. Quindi
il saccharomyces cerevisiae caga
alcool. Molto bene! Oltretutto questo microorganismo non si limita a
fermentare solo il glucosio per darci l’alcool, ma, finché c’è, fermenta,
in misura minore, altre sostanze
per dare gli aromi. Come se già non
Capiamo però che il saccaromicete ci regala solo vino e birra. Ma
se vogliamo bere tosto il nostro
amico non ci produce la grappa,
dato che non regge l’alcool e crepa
troppo presto. Bisogna ricorrere
a trucchi. Ad esempio, la grappa e
simili vengono distillati mentre il
porto, ottimo vino liquoroso portoghese, lo si produce bloccando
la fermentazione del mosto nelle
fasi iniziali con l’aggiunta di un
distillato di vino. Il lievito muore
per il troppo alcool e non riesce a
consumare tutti gli zuccheri, abbiamo così un vino molto alcoolico
e dolce.
Pillole di scienza
La cacca profumata
di FABIO PARIS
Chi invece fa la cacca profumata e prelibata è il saccharomyces
cerevisiae. Il saccaromiceto dei
nostri sogni! Evviva e lode al saccharomyces cerevisiae! Si tratta
di fungo unicellulare, dall’aspetto
assolutamente innocuo ma si tratta niente po’ po’ di meno che del
lievito. Il famoso lievito di birra, il
fungo amico che trasforma lo zucchero dell’orzo e dell’uva nell’alcool della birra e del vino! Eh sì
signori, la cacca di questo essere
profuma, eccome! Infatti il S.C. si
nutre di zuccheri che, quando è
all’aria, brucia ad anidride carbonica. Come facciamo noi umani.
Però mentre noi umani in assenza
di ossigeno semplicemente moriamo il lievito in ambiente anaerobico non solo non muore ma degrada
lo zucchero ad alcool, e in questo
fosse abbastanza.
Ed ecco perché un vino non sarà
mai con gradazione alcolica superiore ai 15-16 gradi alcolici: il povero lievito sopra ad una tale concentrazione muore, intossicato in un
mare di feci. Questo è decisamente
meno poetico, ma si sa, la natura è
beffarda e crudele. In realtà ci sono
vari tipi (ceppi) di lieviti, ed ognuno è più o meno resistente all’alcool per cui si possono avere fermentazioni che portano a diverse
gradazioni alcoliche: le birre non
più del 8% mentre i vini si attestano
attorno al 12-13%. Oltretutto diversi ceppi fermenteranno in maniera
diversa diverse uve e diversi mosti.
Ecco spiegato il perché ci sono così
tanti vini e così tante birre.
17
Ma se il lievito di birra quando
fermenta produce alcool perché il
pane non ci sbronza? Perché, come
abbiamo detto, per la fermentazione alcolica è necessaria l’assenza
di ossigeno. Quando noi facciamo
lievitare il pane all’aria gli zuccheri della farina vengono degradati
totalmente fino ad anidride carbonica, gas, così il pane si gonfia e
diventa morbido.
Oh, Scena!
Manicomio! Manicomio!
di SIMONE ROSSI
Ma io non capisco più dove siamo, né di che si tratti!
Manicomio!” (prime tre righe di
Wikipedia).
Questo è un giuoco di bussolotti!
A un certo punto un Personaggio
vorrà uscire dalla scena, scendere
dal palcoscenico, farla finita con
la commedia: è il Figlio, e se fosse
stato per lui la commedia non sarebbe nemmeno iniziata. “Il Figlio
resterà proteso verso la scaletta,
ma, come legato da un potere occulto, non potrà scenderne gli scalini”
(corsivo mio. In realtà sarebbe tutto corsivo: è un’indicazione di scena). L’importante è non cadere dal
palco, dice Paolo Rossi. Cadere dal
palco di Pirandello è impossibile,
perché il giuoco di bussolotti è in
realtà (?) un giuoco di scatole cinesi: l’Autore (che non c’è) ha messo
un palco sotto al palco, e sotto a
quel palco ha messo un altro palco,
e sotto all’ultimo palco ha messo
l’oscurità, “e la scienza umana non
vede più oltre” (cit.).
Ah, no me par bona crianza che
loro ridano de mi, si yò me sfuerzo de hablar, como podo, italiano,
señor!
(...) sopraffatta da un émpito
d’incontenibile ambascia (...)
Il guaio è questo, carina: che è
tutto finto, qua.
Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!
V
ado avanti a botte di Twitter
fino alla fine? No, dai. Luigi Pirandello tiene una minchia
tanta, ma io mi rifiuto di leggere
le Prefazioni in cui un Autore si
rivolge alla propria Fantasia personificandola con la F maiuscola
e chiamandola “servetta sveltissima”. Detto ciò, se questa roba qua
se l’avesse diretta Michel Gondry
o Spike Jonze sareste ancora tutti
lì chiusi in bagno a toccarvi. Bentornati a Oh, Scena!, la rubrica che
affronta con settant’anni di ritardo
i testi fondamentali del teatro italiano. Puntata Sei: Sei personaggi
in cerca d’autore è il dramma più
famoso di Luigi Pirandello. “Esso
fu rappresentato per la prima volta
il 9 maggio 1921 al Teatro Valle di
Roma, ma in quell’occasione ebbe
un esito tempestoso, perché molti
spettatori contestarono la rappresentazione al grido di Manicomio!
