Senza Limiti R.K. Lilley Traduzione in italiano di Silvia C. Selleri Copyright © 2013 R.K. Lilley Tutti i diritti riservati. ISBN-13: 978-1-62878-027-7 (R.K. Lilley) ISBN −10: 1-62878-027-4 Tutti i diritti riservati. Quest'opera non può essere riprodotta, scannerizzata o distribuita in qualsiasi formato stampato o elettronico senza permesso. Questa è un'opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a eventi o persone reali è pura coincidenza. L'autrice riconosce i diritti ai marchi dei vari prodotti citati. LIBRI DI R.K. LILLEY IN ITALIANO FRA LE NUVOLE - LA SERIE IN VOLO AD ALTA QUOTA COI PIEDI PER TERRA (prossimamente) TRISTAN & DANIKA COSE PERICOLOSE LIBRI DI R.K. LILLEY IN LINGUA ORIGINALE THE WILD SIDE SERIES THE WILD SIDE IRIS DAIR TYRANT THE OTHER MAN THE UP IN THE AIR SERIES MR. BEAUTIFUL LANA AUTHORITY THE TRISTAN & DANIKA SERIES LOVELY TRIGGER THE HERETIC DAUGHTERS SERIES BREATHING FIRE CROSSING FIRE THE BISHOP SERIES BOSS BROTHERS Visitate il mio sito web per notizie e ultime uscite. SENZA LIMITI TRISTAN & DANIKA LIBRO 2 - Il loro amore aveva la forza di un treno lanciato in una corsa senza controllo e il potenziale per essere altrettanto distruttivo. Il seguito tempestoso di Cose Pericolose riprende proprio da dove avevamo lasciato i protagonisti: colpiti da un'enorme perdita, Tristan e Danika lottano per raccogliere nuovamente i pezzi e costruire una vita insieme, ma le brutte abitudini sono dure a morire e difficili da rifuggire... Senza Limiti ci accompagna attraverso il doppio punto di vista, in un viaggio attraverso la dipendenza e il desiderio, l'amore e l'agonia e risponde alla domanda sorta alla presentazione dei due personaggi all'interno di Coi Piedi per Terra: cos'è successo fra Tristan e Danika? ” DANIKA Nemmeno l'amore poteva attenuare una caduta come la nostra. Ciò che provavo per Tristan era talmente immenso da consumarmi ma anche così, non bastò a sopraffare la combutta dei nostri demoni. Lottai. Gridai e piansi, graffiai e calciai. Diedi tutta me stessa ma anche il guerriero più determinato deve fermarsi prima di arrivare al punto di rottura. Nessuno poteva affermare che non avessi lottato per lui. «Ti amo anch'io» mormorai dolcemente al suo orecchio. Lui mi strinse con maggior forza. «Non posso perderti, Danika, mai. Non sopravvivrei.» «Sono tua e non me ne andrò. Mai.» Ero sincera quando pronunciai quelle parole, ma la vita aveva altri progetti per noi. Io ero una combattente per natura e nessuno avrebbe potuto dire che non mi ero battuta per noi. Avrei dato la vita in quella lotta. In realtà fu ciò che quasi capitò. TRISTAN Era lei… Se mai avevo avuto dubbi, ora erano svaniti: era colei alla quale avrei pensato e desiderato fino al mio ultimo respiro. Se il giorno dopo l'avessi persa, avrei passato il tempo a struggermi. Era quel genere di amore che trovavi una sola volta nella vita. Il libro è riservato a un pubblico maggiorenne. PROLOGO DANIKA Feci un respiro profondo e annusai il torace più divino del mondo. Ero sveglia già da un po' ma non avevo minimamente preso in considerazione l'idea di alzarmi. Non avrei saputo dire chi dei due fosse più avvinghiato all'altro, se io a Tristan o lui a me. Eravamo andati a letto stringendoci a quel modo e a quanto potevo vedere, nessuno dei due si era mosso. La mia gamba era sopra alla sua anca, un braccio attorno al suo fianco e con una mano gli stringevo la maglietta come fosse un appiglio vitale; l'altro mio braccio, sul quale ero sdraiata, ormai si era addormentato ma nonostante ciò, non avevo alcuna intenzione di muovermi. Lui mi circondava le spalle e con una gamba teneva separate le mie; la mano aggrappata alla mia maglietta ormai l'aveva spinta fino alle costole… In un certo senso, eravamo l'immagine speculare l'uno dell'altra in questo nostro stringerci anche nel sonno. Lo sentii muoversi e sollevai la testa per guardarlo: i suoi magnifici occhi dorati erano aperti e ancora carichi di sonno. Non appena rammentò, il dolce oblio si trasformò in puro orrore. Ritenevo che dopo la perdita di una persona cara, il momento fra il sonno e il risveglio fosse quello peggiore. Dovevi ricordare e accettare di nuovo tutto da capo, rivivendo l'attimo in cui la tua vita era cambiata e quella persona se n'era andata. Era passato più di un mese dal funerale di suo fratello e lui continuava a rivedere quel momento terribile ogni singola mattina. Due giorni dopo il funerale, la madre di Tristan gli aveva chiesto di andarsene e non tornare più. Per quanto sbagliato fosse, era chiaro che gli addossasse tutta la colpa per la morte di Jared. Tutto sommato, pensavo che lui avesse preso quell'interruzione del rapporto piuttosto bene, considerato quel che stava passando ed ero certa che una volta elaborato il proprio lutto, lei avrebbe cambiato idea. Al momento però rimaneva ferma in quella sua ripicca. Non prendermela con Leticia mi era difficile ma continuavo a ripetermi che stava solo soffrendo molto e che un tale dolore poteva effettivamente rompere gli argini come era accaduto a lei. Amava il figlio perciò sarebbe riuscita a superarlo. Tristan dal canto suo aveva preso bene il rifiuto della madre, ma ora aveva bisogno di me più che mai ed io ero determinata a farlo stare meglio. L'ultimo mese aveva praticamente vissuto incollato a me. Aveva ancora il suo appartamento ma dormiva ogni notte a casa di Bev da quando aveva lasciato la madre, incapace di rimanere solo un attimo. Io lo capivo: la solitudine poteva anche essere una componente necessaria all'elaborazione del lutto ma in ogni caso, non ero in grado di negargli alcunché. Non uscivamo. Passavamo le giornate a giocare coi ragazzi e le serate a guardare le repliche del telefilm preferito di Jerry, Ti presento i miei, a ripetizione tanto che avremmo potuto scambiarci le battute. Facevamo l'amore, ci addormentavamo poi lo facevamo al risveglio. Era un periodo di consolazione e distrazione, amore ed elusione. Adesso, ripenso a quei giorni come a una sorta di fuga dolce amara. Tristan serrò gli occhi e le sue labbra vennero a cercare le mie. Desiderava il conforto tramite il contatto ed io lo assecondavo, pronta e intenzionata a concedergli davvero tutto. Le sue dita lasciarono la presa sulla maglietta per sollevarmela, togliendomela velocemente con pochi agili movimenti. La sua, ricevette lo stesso trattamento dalle mie mani impazienti e finalmente fummo pelle contro pelle, il mio seno contro il suo torace. Fece scivolare via le mie mutandine ed io i suoi boxer aderenti, baciando ogni parte del corpo che riuscivo a raggiungere, succhiandogli un capezzolo fino a inturgidirlo. Sospirò e tenendo le mani fra i miei capelli mi scostò, per poi afferrarmi i fianchi. Rotolò sulla schiena sollevandomi in modo che lo montassi. «Cavalcami» mi disse burbero, usando quelle sue enormi mani per sistemarmi sulla sua erezione. Inarcai la schiena, tenendomi in equilibrio con una mano sul suo torace e guidandolo nella mia fessura con l'altra. Lo strofinai contro di me per fargli sentire quanto fossi eccitata e godendomi la sensazione del suo glande che giocava con la mia pelle. Lui sgroppò con i fianchi spingendosi dentro abbastanza da farmi boccheggiare. «Adesso» grugnì, «Non posso aspettare.» Iniziai a spingere verso il basso, andandogli incontro finché non mi ebbe penetrato del tutto, allora chiusi gli occhi e la mia testa andò all'indietro mentre mi facevo rapire dall'estasi. Rimasi immobile, godendo semplicemente di quel contatto perfetto finché le sue mani impazienti si strinsero attorno ai miei fianchi, spronandomi a muovermi. Iniziai con un movimento circolare al quale lui rispose afferrandomi il sedere, mugolando. Mi morsi un labbro e instaurai il ritmo dondolando avanti e indietro più volte. Lui mi strinse un seno con una mano mentre l'altra scivolava lungo la mia coscia alla ricerca del clitoride, che strofinò con piccoli cerchi fino a portarmi deliziosamente sulla soglia dell'orgasmo. Quelle mani magiche non sbagliavano mai. «Ti prego» mugolai aumentando la velocità. Lui mi assecondò ed io mi bloccai tremando come se avessi la febbre, soccombendo alle ondate estatiche che si scaricavano dentro di me. Lo sentii venire mentre a mia volta mi riprendevo da quell'orgasmo stupefacente. Il volto era una maschera che ritraeva il suo stesso godimento. Adoravo guardarlo venire e rimasi il più possibile immobile, impalata su di lui fino a che aprì gli occhi, guardandomi. Mi ripiegai allora su di lui, nascondendo il viso contro il suo collo per respirarne l'odore. Era sempre divino: profumo di casa. «Ti amo» gracchiò. Me lo diceva di continuo. Una volta ammesso non l'aveva più trattenuto, eppure continuava a provocarmi le farfalle nello stomaco ogni volta. «Ti amo anch'io» mormorai dolcemente al suo orecchio. Lui mi strinse con maggior forza. «Non posso perderti, Danika, mai. Non sopravvivrei.» «Sono tua e non me ne andrò. Mai.» Ero sincera quando pronunciai quelle parole, ma la vita aveva altri progetti per noi. Io ero una combattente per natura e nessuno avrebbe potuto dire che non mi ero battuta per noi. Avrei dato la vita in quella lotta. In realtà fu ciò che quasi capitò. Tristan era nella doccia quando finalmente risposi alla telefonata di Kenny. Stava cercando di mettersi in contatto con entrambi da una settimana, ma un qualche strano istinto mi aveva sempre impedito di parlargli. Mi sentivo in colpa per quello: Kenny era un tipo a posto e probabilmente colpito a sua volta dalla morte di Jared, ma io e Tristan stavamo vivendo nel nostro piccolo mondo e lasciarlo andare mi era difficile. «Pronto» risposi con tono incerto. «Danika» la sua voce calda e piena di sollievo riempì il telefono, «È da una settimana che sto cercando di chiamarvi. Come stai? E Tristan?» Sospirai, schiacciata dal senso di colpa. «Sta bene, scusa se non ho mai risposto ma, ecco…» «Niente paura, capisco. Ti stai prendendo cura di lui e lo apprezziamo. Grazie.» La cosa mi colse di sorpresa: era vero che mi stavo prendendo cura di Tristan ma non mi aspettavo certo che i suoi amici mi ringraziassero per quello. «Prego. Voglio solo essere lì per lui, non c'è nulla che non farei per Tristan.» «Sono felice di sentirlo, di sapere che lo aiuti a superare la cosa. Lui aveva davvero bisogno di te.» Deglutii a fatica. Poiché non ero abituata a sentirne, quella lode mi aveva provocato un nodo alla gola. «So che non ha ancora voglia di parlare con me ma potresti dargli un messaggio da parte mia?» «Ma certo.» «Ho la chitarra di Jared: dubito che Tristan la voglia adesso ma tu digli che la terrò per lui. Jared gli stava insegnando a suonarla, lo sapevi?» «No.» «Penso che gli farebbe bene riprendere, si sentirebbe più vicino a suo fratello ed è quello che gli serve.» «Credi che lo aiuterebbe in questo momento o sarebbe peggio?» Non era una domanda vera e propria, dato che conoscevo già la risposta. Secondo me sarebbe potuta andare in entrambi i modi. «Credo che lo aiuterebbe. Erano così uniti… dimenticare suo fratello non è un'opzione e continuare a coltivare quello che rendeva Jared speciale è il modo migliore per ricordarlo.» Dalla voce suonava sincero. In seguito, avrei rimpianto di aver parlato a Tristan di quella telefonata. Una parte di me, quella che amava crogiolarsi nella mia stessa miseria indugiando sul passato, avrebbe incolpato quella chitarra per ogni cosa andata male fra noi, perché lo aveva riportato a quella vita. Ma la parte logica sapeva che Tristan sarebbe tornato di nuovo alle vecchie abitudini e ai vecchi amici. La sua salvezza o il colare a picco sarebbero stati esclusivamente una sua scelta. Ogni passo falso che ci avrebbe portato sulla strada della distruzione sarebbe stato colpa nostra eppure, ancora oggi detesto quella chitarra. CAPITOLO UNO DANIKA Quando ricominciammo a uscire lo facemmo alla grande. Eravamo gente fatta di estremi, quello era certo, sebbene io non sarei mai arrivata ai livelli di Tristan. Dopo svariate settimane di reclusione in casa, riprendemmo a vivere. Tecnicamente sarebbe dovuta essere una sola serata, una festa, ma le cose non andavano mai così con lui. Ritenevo fermamente che per piangere adeguatamente la perdita di una persona, si dovesse gestire il silenzio della propria mente e quando la vita non t'impegnava abbastanza da non riuscire a pensare, accettarne la sua evoluzione. Ne avevamo avuto un assaggio trascorrendo il tempo assieme, solo noi due. Per me non era ancora abbastanza quando ricominciammo a uscire, ma Tristan non era d'accordo. Era determinato a fuggire da quel silenzio nella sua testa, a tutti i costi. I suoi demoni erano totalmente diversi dai miei che non fui in grado di aiutarlo. Ci ritrovammo all'ennesima festa a casa dell'amico di un amico che celebrava un qualcosa. Io ne avevo abbastanza: quel tipo di feste non aveva quasi mai musica decente da ballare e Tristan era sparito per parlare con Kenny un secondo dopo essere arrivati. In tutta franchezza sarei dovuta rimanere a casa a studiare o andare a lezione di ballo. Il premio di consolazione di questo party tuttavia, si rivelò essere la presenza di Frankie, una sorta di contrappeso al fatto che ci fossero anche Dean e Stronzalie. Sfortunatamente, fu questa a trovare me prima che io raggiungessi Frankie. Stavo prendendo un drink dalla cucina quando una voce alle mie spalle m'interpellò, facendomi irrigidire. «Sei davvero una piccola troietta esotica, questo te lo riconosco, ma la febbre gialla non dura per sempre. A lui piacciono le bionde, lo sai.» Socchiusi un secondo gli occhi a quella sua piccola invettiva poi le feci un gran sorriso: fin qui ero in grado di reggere, era lo stare zitta e tenere gli artigli a posto che necessitava di una messa a punto. «Non abbiamo tutte la possibilità di somigliare a una Bratz» replicai con tono indolente, «Il dottore ti ha fatto uno sconto quando si è reso conto che avevi perso la capacità di sbattere le ciglia o chiudere la bocca? In caso contrario dovresti proprio scrivere un bel reclamo, anche se nel tuo caso, immagino che avere un'infinità di punti in comune con una bambola gonfiabile sia positivo.» Il suo sguardo furioso rese la mia espressione sorpresa. Sporsi le labbra e le schiusi leggermente per replicare la posizione permanente delle sue; scimmiottando al meglio la mia idea di bambola. «Sei una vera stronza, sai?!» Alzai gli occhi al cielo, delusa dal fatto che non sapesse fare di meglio. Io mi ero già preparata a un match coi fiocchi. «E tu una vecchia sgualdrina di Las Vegas in cerca di soldi.» «Ho solo ventisei anni!» Dovetti mordermi il labbro per non ridere: il fatto che lei avesse ribattuto solo alla parte relativa all'età la diceva davvero lunga. «Una sgualdrina che si scopa gli uomini in là con l'età invecchia prima del tempo, non lo sai?» La sua reazione fu semplicemente quella di sollevare una mano in aria e andarsene pestando i piedi. Per quanto fossi cosciente che gli uomini amavano le tette, il fatto che Tristan si fosse innamorato di lei mi lasciava perplessa. La cosa strana era che ogni volta che avevo a che fare con lei, mi veniva sempre voglia di tirare qualcosa addosso a lui. «Perché hai l'aria di una che vorrebbe spaccare qualcosa? Cos'ha combinato Tristan stavolta?» Increspai le labbra mestamente mentre mi voltavo verso Frankie. «Sai cosa mi fa incazzare? Dover discutere per tenere testa a quella bambola gonfiabile e rendermi conto che era il ‘tipo’ del mio ragazzo.» «Ahh, Stronzalie, ecco chi ti ha messo di cattivo umore.» «Giurerei che ci stia perseguitando, ultimamente ce la ritroviamo ovunque andiamo.» «Lo rivuole e non ne fa certo mistero.» Quello mi fece attorcigliare lo stomaco: una volta lui le aveva dato un anello ed ero quasi certa che fra loro ci fosse ancora un barlume di affetto. «Non succederà Danika, togliti quell'espressione dal viso. Lui non te lo farebbe mai, specie con lei.» «Una volta li ho beccati a flirtare. È stato mesi fa, ma secondo me provano ancora qualcosa.» «Secondo me invece hai capito male.» «Non credo.» «Per la cronaca, io penso che la gelosia stia pregiudicando il tuo giudizio. Quei due hanno avuto una relazione che è durata un po', è vero, ma credo che lui sia passato dall'avercela al provare dispiacere per lei. Nat deve aver avuto un'infanzia difficile e Tristan ha sempre cercato di recuperarla. Ha una specie di complesso del salvatore…» «Complesso del salvatore… Pensi che stia cercando di salvare anche me?» «No, non sto dicendo quello. Quello che intendo è che lui è un bravo ragazzo che ha sempre provato compassione per lei. E quella è una parte di lui che non cambierà. Non apprezza quello che Nat è diventata ma ciò che ha passato rappresenta un punto debole per lui, è un dato di fatto. Perché altrimenti pensi che sarebbe ancora amico con quel mega coglione di Dean? Immagino che anche lui abbia avuto un'infanzia dura, per questo Tristan è così tollerante nei suoi confronti.» «Beh, immagino che sia colpa di quel punto debole se mi viene voglia di tirargli addosso le cose. Questo mi rende una stronza?» «Non per me. Solo, non scambiare questa sua tolleranza per un qualche tipo di affetto: lui adesso le parla a malapena, compassione o meno, perché sa che la cosa ti manda al manicomio.» «Mi sembra a malapena giusto, considerato che cercherebbe di uccidere uno qualsiasi dei miei ex, se lo vedesse anche solo rivolgermi la parola.» «Già, su questo hai ragione da vendere. Dato che si trasforma in un maniaco verso chiunque ti guardi sorridendo, di sicuro non potrà mai rinfacciarti la tua gelosia.» «Proprio così.» Scovammo Tristan in mezzo a un mucchio di gente che rideva ai bordi della piscina. Stava parlando con Kenny, Cory e Dean… La band era di nuovo assieme, si capiva da una semplice occhiata e l'uomo in completo che sembrava leccar loro il sedere mi fece venire il voltastomaco. Stavo per perderlo, un pensiero fugace ma difficile da cancellare. Stava succedendo qualcosa, una svolta enorme per la band, che me l'avrebbe portato via in termini di tempo o di distanza. Quando mi vide, Tristan mi fece un enorme sorriso. Non lo vedevo così felice da prima che Jared morisse ma quando lasciò gli altri per venire a prendermi, la preoccupazione per ciò che stava per dirmi mi provocò la nausea. «Devo parlarti» esordì. Lo seguii a fatica quando tutto quello che desideravo era temporeggiare, scappare o qualsiasi altra cosa potesse fermare il corso degli eventi. Sapevo di essere ridicola, tuttavia quell'autocritica non riuscì a fermare l'orribile sensazione dentro di me. «Suona spaventoso» gli dissi con tono fermo. «Niente di brutto, anzi, direi il contrario.» Mi trascinò fino a che trovammo un angolino appartato in casa. Lui si avvicinò sfiorandomi la fronte con la sua e sorrise prima di annunciarmi: «Abbiamo un contratto per un disco!» Lo sapevo: avevo capito che sarebbe successo fin dalla felice reunion di una band che non si era più riunita dopo il funerale. Tutto era sempre andato in quella direzione. Lui deglutì e lo sguardo all'improvviso parve abbattuto. «Jared l'aveva sempre desiderato, non è giusto che non sia qui a vederlo succedere.» Mi sciolsi e gli accarezzai una guancia cercando di consolarlo come potevo. «Gli altri sono al settimo cielo e io sono felice per loro, specie per Kenny, ma non sono sicuro di volerlo. Il gruppo… tutto quanto non è lo stesso senza Jared. Non dovrebbe essere difficile per loro trovare un nuovo cantante: io non sono poi così speciale.» Delirava se pensava che il gruppo sarebbe andato bene anche senza di lui. Diavolo: secondo me, se non fosse stato per la sua presenza a quest'ora non l'avrebbero nemmeno avuto un contratto discografico, anche se non ero certo adatta a dare un tale giudizio. «E il posto di Jared, non vi serve un altro chitarrista?» era una domanda rischiosa e difficile anche per me. Lui fece una smorfia passandosi una mano fra i capelli. «Tecnicamente non abbiamo bisogno di un altro membro ma la casa discografica vuole proporci qualcuno. Non l'ho incontrato ma ho sentito dire che è bravo. Sono felice per i ragazzi ma come ho detto, non so se mi va di farlo. In fondo, niente di tutto questo sarà come prima senza Jared, anche solo l'idea di un altro al suo posto mi fa stare male.» Vedevo chiaramente ciò che mi stava chiedendo, anche se lui non se ne rendeva conto. Si sforzava di nascondere la frustrazione repressa nei confronti della vita, il malcontento per la mano che gli era capitata: un uomo di talento, abile in tutto, dotato di buonsenso e di un fisico eccezionale che tuttavia non trovava un giusto impiego. Era cresciuto in un mondo in cui il suo potenziale era stato svalutato tanto quanto il suo valore. Era ambizioso: non lo avrebbe mai ammesso poiché nel suo ambiente era un sogno irrealizzabile, ma l'ambizione era un fuoco che prescindeva il suo controllo e della quale lui aveva bisogno. Gli infilai le mani fra i capelli, appoggiando la mia fronte alla sua. Mi sforzai di parlare con voce sicura per quanto mi fosse difficile: «Io penso che dovresti farlo. Le opportunità come queste non capitano spesso e quando succede, devi afferrarle al volo. Jared lo avrebbe voluto.» «Ma non è lo stesso senza di lui. Non lo sarà mai.» «No, è vero. Sarà una cosa completamente diversa, ma non vuol dire che non sarà comunque positiva per i ragazzi, per te e anche per Jared. Sognava che la band sfondasse e lui non era un egoista: sarebbe felice che tu ce la facessi anche senza di lui. E tuo fratello sarà sempre con te, dentro di te. Ed è proprio quella parte di te che ha bisogno di farlo, piccolo.» Lui mi strinse a sé nascondendo il viso contro al mio collo, annusandomi e facendomi chiudere gli occhi dal piacere. «Grazie. Tu sei la mia roccia, tesoro, non so cosa farei senza di te. Rendi tutto migliore.» Divenni creta fra le sue mani… ormai il mio mondo era quest'uomo che mi amava. Nonostante la protesta simbolica, sapevo che lo desiderava davvero e non potevo certo biasimarlo: in un certo senso lo volevo anche io, perciò non presi nemmeno in considerazione l'idea di trattenerlo. All'apparenza, tutto quello che gli serviva sembrava essere la mia approvazione o il mio incoraggiamento e così fu. Raggiungemmo il gruppo di musicisti storditi dai quali appresi ulteriori dettagli preoccupanti: sarebbero entrati in studio entro una settimana, ma a Los Angeles, che era a cinque ore di macchina. Dovevano impegnarsi cinque giorni a settimana e l'intero processo d'incisione sarebbe potuto durare mesi. Avrei voluto vomitare invece sorrisi, mi congratulai con tutti e lasciai che Tristan mi tenesse un braccio sulla spalla come se tutto quanto andasse alla perfezione. Non avevo certo bisogno di un'altra ragione per detestare Dean, ma lui sembrava sempre più che felice di darmela. Quando Tristan si allontanò per parlare con il suo nuovo produttore, lasciandomi sola per meno di cinque minuti, mi si avvicinò con un ghigno beffardo che mi fece letteralmente venir voglia di cancellarglielo. «Fuori città per cinque giorni a settimana… Quanto tempo credi che resisterà Tristan prima di perdersi fra le gambe di una fan? Io dico due settimane. Facciamo una scommessa: se vinco io, ti scopo.» Lanciai un'occhiata in direzione di Tristan, ponderando se fosse il caso di dare direttamente un pugno in faccia a quel farabutto o aizzargli contro il mio ragazzo. «Ohh, gli dirai che ho oltrepassato il limite con te? Sei brava a provocare, piccola, ma non a incassare.» Lo incenerii: quando si trattava di Dean ero svelta a rispondere per le rime ma avevo imparato che meno reagivo con lui e meglio era. «Se riportassi a Tristan le tue parole, lui poi verrebbe a prenderti a calci in culo e non ritengo giusto picchiare le ragazze» sorrisi dolcemente mentre le mie parole andavano a segno e lui ricambiò l'occhiataccia. In uno sforzo supremo di autocontrollo mi allontanai: almeno avevo avuto l'ultima parola. CAPITOLO DUE TRISTAN Con l'annuncio del nostro contratto discografico la festa prese vita. La musica iniziò a pompare e vidi Danika che ballava con Frankie nel giardino illuminato. Non importava quante volte fosse già capitato, ma Danika che muoveva i fianchi a ritmo della musica era lo spettacolo più sexy che avessi mai visto. Indossava una gonnellina blu che metteva perfettamente in mostra le sue gambe toniche e quel suo culetto sodo, tanto da farmi prosciugare la bocca ogni volta che lo girava verso di me. Me ne stavo in piedi accanto alla piscina a discutere la novità con alcuni tizi, ma in realtà non ero davvero presente. Nella mia mente sollevavo quel pezzetto di stoffa, la facevo piegare a novanta gradi e sprofondavo dentro di lei fino ai testicoli. Era un mio diritto: lei era mia. Mia. Quella creatura sexy come il peccato mi apparteneva e se per caso ipotizzavo che qualcuno non lo capisse, ci vedevo letteralmente rosso. Misuravo il mio grado di pazzia per lei, dal fatto che fossi geloso dei sorrisi, delle risate e di qualsiasi altra cazzo di azione non causata da me, che la rendeva felice. Non volevo condividerla e basta. A nessun livello. Lei. Era. Mia. In quanto ai suoi sentimenti per me, basta uno sguardo per capirli. Non ero mai stato amato a quel modo prima e la cosa mi faceva impazzire. Avevo avuto solo un'altra relazione con la quale fare un paragone: ecco perché pensavo a Nat, a come ripeteva di amarmi cinque volte al giorno, in modo incessante, fino a farmi sentire soffocato. Soffocato ma mai davvero amato. L'esatto contrario di come mi sentivo anche solo grazie a uno sguardo di quel paio di occhi color dell'argento. Se fossi riuscito a meritarmi anche solo metà di quell'amore, sarei riuscito a superare tutta la merda che la vita continuava a buttarmi addosso. «È più che una bomba sexy, te lo riconosco. Se hai deciso di farti incastrare da quella figa, non ti va poi tanto male!» Guardai Dean in modo truce: ultimamente non ci eravamo presi molto. «Dacci un taglio a meno che non voglia un calcio in culo!» Lui mi fece uno dei suoi sorrisi alienati, di quelli che quando eravamo bambini mi piacevano da matti perché significavano quasi sicuramente guai, ma comunque divertenti. Qualcosa negli anni era cambiato in lui, non avrei potuto mettere la mano sul fuoco sul quando, ma Dean non era più lo stesso di una volta. Lasciai correre per il semplice motivo che la morte di Jared non aveva colpito soltanto me, ma riflettendoci, mi resi conto che il cambiamento di Dean era avvenuto molto tempo prima. «Si fa per parlare, Tryst. Sono solo parole, amico. Comunque l'aggressività legata a questa dipendenza dalla tua ragazza ti tornerà comoda quando la scaricherai ed io mi prenderò la mia soddisfazione, scopandomela per ripicca. Stile Nat.» Bastarono quelle poche frasi uscite dalla sua bocca del cazzo a far risvegliare il mio caratteraccio. La sua maglietta finì fra le mie mani: «Che cazzo dovrebbe significare?» sibilai fra i denti, «E cosa cazzo c'entra Nat?» «Mi ha scopato meno di una settimana dopo che vi siete lasciati. Si è lasciata fare di tutto per vendicarsi di te, ma il suo scherzetto le si è rivoltato contro perché tu non l'hai mai scoperto fino ad oggi, quando non potrebbe fregartene di meno di chi se la sbatte.» «Ma che cazzo hai di sbagliato tu, eh?» lo scossi in preda alla collera. «Oh, scusami… ancora ti frega chi si scopa Natalie? Buono a sapersi, amico!» Lo agitai come un sacchetto di patatine. Sapevo che tutti attorno a noi si erano immobilizzati, perciò mi rivolsi a lui sottovoce: «Le ragazze, ex o no, sono off-limits e tu lo sai. Non m'interessano le conseguenze, ma se provi a toccare Danika anche solo con un dito, ti taglio quel tuo uccello e te lo faccio ingoiare. Capito? Anche fra dieci anni, la tocchi e sei morto.» Lo lasciai andare e serrai i pugni. Dovevo allontanarmi prima di perdere del tutto la testa e spingere qualcuno a chiamare gli sbirri. Dean stava ancora ridendo come quel pazzo bastardo che era. «Recepito forte e chiaro. È bello vedere che la terapia per la gestione della rabbia sta funzionando. Ti lascio da solo, così puoi praticare la tua meditazione del cazzo» e se ne andò fischiettando come se nulla fosse successo. «Pezzo di merda fuori di testa» gli borbottai dietro le spalle. Mi aveva palesemente provocato con successo: l'idea di un altro che anche solo stringeva la mano a Danika, mi mandava al manicomio. Quella di Dean - quel sacco di merda di Dean - che se la faceva, mi istigava all'omicidio. «Tristan» chiamò una voce sussurrata e anche troppo familiare mentre qualcuno mi stringeva il gomito. Mi voltai e lanciai a Natalie un'occhiata seccata. Quella donna stava diventando una seccatura: eravamo andati avanti anni senza mai incrociarci e adesso che quel vecchio l'aveva mollata, era ovunque. Non avevo mai pensato nemmeno per un attimo che fosse un caso e stavo iniziando a ricordare quegli anni senza contatti con un certo affetto. Era palese che nonostante fossimo cresciuti assieme, non saremmo mai stati in grado di essere amici. E a discapito dello zero percento di probabilità che accadesse, lei non avrebbe mai rinunciato all'idea di rimetterci insieme. «Che vuoi?» le domandai senza preoccuparmi di nascondere la stizza. Lei mi sorrise imperterrita. Era una tipa furba e per molto tempo avevo scambiato quella scaltrezza per intelligenza. Non era così ovviamente e nel tempo mi ero reso conto di come altro non fosse se non una stupida vacca. «Volevo parlarti di alcune cosette. Possiamo andare da qualche parte per stare soli?» Era talmente assurdo da risultare quasi divertente. «Col cazzo. La mia ragazza ti detesta perché ti comporti sempre da stronza con lei e l'ultima cosa che voglio è farla arrabbiare di nuovo per colpa tua. Se devi dirmi qualcosa, puoi farlo qui. E in fretta.» Lei mi toccò un braccio sorridendomi e tutto ciò che pensai, fu che se Danika se la fosse presa con me dopo, Nat non sarebbe valsa i cinque secondi di dialogo. «Oh, Tryst, ti ricordi come eravamo?» domandò con un tono sognante che mi fece nuovamente sentire soffocato. «Ti ricordi l'intesa? Eravamo così arrapati… non ho mai provato nulla del genere, né prima né dopo.» Proprio non ce la feci e scoppiai a ridere, anche se non era certo una risata felice. Ero nauseato delle passeggiate lungo il viale dei ricordi alle quali si abbandonava. Per me era finita. «Non direi. Io mi ricordo come mi negavi il sesso per ottenere ciò che volevi e l'intesa non era nulla di speciale. Francamente mi va molto meglio adesso. Un milione di volte meglio. Non c'è paragone.» Lei sussultò per lo sdegno ma io non avevo ancora finito. «Spero che un giorno tu riesca davvero ad amare qualcuno Nat. Così capirai che io e te non abbiamo avuto altro che una stupida storiella fra ragazzini.» DANIKA Smisi improvvisamente di ballare sentendo Tristan che gridava qualcosa a Dean, afferrandolo per la maglietta. Non di nuovo, pensai con una smorfia. Quei due erano ai ferri corti ogni volta che mi giravo e la cosa assurda era che per quanto inadatti, erano anche coinquilini. Non ero sicura di quanto sarebbe durata, ma una volta finita sarei stata la più sollevata di tutti. «Cosa cazzo ha fatto Dean adesso?» borbottò Frankie dietro di me, stringendomi un braccio. «Dovrei intervenire» osservai e la sola idea mi fece sentire esausta. «No, non dovresti. Vieni dentro con me invece e lascia che se la sbroglino da soli.» «Potrei essere l'unica in grado di farlo calmare» le spiegai pur seguendola. «Ma sarebbe una soluzione temporanea a un problema di maggiore portata. Quell'uomo deve imparare a non inalberarsi anche senza di te.» Sapevo che aveva ragione eppure non riuscii a smettere di preoccuparmi, guardando fuori ogni due secondi, cercando di valutare la gravità della situazione. Quando Dean oltrepassò la soglia fischiettando mi sentii più che sollevata. Quando mi vide mi fece anche un sorriso, come se la cosa lo avesse reso felice, evento che non accadeva praticamente mai. «Tu» mi disse, facendolo suonare come un vezzeggiativo, «Ti stavo proprio cercando.» Di sicuro non era positivo: quel bastardo cercava i guai peggio di me, perciò mi misi a braccia conserte guardandolo in tralice. «Perché? E cos'hai detto a Tristan per farlo innervosire di nuovo?» «Andiamo, come se non fosse sempre arrabbiato!» Detestai il fatto che avesse ragione. «Ma quello che è successo là fuori è stato niente. Gli è venuto un attacco di gelosia perché io e Nat ci siamo frequentati. Non devi preoccuparti però, di sicuro non vuol dire che provi ancora qualcosa per lei. Oh, guarda…» e indicò la finestra. Mi voltai seguendo il suo sguardo e il mio corpo s'irrigidì. La mia mente era già sconvolta dalle sue parole: non riuscivo a scrollarmi di dosso il sospetto che Tristan nutrisse ancora qualcosa per quella stronza e le parole di Dean non avevano fatto altro che confermarlo. Tristan stava parlando con Natalie ed era visibilmente arrabbiato. «Secondo me gliene sta dicendo quattro per avermi scopato, ma questo non significa che la voglia ancora. È piuttosto normale prendersela per una cosa successa anni fa con la tua ex, no?» Odiavo che usasse il sarcasmo come me, dicendo cose che mi facevano incazzare. «Vattene, merdina» gli intimò Frankie. Io stavo ancora fissando Tristan e Nat. Il viso di lui subì una trasformazione, il cipiglio svanì e una grassa risata gli sfuggì dalla gola. Mi si serrarono i pugni… lei doveva aver detto qualcosa che lui riteneva divertente. La odiai. «Ricorda: sono sempre pronto se volessi rendergli la pariglia ingelosendolo.» Ignorai del tutto Dean finché non se ne fu andato. I miei occhi e ogni singolo grammo della mia concentrazione erano dirottati sulla coppia che chiacchierava all'esterno. Lei gli aveva toccato il braccio due volte. «Io dico di andarcene. Fuori di qui. Che ne dici dell'In-N-Out? Si mangia e si beve bene.» «Sì» mi voltai con fermezza allontanandomi dalla finestra. Avevo finito di torturarmi: se lui voleva parlare con la sua ex, poteva anche passare il resto del tempo a chiedersi dove diavolo fossi finita. Non era che mi andasse particolarmente un hamburger e non avevo bevuto nemmeno un goccio di alcool, ma non era quello il punto. Dopo appena dieci minuti dalla nostra partenza, lui mi aveva già mandato cinque sms. Continuai a fissare l'icona sullo schermo senza leggerne nemmeno uno. «Parliamone, ragazza» mi esortò Frankie con voce strascicata, guardandomi con la coda dell'occhio, «Sembri sul punto di mordere.» «Penso che lui provi ancora qualcosa per lei.» Le parole mi uscirono di bocca praticamente da sole. Mi sentivo infantile e paranoica ma non riuscivo a mandar via l'orrenda sensazione provocata dal vederli chiacchierare. «Non diventi geloso tanto da aggredire qualcuno, solo perché ha scopato con una tipa con la quale ti sei lasciato anni fa, a meno che non provi ancora qualcosa per lei, no?» Frankie scosse la testa sospirando in modo drammatico. «Non lo so. I ragazzi hanno una regola: non si fanno le tipe degli amici, ex o non ex.» «Ma hanno comunque scopato le stesse donne. Non ha senso.» «Nemmeno per me, deve essere decisamente una cosa da maschietti. A volte, dire che una pollastra è la tua ragazza cambia tutto.» Il mio cellulare suonò nuovamente e provai il forte impulso di scaraventarlo fuori dal finestrino. «Devo smettere di seguirlo a questi stupidi party, sono sempre fonte di problemi.» Ma a essere davvero onesta con me stessa, ero terrorizzata che lui li frequentasse senza di me. Stronzalie sembrava in agguato ovunque, solo in attesa di una possibilità. «Non è una cattiva idea. Di sicuro hai già abbastanza problemi senza dover gestire anche quell'imbecille istigatore di Dean.» «Avrei potuto studiare o magari aiutare Jerry coi bambini questa sera. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che non uscire e guardare il mio uomo tornare pappa e ciccia con la sua ex.» «So che te l'ho già detto, ma se può aiutarti te lo ripeterò: non penso esista una sola possibilità al mondo che lui la tocchi, nemmeno con un bastone lungo due metri.» Aiutò. Mangiammo gli hamburger ma saltammo le patatine, che rappresentavano dei grassi contro delle buone e semplici proteine. Stavamo tornando quando controllai gli sms. Alzai gli occhi al cielo: ce n'erano tredici e l'ultimo diceva tutto sull'umore di Tristan. Tristan: Dove cazzo sei andata? Il mio cellulare si guadagnò una smorfia. Replicai laconica. Danika: Con Frankie. Lui rispose immediatamente. Tristan: Perché non mi hai detto che sparivi? Un invito a nozze per il mio bisogno di sfogarmi. Danika: L'avrei fatto ma eri troppo preso da Nat. Il cellulare prese a suonare e per un attimo mi feci piccola poi risposi. «Hey…» «È stata lei a venire da me» la sua voce arrabbiata era alta a sufficienza da costringermi ad allontanare il telefono dall'orecchio, «Io non volevo averci niente a che fare. È sempre così. Dove sei? Vengo a prenderti.» «Stiamo tornando.» «Siamo a circa dieci minuti» gridò Frankie in modo che anche lui sentisse. «Sei arrabbiata per questa cavolata?» mi domandò Tristan. Se già non fossi stata arrabbiata, ci avrebbe pensato il suo tono basso e crudele. «Non lo so. Il fatto che Nat e Dean abbiano scopato dopo che voi due vi siete lasciati, ti ha fatto incazzare abbastanza da affrontarlo?» All'altro capo, lui imprecò. «Ma non è quello che è successo: Dean stava solo cercando di provocarmi, come sempre.» «Rispondimi allora: ti dà fastidio che abbiano scopato?» «Non sono arrabbiato con Natalie. Credimi quando ti dico che non potrebbe fregarmene di meno con chi scopa. Ce l'ho con Dean: sta valicando dei confini che abbiamo stabilito anni fa e prova a mettere zizzania fra me e te senza motivo. Senza contare che non sono affari suoi.» Aveva sia risposto che evitato la mia domanda e all'improvviso mi sentii stupida. Le aveva solo parlato, non si erano mica appartati. Il suo tono variò inaspettatamente, diventando estremamente suadente e capii subito che ero fregata: «Non litighiamo tesoro. Sai che sei l'unica che voglio.» Lo sapevo? Lui si era dato da fare prima che ci conoscessimo… diavolo, anche dopo in realtà. Ma da quando eravamo diventati una coppia, il suo comportamento era sempre stato ineccepibile ed io avrei dovuto ricordarmelo bene, dato che eravamo sempre appiccicati. «Nemmeno io voglio litigare» ammisi. Frankie ridacchiò e la incenerii con lo sguardo. Tutti sapevano che Tristan mi aveva in pugno. «Questo vuol dire che passiamo direttamente al sesso rappacificatore?» la voce roca di lui rimbombò attraverso il cellulare e tutto a sud del mio ombelico si contrasse, «Vuoi che ti tiri i capelli mentre ci diamo giù di brutto, tesoro? Che ti scopi fuori l'ansia?» Spiai Frankie e dall'irrefrenabile ghigno sul suo viso capii che stava ascoltando ogni parola di Tristan. «Ci vediamo fra un minuto» replicai quasi gridando e chiusi la comunicazione. «Stai arrossendo» osservò Frankie con una risatina. «Quell'uomo è senza vergogna» brontolai. CAPITOLO TRE DANIKA Tristan era in piedi in mezzo alla strada con le braccia conserte. Sembrava pronto a una rissa… oppure a tenermi per i capelli mentre mi scopava alla grande. «Gesù, ha delle braccia impressionanti» sottolineò Frankie. Ed era vero: erano gonfie, tatuate e sembravano pronte a far scoppiare le cuciture della sua maglietta nera. Aveva un aspetto duro e magnifico e la sua espressione infuriata provocava grossi contrasti alla mia libido. Dio, quanto lo volevo! «Non ti dirò certo una bugia: è sexy da morire se ti piace il genere, cosa che ovviamente è.» La sentii a malapena mentre guardavo lui che raggiungeva il mio lato dell'auto, aprendo lo sportello prima ancora che fossimo del tutto ferme. «Rilassati, bambolone» disse Frankie, «Siamo state via solo un'ora.» Lui le rispose a fatica, facendole un cenno di saluto frettoloso prima di tirarmi giù dalla macchina. «Andiamo a casa» brontolò tirandomi perché lo seguissi sul marciapiede. «Buonanotte» gridò Frankie. «Ti chiamo domani» le dissi, all'improvviso ansiosa quanto Tristan di arrivare alla sua auto. Ed era bastata solo un'occhiata ardente. «Ti piace la rissa» lo accusai sottovoce. «Poco. Mi piace scoparti e non posso farlo se mi scarichi alle feste.» Lo guardai male mentre non mi veniva in mente niente di utile da replicare. Il fatto che riuscisse a eccitarmi e farmi incavolare in parti uguali non aiutava. «Abbiamo preso un hamburger. Tu eri occupato perciò non vedo come puoi lamentarti.» «Cosa vuoi che faccia, che scappi ogni volta che mi si avvicina? Avrei dovuto buttarla in piscina?» Quell'immagine allettante mi fece sorridere. «Quello ti avrebbe fatto guadagnare dei punti.» Lui ridacchiò mentre mi faceva salire e poiché ero stanca quanto lui di parlare di Natalie, cambiai argomento: «Sei sicuro di poter guidare?» «Sì. Più che bere abbiamo parlato.» Si mise al volante senza guardarmi e avviò il motore. «Togliti le mutandine» il suo tono era rilassato, quasi indolente. Mi s'inturgidirono i capezzoli e percepii una deliziosa e corposa sensazione di umido fra le gambe. «Non siamo così lontani da casa tua» protestai, sebbene le mie mani avessero sollevato un po' la gonna. Afferrai i bordi delle mutandine e le feci scivolare giù impaziente. «Solo un po' di riscaldamento, pudding.» Deglutii quando una mano si staccò dal volante per posarsi sulla parte alta della mia coscia, accarezzandola con fervore. «Sono già accaldata.» Ormai ne avevo fatta di strada rispetto a quando mi servivano molti preliminari e grazie a lui, ero perfettamente in armonia con il suo stato di arrapamento costante. «Apri le gambe, dimostramelo.» Le schiusi e i miei fianchi si mossero verso la sua mano. Lui la sollevò ma non abbastanza. «Sei bagnata? Fammi sentire… voglio che la tua fica sia disperata dalla voglia.» Gli afferrai la mano, attirandola a me finché le sue nocche mi sfiorarono la fessura. Fu un contatto leggero che tuttavia fece sospirare entrambi. Lui fletté il polso nella mia mano, infilando due dita prima che capissi le sue intenzioni. Chiusi gli occhi mugolando sonoramente. «Dio, amo le tue mani» gemetti. Fece uscire lentamente le dita, strofinandole lungo l'interno delle pareti, facendomi rabbrividire e imprecare. Le rituffò dentro con foga ed io scalciai via una scarpa, affondando un tacco nel sedile mentre sollevavo i fianchi più che potevo, persa nella sensazione e preoccupata solo della mia corsa all'orgasmo. Il mondo in quel momento era tutto lì, in quello che le sue dita mi stavano facendo. Mi fece venire velocemente sapendo dove toccarmi e quanto, e mi resi conto che la macchina si era fermata solo quando mi ripresi dall'orgasmo, mentre lui sfilava le dita. Mi stavo sistemando seduta quando notai che i suoi jeans erano sbottonati. Il suo uccello era esposto, duro e imponente, stretto nella sua grossa mano. Fu una visione che mi fece gemere. «Lascia» mi offrii cercando di sedermi ma lui mi penetrò nuovamente con le dita, tenendomi ferma dov'ero. «No. Voglio questo, qui» e mosse le dita per dimostrare cosa intendesse per ‘questo’, «Perciò aspetterò finché non siamo a casa. Voglio scoparti con forza perciò ti sto facendo riscaldare, così ti posso prendere contro il muro.» Ansimai quando le sue dita instaurarono il ritmo e protestai quando di punto in bianco mi lasciarono. «La cintura bubu. Andiamo a casa.» Mi sistemai, allacciando la cintura mentre occhieggiavo la sua erezione esposta. Dopo circa trenta secondi dalla partenza, la mia mano iniziò a spostarsi verso di lui. Lo afferrai stringendolo nonostante dovessi piegarmi sulla sinistra per una buona presa. Le mie dita riuscivano a chiudersi a malapena attorno alla sua circonferenza… la cosa più arrapante del mondo. Lo pompai con forza un paio di volte prima che lui mi bloccasse la mano. Guardai affascinata una goccia perlacea di liquido sfuggita dalla punta congestionata e non appena la macchina entrò nel parcheggio fuori dal condominio, mi liberai della cintura e presi a stuzzicarlo con la lingua, affamata. Tristan mi allontanò prendendomi per i capelli e mi guardò con un sorriso sofferente. «Come ho detto, sto aspettando di scoparti. Fuori dalla macchina, bubu.» Avrei voluto rispondergli ma soppressi quel bisogno, filandomela a tutta velocità per le scale. Lui aveva dei progetti che mi andavano benissimo a prescindere da quali fossero. La mia libido ormai era in piena frenesia e sfuggiva al mio controllo. La velocità con cui Tristan aprì la porta, la chiuse dietro di noi e mi spinse contro la parete fu una sorta di gioco di prestigio. Sprofondò dentro di me e i miei tacchi gli infilzarono i glutei. I nostri baci erano intensi, rudi, eccitanti e intossicanti. La nostra era una fame insaziabile. Mi penetrò con una stoccata sicura e venimmo colti dalla smania mentre lui mi scopava follemente come promesso, borbottando al mio orecchio sconcezze alternate a tenerezze e rivoluzionando tutto il mio mondo. «Ho intenzione di scoparti tanto che domani nessuno dei due riuscirà a camminare» grugnì nella mia bocca ed io mi squagliai. Intense ondate di lussuria mi avvinsero mentre lui si sfilava e riaffondava con lunghi colpi veloci. I miei fianchi gli andavano incontro e a ogni stoccata sbattevo contro la porta alle mie spalle. «Ti amo» mormorai affannata mentre venivo. La sua schiena s'inarcò e lui mi seguì, completamente dentro di me, gridando dal piacere. «Dio, è stato davvero intenso» sospirai. «Oh, non abbiamo mica finito!» Si sfilò mentre ancora si stava contraendo e i miei piedi non fecero in tempo a toccare terra che mi trascinò dritto in camera da letto. Mi spinse sul materasso con un'espressione feroce e tenera al tempo stesso. Quanto lo amavo. Quanto amavo tutto questo: adoravo quello che mi faceva, ogni tocco, ogni assaggio… Era riuscito a farmi piacere un atto che per la maggior parte della mia vita da adulta mi aveva terrorizzato. Mi fece voltare prona, sollevandomi i fianchi per aggiustare l'angolazione e il suo glande pulsò contro di me spingendosi appena oltre i primi centimetri, per torturarmi senza tregua. «Parlami, tesoro» gracchiò al mio orecchio, «Dimmi cosa vuoi. Sii esplicita.» I miei fianchi arretrarono contro i suoi e la mia schiena s'inarcò quando mi prese i seni fra le mani. «Scopami forte» mugolai mentre iniziava a penetrarmi, «Prendimi per i capelli e sbattimi su questo letto.» Quello gli provocò una risata roca che tuttavia svanì quasi subito quando affondò dentro di me con forza, allungandomi e riempiendomi finché ogni mio singolo nervo tornava alla vita. Assecondò la mia richiesta alla lettera, scopandomi tanto che pensai avrei lasciato un'impronta permanente del mio corpo sul materasso. Il mio viso era talmente affondato che dovetti fare leva sui gomiti solo per riuscire a respirare ma lui non cedette, prendendomi senza pietà. Era uno di quegli amplessi da far strappare le lenzuola e Tristan mi ascoltò gridare prima di godere. Una volta raggiunto l'orgasmo si lasciò andare con tutto il peso su di me, ansimando. I suoi fianchi continuavano a martellarmi, inchiodandomi giù. «Stai bene?» domandò col fiatone, «Credo di avere un po' perso la testa.» «Mm mm» mormorai in risposta, respirando a fatica mentre tentavo di tornare sulla terra. Passò un bel po' di tempo prima che lui mi scendesse di dosso ma solo per avvolgermi nel suo abbraccio. Il mio ragazzo era un coccolone e la cosa non avrebbe potuto rendermi più felice. «Rinunciare a tutto questo per cinque giorni a settimana sarà dura» osservò con voce assonnata. Mi irrigidii… mi ero quasi del tutto dimenticata del contratto. Forse la mia mente lo aveva chiuso fuori perché era qualcosa che mi terrorizzava. Sapevo che non ci avrebbe fatto alcun bene. Beh, a lui forse sì o almeno così speravo, ma a noi in quanto coppia... La sua mano si strinse attorno al mio fianco e capii di essermi allontanata quando mi chiese: «Sei sicura che la cosa ti stia bene? Se non ti piace, non accetterò. Non voglio stare lontano per così tanto.» Gli diedi un buffetto sulla mano stringendo gli occhi chiusi. Poiché mi stava abbracciando da dietro, non si accorse delle lacrime che scendevano. «Ma certo che mi sta bene. Non puoi lasciarti sfuggire questa possibilità, Tristan e comunque ci vedremo nei fine settimana.» «Dio, suona da schifo. Cinque giorni a settimana è ridicolo. Vedrò se riesco a far cambiare loro idea per quanto riguarda la tabella di marcia.» Ma alla fine vi si attennero tutti. Cinque giorni lontano, due a casa. Settimana dopo settimana. Fu una routine che si rivelò pesante per entrambi fin da subito: Tristan veniva a casa sempre più stanco e teso ed io lo sentivo allontanarsi da me ogni volta che ripartiva. I periodi di assenza iniziarono ad allungarsi e i giorni divennero settimane. Stavamo naufragando. Mi sentivo incapace di fermare tutto, eppure mi aggrappai a lui disperatamente. CAPITOLO QUATTRO MESI DOPO DANIKA Faceva paura, anche per gli standard di un normale parcheggio per roulotte. Era proprio il tipo di luogo in cui, negli anni in cui non ci eravamo mai viste, mi ero immaginata lei vivesse. Nella mia mente era sempre un immondezzaio come questo, oppure la morte. Era quello il suo stile. Bussai, attesi un minuto buono poi bussai di nuovo. Riuscivo a sentire la televisione accesa e sotto la tettoia c'era una vecchia Nissan Sentra ammaccata. Era il posto giusto e qualcuno era in casa, perciò non me ne sarei andata finché non mi avrebbero aperto. Dopo altri cinque minuti provai la porta. Non era chiusa a chiave e la aprii con estrema trepidazione. L'interno di quella roulotte era anche più piccolo di quanto non sembrasse da fuori, tanto che mi bastò una sola occhiata per avere una panoramica di quasi tutto. Mia madre, ai limiti dell'anoressico e macilenta, sedeva curva su un divano che sembrava essere uscito da un uragano. Conoscendola e ricordando la mia infanzia, probabilmente era così. Quella donna era un ammasso di caos e indifferenza. Aveva gli occhi sullo schermo che trasmetteva un episodio di un qualche vecchio reality show, ma dubitavo lo stesse davvero guardando. Aveva la testa altrove e persino all'arrivo della figlia che non vedeva da anni, il suo sguardo si spostò appena e la sua espressione si contrasse impercettibilmente. La camera da letto non aveva una parete che la separasse dal resto dell'ambiente, perciò vidi i piedi di qualcuno che spuntavano dal fondo del letto. Non che mi fossi aspettata niente di diverso. Anche devastata dalla sua dipendenza, mia madre era comunque bella. Quello, sommato al fatto che non fosse affatto sofisticata, le aveva sempre permesso di trovarsi un uomo senza alcuna fatica. Tenerselo a tempo indeterminato, beh… era un'altra storia. «Ciao» la salutai sottovoce, consapevole dello sconosciuto a pochi passi. «Hey» mi disse lei atona. Tutto qui. Non ero sicura che fosse mai stato detto ad alta voce, ma avevo sempre avuto la profonda sensazione che io e mia sorella non fossimo mai state niente più di un fardello per mia madre. Ora ero cresciuta, non la vedevo da anni, eppure ritrovavo nei suoi occhi la stessa espressione di sempre. Non ero desiderata. Non lo ero mai stata. Afferrai uno sgabellino accanto alla porta portandomelo dietro per sedermi al suo livello, assicurandomi di non bloccarle la visuale sulla televisione. Non ero certo venuta per provocarla. «Quella coppia che venne a trovarti qualche anno fa… Jerry e Bev, sono brave persone. Si sono sempre comportati magnificamente con me, sono ottimi datori di lavoro e ormai miei cari amici. Si prendono cura di me e mi danno più che un tetto sotto al quale vivere» recitai. Avevo provato quel discorso come una ragazzina nervosa. Lei non mutò espressione e nei suoi occhi non comparve alcun segno che le mie parole fossero andate a buon fine. «Io sto bene, sono una studentessa a tempo pieno e ho anche un lavoretto part-time.» Nulla. «Vado ancora a scuola di ballo. Non ho molto tempo per frequentare, con la scuola e il lavoro ma non ho lasciato perdere. Quando le cose si saranno assestate intendo riprendere a pieno ritmo.» «Hai dei soldi?» mi domandò lei come se fosse la domanda più normale del mondo ed io non le avessi mai parlato. Deglutii ferita, quando non avrei dovuto esserlo; frustrata nonostante non avessi alcun diritto di farmi illusioni. «C'è un uomo addormentato nell'altra stanza. Se non gli pago quello che gli devo, mi farà del male.» «Devo chiamare la polizia?» «Quello non mi aiuterebbe. È… complicato. Hai dei contanti?» Anche quando menzionò l'ipotesi di essere maltrattata, il suo viso rimase privo di espressione. Era morta dentro molto tempo fa. Presi il portafoglio cercando le banconote. Sapevo di non aiutarla davvero ma grazie a lei, la complice era una figura che mi veniva spontanea e se potevo evitare che quell'essere spaventoso in camera da letto le facesse del male, l'avrei fatto. Le porsi quaranta dollari che lei prese senza scrupoli. «È tutto ciò che hai?» mi domandò neutra. Ormai era un guscio di essere umano, uno zombie. Annuii. «Non mi porto mai dietro troppi contanti. Non è prudente.» «Che ne dici di un bancomat? Non prenderei molto e te li restituirei.» La mia bocca s'indurì… quella l'avevo già sentita. «Non mi sento a mio agio.» Finalmente lei ebbe una reazione, per quanto minima. Sul suo volto comparve l'ombra di un sogghigno. «Sto cercando di sopravvivere, sai, come te e come tutti gli altri.» Non pensavo che per me fosse la stessa cosa. Sapevo che i suoi demoni avevano avuto la meglio tempo addietro, mentre io intendevo ancora dare battaglia ai miei. «Io lavoro per mantenermi agli studi perciò non ho altri soldi da scialacquare. Ecco come sopravvivo.» «Hai il mio aspetto ma è tutto. Da dove hai preso questo atteggiamento, non lo saprò mai. Dahlia non ti somiglia ma almeno, quando le parlo, so che è mia figlia.» Mi aggrappai a questo, in fondo era il motivo principale per cui ero venuta qua e ignorai del tutto l'eventuale significato dietro quelle frecciatine. «Hai parlato con Dahlia? È venuta a trovarti?» Il suo ghigno tornò. «L'ho vista un paio di mesi fa. Lei non pensa di essere troppo per sua madre.» Digerii la cosa. Avevo iniziato a cercare mia sorella un mese fa e il solo fatto di averlo comunicato a Jerry aveva portato qualche riscontro. A mia insaputa, lui aveva scovato mia madre anni prima, all'inizio del mio lavoro presso di loro e le aveva fatto visita. Ero molto più giovane e lui voleva solo assicurarsi che a mia madre stesse bene il fatto che la figlia, appena diplomata, lavorasse come tata in una casa privata. Così, Jerry aveva quindi scoperto quello che avevo trovato io oggi: una donna disinteressata. A un osservatore casuale, quella sarebbe potuta sembrare apatia ma io non lo ero, avevo visto quell'indifferenza per tutta la vita ed era a un gradino superiore ormai. Se mai aveva avuto un'anima, mia madre l'aveva persa prima che ne avessi memoria. Per quanto ultima spiaggia però, rimaneva una pista che non potevo ignorare. «Hai il suo indirizzo o il suo numero di telefono? Vorrei trovarla, è un po' che non ci vediamo.» «Mi ha raccontato quello che è successo con quel vecchio. Dubito che voglia parlarti.» Raddrizzai la schiena e mi ci volle tutta me stessa per non batter ciglio. Quei ricordi erano sepolti in qualche angolo buio della mia mente, ma scoprire che mia madre sapeva, mi fece sentire come se fossero freschi. Provai quella sensazione di essere sudicia ed esposta che col tempo avevo dimenticato. «Vorrei almeno provarci» le spiegai con calma, «Sono passati anni e lei è mia sorella.» «Tu non sei diversa da me. Lo prova quello che facevi con quel vecchio: puoi guardarmi come se fossi fango sotto i piedi quanto vuoi, ma siamo uguali. Viviamo vite spezzate e tiriamo avanti come possiamo.» «Hai perso la tua occasione» replicai nascondendomi come sempre dietro al sarcasmo, «Saresti dovuta diventare una poetessa.» Avrei voluto insultarla, lei che ci aveva abbandonato alla mercé di due sconosciuti deviati, ma mi sentivo generosa e riuscii a limitarmi a quella frecciatina. «Non ho il suo numero e non so dove sta. È lei che mi fa visita ogni tanto.» «Quanto spesso?» «Come faccio a saperlo? Ho l'aria di chi ha un calendario? Quando le va, immagino.» «Vive in città o arriva in macchina da fuori?» «Sei sicura che non hai altri contanti?» «Mi stai dicendo che se ti porto dei soldi risponderai alle domande?» Lei scrollò le spalle e disse qualcosa di evasivo ma improvvisamente smisi di concentrarmi su di lei, spostando l'attenzione sull'uomo che si stirava nel letto. «Devo andare» dissi alzandomi. Provai un brivido di paura lungo tutto il corpo quando il tizio si sedette, guardandomi immediatamente. Era più vecchio di mia madre, con i capelli sale e pepe e un fisico intimidatorio. Dovevo uscire da lì… Uno sguardo m era bastato a capire che non avrei mai voluto trovarmi in sua balia. Feci qualche passo indietro rovistando goffamente nella borsa alla ricerca del biglietto che avevo scritto per mia sorella. Prima che riuscissi a recuperarlo, l'uomo fu davanti al mio viso. Mi portò via la borsa dalle mani senza darmi tempo di aprire bocca e si mise a rovistare nel portafoglio come se ne avesse ogni diritto, poi lo ributtò nella borsa guardandomi male. Nei suoi occhi neri non c'era alcun segno di umanità. Indietreggiai di altri due passi ma lui mi seguì, lo sguardo più minaccioso che avessi mai visto. «Questa è tua figlia, stronza?» bofonchiò a mia madre da sopra la spalla, «Deve essere tua, ti assomiglia. Ragazza, sai che quella puttana di tua madre mi deve cinquemila testoni?» Feci segno di no con la testa, tremando dalla paura perché a ogni mio passo indietro, lui ne faceva due in avanti. Mi bloccò contro la porta poi mi gettò la borsa e con voce bassa e dura mi chiese: «Cosa stavi cercando lì dentro?» Scossi la testa, troppo spaventata per riuscire ad assimilare velocemente la domanda. «Rispondimi» gridò e con una mano forzuta mi afferrò il mento. «B-biglietto. Era un biglietto.» Lui scavò nella borsa e prese la lettera per mia sorella sventolandomela in faccia. «Questa? Sei venuta per questa?» Annuii, piagnucolando quando lui accartocciò il foglio nel pugno e dopo avermi forzato ad aprire la bocca, me lo infilò fra i denti. «Porta quel cazzo di culo fuori da qui! Torna quando avrai i soldi di questa troia, capito?» Annuii per quanto non avessi alcuna intenzione di tornare e lui mi lasciò andare. Armeggiai con la maniglia ma lui mi assalì, prendendomi per le spalle con una forza tale che mi bruciarono gli occhi dal dolore. Ringhiò, scuotendomi tanto da farmi battere i denti poi mi lasciò ma solo per afferrare le spalline sottili del mio top, strappandole con un movimento violento. Mi si bloccò il respiro. Ero sconvolta e terrorizzata e la mia mente non era in grado di capire come avesse fatto la situazione a degenerare così velocemente, come fossi riuscita a perderne il controllo. «La prego, no» cercai di dire attraverso la carta spiegazzata nella mia bocca. Lui non ci fece caso, appoggiando il suo enorme corpo sul mio e bloccandomi una coscia fra le sue. «Ricordati stronzetta, che se ci metti più di due giorni per riportarmi i soldi, mi ripagherai gli interessi con la fica e non sarò certo gentile. Intesi?» Annuii, lottando semplicemente per riuscire a respirare ma lui non aveva ancora finito. Mi strinse un seno con forza bruta. «Se non torni, vengo a cercarti, capito?» Mi lasciò sorridendo mentre mi restituiva la borsa e si scostava. Un sorriso sufficiente a darmi gli incubi. «Adesso vai, ragazzina. Ci rivediamo presto.» Scappai, temendo a ogni secondo che non mi avrebbe mai lasciato davvero andare. Accostai la macchina dopo almeno cinque minuti, sputando fuori la carta dalla bocca e facendo profondi respiri affannosi di sollievo. Stavo tremando ma non piansi nonostante mi costasse un grosso sforzo. Tenni insieme il top mentre scendevo dalla macchina per andare al bagagliaio dove avevo la borsa per la notte. La presi e la riportai nell'abitacolo con me. Fortunatamente, avendo previsto di rimanere da Tristan durante il fine settimana, mi ero portata un cambio. Non mi sarei mai potuta presentare da lui con una maglietta strappata, avrebbe sollevato domande alle quali non avevo intenzione di rispondere. Mi cambiai buttando il top rovinato nella borsa e rimasi lì seduta, a tremare per una buona mezz'ora prima di sentirmi bene a sufficienza da riprendere la guida. CAPITOLO CINQUE DANIKA Quando arrivai all'appartamento di Tristan la giornata era già stata schifosa a dire poco. Era stata un inferno, puro inferno con fiamme e tutto quanto. Sfortunatamente, quell'orrendo confronto con l'uomo alla roulotte di mia madre era solo una parte di quell'inferno. Avevo troppo in ballo, senza contare che il mio ragazzo stava fuori città per settimane… schifo sullo schifo. Sapere che nonostante giornate come queste sarei riuscita a stare un po' con Tristan però, mi aiutava a non crollare. Avevo la chiave ma diedi una bussatina di pura cortesia, anche se poi aprii la porta entrando prima di ricevere qualsiasi risposta. Mi resi conto in fretta del perché nessuno avesse replicato: erano le tre del pomeriggio ma a giudicare dallo stato in cui versava l'appartamento, non si sarebbe detto. C'erano donne ovunque, troiette che dovevano essere groupie e mi sentii andare istantaneamente in ebollizione. Dean era sdraiato a torso nudo sul divano. I jeans erano slacciati e una di quelle aveva una mano dentro, un'altra gli stava seduta sopra fianchi contro fianchi, a condividere con lui una canna. Lui mi vide e mi sorrise, chiarendomi del tutto che non sarebbe stata una visita di cortesia. Proprio come avevo imparato a leggere i diversi significati nei sorrisi di Tristan, sapevo che quelli di Dean significavano solo una cosa: problemi e non di quelli divertenti. Solo guai, in grado di rovinarti la giornata. «Hey, ti unisci alla festa? Credo che il tuo ragazzo sia impegnato ma sai che sei sempre in cima alla lista per succhiarmelo.» Attraversai il salotto puntando alla zona notte. Se avessi riflettuto chiaramente sarei passata dalla cucina, ma quelle poche parole avevano già mandato in tilt il mio cervello alterato dal mio caratteraccio. Non ero in grado di interagire in modo maturo con lui, posto che fosse possibile naturalmente. «Meglio se non ci vai, credo abbia detto che voleva un po' di privacy.» Voltai il capo per incenerirlo con lo sguardo ma lui ridacchiò. «Sai che sei proprio super sexy quando sei incazzata a morte! Insomma… ti scoperei a prescindere, ma quando sei così incazzata, mm, sarebbe il massimo.» Soffocai il mio primo istinto di mandarlo a farsi fottere, visto che lo avrebbe colto come un suggerimento e scelsi invece qualcosa di più specifico e infantile. «Spero che tu muoia soffocato da uno dei tuoi preservativi usati, coglione» gli augurai uscendo dalla stanza a grandi passi. Lo sentii ridere dietro le mie spalle e i miei pugni si serrarono. «Tesoro, io non li uso i preservativi» mi gridò. «Maiale schifoso» borbottai mentre raggiungevo la porta chiusa della camera di Tristan. La aprii silenziosamente, senza bussare. In fin dei conti una ragazza aveva dei diritti che travalicavano le comuni forme di educazione. Appena entrai mi bloccai… Tristan era sdraiato sul letto con addosso solo dei boxer, un braccio a coprire il viso come se stesse dormendo. I movimenti convulsi del suo petto tuttavia tradivano il contrario. Una schifosa puttanella bionda completamente nuda gli stava a cavallo, con le mani ovunque sul suo torace, a disegnare il profilo dei suoi tatuaggi. Quella visione mi lasciò totalmente basita, ferita e incredula, ecco perché non riuscii a reagire prontamente. La cosa tuttavia parve andare a mio favore. «Se non scendi subito ti butto giù. Te l'ho già detto: ho una ragazza» grugnì Tristan da sotto di lei. Aveva la voce assonnata e irritata tanto da diventare pungente. «Ma lei non c'è adesso» miagolò quella schifosa maledetta, continuando a esplorargli il torace. Il mio torace, «Io non glielo dico se anche tu non fai la spia.» Ecco, quello sarebbe stato il mio segnale per gridarle: Hey, brutta puttana, sono qui, ma per un qualche motivo rimasi in silenzio, davvero curiosa di vedere gli sviluppi. Ne avevo bisogno. «Visto che a quanto pare non hai un briciolo di amor proprio, te lo ripeto lentamente: non ti voglio. Esci dalla mia stanza e da casa mia e non tornare più. Ti ho già detto di no tre volte e hai aspettato che svenissi per assaltarmi. Quante volte devo ripetertelo ancora? Non ti toccherei nemmeno se non avessi altra scelta. Hai capito adesso o devo provare in un'altra lingua?» Tristan suonò crudele in un modo che gli avevo sentito raramente. Di solito era dolce, dominante e possessivo sempre, sì, ma comunque tenero. A sentirlo così faceva quasi paura. La sgualdrina parve cogliere il suggerimento e scese da lui con una smorfia sul viso. «Non sei divertente» brontolò, «E mi vuoi: ti ho fatto arrapare.» «Non prenderla sul personale, ma in questo momento anche il vento me lo fa diventare duro. Fuori dai piedi.» Lei mi guardò a malapena ma io dovetti impormi di non seguirla e cavarle gli occhi. Rimasi sulla soglia, appoggiata alla cornice della porta mentre Tristan si sedeva sul letto strofinando gli occhi. Gli ci volle un attimo per accorgersi della mia presenza. Quando accadde, sbiancò come se avesse visto un fantasma. Scivolò giù dal letto con aria colpevole. Se non avessi assistito a quel siparietto in prima persona, quello sguardo sarebbe bastato per colpevolizzarlo. Era stato un bene che avessi tenuto la bocca chiusa lasciando che quella troietta s'impiccasse da sola, eppure mi sentivo ancora furiosa. Ero stanca morta di essere continuamente messa alla prova. Mi sembrava quasi che possedere qualcosa di importante, volesse dire escogitare modi per evitare che perdesse di valore e le groupie in casa erano argomento di lite da un po' ormai. Poiché Tristan indossava solo i boxer neri, era impossibile non accorgersi dell'erezione mastodontica. Fu l'ultima goccia: quel giorno proprio non ero in grado di affrontare anche quello, specie considerato che avevo sperato in un dolce incontro e non nella vista di una lurida disgustosa che si strofinava contro di lui. «Devo andarmene» lo informai arretrando, «Non posso farcela in questo momento, è stata una giornata pesante.» Lui mi seguì, incurante di essere praticamente nudo ed eccitato e che la casa fosse un ricettacolo di donnacce. «Danika, devi credermi… qualsiasi cosa pensi che sia…» «Lo so cos'è successo, ho sentito e non mi interessa. Non lo sopporto più. Se tu ci tenessi davvero a noi due, non ti metteresti nelle condizioni di ritrovarti con delle troie nude addosso mentre dormi. Dean può vivere qui e farsi tutte le groupie che vuole, ma io sono fuori.» Mi girai tornando alla porta d'ingresso. Avevo la mano sulla maniglia quando lui mi fermò nella maniera più tipica di Tristan. Si spinse contro di me da dietro, nudo e duro come un macigno oltre che del tutto disinteressato al pubblico presente che ci stava guardando. «Mi sei mancata» mi sussurrò all'orecchio mentre le sue mani si spostavano sulle mie per sistemarle contro la porta, «Non puoi capire quanto. Penso a te giorno e notte, quando ti mando un sms e non mi rispondi subito sono tentato di mandare tutto al diavolo per tornare a casa e cercarti.» «Sono stata occupata, sono andata a lezione in modo piuttosto regolare e ti ho risposto appena ho potuto.» «Lo so, ma non è abbastanza. Non dovremmo mai stare separati, per nessun motivo. Torna a letto con me tesoro, ho bisogno di te. Adesso.» La pressione del suo corpo sul mio e la sensualità della sua voce al mio orecchio mi eccitarono all'istante. Non avrei desiderato altro che cedere ma non volevo lasciar perdere e basta. Da troppo ormai era un problema enorme ed ero stufa marcia. C'erano infinite cose che non andavano nella mia vita in questo momento e le groupie che cercavano di scoparsi il mio uomo nel sonno non sarebbero diventate una di quelle. «Ho bisogno di andarmene. Ti chiamo più tardi. Davvero: in questo momento non ci riesco, sono troppo arrabbiata, potrei dirti qualcosa della quale poi mi pentirei se prima non mi calmo.» Lui emise un gemito di protesta che mi arrivò dentro. Per me era sempre stato difficile dirgli di no e quello peggiorò le cose. Ero troppo innamorata. «Ti prego» insistette a voce bassissima. Era una formula che non usava quasi mai, «Ho bisogno di te adesso. Dopo potrai strigliarmi quanto vuoi. Posso sopportarlo, tesoro.» Torsi le mani per liberarle e mi voltai per fulminarlo con lo sguardo. «Non è una questione di strigliarti, idiota. Riguarda quello che succede in questo appartamento quando non ci sono. Non lo sopporto: non si tratta di discutere, si tratta di cambiare…» «Ok, perfetto» mi interruppe lui con aria sincera, «Dimmi cosa vuoi e sarai accontentata. Vai con il cambiamento.» Irrigidii la mascella, ben conscia del fatto che con questo mi sarei guadagnata la nomea di stronza per il resto della band. «Basta groupie nell'appartamento e ovunque tu stia a L.A. durante le registrazioni. Niente donnacce nemmeno là. Ragazze, fidanzate, appuntamenti vanno bene, ma le troiette come queste devono andarsene.» Lui annuì brevemente poi si voltò verso la stanza. «Nuove regole di casa: chiunque di voi non sia la ragazza di uno di noi deve andarsene. E dato che Dean notoriamente non ha ragazze, questo vuol dire fuori tutte.» Dean, che era sul divano obiettò immediatamente. «Fottiti, amico. Questa è anche casa mia, se tu puoi avere la tua fig…» «Se finisci quella frase sai cosa ti succederà. Ora fuori tutte. Il contratto è a mio nome, se hai un problema con le nuove regole puoi andare a fanculo anche tu.» Seguirono brontolii e movimenti ma tutti parvero obbedire e quando la sfilata di zoccole si avviò, Tristan mi spostò da una parte. Osservò lo spettacolo per un attimo, all'apparenza convinto che le cose fossero sistemate poi si voltò, muovendosi contro di me fino farmi toccare il muro con le spalle. «C'è altro?» domandò ma non mi diede tempo di rispondere perché sbatté le sue labbra sulle mie con rabbia ed eccitazione. Era proprio quello che stavo aspettando: erano settimane che non ci vedevamo, perciò mi ritrovai a ricambiare il suo bacio immediatamente, gemendo all'invasione della sua lingua. Lui prese a muoverla con lunghe lappate dentro e fuori, scopando la mia bocca. M'inchiodò le mani alla parete facendo scivolare una coscia fra le mie gambe e spingendo finché non mi ci ritrovai a cavallo. Presi a strofinare le anche in circolo contro di lui senza pietà, ma non era abbastanza. Agganciai la mia gamba dietro al suo fianco mentre ogni parte di me lavorava per ridurre la distanza fra la sua erezione e il mio centro pulsante. Tristan grugnì adeguando i suoi fianchi fra le mie cosce finché non fummo perfettamente allineati. Rimanevano solo gli abiti a fare da barriera ma combaciavamo alla perfezione ed io presi a titillare il mio clitoride contro il suo uccello, arrivando al limite in una manciata di secondi. «Trovatevi una stanza» brontolò Dean ad alta voce. La bocca di Tristan venne strappata dalla mia e lo vidi voltare la testa per abbaiargli contro di lasciarci da soli. Dean borbottò qualcosa che non compresi ma sparì. Avevo già assistito a questo spettacolo un numero incalcolabile di volte ormai. Appena rimanemmo del tutto soli Tristan iniziò a spogliarmi. Mi sfilò il top, sganciò il reggiseno con una mossa veloce e me lo fece scivolare giù dalle braccia. Si inginocchiò per dedicarsi ai jeans, talmente aderenti che dovette farli scendere assieme alle mutandine. Essere spogliata mi distraeva ma non tanto quanto venire baciata da lui e mentre recuperavo un po' di senno, la mia mente tornò a quel dettaglio che mi aveva infastidito per stupido che fosse. «La volevi, ti sei eccitato per lei.» Lui si fermò per una frazione di secondo poi riprese a svestirmi. «Tesoro, stavo dormendo… era solo un'erezione mattutina e per tua informazione ti stavo sognando quando quella mi ha interrotto. Credevo fossi tu quando mi sono sentito qualcuno addosso, ma ci ho messo poco a capire che era una sconosciuta.» Quello mi addolcì, soprattutto grazie al fatto che quelle zoccole erano state ufficialmente bandite da casa e che quindi, non sarebbe capitato di nuovo. Appena i jeans furono fuori dai piedi, Tristan si portò le mie gambe oltre le spalle infilando il naso fra le mie cosce e fermando efficacemente ogni mio pensiero. La sua lingua iniziò a saettare esperta, le sue dita enormi si fecero strada dentro di me instaurando un ritmo che mi ridusse senza fiato e incurante di tutto contro la parete, sostenuta solo dalle sue spalle. Come da mia richiesta si era fatto crescere i capelli e mi ci aggrappai come se dovessi salvarmi la vita. «Ti amo» gridai venendo. «Anche io ti amo, tesoro» mi contraccambiò lui, facendo scivolare le mie gambe per potersi rialzare. Si sfilò i boxer con un solo gesto prima di sistemarsi direttamente fra le mie gambe. «Non sopporto queste separazioni. Credo che manderò a puttane questa storia del disco… Sei tu la mia vita, a che serve il resto se non posso passare con te tutto il mio tempo?» Non riuscii a replicare mentre lui si avvolgeva le mie gambe attorno ai fianchi, allineando il bacino al mio e penetrandomi con i primi centimetri. «Aspetta, il preservativo» dissi sovrappensiero. Era inutile, quella era una reazione istintiva per me. Lui si bloccò di colpo. «Hai smesso la pillola?» Girai il viso per non guardarlo mentre arrossivo. «No» risposi sottovoce, chiedendomi quale vespaio avevo appena suscitato. Lui comprese immediatamente, mi fece voltare perché lo guardassi e il puro e semplice dolore nei suoi occhi mi distrusse. «Non ti fidi più di me? Pensi che mi scopi le altre in giro?» aveva il tono della persona devastata. Scossi la testa per quanto potei, considerata la morsa nella quale mi stava tenendo la mandibola. «No, non lo penso o non lo faremmo proprio. Non volevo dirlo, immagino che l'insicurezza mi abbia istintivamente provocato quella reazione.» Lui si portò la mia mano sul cuore. «Questa cosa mi ferisce… Tutto ciò che c'è qui è tuo, ogni parte di me. Nessun'altra avrà mai nulla, lo capisci? Non potrei mai farti questo… Se non avessi voluto mantenerle, non ti avrei fatto tutte quelle promesse.» Annuii ricacciando le lacrime e lui avanzò dentro di me, inchiodandomi al muro. La sua fronte si appoggiò alla mia mentre mi afferrava per i fianchi, angolando i suoi fino a bilanciarsi dentro al mio universo pulsante. «Se devo perdere la tua fiducia, fanculo il contratto discografico… tu sei per sempre, tesoro. Voglio fare e avere tutto insieme a te, sei l'unica cosa che mi fa alzare la mattina e dormire bene la notte. Non sarei sopravvissuto a niente negli ultimi mesi se non fosse stato per te. Tu sei la mia roccia Danika. Ho bisogno che ti fidi di me.» Annuii nuovamente, sussultando alla sua poderosa stoccata. Erano passate settimane perciò fu un rapporto sbrigativo, veloce ma soddisfacente. Come sempre, lui aspettò che godessi prima di venire a sua volta, tenendomi impalata sul suo uccello mentre si svuotava dentro di me con un grido gratificante. Riprese fiato, bofonchiò istruendomi perché mi tenessi stretta e senza uscire da me, si diresse al divano, sdraiandosi in modo che io gli stessi sopra. Mi strinse i fianchi con forza e i suoi occhi dardeggiarono nei miei. C'era tutto un mondo di venerabile desiderio in quel suo sguardo, che mi serviva come l'ossigeno. «Montami» mi ordinò oppure mi pregò. Il tono era talmente roco e lo sguardo talmente deciso che sarebbero potuti essere entrambi. Era nuovamente duro e pronto, una cosa alla quale ormai ero