Pirandello ha paura. Sai perché?
Perché usa la magia: il Figlio è trattenuto da un “potere occulto”, appunto. Trenta righe dopo, la Madre
è attirata dalla “virtù magica” della
Figliastra (buona, quella). Quando
in un’opera di finzione le cose succedono per magia, senza spiegazione, per potere occulto, occhio:
la cialtroneria è vicina. L’Autore
non può spiegare a parole la forza
che inchioda un personaggio alla
scena, e allora l’attore è costretto
a fare la pantomima di quello-chesbatte-contro-un-muro-invisibile
per rappresentare sulla scena la
potenza della scena. Sbàm.
18
Occhio alle maiuscole e alle minuscole: il giovane attore che interpreta il Figlio non è l’Attor Giovane:
c’è un giovane attore che interpreta
l’Attor Giovane, il quale a sua volta dovrà interpretare il Figlio, che
è interpretato da un altro giovane
attore. Sembrano tanti, e invece
sono solo in due. Manicomio! Manicomio!
Le luci sono accese nel buco
nero di platea in cui siamo seduti,
i Personaggi vivono tra le poltrone
e gli Attori stanno spesso a guardare, ruolo che di solito compete
agli spettatori. E lo spettatore, che
in questa rubrica si chiama lettore,
assiste allo sfascio di una famiglia
e a un incesto e a un infanticidio e
ogni tanto ride, perché arriva dal
fondo del teatro Madama Pace,
“megera d’enorme grassezza”. La
Madama si fuma dei gran paglioni e non si capisce niente quando
parla, e quando sorride fa usare a
Pirandello un aggettivo perfetto:
“Madama Pace sorriderà di un impagabile sorriso”. Impagabile. Che
matto, questo Autore.
La lettera che muore
Il simulacro di una contesa:
corbelli versus coglioni
di MICHELE MARCON
S
pesso le cose, qualsiasi cosa,
prima di morire si trasformano in qualcos’altro. Subiscono dei
processi che a volte le migliorano e
a volte le deteriorano. Alcune cose
sopravvivono. Nessuna, per quanto
ne so, dura in eterno.
B
envenuti nella nuova rubrica di Finzioni che parla di
evoluzioni ed involuzioni, delle
trasformazioni della parola di fronte alle spinte di nuove tecnologie,
e, più in generale, di tutte le situazioni liminali in cui si trova la letteratura. O meglio, la “letteratura”
(con gli empi diacritici), così come
l’ha intesa Gabriele Frasca in quel
bel saggio da cui è stato ricavato il
titolo di questa rubrica: La lettera
che muore, appunto.
La lettera muore ogni giorno,
sotto i campanili dei paesini di
campagna e sopra l’asfalto bollente
delle grandi città, tra le panche della sagra della porchetta e le vetrine
di Zara e H&M. E con lei muore un
pochino anche la sua figlioccia prediletta, la “letteratura”. Così la lettera muore, e io mi sfogo: mi sono
rotto i coglioni! (leggete pure sillabando bene le parole).
Fino a qualche tempo fa, probabilmente quando noi redattori di
Finzioni giocavamo ancora con le
bambole e i soldatini e ci arrampicavamo sugli alberi tornando a
casa con le mani impiastricciate di
resina, l’eloquio era una virtù. Molto tempo prima, ma il discorso in sé
non cambia, la retorica era un’arte
che, se coltivata, portava coloro che
sapevano servirsene ad un livello
superiore di esistenza. Insomma:
retori, letterati, poeti, studiosi,
accademici, erano persone rispettate e ben considerate in società.
Facevano parte di quella che oggi
potremmo chiamare “upper class”.
L’altro giorno stavo bevendo uno
spritz e, chiacchierando con amici, mi è uscito di bocca un termine
ai più insolito: simulacro. Hanno sgranato gli occhi, fissandomi
come fossi un’entità extranormale.
Dopodichè hanno iniziato a sfottermi per quel parolone inusitato
e desueto. La presa per il culo non
è certo finita lì. Ma vi rendete conto? Una volta con le belle parole e
le belle idee supportate dalle belle
parole si conquistavano giovani
pulzelle e si facevano rivoluzioni. Oppure si scrivevano bei libri,
come il Candide di Voltaire, in cui
si narrano le vicende di un giovane ben educato che conquista la
giovane pulzella e preannuncia la
rivoluzione. Oggi il nostro vocabolario sembra inevitabilmente compromesso, e le belle parole sono
sempre più difficili da udire. La mia
non vuole essere una di quelle nostalgiche critiche da nonnetto ultraottantenne, del tipo “ah, ai miei
tempi saltavo i fossi in lungo…”,
non sia mai. E neppure voglio dire
che dobbiamo tutti diventare come
19
Petrus Comestor, il topo da biblioteca per eccellenza. È solo un motivo per riflettere e, vi avevo avvisati,
uno sfogo.
Potrei dire, tirandomela un pochino, che la perniciosa ingerenza
mediatica e l’odierna flemma favellare contribuiscono a distorcere
l’immagine dell’erudito, costruendo un simulacro differenziale che
inficia la rappresentatività del
soggetto in causa in favore di una
prensione tanto eidetica quanto
infondata degli attuali valori i gioco. Tale convinzione aberrante non
può che radicare in me, e in altri
spiriti liberi, una profonda compressione ghiandolare sfociante in
un totale sfascio dei corbelli, con
tanto di riversamento del liquido in
essi contenuto.