abituata. Dopo tutti quei giorni, gli ci sarebbe voluto molto per sentirsi soddisfatto. Iniziai a muovermi in cerchio con i fianchi, sedendomi con forza per poi rialzarmi, cavalcandolo come gli piaceva, con movimenti sicuri mentre mi stringevo i seni. Sapevo che guardarmi mentre mi toccavo lo eccitava e venni ricompensata da un gemito arrochito e un balzo prorompente dei suoi fianchi sotto di me. Mi pizzicai i capezzoli e la testa mi andò all'indietro mentre continuavo a stringerlo con movimenti sempre più frenetici e spasmodici che riflettevano l'avvicinarsi del culmine. Il mio orgasmo mi fece bloccare mentre rabbrividivo e lo stringevo in una morsa, assecondando ogni ondata del mio piacere. Lui non ci mise molto, ingrossandosi ulteriormente dentro di me prima di venire. Passò molto tempo prima che ci muovessimo. Gli tenevo le dita fra i capelli mentre ci baciavamo in modo indolente e rilassato e pensai che avrei potuto dormire per giorni dopo un simile delizioso interludio. Lui mi fece arretrare leggermente per farmi un sorriso. «Mi sei mancata.» «Sempre. Ogni secondo di ogni giorno.» CAPITOLO SEI DANIKA La mattina seguente mi stavo abbottonando i jeans quando lo sentii passare un dito, leggero come una piuma, lungo una spalla poi l'altra. Mi diedi un'occhiata: c'era una sequenza di piccoli lividi, il che mi spinse a guardarmi anche il petto. Uno dei seni aveva ricevuto lo stesso trattamento. Il tizio a casa di mia madre aveva lasciato il suo segno su di me. L'abilità distraente di Tristan mi aveva aiutato a dimenticare tutto quanto per un po', ma ora quei lividi erano un memento brutale e sgradito. «Questi da dove vengono?» domandò con evidente tensione nel tono. Ero sempre stata una pessima bugiarda, eppure feci un tentativo. «Cosa?» domandai in modo innocente. Porsi l'accento sul guardarmi dietro, dove lui mi stava toccando e aggrottai la fronte come se non avessi alcuna idea al riguardo, «Non saprei. Può essere tutto.» «Questi lividi sembrano impronte digitali.» Il suo tono era pericoloso e iniziai a indietreggiare traccheggiando. Era un dato di fatto che Tristan avesse un carattere con il quale era meglio non trovare da dire e se avesse sentito puzza di bruciato sulla fonte di quei lividi, avrebbe dato di matto in un secondo. «Mi capita spesso di farmene. Non li avevo notati prima, perciò devono essere recenti.» Lui fece un passettino indietro ma un uomo della sua stazza non si muoveva così velocemente senza conseguenze. L'espressione impietrita e sconvolta sul suo viso non aiutava e mi resi conto immediatamente di aver sbagliato tutto. «Te li ho fatti io? Io?» Iniziai a scuotere la testa prima ancora che avesse finito di parlare. «No, no, no. Non sei assolutamente stato tu.» «Come fai a dirlo? Non sai come te li sei procurati e ieri ti ho stretto. Te li ho fatti io.» «Non sei stato tu, ok? Te lo giuro. Adesso possiamo darci un taglio?» Lui parve cogliere qualcosa nelle mie parole o nel mio tono e la sua espressione da sconvolta passò a perspicace, un'opzione ancora più pericolosa. «Cosa ti è successo, piccola? Dimmi come ti sei fatta quei lividi» mi chiese in modo suadente e allettante dal quale tuttavia non mi lasciai infinocchiare. Si spostò finché non fummo uno davanti all'altra e le sue mani salirono dolcemente dalle mie spalle fino ai miei capelli, stringendomeli fino a farmi inclinare il viso verso il suo. Il suo corpo era talmente vicino al mio da interferire con il regolare funzionamento del mio cervello. «Dimmelo.» «Non fanno nemmeno male, stai reagendo in modo esagerato.» Lui sbatté gli occhi con aria spiazzata. «Reagendo in modo esagerato? Okay, a cosa?» Deglutii, nervosa per la sua reazione mentre ancora cercavo di rimediare una scusa per quei lividi. Pensavo onestamente che la verità lo avrebbe spinto a uccidere quel tipo. «È stato un malinteso» gli spiegai inumidendomi le labbra secche. La sua espressione si fece vuota. «Te li ha provocati un malinteso? E dopo posso trovarlo?» Alzai gli occhi al cielo sapendo bene che come al solito, si sarebbe trasformato in un cavernicolo. Gli accarezzai il torace con un gesto calmante, cercando ancora di evitare ciò che sapevo sarebbe successo. «Ho fame, andiamo a mangiare, ok?» Lui rimase impalato dov'era mentre io mi liberavo lentamente della sua presa. Mi piegai per raccogliere il reggiseno voltandogli la schiena per indossarlo ma non fui veloce a sufficienza e lui mi bloccò una mano con la sua, girandomi attorno per guardarmi il petto. Appena notò anche quei segni, un tic iniziò a fargli pulsare la mascella. Ahi, brutto segno… Deglutì, mi lasciò la mano e s'infilò le dita fra i capelli stringendoseli mentre si allontanava ulteriormente da me. «E quelli?» domandò lentamente e fra i denti. Stava per perdere il controllo. Mi allacciai il reggiseno, mi piegai e raccolsi la maglietta che indossai velocemente. Più osservava quei segni e peggio sembrava prenderla, perciò ero più che determinata a coprirmi in tutta fretta. «Dimmelo!» Ignorai anche quelI'esortazione e mi misi a cercare nella borsa qualcosa con cui coprirmi le spalle. «Non è quello che pensi e devi calmarti.» «Spiegamelo allora. Spiegami perché la mia ragazza ha l'aria di esser stata malmenata. Dammi un buon motivo che giustifichi quei lividi ed io mi darò una cazzo di calmata.» La rabbia vibrò attraverso la sua voce. «Non mi piace il tuo tono e mi rifiuto di parlarne adesso» dissi infilandomi un piccolo cardigan blu. «Devo chiamare Jerry e chiedere a lui?» Arricciai il naso cercando di capire. «Non penserai davvero che sia stato Jerry a farmeli?» «No, ma credo che potrebbe aiutarmi a capirci qualcosa.» Non aveva torto: Jerry sapeva dov'ero stata ieri, avrebbe unito i puntini in un niente. «Per favore, basta. Ho fame e queste sciocchezze ci faranno arrivare in ritardo da Frankie.» Non rimasi ad aspettare la sua risposta e uscii dalla stanza. Lo sentivo muoversi dietro di me mentre attraversavo l'appartamento, cosa che immaginavo fosse un buon segno. Forse avrebbe davvero lasciato perdere. Rimase silenzioso per tutto il tragitto fino all'hotel & casinò Cavendish, dove Frankie aveva il suo studio di tatuaggi. Incontrarci in un locale dove facevano le migliori bistecche e uova della città ormai era diventato un rito, sebbene Tristan si fosse aggiunto di recente, considerate le sue assenze ultimamente. Dopo venti minuti di mutismo, ero pronta a crollare. Guardarlo guidare, le nocche sbiancate attorno al volante e nemmeno una parola a riempire il vuoto fra noi, era snervante. Gli misi una mano sulla coscia, accarezzandola con piccoli cerchi. «Frankie sta creando il mio tatuaggio» gli dissi finalmente. Ero intenzionata a farmelo in sua assenza per poi sorprenderlo al suo ritorno, ma quello era stato l'unico argomento che mi era venuto in mente per distrarlo dal suo malumore. Funzionò: lui mi guardò di sottecchi ma in modo inquisitorio e interessato. «Il tuo tatuaggio? Allora sei sicura di volerne uno?» Annuii facendo salire la mano e provando sollievo al fatto che avesse lasciato cadere l'argomento lividi. «Sì, certo.» «Quando? Non mentre non ci sono, vero?» Era esattamente quello che invece volevo. «Ecco, sì. Perché?» «Voglio esserci» puntualizzò con veemenza. «Ti eccita l'idea di vedere Frankie che mi tortura sul suo lettino?». La sua mano coprì la mia appoggiata alla sua gamba e la strinse appena. «No di certo. Voglio solo essere presente. Mi prometti che non lo farai mentre sono fuori città? Per favore.» E fu quello a vincermi. Non lo diceva spesso ma quando succedeva, era sempre sincero. Per un qualche motivo, questa cosa doveva essere importante per lui. «Lei è molto impegnata perciò le chiederò quando può farmi posto di mattina. Non so come, ma le ho promesso che mi sarei fatta riprendere per il suo show.» Le sue labbra si strinsero e capii che la cosa non gli piaceva. «Dove te lo farai?» «Sulla schiena.» «Dove sulla schiena?» «Circa a metà, vicino alla spina dorsale.» «Perciò starai in topless davanti alla troupe di Frankie? Alla maledetta TV?» Sospirai… ecco tornato il cavernicolo. «Nessuno vedrà nulla tranne la mia schiena. Sarò sdraiata sulla pancia e cercherò di tenere tutto coperto. Smetti di cercare sempre qualcosa che ti faccia preoccupare.» «Cercare qualcosa? Cercare… qualcosa?» mi domandò due volte, come se stesse pensando ad alta voce, «La mia ragazza, della quale sono fottutamente innamorato, torna a casa coperta di lividi che non mi spiega ed io cerco qualcosa che mi faccia preoccupare? Scopro che denuderà il suo corpo maledettamente perfetto in televisione, così che un qualsiasi bastardo possa masturbarsi e sto cercando qualcosa?» Serrai gli occhi desiderando di potermi rimangiare quelle parole che evidentemente non avevano fatto altro che peggiorare tutto, infine cedetti. «Farò in modo che tu ci sia, ok? Potrai starmi attaccato per salvaguardare la decenza. Ti senti meglio così?» «Sì, ma se pensi che mi dimentichi della storia dei lividi sei fuori di testa.» Evitai di alzare gli occhi al cielo ma di poco. Questi erano i contro dell'avere un ragazzo possessivo e non importava quanto pazzamente lo amassi. Mi sentii sollevata quando incontrammo Frankie alla postazione del parcheggiatore. Ci abbracciò entrambi in modo esuberante e prese a chiacchierare come una macchinetta da subito, riuscendo effettivamente a far migliorare l'umore di Tristan. «Sono stata a cena con James ieri sera» ci disse. Feci un sorrisetto, sempre divertita dal fatto che si riferisse al famoso James Cavendish chiamandolo solo per nome. A me suonava semplicemente sbagliato: quell'uomo metteva troppa soggezione per passare al tu, ma loro erano amici intimi. «Offrirà uno stage alla sua galleria il prossimo semestre e vuole che tu faccia un colloquio! Lo vuoi fare, vero? Gli ho detto che l'avresti fatto perciò è meglio che tu lo voglia.» Il mio cuore fece una capriola. Per me si trattava di un'enorme opportunità: ottenere uno stage presso una delle sue gallerie era notoriamente difficile, essere assunta, quasi impossibile. «Ma è fantastico! Certo che voglio e se devo, scaglionerò i corsi il prossimo semestre.» «Bene, brava. Gli ho detto che saresti stata entusiasta e gli ho dato il tuo numero.» La abbracciai stringendola forte. «Grazie, sei la migliore!» «Gli hai detto che se ci prova con lei lo uccido?» intervenne Tristan pacatamente. Entrambe lo guardammo in tralice. «Un po' di fiducia, amico» il tono di Frankie era esasperato, «James ha superato la fase della vaniglia da un bel pezzo e gli ho detto chiaramente che Danika non è il suo tipo. Credimi, non la toccherà nemmeno.» «Lo sa che è impegnata? Gliel'hai detto che sta con me?» «Non con tutte queste parole ma sono certa che sappia fare due più due. E non è interessato alla sua vita personale. Qui si parla della galleria, ha solo deciso che la vuole a lavorare per lui. Fine.» «Stronzate!» Serrai i pugni. L'idea che mi rovinasse questo progetto mi aveva reso furente, così lo puntai. «Piantala! Per caso ti trattengo dall'avere successo? Non credo proprio, perciò mostrami lo stesso rispetto, coglione!» Qualcosa nelle mie parole o nel tono lo fece riprendere all'istante. «Ok, ok. Però promettimi che me lo dirai se passa il segno.» Non ne potevo più di quella conversazione perciò mi avviai all'interno dell'edificio. Considerato tutto, avremmo fatto meglio a passare subito al pranzo, dato che Tristan continuava a trovare una cosa dopo l'altra di cui essere geloso. Prima di parlare ancora ci ritrovammo seduti e con il menu sotto al naso. «Promettimi che me lo dirai se lui oltrepassa il limite ed io la pianto.» «Quell'uomo è un fottuto dio del sesso miliardario. Sono piuttosto sicura che non dovrò respingerlo con un bastone, ma sì, te lo prometto.» Frankie emise un suono nasale di scherno. «Visto? Non devi preoccuparti di nulla, Tristan. Non ho mai incontrato nessuno in vita mia con maggiore autocontrollo di James, senza contare che io stessa l'ho avvisato.» La cosa parve placarlo e Tristan lasciò cadere l'argomento, grazie a Dio. «Penso che il tuo disegno sia pronto» m'informò Frankie, strofinandosi le mani come una ragazzina eccitata. Il modo in cui amara il suo lavoro era davvero adorabile. «Posso vederlo?» le domandai, nervosa ma esaltata al tempo stesso. «Ma certo. Pensavo che potremmo farlo martedì e dovrebbe bastare una seduta. Meglio così, credimi.» «Io sono in studio martedì» annunciò Tristan, nuovamente rabbuiato. No, più che altro agitato. «Beh, ma tu non devi mica esserci, bambolone» ribatté lei allegramente. «Invece sì. Parlerò al produttore e vedrò come fare.» La bocca di lei si contrasse in una smorfia mesta. «Ne abbiamo perso un altro… Potresti essere più ossessionato dalla tua ragazza, amico?» «Ne dubito» replicò lui tiepido. CAPITOLO SETTE DANIKA Il casino scoppiò l'indomani. Stavo cercando nella mia borsa i vestiti per allenarmi. L'idea era di andare insieme in palestra, poi di farci una doccia ma non saremmo arrivati a fare nessuna delle due cose. Tirai fuori il top nero stracciato fin quasi a metà, aprendolo prima di capire cosa fosse. Arrotolato, aveva l'aspetto dello stesso che usavo per fare gli esercizi. Cercai di ributtarlo dentro ma non fui abbastanza veloce. Mi venne strappato di mano prima che potessi riabbassarlo. Tristan torreggiava su di me. Anche lui si stava vestendo e non indossava altro che un paio di calzoncini sportivi e scarpe da ginnastica. Era a petto nudo, gli addominali e i bicipiti contratti mentre mi sfilava la magliettina. Nonostante ogni buon senso, pur sapendo che quella giornata stava per essere rovinata, quella visione mi eccitò. «Questa cos'è?» domandò lui, spiegando il materiale ed esaminandone ogni centimetro come se volesse dare un significato allo strappo sul davanti. Sospirai, chiudendo gli occhi intimorita. «Una maglietta» spiegai rassegnata. «Perché è strappata nel mezzo?» ringhiò. Dal suo sguardo vacuo si capiva che il suo caratteraccio lo aveva già portato in quel luogo a me inaccessibile. «Una lunga storia.» Lui mi fece un sorriso piuttosto afflitto ma il suo sguardo faceva paura. «Ho tutto il giorno, tesoro.» «Lasciamo stare, Tristan. È una cosa finita, niente per cui valga la pena di finire di prigione.» «Bene. Mettila come vuoi. Non mi dai spiegazioni quindi posso solo pensare al peggio del peggio. Rispondi a una sola domanda: ti hanno violentata?» «No! Non si è spinto fin lì.» Invece che placarlo, quella frase parve farlo esplodere ed io mi resi conto di aver ammesso l'attacco subìto. Ora non mi sarei potuta rimangiare nulla. Lui m'indicò con mano tremante. «Resta qui.» Mi sedetti sul suo letto, basita dalla piega presa dagli eventi e rimasi lì per almeno una decina di minuti. Mi decisi a fare qualcosa quando capii che sapevo dove stesse andando. Se fossi arrivata da Jerry prima di lui, avrei potuto fermare quel treno impazzito. Iniziai a telefonare a Bev poi a Jerry ripetutamente, mentre tornavo a casa. Nessuno rispose. Quando arrivai, una Bev confusa e stressata mi venne incontro nel vialetto. Tristan e Jerry se n'erano appena andati. Passarono ore prima che sapessimo qualcosa e quando finalmente ci riuscimmo, ebbi l'unica notizia che non avrei mai voluto ricevere: Tristan era in galera. TRISTAN Il mio universo si era ristretto diventando una macchia rossa e il mio cervello funzionava come un disco rotto, concentrandosi su tre cose: Danika era stata assalita, la sua maglietta strappata e il suo corpo contuso. Un uomo le aveva messo le mani addosso. Riuscivo a stento a crederci ma non avevo problemi a reagire e quella sua spiegazione laconica… non si è spinto fin lì. Non ero in grado di venirci a patti perché ovviamente implicava che la cosa fosse comunque arrivata fino a un certo punto. Il volante della mia auto era diventato il collo di uno sconosciuto che io stringevo con una presa mortale mentre mi dirigevo da Jerry. Mi aprì lui stesso la porta, guardandomi con un sorriso ma io non sprecai tempo e alzai la maglietta in modo che la vedesse. «Dov'è andata Danika venerdì?» «Venerdì?» mi domandò confuso. «Potrebbe anche essere stato giovedì ma ne dubito, perché venerdì i lividi non c'erano, il che mi fa pensare che sia successo giusto prima che arrivasse da me.» «Lividi?» Gli sventolai la stoffa davanti al naso. «E una cazzo di maglietta strappata. L'hanno aggredita Jerry. Dove cazzo è andata venerdì mattina?» Lui deglutì faticosamente e parve diventare verde mentre l'orrore s'impadroniva dei suoi lineamenti. «Aggredita? Santo Dio, sta bene?» «Dove, Jerry? Dov'è successo?» Lui si coprì gli occhi poi si strofinò la tempia. «Dannazione, non avrei dovuto lasciarla andare da sola.» Mi ci volle tutto il mio autocontrollo per non mettergli le mani addosso. «Andare dove?» sbottai. Lui tornò in casa e ne riemerse con le chiavi. «Guido io.» Ero sul sedile del passeggero che stavo tentando di incenerirlo con lo sguardo quando lui aprì nuovamente bocca. «È andata da sua madre venerdì. Deve essere accaduto là, sta in una brutta zona.» «E tu l'hai lasciata andare?» «Capisco ora che sarei dovuto andare con lei, ma non immaginavo che l'avrebbero aggredita. Voleva solo chiederle il numero di telefono della sorella, doveva essere una visita lampo.» «Beh, adesso lo sai, cazzo! Quando le ho domandato se l'avessero violentata, mi ha risposto ‘Non è arrivato fin lì’. Testuali parole.» «Gesù» esclamò Jerry passandosi una mano fra i capelli e tirando fuori il suo cellulare. Prima che me ne rendessi conto, stava parlando con la polizia. «È stato un errore» gli dissi appena riattaccò, «Così mi farai solo arrestare, amico.» Lui mi guardò perplesso. «Beh, non fare nulla che ti procuri l'arresto e sarai a posto.» «Qualcuno le ha messo le mani addosso, le ha strappato la maglietta, le ha coperto spalle e un seno di lividi… come cazzo pensi che possa evitare di mettere le mani addosso al tizio appena lo vedo?» «Beh, fanculo: almeno hai con te il tuo avvocato.» La cosa mi strappò una risata amara. «Almeno quello. Invoca pure l'infermità mentale quando lo ucciderò, perché sto già andando fuori di testa.» «Ecco il piano: noi andiamo là e aspettiamo la polizia, poi gli raccontiamo quello che sappiamo. Tu non devi nemmeno guardarlo, quello.» Scossi la testa. «Stai delirando» borbottai. Se mai l'avessi trovato, l'avrei davvero ucciso. «Sì, posso delirare ma almeno indosso una camicia» ribatté lui. Abbassai lo sguardo al mio torso. Non ricordavo nemmeno di essere uscito di casa ma sembrava proprio che mi fossi dimenticato qualcosa. «Perfetto, così non ne rovinerò una con il sangue di uno sconosciuto.» «Parli come uno svitato, Tristan. Stai frequentando i corsi per la gestione della rabbia, no? Puoi provare a usare i tuoi esercizi per cercare di far sbollire quest'ondata di rabbia?» «Qualcuno le ha strappato la maglietta di dosso, Jerry. Colpire qualcuno in faccia perché l'ha chiamata ‘figa’, quella è una questione di gestione della rabbia. Questo invece è un male necessario. Nessuno ferisce Danika e poi la fa franca e ti prometto questo: quando avrò finito con questo tizio, non avrà più voglia di rifarlo.» Jerry sospirò pesantemente, lanciandomi un'occhiata che lo fece somigliare a un padre deluso… Non che io avessi una qualche idea di che faccia avessero in realtà tali figure. Guidammo per quarantacinque minuti prima di trovare il posto e mi calmai un po' nel frattempo, ma il mio sangue riprese a scorrere impetuosamente appena ci ritrovammo nel parcheggio per roulotte. Questo non era posto per Danika e Jerry non avrebbe dovuto lasciarla venire qui da sola. Gli lanciai un'occhiataccia. «Non era messo così male l'ultima volta che ci sono venuto.» «È un parcheggio per roulotte sul lato sbagliato della Boulder Highway, amico. Dovresti aver usato quella tua cazzo di testa per tirare le somme.» «Hai ragione. Hai assolutamente ragione.» Quello mi diede una tenue soddisfazione ma non abbastanza da tamponare l'ondata di rabbia nei confronti dell'uomo che stavamo cercando. Forse, se lo avessimo trovato addormentato ad esempio, mi sarei trattenuto ma non fu così che lo scoprimmo. Stava picchiando la madre di Danika, urlando tanto da far tremare le pareti della roulotte. Sentii una donna gridare dal dolore appena aprii lo sportello e quello bastò. Non mi resi conto di dare la carica alla porta o anche di aver oltrepassato la soglia. So che afferrai il pugno che l'uomo stava per sferrare e glielo torsi tanto da slogargli la spalla, facendolo volare per la stanza. Lo anticipai, mantenendo le braccia ai lati mentre lui si rimetteva in piedi, e gli strinsi la spalla malandata. Il suo viso si contrasse dal dolore. Caricò col braccio buono e lasciai che il suo pugno venisse in contatto con la mia mascella. Aveva un gancio sinistro potente e il collo mi si torse all'impatto, ma io sorrisi come un pazzoide mentre tornavo a voltare il viso verso di lui. Era da matti ma ero talmente arrabbiato da desiderare di provare un po' di dolore. Volevo che quel figlio di puttana opponesse resistenza prima di stenderlo definitivamente. «Chi cazzo sei tu e che problema hai?» grugnì. «Tu sei il mio problema!» Avanzai di due passi e gli diedi una ginocchiata nello stomaco tanto forte da farlo piegare a metà e tossire. Lo agguantai allora per i capelli unti, spingendolo verso il basso mentre alzavo il ginocchio. Il suo naso si ruppe con un bel crack. Gli risollevai la testa e lui mi colpì allo stomaco. Bene… volevo una lotta più che una rissa e la cosa si stava facendo patetica. Senza lasciargli i capelli, gli diedi un pugno prima alla mandibola poi sulla bocca. Sentii l'impatto coi denti e gli feci un sorriso. «Ti ricordi la ragazza che hai aggredito venerdì?» domandai, spiattellandogli per ben due volte il viso sulla cucina economica della roulotte. «Te la ricordi?» chiesi di nuovo quando non ricevetti risposta. L'uomo era troppo preso dall'inghiottire il suo stesso sangue per parlare. «Sì» sibilò producendo un fiotto rosso dalle narici e dalla bocca. «Se oggi ne esci vivo, se decido di lasciarti respirare ancora, voglio che ti ricordi una cosa: se la tocchi di nuovo, muori. Capito?» «Io-io-ok, amico. Ho capito.» Pareva sincero ma sfortunatamente, il ricordo del seno di Danika coperto dai lividi procurati dall'enorme mano di questo tizio mi tornò alla mente e ripresi a picchiarlo. Non tenni a mente il conto dei colpi che seguirono, ma lui smise di lottare molto prima che io terminassi di suonargliele e l'unico motivo per cui lo feci, fu che non uno ma due taser, mi avevano fatto afflosciare a terra come un palloncino sgonfio. Le cose si fecero annebbiate, venni ammanettato e seduto sul retro di un Cruiser della polizia prima di riprendermi. «Non siete gentili, ragazzi» dissi ai due poliziotti sul davanti, «I taser fanno cagare.» Uno di loro, un biondone sovrappeso, mi guardò a occhi spalancati ed io gli feci un sorriso. Probabilmente stava pensando che fossi uno senza tutte le rotelle a posto: a petto nudo, coperto di sangue, reduce da una rissa con tanto di scossa elettrica, ridevo come uno scemo. Anche io pensai di essere andato fuori di testa. «Quell'aggeggio ha fatto meno danni di quanti tu ne abbia procurati all'altro.» «Non è colpa mia se l'unica cosa che quello sa fare è picchiare le donne. Probabilmente era la prima volta che affrontava qualcuno della sua stazza.» «Tu non sei della stazza di nessuno, amico!» Aveva ragione. «Vuoi raccontarmi cos'è successo? Perché stavi cercando di far fuori quel tipo?» Era passato alla modalità poliziotto e il verbo uccidere mi rese nervoso. «Chiedi al mio avvocato» replicai, sapendo che Jerry ci stava seguendo. «Il dannato maniaco ha un avvocato» commentò il poliziotto rivolgendosi al collega. Entrambi risero. Non mi credevano ma presto avrebbero cambiato idea: Jerry era bravo, valutava sempre le prospettive. Detestava fare l'avvocato ma quello non significava che non sapesse il fatto suo. Alla fine, trascorsi in cella meno di quanto si sarebbe pensato. Il tizio aveva picchiato di brutto la madre di Danika prima che arrivassi e quello complicava le cose. Avevo dato solo una breve occhiata alla donna prima di avventarmi su di lui. Mi era parsa un groviglio di capelli scuri su un corpo minuto, ma sembrava messa male. Venne fuori che Jerry era migliore come testimone quindi chiamò Bev in veste di mio avvocato e fummo il più sinceri possibile. Secondo lui, più trasparente risultava il caso, meglio era. Bev mi tirò fuori nel giro di qualche ora senza che venisse sporta denuncia. Secondo lei, le mie azioni erano giustificate poiché avevo bloccato un potenziale attacco che sarebbe stato fatale per Marta, la madre di Danika. La donna, come anche lui, era stata ricoverata in ospedale, quindi c'erano le ferite come prova. L'uomo, che scoprii chiamarsi Bert McLeary, se la sarebbe cavata. Il primo pensiero fu che non picchiava come uno di nome Bert; il secondo, che l'avevo scampata per un pelo. Bev mi spiegò che in teoria, le sue tesi sarebbero state valide che l'avessi ucciso o meno, ma un cadavere complicava sempre tutto. Mi parlò con un tono gelido, come se l'eventuale morte del tizio non le avrebbe cambiato di molto la vita e quello mi rese esitante. Accolse il mio sguardo incerto con un sorriso cupo. «L'ho obbligata a mostrarmi i lividi. Non penserai di essere l'unico che ucciderebbe per lei. La fortuna di quell'uomo è che sia stato tu a trovarlo prima di me.» Sembrava così seria e aveva un tono talmente glaciale che le credetti e mi feci l'appunto di non darle mai fastidio. L'unico momento in cui provai rimorso per tutto, fu quando tornammo a casa e Danika corse fuori per accoglierci. Mi guardò poi nascose il viso fra le mani iniziando a piangere e quello mi fece sentire un vero bastardo. La strinsi fra le braccia consolandola mentre le accarezzavo i capelli. Lungo la strada avevo comprato una maglietta e lei appoggiò il viso sul cotone bianco singhiozzando tanto da farmi chiudere lo stomaco, prima di riuscire a calmarsi abbastanza da parlare. «Sei ferito?» Contrassi la mascella mentre le stringevo i capelli. Mi imposi di rilassare i muscoli delle dita e le accarezzai delicatamente la testa. «Assolutamente no. Quel bastardo mi ha appena colpito.» «Era così grosso, temevo che ti facesse del male.» Le pulsazioni mi aumentarono nuovamente al ricordo di lei che veniva in contatto con quello. Cercai di placare il respiro e di calmarmi, accarezzando fugacemente l'idea di trovare Bert all'ospedale e finirlo una volta per tutte. «Era grosso ma lento. Non un granché come lottatore.» Lei arretrò per guardarmi, gli occhi orlati di rosso per il pianto. «Tu non perdi mai, dove hai imparato a combattere a quel modo?» Arricciai le labbra mesto. «Quando sei il più grosso in classe tutti credono che il loro scopo nella vita sia prenderti a calci in culo. Non puoi avere la mia stazza e non sapere come difenderti. E anche avere un brutto carattere aiuta.» «Suppongo che Bev abbia pagato la tua cauzione.» «In realtà non è stata sporta alcuna denuncia.» Presi per un attimo in considerazione come spiegarle la parte più delicata: «Lui stava… picchiando tua madre quando siamo arrivati. Lei starà bene credo, ma non mi hanno accusato di nulla perché ho interrotto l'aggressione.» La sua reazione alla notizia fu tiepida, fatta solo di un impercettibile irrigidimento dell'espressione. «Potremmo andare a farle visita in ospedale» proposi ma lei scosse la testa all'istante e con decisione. «No, va bene così. Il nostro rapporto è… complicato. Non siamo un'accoppiata azzeccata. Non sopporto quella donna e sono conscia del fatto che in un momento di debolezza, lei ne approfitterebbe ed io finirei per fare qualcosa di cui poi mi pentirei.» Sapevo cosa voleva dire. Mia madre aveva fatto lo stesso con me più di una volta. Le baciai teneramente la fronte pensando che non avrei mai potuto amarla di più. «Credi sia una persona orribile? Una stronza?» Scossi la testa, inclinandomi leggermente per baciarle la tempia. «No. Tu hai incontrato mia madre, sai bene che posso capirti.» «Pensa che sia uguale a lei per via di quello che mi sono lasciata fare dal vecchio» mormorò come se stesse facendo una confessione imbarazzante, «Ma non è così. Ero solo una bambina e non pensavo di avere altra scelta.» Un proiettile in pieno petto non mi avrebbe fatto altrettanto male quanto la voce flebile che bisbigliava quella frase. I miei occhi bruciarono mentre la stringevo a me sussurrandole all'orecchio: «Certo che no, non devi giustificarti ai miei occhi, tesoro.» «Lo so, lo so. E so qual è la verità, solo che è così difficile sentirla mia. Questa storia è come sudiciume che non riesco a lavarmi via.» La sollevai tenendola accoccolata contro di me. «Non c'è un solo granello di quel sudiciume in te, tesoro. Tu hai il cuore più limpido che esista.» La cosa parve placarla e rimase in quello stato di tranquillità a lungo prima di parlare nuovamente: «Abbiamo dato un bello spettacolo di noi stessi nel giardino.» «Quanto pensi che m'interessi?» Lei mi ricompensò con un sorrisino che le illuminò gli occhi argentei. Dio, era bellissima. Perfetta. «Promettimi che non lo farai mai più. Mi spaventi quando diventi così, non puoi uccidere un uomo perché mi ritrovo con qualche livido, Tristan.» La baciai per distrarla sfacciatamente da quei suoi pensieri. Non ero davvero in grado di farle alcuna promessa, specie quando le ecchimosi erano ancora vivide. «Non dovresti mai avere paura di me, Danika.» Ci sdraiammo sull'erba davanti a casa di Bev, uno accanto all'altro tenendoci per mano mentre io le raccontavo per sommi capi del ragazzino che ero stato: sempre troppo grosso, troppo forte persino per il mio stesso bene. Troppo disponibile a combattere e sempre con troppi motivi per farlo a prescindere dalla loro futilità; con una madre che non riuscivo a proteggere perché essa stessa non voleva essere difesa dagli uomini che la maltrattavano. Condivisi quella parte di me; quel pezzo di me che aveva soprattutto bisogno di proteggerla più di ogni altra cosa, perché non conoscendoci ancora, quando era stato il momento non c'ero stato. Non era una cosa logica ma piuttosto un sentimento, un innegabile senso di fallimento. Perché fallire, era ciò che avevo sempre fatto quando si era trattato di salvaguardare le persone che amavo. C'erano cose che avevo bisogno di spiegarle sulla ragazzina che avrebbe avuto bisogno di un angelo custode e non lo aveva avuto; e di come non lo sarebbe mai più stata perché ora aveva me. Ed io prendevo seriamente quel mio dovere. Ecco perché davo di matto quando gli uomini facevano tanto di guardarla in modo ambiguo. Le spiegai con estrema attenzione che non riuscivo a regolare quella parte di me, nessun corso di gestione della rabbia mi avrebbe convinto che esageravo con la protezione. Quello parve darle pace e i suoi occhi si chiusero mentre un sorriso delicatissimo le trasformava l'espressione. La sua mano si poggiò serena sul mio cuore palpitante e quello placò me: lei era la mia ragazza perfetta, aveva bisogno del mio bisogno di proteggerla. Rimanemmo sdraiati su quel prato come due ragazzini idioti per minuti, forse ore. Fu uno di quei momenti in cui il tempo rallenta, le cose diventano chiare e pezzi di passato vengono seppelliti. Avevo imparato molto tempo prima che gli attimi come quello erano pochi e rari e mi sforzai di imprimerlo nella memoria: le foglie che crepitavano sugli alberi, il cielo quasi sgombro da nubi, l'autunno perfetto che si rispecchiava nella serenità estremamente fiduciosa dipinta sul viso di lei, sdraiata con la testa sulla mia spalla. Più tardi, quando finalmente ci alzammo, mi ricordai del biglietto che avevo infilato nella tasca posteriore e glielo porsi cauto. Era privo di parole, c'era solo un numero di telefono. Le sue sopracciglia si aggrottarono e i denti catturarono il labbro. «Il numero di Dahlia. Me l'ha dato tua madre.» Mi abbracciò tanto stretto che persino la mia anima se ne accorse. CAPITOLO OTTO TRISTAN Mi stavo infilando una maglietta blu scuro quando mi bloccai a metà, incredulo. «Col cavolo che indosserai quello» protestai sedendomi sul bordo del letto per guardarla. Ero sia infuriato che eccitato a quella vista. Aveva un paio di micro shorts che non erano adatti ad altro che alla camera da letto e un micro top con la scritta ‘Fanculo’ sopra. Lasciava scoperto tutto da qualche centimetro sopra l'ombelico fino alla cassa toracica, coprendo a malapena il seno. E sotto non aveva nemmeno il reggiseno. Rimasi a bocca spalancata con gli occhi incollati proprio lì. Danika non aveva un seno prosperoso ma stava in un palmo ed era assolutamente perfetto, morbido e malleabile. E un paio di tette senza reggiseno si riconosceva sempre. «Per nessun cazzo di motivo al mondo!» «Non posso mettere il reggiseno dopo il tatuaggio e il micro top mi copre abbastanza da non doverlo togliere davanti alle telecamere. Frankie mi ha detto esattamente cosa indossare, perciò levati quell'aria da cavernicolo dalla faccia» mi disse, raccogliendo i capelli in uno chignon arruffato. Il top si sollevò mostrando la curva inferiore del seno. «Sei dannatamente sicura?» Lei alzò gli occhi al cielo facendomi infuriare del tutto, mentre infilava le infradito. «Secondo Frankie è importante che stia comoda e sia vestita nel modo adatto. Se non riesci a venirci a patti, rimarrai a casa.» «Sei dannatamente sicura?» ripetei, «Ho preso una settimana per questo e tu l'hai dovuto rimandare perché potessi venire con te.» «Allora comportati bene se vuoi venire con me.» Serrai la mascella per evitare di continuare a litigare, contando fino a dieci senza mai distogliere lo sguardo dal top. «Fanculo?» le domandai poi. «Frankie dice che è perfetto per la censura. Se mi s'induriscono i capezzoli, non si vedrà perché la scritta sarà sabbiata. È stata lei a prestarmi il top.» Sta scherzando, pensai. Era ovvio che quella fosse una creazione di Frankie. Danika rimase in piedi davanti a me, le mani sui quei fianchi così deliziosamente sexy. Allungai le mie stringendole entrambi i seni e chiusi gli occhi, non riuscendo a trattenere un mugolio. «Siamo già in ritardo, Tristan e la troupe ha delle tempistiche strette.» Aprii gli occhi guardandola di traverso. Le sollevai quel poco che mancava per scoprirle il seno, imprecando liberamente mentre mi avvicinavo, palpandoglielo e succhiandole un capezzolo fino a inturgidirlo. «Quando avrai finito, t'inchioderò a quel lettino per scoparti fino a farti impazzire.» Lei sussultò e una delle mie mani scivolò in basso, oltrepassando l'elastico dei calzoncini per toccarla. Mugugnai spostandoli e usai la parte della gamba per infilarle dentro un dito. «Se riesco ad avere accesso alla tua fica così facilmente significa che questi sono troppo corti.» I suoi fianchi si contrassero spasmodicamente, muovendosi sul mio dito ed io ripresi a succhiarle in contemporanea il capezzolo. Aspettai che arrivasse al limite poi sfilai il dito lentamente, in modo provocatorio. «Siamo in ritardo, bubu, ricordi? Tempistiche strette.» Lei mi fulminò arretrando ed io le feci un ghigno e l'occhiolino. Riuscii a malapena a tenere gli occhi sulla strada mentre andavamo allo studio da Frankie. Ogni volta che Danika si agitava sul sedile finivo per girarmi verso di lei. L'eccitazione la mandava su di giri e ogni movimento del suo corpo diventava una distrazione grazie a quella che era l'ombra di un abbigliamento. La palpeggiai con una mano finché lei mugolò cercando di respingermi. «Smettila di provocarmi» si lamentò, «Non voglio eccitarmi proprio adesso. Passeranno ore prima che possiamo fare qualcosa.» «Beh, è un bel problema» replicai con un sorriso obliquo, «Sai cos'è questa roba che indossi? Una provocazione. Stai ricevendo esattamente quello che chiedi.» Lei sollevò il top e la mia mano si ritrovò improvvisamente sulla sua pelle nuda. Cazzo... la guardai: stava ripiegando la cinta dei pantaloncini verso il basso, rendendoli ancor più minuscoli e lasciando i lacci lentissimi. Mi afferrò la mano e la fece scivolare su di sé, portandola contro il suo sesso e spostandosi finché non riuscì a penetrarsi con il mio dito medio. La strappai via e mi rifiutai di guardarla per il resto del viaggio. Come sempre, aveva vinto la gara della provocazione, in questo era una campionessa imbattuta, io stesso avrei dovuto saperlo. Appena entrammo nel casinò la avvolsi con il braccio da ragazzo iperprotettivo quale ero, guardando in modo truce ogni coglione che si bloccava a fissarla. «Ti inchiodo a quel cazzo di lettino appena hai finito. E ti scopo fino a che entrambi non avremo la lingua lunga» mugugnai sottovoce, facendola ridere. Pensare che non stavo minimamente scherzando… Danika cercò di abbracciare Frankie appena entrammo nello studio di tatuaggi, ma io mi misi in mezzo, guardando quest'ultima in modo tagliente. «L'hai convinta a mettersi questa roba, ma col cavolo che riuscirai a toccarla mentre la tatui.» Frankie rise e Danika mi diede un pugno sulla spalla. Rimasi in disparte a braccia conserte mentre il produttore le faceva una breve intervista chiedendole del suo tatuaggio. Danika arrossì e ridacchiò raccontando la sua storiella su come avesse sempre amato i fiori di ciliegio. Era adorabile e mi ritrovai a contare i secondi che mi separavano dallo scoparla di nuovo senza pietà. Le vennero fatti molti primi piani del punto in cui sarebbe andato il disegno. Frankie teneva un quadratino di carta circa 7x12 appoggiato sopra, illustrando esattamente dove e come intendeva procedere per replicare il ramo di ciliegio. Sarebbe andato a sinistra della colonna vertebrale e la parte superiore sarebbe terminata proprio all'inizio della scapola. Era stupendo come sapevo sarebbe stato. Il lavoro di Frankie era sempre eccellente. Mi sistemai davanti a Danika, tenendole