Ma non sono uno che se la tira, e
tra l’altro non ho ben chiaro nemmeno io quello che ho appena scritto. Per cui preferisco dire: mi sono
rotto i coglioni! È più immediato, e
lo capiscono tutti.
Mattoni
“Libra” di Don DeLillo
Peso: 1,05 kg
di FILIPPO PENNACCHIO
C
i sono libri che pesano e alle
volte la letteratura è noiosa,
si è detto la scorsa puntata. I “mattoni”, poi, sono quei libri che un po’
ci lasciano interdetti: ci sentiamo
fichissimi e colti quando li sfogliamo e però ci costringono a passare
ore e ore chiusi nelle nostre camerette; ci raccontano un sacco di
cose intelligenti e ci indottrinano
di un sapere enciclopedico prêt-àporter che poi, dopo settimane, potremo sfruttare per impressionare
amici, conoscenti e tipe, ma d’altra
parte ci instillano pure il dubbio
che magari un libriccino da pochi
grammi ci avrebbe reso vita e rimorchio più facili.
Ecco, Libra di Don DeLillo
(piuttosto che la miserina edizione Einaudi si consiglia l’originale
Pironti, pesante il giusto) non farà
nessuna di queste due cose, anzitutto perché racconta antefatti e
circostanze di quei «sette secondi
che spezzarono la schiena al secolo
americano», quei sette memorabili
secondi in cui il buon John Fitzgerald Kennedy venne fatto fuori: ciò
che basta a taggarlo come “scacciafiga”.
C’è poi da dire che se non si empatizza più di tanto con la figura di
Lee Harvey Oswald, o se, a differenza del sottoscritto, non si nutre
una sotterranea simpatia nei suoi
confronti, risulterà immensamente tedioso seguirne le vicende.
D’altro canto, di questo personag-
gio ossessionato dalle armi da fuoco, dislessico esegeta marxista e
trockista, che prendeva a cazzotti
la moglie russa e che a ventiquattro anni entrò nella storia come the
man who shot the president, DeLillo
– e qui sta il bello – nemmeno prova a raccontarci testa e cuore. Tutto
Libra, anzi, è un romanzo che aderisce splendidamente alla superficie e che ci racconta una serie di
biografie moralmente edulcorate
perché non sa che farsene di qualsivoglia introspezione psicologica. I personaggi delilliani sono in
fondo creature tutt’altro che memorabili: essenze volatili senza un
desiderio che sia uno, si ritrovano a
condurre esistenze semplicemente
sostitutive e vicarie, al limite consacrandosi all’allestimento di ponderosi databases di dati o finendo
per vedere nell’esistente, come farà
il Nick Shay protagonista di Underworld, nient’altro che un «tessuto
di conoscenze accumulate».
Di più, come nel memorabile incipit di Mao II, tutti si somigliano
o, se volete, nessuno è mai davvero
se stesso: chiunque ha almeno due
nomi, uno ufficiale e uno segreto, più eventuali pseudonimi, le
controfigure e i sosia proliferano,
ognuno infine sopraffatto da quel
«grande mosaico di sospetti, soffiate e desideri segreti» (la Storia) il
cui fine è «arrampicarti fuori dalla
pelle». Poi ci sono agenti governativi in pensione che in realtà tramano la morte del presidente, spie
20
russe dalla dubbia morale, castristi
collusi con la mafia… Risultato?
A volte non si capisce proprio una
mazza. Anche perché non solo devi
scendere a patti con il fatto che nel
mondo di DeLillo tutto, o quasi, è
sempre insidiosamente duplice,
ma pure perché devi conoscere
benino la storia americana, o altrimenti essere disposto a trascorrere
ore su Wikipedia per ripassare chi
diavolo erano gli esuli cubani o per
ricordare che JFK inciuciava con
la donna di un boss mafioso e che
insomma, umanamente parlando
non era proprio uno stinco di santo.
Morale della favola? Duplice,
anche stavolta. Primo, per evitare
di annoiarsi o per godersi bene i
mattoni bisogna conoscere e avere
letto parecchi altri libri. Secondo,
dietro un mattone ce n’è sempre
almeno un altro molto più grosso
e ingombrante. Ce lo insegnano
lo stesso DeLillo e il suo alter ego
romanzesco Nicholas Branch, entrambi alle prese con i ventisei
volumi del Rapporto Warren, «il
romanzo esplosivo che James Joyce
avrebbe scritto se si fosse trasferito
a Iowa City e avesse campato fino a
cent’anni», entrambi rinchiusi in
stanze colme di libri e carte dove
lentamente «diventano vecchi», e
che mentre cercano, con un senso
di «responsabile ossessione», di
acquisire un sapere documentario
sui fatti di Dallas, «abbandonano la
propria vita». Come l’avo Gustave
Flaubert, che nella foga di apprendere più cose possibili per terminare il suo «livre sur rien» Bouvard
e Pécuchet prima si trasforma egli
stesso in una sorta di «enciclopedia universale» e infine ci lascia le
penne.
Che bello, eh? Non vedete anche
voi l’ora di dedicarvi anima e corpo
a un bel mattone?
I ferri del mestiere
Non ci sembra abbastanza?
di AGNESE GUALDRINI
A
mo frequentare le librerie.