le mani per ore mentre Frankie lavorava ma desiderai picchiare ogni membro della troupe praticamente in ogni secondo. Fu una cosa lenta e affascinante. Guardare Frankie all'opera era un onore, ma osservare la stupenda schiena di Danika diventare ancora meglio con quell'intricato capolavoro, era una vera e propria esperienza. E ovviamente mi eccitò. Danika sopportò bene il dolore. Io mi ero accucciato per guardarla e solo all'occasione i suoi occhi si stringevano. Rimasero quasi sempre aperti e pieni di fermento per il risultato che avrebbe visto. Le feci scivolare giù i capelli accarezzandoglieli e nei momenti in cui Frankie sollevava l'ago per una breve pausa nella quale cambiava inchiostro o ripuliva l'area, la baciavo. Il risultato finale valse l'attesa e il dolore. I rami scuri erano dettagliati in modo minuzioso e terminavano con delle graziose infiorescenze i cui colori variavano, coprendo una miriade di sfumature del rosa, del magenta e del rosso acceso. Era un tatuaggio femminile, perfetto in ogni dettaglio proprio come chi lo portava. Quando finalmente Danika riuscì a vederlo, squittì dalla gioia. «Datele un po' di privacy mentre si riveste» brontolai con la troupe e con Frankie una volta terminato e lei fece sgombrare il cubicolo, seguendoli a ruota. Mi fece un sorriso rammaricato prima di chiudere la porta dietro di sé: «Sparo un po' di rock, così avrete un po' di pace. Meglio che vi chiudiate a chiave.» Girai la chiave e tornai al lettino. Poiché Danika era già stesa sullo stomaco, tutto quello che mi rimase da fare fu di piegarla con i fianchi sul bordo e i piedi quasi in terra. «Sistemati sui gomiti» le dissi abbassandole gli short. «Non posso credere che lo stai facendo» commentò ansante, sollevandosi a sufficienza per permettermi l'accesso al suo seno. «Non si può certo dire che non ti avessi avvisato.» «Frankie sa perfettamente cosa stiamo per fare.» Senza dubbio, pensai, ma: «Naa» dissi, «Avevi solo bisogno di un momento per sistemarti i vestiti.» «Non è che ne abbia molti.» «È quello il problema, no?» Le feci scivolare le mani sulla cassa toracica, accogliendo i seni fra i palmi sotto a quel pezzetto di stoffa minuscolo poi la penetrai senza fermarmi finché i miei fianchi sbatterono contro i suoi lombi. Lei gridò, afferrando i bordi imbottiti del lettino. «Adesso lo sa senz'ombra di dubbio» dissi stridulo mentre mi sfilavo lentamente. Le lasciai i seni, scostandomi per guardare il mio uccello che scivolava fuori dalla sua fessura umida; imprecando quando mi strinse forte e lodandola mentre tornavo a spingermi dentro, con una forza tale da far gridare nuovamente lei e frastornare entrambi. Allora mi piegai in avanti e le chiesi se le avessi fatto del male. «No. Ancora Tristan, ancora. Più veloce, ti prego. Ti prego.» Chiusi gli occhi. Il suono così dolce della sua voce mi pregava di darle tutto ciò che potevo ed io mantenni la mia parola: la bloccai contro il lettino scopandola fino a farla impazzire. Venni impetuosamente, le gambe quasi mi cedettero e gridai il suo nome a voce alta quanto la sua. «Ti piace questa angolazione, eh?» Lei mugugnò qualcosa di affermativo, appoggiando la guancia al lettino. Sembrava prossima a crollare. Ripulii entrambi con le salviette di carta che trovai nel bagno annesso al cubicolo, infilandole nuovamente i pantaloncini. Dovetti letteralmente tirarla su e sistemarla seduta per farla stare dritta e anche così, lei si appoggiò in avanti contro di me, la testa sulla mia spalla. Ricominciai a palpeggiarla, totalmente incapace di tenere giù le mani dal suo seno libero. «Ricorda che se deciderai di indossare nuovamente qualcosa del genere, questo sarà ciò che succederà. Non riuscirai a farci nulla perché io non sarò in grado di smettere di toccarti per più di qualche secondo.» «Mi serve un pisolino» disse lei già mezza addormentata. «E a me serve stare dentro di te, ancora» replicai al suo orecchio mentre mi davo da fare per abbassarle gli short sotto i fianchi. Il toccarla mi si era velocemente rivoltato contro e il mio cazzo senza cervello se l'era legata al dito. Questa volta la scopai da seduta, lasciando che si appoggiasse alle mani e con la schiena inclinata all'indietro, per poter guardare quei suoi seni rotondi che rimbalzavano ad ogni stoccata. Il top era alzato fin sotto al suo collo. Frankie bussò rumorosamente alla porta suggerendoci di darci una mossa. Le gridai dietro di andare a farsi fottere, continuando a pompare dentro Danika, imprecando e vezzeggiando, letteralmente ipnotizzato dal suo seno nudo. C'era qualcosa in quelle sue spalle coperte mentre il resto era nudo, che mi trasformava in un vero maniaco sessuale. A pensarci bene, tutto di lei mi trasformava in un maniaco sessuale. Questa volta gemette in modo quasi indolente quando venne, stringendomi come una morsa per lunghi momenti torturanti. Gridai e venni a mia volta sistemandola sui gomiti, tenendole le gambe spalancate e alzandole i talloni sul lettino prima di riprendere a pomparla con forza. Ancora e ancora. Lei era così scivolosa, così piena di me che io gemetti e inveii scopandomela come un animale finché non mi sentii quasi cadere. Mi piegai in avanti sui miei stessi gomiti mentre mi contorcevo esplodendole dentro, il viso nascosto contro il suo collo. Se fossimo svenuti sul lettino di Frankie per qualche ora, se ne sarebbe accorto qualcuno? «Meglio che puliate tutto, razza di maniaci perennemente in calore» gridò Frankie dall'altra parte della porta. Qualcuno sapeva da quanto eravamo lì? Io no di certo. «Ho messo delle salviette alla candeggina vicino alla porta, piccioncini» aggiunse sempre gridando, cinque minuti dopo. Sbattei gli occhi domandandomi se mi fossi addormentato, poi guardai Danika cercando di capire se anche lei stesse dormendo. Stava ancora cercando di tenersi sui gomiti, sollevata abbastanza da non appoggiarsi sul tatuaggio fresco. «Spero non pensi che le useremo per ripulirci» borbottai, cercando di trovare la forza per stare dritto. «Penso che siano per il lettino che abbiamo appena profanato» mormorò Danika, gli occhi ancora chiusi. «E il pavimento! E le pareti! E qualsiasi altra cosa abbiate toccato lì dentro» gridò Frankie. «Che ne dici di rendere questi muri un po' più spessi, Miss Ficcanaso?» la rimbeccò Danika col viso ancora talmente rilassato da sembrare assopita. Non riuscii a trattenermi e risi. Anche quasi priva di conoscenza, riusciva a essere insolente. CAPITOLO NOVE DANIKA Emisi un sospiro frustrato all'ennesimo passo sbagliato. Presto, il mio ballerino, come sempre non se la prese. Avevo lavorato con partner di maggior esperienza ma preferivo comunque quelli con un'indole positiva e lui non aveva mai giornate no. «Facciamo basta?» mi domandò con un sorriso e una strizzatina alle dita. Lui sì che mi conosceva: non avevo mai decretato la fine di una sessione, anzi, insistevo per continuare finché i passi non ci venivano alla perfezione. Il nostro maestro attraversò la sala, prese atto della decisione poi girò i tacchi e andò dritto allo stereo. Sorrisi quando Family Affair di Mary J. Blige riempì la stanza, era impossibile non ballare sulle note di quella canzone o continuare a essere di cattivo umore. Anthony, il nostro maestro di ballo, aveva almeno una quarantina d'anni e quel fascino da persona più matura con i capelli sale e pepe, una costituzione snella ma muscolosa, occhi grigio acciaio e un forte accento italiano. Era anche una persona gentile, il che era sempre un successo con me. Mi separai da Preston rilassando la posizione e iniziai a ballare, non il tango ma un buon vecchio ritmo libero. Anthony si avvicinò ma non troppo, muovendo le spalle e dimenando i fianchi. Nessun italiano si era mai mosso così bene al ritmo di Mary J Blige. Quell'uomo aveva ritmo. Le nostre lezioni di ballo finivano sempre con un pezzo come questo perciò sapevo che per quella sera eravamo a posto, eppure non avrei mai voluto smettere perché amavo ballare e lo facevo con persone spontanee. Tristan era nuovamente fuori città perciò uscii a cena e a bere con un gruppo di ballerini. Come sempre accadeva, Preston finì per sedersi accanto a me. Sapevo, e la cosa mi metteva a disagio, di piacergli più che come amica. Lui non avrebbe potuto essere più lontano dai miei gusti, però ed io ero monogama. Se anche fossi stata single, non sarei uscita con lui. Era un bel ragazzo con capelli castano chiaro e occhi nocciola. Era atletico e alto quasi un metro e ottanta. Avevo sviluppato un gusto molto marcato per gli uomini grandi, in grado di sopraffarmi e con bicipiti grossi come tronchi… Tristan era stata la mia rovina. Il gruppo rimase compatto e andammo avanti a chiacchierare per ore. Bevvi moderatamente, come sempre dalla morte di Jared. Quell'evento mi era servito come una sveglia, dato che non ero immune alle insidie del vizio: la dipendenza era ereditaria ed io l'avevo nel sangue, quindi dovevo stare più che attenta ad evitarne le trappole. Eravamo in un bar dall'altra parte del campus, che aveva una pista da ballo. Dato che eravamo in otto e tutti ballerini, ovviamente ci mettemmo a ballare e fu divertente. Era bello uscire con gente nuova, volti diversi con sorrisi spensierati. A un certo punto, mi ritrovai a messaggiare con Frankie, invitandola a unirsi a noi. Frankie: In un bar del college? Hai una vaga idea della mia età? Veramente no, non la sapevo. Danika: No, quanti anni hai? Frankie: 27 Danika: Non sei mica vecchia! Frankie: Abbastanza per un bar di universitari. Danika: Ma è divertente, dai! Frankie: Per quanto rimani? Danika: Non lo so, dipende se ci raggiungi. Frankie: Ok, sarò lì fra mezz'ora, ma se vedo le ragazze di qualche associazione studentesca me la filo. Stavo ballando con Preston quando la vidi in mezzo agli avventori al bar. Feci uno strillo e corsi da lei, che mi sorrise vedendomi. Ci abbracciamo ma lei continuava a guardare oltre la mia spalla. Verso Preston, pensai e il mio sospetto fu subito confermato. «Chi è quel tipo?» mi domandò Frankie indicandolo. Dato che avevo ballato con lui, sapevo a chi faceva riferimento ma seguii comunque il suo dito. «Preston, è il mio partner di ballo. Un ragazzo carinissimo.» «E quindi sei… uscita con lui?» Socchiusi gli occhi a quel suo tono ammonitore. «Sono uscita anche con altri sette ballerini. Siamo un gruppo.» «Ma stavi ballando con lui.» «È il mio ballerino, non mi sembra qualcosa di così anomalo» affermai, ritrovandomi sulla difensiva. «Come pensi che si sentirebbe Tristan al riguardo?» mi chiese lei con un tono piatto che faceva da contrappunto all'arco disegnato dalle sue sopracciglia. «Tristan dà di matto quando parliamo di me e altri ragazzi. Credi che dovrei assecondare quella pazzia?» Lei mi lanciò una di quelle occhiate che avrebbe dovuto essere appannaggio delle madri che disapprovano. «Come ti sentiresti se scoprissi che lui va per locali con la band e balla con altre donne mentre è a L.A.? Ti starebbe bene?» Ci riflettei sopra un momento finché compresi… lo avrei detestato. Davvero tanto. Sì, mi stavo comportando in modo sconsiderato in questo caso, ma a quanto pareva avevo avuto un bravo maestro. «Ma è il mio partner di ballo, dobbiamo esercitarci. Non posso lasciar perdere il ballo per Tristan, non sarebbe una cosa normale.» «D'accordo, ma che ne dici di limitarti a farlo solo allo studio? Mi sembra diverso rispetto al giocare a Dirty Dancing in un locale!» «Come so che Tristan non esce e balla con le altre? Potrebbe anche fare di peggio ogni sera, non ho alcuna prova che sia o meno così.» «Lo sai perché te lo sto dicendo io: lui si comporta bene nei tuoi confronti, non te lo farebbe mai. È davvero molto, molto attento a non oltrepassare il limite perciò portagli lo stesso rispetto.» Aveva ragione e mi sentii improvvisamente uno schifo. «Non stavo giocando a Dirty Dancing e questo non è un club» sottolineai. Lei mi squadrò dall'alto in basso soffermandosi decisa sulla mia pancia nuda. «Dimenare i fianchi vestita così lo rende tale. Fine della storia.» Indicai la sua micro maglietta. «Non osare criticare il mio abbigliamento, tu metti in mostra più pelle di quanta ne tieni coperta.» «Sì, ma io sono single. C'è un abisso di differenza.» «Sei davvero una guastafeste questa sera, sai?» «Sì, lo so. Prova a darmi torto.» Arricciai le labbra, guardandomi in giro alla ricerca degli altri ballerini. Ce n'era una in particolare che pensavo le sarebbe potuta piacere. «A proposito del tuo essere single…» «Oh, diavolo, no cara! Non lo sai come funziona con me!» «È una ballerina sexy e a quanto pare anche lesbica.» «Credi davvero che le cose vadano così? Lei è lesbica, io anche perciò è ovvio che andremo d'accordo?» Alzai gli occhi al cielo ma risi perché anche lei lo stava facendo. A Frankie piaceva darmi fastidio. «Pensavo più a: tu sei sexy, lei è sexy ed entrambe siete gay. Diciamo che ci va più vicino.» «Dimentichi un dettaglio: io non mi faccio più le donne tranquille.» Già, quello me l'ero dimenticato: «Beh, chi lo sa, magari lei non lo è affatto.» «Credimi ragazza, conosco ogni lesbica sottomessa in città: se quella non fosse vaniglia, ci saremmo già incontrate.» «Ma dai… è davvero carina.» «Anche tu lo sei ma siamo tanto compatibili quanto lo sono io con la suddetta pratica.» «Questo è vero» le concessi. Alla fine rinunciai, in veste di Cupido ero una vera frana. Tuttavia, meno di dieci minuti dopo, Frankie conobbe la ragazza della quale le avevo parlato, Estella. L'ironia della cosa stava nel fatto che quest'ultima era chiaramente presa da lei, tanto da amoreggiarci impunemente fin da subito. Estella era una brasiliana piccola e ben proporzionata, con lunghi e folti capelli castani ondulati. Era più bassa di qualche centimetro di Frankie e aveva una personalità socievole e impetuosa. Inoltre, le piaceva indossare pochi vestiti, altro tratto in comune con Frankie, la quale però non sembrava volerne sapere. Era gentile con lei ma niente più. «Spiegare le mie preferenze è difficile» mi rivelò Frankie una volta che l'altra aveva finalmente smesso di provarci con lei, «Estella mi attrae, è decisamente scopabile ma non è questo il punto. Non potrei mai essere me stessa con lei ed io non mi accontento di niente di meno.» «Come potrai mai trovare qualcuna? Già è difficile rimediare gente decente con cui uscire, se ci aggiungi anche questo…» «Non è facile, affatto. Ma ti dico una cosa: di sicuro non troverò qualcuno in un bar universitario. Preferisco la castità al sesso normale adesso. Non mi fa provare più nulla…» «Allora l'hai praticato?» «Con scarso successo e non più da quando ho capito come stavano le cose. Una scelta come la mia è un'incognita da una parte, ma se la pratichi bene, Dio… non c'è niente di meglio. Il sesso normale non potrebbe mai reggere il confronto, mi eccita come un gioco in scatola.» «Quanto è passato da quando… insomma, hai avuto qualcuna?» «Ho lasciato la mia ultima sottomessa più di un anno fa. Come ho detto, non è facile trovare qualcuna che sia compatibile con me.» Mi sentii una rompiscatole a farle tutte quelle domande, specie perché all'improvviso lei sembrava essersi intristita. «Non sono affari miei, sono un'impicciona, scusami.» «No, tu sei mia amica ed io sono molto aperta con gli amici. Voglio che tu mi conosca e la mia sessualità è una parte importante di me. È abbastanza insolita da essere uno degli elementi che mi definisce e ci sono venuta a patti. Senza contare che gli appuntamenti sono un problema per tutti… sono tutt'altro che l'unica in questo campo!» «Oh, sì.» Estella tornò con due Martini e un sorriso rivolto a Frankie. Credevo che avesse colto il suggerimento ma era chiaro che mi sbagliassi. «Adoro i tatuaggi» le disse, porgendole uno dei drink. «Oh, davvero?» replicò educatamente Frankie bevendo un goccio, «Io gestisco uno studio di tatuaggi. Se avessi voglia di fartene uno dovresti venire da me.» Estella sbatté le ciglia affascinata. «Stavo parlando di quelli che hai tu, non avevo capito che fossi un'artista. Mi piacerebbe fare un salto per vedere i vari tipi. Dove sei? Io sono nuova in città e non so… come si dice, le conoscenze?» Frankie pareva sempre più presa da ogni parola dell'altra. Estella aveva un accento molto sexy. «Non hai bisogno di conoscenze per farti un tatuaggio.» Estella ridacchiò e il modo in cui Frankie le sorrise mi diede una piccola speranza. «Volevo dire direzioni, non conoscenze» e ridacchiò ancora. Era davvero adorabile. Si accostò a Frankie toccandole un braccio, era chiaramente interessata e non cercava nemmeno di nasconderlo. «Mi piacerebbe farti da tela. Penso che il tatuaggio sia un'arte.» Non sarebbe riuscita a dire una frase da rimorchio migliore nemmeno se fosse stata sua conoscente di lunga data. «È il mio motto. L'ho scritto anche sui bigliettini» Frankie allungò la mano alla tasca e ne trasse uno, «L'indirizzo è scritto qui ma il negozio è al piano superiore del centro commerciale presso il casinò Cavendish. Non puoi sbagliarti.» Estella gongolò eccitata e notai lo sguardo di Frankie posarsi direttamente sul suo seno prosperoso. «La proprietà Cavendish? Deve essere fantastico avere un'attività lì! Il casinò è stupendo.» «Guardi molta televisione?» le domandò Frankie. «Televisione? Una volta sì, mi aiutava con l'inglese ma adesso non ho più tempo.» Frankie parve sollevata e non fece menzione del suo reality. Non la biasimai: considerato chi era, doveva essere difficile evitare di attirare la gente sbagliata. «Quanto ti devo per il drink?» le chiese ma Estella fece un gesto con la mano, sorridendole in modo amichevole. «Offro io. A meno che ovviamente tu non voglia baciarmi. Non rifiuto mai un bacio da una bella donna.» La bocca di Frankie s'increspò in una smorfia. «Non offro baci in cambio di drink.» «Allora è gratis. Adesso mi baci?» Frankie scosse la testa. Non l'avevo mai vista tanto a disagio. «Non funziona così con me. Non fraintendermi: tu sei bellissima ma io non ho delle avventure facili.» «Chi ha detto che è facile? Io ti voglio e non vedo perché dovrei nasconderlo, ma questo non lo rende certo semplice.» Frankie le afferrò il polso, attirando il corpo di Estella contro il suo. Dato che erano quasi della stessa altezza, si ritrovarono perfettamente allineate. Erano una visione straordinaria, due bellissime donne che si abbracciavano e che sembravano pronte a baciarsi e sapevo di non essere l'unica nel locale che le stava fissando. Ma Frankie non la baciò, posando invece le labbra sul suo orecchio. Ciò che le disse potei solo immaginarmelo, ma l'altra non si allontanò certo scioccata. Al contrario, la sua bocca si spalancò e lo sguardo si appannò. Avrei scommesso che si fosse eccitata. Passarono alcuni affascinanti minuti prima che Frankie si scostasse continuando a guardarla negli occhi, prima di prenderla per i capelli castani e unire le loro bocche in uno dei baci più sensuali che avessi mai visto prima. Quando finalmente Frankie si staccò, le sorrise. Qualcosa in quel gesto, nella sua espressione era cambiato, portandomi a credere che avesse preso il controllo delle dinamiche, trasformandosi da preda a predatrice. «Questo è l'unico bacio gratis che avrai da me, Estella. Gli altri dovrai guadagnarteli. Il mio numero è sul biglietto se vuoi parlarne.» Frankie le voltò le spalle, ovviamente sicura che la questione fosse risolta, ma Estella la prese per un braccio prima ancora che riuscisse a fare un passo. «Aspetta! Va bene. Voglio parlarne. Vorrei… fare quello che hai menzionato.» Frankie deglutì a fatica, nuovamente a disagio. «L'hai già provato prima d'ora?» Lei fece cenno di no. «Ci ho pensato. Ci ho fantasticato sopra.» Si guardò attorno mentre lo ammetteva, come se temesse di essere udita anche dagli altri. Di certo non le avrei detto che metà del bar era in ascolto. Dire che Frankie sembrava intrigata, sarebbe stato minimizzare. «Davvero?» domandò dolcemente, «Potrei riuscire a farci qualcosa allora. Chiamami domani se questa notte non cambi idea.» Estella non mollò la presa. Non aveva ancora finito. «Non riuscirò affatto a dormire. Voglio passare la notte con te, non voglio aspettare.» «Non dovrebbe essere una decisione presa in fretta. Meglio prenderti un po' di tempo e pensarci.» «Ti prego, so quello che voglio. Almeno credi a questo.» E così mi ritrovai a guidare verso casa di Frankie con due lesbiche nel sedile posteriore del mio macinino. Frankie aveva detto di essere arrivata in taxi, Estella assieme agli altri e non volevo che aspettassero di trovarne uno libero. Non mi pesava fare da chauffeur, ero eccitata e per niente turbata dal fatto che Frankie avesse trovato qualcuno di compatibile. La maglietta di qualcuno, immaginai di Estella considerato il buio, atterrò sul sedile anteriore. «Wow» commentai sottovoce. «Dio, le sue tette sono vere» affermò Frankie ad alta voce. Stava parlando con me? «Ah sì?» risposi nell'unico modo che mi sembrava appropriato. «Sì. Cazzo: amo le tette naturali, sono così rare a Las Vegas!» «Beh, forte» commentai, pensando che quello era il passaggio più strano che avessi mai dato. «Posso toccarti?» le domandò Estella. «Se sarai davvero, davvero brava, ti dirò quando ti sarai guadagnata questo diritto, non prima. Fosse anche tenersi per mano, sarò io a fare tutto. Ti sta bene oppure è troppo per te?» La replica pronta e decisa di Estella mi fece sorridere: volevo che funzionasse fra loro. «La risposta giusta termina sempre con Mistress Abelli.» All'improvviso mi sentivo una guardona… era bastato quel poco a farmi provare la sensazione di intrufolarmi nell'altro lato di Frankie. «Sì, Mistress Abelli» replicò Estella sottovoce. «Voilà» commentai fra me e me. Sapevo che Frankie ci andava giù pesante, ma accidenti a me… quella roba riusciva a essere intrigante. Tristan parve altrettanto contento di quella potenziale partner per Frankie quando lo informai prima di dormire. I rumori in sottofondo non mi piacevano, sembrava che si trovasse in una stanza piccola in mezzo a migliaia di donne che ridevano. «Dove sei?» gli chiesi. Mi sembrava tanto una festa o un locale. «Alla festa dei discografici» dalla voce parve distratto. «Beh, allora ti lascio, mi sembri occupato. Magari possiamo risentirci domani.» «Ottimo. A domani allora.» «Okay.» Riattaccai. Mi sentivo triste e tesa, improvvisamente molestata da un'ondata d'infelicità. Eccoci, separati per la maggior parte del tempo ed io non potevo nemmeno uscire e ballare senza preoccuparmi di quel che lui avrebbe pensato. Nel frattempo, lui era chissà dove a fare baldoria. La vera fiducia era qualcosa di sfuggente per me, specie considerate le mie precedenti esperienze con gli uomini e quelle di Tristan col sesso. Lui avrebbe potuto fare qualsiasi cosa volesse ed io non lo avrei mai saputo. In quel momento avvertii la distanza non tanto in termini di miglia, quanto d'intimità. Cos'era che ci teneva insieme? Non vivevamo neppure nella stessa città e all'apparenza lui non sembrava aver più bisogno di me. Mi girai tutta la notte senza tregua, torturata dal pensiero che forse non lo avrei mai conosciuto veramente. CAPITOLO DIECI TRISTAN Riattaccai, guardando storto Dean che dall'altra parte della stanza rideva abbracciato a una tipa mai vista prima. Condividevamo una casetta vicino agli studi di registrazione, non era l'ideale poiché non avevamo nemmeno una stanza per ciascuno e il soggiorno era talmente piccolo da rivelarsi inutile. Invece di darci i fine settimana liberi come promesso, ce ne facevano lavorare la metà, tanto che ormai sembrava vivessimo qui e non a Las Vegas. Mi stavo logorando a dir poco e cosa ben peggiore, il disco si bloccava a ogni sessione. Dean era in modalità auto-distruzione e sbrodolando stronzate sulle sue differenze creative rispetto a Kenny, rallentava un processo già fiacco di suo. Differenze creative un cazzo! Avrei voluto picchiarlo: lui non faceva nulla per quel lato della band e trovare da dire con Kenny senza uno straccio di motivo, era troppo anche per me. Buttai giù un sorso direttamente dalla bottiglia di Jack Daniel's, continuando a guardarlo con rabbia. La ciliegina sulla torta delle sue stronzate era che si era presentato a casa con un pulmino pieno di groupie ed io avevo finito per mentire a Danika sul casino. Cory era uscito con il nuovo chitarrista e Kenny si era rintanato in camera sua. Sveglio l'amico. Anche io avrei fatto altrettanto, ma dopo quella groupie nuda che mi era saltata addosso nel sonno su idea di Dean, non mi fidavo più di lui e certamente di nessuna di queste strane femmine che ci avevano invaso casa. Che cazzo di casino, pensai bevendo ancora. Dean notò la mia occhiataccia e mi sorrise come se quello avesse reso completa la sua giornata. «Che c'è amico? Perché hai quell'aria nera? C'è così tanta figa qui in giro!» «Sai cosa c'è» brontolai coi pugni serrati, «Niente groupie in casa, sono le regole.» Le ragazze, che non volevano ammettere quel loro status, protestarono ma me ne fregai. Groupie erano e groupie rimanevano. Feci una panoramica su di loro: «Fuori» gridai maleducatamente. La mia pazienza era esaurita. Qualcuna iniziò a muoversi borbottando ‘testa di cazzo’ e ‘coglione’ mentre usciva; qualcuna invece rimase lì dov'era, provocando la risata intensa di Dean. «Che hai intenzione di fare, amico, portarle fuori tutte a braccio?» «O io o loro e se esco da quella porta non tornerò più. Puoi fare questa cosa da solo, ma non me ne frega più un cazzo di niente. Non ho firmato da nessuna parte.» Finalmente quello gli diede la sveglia e si mise a far uscire il resto delle ragazze rimanendo di pessimo umore. Non stavo bluffando, nemmeno un po' e lui lo sapeva. La mattina dopo mi alzai col dopo sbronza e incazzato nero. Mi vestii scuotendo Kenny per svegliarlo. Lui sobbalzò quasi cadendo dal lettino singolo sistemato nel suo lato della stanza. Era l'unico del quale m'importasse dato che condividevamo la camera. «Me ne vado, torno a casa per qualche giorno. Non ne posso più di questa stronzata di lavorare fino a metà week-end. Ho una ragazza che mi aspetta.» Kenny non provò nemmeno a fermarmi. Era bravo a leggere le persone e capiva quando dicevano sul serio. «Lo dirò al produttore. Chiamami quando decidi di tornare.» «Lo farò.» Telefonai a Danika una volta prima di partire ma non mi rispose, cosa per lei piuttosto normale. Lasciava sempre il telefono in giro, spesso con la suoneria muta per via delle lezioni perciò optai per mandarle un messaggio conciso: Tristan: Torno a casa, cerca di liberarti per il pomeriggio. Vorrei portarti fuori. Stavo facendo benzina a Barstow quando finalmente rispose. Danika: Bello… mi sei mancato tanto. Jerry dice che penserà lui ai bambini quando arriverai. Cosa devo mettermi? Ridacchiai, felice per la prima volta da quando l'avevo salutata settimane prima. Tristan: Il bikini più striminzito che hai. Anche il filo interdentale va bene. Danika: LOL. Sei pervertito… Davvero il bikini? un Tristan: Sì. Frankie ci ha riservato una capanna a bordo piscina al Cavendish per il pomeriggio. Danika: Wow. Quando accostai davanti a casa di Bev, era già pronta e in attesa. Indossava un minuscolo bikini color bronzo, il mio preferito, con sopra una tunica trasparente che in pratica non riusciva a coprire niente. Il tutto completato da sandali a tacco alto color argento che facevano pendant con le tante collane e braccialetti che l'adornavano; occhiali da sole dorati e orecchini a cerchio enormi. I capelli erano lisci e lunghi, sciolti sulla schiena. Mi venne duro come un macigno prima ancora che avesse fatto due passi per uscire. Le andai incontro a metà strada, stringendola per un breve bacio. Non potevo certo farmela sul prato davanti casa o avrei non solo perso la testa, ma anche traumatizzato i figli dei vicini. Presi la piccola borsa che aveva con sé e l'accompagnai alla macchina, aiutandola a salire. «Dove sono i tuoi pantaloncini da mare?» mi domandò mentre tornavo al mio posto. «Ho una borsa dietro, mi cambierò quando arriviamo in piscina. Sono venuto direttamente qui.» «Pensavo avresti nuovamente lavorato durante il fine settimana. Come hai fatto a prenderti dei giorni?» «Li ho presi. Me ne sono andato e basta. Mi sono stufato di quella roba, possono licenziarmi se a loro non va, non ho firmato per trasferirmi là.» Lei mi accarezzò il braccio durante il tragitto mentre io tenni le mani a posto. Era passato troppo tempo per me e il mio autocontrollo era appeso a un filo. Ero talmente eccitato da sentirmi quasi violento. Le capanne erano sistemate quasi sopra alla piscina, su delle piattaforme ai lati di una passerella che arrivava fino al centro della vasca principale. Erano progettate come tende con quattro lati, uno dei quali aperto sull'acqua e potevano ospitare circa quattro persone. Dozzine di cuscini sparsi ovunque creavano una sorta di enorme letto. Era un autunno caldo per Las Vegas, la giornata perfetta per stare in piscina. Mi cambiai indossando i miei calzoncini da mare e un paio di occhiali da sole. I miei movimenti erano resi goffi dalla fretta. Poiché Danika era arrivata già pronta, mi stava aspettando. La musica era sparata a tutto volume: eravamo nel pieno della giornata ma le feste a Vegas iniziavano presto e non finivano mai. Danika stava muovendo i fianchi schioccando le dita al ritmo incalzante, le labbra mimavano le parole della canzone e gli occhi guardavano l'acqua. Per lei era impossibile stare ferma quando c'era di mezzo della musica. Tanto adorabile quanto sexy... La presi per la vita mentre ci portavano alla nostra capanna. La sua bocca si spalancò sorpresa quando vide l'opulenta disposizione. Solo quella sua reazione aveva fatto giustizia a tutto… per riuscire a organizzare quella cosa avevo dovuto fare almeno una dozzina di telefonate. Il nostro cameriere ci venne incontro con due Daiquiri gelati già pronti, ordinati ore prima. Durai forse cinque minuti prima di alzarmi e chiudere la tenda. «Puoi farlo?» mi domandò Danika. Io mi voltai e le sorrisi: era sdraiata sui cuscini vestita solo di triangolini e stringhe ed era tanto appetitosa che me la sarei mangiata tutta. E scopata fino a svenire. «Mi piacerebbe proprio vedere come potrebbero impedirmelo!» Mi sdraiai accanto a lei con una mano sulla sua pancia e ne sentii i muscoli vibrare. Il mio pene reagì in conseguenza. Le accarezzai la pelle morbida sotto all'ombelico, muovendo pigramente un dito fino ai lacci stretti dal nodo. Prima ancora che se ne rendesse conto, le avevo slegato il pezzo inferiore del costume. Le sue mani corsero a coprirsi il sesso, sfiorandosi inavvertitamente e per poco non venni al solo guardarla. La mia mano coprì la sua ma riuscii a malapena a trattenermi. «Hai cominciato, non fermarti adesso. Toccati e spalanca le gambe. Voglio guardarti.» «Il cameriere potrebbe entrare da un momento all'altro.» «Allora dovresti sbrigarti.» Mentre parlavo spostai la mano al suo collo. I laccetti erano legati bene ma avevo una lunga esperienza nello sciogliere nodi ben più complicati di quello e dopo un paio di mosse, lei rimase in topless. «Tristan! Cosa stai facendo?» Il suo tono oltraggiato non fece altro che eccitarmi ancora di più… amavo quando diventava così perbene, avrebbe invocato il mio nome in modo molto più soddisfacente dopo. «Cosa ti sembra che stia facendo?» «Vuoi fare sesso in pubblico?» Non mi presi il disturbo di specificare che non sarebbe stata la prima volta. Invece, la accarezzai con un dito, suggerendo alle sue stesse mani di esplorarsi. Non riuscivo a togliere gli occhi da quello spettacolo, aveva la fica più carina del pianeta. «Sei una piccola esibizionista» la provocai, «Completamente nuda in pubblico e ti piace. Non c'è altro che un sottile strato di tessuto fra noi e quella gente chiassosa là fuori e tu sei completamente fradicia.» Passai il polpastrello al centro della sua umidità per sottolineare che avevo ragione, «Magari arriverà il cameriere. Pensi che gli piacerebbe vederti mentre tocchi la tua fica eccitata?» Sapevo che odiava quella parola ma il modo in cui mi guardò in tralice mi fece impazzire. Peccato che appena spinsi le mie dita dentro di lei, quello sguardo fu rovinato da un gemito. Le pareti della sua vagina si contrassero come una morsa attorno a me, portandomi quasi al punto di non ritorno. Se non l'avessi presa nel giro di un minuto sapevo che mi sarei messo in imbarazzo. «Non è una risposta» commentai iniziando a muovermi, «Devo prendere il tuo silenzio come desiderio che arrivi il cameriere e ti veda così? Vuoi che ti guardi con le mie dita dentro?» «No» gridò lei ma senza alcuna spinta mentre i mugolii eccitati e le contrazioni di piacere si susseguivano. «Non sei molto convincente, Danika. Comincio a pensare che ti piaccia essere guardata… nessun ballerino bravo come te detesta il pubblico. Forse dovrei chiamare il cameriere.» «No, non farlo» ora sembrava onestamente preoccupata, nonostante fosse ovvio che non mi sarei mai nemmeno sognato di condividere quella visione di lei con altri. «Dovrai fare meglio di così, tesoro. Dì per piacere.» Lei non esitò. «Per piacere.» «Bene, bene. Adesso dimmi: vuoi che ti faccia venire con le mani? Così?» e mentre lo dicevo, estrassi lentamente le dita per poi iniziare a strofinarle sul clitoride finché i suoi fianchi sgropparono e il respiro si fece ansante. Lei scosse la testa e chiuse gli occhi quando toccai il tasto giusto. Quello. «No?» domandai, «Non vuoi che lo faccia così? Dimmi come allora.» La voce le uscì in un sussurro senza fiato, le labbra tremolanti: «Ti voglio dentro di me.» La accontentai, anche se non nel modo che intendeva, spingendo nuovamente dentro le dita e riprendendo il ritmo regolare. Lei s'inarcò, soffocando a malapena il gemito mentre l'altra mia mano accoglieva l'invito stringendole il seno rotondo. «È questo che volevi?» chiesi a fatica. «Nooo» rispose con tono frustrato. «Dimmi come allora.» Riuscire a farle dire cose sconce era una delle mie passioni. «Voglio il tuo cazzo» rispose lei fra i denti, «Non voglio venire finché non me l'avrai messo dentro, fino in fondo.» Grugnii a fatica in modo sommesso, rotolando sulla schiena e sollevandola su di me per i fianchi. Era una piuma. La sistemai in modo che mi montasse ma con il viso rivolto dall'altro lato. Era una posizione difficile per uno della mia mole, ma lei mugolava ed era così bagnata e pronta che non riuscii a trattenermi. Facendo attenzione, spinsi appena la punta dentro di lei e Danika si coprì la bocca con una mano per non gridare. «È così fottutamente bello, Danika» le dissi roco mentre avanzavo nella sua fessura stretta, godendomi ogni piccolo centimetro, allungandola. Era in-fottutamente-credibile. La sua testa cadde all'indietro mentre la penetravo, una delle cose più arrapanti che avessi mai visto. La strinsi maggiormente per i fianchi mentre spingevo verso l'alto, tenendola al contempo contro di me quasi con ferocia, perché mi prendesse tutto. Lei soffocò appena un grido. La zittii per evitare che il cameriere ci sentisse davvero e pensai che in quel caso l'avrei ucciso. Chiusi gli occhi quando lei iniziò a muoversi, lasciandomi inondare dal piacere che mi riempiva ogni poro. Il mondo si dissolse e rimasero solo le sensazioni e la perfetta armonia dei nostri atti, la pelle contro la pelle. Circondussi i fianchi sollevandoli e abbassandoli secondo il suo ritmo. La ragazza faceva l'amore come ballava: era ipnotica, intossicante… Non riuscivo a ricordare dove avessi firmato per restarle lontano tanto a lungo. Era questo che mi serviva, che volevo disperatamente, l'unica cosa che mi faceva ancora sentire tutto intero, l'unica vera pace che riuscivo a ottenere da quando era morto Jared. Con lei sopra, non sarei mai potuto arrivare più a fondo di così. I nostri movimenti si fecero scomposti e frenetici mentre toccavamo l'apice assieme. Danika iniziò a rabbrividire godendo ed io mi lasciai andare, stringendole i fianchi tanto da farle male. Venni come un fiume in piena. Il mio corpo ricevette una scossa prolungata e il respiro mi uscì con lunghi sussulti. Pensai di non aver mai sperimentato nulla di così intensamente piacevole in vita mia, il che ovviamente me ne fece volere ancora. Danika smontò da me lentamente, in modo indolente e mi si afflosciò accanto con l'aria beatamente rilassata. Amavo quando riuscivo a renderla così, era una persona ansiosa e mi piaceva sbatterla fino a impedirle di mettere insieme un solo pensiero coerente. «Oh, Dio» esclamò sommessamente a occhi chiusi, «È stato… spaziale.» «Mi sei mancata» le dissi, sistemandomi sopra di lei. «Che cosa… davvero?» Ridacchiai mentre mi guidavo con la mano fino a lei. «Davvero. Hai l'aria assonnata perciò, fai pure, dormi. Non badare a me.» La penetrai. Lei aveva iniziato a ridere alle mie parole ma il gesto la portò a sussultare ed io presi a spingere. Il mio controllo si era esaurito con il primo giro perciò questa fu una scopata veloce e mirata. La pompai riempiendola quando l'onda dell'orgasmo iniziò a prendermi. Anche lei mi raggiunse ma fu solo fortuna… avevo perso ogni ritegno. Mentre le riallacciavo il bikini addosso rimase sdraiata, distrutta. Avevamo sfidato anche troppo la nostra fortuna e non volevo che rimanesse nuda ed esposta mentre ci godevamo i momenti post-orgasmici. «Mi sei mancato» borbottò toccandomi una mano. I suoi occhi si chiusero all'istante, pesanti. Era andata, sazia e completamente dimentica della folla all'esterno. Risi. CAPITOLO UNDICI TRISTAN Trascorremmo i giorni seguenti quasi sempre a letto. Danika non studiò, saltò il lavoro e quando arrivò il lunedì, anche le lezioni. Lasciò perdere tutto per me, per stare con me solo perché glielo avevo chiesto. Era proprio quello che mi serviva per sentirmi di nuovo normale. Io uscii una volta, lunedì, per comprare un po' di generi