Le adoro. E vado sempre in
librerie diverse perché sono curiosa. Curiosa di vedere come sono
disposti i libri (per esempio se per
editore o in ordine alfabetico), di
annusare la qualità dell’assortimento, di trovare una copertina
che mi colpisce (che in un’altra
libreria magari non avrei notato).
Eppure, ultimamente, entro in
libreria, guardo il bancone delle
novità…grande (a volte enorme),
colorato. E mi chiedo: Non ci sembra abbastanza? Non ci sembrano
troppi tutti questi libri? Dalle inchieste sulla mafia all’ultimo bestseller sui vampiri ogni settimana le
novità in libreria cambiano volto
(anche se poi, a pensarci bene, non
è che nell’insieme l’impatto cambi
un granché – che seppur con autori e copertine diverse settimana
dopo settimana ritroviamo sempre
inchieste e storie di vampiri).
Ma facciamo un passo indietro…
sempre perché in queste righe io
dovrei parlarvi di chi sta dietro le
quinte. Il libro viene scritto dall’autore, aggiustato dagli editor e dai
redattori, prodotto e stampato dai
tipografi e finalmente “lanciato” in
libreria – termine non felicissimo,
questo “lancio”, ma che tuttavia
rende bene l’idea perché il palcoscenico del libro, il suo debutto di
fronte al pubblico, avviene proprio
lì: può sembrare ovvio, ma buona parte del successo di un titolo
(e quindi del suo editore) deriva
proprio dalla posizione che riesce
a ottenere in libreria. Pensate alla
differenza tra un libro di piatto
esposto all’ingresso del negozio,
un libro a scaffale relegato in un
pertugio, una parete intera dedicata all’esposizione dello stesso titolo
che ci guarda in faccia, e al libro di
costa inserito tra Calvino e Carver
perché il suo autore inizia per C.
Certo, non si tratta di una distinzione qualitativa, è puramente una
questione di visibilità…che tuttavia può fare davvero la differenza
(soprattutto se si pensa che quel titolo si trova – in una libreria media
– tra altri 30.000 titoli).
che in Italia si pubblica sempre di
più e che le novità in libreria hanno
una rotazione sempre più rapida e
veloce: due settimane in primo piano per poi indietreggiare e lasciare
spazio al nuovo che avanza. Tanto
che alcuni titoli vengono pubblicati, piazzati in libreria per poi, nel
giro di qualche mese, finire al macero senza aver venduto nemmeno
una copia.
Se è così importante, come si ottiene dunque il migliore posto in
libreria?
In realtà la risposta non è così
semplice. Da una parte sarebbe
bene pubblicare meno e meglio
perché l’assortimento sempre più
pulviscolare delle librerie non fa altro che disorientare chi vi si aggira.
Dall’altra tutta questa produzione
in eccesso e questo disorientamento potrebbe essere uno stimolo in
più per chi, avendo tempo a disposizione per passeggiare solitariamente tra gli scaffali, è curioso di
conoscere meglio la realtà. Oppure
desidera semplicemente evaderne…
La casa editrice in cui lavoro –
che è di dimensioni medio-piccole
– ha i propri retailer (sostanzialmente uno per ogni regione italiana) che con regolare cadenza
assistono alla presentazione delle
novità che saranno pubblicate. Il
loro lavoro è quello di promuovere
ciascun titolo al libraio con un certo sconto sul prezzo di copertina. Il
libraio a sua volta deciderà quante
copie prenotarne per poi disporle
sui propri scaffali e valutare che
posizione offrirgli: pertugio o vetrina.
In realtà, com’è evidente a
chiunque sia mai stato in una libreria di catena, la pole position di un
titolo tra migliaia di altri è il risultato di un connubio tra un editore
grande e un grande autore (e non
servo io per dirvi che il più delle
volte i “grandi” autori sono pubblicati dai grandi editori). Certo è
21
Non ci sembra, dunque, abbastanza?
O no?
La Posta dei Lettori di
Matteo Bettoli
di MATTEO BETTOLI
C
aro Bettoli, sono figlio di
armatore e non ho bisogno
di lavorare, non lavoro pressoché
da sempre. Questo mi permette di
rimanere giovane perché il non
lavorare giova al mio fisico a cui
dedico molta cura. Faccio esercizio spesso (5 serie da 50 addominali 5 volte al giorno). Mio padre
gestisce l’esercizio di molte navi e
quando avevo 13 anni mi ha detto:
“non serve che lavori, tanto pure
se guadagnassi dù sordi, zocco
come sei, sarebbe irrilevante perché io sono molto abbiente. Senza
di me che sono armatore tu saresti
un misero squattrinato”. Questo
ha minato la mia autostima, certo,
però mi ha permesso di cazzeggiare alla stragrande senza sensi
di colpa e tra le diverse attività con
cui mi tengo impegnato c’è la lettura. Leggo i libri di de Mello. Annoto tutto su quaderni. Passeggio.
Fai una roba che non c’entra niente di Willy Ravenna (ed. Castorin)
mi ha insegnato a fare robe matte
che non centrano niente e poi annotare le reazioni della gente.