alimentari, lasciandola svenuta dal sonno a letto ma con mio sommo piacere, quanto tornai era sveglia. Sentii l'acqua del bagno mentre aprivo la porta della camera e quando entrai, lo spettacolo che mi ritrovai davanti mi fece venire l'acquolina in bocca. Dean la chiamava porno-vasca e non aveva torto considerato quante persone avrebbero potuto starci dentro. Al momento però, era occupata dall'unica visione troppo bella per finire sul piccolo schermo. Danika sorrise quando mi notò, inarcando leggermente la schiena con quel suo fare civettuolo. Quella donna mi aveva in tasca e doveva saperlo… Mi diventò duro prima ancora che la porta fosse chiusa. «Felice di vedere che ti sei accomodata» le dissi con il tono arrochito dalla lussuria più pura. Il bagliore delle candele giocava sulla sua pelle mentre lei si muoveva nell'acqua, il bel seno che affiorava in superficie come un lascivo invito. Non disse una parola, sollevò semplicemente una gamba appoggiando il tallone in bilico sul bordo. Non c'era schiuma. Mi avvicinai fissando il suo corpo attraverso la trasparenza dell'acqua e quando lei sollevò anche l'altra gamba, spalancando le cosce e dandomi una perfetta visione del suo paradiso, contrassi la mascella con forza. «Aspetti l'invito? L'acqua è fantastica, giuro.» Mi tolsi la maglietta e le mie dita lottarono con il bottone dei jeans. Mi sentivo il classico adolescente arrapato, gonfio di libidine… Solo Danika riusciva a farmi questo. «Combineremo un casino» la avvisai. «A cosa serve questa vasca enorme se non possiamo nemmeno farci l'amore?» «Hai ragione ma forse dovremmo mangiare prima di fare ancora sesso o finiremo per svenire.» «Poverino!» Il suo era un tono beffardo. Si mosse portandosi seduta e allungò la mano per stringerla attorno al mio uccello pulsante. Chiusi gli occhi lasciando che la testa mi andasse all'indietro perché quella sensazione travalicava la mia capacità di pensare o parlare. Gemetti, inarcandomi nella sua mano. La lasciai giocare con me, lottando con la cerniera dei jeans quando non ne potei più di quella piccola tortura. Lei emise un piccolo suono delizioso quando crebbi nella sua mano e mi accarezzò con vigore una volta, poi due... Mi allontanai terminando di spogliarmi ed entrai nella vasca fra le sue cosce spalancate, gustandomi quella visuale mentre m'inginocchiavo nell'acqua. Le strinsi i seni, lavorandoli con delicatezza finché lei mugolò, scuotendosi. Il suo petto rimaneva fuori dall'acqua grazie alle mani salde sul bordo della vasca. «Fai uscire un po' di acqua» le ordinai burbero, «Non voglio affogarti.» Portò una mano dietro di sé armeggiando con la valvola mentre io la coprivo con il mio corpo. Strofinai la pelle sulla sua, la presi per le cosce allargandola ulteriormente prima di penetrarla con lentezza, aspettando che mi accogliesse del tutto. Era talmente stretta che la pressione perfetta esercitata dal movimento mi appannò la vista. «Cazzo, sei così stretta» digrignai i denti. Era davvero troppo. Sarei potuto morire così, delirante dal piacere e non me ne sarei mai pentito. «La tua fica è stata messa su questa terra per farmi uscire di testa, giuro!» L'acqua tracimò dai lati della vasca mentre io mi strofinavo dentro e fuori da lei senza alcuna fretta. Il suo naso e le labbra erano a pelo dell'acqua, gli occhi stretti, immersi. Resistetti ben poco, prima d'iniziare a venire quasi in modo prematuro, spinto da un piacere assoluto e lacerante. A volte era semplicemente eccessivo, profondamente totalizzante. Grazie alla fortuna, anche lei mi seguì mentre io mi scuotevo e mugolavo per le mie stesse fitte. Tenni le labbra incollate al suo orecchio anche una volta svuotata la vasca, sussurrandole con costanza quanto l'adorassi. «Se penso a quante ne deve aver viste questa porno-vasca mi vengono i brividi» commentò lei contro la mia guancia con un sorriso chiaramente percettibile. «Dean l'ha chiamata così anche davanti a te, eh?» le domandai affranto, facendo finalmente leva sulle braccia per poterla guardare. «Dean? Cavolo, no. Ogni volta che apre quella sua boccaccia, praticamente non sento niente. La chiamo così perché questa è una vasca da film porno. Ci stanno dentro sei persone!» Serrai la mascella guardandola. «Guardi molti porno, eh?» Lei alzò gli occhi al cielo, sporgendo le labbra in quella sua adorabile espressione da monella. «No, ma il mio ex li guardava di…» La fermai prima che arrivasse alla fine, percependo quell'alone rosso ormai familiare che mi offuscava la vista. Cercavo di bloccarlo ma era sempre sfuggente. «Non voglio parlare di Mr. jeans attillati e men che meno di come gli piaceva gode…» Una mano morbida appoggiata alla mia guancia mi fece chiudere la bocca e sentire un coglione. «Nemmeno io voglio parlarne. Calmati, ok? Lo so... Mi piace fare finta che non sia mai esistita una Nat perciò capisco, ma tu non puoi trasformarti in un troglodita ogni volta che dico qualcosa di sbagliato.» Annuii, spostandomi per alzarmi e chiudendo gli occhi con un gemito mentre scivolavo lentamente fuori da lei, prima di sistemarmi in ginocchio e uscire dalla vasca. Una volta fuori l'aiutai a fare lo stesso. «Beh, la buona notizia è che credo tu abbia cinque minuti di pausa prima che ti salti di nuovo addosso; ma cosa facciamo in questo lasso di tempo?» Lei ridacchiò lanciandomi un'occhiata tenera e baciandomi il mento. Rimasi per tutta la settimana ignorando il mio telefono e il resto del mondo. «Che si fottano» le dissi, «Ho bisogno di questo, non posso tornare senza averne ancora.» Lei mi fece quel suo sorriso nel quale io riuscivo a specchiarmi all'infinito e mi diede tutto. La mia Danika, così generosa, altruista e incapace di tenere qualcosa per sé. Credevo che quel momento di tregua troppo breve mi avrebbe aiutato. Per me era logico che dopo una settimana di Danika, avrei fatto un pieno col quale andare avanti. Mi avrebbe garantito un po' di autonomia prima di ricominciare a sentirmi svuotato. E invece non funzionò affatto. Anzi, il contrario. Il contrasto mi distrusse in fretta: quello che mi ero lasciato alle spalle, l'abuso costante, gli alti seguiti dai bassi sempre più dilatati ora mi sembravano più insopportabili che mai. Non ero in grado di vivere con me stesso, non sopportavo come mi sentivo. Non senza di lei. Di solito mi serviva un aiuto artificiale anche per scendere dal letto e c'era sempre una festa o un qualche evento legato alla nostra etichetta, che durava fino al mattino. Le nostre sessioni in studio si prolungavano sempre più, rimanendo però sempre meno produttive. Questo non era un buon posto per me, un pensiero che facevo con cadenza ormai quotidiana. Nel nostro alloggio temporaneo losangelino non c'erano freni. «È come guardare una schifosissima scena di flashback tratta da un episodio di Dietro la Musica» commentò Adair, il chitarrista di rimpiazzo, una sera che beccammo Dean a sniffarsi una striscia dalla pancia nuda di una groupie nella cucinetta. Io risi… incredibilmente iniziavo ad apprezzare quel tipo. Adair era molto alto e magro, con duri occhi grigi e ingestibili capelli castani mezzi tinti di blu. Non arrivava affatto ai livelli di abuso di Dean per quanto riguardava droghe e donne, ma aveva ragione. «Per poter approdare a qualche show televisivo devi aver finito il dannato disco e grazie a quel puttanaio nell'altra stanza, non ci succederà» commentai amareggiato. Era così che mi sentivo. Adair versò uno shot di whiskey per entrambi. Avevo perso il conto ormai dei bicchierini che mi ero fatto quella sera ma lo presi comunque, tenendo la sigaretta con l'altra mano e insieme, facemmo un brindisi. «Salute» borbottai ingollando il drink, «All'andarsene da L.A. il più in fretta possibile e non grazie a Dean.» «Non è così male» commentò lui, «Per te forse è peggio perché sei l'unico con la ragazza. Però, beh, non mi dispiace per te.» Vide l'espressione sul mio viso e ridacchiò. «Non provare a farmi secco, so come vanno le cose: tutti mi hanno avvertito di non parlare di lei. Beh, tutti a parte Dean. Anzi, lui mi ha dato alcuni spettacolari consigli di merda sul raccontarti… Ahh, non importa. Sai cosa: l'ho vista e non sei affatto caduto male. Cazzo, persino io starei senza donne per qualche giorno per una ragazza così.» Strinsi il pugno ma compresi che non stava cercando di offendermi e diedi un'altra lunga tirata mentre mi sforzavo di non lasciar esplodere il mio caratteraccio. «Dimmi un po': cosa ti hanno detto gli altri?» Lui fece una smorfia. «Vediamo: Cory mi ha raccontato che hai quasi ammazzato un tipo a pugni perché in pratica le aveva toccato un braccio.» Quello mi fece ridere. La verità era già assurda di suo e nessuno avrebbe avuto bisogno di ritoccarla, ma era divertente. Sapevo che Cory l'aveva un po' esagerata per chiarire il punto. «Mi ha detto di non flirtare con lei né di maledirla davanti a te.» Nessuna di quelle notizie mi creava problemi, perciò annuii invitandolo a proseguire. «Kenny invece mi ha detto che hai quasi castrato un altro tizio perché le stava troppo vicino. Che sei saltato su di lui dal palco bloccando l'intero concerto.» Mi tenni lo stomaco ridendo come un pazzo. «E anche che non devo parlare di quanto lei sia sexy o fare commenti sul suo corpo, specie dopo averla vista ballare. E naturalmente se mai questo accadesse, non dovrei mai farne menzione davanti a te.» Un consiglio davvero valido, pensai. «E Dean? Cosa ti ha detto?» Lo domandai solo perché gli avvertimenti di Cory e Kenny mi avevano risollevato l'umore. Erano dei buoni amici. «Niente di utile o che possa ripetere. So che Dean è un pezzo di merda, perciò di solito faccio il contrario di quello che lui reputa una buona idea. Starebbe a guardare mentre mi ammazzano solo per farsi una risata. Senza offesa, ma in pratica intendo stare lontano dalla tua ragazza il più possibile. Decisamente, non intendo nemmeno guardarla. Anche parlare solo quando sarà il mio turno mi sembra un'ottima idea.» Gli diedi un buffetto sulla spalla, felice come non mai. Se solo tutti gli altri uomini del pianeta avessero potuto seguire le orme di Adair. «Tutto il contrario, amico mio: è proprio quello che mi piace di più! » CAPITOLO DODICI DANIKA Socializzavo. Non era la mia attività preferita ma era a quello che serviva questa festa. Le uniche persone che conoscevo erano richiestissime, incluse il mio ragazzo e Frankie, ormai nota personalità del piccolo schermo. Per una volta ero venuta a Los Angeles a trovare Tristan per il fine settimana ma mi ci erano voluti meno di cinque minuti per capire che quella festa non era posto per me. Se pensavo che quelle di Las Vegas fossero inadatte, quelle di Los Angeles ne erano la versione pretenziosa. Eravamo nuovamente a casa di qualche sconosciuto, con la differenza che questa location era stata affittata e aveva opere d'arte autentiche alle pareti, di modo che la gente pensasse che non fosse solo fumo. Ero finita a chiacchierare con una modella rossa e lentigginosa, con un paio di gambe mozzafiato e uno strano senso degli humour. Eravamo andate d'accordo immediatamente, appena lei aveva fatto una battuta sulla necessità del proprietario di nascondere tutti gli specchi per via dei tanti cocainomani in giro. «Conosci il gruppo?» le domandai per parlare di cose futili. Immaginavo che ben pochi sapessero chi erano, dato che ancora non avevano finito di registrare il loro primo album. «Oh, sì. Li adoro. Il cantante poi è una bomba.» Sorrisi mestamente, ormai abituata. «Già.» «Ed è fantastico anche a letto. Dove c'è fumo c'è arrosto con lui: riesce ad andare avanti tutta la notte!» Dovetti controllare il respiro e sforzarmi di regolare anche il tono. «Quando te lo sei fatto?» Lei fece un gesto con la mano. «Secoli fa. Lo incontrai in un locale di Las Vegas, ci scopammo come matti per circa due settimane, praticamente in ogni stanza e fino quasi a morire. Non mi sarebbe dispiaciuto ripetere l'esperienza ma ho sentito che ha una ragazza adesso. Magari posso farmi il nuovo chitarrista. È un figo pazzesco!» «Non l'ho ancora visto» riuscii a dire con un tono naturale. Crisi evitata, anche se sapevo che il nutrire ancora dubbi nell'uomo che amavo non era un segnale positivo. «Mmm, è davvero intrigante ma è tipo… una retrocessione. Tryst era una furia a letto.» Oh, Gesù, pensai, non mi va davvero di starla a sentire. «Ci siamo fatti tutto il possibile, quell'uomo è perverso.» Avrei voluto tapparmi le orecchie o cavolo, lacerarmi i timpani. Invece emisi qualche suono educato nel tentativo di bloccarla. «È stato il primo al quale ho permesso di scoparmi il culo. Non riuscivamo davvero ad averne abbastanza e lui voleva farmi di tutto. Faceva male dato che ha un cazzo enorme, ma gliel'ho sempre lasciato fare. Difficile dire di no a uno in grado di darti tutti quegli orgasmi!» Avrei voluto vomitare o anche solo trovare un modo per sfuggire a quella logorrea indesiderata ma lei proseguì ignara: «Una notte ho portato anche una mia amica e giuro su Dio, ha consumato entrambe.» «Scusami» le dissi infine e me ne andai quando iniziò a descrivere le meraviglie della sua lingua in modo aulico. Il suo fascino sincero non era più così… affascinante. In pratica mi nascosi, evitando di mescolarmi al resto della festa e il contatto con altri esseri umani. Mi sedetti su una delle sdraio libere cercando di godermi il tempo perfetto, la vista fantastica e la lieve brezza dell'oceano ma senza riuscirci. Continuavo a tornare su quello che una donna a caso mi aveva detto riguardo a ciò che era successo prima che incontrassi Tristan. Sapevo che era patetico e mi feci la promessa di non trasformarlo in un caso. Non volevo litigare né farne un dramma. Non volevo farci alcunché, perché era qualcosa accaduta in passato, prima che io arrivassi a mettere le mani su quell'uomo. Eppure continuavo a bollire. Per un qualche motivo la mia mente si era fissata su quell'atto che lui aveva fatto con quella donna ma che non aveva mai menzionato di volere con me. Voleva farle tutto, aveva detto così, non ne avevano mai abbastanza. Tristan mi trovò qualche ora dopo. Stavo ancora fissando l'oceano nonostante ormai fosse diventato buio. Si rannicchiò al mio fianco studiandomi come se stesse valutando il mio umore. Mi rendevo conto che l'essere tanto volubile da richiedere sempre un'attenta valutazione prima, non deponeva a mio favore. «Stai bene, tesoro?» mi domandò educatamente. Annuii, non desiderando parlargli o guardarlo. Speravo che mi stessero per venire o che ci fosse altro a cui dare la colpa per quella mia lunaticità e desideravo solo ritirarmi in me stessa. «Pronta per andare a letto? Hanno affittato la villa per tutta la notte e ci hanno riservato una magnifica stanza. La festa probabilmente andrà avanti fino a domattina ma credo di aver già baciato abbastanza culi da poter dire basta.» Sorrisi tiepidamente. «Certo.» «Tutto ok? Mi sembri un po' frastornata.» «Ho una leggera nausea. Sdraiarmi dovrebbe aiutarmi.» «Vuoi qualcosa da mangiare o da bere? Sono ben riforniti.» Scossi la testa e mi alzai. Lui passò immediatamente un braccio attorno alle mie spalle conducendomi in casa. «Scusa se non ti ho fatto tanta compagnia. Mi sono girato, tu eri sparita e non ho avuto un solo secondo libero per cercarti.» «Non preoccuparti, era la tua festa. Dovresti poter fare tutto ciò che vuoi.» Sapevo appena chiusa la bocca, che sarei suonata petulante e desiderai rimangiarmi tutto. «Hey: se potessi davvero fare tutto ciò che voglio, sarei rimasto con te tutta la sera, non credi?» Non replicai, sentendomi esausta. «Hai incontrato qualcuno di interessante?» Una modella che ha parlato di te come il primo col quale abbia fatto sesso anale, avrei voluto dirgli, ma non ne avrei ricavato niente di buono perciò tenni a freno la lingua. «Sì, alcune persone» replicai. «Sei preoccupata? Sembri quasi disturbata.» «È che non mi sento bene, un buon sonno mi aiuterà.» Eravamo sdraiati al buio e circondati ancora dai rumori della festa quando mi disse: «Preferirei comunque che mi dicessi cosa c'è che non va invece di tenere tutto dentro. Lo sai vero? Qualsiasi cosa sia, vorrei sempre saperlo.» Sospirai, sapendo che non sarei riuscita a trattenere quel che provavo troppo a lungo. Era sempre stato così. «Pensi mai di non averne mai abbastanza di me, Tristan?» «Prego?» «Desideri mai potermi fare di tutto?» «Di cosa stiamo parlando? Pensavo non ti sentissi bene.» «Non stanotte, intendo in generale. Non ti viene mai voglia di inchiodarmi al letto per due settimane senza mai lasciarmi uscire?» Lo sentii spostarsi sul materasso poi abbracciarmi e le sue labbra posarsi sul mio capo per un bacio veloce. «Suona come un rapimento. Se mi stai in qualche modo chiedendo quanto ti voglio, sei una sciocca: ti desidero tanto da impazzire. Non ho mai voluto nulla come te. Due settimane nel letto? È nulla, ti ci terrei dentro per il resto della vita se ci fosse un qualche modo di farlo. E non è che non pensi di non averne mai abbastanza di te, so per certo che non mi basti mai. Allora, che storia è questa?» «Come mai non hai mai nemmeno provato a…» Nonostante fossimo al buio, non riuscii a terminare la frase da quanto ero imbarazzata. «Provato a fare cosa? Chiuderti a chiave in camera? Non credere che non lo farò adesso che ho il tuo permesso, bubu.» Riuscii a sentire il sorriso nella sua voce. «No… non era quello che volevo dire» serrai gli occhi con forza odiando la mia incapacità a trattenere in me anche le cose così stupide, «Ho incontrato questa modella stasera e mi ha raccontato che avete passato a letto due intere settimane, facendo di tutto. Ha detto che non ne avevi mai abbastanza di lei.» Lo sentii irrigidirsi. «Tesoro, non l'ho toc…» «Anni fa, ha detto. Capelli rossi, lentiggini e gambe da urlo. Te la ricordi?» «ll fatto che la tua descrizione non faccia scattare alcun campanello nella mia testa è un bene o un male?» Non seppi cosa rispondere. «Non stavo cercando di estorcerle delle informazioni. Stavamo semplicemente chiacchierando quando lei se n'è uscita così e ha finito per scendere nel dettaglio su cosa facevate. Così mi sono messa a pensare.» «Oh-oh!» Gli diedi una pacca sulla parte del suo corpo più vicina, la spalla dietro di me. «Ho iniziato a chiedermi se per caso ti stavi trattenendo con me, se c'erano altre cose che avevi provato con le altre e che avresti voluto provare con me.» Poi mi sovvenne una cosa: «Ha anche detto che avete fatto una cosa a tre.» Lui imprecò. «Col cazzo che noi la faremo.» «No, non stavo suggerendo quello. È che prima di conoscermi eri sempre così selvaggio e magari adesso potresti annoiarti perché trovi il sesso più domestico fra noi.» La sua mano mi strinse forte il fianco e il suo tono si raggelò: «Ti stai rendendo ridicola. Non è la novità a rendere la cosa eccitante Danika, è il sentimento che si cela dietro. Ti garantisco che se ho fatto un'orgia con una qualche pollastra che non ricordo, non è certo perché non riuscivo ad averne abbastanza. Tu sei l'unica con la quale abbia mai provato qualcosa e questo è il sentimento più eccitante del mondo. Niente è diventato domestico, il contrario. La metti come se per te quello che facciamo non fosse abbastanza selvaggio. Dimmi: quali cose sei abituata a fare?» Quell'ultima frase lo stava davvero agitando e mi domandai per un attimo perché mi preoccupassi di essere quella insanamente gelosa dei due, quando Tristan riusciva sempre a superarmi. «Niente. Non sono mai stata libertina in quello e lo sai bene.» «Lo so? In pratica mi hai detto che il sesso migliore della mia vita per te è addomesticato, perciò vorrei davvero capire cosa pensi possa essere meglio. Cosa ti faceva Mr. jeans attillati che io invece ho tralasciato?» «Tristan, adesso sei tu a renderti ridicolo. Non stavo parlando di me.» «Ah, no? Cosa ti ho negato Danika? Non farò entrare una terza persona fra noi ma tu hai detto che non parlavi nemmeno di quello, perciò cosa? Quale formula magica è l'equivalente di una vita sessuale sfrenata? La varietà forse? La varietà deriva dalla noia ed io non ti dividerò con nessuno.» Si stava adirando ogni secondo sempre più. «Non capisco come abbia fatto questa cosa a incasinarsi» osservai tranquilla ma sinceramente perplessa, «Perché sei così arrabbiato? E poi non ho mai suggerito la condivisione.» «Mi hai sbattuto in faccia la storia dell'orgia! Cosa avrei dovuto pensare?» «Ma sei tu quello che l'ha fatta, smettila di rivoltare sempre la frittata!» «Hai una vaga idea di quanto mi mandi al manicomio? E lo chiami domestico? Sai quanto mi fa impazzire questa cosa?» «Non era quello che intendevo, assolutamente. E per l'ennesima volta: non stavo parlando di me.» «Beh, una cosa è certa, non sono io a lamentarmi della nostra vita sessuale, o no? L'unico appunto che posso fare è che sto troppo fuori città, perciò dimmi: cos'è che non abbiamo fatto e che ti spinge a pensare che siamo noiosi a letto?» «Discorso chiuso. Ti stai agitando troppo» risposi rigidamente. «Mi pare un miglioramento rispetto all'essere domestico.» Si stava premendo contro di me, chiaramente eccitato e la mano dal mio fianco si appoggiò sotto al mio seno. «Sei impossibile» gli dissi. Lui m'ignorò, sollevandomi la camicia e accarezzandomi, premendo le labbra contro il mio collo. «Tu mi mandi fuori di testa, lo sai? Sto qui a pensare che le cose fra noi non potrebbero essere più piccanti e tu ti preoccupi che non lo siano abbastanza» e parlando, scostò le mie mutandine di lato, affacciandosi alla mia fessura. Si spinse dentro del tutto ma poi si fermò, trattenendosi. «Dimmi cos'è che non stiamo facendo. Cos'è che non ti basta?» Si mosse leggermente dentro di me per supportare le sue parole. Quando non replicai, si sfilò quasi del tutto come se volesse punirmi. Mi morsi un labbro, allungai la mano dietro di me e lo strinsi, scostandolo fino a guidarne la punta contro l'altra fessura. «Che cazzo?» sbottò al mio orecchio, «È questo che vuoi? Quello che facevi con Mr. jeans attillati?» Se non fossi stata così eccitata e piena d'imbarazzo avrei alzato gli occhi al cielo. «No. Non l'ho mai fatto prima, anche se Mr. jeans attillati…. bleah, intendevo Daryl, ne era ossessionato. Non gliel'ho mai concesso. Non riuscivo a farmelo piacere, mi sembra doloroso.» «Allora perché vuoi farlo adesso?» «Me l'ha detto la modella, so che è una cosa che ti piace.» «Oh, lo sai, davvero? Pensi che mi faccia dei problemi a dirti cosa mi piace? Hai davvero quest'impressione?» Mi spinsi contro di lui cercando di far penetrare il suo enorme glande ma mi resi conto subito che non sarebbe stato facile. «L'hai fatto con una sconosciuta, penso semplicemente che dovresti darmi tutto quello che hai dato alle altre.» «Lo faccio: ti do tutto. Nessuna ha mai ricevuto nulla di valore da me, quando riuscirai a fartelo entrare nella testa?» «E se volessi semplicemente farlo? Vuoi dirmi che non ti interessa nemmeno un po'?» «Sai perché non ci abbiamo provato? Perché per me si fa quando ci si stanca di scopare a caso. Può suonarti rude ma la vedo così. Vuoi che ti scopi in quel modo? Lo farò, ti prenderò anche di fianco se ne hai voglia ma non cercare nemmeno per un attimo di farla passare come qualcosa che desidero ma che ho evitato di fare con te. E francamente, credo di essere troppo arrabbiato adesso per scoparti il culo. Se lo facessi proveresti solo dolore e metterebbe a disagio entrambi.» Mi dimenai contro di lui, ancora intenzionata a farlo entrare ma senza successo e lui si allontanò con un sospiro frustrato. Rimasi sdraiata in un silenzio allibito mentre lui andava in bagno chiudendosi dietro la porta. La doccia scrosciò per meno di cinque minuti e lui uscì nuovamente e si rivestì. Socchiusi gli occhi alla luce brillante alle sue spalle che mi impediva di guardarlo in volto. «Torno alla festa. Sono troppo incazzato per dormire adesso.» E se ne andò, lasciandomi sconvolta. Nemmeno io potevo dormire. Non durai dieci minuti: mi rivestii e lo seguii. CAPITOLO TREDICI DANIKA Lo trovai che parlava con Frankie, Estella e un gruppetto di sconosciuti. Quelle due mi confondevano un po', specie considerato che Frankie giurava di continuo che non si frequentassero, nonostante continuassero a passare molto tempo assieme. Estella era molto vicina a Frankie e il suo corpo mostrava chiaramente la cotta che aveva per lei. L'altra invece rimaneva piuttosto distaccata, con le braccia conserte e sembrava notare a malapena la donna che l'adorava. Mi intrufolai in quel gruppetto di persone, scivolando sotto al braccio di Tristan senza dire una parola. Lui si mosse appena e non mi degnò di un solo sguardo. Continuava a rimanere rigido, sfiorandomi appena le spalle e sforzandosi di evitare al massimo il contatto. Era davvero incazzato. Mi appoggiai al suo fianco e la mia mano corse ai suoi addominali, accarezzandone le creste prominenti sotto la stoffa sottile, mentre Frankie raccontava il programma delle riprese a dei fighetti di Los Angeles a me sconosciuti. Osservai colpita l'altra mano di Tristan coprire la mia e scostarla delicatamente dal suo corpo per impedirmi di toccarlo. Davvero, davvero incazzato. Pensai che gli uomini fossero creature strane, alieni fuori di testa. Attesi qualche minuto poi ripresi a sfiorargli lo stomaco indugiando sulla pelle tesa, risalendo lungo la cassa toracica per arrivare a un pettorale gonfio. Quando tornò a catturare la mia mano per allontanarla nuovamente ero già eccitata. Attesi nuovamente, fingendo di ascoltare la conversazione con aria interessata e per l'ennesima volta riportai la mano sui suoi addominali. Sapevo con certezza che per quanto infuriato, Tristan non mi avrebbe rifiutato a lungo. L'ultima volta che era successo, tutto ciò che avevo dovuto fare per portarlo a cedere, era stato girare senza reggiseno per una mattinata. Mi allontanò nuovamente ma io attesi. Ancora. Feci scivolare la mano sotto alla maglietta e passai a strofinarla direttamente sulla sua pelle, premendogli i seni sul fianco. Stava iniziando a metterci più tempo prima di scostarmi e questa volta ne impiegò un'infinità. Il respiro gli si inceppò quando lo fece. Attesi pazientemente poi ripresi ma da sopra il tessuto e quando lui mi lasciò fare, capii che avevo vinto. Di stupide litigate ne avevamo a iosa, ma ero più che determinata a fare in modo che quest'occasione non la diventasse. Continuai a toccarlo senza guardarlo, premendomi a lui mentre lo accarezzavo. Amavo come nient'altro la sensazione di lui, del suo corpo sodo che si fletteva sotto le mie dita. Gli percorsi ogni linea dell'addome poi scivolai sempre più giù, eccitandomi fino a sentire il bisogno di altro: più pelle, più privacy, più tutto. Mi strofinai persino con la parte più gibbosa del palmo e alla fine, avvinghiata a lui, voltai appena la testa e in modo veloce e furtivo gli morsi delicatamente il torace, assaporando la sensazione del suo corpo sotto ai denti. Non fui veloce né furtiva a sufficienza. «Non badate a noi, continuate pure a straziarvi reciprocamente» esclamò Frankie con noncuranza. La ignorai e lei rise. «Scusatemi» disse Tristan pacato ma duro. Si liberò da me, si voltò e se ne andò, lasciandomi a fissarlo senza parole e stupita. Quale diavolo era il suo problema? Frankie si avvicinò e mi domandò sottovoce: «Cosa gli ha preso?» Scrollai le spalle facendo un breve cenno di mano a Estella che era rimasta in piedi a chiacchierare con uno dei tanti bambocci. «Come sta andando con Estella?» chiesi, cambiando argomento. L'espressione di Frankie si fece neutrale. «Chi lo sa? Usciamo e basta. È difficile da interpretare ma penso sia solo curiosa. Sono una novità.» «Non penso sia quello, tu le piaci davvero. Intendo… davvero. Quello che è difficile capire è se lei piace a te.» Frankie non parve affatto convinta. «Non ho intenzione di impegnarmi comunque. Come ho detto, usciamo e basta. È una tipa divertente.» La studiai incredula. Avrei scommesso più sulla cautela che non sul disinteresse ma ovviamente non era così che lei voleva mostrarsi. «Le piace la roba che pratichi tu?» le domandai. Lei rise. «No, non credo. O almeno non l'ha mai provata, il che è praticamente lo stesso. Come ho detto, usciamo e basta.» «Quindi non fate… insomma… quello che stavate facendo nella mia macchina ad esempio?» Lei fece un gesto noncurante. «Qualcosa, sciocchezze più che altro. Cose fra amici insomma.» La mia bocca si torse ironicamente. «Suona familiare. Ti do un consiglio: se le cose fra amici finiscono in orgasmi e continui a dire che uscite insieme e basta, stai solo prendendo in giro te stessa.» Lei annuì con un sorriso beffardo. «Beh, immagino tu lo sappia con certezza. Cosa sta succedendo fra te e il bambolone comunque? Ha un umore piuttosto bizzarro.» Eravamo tornati da capo. Frankie era insistentemente tenace per accettare il cambio di argomento troppo a lungo. «È arrabbiato con me per una cosa stupida.» «Quanto stupida?» «Molto.» «Ok, vuota il sacco. Cos'hai combinato? Indovino: dato che si tratta di Tristan ed è arrabbiato con te ma non sta menando nessuno, devi averlo ferito nei sentimenti. Ci sto andando vicino?» Arricciai le labbra. «Sei così bisbetica che non te lo dico!» «Stavo scherzando… coraggio!» «Prima voglio trovarlo e fare pace. Non mi piace l'idea di raccontartelo mentre è tutto ancora in corso, forse dopo che avremo chiarito.» «Ti preeego! Se lo trovi non vi rivedrò per il resto della serata. Sarete troppo impegnati a ‘chiarirvi’ di nuovo.» Potevo solo sperare che avesse ragione. Cercai in ogni stanza ma non lo trovai. Mi fermai fuori da una porta socchiusa sentendo delle voci familiari che chiacchieravano. Una apparteneva a Dean e solo dal tono si capiva che non stesse combinando niente di buono. Dean che agitava le acque era qualcosa che avrei riconosciuto anche da miglia e miglia. «È quello che ti sto dicendo, Tristan non era così. C'è solo una cosa che l'ha fatto diventare una piaga» stava blaterando. «Una persona» lo corresse un'altra profonda voce maschile. Dato che l'uomo mi era stato presentato, lo riconobbi come il produttore della band. Era un caucasico sui quaranta che indossava il cappellino da baseball girato da una parte, abusava delle parole per pavoneggiarsi e cercava di avere un'aria da rapper. Si faceva chiamare l'Olandese ma io lo avevo ribattezzato Cogliondese. Non mi aveva fatto una gran impressione e questa conversazione avrebbe solo confermato il mio giudizio. «Il Tristan single non sarebbe mai tornato a Las Vegas a ogni occasione» proseguì Dean, «Non avrebbe rifiutato di andare in tour con la band per il debutto solo perché non può lasciare la sua ragazza per tanto tempo. Non ci sarebbero stati problemi o scontri. Credimi: se quella troietta esce dalla storia, avremo un cantante come nuovo.» «Liberarmi delle fidanzate non fa parte del mio lavoro.» «Non è poi così complicato. Lei è molto gelosa e la giusta combinazione di circostanze unite a una visita della nostra Nat ci darà una mano.» Aderii alla parete, origliando spudoratamente. «Nat? La bionda con quelle tettone finte? Quella che mi sono scopato la settimana scorsa?» «Sì, quella. Lei ci darà una mano e nessuna riesce a far ingelosire Danika più di Nat.» «Davvero? Perché? Non vale niente.» «Lo so. Tristan è stato fidanzato con lei una volta.» «Perché diavolo l'avrebbe fatto? Quella tipa è una troia.» Annuii fra me e me, concorde. «Non era così una volta, è una storia lunga. Quella che ti sei fatto tu e la Nat che stava con Tristan sono due persone diverse ma questo non ci interessa. Ciò che sto dicendo è che nessuna può far ingelosire Danika quanto Nat dato che ha portato l'anello di Tristan. E lei collaborerà, farebbe di tutto per farli lasciare. Quello che dobbiamo fare noi è organizzare la cosa, fare in modo che Danika li becchi nudi assieme, in un modo o nell'altro. E allora, addio Danika. È facile e così riavremo indietro il nostro cantante.» «Mi sta bene, amico. Organizza. Voi ragazzi dovete andare in tour perciò fai quello che serve affinché Tristan rimanga a bordo.» Me ne andai silenziosamente, più disgustata che preoccupata. Sapevo che Dean era spregevole ma questo era davvero un colpo troppo basso, anche per uno come lui. Il mio primo istinto fu di raccontare tutto a Tristan appena l'avessi trovato, ma più cercavo senza fortuna, ripensando alla trama ordita da Dean e più mi convincevo a tenerlo per me. L'intero sordido schema era basato sulla mia reazione e ora che me l'aspettavo, dopo aver ascoltato in prima persona le loro intenzioni, sapevo che sarebbero stati prevedibili. Pensai a tutto nella mia mente prima di trovare Tristan. Avrei osservato, atteso e mi sarei preparata. Non c'era davvero possibilità di dar loro soddisfazione. Se pensavo a Nat e Tristan, adesso non mi si chiudeva più lo stomaco dall'ansia e dalla gelosia. Ora provavo disgusto ed ero pronta. Continuai a cercare in tutta la casa e nel giardino, spingendomi fino alla spiaggia attigua alla proprietà e collegata da una passerella di legno. Finalmente lo ritrovai in camera nostra. Era sdraiato sul letto ancora vestito e con un braccio sugli occhi, immerso nell'oscurità. Sospirai e chiusi la porta. «Dove sei stato?» domandai. Durante la mia ricerca avevo controllato qui due volte. «Ho fatto una passeggiata sulla spiaggia. Più una corsa in realtà.» «Sei ancora arrabbiato?» Non rispose, il che sarebbe stata una replica in sé, se già la sua voce atona non fosse bastata a farmi capire. Accesi la lampada sul comodino poi mi sedetti in linea coi suoi fianchi, posandogli una mano sullo stomaco. «Vuoi parlarne?» «No. Parlare è esattamente quello che non mi va di fare.» «Allora cosa posso fare? Sei ovviamente sconvolto, cosa che non stavo cercando di fare.» «Lo so. Penso sia quasi peggio.» Si alzò e prese a camminare. «Ecco ciò che voglio: voglio che tu smetta di considerare questo, noi, come qualcosa di poco valore. Smetti di analizzarci allo sfinimento e per l'amore del cielo, smetti di pensare che la nostra vita sessuale sia insufficiente per me. Ho un mucchio di problemi e dire che questo non ne fa parte è minimizzare ai massimi.» Tenendo gli occhi su di lui presi il cuscino e lo buttai a terra direttamente davanti ai suoi piedi, obbligandolo a fermarsi. Guardò prima l'oggetto poi me e la sua espressione, da seccata diventò perplessa. Gli sorrisi mentre mi sistemavo in ginocchio. Il suo respiro uscì rumorosamente quando le mie mani raggiunsero la patta dei suoi jeans per aprirla. Bastarono pochi movimenti veloci per liberarlo, senza mai distogliere lo sguardo dal suo. «Non volevo che la intendessi così. Non stavo affatto cercando di sminuirci, è stato solo un malinteso. C'è nulla a cui puoi pensare che riesca a farti migliorare l'umore?» «Caazzo» sibilò togliendosi la maglietta, buttandola da qualche parte e infilandomi le mani fra i capelli, «Mostrami quello che avevi in mente.» Sorrisi compiaciuta dal suo voltafaccia. Gli accarezzai lo stomaco arrivando al confine estremo del torace e poi scendendo nuovamente. Lo guardai dalla mia posizione in ginocchio, osservandolo in tutta la sua altezza. Percorsi gli addominali con i polpastrelli esplorandolo finché non arrivai ai fianchi snelli. Il suo fisico era tornito e ampio ma avrei giurato che non possedesse un solo grammo di grasso. Gli stavo percorrendo la linea della V affascinata dalla sua forma, quando osservai che doveva aver fatto un bel po' di palestra. Era un'affermazione retorica: il suo corpo era sempre impeccabile ma lui rispose comunque. «Quanta potevo. È l'unico modo che ho per sfogarmi. Quello e masturbarmi sotto la doccia.» Sorrisi, appoggiando la guancia sulla sua coscia e guardandolo maliziosamente. «E quante docce ti fai al giorno?» «Non tante quante ne facevo quando mi scuotevi davanti quel tuo culetto senza che potessi toccarti.» Ridacchiai. «Non ti dirò bugie: me ne faccio una appena smettiamo di parlarci al telefono.» «E come ci immagini mentre ti masturbi?» Lui guidò una delle mie mani attorno alla base del suo uccello. «Questo è un buon inizio. Tu in ginocchio è assolutamente nella mia lista dei preferiti.» Mi leccai le labbra accarezzandolo con un tocco vellutato. «Vuoi sapere cosa c'è sulla mia?» Lui si arrotolò i miei capelli attorno alle mani. «Sì, ma non aspettarti che duri più di qualche secondo se cominci a dire sconcezze.» «Okay. Tanto posso contare su di te per il secondo round, no?» «Cazzo, sì.» «Allora… Mi piace venire fantasticando che mi hai legata e bendata. Mi masturbo al ricordo di me in tua completa balia.» Tristan emise un lungo sibilo. «Cazzo!» Lo presi in bocca senza mai smettere di toccare quel suo corpo spettacolare. Gemetti alla deliziosa sensazione della punta che oltrepassava le mie labbra, la consistenza vellutata ma d'acciaio nella mia bocca mi fece bagnare. Lo accarezzai con la bocca, la gola, assaporando ogni enorme centimetro pulsante che riuscivo a prendere, reclinando la testa. Lui mi tirava i capelli fino a farmi male imprecando, elogiandomi e spingendosi dentro tanto da soffocarmi, salvo poi scusarsi all'infinito. Non mi fermai succhiandolo a fondo, sforzandomi di prenderlo tutto. Tristan non durava mai molto con un pompino e meno di due minuti dopo averlo accolto dentro di me, il liquido caldo mi scivolò in gola mentre lui inveiva. E poiché non era un egoista, mi ritrovai sdraiata sul letto con la gonna sollevata e le mutandine abbassate, mentre lui mi lavorava con la sua lingua operosa e quelle dita magicamente veloci. Durai anche meno di lui. Ero ancora ansante per il mio orgasmo quando mi coprì con il suo corpo, i fianchi fra le mie cosce. Mi prese lentamente, in modo languido, sussurrandomi dolcezze all'orecchio. «Anche io ti amo» gli dissi, baciandogli il collo una volta terminato. Lui arretrò per prendermi il viso fra le mani. «Essere gelosa del presente è un conto, qualcosa che posso gestire. Ma questa fissa per quel che ero una volta o per cose che non posso cambiare, ecco… questo non lo sopporto, specie quando lo usi per sminuire quello che abbiamo. Fammi solo un piacere, tesoro: smetti di fare paragoni fra quello che avevo prima o ciò che avevi tu. Noi siamo diversi. Questo è diverso. È di più.» Annuii baciandolo. Indubbiamente era davvero molto, molto di più per me. CAPITOLO QUATTORDICI DANIKA Ogni singola volta che tornava da Los Angeles, non importava fosse partito da giorni o mesi, sentivo la distanza fra noi sempre più marcata. Mi uccideva ed ero ossessionata costantemente dal come avrei potuto far cambiare tutto. «Come stanno andando le cose?» gli chiesi come spesso facevo. Era una domanda come un'altra che però, per me non aveva niente di casuale. «Uno cazzo di schifo. L'album è quasi finito ma non riusciamo a farlo abbastanza in fretta. Dean e Kenny non vanno d'accordo. Fanculo, litighiamo praticamente tutti quanti e di continuo. La droga piove come fossero caramelle e bevo Jack Daniel's a colazione.» «Devi prenderti maggior cura di te» lo rimproverai sentendomi male e lui mi restituì un sorriso malinconico. «Sì, è vero. Se davvero potessi fare quello che è meglio per me, non ti lascerei mai. Rimarrei qui e non tornerei più.» «Allora perché continui a ripresentarti a Los Angeles?» mi sentivo egoista a chiederglielo ma non riuscivo a tenere quella curiosità per me. «Non so che altro fare. Bene o male questa è l'unica cosa che mi sta dando uno scopo nella vita al momento. Altrimenti non farei altro che seguirti in giro come un cagnolino, ogni giorno.» Avrei voluto scuoterlo e dirgli che non m'interessava, che avrebbe potuto seguirmi per sempre; che non m'importava se aveva un lavoro, ci avrei pensato io, sforzandomi di provvedere ai suoi bisogni al meglio. Ma lo conoscevo: lui era troppo orgoglioso per lasciarmelo fare. E mentre il contrasto emotivo sembrava aumentare, il desiderio selvaggio reciproco non svaniva mai, diventando sempre più disperato a ogni incontro. Il sesso per noi non era mai stato un problema ma non bastava, non da solo. A volte tuttavia, mi sentivo come se fosse tutto ciò che avevamo e ormai era una sensazione sempre più frequente. I periodi in cui non tornava si dilatavano e quando arrivava, Tristan era chiuso in se stesso, serio e cupo. Dov'erano finiti quei bei sorrisi, così luminosi e facili a fiorire? Per ottenerne uno adesso dovevo lavorare molto e la cosa mi stava distruggendo. «Sento che ti stai allontanando» gli dicevo. Oppure: «Cosa posso fare per farti stare meglio?» Spesso, infatti, la maggior parte delle volte la cosa lo aiutava e se passava qualche giorno con me tornava sobrio, non consumando mai nulla di più forte di qualche superalcolico. Ma ci stava sempre meno. Ormai, aspettare un Tristan sempre in ritardo era diventata una routine: non correva più da me per rivedermi. Lo scontro iniziò a causa dell'ennesimo drink di troppo come ultimamente accadeva. Dovevamo andare alla festa di Halloween da Cory e Kenny e Tristan sarebbe dovuto venire a prendermi a casa di Bev, ma dopo due ore di ritardo finii per andare io a prendere lui. Era svenuto nel suo letto, le luci spente. Grazie all'illuminazione del corridoio alle mie spalle, notai che indossava la maglietta del costume da Iron Man. Anche io mi ero messa in maschera ed era tutto pronto, ma uno sguardo a lui e rinunciai. Ovviamente aveva avuto una settimana pesante e se ci penso, beh… anche io. Mi sarebbe andato bene anche riposare un po' e passare insieme un po' di tempo l'indomani mattina. Andai in bagno e quando uscii Tristan era alzato, appoggiato contro il muro. Le luci erano accese e lui aveva l'aspetto stanco per quanto sveglio. Mi studiò con gli occhi socchiusi. «Che costume è quello?» Indossavo una parrucca rosa con una fascia da ninja e un piccolo kimono rosso. Secondo me era fantastico. Feci un giro su me stessa sui miei sandali ninja. «Sono Sakura.» «E chi diavolo è Sakura?» Mi scompigliai la parrucca. «In giapponese, sakura significa fiore di ciliegio ma il personaggio fa parte di Naruto. È una piccola guerriera ninja carina coi capelli rosa!» «Che cavolo è Naruto?» Alzai gli occhi al cielo. «Una delle anime più famose di sempre. Un ragazzino volpe biondo e carino, con un passato tragico che ha incredibili poteri ninja. Davvero non l'hai mai sentito nominare?» «Mai.» «Chiudi a chiave la porta d'ingresso. Sarà la prossima cosa che guarderemo assieme.» «Sì. No, niente da fare. Non guardo cartoni.» «Sono anime e sono belle. Ci sono azione, amore e tragedia. Molta tragedia. Il povero Naruto perde entrambi i genitori quando è piccolo e tutto il villaggio lo respinge. Il suo migliore amico entra a far parte degli Akatsuki, una gang shinobi malvagia. Ah, ci sono talmente tanti personaggi che è praticamente impossibile tenere il conto.» «Niente da fare, tesoro. E non chiederò nemmeno che diavolo sia uno shinobi. Tu sei adorabile, anche se non ho ancora capito cosa sei. Andiamo a quello stupido party.» «Non è obbligatorio, hai l'aria stanchissima. Perché non ce ne rimaniamo qui e recuperiamo il sonno?» Lui scosse la testa con aria rassegnata. «No. Ho detto che sarei andato e se non mi presento Dean non mi darà tregua. Dirà che mi hai di nuovo fatto stare a casa.» Detestavo che a Tristan importasse ancora tanto quello che quell'imbecille pensava di lui. Di noi. Dean era come un veleno a lenta cessione, il cui effetto sulle persone si consolidava palesandosi col tempo. «E allora? Non capisci che sta cercando di istigarci l'uno contro l'altra e parla male di noi per farci apparire peggiori? Fa sempre così e tu sei tanto fesso da caderci tutte le volte.» Lui sollevò una mano con aria seccata. «Basta, non mi va di stare ad ascoltarti. Non abbiamo bisogno di rifare questa discussione, andiamo alla festa e basta.» Lasciai perdere perché conoscevo quel tono: non era il momento adatto per litigare. Lui prese le sua maschera da Iron Man dal letto e ce ne andammo. Se speravo che la festa lo risollevasse dal suo umore mi sbagliavo di grosso. Trovò da bere non appena mettemmo piede lì dentro, ma sapevo che aveva già fatto il pieno prima che arrivassi da lui. Nonostante tutto, tenni a freno la lingua al primo bicchiere. Intercettai il secondo che Dean gli aveva passato, provando a fare finta di niente e fallendo. Tristan mi lanciò un'occhiata negativa sollevando le sopracciglia e Dean schiamazzò, indicandolo. «Capisci cosa intendevo, amico: preso al laccio. Dove hai messo i coglioni? Se li porta in giro nella borsetta adesso?» Io lo ignorai. «Ne hai bevuti abbastanza, non pensi? Questa sera sei già svenuto una volta e non posso certo portati a casa a braccio.» Dean continuava e lo sguardo bieco di Tristan s'intensificava di secondo in secondo. Non potevo credere a che razza di idiota fosse, a quanto facilmente Dean fosse riuscito a entrargli sotto pelle. Passare quel poco tempo che avevamo a disposizione in quel modo, rovinato da Dean, era troppo e iniziai a spazientirmi. Con l'aggiunta di un Tristan ubriaco e belligerante e del fatto che ci vedevamo poco, la sonora litigata era praticamente servita. «Sono seria: per quanta parte della settimana intendi rimanere fuori combattimento?» domandai con voce pacata. Dean, che aveva sentito, aggiunse qualche altro commento al vetriolo. «Basta» esclamò Tristan rivolto a me. Aveva la voce bassa e il tono negativo. «Non aggiungere un'altra parola, non ho voglia di starti a sentire. Mi hai succhiato il cazzo troppe volte per comportarti come mia madre.» Perfetto. Ne avevo abbastanza. Non aggiunsi altro ma mi voltai per andarmene. Arrivai alla macchina e mi resi conto che lui era dietro di me, allora tornai a voltarmi e lo fulminai con lo sguardo. «Quella era davvero una battuta fuori luogo» gli dissi quasi gridando. Lui alzò le braccia in aria e mi guardò con fare conciliante. «Lo so, mi dispiace. Appena le parole mi sono uscite di bocca me ne sono pentito. Sono di un umore di merda e non volevo rifarmela su di te. Dean è davvero troppo per me in questo momento.» «Lascialo perdere. È negativo per te, non te ne rendi conto? Dovesti stargli lontano più che puoi.» «Per quello è un po' tardi. Sono bloccato con lui grazie a questa cosa del disco.» Il suo tono cambiò e lo sguardo si addolcì. Non riuscivo mai a rimanere arrabbiata verso quegli occhi dorati. «Ma hai ragione, dimentichiamocelo.» Si avvicinò stringendomi al petto, la sua grossa mano mi accarezzò i capelli, leggera come una piuma. Mi rilassai per un attimo stretta a lui, incapace di resistergli a lungo, come sempre. «Questa cosa del bere ti è sfuggita di mano Tristan e non voglio nemmeno sapere che altro stai prendendo. Non riesci proprio a starne lontano nemmeno nei giorni in cui ci vediamo? Perché in questo caso vuol dire che c'è un problema.» «No, no, ce la faccio. Hai ragione: lascerò perdere, tesoro. È che sono talmente carico e le cose si sono fatte tese. Però posso smettere quando voglio e farlo nei fine settimana non sarà un problema.» Il mio stomaco tentò di attorcigliarsi in un nodo elaborato… nemmeno lui suonava convinto. «Mi dispiace» mi ripeté accarezzandomi le spalle, «Ti amo, piccola.» «Hai una vaga idea di quante me ne dirà dietro Dean adesso grazie a quel commento?» mi lamentai dopo qualche minuto, «Non gli servivano certo delle scuse per parlare male di me e tu gliene hai data una di più.» «Che cazzo significa?» domandò laconico, scostandosi. Il suo umore era nuovamente cambiato nell'arco di poche frasi. «Cosa ti ha detto?» Mi rimangiai tutto all'istante. Qualcosa doveva sistemare Dean per le feste, ma non doveva essere Tristan. «Non importa» mormorai accoccolandomi di nuovo contro di lui, che tuttavia si spostò nuovamente. «No. Voglio sapere di cosa stai parlando.» Mi riaccostai cocciuta. «Cose stupide. È inutile parlarne quando potremmo discutere di altro.» «Ad esempio?» «Il fatto che sei sempre in ritardo, che non rispondi più alle mie chiamate e maltratti il tuo corpo con regolarità. E chissà cos'altro fai… Quello che vedo è preoccupante, specie quando mi dici che peggiora quando siamo separati. Io penso che dovremmo cercarti un qualche tipo di sostegno, una terapia del lutto e anche un aiuto per l'abuso di sostanze.» Lui s'irrigidì e il suo sguardo si fece di ghiaccio. «Non ce la fai proprio, vero? Puoi smettere di lamentarti per cinque cazzo di minuti?» e senza dire altro se ne andò. Mi sentii come se mi avesse schiaffeggiato. Rimasi lì basita a lungo, prima di seguirlo. Non riuscivo a capire da dove gli fosse uscita quell'invettiva e non credevo certo di lamentarmi, tutt'altro. Avevo evitato a lungo di citare le sue cattive abitudini, specie quelle legate all'alcool, contravvenendo al mio normale comportamento e mi sentii quasi colpevole per aver chiuso un occhio a tutto, solo per compassione e rispetto a quello che stava passando. Le sue parole mi avevano ferito eppure non lo lasciai solo. Aveva troppe armi da usare contro di me: prima le mostrava, poi batteva in ritirata e infine si arrendeva. Freddo, caldo, temperato. Il suo arsenale era troppo fornito per una persona innamorata come me, troppo personalizzato e lui era in grado di sapere quali bottoni premere. Era assodato che avrei fatto qualsiasi cosa per avere sempre il meglio da lui. Mi ci volle un bel po' per trovarlo. L'appartamento era piccolo e affollato e venivo continuamente bloccata da amici e conoscenti, per parlare delle maschere e della band. Quando lo individuai, era in cucina a parlare con Kenny. Gli feci un saluto prima di sistemarmi accanto a Tristan, guardandolo con cautela. L'espressione era rigida e vuota ma mi passò un braccio attorno alle spalle appena fui a portata, baciandomi la testa e mormorando un'impercettibile scusa nei miei capelli. «Tutto ok.» «Sono un coglione.» Sorrisi nonostante tutto. «Solo ogni tanto.» «Facciamo qualcosa di speciale il prossimo fine settimana. Conosco un tipo che possiede una casa sulla spiaggia. Ci prendiamo il week-end tutto per noi.» Mi voltai verso di lui con un sorriso felice. «Non saprei pensare a un'idea migliore.» «E io smaltirò l'alcool. Per te.» Lo abbracciai più stretto che potevo. «Ti amo, più di quanto pensi.» «Idem, tesoro. Sarei perso senza di te.» Mi sollevai in punta di piedi per baciarlo. Io pensavo più a un bacetto affettuoso ma ovviamente Tristan no e ci ritrovammo a pomiciare senza vergogna fra un respiro e l'altro. Kenny era rimasto in piedi vicino a Tristan per chiacchierare e non ci scusammo nemmeno. Anzi: non lo degnammo più di uno sguardo. Avvolsi le mani attorno al suo collo e le mie dita s'infilarono fra i suoi capelli mentre lui mi stringeva il sedere, spingendo i nostri corpi per tenerli vicini. Non c'era assolutamente privacy ma le sue mani che mi palpavano mi fecero gemere sonoramente. Lui si scostò, disse un paio di parolacce e rise. «Andiamo» borbottò, trascinandomi fuori dalla cucina. Mi condusse lungo il corridoio e nel bagno, sbattendo la porta dietro di noi e attirandomi a sé con vigore. «Non posso aspettare. È passato così tanto» bofonchiò voltandomi verso il lavandino. «Ci saremmo dovuti avvantaggiare prima di uscire» sorrisi. «Non prendermi per il culo. Perché non l'hai detto?» Non menzionai il fatto che fosse ubriaco per non rovinare il momento. Tristan mi piegò sul lavandino, sollevò il mio kimono e mi penetrò con forza. Mi ressi alla ceramica gridando il suo nome. Pur sapendo che dopo ne avremmo pagato le conseguenze, non sembravo essere in grado di rimanere in silenzio. Era troppo bello, il modo ruvido in cui mi scivolava dentro e fuori mentre le sue mani mi tenevano i fianchi per farmi rimanere immobile, pronta a essere martellata inesorabilmente ancora e ancora, troppo perfetto. «Proprio così» disse roco con una lunga stoccata, «Vivo esattamente per questo. È fantastico, Danika, così fottutamente bello!» Alla fine provai imbarazzo. Avevamo litigato prima e fatto un gran chiasso dopo… Arrossii persino mentre ci ripulivamo. Non avrei mai voluto farmi vedere in giro ma non c'erano uscite d'emergenza in bagno perciò non c'era scelta. Tristan rise come un matto alle mie guance imporporate. «Se qualcuno ti dice qualcosa al riguardo lo faccio nero, ok?» Alzai gli occhi al cielo. «Spero tu stia scherzando.» Passarono ore prima che uscissimo e probabilmente non feci che diventare rossa per tutto il tempo. Tristan era disteso supino con una mano dietro la testa. Eravamo a letto nel suo appartamento ed io gli tenevo il viso fra le mani per guardarlo, parzialmente sdraiata su di lui. Gli occhi erano socchiusi, il tono di voce inintelligibile. «Continua così, Danika. Rendi tutto migliore.» «Cosa vuoi dire?» «Che a parte te, la mia vita fa schifo. Perciò ti prego: lascia che me ne dimentichi per un po', se mi ami, continua con ciò che stai facendo.» Quando diceva cose del genere mi spezzava il cuore. Gli baciai il torace, le mani e gli addominali con dolcezza. Se fossi riuscita a guarirlo con la mia devozione, non avrebbe più provato dolore ed era ciò che stavo cercando di fare tramite ogni tenera carezza. Fu allo stesso modo che gli presi l'erezione marmorea in mano prima di condurla alla mia bocca. E quando lui mi strinse per i capelli grugnendo perché lo succhiassi più forte, non fu affatto delicato. Di solito contraccambiava sempre ma non quella notte. Si addormentò che io avevo ancora il suo sapore in bocca e il suo viso fra le mani. Rimasi sveglia a lungo, accarezzandogli i capelli e guardandolo dormire come una madre col proprio cucciolo, sapendo che stava scivolando via su un sentiero pericoloso e sbagliato per lui; tormentandomi su cosa avrei potuto fare per aiutarlo. CAPITOLO QUINDICI DANIKA La donna catturò il mio interesse mentre il cameriere ci portava al nostro tavolo. Era una giornata stupenda, il sole splendeva e la brezza marina mitigava il calore. La costa californiana era un cambiamento notevolmente migliore rispetto a Las Vegas. Era una bella signora coi capelli scuri e un sorriso accattivante, ma non era quello che mi aveva attirato. Era incinta, la sua mano accarezzava continuamente la pancia mentre rideva per qualcosa detto dall'amica. Avevo sempre reputato adorabili le donne in dolce attesa e nel vedere lei provai un profondo dolore al petto. Tristan notò la mia distrazione prima che avessi il tempo di spiegare il mio tovagliolo sul grembo. Mi prese la mano sul tavolo per avere la mia attenzione, facendomi un sorriso interrogativo. Non era ubriaco o fatto oggi, anzi, sembra sano. Sobrio, sorridente e abbronzato. «Un soldo per i tuoi pensieri» mi provocò. Increspai le labbra. «Soldi mal spesi. Mi prenderesti solo in giro.» Lui mi strinse la mano. «Non lo farò, promesso. Dimmi cosa ti porta lontana da me e dalla nostra fuga romantica.» Feci un cenno leggero indicando la donna dall'altra parte del giardino. Lui seguì il movimento ma parve più confuso. «Stavo pensando che una donna incinta e felice, possiede tutto. Cosa potrebbe esserci di meglio? Una vita che ti cresce dentro, sapere che avrai un angioletto da amare per il resto della vita.» Il suo sorriso si addolcì tanto da rendermi molle. «Vuoi un bambino, tesoro?» Aggrottai la fronte. «Non scherzare, è crudele.» «Non sto scherzando. Appena mi dirai di volerlo mi ci metterò d'impegno. Pensavo volessi aspettare qualche anno, magari finire il college, ma sono più che felice di dare il via alla nostra famiglia. Che ne dici?» Già alla prima frase, il mio cuore aveva messo la quarta. Rimasi seduta in un silenzio stupito per cinque minuti buoni mentre digerivo le parole. «Devo dire che questo silenzio tombale non era la reazione in cui speravo.» Mi masticai il labbro ancora muta, studiando il suo viso come se contenesse tutte le risposte. Quando finalmente parlai, la mia voce era poco più che un sussurro. «Ancora non capisco se stai scherzando.» Lui si allungò verso di me, serio in volto. «Non è uno scherzo. È quello che voglio, che ho voluto appena ho capito di essermi innamorato di te.» «Non è un po' il contrario? Non abbiamo saltato qualche passaggio per arrivare a parlare di bambini?» Lui mise la mano nella tasca, estraendone una scatolina bianca ed io mi coprii la bocca con un movimento a rallentatore, ripetendomi che non poteva essere ciò che pensavo. La sua testa era inclinata e le fossette esplosero mentre mi lanciava un'occhiata quasi commossa. «Ti prego tesoro, non piangere altrimenti vado fuori di testa. Se mi ami davvero non farmi mettere in imbarazzo davanti a degli sconosciuti.» Mi sfuggì un piccolo gemito e la vista mi si annebbiò leggermente mentre il mondo sconfinava nel territorio dei sogni. «Stai per farlo, vero? Stai per farmi impazzire davanti a tutti questi poveri avventori.» «Tristan» singhiozzai, nascondendo il viso fra le mani, «Quello è…?» Mi si spezzò la voce. La sua risata riecheggiò amabile, mettendomi voglia di colpirlo e baciarlo e singhiozzare come un bambino allo stesso tempo. «Cos'è?» domandai senza guardarlo. Lui cercò di allontanarmi le mani dal viso ma io non mi mossi. «Danika… guarda e vedi da te.» Scossi la testa piangendo il più sommessamente possibile per i miei standard, ossia in modo per niente silenzioso. Lui sospirò e la sua voce si fece densa per le lacrime. «Sposami!» Singhiozzai più intensamente pensando che non fosse vero. Stavo sognando, solo che in un vero sogno sarei riuscita a smettere di piangere come una pazza e dire sì. «Non dovresti metterti in ginocchio o simili?» tirai su col naso. «Diavolo, stai frignando come una bambinetta e riesci comunque a fare l'impertinente» disse beffardo mentre si sistemava in ginocchio davanti a me, la mano ad accarezzarmi la coscia con fare consolatorio. «Sposami» ripeté. Mi buttai fra le sue braccia, nascondendo il viso nel suo collo mentre piangevo come una disperata. «Oh, tesoro» mi sostenne accarezzandomi i capelli e accompagnando il tutto da piccoli gemiti comprensivi. Continuai a piangere senza ritegno, singhiozzando a ondate fra le sue braccia. In quel momento, avrei giurato che non esistesse un uomo più perfetto al mondo. «Sarebbe un sì?» mi chiese infine. «Sì, sì, sì, sì» gridai senza guardarlo, ancora nel pieno di quell'inaudita crisi di pianto. Lui fece scivolare delicatamente e in modo quasi furtivo, un anello incredibile al mio dito. Quando finalmente riuscii a calmarmi e guardarlo, notando gli occhi lucidi e il sorriso gentile ricominciai. «Non avremmo dovuto farlo in pubblico» gli dissi più tardi, una volta soli nella casa sulla spiaggia presa in affitto, «Ero un disastro, è stata un'idea orribile.» Non riuscivo a smettere di sorridere osservando la pietra scintillante al mio dito, come se serbasse i segreti dell'intero universo. Eravamo sdraiati fianco a fianco su un divano da spiaggia, a guardare il tramonto. Non riuscivo a rammentare un giorno migliore nella sua perfezione. «Beh, questo lo so adesso. Avevo questa strana idea nella mia testa che avresti preferito un gesto romantico e pubblico ma mi devo ricredere.» «È un anello stupendo.» Era a taglio Princess, di oro bianco circondato da baguette. Non sapevo un cavolo di diamanti ma mi sembrava enorme e brillava in modo sfavillante. «Ho risparmiato, volevo che fosse perfetto.» «È da pazzi, lo sai vero? Cosa diremo alla gente?» specie a un paio di persone in particolare… «Bev non sarà felice» commentò lui leggendomi il pensiero, «Dirà che sei troppo giovane.» «Si, è vero. Secondo lei nessuno dovrebbe sposarsi prima dei trenta, lo ripete di continuo. So che suona bizzarro ma possiamo non dirglielo? Solo per un po'. Voglio dimostrarle che questa non è una decisione affrettata e l'unica cosa che può provarlo è il tempo.» «Come vuoi, tesoro. Purché tu abbia il mio anello al dito e il mio cognome.» Suonava talmente divino che faticavo a pensarci. «Va bene se lo metto come ciondolo di una collana per un po' adesso?» «Perfetto, però tu in cambio devi fare una cosa per me. Non lasciarmi ad aspettare: sposiamoci appena torniamo a casa.» «Danika Vega» formulai estasiata, praticamente fluttuando nel mio stesso senso di appagamento. Cos'altro avrei potuto desiderare ora che avevo Tristan per sempre? Mi veniva in mente solo una cosa. «Era un sì?» mi domandò lui ridendo. «Ho già accettato.» «Intendevo un sì allo sposarsi appena rimettiamo piede a Las Vegas.» Dovetti voltare la testa e alzarla per trovare il suo sguardo. «Se è ciò che vuoi, allora sì. Come mai questa fretta?» Le sue labbra s'incurvarono. «Suonerà vecchio stile, specie considerato che nemmeno conosco mio padre, ma voglio sposarmi prima che tu rimanga incinta. Voglio fare le cose per bene, capisci?» Avrei voluto darmi un pizzicotto. Sinceramente continuavo a essere convinta che fosse un sogno. «Allora eri serio riguardo al volere un bambino? Lo vuoi davvero?» Tristan mi strinse la mano con aria sincera. «Da morire, tesoro mio! E tu, lo vuoi?» Era tutta davvero un gran pazzia ma non esitai. «Sì.» Carriera, scuola, ballo. Nella mia mente delirante tutto si sarebbe sistemato. Bev riusciva a gestire tutto, io ero un po' giovane ma allora? Non potevo riuscirci lo stesso? Avrei lavorato anche giorno e notte per farcela, assieme a Tristan. «Smetterò di prendere la pillola» mi ascoltai dirgli. Non sembravo nemmeno io quella che aveva parlato. Lui sorrise proprio come se avessi appena esaudito uno dei suoi desideri più grandi. «Perfetto, possiamo iniziare a provarci subito. Qualche giro di pratica non farà male.» «Io direi che di esperienza ne abbiamo anche troppa.» «Sì, ma non è mai abbastanza, non credi?» «Mi rimetto al tuo esimio giudizio in materia.» «Bene» disse ironicamente, «Almeno sono riuscito ad avere ragione su qualcosa.» Ci godemmo quella fuga di due giorni alla grande, dormendo, passeggiando lungo la spiaggia e trascorrendo la maggior parte del tempo a letto. In fin dei conti dovevamo concepire un bambino… Ancora non riuscivo a crederci. Ci sposammo in comune qualche giorno dopo. Io indossavo un prendisole giallo senza maniche e Tristan una polo bianca su pantaloni color kaki. Fu qualcosa di semplice ma perfetto ed io piansi per tutto il tempo come un bambino. Anche gli occhi di Tristan erano lucidi e brillanti, il sorriso raggiante. Ricordo che non ebbi alcun dubbio, non una sola riserva su ciò che stavamo facendo. Non lo dicemmo ad anima viva. Perché avere fretta dato che avevamo il resto della vita per dare la notizia? In quel momento, la felice novella apparteneva solo a noi, era un segreto che non avrebbe fatto alcun male alle nostre anime. Il segreto migliore. Per festeggiare andammo a cena. A circa metà serata andai in bagno e mentre tornavo al tavolo m'imbattei in un uomo, una cosa perfettamente innocente. Ci porgemmo le reciproche scuse andando ciascuno per la propria strada. Quando tornai al mio posto, Tristan aveva un'espressione truce mentre guardava dietro di me. «Devo andare a chiarire le cose con quel tipo?» domandò appena mi sedetti. «Certo che no. Ci siamo finiti addosso l'un l'altro per caso.» «Stronzate. Ti stava seguendo.» «Siamo sposati adesso, quando pensi che migliorerà questa tua gelosia? Io sono tua adesso, finché morte non ci separi. Non ti aiuta la cosa?» Lui inclinò la testa all'indietro e rise come una persona fuori di testa. «Pensavi che sarebbe migliorata? Non capisci proprio… mi hai trasformato in un mostro psicotico e geloso adesso. Meglio?» e riprese a ridere scuotendo la testa. Mi allungai sul tavolo e gli diedi un pugno. «Sei incorreggibile» borbottai. TRISTAN Mi stava accarezzando ed io non riuscivo a fare niente di più che contrarmi. Era decisamente una novità per quanto mi riguardava. «Davvero, non so come una cosina come te abbia fatto, ma mi hai consumato l'uccello!» Lei fece il broncio mentre continuava a lavorare sul mio pene flaccido. «Che cosa ti succede? Non credo di averlo mai visto così.» «Non so se hai tenuto il conto tesoro, ma non mi è rimasto niente per adesso. Nemmeno una goccia. Non credo sia fisicamente possibile per me sforzarmi più di così per fare un bambino oggi.» Lei si mise a cavallo di una delle mie cosce, strofinando la sua vagina umida contro la mia pelle ed emettendo quei rumorini che mi fecero eccitare nella sua mano. «Cazzo, sei insaziabile.» Mi fece un sorriso seducente. «A quando pare non son o l'unica.» «Se è per fare un bambino…» «Uhm, ti rendi conto che probabilmente mi ci vorrà un po' per restare incinta? Ho appena sospeso la pillola.» «Vuoi dire che si tratta di cara e vecchia ninfomania?» Lei annuì passandosi la lingua sui denti ed io mugolai indurendomi nel suo pugno. «Non è solo quello» aggiunse, «Sai che adesso sei mio? Sei legalmente una mia proprietà perciò è normale che voglia valutare ciò che possiedo, no?» «Valutare ciò che possiedi, eh?» «Già, è quello che sto facendo» continuò ad accarezzarmi mentre si strofinava sulla mia coscia in sincronia, «Valuto attentamente la mia proprietà.» Chi poteva resisterle? Io no di certo. «Vai con il test allora, sono tutto tuo. Fai del tuo peggio.» Le infilai le mani fra i capelli mentre lei me lo prendeva in bocca. Era una cosa fantastica ma sinceramente non pensavo sarei venuto ancora. Mi domandai cosa dicesse il galateo sul lasciare che tua moglie ti succhiasse l'uccello a tempo indefinito, godendoti del tutto la sua bocca. Poco dopo arretrò, si leccò le labbra e si issò su di me. Grugnii mentre mi montava, spingendo il mio glande contro la sua fessura bagnata. M'impennai, impalandola. Lei rabbrividì e per poco non venni. Iniziò a muoversi mentre le palpavo il seno. «Ti rendi conto che è solo una specie di sostegno adesso» le feci notare mentre mi cavalcava. Il fatto che le mie parole uscissero sottoforma di ansiti non dava certo credito alla cosa, «Solo perché è duro non vuol dire che possa darti ciò che vuoi.» Lei sorrise, muovendo le spalle con una piccola scrollatina sexy. «Me lo sta dando proprio adesso… un gran bel sostegno che ho intenzione di sfruttare mentre tu te ne stai lì sdraiato. Quando sarò venuta, ti prometto che ti lascerò in pace.» Gemetti e i miei fianchi si sollevarono. C'era qualcosa di seducente nel suo modo di prendersi il piacere con o senza di me. Ma alla fine lo avemmo entrambi. Mi addormentai sotto di lei, ancora dentro di lei e mi risvegliai allo stesso modo. Quella cosa del matrimonio mi calzava proprio a pennello. CAPITOLO SEDICI FRANKIE Non era la solita festa fetish standard e di cattivo gusto quanto piuttosto un ritrovo esclusivo di appassionati di BDSM che lo vivevano come uno stile di vita e non come una novità. A parte la donna al mio braccio non c'erano novizi, era un ambiente troppo estremo. Stavo andando per gradi con lei dato che non aveva mai praticato nulla di tutto questo prima, ed io mi sentivo piuttosto esitante all'idea di doverla iniziare. Di solito preferivo le sottomesse con una certa esperienza, che sapevano come agire e quali comportamenti evitare, ma c'era qualcosa in lei che mi attirava, che mi faceva infrangere le mie stesse regole, assecondando i suoi capricci. Sfortunatamente, provavo qualcosa nei suoi confronti ma il verdetto era ancora appeso al modo in cui mi voleva: come novità o come persona vera. Estella era profondamente curiosa nei confronti del mio stile di vita, perciò dopo milioni di domande avevo deciso che gliel'avrei mostrato. Questa serata l'avrebbe senza dubbio turbata, ma nessuno qui si asteneva dal seguire scrupolosamente le regole e questo era vitale, così lei avrebbe potuto osservare senza avvertire alcun senso del pericolo. Il ritrovo aveva luogo nell'attico di un complesso di appartamenti esclusivo, proprio fuori la Strip. Non avevo idea di chi lo possedesse, ma non m'importava. Se c'era James significava che era stato controllato ben bene. Lui non avrebbe mai preso parte a qualcosa potenzialmente in grado di "esporlo". Era una figura troppo pubblica per non prendere precauzioni riguardo al mantenimento della sua privacy. Un uomo muscoloso e pelato ci accolse alla porta, Deuce. Lo conoscevo. Gli feci un cenno di saluto educato mentre varcavo la soglia. Era un Padrone di una certa levatura e negli anni ci eravamo incontrati spesso agli stessi raduni. Non cercai Estella alle mie spalle, aspettandomi che mi seguisse. L'ambiente era arredato in modo spartano ma moderno, quasi tutto nei toni del nero. Era una sorta di enorme suite poco affollata. Di solito a queste feste intervenivano non più di una trentina di invitati ma raramente raggiungevano quel numero. In genere era facile distinguere i Padroni dalle sottomesse a prima vista. Le sottomesse erano quasi del tutto nude. Io ero una delle poche eccezioni, con la mia gonna di jeans strappata, il top nero coi tagli che metteva in mostra la curva inferiore del seno. Estella, per contro, indossava un abitino nero piuttosto tradizionale che abbracciava alla perfezione le sue curve. Non ero mai stata molto contenta all'idea di dover coprire i miei tatuaggi. Li consideravo un'arte e li mettevo in mostra di conseguenza. I miei abiti in pratica incorniciavano i tatuaggi invece che nasconderli. Feci un grosso sorriso quando vidi James. Per quanto riguardava gli amici ero stata davvero fortunata dato che ne avevo tantissimi intimi, ma James avrebbe sempre occupato un posto speciale nel mio cuore. Esistevano poche persone che ammiravo di più o con le quali avevo così tanto in comune. Me lo ricordavo come un adolescente problematico e ora, a ventiquattro anni, era un uomo formidabile. Provavo una sorta di orgoglio nei suoi confronti, come una sorella maggiore. Era assieme a Jolene, la sua perfetta sottomessa. Lei non mi diceva molto ma insieme erano compatibili in un modo primitivo, elementare, perciò comprendevo l'attrazione che lui provava nei suoi confronti. Con quella, non avrebbe mai avuto complicazioni che un libretto degli assegni non avrebbe risolto. Lo abbracciai stretto baciandogli le guance e ignorando del tutto Jolene, come sempre. Lei non era una grande oratrice. James mise gli occhi su Estella appena la notò dietro di me ed esitò mentre chiacchieravamo. Non era certo tipo da moderare il linguaggio e portò velocemente l'attenzione su di lei. «Ci presenti? Dove l'hai trovata?» Io feci un sorriso. Non riuscivo a capire se le interessasse a livello personale o fosse più attirato da ciò che provavo io nei suoi confronti Di rado si vedevano volti nuovi a questi eventi. «Questa è Estella. È… un'amica incuriosita dal nostro stile di vita.» James non mise in dubbio la mia fiducia in lei. Ne aveva abbastanza in me da sapere che il mio giudizio era valido. «È tua?» domandò con una vaga inflessione annoiata come spesso aveva. Era parzialmente affettata, la sua noia derivava soprattutto da una sorta di triste spleen. Lanciai a Estella uno sguardo fugace. Stava guardando James come la maggior parte delle donne al primo incontro. In fondo lui era un dio, persino io ero in grado di riconoscerlo, eppure mi infastidì vederla dimostrare una tale plateale ammirazione per qualcun altro, oltretutto uomo. «No. Non siamo legate, non in quel modo.» Specie se lei era bisex. Quel tipo di ragazze non erano altro che spezza cuori su due gambe per le persone come me. «Beh, è un peccato. Siete fantastiche insieme» commentò divertito. Feci spallucce guardandomi intorno. «Lei è nuova e vuole provare. Al momento sono solo la sua guida.» «Posso baciarla, Mr. Cavendish?» s'intromise Jolene, la voce roca e bassa. Digrignai i denti: Estella non era mia, aveva chiaramente espresso la volontà di provare e questo era sicuramente un esempio da sperimentare. «Se Mistress Abelli accetta, hai il mio permesso» le rispose James guardandomi. Le sue sopracciglia perfette si sollevarono interrogative. Evitai di guardare Estella, degnando a malapena Jolene e fissando lui mentre accettavo. «Perché no? Estella, puoi baciare la ragazza.» All'inizio evitai di guardare, cogliendo solo con la coda dell'occhio il movimento di Jolene che si avvicinava a Estella. Mi voltai e sentii l'altra gemere in modo osceno. Per i miei gusti era davvero esagerata, come se cercasse di continuo di attirare l'attenzione su stessa a discapito anche del piacere. Estella era piuttosto rigida, le mani lungo i fianchi, immobile. La vista di quelle labbra rosse che toccavano la sua bocca morbida, generosa e libidinosa mi rimescolò lo stomaco. Jolene proseguì imperterrita, infilando le mani nei capelli dell'altra e approfondendo il bacio. «Basta» l'ammonì tranquillo James. Lei si ritrasse all'istante, guardandolo con un sorriso seducente, le labbra sbaffate di rosso. Detestai quel suo aspetto da piccola cagna selvatica, ma non avevo diritto di essere gelosa e repressi in fretta il sentimento che montava come bile in gola. «Ha un sapore delizioso, Mr. Cavendish. Dovrebbe provarla.» James inarcò un sopracciglio sempre con quell'aria annoiata. «Fallo» mi sentii dire. Tutti noi sadici nascondevamo sempre una componente masochista. «Non ho chiesto ma ho idea che non disdegni nemmeno gli uomini, perciò provala pure se ti va.» Lui parve sorpreso e mi osservò a lungo, poi scrollò le spalle e fece cenno con un dito a Estella di avvicinarsi. Si prese il suo tempo, attirandola a sé molto lentamente, sistemandole una mano sulla testa e una attorno alla vita. Jolene, sempre affamata di attenzioni, si spostò dietro Estella strofinandole i seni contro la schiena. Le sue mani delicate solcarono il suo corpo senza nemmeno domandare, palpando il seno perfetto della mia Estella. Ribollivo di rabbia, eppure mantenni il silenzio. James stava guardando l'espressione scontenta di Estella quando abbaiò: «Basta così, Jolene. Non le piaci e sai perfettamente che non puoi toccare senza permesso.» Jolene indietreggiò con il broncio. James baciò Estella, ovviamente in modo perfetto, morbido, sensuale, carico di delicatezza. Lui era un tipo che faceva tutto alla perfezione e per la prima volta in vita mia, provai del risentimento nei suoi confronti per quello. Si scostò più in fretta di quanto avrei pensato e mi lanciò un'occhiata in parte divertita e in parte di rimprovero, che mi spinse ad aggrottare la fronte. Il viso di Estella mi era quasi del tutto nascosto e lui lo voltò gentilmente a mio favore tramite la mano sulla sua testa riccioluta, mentre con l'indice dell'altra le solcava una guancia. La rialzò come a mostrarmi qualcosa, spingendo l'altra guancia dolcemente contro il suo torace. Mi avvicinai e mi ci volle un momento per rendermi conto che le aveva portato via una lacrima. «Non so in quale tipo di piaceri credi che indulga al momento, Frankie» mi disse poi esasperato mentre continuava ad accarezzare in modo confortante i capelli di Estella, «Ma traumatizzare la tua compagna non è uno di quelli. Credo che tu abbia ferito i suoi sentimenti. A lei piaci tu.» La mia mente vacillò e quasi con riluttanza, allungai una mano prendendo Estella per un braccio e sfilandola da quelle di James. La sistemai al mio fianco chiudendo gli occhi quando i suoi seni morbidi e pieni premettero contro i miei. Senza nemmeno chiedere, lei nascose il viso contro il mio collo baciandone la vena pulsante. Il suo viso bagnato a contatto della mia pelle sembrava volermi dare dimostrazione di quelle lacrime, rimproverandomi inavvertitamente. James sospirò scuotendo la testa e un accenno di sorriso gli sfiorò le labbra. «Direi che questo è un momento piuttosto privato, perciò vi lasciamo.» «Non sei obbligato» protestai. «Tutto a posto, devo prepararmi per la dimostrazione. Parleremo più tardi.» Se ne andò seguito come un cagnolino da Jolene. Le braccia di Estella si strinsero attorno alla mia vita, il suo respiro era sussultorio, come se cercasse di soffocare i gemiti. Era sconvolta. «Estella.» A parte il mio braccio attorno alla sua spalla, non la toccavo. Non ero certa di cosa fare