Tony, Monte Scaro
L
ei c’ha (dichiaratamente)
tempo da perdere. Una delle
poche cose buone che riconosco al
libro di Willy Ravenna è il comunicare sin dal titolo che si dice “non
c’entra niente” e non “non centra
niente”. Ma se lei ignora il pressoché unico insegnamento positivo
che si può trarre da questo libro
stiamo messi male. Altro? Ravenna
definisce guilty pleasures irresistibili e destabilizzanti pratiche che
fanno tutti: dal lanciare le discus-
sioni e poi disinteressarsene subitamente (“Ma sta storia che Pippo
Franco si chiama in realtà Franco
Pippo? Cameriere scusi dove sono
le toilettes?”) al presenziare discussioni di tesi solo per far partire
gli applausi quando non è ancora
tempo o il candidato è in chiara
difficoltà (così per sentire il brivido
dell’inopportunità), financo riposizionare specularmente tutti i mobili della stanza di un compagno di
casa secchione (“Raffaello, sul serio, guarda che secondo me l’armadio è sempre stato lì”). Quest’apologia del perditempismo non ha a che
fare con pratiche rispettabilissime
come la contemplazione e la meditazione, ma sta indiscutibilmente
raccogliendo molta attenzione. Il
motivo ci è ignoto.
•
G
entile Bettoli, anni fa Mariscalco in Non ho presente
(ed. Tensi, 7 euro) costruì un libro
parlando esclusivamente al passato remoto ed al trapassato prossimo. Nella fattispecie Mariscalco
commosse il paese spennellando
la vita di un cameriere smunto,
Fofo Magnili, abbattutissimo dalla sorte e da sfighe a 360°, colpito
dalla sfiducia dei colleghi, ancora
incapace di portare -dopo anni di
esperienza- tre piatti con un braccio solo. Fofo Magnili condusse
un’esistenza complicata, segnata
da una passione per le corse dei
cavalli -passione ereditata dal
padre pastore-, lavorò sempre in
un piccolo ristorante di Trasteve-
22
re e scomparve improvvisamente
a 5 giorni dalla pensione. Questo
libercolo di 40 pagine, che con
leggera amarezza aveva semplicemente descritto un’esperienza
*qualunque*, colpì l’immaginario
dell’Italia passata con una storia
senza niente da dire, o forse sì.
Luigi Mangiò, Tortona
F
orse. Dopo il Belluca pirandelliano ci furono tanti altri
treni fischianti, ma questo di Mariscalco centrò il segno con maggiore robustezza. Magnili fu chiaramente un Belluca senza il dono
del passato prossimo, del futuro
semplice e, certamente, del presente. Ah, pure del gerundio. Ma fu
di più: l’assenza di buona parte dei
tempi verbali corrispose all’assenza della prospettiva. Mentre il futuro veniva cancellato con uno straccio per pulire i tavoli, il presente
fu semplicemente ignorato, come
se qualunque gesto fosse stato già
determinato, acquisito e rigurgitato. Fofo Magnili non si sbloccò
neanche verso la fine del libercolo,
quando dichiarò a singhiozzi “’sta
vita ‘nfame, manco un futuro c’ebbi”. Poi scomparve.
•
C
ome va Bettoli? Come ha
preso la pubblicazione del
pamphlet Finzioni è una lurida
finzione che circola copiosamente nel web e che sta screditando
la credibilità vostra e del vostro
(puah!) magazine di lettura creativa? Mi sembra tutto chiaro, chi
c’è dietro di voi, una popolarità
vacua, il sostegno a forze eversive,
culturali e non, lo scopiazzamento
da Sembianze, rivista cagliaritana
-quella sì veramente innovativa,
il citare a sproposito Borges, Vonnegut e Carlo Pastore di Mtv solo
per guadagnare consenso. C’è chi
dice che Finzioni è una lurida finzione sia roba vostra, partorita dai
vostri cervelli ingrippati per fare
i fichi, ma io credo piuttosto che
sia tutto vero, un onesto atto d’accusa contro una roba rattoppata,
la vostra rivista certo ma pure la
vostra testa sciocca, infingarda,
approfittatrice. Non durate, non
durate. Lustro e merito a Sembianze, e infamia cada su di voi lurido
ammasso di copiatori cioccolatai
impuniti e impudenti. Siete vuoti!
Rossano Simoni, Cuculi
M
a che è Sembianze? Giuro che non sono stato in
grado di trovarlo, né sul web ne
altrove, ho chiesto in giro, ho pure
telefonato ad un mio amico sardo. E questo turpiloquio? Scusi
ma non ci sono abituato, non ne
comprendo le motivazioni ultime.
Riguardo a Finzioni è una lurida
finzione ebbene sì, l’ho letto e l’ho
trovato delirante al punto da essere coinvolgente. Mi fa sogghignare soprattutto la parte in cui il
sedicente collettivo si scaglia contro Cirillo e la sua “compilazione
irritante”, Paris e le sue “fandonie
fantascientifiche” e Rossi che “parla di teatro ma in un teatro non lo
farebbero mai entrare”. Simpatico
pure questo ribadire fino allo sfinimento che Finzioni è copiato da
Sembianze, talvolta tramite alle-
23
gorie portentose (“Finzioni è come
l’alcool denaturato negli anni ‘80,
panacea di tutti i mali ed essenza
prodigiosa del disinfettamento. In
realtà abbiamo scoperto a nostre
spese e con grande bruciore di ginocchia sbucciate che l’alcool non
serviva ad un beneamato. Molto
meglio l’acqua ossigenata, di cui
invocavamo l’utilizzo ma che usava solo la mamma buona, mentre il
padre perseverava nell’adoperare
l’alcool bruciante che -proprio perché bruciante- avrebbe dovuto disinfettare di più, ma aveva ragione
mamma. Ecco, l’acqua ossigenata è
Sembianze.”, p. 4). Non sia complottista, Rossano, facciamo pace e mi
mandi una copia di Sembianze.