con lei, «Non devi aver paura, non ti farò baciare nessun altro. E non devi toccare nessuno se non vuoi, ok? Pensavo che volessi provare tutto e te ne stavo dando la possibilità. La maggior parte delle sottomese considerano un bacio da Mr. Cavendish come un vero onore e tu sembravi piuttosto interessata a lui.» Cercai di non far suonare quell'ultima frase come un'accusa ma probabilmente fallii. Lei tirò su col naso e si scostò per guardarmi. I suoi occhioni scuri erano umidi e scintillanti. «Non volevo semplicemente provare, Frankie. Volevo farlo con te. Io sono affascinata da questo stile di vita, ma più di tutto volevo capire cosa cerchi, cosa devo essere per te. Non ho alcun desiderio di essere passata di mano.» Mi sentii una vera merda, non era andata molto lontano. Ci eravamo frequentate diciamo in modo amichevole, per un po' di settimane. Ci eravamo baciate e toccate e io l'avevo fatta venire un numero incalcolabile di volte, ma non avevo pensato significasse qualcosa. Ero, anzi, mezza convinta che lei fosse solo una bisex annoiata in cerca di un giro dall'altra parte della strada. Non sarebbe certo stata la prima. In un certo senso, nonostante detestassi il pensiero, avevo dato per scontato che le sarebbe piaciuto essere passata ad altri, specie a uno come James, che indubbiamente riusciva a rendere chiunque sessualmente flessibile. «Mi dispiace» le dissi sottovoce. Era qualcosa che non avevo mai fatto nei confronti di una sottomessa, anche se lei non era propriamente tale. Non ancora, o magari mai. Non ero disposta a investire su quell'idea. «Possiamo solo osservare e più tardi mi dirai cosa ti è piaciuto, cosa ti ha colpito.» «Io voglio conoscere quello che piace a te. Devo imparare come compiacerti.» La baciai in modo profondo e distraente, cercando di non dare peso al fatto che avesse il sapore del rossetto di un'altra. Fino a quel momento ci eravamo attenute al sesso classico, alla vaniglia insomma, che non era certo il mio preferito. Tuttavia, mi piaceva la sua compagnia e non ero pronta a lasciarla andare. Non volevo spingerla troppo in là, col rischio di perderla. Mi scostai, respirando profondamente. Provavo qualcosa di troppo intimo per questa donna che conoscevo appena. Lo sguardo nei suoi occhi mi fece desiderare di baciarla ancora ma mi contenni, tenendola al mio fianco e indicandole una piccola piattaforma sistemata in un angolo della stanza. Lo spettacolo stava per iniziare. «Se vuoi sapere cosa mi piace, guarda questo. Nessuno è migliore di James nelle dimostrazioni, ecco perché è una vera fortuna assistervi.» Lui arrivò sul piccolo palco ben illuminato. Il torso era nudo e la pelle profondamente abbronzata metteva in risalto alla perfezione i muscoli eleganti. «Wow» sussurrò Estella e non potevo certo biasimarla. Almeno non troppo. James era una visione dalla quale persino a me risultava difficile distaccarsi quando dava spettacolo a questo modo. I suoi capelli color dell'oro erano legati e mettevano in risalto il viso perfetto. Lui era la quintessenza della mascolinità e della cruda bellezza, in un risultato impossibile da non ammirare. E quei suoi occhi penetravano anche a distanza. Jolene lo seguì sulla piattaforma indossando solo un corsetto che le stringeva la vita, lasciandola completamente nuda sopra e sotto tranne per alcuni piercing. Assieme, quei due erano fantastici ma avevo sempre pensato che lui avrebbe potuto trovare di meglio. Non era solo un bellone come lei. In James c'era altrettanta magnificenza interiore da ammirare. Lui la condusse alla croce di Sant'Andrea eretta sulla fronte del palco, guidandola con una mano dietro la testa. Estella era talmente presa dalla loro presenza scenica da non averla notata. «Cos'è quell'attrezzo?» «Una croce di Sant'Andrea.» «A cosa serve?» «Lo vedrai.» Era a forma di X e leggermente inclinata all'indietro perciò quando James ci spinse contro Jolene sistemandola spalle al pubblico, lei era chinata in avanti e mostrava chiaramente le sue nudità più intime. Aveva il piercing anche lì. «È molto bella» commentò sommessamente Estella. Non che m'interessasse ascoltare in modo particolare, ma non glielo dissi. «Sì, molto.» «Ti piacciono i suoi piercing? È qualcosa che fa per te?» sussurrò. Ci stavo davvero andando troppo piano con lei: avrebbe dovuto rivolgersi a me con Mistress Abelli e rimanere in silenzio, ma mi rendevo conto di voler assecondare la sua curiosità e di conoscerne i motivi. «Mi piacciono, sì» risposi. «Io non ne ho.» Sorrisi. Lei sapeva che ormai avevo visto il suo corpo a sufficienza per non accorgermene. «No, non li hai.» «Vorresti farmene qualcuno?» Le tirai leggermente i capelli spingendola a voltare lo sguardo dal mio profilo al palco. «Se li vuoi, te li farò ma solo se è ciò che desideri. Non farli per me.» Lei s'impietrì tanto che mi voltai a guardarla. La sua espressione era rigida, come se le avessi detto qualcosa che l'aveva ferita e non riuscivo a capire cosa. Riportai l'attenzione sul palco. Non era il momento per discutere dei suoi sentimenti. James legò polsi e caviglie alla sua sottomessa, spalancandole le gambe per il piacere del pubblico. «Sei stata con… lei?» sussurrò Estella fissandomi nuovamente. Sporsi le labbra domandandomi se avrei dovuto punirla per avermi parlato durante una presentazione. Alla fine scelsi di non farlo. Mi sembrava controproducente visto che era qui proprio per via di tutte le sue domande. «No. Lei appartiene a lui e non ci scambiamo le sottomesse. Inoltre non mi piace.» «Ma hai passato me.» La mia bocca s'indurì a quell'accusa mentre il senso di colpa cresceva proporzionalmente al fastidio. «È stato solo un bacio e non stavo parlando di quello, ma ho capito cosa vuoi dire: non ti condividerò più, sempre che non sia tu a chiedermelo.» La sentii irrigidirsi, poi incredibilmente e in modo alquanto impertinente, mi baciò, strofinando il seno contro il mio e gemendo nella mia bocca. CAPITOLO DICIASSETTE FRANKIE La scostai da me, voltandola fino a poterla abbracciare da dietro e praticamente obbligandola a guardare il palco. «Quello cos'era?» le domandai a denti stretti. «Io ti voglio, voglio farti godere. Voglio farti venire, non lo fai mai con me.» «Allora dolcezza guarda lo spettacolo. C'è solo un modo per farmi venire e se vuoi sapere qual è, basta andare su quel palco, adesso.» «Toccami» sussurrò lei, portandosi le mie mani sui seni. Faceva di nuovo l'impudente ma la assecondai. Per questa sera non avrebbe avuto alcuna responsabilità e se a qualcuno la cosa non fosse andata bene, avrebbe potuto parlare con me. Senza contare che ovviamente amavo le sue tette. «Non metti mai il reggiseno?» le domandai all'orecchio, pizzicandole con forza i capezzoli. Con un seno come il suo, quel vestito non era certo adatto a essere indossato senza. Lei gemette, strofinandosi contro di me. «No, per te. So che ti piace guardare le mie tette muoversi, ho visto come ti distraggono. E non indosso nemmeno le mutandine. Volevo darti un accesso facile, amo quando mi tocchi.» La zittii perché mi stava facendo impazzire e anche perché James aveva appena tirato fuori un enorme flagello da mostrare alla gente. Era un gatto a nove code piuttosto robusto, le cui strisce intrecciate terminavano con piccole sfere. Era porcheria hardcore. Lui disse qualcosa a Jolene con voce tagliente. Io solleticai il collo a Estella e Jolene rispose in quell'istante in modo affermativo e con tono implorante. «Adoro quando mi chiami dolcezza, mi fa sentire carina» sussurrò Estella, distraendomi nuovamente. «Tu sei carina, sciocchina. Così carina che fa male.» «Davvero?» domandò. Suonava assolutamente affascinata. Venimmo entrambe distratte dal suono fragoroso del flagello a contatto della carne. Estella sobbalzò ed io le misi una mano attorno al collo per trattenerla mentre con l'altra continuavo a lavorarle il seno morbido. «Guarda» le sussurrai all'orecchio. James colpì ripetutamente e il suono era sia spaventoso che eccitante. Per un attimo lo guardai, osservai i suoi muscoli così ben definiti muoversi lungo la schiena mentre dava una bella ripassata alla sua sottomessa. Era tutta roba già vista e più che guardare, mi domandai cosa pensasse di lui Estella, se la colpisse e che impatto avesse tutto quanto su di lei. James si lavorò Jolene come da manuale, arrossando ben bene il suo bel sederino e le cosce ma impiegando minor forza su spalle e schiena. Sapeva esattamente dove colpire e in che ordine. Era un professionista. Quando finalmente smise, Jolene tremava e gemeva tanto che lui le abbaiò di tacere. Si rivolse al pubblico con un movimento leggero delle sopracciglia mentre slacciava i pantaloni scuri tirandosi fuori l'erezione maestosa. Di sicuro quell'uomo non soffriva di paura del palcoscenico. «Porca puttana» esclamò Estella. «Sì, lo so, perfino il suo uccello è perfetto» ammisi mestamente. «Così grosso e… con una bella forma.» «È praticamente l'uomo più perfetto del pianeta se riesci a sopportare un po' di dolore» le dissi atona, «Ed è miliardario. Un dono di Dio alle donne insomma.» Lui prese un profilattico dalla tasca, aprì la bustina e lo srotolò con pochi movimenti veloci. Non si prese nemmeno la briga di togliere i pantaloni mentre si portava dietro a Jolene, stringendole il collo e penetrandola, flagello alla mano. Prese a scoparla fustigandole i fianchi senza pietà. «Non sono sicura di riuscire a tollerare il dolore così tanto» mormorò Estella. Aveva un tono spaventato. «L'intensità del dolore che t'infligge il tuo dominatore è puramente soggettiva. Un bravo Padrone non te ne provocherà più di quanto tu non possa sopportare perché sa come leggerti. Jolene adora le punizioni. Quei due stanno dando uno spettacolo estremo più che un normale esempio.» «Mi piacerebbe provarci, ma forse senza quella frusta che usa lui. Sembra così… dolorosa.» Il mio cuore parve cercare di scavarmi un varco nel petto. Non riuscivo a credere che pur avendo osservato, volesse ancora cercare di compiacermi. Ero così certa che si sarebbe spaventata che questa sua reazione era più di quanto avrei mai sperato. «Come tua Padrona dovrai avere fiducia nelle mie capacità di sapere cosa utilizzare. Non partirei mai con qualcosa del genere con te, non ho nemmeno bisogno di nulla di così estremo. Probabilmente sceglierei un frustino da equitazione, uno dei modi più delicati per iniziarti a questo mondo.» «Ok, quello mi piacerebbe. Possiamo provarci questa sera?» Le pizzicai forte un capezzolo tanto da farla gridare. «Devi imparare a comportarti bene. Ti ho viziata, ma tu devi imparare che sono io quella che ha il controllo.» «Ti prego, Frankie…» «Mistress Abelli.» «Per favore, Mistress Abelli, assuma il controllo. Faccia di me ciò che vuole, ciò che le serve per il suo piacere, perché è questo che voglio. Non sopporto che le cose vadano avanti così. Non voglio essere l'unica a godere dei nostri… incontri.» «Non sai quello che stai chiedendo» la avvisai. «L'ho visto questa sera, no? Penso proprio di saperlo… voglio stare con te.» Iniziai a baciarle un lato del collo e scivolando con una mano verso il basso le sollevai l'abito fino a trovare la sua fessura bollente che iniziai a sfiorare. Jolene si fece più rumorosa grazie al suo piacere e seccata, tolsi la mano. Non volevo che Estella venisse ascoltando quella roba, ne avrebbe sicuramente intaccato la bellezza. Continuai a guardare stringendola per i fianchi, mentre James usciva da Jolene ancora in piena erezione. La slegò, girandola a favore del pubblico e la spinse in ginocchio di lato. «Apri la bocca» le ordinò con tono indifferente. Era del tutto assorbito dal proprio ruolo di dominatore e ogni emozione era spenta. Lei la spalancò e lui le infilò il cazzo dritto in gola. Era una scena impressionante e Jolene possedeva indubbiamente un certo talento orale. Dopo un bel po' di gola profonda, James si tolse dalla sua bocca, sfilò il profilattico e le venne in faccia velocemente. La piccola folla scoppiò in un applauso entusiasta. Lui degnò a malapena Jolene di un altro sguardo mentre se lo rimetteva nei pantaloni, facendo agli altri un sorrisino di autocritica e un piccolo inchino con il capo. «È stato… interessante.» Estella suonava tanto stupita quanto impressionata. La battuta sul denaro forse l'aveva portata fuori dalla sua zona di sicurezza. «Di solito queste dimostrazioni sono… eccessive. E lui si stava mettendo in mostra, è un edonista.» «Le fai anche tu?» La fissai decisa, mi sembrava che quella domanda nascondesse più di un vago interesse. «Ho fatto un paio di esperienze. È qualcosa che pensi potrebbe interessarti?» Lei si masticò un labbro tanto che alzai una mano per farla smettere, liberandolo. «Solo se sei l'unica a toccarmi.» Arrossii, sentendomi ancor più schifosa per quello che avevo lasciato accadesse con Jolene e James e annotando per la prima volta la mia vulnerabilità nei suoi confronti. «Te l'ho detto, non succederà di nuovo. Ti ho male interpretata, molto male.» «Voglio che tu sia l'unica a toccarmi, ma devi farlo ovunque tu voglia, davanti a chiunque ti aggradi.» Feci un paio di respiri profondi poi la condussi al divano più vicino. «Sdraiati di schiena e metti le mani sopra la testa.» Lei eseguì ed io mi sedetti vicino al suo fianco, accarezzandole la pancia attraverso il vestito. «Non importa quel che succederà o chi pensi che ci stia guardando, non voglio che guardi in faccia nessuno, capito? Se creerai un contatto visivo con qualcuno, ti punirò.» Lei si schiarì la gola guardando la mia mano. «Ho capito, Mistress Abelli.» Aveva adottato un tono insolitamente corretto per lei e sorrisi. Stava imparando. Le sollevai l'abito oltre i fianchi e il seno. Era totalmente nuda al di sotto. «Tieni le mani dove sono. Se ti muovi m'interromperò, capito?» «Sì, Mistress Abelli.» Scivolai lungo il suo corpo aprendole le gambe e sistemandovi in mezzo le mie spalle, poi la consumai senza fretta ma con estrema meticolosità, stuzzicandola finché lei non gemette tanto forte da attirare l'attenzione delle persone. Sentii la presenza di qualcuno troppo vicino a noi e subito dopo l'autorevolezza nella voce di James che avvertiva di non toccare Estella perché mi apparteneva. «Oh, le mie scuse» replicò una voce maschile molto educatamente, «Pensavo fosse disponibile.» «Ora non lo è» specificò James divertito, «E scommetto che non lo sarà più.» Davvero molto perspicace. «Beh, ha delle tette magnifiche» osservò l'altro uomo. Me la lavorai con la lingua finché non arrivò a implorarmi di farla venire, arretrando per solleticarle la coscia ogni volta che la ritenevo troppo vicina. La stavo torturando in un modo delizioso, quello della passione non ricambiata. Desideravo ardentemente poterla legare ma mi rifiutavo di farle praticare davanti ad altri qualcosa che non avessimo prima provato in privato. Non allentai la pressione fino a che non udii un piccolo singhiozzo sfuggirle di bocca. Allora mi sollevai per guardarla. Risalii sul suo corpo sedendomi a cavallo del suo punto vita, accarezzandole i seni mentre ammiravo eccitata le lacrime solcarle il viso e le labbra rigogliose tremare. «Perché stai piangendo, dolcezza?» le domandai. «È troppo, Mistress. Ho bisogno… io ho… bisogno di…» «Venire?» «Sì» singhiozzò. «Immagina come mi sto sentendo io mentre ti tocco. Pensi che non ne abbia voglia?» «La prego. Lo faccia, faccia quel che vuole di me. Lo voglio.» Il suo accento delizioso rendeva quelle parole una poesia. Le diedi un buffetto sulle guance asciugandole le lacrime. «Più tardi mi prenderò quello che voglio da te. Per adesso ti concederò il tuo piacere.» Tornai al punto di partenza e quando finalmente le permisi di godere, Estella gemette piena di passione mentre il suo corpo esultava. Il nostro pubblico esplose entusiasta. Stavamo tornando silenziosamente a casa quando lei mi ripeté di non voler essere condivisa. «Voglio che tu sia mia, solo mia e inoltre…» deglutì. Il suo accento si era fatto più evidente, «voglio che tu mi voglia solo per te. Non è solo una questione di esclusività, devi volermi tanto intensamente quanto io voglio te.» «Beh, se sei bisex…» «Non sono una di quelle, Frankie. Non vado con un uomo fin da quando ero troppo piccola per capire. James, quello a cui hai permesso di baciarmi, è il primo che mi abbia messo la sua bocca addosso da quando avevo quindici anni.» «Lo stavi guardando come…» «Era bello. La bellezza è bellezza ma non vuol dire che lo volessi.» «Ok» le concessi pur senza crederle al cento per cento. Non volevo farlo perché sapevo di essere già troppo presa, «Quando dici che non vuoi essere condivisa intendi dire che vuoi evitare anche l'esibizionismo? È stato troppo per te?» La sua mano scivolò sulla mia coscia. «No, quello possiamo farlo, non è stato eccessivo.» «Bene. Ti avrei fatto molto altro, ma ci sono alcune cose che prima voglio provare in privato. E sì, piacerebbe moltissimo anche a me l'esclusiva. Ti ho desiderata fin da subito, Estella.» Era la verità e mi resi conto che non avevo altra scelta se non provarci, anche a rischio di esserne ferita. Ci ero già dentro fino al collo. All'improvviso me la ritrovai incollata al fianco e quasi mi mandò fuori strada. Mi baciò la guancia a ripetizione, dicendomi qualcosa in portoghese poi in inglese: «Ti amo, mi sono innamorata di te.» Accostai, sganciai la cintura e mi sistemai sopra di lei finché non ci ritrovammo faccia a faccia. «Ok, ci sei riuscita dolcezza. Adesso non si torna più indietro, sei tutta mia!» La baciai e mi sentii felice come mai prima d'ora. CAPITOLO DICIOTTO DANIKA «Una sorpresa?» domandai mentre mi portava in camera sua. Eravamo rimasti separati cinque giorni, ma come sempre era parsa un'eternità. Sussultai dalla gioia quando vidi la fotografia appesa sopra al letto. Era del giorno del nostro matrimonio: io nel mio abitino giallo stringevo il mio bouquet di rose bianche; Tristan stringeva me ed entrambi ridevamo come pazzi. L'aveva fatta ingrandire e incorniciare. Sapeva essere così dolce, il migliore. «Ma è meravigliosa» esclamai. «Non era quella la sorpresa» mi disse in un orecchio con quel tono in grado di farmi fremere per l'attesa. Non dovetti nemmeno chiedere che sentii calare una mascherina sugli occhi. Era passato un po' di tempo da quando avevamo giocato in quel modo, tanto che mi ero ritrovata a ripensarci di continuo mentre eravamo separati, fantasticandoci sopra con maggior frequenza rispetto a qualsiasi altro esperimento fatto. Rimasi perfettamente immobile mentre lui mi spogliava, assumendo il controllo. Mi portò fino al letto e mi spinse giù, sulla schiena. Il suo tocco era gentile ma deciso mentre mi divaricava le gambe e iniziava a legarmi le caviglie ai montanti. Una volta terminato mi baciò entrambe le piante dei piedi prima di passare alle mani. Legò i polsi e baciò ogni singolo dito, facendomi rabbrividire. La sensazione mi appesantì il seno. Si allontanò e nonostante fossi bendata, riuscii a notare la leggera variazione quando la luce nella stanza divenne soffusa. Lo sentii accendere un fiammifero e quasi immediatamente captai il profumo dolce di mandorle che riempì l'aria. Il letto s'infossò e lui si sedette all'altezza dei miei fianchi. La sua mano iniziò a solcarmi la pancia accarezzandola e indugiandovi sopra, strappandomi un gemito. Mi carezzò ovunque. Passò sulle cosce, avvicinandosi pur rimanendo di poco lontano dal mio sesso e usò le sue mani magiche per giocare col mio corpo, per provocarlo fino a che non mi ritrovai ansante, implorandolo per ottenere di più. «Ti fidi di me?» mi domandò con la voce densa di un'emozione la cui origine mi sfuggiva. «Sì» risposi senza esitare. Era stato proprio così che Tristan mi aveva insegnato come si sarebbe sempre preso cura di me, soddisfacendomi in ogni modo. Dalle sue mani percepivo scaturire la cura per ogni timore che in passato usavo collegare a questo atto, perciò sì: anche legata a un letto nutrivo in lui un'implicita fiducia. «Bene» mi disse e se ne andò nuovamente per qualche minuto. L'odore di mandorla si fece più intenso, delizioso quasi in modo invasivo. Quando il letto si affossò nuovamente, sentii sullo stomaco qualcosa di caldo e metallico che mi fece sussultare. Lui ridacchiò. «Cos'è?» domandai. «Non te lo dico ma te lo dimostrerò.» La benda era ben stretta ma riuscivo a percepire una luce in movimento dal margine inferiore. Aveva avvicinato la candela. Inspirai con un secondo profondo sussulto quando il liquido caldo gocciolò sulla mia clavicola. Non era doloroso quanto piuttosto conturbante. «Cos'è?» domandai. «Cera calda.» Lo implorai tremante di rifarlo e questa volta il calore si diffuse sul mio stomaco, facendomi contorcere e tirare le costrizioni. Non faceva male, era solo talmente intenso da essere sopportato a fatica. Gemetti mentre versava qualche goccia sull'interno coscia, il braccio, l'incavo del ginocchio alternandosi ai punti più sensibili del mio corpo ma evitando palesemente le zone più erogene. Arrivò altra cera lungo il mio collo, sui polsi, sui palmi aperti e sul dorso dei piedi lasciandomi ansante. Quando Tristan ne versò qualche goccia su dita, caviglie, fianchi e costole mi ritrovai a un passo dall'implorare un solo tocco da parte sua. Arrivò il turno delle ginocchia, l'incavo del gomito e il canale fra i seni. «Ti prego» mormorai. Avevo bisogno di altro a parte quel suo giochetto provocante. La sua risposta fu una dose generosa di cera sui miei seni palpitanti, che mi strappò un grido di desiderio pungente. Inarcai il bacino al contatto col calore, poi iniziai a muoverlo in cerchio a mo' di preghiera e finalmente, lui ebbe pietà di me. Iniziò a massaggiarmi la cera sulla pelle, accarezzandomi, strizzando e impastando. Il suo tocco era pieno di rispetto, devozione, amore: portentoso. Quando alla fine il suo corpo coprì il mio e lui si spinse fra le mie cosce, ero più che pronta. Mi penetrò completamente, fino alla radice con un solo colpo profondo. Ero già talmente al limite che venni urlando grazie solamente a un paio di movimenti intensi. Tristan si sfilò facendomi mugolare per protesta ma dopo un attimo si riavvicinò. Mi bloccai, ascoltando con attenzione un tenue ronzio che proveniva direttamente da lui. Si sistemò nuovamente, possedendomi con maggior lentezza questa volta ma andando sempre in profondità e quando arrivò a essere completamente sepolto dentro di me, percepii nuovamente il ronzio. Pensai che ci fosse una sorta di vibratore incorporato a un anello fallico dato il contatto diretto e perfetto con il mio clitoride. Fu implacabile, mi riportò nuovamente sull'orlo del precipizio prima di prendersi il proprio piacere, svuotandosi abbondantemente dentro di me dove rimase anche dopo, continuando a baciarmi il collo, le labbra, mormorandomi tenerezze assolute. «Ti amo, Danika. Il fatto che tu mi appartenga è la cosa migliore che mi sia mai capitata.» «Sì, sono tua. Ogni battito del mio cuore Tristan, ogni respiro.» «Oh, bubu… mia bellissima. Mi stai davvero dando troppo.» Tremò, «Mi stai viziando schifosamente.» «Ogni battito. Ogni respiro, Tristan. Tua.» Stavamo facendo un bagno e lui mi stava lavando mia l'eccesso di cera quando mi domandò se mi fosse piaciuta quell'esperienza. «Sì, anche se pensavo che avrebbe fatto molto più male.» «Era una candela a bassa temperatura, di cera morbida. So che non ti piace il dolore perciò ho pensato che fosse la giusta combinazione. Suggerimento di Frankie.» «E l'altro aggeggio?» «L'anello vibrante?» fece un ghigno malizioso scoprendo i denti perlacei, «Una mia idea.» Lo imitai. «Immaginavo!» TRISTAN Ero di nuovo in ritardo. Mi sentivo un imbecille dato che avevo perso già le ultime due gare e a quanto sembrava ultimamente ero capace solo di arrivare tardi. Non sapevo bene come fosse successo, ma il tempo sembrava aver perso sempre più importanza per me. I giorni sparivano in un lampo e continuavo a ripetermi che l'indomani sarebbe andata meglio, che sarei arrivato in orario; ma poi ne passavano altri ed io mi rendevo conto di esserci caduto ancora e ancora. Danika era una santa la maggior parte delle volte: mi guardava con quegli occhi dolci e mi domandava se stessi bene o cosa potesse fare per farmi sentire meglio. C'era sempre qualcosa… ma bastava semplicemente quel suo sguardo tenero a riuscirci. Per questo evento, che si teneva in uno dei casinò più eleganti, avevo acquistato un completo. Avevo speso molto più di quanto pensavo valesse un abito, ma avevo pagato senza batter ciglio specie considerato che era fatto su misura. Era tutto nero, dalla giacca alla cravatta ma almeno non l'avrei messa in imbarazzo davanti agli altri ballerini con il mio solito look da rocker maledetto. Ero sempre orgoglioso di avere Danika al mio braccio e volevo che lei lo fosse di me. Frankie e la sua nuova ragazza, Estella, mi aspettavano nella hall nonostante il mio ritardo. Lei alzò gli occhi al cielo quando mi vide entrare di corsa, ma altrettanto velocemente lasciò perdere e mi presentò. La ragazza alla quale sorrisi, era piccolina e carina. Insieme sembravano una bella coppia. Probabilmente dovevo averla intimidita (oppure era piuttosto tranquilla) perché parlò a malapena mentre io e Frankie ci aggiornavamo. Lei mi studiò con espressione seria poi mi sfiorò una guancia. «Cosa devo fare con te, Tristan? Hai l'aria esausta e sembri fatto. Cosa ti sta succedendo?» Scossi la testa, allontanandola. «Sto bene, entriamo e basta, ok?» Non avevo certo bisogno che mi si ripetesse che brutto aspetto avevo. Lo sapevo da me. Mi serviva solo la mia dose di Danika e sarei nuovamente stato meglio per un po'. Il posto non era come me l'ero aspettato ma più grande, con posti in stile stadio e un'enorme pista da ballo che stava ospitando svariate coppie. Eravamo talmente in ritardo che lo spettacolo era iniziato ma non riuscivo a vedere Danika. Ci sedemmo proprio qualche fila dietro ai giudici e domandai a Frankie se per caso non ce la fossimo persa, ma lei fece cenno di no con la testa. «Toccherà a lei fra poco. Meno male che sei arrivato, senza contare che era ora che ti facessi vedere a una di queste gare!» «Non dirlo a me… Ho fatto un bel casino, lo so.» «Per fortuna Danika ti perdona quasi tutto. Quella ragazza ti ama talmente da spaventarmi. Sei un bastardo davvero fortunato, lo sai?» dichiarò Frankie con una chiara nota di rimprovero nel tono. «Lo so» replicai tranquillo. «Sai anche che devi darti una regolata?» domandò a voce bassissima per evitare che persino Estella, seduta al suo fianco, riuscisse a sentire. «Mi hanno detto che stai prendendo della robaccia inaccettabile. Lascia perdere quella merda, ok? Se non vuoi farlo per me, pensa a Danika e quanto cazzo ti adora. Fallo per lei.» Annuii. «Lo so.» Aveva ragione e mi ripromisi di essere migliore. A volte era semplicemente bello dimenticare, rifugiarsi nell'oblio; ma sapevo di poter smettere in ogni momento, appena sarebbe arrivata la giusta congiunzione. Molto presto, mi dissi. Non dovemmo attendere troppo prima che Danika e il suo partner scendessero in pista, mano nella mano con un portamento perfetto per l'occasione. Lei indossava un abito rosso, per quanto non ero certo lo si potesse catalogare come tale. Era una seconda pelle senza schiena, con i lati aperti fin quasi sul davanti; che metteva in mostra i suoi fianchi stretti e sexy. Aveva una scollatura profondissima che formava una V fra i seni. A quella vista iniziai ad avere la bava alla bocca. Non avevo idea di come riuscisse a starle addosso visto il quantitativo di materiale mancante. Uno degli spacchi nella gonna fluttuante le arrivava fin sulla coscia. L'unica parte che all'apparenza sembrava del tutto coperta erano le braccia, grazie al pizzo trasparente. Era sensuale. Una dea. I capelli erano raccolti in uno chignon elegante e mettevano in risalto i suoi bellissimi lineamenti delicati e il rossetto rosso fuoco. Il trucco degli occhi era nero e drammatico e persino da così lontano riuscivo a vedere le iridi chiare spiccare, più ammalianti che mai. Era talmente bella da farmi star male. Il suo ballerino era snello ma muscoloso, della sua stessa altezza considerati i tacchi di lei. Indossava dei pantaloni aderenti e una camicia aperta fino all'ombelico. Aveva capelli castani e un viso ordinario. Mi sembrava uno da poco… Iniziarono a ballare e fu subito qualcosa di trascinante: una danza intensa, drammatica, piena di giravolte e movimenti serrati, rotazioni millimetriche e movimenti sensuali. Danika sollevò una gamba in aria, lui la prese per una caviglia riabbassandola lentamente prima che riprendessero nuovamente a volteggiare, a ruotare, a dimenarsi su tutta la pista. Spesso la mano di lui si agganciava dietro al collo di lei, oppure la faceva inarcare perfettamente sul suo braccio in un insieme appassionato, pieno di rabbia, tensione e desiderio. A un certo punto, lui le strinse il viso in modo piuttosto grossolano fra le mani. Non so come reagii dall'esterno, ma dentro di me esplosi. Frankie si mosse in fretta, mi afferrò per un braccio e mi disse: «Calma, tigre!» Danika era seducente e riusciva a incantare tutti con ogni ancheggiamento, ogni colpetto enfatico delle spalle. Catturò il pubblico soggiogandolo e sebbene mi possedesse già, nemmeno io rimasi immune. Affatto. C'era tensione sessuale fra quei due? Un po' sì, almeno da parte di lui e considerato come quella mezza tacca continuava a guardarla, avrei contato fino a dieci molto spesso durante la serata. Le figure che entrambi i corpi disegnavano erano incredibili e innegabilmente piene di erotismo. Possibile che lei non fosse attratta da quello nemmeno un po', specie dato tutto il tempo passato insieme a esercitarsi? Strinsi i pugni ripetendomi che mi stavo comportando da uomo delle caverne, come avrebbe detto lei. In certi momenti, Danika si muoveva con una tale prodigiosa eleganza che faticavo a rendermi conto della presenza di lui; mentre in altri riuscivo solo a concentrarmi su quanto quel tipo le stesse appiccicato, quanto la sfiorasse. I movimenti delle sue mani sul viso di lei erano così liberi, familiari. Il numero terminò con una lunghissima giravolta e la gamba di Danika sollevata sul fianco di quello. Praticamente gli stava montando la coscia ed entrambi erano sudati. Quindici secondi di contatto fra i due corpi, che ovviamente contai. Alla fine applaudii più forte e più a lungo di chiunque; arrivarono terzi ed io pensai che fosse una gran stronzata. Non c'era stata una sola ballerina in grado di reggere il confronto con Danika, sia per bellezza che per talento. «Puttanate» borbottai nemmeno troppo sottovoce. Frankie mi sentì e mi diede una gomitata. «Calmati, il terzo posto è davvero buono. Le farai le tue congratulazioni e le dirai che è stata bravissima, proprio come ogni buon fidanzato.» Le lanciai un'occhiata contrariata. «Ovvio che è stata bravissima, io parlavo dei giudici. Il terzo posto è una puttanata: non mi serve conoscere il tango per vedere chi era la migliore.» Frankie fece spallucce. «Il terzo è buono. Devono lavorarci ancora e sono entrambi alle prime armi. Arrivare a questo risultato da intermedi e alla terza gara è davvero un ottimo risultato. I giudici sono abituati a notare quelle piccole imperfezioni che noi non riusciamo nemmeno a cogliere. Perciò datti una calmata e non fare scenate.» «Non voglio fare scenate. Vorrei solo incontrare i giudici per dire che loro e il loro assurdo terzo posto possono solo andare a fanculo. Questo concorso era truccato.» Lei mi diede una piccola scoppola sul braccio. «Sei impossibile, lo sai?» «Imbroglioni» ripetei fra me e me, ma poi lasciai perdere. Per quanto avrei voluto dire la mia, altrettanto desideravo non imbarazzare Danika in questa sua serata. Quando ci ritrovammo al party del dopo gara la trascinai in un corridoio vuoto per stare un momento solo con lei. Ero troppo preso da quel suo abitino fottutamente sexy. «Voglio scoparti in piedi mentre indossi questo pezzetto di stoffa, dov'è il ripostiglio più vicino? Ti giuro che farò in fretta.» Lei rise baciandomi la guancia. «Allora, ti è piaciuto? Grazie per essere venuto, so che non è roba per te.» «Se piace a te, piace anche a me e tu eri fantastica in pista. Quello che fai è arte, è stato bellissimo.» Lei sbatté le ciglia più volte poi si asciugò gli occhi. «Grazie, sei così dolce. Sono felice che ti sia piaciuto. Francamente pensavo che ti saresti annoiato.» Scossi la testa con veemenza. «Fammi vedere dov'è il ripostiglio e ti mostro quanto non ero annoiato. Potrei guardarti ballare per sempre, fra le attività che non implichino il toccarti è quella che preferisco in assoluto. Davvero.» Mi baciò con un enorme sorriso. «Sai essere così carino» mi disse a fior di labbra. Mugolai, strofinando la mia erezione contro la sua pancia mentre le stringevo il sedere. Lei continuava a definirmi dolce e carino ma io non mi sentivo per niente così: ero famelico e forse un tantino in vena di violenza. «Dobbiamo tornare» sussultò lei. «Dammi cinque minuti» insistetti grugnendo mentre le sollevavo la gonna, «Farò in modo che li valgano.» «Non qui! Cerchiamo un posto appartato.» Feci un passo indietro ansimando. Mi stavo aggrappando all'ultimo infinitesimale barlume di autocontrollo. «Fai strada. Non scherzavo riguardo al ripostiglio.» «Lasciami stare i capelli, okay? La festa andrà avanti per ore e voglio essere al meglio per incontrare tutte queste nuove persone.» Io risi: non aveva problemi col fatto che la scopassi all'impazzata in uno sgabuzzino ma era preoccupata per i capelli… davvero dannatamente adorabile. Lei arricciò il naso a quel mio modo di fare. «Sta zitto! Il parrucchiere ci ha messo due ore per sistemarli perciò voglio sfruttarli.» Mi feci guidare lungo il corridoio continuando a ridere. Lei provò ogni porta che incontrammo finché ne trovammo una che non era chiusa a chiave. Una volta dentro, il problema fu individuare le luci. Presi vagamente nota del fatto che fosse un qualche ufficio prima di appoggiarla alla porta, sollevandole quel velo di cipolla che chiamava vestito, fino ai fianchi. Mi liberai con una mano mentre con l'altra cercavo di farle scendere il top dalle spalle ma lei scosse la testa. «È fermato dal nastro adesivo in alcuni punti» mi spiegò mentre accoglieva la mia mano fra le sue facendola poi scivolare attraverso l'apertura laterale in modo che potessi toccare la sua pelle. Svicolai per stringerle un seno e grugnii, agitando i fianchi contro di lei fino a sentire la sua fessura calda e umida. Mi spinsi nelle sue profondità fino a toccarla col bacino e per un attimo rimasi immobile, godendomi quella sensazione perfetta. Poi con un gemito primitivo innestai la marcia. Amavo il modo in cui replicava: i fianchi che si dimenavano, il respiro affannoso, i gridolini frammentari. Amavo l'odore del suo respiro che mi colpiva il viso. I miei movimenti si fecero più scomposti e rudi mentre mi avvicinavo al mio climax. Ringhiai palpandola, chiudendo gli occhi mentre assaporavo l'alternarsi fra le contrazioni quasi mortali e il morbido rilascio. «Dio, Tristan, ti amo» gridò. Sprofondato dentro di lei, del tutto perso corpo e anima, venni. Il solo sfilarmi solitamente mi spingeva a ricominciare ma cercai di controllarmi. Questo giro era stato sufficiente per sfogarmi al momento. Avrei potuto aspettare qualche ora per il resto. Ci ripulimmo nel bagno più vicino e Danika si prese qualche minuto per sistemare l'abito e rinfrescare il trucco. «Quell'abito» dissi lentamente, lasciando che le parole mi uscissero di bocca come una carezza. Lei mi fece il suo sorriso da seduttrice che a questo punto era di una potenza devastante. «Sapevo che l'avresti detestato o amato da morire.» «Entrambe le cose?» Lei rise. «Anche. Fa parte del numero, serve per catturare l'attenzione dei giudici.» «Quindi mi stai dicendo che devo andare a rifarmela su qualcuno dei giudici?» Danika scosse la testa continuando a sorridere. «Sei impossibile!» «Così sembra. In caso non te l'abbia detto, sei bellissima. L'abito mi ha fatto esasperare ma su di te è incantevole.» Lei arrossì di piacere. «Grazie, i tuoi complimenti sono in assoluto i miei preferiti.» Vagliai mentalmente quell'affermazione, intendendola che ne avesse ricevuti molto da persone che non ero io. Fu qualcosa di davvero sorprendente ma non rassicurante. La parte troglodita di me, quella per la quale lei mi prendeva in giro, avrebbe preferito tenerla sotto chiave, destinata solo ai miei occhi. «Il tuo ballerino» dissi poi ma lei m'interruppe con un cenno della mano. «Innocuo. Un ragazzo molto gentile, perciò cerca di non spaventarlo per favore. Stiamo studiando insieme e finora è sempre stato un ottimo partner.» Annuii ma la mia mandibola si tese e considerai l'idea di trascinarla in un'altra stanza per farmi aiutare a tenere a bada il mio caratteraccio in un modo che avrebbe reso entrambi felici. Ma persi il treno e ci ritrovammo nuovamente alla festa, a socializzare con i ballerini. E fra una cosa e l'altra venimmo separati. Quando Danika tornò, non era sola. «Tristan: questi sono Anthony, il mio insegnante di ballo e il mio partner, Preston.» Pensai che anche il nome fosse da mezza sega. Gli sorrisi e fu una cosa sgradevole. «Piacere di conoscerti» riuscii a dire fra i denti. Lui cercò di restituirmi il sorriso ma doveva inclinare la testa per guardarmi in viso ed era evidente che lo intimidissi da morire. Ottimo. Era mia intenzione fargli davvero paura prima che finisse la serata. Doveva sapere cosa aspettarsi se tentava di provarci con la mia donna. Danika si spostò per seguire l'insegnante che la presentava ad alcuni altri ballerini. «Sono stato colpito da due taser in contemporanea una volta e mi hanno a malapena calmato» dissi al tipo con tono tranquillo e indolente ma con un sorriso meschino. Lui