scrivete a:
[email protected]
Ghost World
“American Born Chinese”
di Gene Lueng Yang
di MARINA PIERRI
A
merican Born Chinese è una
graphic novel davvero piacevole. Non bella, o meravigliosa,
o commovente, cioè si, anche, tutte
queste cose, ma soprattutto piacevole: leggendola, ci si trova a sorridere, ridacchiare, restare a bocca
aperta come bambini, strabuzzare
gli occhi. È un giro su una giostra,
ma non un otto volante, più un
Bruco Mela, se avete presente. E il
riferimento all’infanzia è tutt’altro
che casuale, visto che i protagonisti
sono pre-adolescenti: ragazzini un
po’ mocciosi e pure abbastanza sfigati. A questo punto direte: ah beh,
allora leggo Topolino piuttosto. Ma
lasciatemi spiegare! Ché il pluripremiato fumetto di Gene Lueng
Yang, vero cino-americano, finge
di essere solo piacevole.
visto che tutto torna sempre uguale a se stesso e il cattivo equilibrio
iniziale si ricostituisce. Il primo
piano inizia ad essere interessante
perché i Simpson, ora che ci pensi,
sono il perfetto stereotipo di unità
domestica made in USA. Al secondo piano la faccenda si fa davvero
avvincente. La situazione delle
donne nel mondo giallo della gente gialla è molto amara: ecco sfilare casalinghe frustrate, bambine
prodigio, bambine che non parlano
e non crescono mai per la felicità
della mamma più che della loro.
Al terzo quasi cadono le braccia:
uomini inetti, situazioni lavorative
precarie, salvaguardia impossibile
del matrimonio, convivenza forzata, rabbia, sfortuna, dilemmi niente meno che esistenziali.
Prendo l’esempio più banale di
tutti: i Simpson. La ragione, mi dico
sempre, per cui è il cartone più noto
e amato della terra risiede nella sua
trasversalità: colpisce più nicchie
di pubblico perché è una struttura multi-livello, come un palazzo
a molti piani (scusate la banalità
della metafora). Il seminterrato
dell’edificio di Groening, pensateci, è stupidotto: madre, padre, famiglia, cose succedono, ok. Il piano
terra invece, a guardarsi, è subito
noioso: ci si affeziona ai personaggi, ma possibile che questa gente
non ammonti mai a niente di niente? Succedono cose mirabolanti in
venti minuti - in mille pacchetti da
venti minuti - ma poi? Poi nulla,
Dunque, anche American Born
Chinese è una struttura multilivello, perché dietro la semplicissima favola di un ragazzino che “da
grande vuole fare il Transformer”
come Optimus Prime si nasconde una novella straordinaria che
si concentra, più all’esterno, sul
razzismo visto dal di dentro e più
all’interno sul problema macroscopico dell’identità. Jin Wang
non si accetta e non accetta perché
non è accettato: se dovessi farvi un
riassunto stringatissimo questa
sarebbe un po’ la trama del libro.
Eppure il palazzo di Yang, proprio
come quello dei Simpson, è altissimo e più si sale più emergono temi
squisitamente semiotici che - qui il
24
bello – possono passare perfettamente inosservati perché del tutto
inghiottiti dalla docilità e dal ritmo
del racconto. Ammirabilissima la
maniera di affrontare il problema
dell’opposizione binaria, scardinandola: il doppio è trino mentre
l’intreccio si dipana in tre storie
diverse e identiche (dunque sei
personaggi in tre situazioni differenti) che finiscono per formare
un’unità che si eccede, si rompe e si
ricuce e non, mai, in soli due pezzi.
Insomma, il cielo è il limite! All’ultimo piano di American Born Chinese, infatti, c’è proprio lui, il pezzo
grosso, il Logos, Dio. L’uno E trino.
Una grossa coincidenza per un libro solo piacevole, non trovate?
C
i sono due modi per raccontare storie: la noiosa verità
e la mirabolante esagerazione dei
fatti. L’esagerazione dei fatti, o iperbole, è bella perché è una caricatura. Wittgenstein (yawn) diceva che
fare una caricatura non è altro che
privilegiare e mettere l’accento su
una parte in rapporto con il tutto,
creando dunque, dico io, una sproporzione. O meglio, un’asimmetria.
L’asimmetria fa ridere e fa pensare,
perché non è regolare, dunque buffa,
e va messa a posto gestalticamente
con la propria testa. L’iperbole, la
storia esagerata, segue esattamente questa dinamica: è divertente e
fa lavorare il cervello. Fa ridere e fa
pensare.
Ci sono poi due ruoli che si alter-
nano nelle storie: la banalità dei
vincitori e il sorprendente spessore
dei perdenti. Le storie dei vincitori
sono retroattivamente incastrate
nel rasoio di Occam: la soluzione
è spesso la più semplice e ovvia.
Quando le leggi, sembra che tutto
sia andato liscio, che sia successo
quello che doveva succedere e niente
altro. L’eroe ha vinto perché è buono, la soluzione più semplice è che
vinca. Non si scappa.
come Karate Kid. Solo che loro perdono per costituzione.
Le storie dei perdenti invece sono
più belle perché i perdenti, per tirare
acqua al loro mulino, si raccontano
in modo più personale, più soggettivo, si guardano dentro non potendo
ovviamente aggrapparsi alla rassicurazione dei fatti oggettivi. Trovano la verità dentro di sé, non fuori,
In questa rubrica accoppieremo
felicemente questi due fenomeni,
raccontando storie esagerate di
grandi perdenti. Quel ganzo di Walter Benjiamin ha detto che la storia
è il bottino dei vincitori. L’iperbole,
allora, è la risorsa, forse l’ultima,
dei perdenti.
E la verità soggettiva è infinitamente più interessante: come diceva
qualcuno (quel qualcuno era Kierkegaard ma avevo paura di annoiarvi ancora di più), con soggettivo
non si intende un attributo relativistico ma una appropriazione della
verità in termini esistenziali. La verità per me.
Iperboloser
Marina Occhiena
di JACOPO CIRILLO
L
a storia della canzone italiana è caratterizzata soprattutto dai sordi rancori che l’hanno
costellata negli anni. Tra i rancori
più sordi ci piace sempre ricordare
quello tra Marina Occhiena e i Ricchi e Poveri. Il gruppo si mette insieme nel 1966 (lo so, è incredibile,
io credevo al massimo negli anni
ottanta) ed è composto davvero per
metà da ricchi latifondisti argentini (il figone e la brunetta) e per
metà da rifiuti della società senza
manco gli occhi pe’ piagne (il baffo
nasuto e Marina Occhiena),
Marina Occhiena, che adesso
avrà almeno cento anni, inizia la
sua carriera a quindici, incidendo
la canzonetta “A poco a poco” su
una lastra traforata per organetto.
Dopo qualche eone si unisce finalmente agli altri, il quartetto arriva
due volte secondo a San Remo e qui
inizia la più grande (e sorda) mistificazione della storia della canzone
italiana.
I media hanno banchettato per
mesi sulla storia secondo cui Marina Occhiena avrebbe sedotto il
compagno della brunetta Angela
Brambati e che questa si sarebbe
imposta su i due maschi senza spina dorsale per cacciarla, ma non è
vero niente. In realtà Franco Gatti,
quello bruttino, era innamorato
della Occhiena e gli altri due, quelli
ricchi, hanno cacciato la biondona
solo per togliere a Franco l’unica
ragione di vita, così impara a essere
povero. E il bello è che l’Occhiena è
25
uscita dal gruppo proprio il giorno
prima del debutto a San Remo con
la canzone che ha reso ancora più
ricchi i due bellocci e ancora più
povero il pezzente: Sarà perché ti
amo, diventata simbolo, inno e biglietto da visita dell’ormai terzetto
in tutto il mondo.
La reietta si è quindi trovata con
una carriera da solista in pieni anni
ottanta ed è stata costretta, per pagare le bollette, a partecipare al
Festivalbar con la canzone Videosogni mentre l’indimenticabile patron della rassegna, Vittorio Salvetti, le diceva: “In video? Te lo sogni!
Ahahahaha” e faceva il gomitino a
un magro Gerry Scotti.
Contributi da:
Jacopo Cirillo non è mai riuscito a spiegare a sua
nonna cosa fa nella vita. Prima per colpa della semiotica, adesso per colpa di una casa editrice. Ha cofondato questa rivista solo per poterle dire: faccio il
co-fondatore di una rivista. E anche, ma secondariamente, per poter dire quello che gli pare sui libri che
legge.
Agnese Gualdrini, 27 anni, laureata in Filosofia nel
lontano 2005. Da ormai un anno vive e lavora a Roma in
una casa editrice con un non ben definito ruolo di giano bifronte (saltella tra l’ufficio diritti esteri e la valutazione degli innumerevoli dattiloscritti che ogni giorno
invadono la posta). Adora il caffè amaro, il lungotevere,
i libri di Natalia Ginzburg e cantare anche se violentemente stonata.
Carlo Zuffa nelle ultime due decadi non ha raggiunto traguardi degni di nota e ritiene che la sua
infanzia sia stata traviata dal finale di “Marcellino
Pane e Vino”. Ora, di notte nel buio della sua cameretta, studia piani segreti per i COBRA, i quali gentilmente gli hanno concesso un pò di tempo libero per
co-fondare Finzioni.
Viviana Lisanti è laureata in scienze storiche e studia cultura editoriale all’Università Statale di Milano.
Momentaneamente si guadagna da vivere spacciandosi per grafica nonostante non possa vantare alcuna
conoscenza in merito. Nessuno fin’ora se ne è ancora
accorto, quando verrà smascherata sarà costretta a far
fruttare una laurea a detta di molti “inutile”.
Matteo Bettoli nasce in epoca reaganiana su un carro
di bovini, dal quale eredita la passione per la dinamicità. Scostante, ombroso e pretenzioso - questo dicono
di lui gli amici - a 21 anni controlla i principali media di casa: 3 televisioni, 2 computer, l’abbonamento
all’Espresso e la radio ricevuta in regalo per la cresima.
Decide allora di trasferirsi. Passa un po’ di tempo a zonzo occupandosi di robe politiche. Ultimamente lavora
a Bruxelles dove viene spesso bollato con l’espressione
*lobbista*.
Edoardo Lucatti. Edo. Ode. Deo. Un essere flesso
nell’edibile, nella lirica e in un soprannaturale deodorante. Performer di incauta protervia, aruspice della significazione e calciapalle di poca morale. Semiònte per
alcuni, semiòta per altri, è una piccola fucina di omaggi
al vostro personale sconcerto teoretico.
Michele Marcon ama così irrazionalmente le lettere
da aver avuto la leggerezza di confessare in famiglia
una certa velleità letteraria. Il giorno dopo il padre si
presenta a casa con una maglietta del Milan autografa:
“Allo scrittore Michele, Kakà”. Nonostante incertezze
sull’autenticità, Michele si sente fregato: gli tocca diventare uno scrittore, non è più un affare privato. Per
ora è un abile lettore, ma la cosa triste è che tifa Juve
praticamente dalla nascita.
Jacopo Donati studia Filosofia estetica a Bologna. La
sua carriera universitaria gli permetterà, al massimo,
di suonare l’organetto per strada: conscio di ciò, per
non pensarci, passa buona parte del suo tempo a scrivere, a leggere e a inseguire innumerevoli passioni che,
per lo più, svaniscono nel giro di pochi giorni lasciando
il posto a nuove manie.
n. 6 / Settembre 2009
[email protected]
www.finzionimagazine.it
26
Andrea Meregalli è un pensatore di quasi venticinque
anni. In questo istante medesimo si arrovella su quesiti
del tipo: “Cosa farò da grande?”. Assiduo frequentatore
di autostrade nonché massimo esperto in campo internazionale di prodotti quali friggitrici, scalda patate,
piastre per panini e salamandre, ama molto abbinare
correttamente i boxer con le calze. Passa buona parte
della sua giornata a leggere le scritte oscene sulle porte
dei cessi nei centri commerciali.
Simone Rossi vive alla Casa del Cuculo, “un posto
dove ci piove dentro” (cit.). Di giorno scrive, di sera suona, di notte dorme. Tutti e tre troppo poco. Una volta è
stato in Etiopia: il viaggetto è diventato un libretto, La
luna è girata strana (Zandegù, 2008). Sta volentieri senza scarpe e fa un po’ fatica ad arrivare a fine mese. Tende a scrivere sui muri palindromi intellettualoidi tipo
in girum imus nocte et consumimur igni. Il suo gatto si
chiama Chomsky, ma non si vedono da un po’.
Fabio Paris nasce impagliato, e così finirà, per evitare che gli amici ballino sulla sua tomba. Zingaro, in
accezione monicelliana, ha studiato chimica, seguendo la sua passione per la geopolitica. Ora vive facendo
l’inviato da Pittsburgh per Finzioni e spacciandosi per
esperto di nanotecnologie.
Jacopo Sgroi ha un cognome siciliano, catanese, ma
è nato in Trentino, ha vissuto a Firenze, ma è cresciuto
a Faenza, ha studiato a Bologna ma è a Milano che è riuscito a fare della sua passione, il cinema, il suo lavoro.
Greta Travagliati, semiotica appassionata di arte,
Proust e culturalizzazione della merce. Si interessa di
tendenze e chincaglierie del contemporaneo anche se
avrebbe preferito vivere nell’800. Attualmente vive a
Milano dove lavora in un centro ricerche e dove spera
aprano presto Starbucks colorati, una pasticceria turca
ed un centro di gravità permanente a forma di pera.
Filippo Pennacchio, già in tenera età plagiato dalla
figura di Lee Harvey Oswald, a tutt’oggi suo eroe personale, vive a Milano, dove studia, fa la spesa alla Pam,
frequenta concerti di dubbio gusto e beve dei gran birroni. Quando non sa che fare, ammortizza i propri desideri nel sapere, manco fosse un personaggio delilliano,
leggendo libri dalle cinquecento pagine e oltre. Di conseguenza, alle volte si annoia tantissimo.
Matteo Treleani è dottorando in semiotica a Paris Diderot e ha una curiosa passione per i campi non affini.
Amante dei miti greci e della musica barocca, è un sommo sostenitore dell’arte dell’insignificanza, ovvero del
non voler dire nulla.
Alessandro Pollini é laureato in Psicologia ma non
legge nella mente delle persone. Da quando ha iniziato a seguire Voyager é convinto che l’uomo non sia mai
andato sulla luna, ma i Templari si. Ha ventotto anni ed
é bellissimo.
Maria Giovanna Ziccardi, laureata in giurisprudenza
a Trento nel lontano 2008, sotto una nevicata epocale,
ha una spiccata vocazione per i lavori non pagati. Si
barcamena tra case editrici, udienze e cronaca locale.
Pensa che la matematica sia alla base del declino della
civiltà moderna e crede che chi è capace di fare la conversione euro-lira sia dotato di capacità divinatorie.
Ama leggere e scrivere, ma non leggere quello che ha
scritto.
Marina Pierri ha 28 anni e vive a Milano, dopo dieci gloriosi anni passati a studiare/lavorare/fare radio/
fare la dj in quel di Bologna. Si occupa a tempo pieno del
portale musicale Vitaminic.it ma scrive anche su Rolling Stone, PIG Magazine e Blow Up. Ascolta una media
di tre nuovi dischi al giorno, legge, guarda un sacco di
film e serie televisive americane.
Finzioni è disponibile
solo su abbonamento.
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numero 6 - Finzioni