assunse un'interessante sfumatura di verde. Danika e Anthony tornarono presentandoci agli altri e l'occhio mi cadde sulla mano di questi attorno alla vita di lei. Lui mi era abbastanza indifferente ma almeno non l'aveva palpeggiata sulla pista qualche ora prima. Il gruppo si mise a chiacchierare ma io rimasi silenzioso a guardare Danika, il modo in cui sorrideva e rideva. Sembrava essere felice insieme a queste persone. Preston le stava sempre troppo vicino, deciso a entrare di diritto nella mia lista nera. A un certo punto si mise in ginocchio davanti a lei porgendole una rosa rossa con un gesto enfatico. Quando lei allungò la mano per riceverla lui gliela prese e gliela baciò, facendo un commento su quanto amasse lavorare con lei. Danika gesticolò come se volesse suggerirgli di lasciar correre ma lui si alzò e l'abbracciò, sussurrando al suo orecchio. Non ricordo nemmeno di essermi spinto verso di loro, ma all'improvviso ero talmente vicino da toccarli. Mi sistemai nel mezzo allontanandolo con un colpo del mio corpo. «Basta» dissi, abbracciando Danika per la vita. Lei mi strinse la spalla. «Per favore Tristan, non…» «Ok, ma tu digli di non toccarti più.» «Siamo ballerini» intervenne Preston arrossendo intensamente. Sembrava ancora spaventato dalla mia presenza ma non abbastanza, era ovvio, «Dobbiamo toccarci.» «Non adesso. Non siete in pista.» «Tristan, ti prego» mi riprese lei sottovoce e con tono mortificato. «Okay, okay» mi arresi, guardando Preston. La lasciai andare facendo a lui un sorriso falso e tendendogli la mano, «Scusa, amico.» Lui la accettò con aria non troppo felice ed io ridacchiai mentre gliela stritolavo, avvicinandomi per dargli anche un buffetto sulla spalla. Strinsi ancora e ancora continuando anche a dargli schiaffetti sulla schiena. Volevo solo fornirgli un assaggio di quello che avrei potuto fargli, di quanto fossi forte. Mentre mi ritraevo notai dai suoi occhi spalancati che aveva ricevuto il mio messaggio forte e chiaro… avrei potuto farne polpette e a dire la verità mi sarebbe davvero piaciuto. Da quell'evento passammo a una seconda festa e Preston rimase sempre troppo vicino, tanto da irritarmi; ma sospettavo che qualsiasi cosa avesse fatto, ricordandomi della sua esistenza e di quelle sue mani addosso alla mia ragazza con una tale autorevolezza in pista, mi avrebbe fatto davvero infuriare. Tenni le mani addosso a Danika in modo possessivo e costante seppur con naturalezza, affermando il mio diritto su di lei senza riserve né rimorsi. La stringevo per la vita mentre mi presentava amici o conoscenti, oppure le accarezzavo il fianco mentre ascoltavamo il suo insegnante sbrodolare su di lei. A volte la mia mano saliva sulle costole per spingerla più vicina a me mentre le dita si avventuravano nel territorio del seno. Lei non si scostava mai, aderendo a me sempre più nonostante quello non fosse il posto adatto, negandomi niente. Dopo aver solcato tutto il suo corpo, la mia mano terminò il viaggio sul suo sedere, dove si assestò stringendoglielo. Fu allora che incontrai lo sguardo curioso di Preston: mia, dicevano i miei occhi. Tu puoi prenderla in prestito per un giro di ballo, ma questo è tutto mio. Gli sorrisi mostrandogli i denti. Appena la trovai nuovamente sola nel corridoio, la baciai. Voltai la testa conquistando la sua bocca per lunghi minuti, infilandole dentro la lingua con seducente aggressività. Quando interruppi il bacio per guardare il suo dolce viso, Danika aveva gli occhi chiusi, l'espressione morbida e le labbra schiuse dal desiderio. Non c'erano imbrogli in questo caso, né c'erano mai stati. Non da parte sua. Fin dall'inizio avevo letto una deliziosa passione nel suo sguardo, nella sua innocenza, nell'immeritata devozione. Questa donna mi amava. La baciai nuovamente e lei si staccò ansimando. «Penso che dovremmo andare. Vado a dirlo ad Anthony e Frankie.» Io andai in bagno e come se fosse destino, incappai in Preston mentre uscivo. Mi fece un cenno educato aspettando che lasciassi libero il passaggio, ma io rimasi lì a fissarlo. Aveva uno sguardo onestamente innocente, una cosa che m'irritò. Probabilmente non aveva mai fatto nulla in vita sua che lo portasse a odiarsi, il che me lo rese ancor più detestabile. Forse, se anch'io fossi stato una mezza tacca insipida come lui, avrei meritato l'amore di Danika. Ma non lo ero: ero un uomo incasinato, con una lista di rimpianti tanto lunga da devastare la mia mente durante il giorno e spingermi a non riuscire a dormire senza l'aiuto di sostanze chimiche la notte. Sarei stato dannato prima di lasciare che quell'inutilità di uomo mi soffiasse la ragazza. «Ce ne andiamo» gli dissi, «Per stare soli» non riuscii a non aggiungere e lui annuì. «Sei un uomo fortunato.» Arricciai un labbro. «Puoi scommetterci. Sono sicuro che vorresti avere la mia fortuna.» Lui annuì semplicemente e tornò a sorridere in modo gradevole. «Non posso negarlo, come lei ce n'è una su un milione: dolce, bellissima e piena di talento, divertente. Mi fa sempre sbellicare dalle risate in studio.» Quello mi fece incazzare a livelli ridicoli e la presi all'istante come un'offesa. «Pensi di conoscerla come me?» gli domandai. I suoi occhi si spalancarono pieni d'innocenza. «Non stavo cercando di offenderti. Non hai alcun motivo per stare sulla difensiva: lei ti è fedele.» Non lo lasciai terminare, prendendolo per la camicia e sollevandolo fino a portarlo in punta di piedi. Lo sbattei contro il muro piazzandomi davanti a lui. «Non pensarci nemmeno! Non avrai mai alcuna possibilità con lei, mai. Perciò, se credi che investendoci abbastanza tempo in un modo o nell'altro riuscirai a prendertela, puoi scordartelo. Io sarò sempre qui, fra i piedi. Perdannatamente-sempre, intesi?» Lui non replicò, guardandomi con aria spaventata ed io lo lasciai andare disgustato. Bene, pensai. Qualsiasi cosa era meglio di lui che parlava, raccontandomi quanto ci tenesse a lei. Mi resi conto solo quando mi voltai che avevo pubblico: Frankie, Estella, Anthony e ovviamente Danika erano poco lontano, che mi guardavano con varie gradazioni di stupito orrore. La reazione di Frankie fu la più scontata: si batté una mano sulla fronte borbottando: «Che cazzo, amico?» Lo sguardo di Estella era scioccato ma lei non disse una parola. Probabilmente, pensai, a ogni minuto che passava la spaventavo sempre più. Anthony scuoteva la testa, le mani sollevate in aria come se avessi fatto chissà cosa a parte prendere quel tizio per la camicia. Danika invece mi guardava e basta, con le braccia conserte e lo sguardo afflitto. Dopo un lungo momento si avvicinò a Preston, gli sfiorò un braccio e gli domandò se stesse bene. «Sto bene» rispose lui tremante, «Bene. Solo un malinteso.» Per un qualche strano motivo, quella risposta mi fece desiderare di stenderlo con un pugno. Lei lo abbracciò velocemente: «Grazie per non essertela presa, ci vediamo la prossima settimana.» Lo lasciò e si voltò ma lui la fermò con una mano sul suo braccio e le disse qualcosa a voce troppo bassa perché sentissi. Mi preparai a saltargli addosso ma Danika mi raggiunse e cercò di allontanarmi via da lui, spingendomi per il petto. La lasciai fare: se veniva con me, mi stava bene. Mi allontanò come se ci fosse un incendio e non parlammo fino a che non fummo in viaggio verso casa. Eravamo nella sua macchina, io avrei recuperato la mia più tardi. «Perché Tristan? Perché ti sei comportato a quel modo? Ti ha detto qualcosa di brutto?» Scossi la testa, non avevo una scusa buona come quella. «È così stucchevolmente gentile!» Lei mi scoccò un'occhiata sbalordita. «Mi prendi in giro? Hai attaccato un mio amico solo perché è gentile?» La mia mano tagliò l'aria con un movimento negativo. «No, ma quello ha dato una mano. È quel tipo di idiota ingenuo che mi ricorda quanto io sia incasinato. La vita per quel tuo Preston deve essere stata una specie di stupido pic-nic, nella quale è cresciuto senza che gli succedesse mai niente di negativo.» «Innanzitutto, non è il mio Preston; seconda cosa, non sai nulla di lui o di cosa abbia passato.» «Oh, quindi mi sono sbagliato? Non proviene da una fottutissima famigliola perfetta, con due genitori probabilmente ancora sposati, che pensano che il sole tramonti nel suo culo?» La sua bocca si torse, ma era chiaro che stesse cercando di non ridere. «Come lo sapevi? Avete parlato?» «Si capiva e basta. Le stelline nel suo sguardo brillavano eccessivamente. E abbiamo parlato di te, sai che ha una bella cotta, vero?» Lei fece una smorfia. «Sa perfettamente che non sono interessata.» «Allora è un sì, lo sai. Ottimo: hai una riserva in caso io mandi tutto a puttane.» Lei accostò la macchina e si voltò per guardarmi. «Cosa ti ha preso? È successo qualcosa?» Chiusi gli occhi e la testa mi andò all'indietro contro il sedile. Ero stato un imbecille e lo sapevo perfettamente. Avevo lasciato che la mia gelosia prendesse il sopravvento e per quello mi sentivo un vero testa di cazzo. «Mi dispiace, ok? So che sono stato un idiota» mi scusai. Suonava come una pezza. «Tristan rispondimi: è successo qualcosa?» Detestavo discutere di certe cose e questa era una. «Mia madre mi ha chiamato prima solo per dirmi che le manca Jared e che ancora m'incolpa. Dolce, uhm?» Non importava quanti anni avessi, riusciva a farmi sentire feccia con un paio di brevi frasi. Danika produsse un suono dolce e confortante, slacciò la cintura e sedendomisi addosso mi abbracciò stretto. La ricambiai con una forza tale da spremerle fuori l'aria dai polmoni. «Tristan, sai che non ha ragione, vero? Sta solo abbaiando alla luna, come un animale ferito che attacca chiunque arrivi alla sua portata.» «Sì, lo so» dissi piano fra i suoi capelli. Non era esattamente così, ma era la risposta più facile. Più che della sua comprensione avevo bisogno del suo conforto. «Sei arrabbiata con me per Preston?» domandai. Non meritavo il suo perdono, ma mi sarebbe servito se volevo continuare a respirare. Avevo perso il controllo, quello era indubbio, eppure lei non esitò. «No. Voglio solo che tu ti prenda maggior cura di te stesso e che gestisca meglio il tuo caratteraccio.» «Lo farò» le promisi con tono solenne. CAPITOLO DICIANNOVE DANIKA Mi arrivò un sms da parte di Tristan che mi chiedeva di incontrarlo a un'ora specifica al suo appartamento. Non seppi esattamente perché, ma m'insospettii subito. Non mi sembrava affatto un messaggio dei suoi: stava succedendo qualcosa, me lo sentivo. Lo chiamai e richiamai. Gli mandai sms dopo sms ma le sue risposte erano brevi e ciascuna riconduceva sempre all'orario in cui mi sarei dovuta presentare a casa sua. Non avrei potuto metterci la mano sul fuoco, ma tutto puzzava di Dean. Decisi di arrivare in anticipo. Entrai. Era tutto molto tranquillo, deliberatamente tranquillo a dirla tutta. Sentivo Dean che parlava ad alta voce da qualche parte e una donna che rispondeva. Quando mi avvicinai, mi resi conto che era Nat. Attesi dall'altra parte della parete rispetto al corridoio che conduceva alle due camere, cercando di capire cosa stessero dicendo. Pur riuscendo a captare solo qualche parola in qua e in là, mi resi conto che stavano complottando qualcosa di brutto. E in tutto quello, non c'era segno di Tristan. Dean augurò chiaramente buona fortuna a Nat, entrando in camera sua e chiudendo la porta ed io mi mossi. Il corridoio era deserto. Sapevo cosa significava, eppure non riuscii a credere a ciò che vidi quando aprii lentamente la porta della camera da letto buia. Accesi la luce proprio mentre Stronzalie, in topless e con le tette finte che si muovevano appena, si stava togliendo gonna e mutandine. Era a quasi due metri dal letto su cui un Tristan letteralmente in coma non stava facendo nemmeno una piega. Quando lei mi vide sobbalzò con aria colpevole. Ironia della sorta, se fosse davvero stata pronta per farsi il mio uomo dietro le mie spalle, probabilmente non sarebbe mai sembrata così. Essere beccata a fingere doveva averla destabilizzata. «Davvero?» le gridai, oltremodo scocciata. Quella puttanella non ebbe nemmeno la decenza di coprirsi. Lasciò cadere del tutto la gonna e la scavalcò poi scrollò le spalle e il suo sguardo colpevole si trasformò in un ghigno malefico. «Scusa Danika. Non siamo riusciti a evitarlo, sai che la nostra è una storia di lunga data.» «Stai facendo sul serio?» ripetei raggiungendola. Volevo chiudere le mani attorno a quel suo piccolo collo abbronzato artificialmente. Lei fece un passo indietro e un altro ancora. «Non riusciamo a stare lontani l'uno dall'altra.» Diedi al Tristan addormentato un'altra occhiata, allarmata dalla sua immobilità. «Cosa gli avete fatto, l'avete drogato? Sei davvero così disperata da credere che ci sarei caduta, beccandoti mentre ti spogliavi con lui già addormentato? Non credevi che sarei arrivata prima, stupida troietta?» «Fanculo» mi gridò. Le diedi un manrovescio facendola barcollare all'indietro. Era la prima volta in vita mia che compivo un singolo atto di violenza, ma non era finita: lei cercò di graffiarmi quando la presi per i capelli ed io la schiaffeggiai di nuovo, allontanando facilmente le sue mani. Avevo raggiunto il mio punto critico di rabbia che ora era la mia bussola. La sbattei forte a terra, indietreggiando disgustata dall'averla dovuta toccare. «Credi che se anche rompessi con lui, ti rivorrebbe? Smettila di illuderti: ti sei scopata mezza Las Vegas, sei merce avariata e lui non ti vorrà mai indietro, stupida puttana.» Notai un movimento con la coda dell'occhio e mi girai vedendo Dean sulla porta, il suo solito ghigno da figlio di puttana completamente fuori controllo, per via di quello che stava accadendo. «Oh, beccato» esclamò divertito da matti, «Brutto colpo Danika: a quanto pare Tryst non ha ancora dimenticato la sua ex.» Afferrai il primo oggetto a portata di mano, il posacenere, e glielo tirai in testa. Lo schivò a malapena. «Pezzo di merda» gli gridai, «Anche tu pensavi che ci sarei caduta? Beh, sei trasparente come l'acqua, idiota. Vi ho sentiti complottare settimane fa e me l'aspettavo. Cosa pensavi? Vuoi che Tristan lasci il gruppo? Perché se gli racconto quanto c'entri in questa roba, lo farà.» La sua reazione parve appropriata: si mostrò preoccupato. Andai da Tristan e gli sentii il battito. Era davvero così immobile da dover essere controllato. Le pulsazioni c'erano, normali e regolari per quanto basse, pensai. Si mosse leggermente al mio tocco ma non si svegliò. «Cosa gli avete fatto?» sibilai verso Dean. «Niente! Te lo giuro, cazzo! Ha fatto tutto da solo, posso confessare il resto, ma non questa merda. Deve solo recuperare il sonno.» Suonava sincero ma continuai a fissarlo chiedendomi se stesse mentendo. A quel punto non mi sarei sorpresa più di nulla. «Che diavolo hai che non va? Cosa speravi di ottenere con questa stronzata? Volevi farti prendere a calci in culo da lui?» Dean fece spallucce e quel suo sorriso snervante tornò a decorargli il viso. «Seriamente, che cosa vuoi?» «Voglio che tu te ne vada» mi rispose sorridendo, «Da quando è diventato schiavo della tua fica è diverso. Pur di stare con te, tutto quanto dalla band alle opportunità svanisce, tutto rovinato da Yoko Ono.» Se il mio sguardo avesse potuto fargli del male fisico, sarebbe caduto a terra morto dissanguato da un milione di ferite. «Lo so com'è fra voi» proseguì, «Credi che non vi abbia sentiti? Che ridere! Vi ho anche visti, non siete certo due che andate per il sottile… pensi di poter scopare nella mia cucina senza che io vi veda? Beh, vi ho guardati: in salotto contro la porta, ho visto il modo in cui te lo porti a spasso tenendolo per il cazzo; come glielo stritoli quando vieni, tanto da farlo uscire di testa. Sei brava a scopare, te ne do atto. Ormai l'hai talmente incantato che Tristan non riesce più a capire niente ma io sì. Se c'è una scelta da fare fra te e la band, e c'è, io scelgo la band. Scelgo questo gran bell'affare che ci hanno proposto; mentre a causa tua Tristan sta buttando tutto nel cesso.» Prima di riuscire a replicare dovetti mandare giù un bel po' di bile. «Beh, è lui che deve scegliere. Cosa pensi che sarebbe successo questa sera? Credi che ti avrebbe ringraziato se i tuoi piani fossero andati in porto? Non ti avrebbe più parlato e alla fine il tuo gran bell'affare sarebbe andato a monte per colpa tua. Se vuoi che lui arrivi alla fine di questo disco lasciaci in pace, stai fuori dalle nostre vite. E se sei abbastanza intelligente, non rivolgermi mai più la parola. Se farai così non gli racconterò di questa tua trovata, anche se te lo meriteresti. Siamo intesi?» Il bastardo accettò prontamente ma sapevo di non potermi fidare e passai il resto della notte a cercare di capire se avrei raccontato o meno a Tristan l'accaduto. Il problema era che non potevo prevedere la sua reazione e la cosa mi spaventava. Il suo era un carattere volubile, specie quando si trattava della parte protettiva. Non dormii, troppo preoccupata e ansiosa sul da farsi. Ogni paio d'ore riuscivo a farlo rispondere giusto per sicurezza, ma poi lui piombava immediatamente nel sonno più profondo. A che punto avrebbe avuto bisogno di andare in ospedale? Come sapevi se una persona era in overdose? Non riuscivo nemmeno a credere di dovermelo chiedere. Cos'avevo ignorato da ritrovarmelo a questo punto senza essermene accorta? Sotto certi aspetti eravamo davvero fatti l'uno per l'altra: ero complice in quella sua dipendenza e pur sapendolo, avevo lasciato correre tanto che le cose ci erano sfuggite di mano. In parte mi davo ogni colpa: nonostante sapessi quanto fosse sbagliato era un sentimento difficile da abbandonare. Dovevo riuscire in qualche modo a prendermi miglior cura di lui, in modo che non capitasse più nulla di simile. Ero sempre troppo occupata con una cosa o un'altra ma avrei dovuto trovare più tempo per sistemare questa cosa, per aiutarlo a superare i suoi demoni, perché era chiaro che lo stessero divorando vivo. Tenni d'occhio le sue reazioni, vegliandolo tutta la notte. Non riprese mai conoscenza fino alla tarda mattinata. Avevo ormai attraversato tanti di quegli sbalzi di umore, che quando si riprese non ebbi il cuore di rifarmela su di lui. Anche quando si risvegliò, ci mise un po' per tornare lucido abbastanza da riuscire a parlare e quando accadde, gli dissi tranquilla: «Non puoi rifarlo ancora. Non è giusto. Devi iniziare a prenderti maggior cura di te.» Lui non protestò, accettandolo senza fatica. «Hai ragione, mi dispiace. Non succederà più. Sei qui da ieri sera?» Annuii, tacendogli il fatto che ogni secondo era stata una tortura per me. C'era un'àncora legata a entrambe le sue caviglie che lo stava portando sempre più giù, nelle profondità più buie e insondabili, facendolo affogare in modo lento ma costante. E non riuscii a dirgli che mi stava portando giù con sé. CAPITOLO VENTI DANIKA Ero sdraiata su un tappeto come una bambina di cinque anni, con Mat da una parte e Ivan dall'altra. «Tre dentro al letto e dice il piccoletto» gridò Ivan, steccando più che cantando. «Rotola giù» rispose ad altrettanto volume Mat. «Rotola giù» cantai io. E rotolammo, ma poiché non eravamo dentro al letto Ivan saltò in piedi invece di cadere fuori, indietreggiando di due passi e ridendo. «Bubu, tocca a te!» si lamentò Mat dandomi una gomitata. «Due dentro al letto e dice il piccoletto» cantai stonata a mia volta ma senza urlare. «Rotola giù» gridò Mat, a un volume degno di un coro metal. Io mi alzai e lasciai che lui terminasse il gioco. Avevo promesso di fare un giro di Rotola prima di cena. «Uno nel letto e dice quello FANTASTlCO, rotola giù! ROTOLA GIÙ!» Rotolò poi si alzò ridendo: «Ho vinto.» «Questo gioco non ha vincitori, stupido» gli disse Ivan. «Hey, allora!» lo ripresi, «Niente parole brutte. Se ti sento ancora, te ne vai in camera tua.» «Okay, bubu. Cosa c'è per cena? Posso aiutarti?» Gli sorrisi pensando che fosse il ragazzino più carino del mondo. «Già, bubu, cosa c'è per cena?» domandò la vociona di Tristan dalla porta d'ingresso sulla quale stava da chissà quanto. Sorrisi. Come sempre mi era mancato da morire, ma rimasi lì dov'ero. Avevamo deciso di non scambiarci effusioni davanti ai bambini ed ero abbastanza sicura che se fossi arrivata a un metro da lui gli sarei saltata addosso, perciò rimasi ferma guardandolo. Sembrava un po' fatto ma mi guardava con dolcezza, sorridendo e dato che non volevo trovare da dire, rimasi in silenzio. «Ho diritto di prelazione ad aiutarti in cucina però. Sono piuttosto certo di superare di grado il piccoletto di otto anni.» «Hey» protestò Ivan. «Tu mi concedi di aiutarla ed io preparo i miei famosi biscotti dopo cena. Ci stai?» «Ok» rispose l'altro già fuori dalla stanza. Concluso quell'affare, era pronto per continuare a divertirsi. «Ci sei mancato, Tristan» gli disse Mat, facendogli un enorme sorriso che mise in luce la finestrella lasciata dal dente recentemente caduto. «Anche tu mi sei mancato, piccolo. E mi piace come canti. Vedo una band heavy-metal nel tuo futuro.» Mat increspò il nasino. «Cos'è?» Scossi la testa. «Te lo spiegheremo quando sarai più grande per interessartene. Intanto perché non vai a dire a tua madre che la cena sarà pronta fra mezz'ora?» «Ok.» Scappò via, fermandosi brevemente per dare un colpetto di testa alla gamba di Tristan che in cambio gli arruffò i capelli. Una cosa adorabile. Una volta lontani i bambini, ci ritrovammo in cucina per salutarci. «Mi sei mancata, bubu» mormorò staccandosi da un lunghissimo bacio, «E vederti con quei bambini…» Deglutì. «Non vedo l'ora di vederti fare la mamma. Sei nata per quello.» Mi spostai impegnandomi con la cena e ricacciando lacrime melense. Lui mi abbracciò da dietro, le sue mani sulla mia pancia premettero e massaggiarono. «Sono stato troppo vago: quello che intendevo dire è che non vedo l'ora di vederti come madre dei miei bambini. Credo di volerne cinque.» Sorrisi, coprendo la sua mano con la mia e inspirai. «Chi lo sa, magari potrei già essere incinta.» «Non sarebbe fantastico?» lui mi stuzzicò il collo. «Lo sarebbe?» gli feci eco pronunciando ogni parola chiaramente. Avrei voluto dire di più ma persi il coraggio e anche l'attimo. Dopo cena, portammo fuori i cani e i bambini per una passeggiata. I ragazzi notarono alcuni amici che giocavano e corsero a raggiungerli. Io e Tristan ci fermammo, lasciando ai cani più corda per girare liberi. Tristan teneva il grosso dei guinzagli ed io avevo una mano libera nella quale stringevo il mio cellulare. Dato che non ero in grado di trovare le parole mi pareva più facile che fossero le immagini a spiegarlo meglio. C'era qualcosa di simile al crollo nervoso nell'idea di dovergli dare la notizia: ne avevamo parlato fino allo sfinimento e nessuno poteva certo affermare che non ci fossimo impegnati al massimo. Anche così però, mi tremava la mano quando gli mostrai la foto sul cellulare. Mostrava il risultato di tre test di gravidanza: su uno c'era una croce blu, su uno c'era scritto semplicemente INCINTA e nel terzo si vedevano due righe parallele rosa scuro, una leggermente più scolorita dell'altra. Tre risultati positivi da tre marchi diversi. Ero stata meticolosa. Inizialmente lui non reagì, come se quella cosa non avesse senso per lui. Lentamente, le sue sopracciglia si aggrottarono e sulle sue labbra comparve una domanda. Mi tolse il cellulare dalla mano avvicinandoselo al viso nemmeno faticasse a vedere bene. «Ma che…?» domandò con voce strozzata, «Che diavolo…?» Considerato tutto, il fatto di esserci riusciti non sarebbe dovuto essere uno choc per noi, ma per me invece lo era. E a giudicare dalla sorpresa sul suo volto, anche per lui. Mi resi conto troppo tardi che aveva mollato il guinzaglio nella mano destra. Quello peggiore. Sussultai, indicando. Coffeecup era partito con uno sprint ed era già lontano. «Coffeecup» esclamai, «I polli.» «Merda» gridò Tristan allungandomi il resto dei guinzagli e infilandosi il mio cellulare nella tasca sul retro prima di mettersi a correre dietro a quel cane impazzito. «Parolaccia, parolaccia» si misero a ripetere alcuni ragazzini nel giardino. Se avessi avuto una mano libera mi sarei data una pacca in fronte. Non corsi assieme a lui come avrei fatto normalmente. Non avrei più saltato i fossi per inseguire i cani per un bel po'. Tenni il resto dei guinzagli e attesi col cuore in gola. I ragazzi mi si avvicinarono con aria preoccupata. Mat mi tirò per la maglietta, aveva gli occhi spalancati e la bocca aperta a formare una O. Essendo impegnato a parlare con gli amichetti non si era reso conto della fuga. «Cos'è successo, bubu?» «Coffeecup si è sciolto.» «Oh, no» gridò Mat. «Sarà un bagno di sangue» aggiunse Ivan, suonando un po' troppo felice all'idea. «Ivan» lo ammonii. «Pollo per cena» annunciò ad alta voce con un certo apprezzamento, facendo scoppiare a ridere i figli dei vicini. Alzai gli occhi al cielo... Ragazzi. «Magari non ne ammazzerà troppi» cercò di rassicurarmi Mat guardando la mia espressione, «Non preoccuparti, bubu. Credo abbia mangiato prima di uscire.» Non potei nascondere una risata e gli baciai la testa. Tristan tornò in fretta con Coffeecup. Stava correndo. Sul muso del cane non c'erano macchie di sangue, il che era positivo. «Preso in tempo» ansimò fermandosi davanti a me. Consegnò il guinzaglio a Mat e dopo avermi preso di mano gli altri, li porse a Ivan con un sorriso talmente enorme da essere accecante. Sistemati i cani mi si avvicinò, finalmente guardandomi. Portò le mani sui miei fianchi e mi sollevò facendomi girare. Nei suoi occhi c'erano meraviglia, gioia e un chiaro desiderio. Tutto ciò che avevo sperato. Lui aveva sempre voluto ardentemente questo bambino, come me. «Fatico a crederci» mi disse piano mentre mi abbassava. Sorrisi incerta. «Stupefacente, vero?» Il suo sorriso si fece dolce e tenero come mai avrei osato immaginare. «È magnifico, la miglior notizia mai avuta. Tu sei una gioia per me, Danika. Un miracolo.» CAPITOLO VENTUNO TRISTAN Spensi il motore fissando con trepidazione la casa di mia madre e Danika mi diede un buffetto rassicurante sulle spalle. Era stata una sua idea. Io sarei rimasto lontano per il resto della vita, ma sapevo che aveva ragione: questa cosa andava sistemata, che mi piacesse o meno, l'essermi allontanato da mia madre mi pesava molto. «Tu vieni?» le domandai. «Aspetto qui un po'. Credo sia meglio così, no? » Che ne pensavo? Non lo sapevo. A essere onesto non avevo alcuna voglia di affrontare la cosa. Mi serviva da bere, ma stavo cercando di non assumere alcolici di mattina quando ero con Danika. «Augurami buona fortuna» le dissi con un profondo sospiro, uscendo dall'auto. «Buona fortuna» mi disse lei in modo incoraggiante, prima che richiudessi lo sportello. Bussai alla porta, poi suonai il campanello e attesi un intero minuto prima di entrare. Alla fine usai la mia chiave, spaventato all'idea di quel che avrei trovato. Era un casino, dal pavimento al soffitto. I quadri erano stati tolti dai muri, un vaso colorato che solitamente stava sul tavolino dell'ingresso, giaceva in frantumi sul pavimento. Mia madre doveva essersi data alla pazza gioia alcolica e la cosa non mi sorprese nemmeno un po'. La cucina era ricoperta di sporcizia, i piatti con gli avanzi di cibo marcio riempivano il lavandino. Pensai che fossero ancora lì dal funerale… Dovetti coprirmi naso e bocca per non vomitare mentre la attraversavo. Il resto della casa non era messo certo meglio, anche se nessuna stanza raggiungeva i livelli della cucina. Sembrava passato ovunque l'inferno. Avevo già visto mia madre comportarsi così, in particolare dopo le separazioni più brutte, ma mai arrivare a un livello talmente estremo. La trovai in soggiorno, sdraiata sul divano con addosso dei pantaloni della tuta e un accappatoio. La bottiglia di tequila aperta era a portata di mano. Era cosciente e abbastanza in sé da riconoscermi a prima vista. «Tu» mi additò con un sogghigno, «Tu hai il fegato di farti vedere qui.» Dovetti togliere una pila di abiti per potermi sedere sulla poltrona davanti a lei. Incrociai il suo sguardo malevolo con un certo sforzo. «Sono venuto a controllarti, Danika pensava che potessi avere bisogno di un po' d'aiuto. Aveva ragione.» «Lasciala fuori! Questa è una cosha fra noi» disse trascinando le parole. Sospirai: avevo sperato che concedendole tempo sarebbe riuscita a ragionare, ma sembrava proprio che non fosse così. Era ancora determinata a darmi ogni colpa. «Cos'è fra me e te? Coraggio, sentiamo.» «Tu hai ucciso il mio bambino! Tu e i tuoi amici e quella stupida band. Sempre in giro per feste a bere, a puttane… avete corrotto il mio piccolo.» Scossi la testa guardandomi attorno: se voleva incolpare qualcuno perché il suo ultimogenito era andato in overdose per un mix di droghe e alcool, avrebbe dovuto guardarsi allo specchio. Mi sforzai di non dirglielo. Ero venuto per cercare di aiutarla, non per farla stare peggio ma non passare al contrattacco andava oltre ogni mio istinto. «Io volevo bene a Jared, mamma. Pensi che questa cosa non stia uccidendo anche me? Farei qualsiasi cosa per tornare indietro ed evitare quello che è successo, lo capisci? Non ero nemmeno con lui quando è successo…» Lei iniziò a singhiozzare. «Il mio piccolo era tutto solo quando è morto, come hai potuto lasciarlo così?» «Se avessi potuto, sarei stato con lui. L'avrei fermato.» «Sei stato tu a fargli conoscere le droghe! È tutta colpa tua.» Lei afferrò il primo oggetto a portata di mano per scagliarmelo contro. Beh, quasi… Non riuscii a non notare che nonostante ci fosse prima la sua preziosa bottiglia di tequila, lei aveva scelto la lampada, uno dei pochi oggetti ancora intonsi nella stanza. La scansai facilmente, cercando di ignorarla, di evitare i suoi vaghi strali e gli insulti mirati ma iniziò a farneticare su come fossi stato io a far scoprire le droghe a Jared, una cosa che non riuscii a sottovalutare. Alzai un dito e lo puntai dall'altra parte della stanza, verso un grosso bong che lei aveva lasciato aperto sul divisorio della cucina. «Mi prendi in giro? Sei davvero così ubriaca da non ricordare con chi stai parlando? Quanti anni avevo quando hai iniziato a passarmi le tue canne? E quanti ne aveva Jared?» «Fottiti! Sei tu quello che lo faceva ubriacare a tredici anni.» Mi sentii scuotere in preda alla rabbia e pur sapendo di dovermene andare, rimasi. «Vogliamo fare finta che fosse la sua prima volta? Questo? Tu, la mamma che pensava fosse divertente far ubriacare i figli alle feste, tu mi stai dando la colpa?» Si alzò piangendo, attraversò la stanza, prese un vaso di vetro dal pavimento e me lo tirò in testa ma io mi chinai. Lei allora iniziò a tempestarmi il torace di pugni. Quelli non li schivai, lasciai che si sfogasse. Non avevo l'energia sufficiente per combattere con lei troppo a lungo, perché la triste verità era che nessuno scontro ci avrebbe mai riportato Jared. Se l'odio fosse servito, sarebbe stato facile riavere indietro mio fratello per sempre; ma dato che nemmeno quello funzionava, non riuscivo a farci affidamento per un tempo superiore a quello necessario a sfogare la mia rabbia ad alta voce. «Bastardo» sbraitò lei continuando a tirare pugni che io subii ancora e ancora. Da ubriaca era sempre stata volubile ma non aveva mai colpito con tanta forza, perciò non mi ero mai lamentato molto. Quando Danika entrò, fu questa la scena che si trovò davanti: mia madre che batteva contro il mio petto gridandomi ogni tipo di maledizione. La cosa non la fermò. Ci si avvicinò e mi tolse mamma da dosso. «Non osare» avvertii allora Leticia con voce bassa e mortale. Non ero sicuro di come avrei reagito se avesse messo le sue mani anche addosso a Danika, ma sapevo che nessuno aveva bisogno di scoprirlo. Per sua fortuna, per fortuna di tutti, mia madre si tranquillizzò accasciandosi e singhiozzando contro il collo della mia ragazza. Danika la riportò gentilmente al divano per farla sedere, accarezzandole con dolcezza la schiena e mi lanciò un'occhiata comprensiva. Riuscivo a vedere dalla rigidità della sua bocca come a sua volta stesse tenendo a freno il carattere. Sapevo ciò che provava nei confronti di mia madre, quanto la facesse arrabbiare quella sua scelta di avermi incolpato per la morte di Jared. Quando mia madre si fu finalmente calmata, il tono con cui Danika le si rivolse fu gentile ma comunque di rimprovero. «Leticia devi smetterla: lui è tuo figlio, l'unica persona che ti è rimasta al mondo. Non puoi trattarlo così, non ha colpe.» Dovetti voltarmi, i pugni stretti. Nessuno riusciva a smuovermi l'emotività con così poche parole tranne Danika. «Lui incolpa me, Danika» singhiozzò Leticia, «Perché non gli dici la stessa cosa?» «Non è affatto così» le assicurò lei con immensa pazienza. Ero felice che potesse affermarlo perché non ero certo che sarei mai riuscito a cavarmi di bocca quelle parole, «Lui è ferito come te, ma tu sei sua madre e devi mettere un freno a questo comportamento. Tristan è qui per fare pace, vuoi mandarlo via e aprire ulteriormente la ferita che condividete? No, no che non vuoi. Voi avete bisogno l'uno dell'altra. Tu non puoi andare avanti così, ti stai uccidendo.» Tornai a girarmi in tempo per vedere mia madre discostarsi leggermente da Danika. Leticia non era una donna grande, era anzi più bassa di qualche centimetro ma riusciva a far sembrare piccola la mia minuta Danika. Era stupefacente quanto quelle sue piccole braccia toniche riuscissero a confortarla. Leticia le accarezzò la guancia con aria affettuosa. «Cara ragazza. Ricordo le parole che hai detto al funerale del mio bambino. Erano perfette, mi hai dato un tale sollievo! Mi sembrava quasi che il mio Jared fosse lì accanto a me mentre ti ascoltavo. E adesso dov'è il mio sollievo, Danika? Non sono capace di affrontare tutto questo, non riesco a vivere se penso a quello che è successo al mio povero, amato Jared. Ti prego, ti prego… trova qualche parola di conforto per me.» Danika se la avvicinò nuovamente, guardandomi. C'era nei suoi profondi occhi grigi un'aria di scuse che non riuscivo a capire, non finché non parlò. «Non molto tempo fa, io e Tristan abbiamo fatto una fuga d'amore» confessò a mia madre, sorprendendomi. Non l'avevamo ancora detto ad anima viva. Leticia gemette, stringendola e chiamandola figliola, bellissima ragazza e finalmente, riuscì a dirmi qualche parola buona, ammettendo il buon gusto che avevo avuto. Lo accettai: non c'era nulla che mi rendesse più fiero del fatto che Danika mi amasse. Ma non era ancora finita: «E, Leticia, questo te lo dico perché ho bisogno che tu ti metta d'impegno per stare meglio, ok? Devi tornare a essere forte e sobria, perché ho un compito importante per te.» Lei si raddrizzò, spazzandosi gli occhi con aria sveglia e finalmente, controllata. «Un compito?» «Sì, uno molto importante. Sono incinta… e a questo bambino serve una nonna.» La notizia sortì l'effetto sperato, facendola piangere ma questa volta di felicità. Leticia accarezzò il ventre piatto di Danika entusiasta. Non avevamo in mente di divulgare la notizia almeno per qualche mese ancora, ma capii subito cosa essa avesse provocato. Aveva dato a mia madre un motivo per vivere, qualcosa a cui aggrapparsi come un salvagente. «E lo chiamerai Jared se è un maschietto?» domandò, continuando ad accarezzare la pancia di Danika. Lei non esitò: «Ma certo.» «E Leticia, se è femmina?» proseguì mia madre, grintosa come sempre. «In che altro modo altrimenti? Sì, Leticia per una bimba e Jared per un maschietto. Ma ero seria: devi darti una regolata. Questo è il nostro primo figlio e avremo bisogno di te per delle risposte, per mostrarci la strada nei momenti in cui non sapremo cosa fare. Ti rimetterai in sesto per noi e per il tuo nipotino?» Ci furono altre lacrime di felicità e scuse, alcune delle quali anche rivolte a me con mio sommo stupore. Rassicurazioni profuse che certo, lei sarebbe stata meglio perché doveva prepararsi per il nipotino. «Usciamo a festeggiare» propose poi mia madre. La donna che aveva parlato era diversa da quella che avevo trovato entrando in casa, Danika era riuscita a trasformarla- Era ufficiale: ogni Vega si era innamorato di lei. «Sì, andiamo ma niente tequila per favore» accettò Danika riuscendo a suonare sia premurosa che cauta al tempo stesso, come solo lei poteva. «Sì, sì, basta tequila per me. Quella roba è veleno!» Leticia parve ricordarsi in che stato versava, si toccò i capelli con aria inorridita. «Datemi venti minuti. Vi metterei in imbarazzo se uscissi così» e scappò via. Danika si alzò e prese subito a sistemare la casa. «Cosa stai facendo?» le domandai spostando la bottiglia di tequila dalla quale presi un lungo sorso. «Falla sparire. Butta tutto l'alcool che vedi.» Capii perché. Andai in cucina trattenendo il respiro per l'odore terribile che vicino al lavello era anche peggiore e svuotai il contenuto della bottiglia, buttandola poi nell'immondizia. «Trova tutti i liquori e buttali» mi disse Danika quando tornai in salotto. «Okay, bene ma tu cosa stai facendo? Non devi metterti a pulire al posto suo.» «Quando tornerà qui e sarà sola cosa pensi che farà una volta seduta in mezzo alla sua sporcizia? Credi che si metterà a pulire o che si prenderà un'altra sbronza? Fidati: una pulita aiuterà.» Sapevo che aveva ragione e iniziai a darle una mano, pulendo e buttando le bottiglie. Su insistenza di Danika gettai anche il bong, ridacchiando sommessamente per tutta l'erba sprecata. Era implacabile. Quando mia madre tornò di sotto, avevamo sgombrato un bel po' di stanze. Leticia sembrava migliorata nell'aspetto proprio come la sua casa. Emise qualche suono di disapprovazione per ciò che secondo lei non avremmo dovuto fare, ma era chiaro che fosse felice. Questa visita le era servita, aveva bisogno di sapere che c'era qualcuno al mondo a cui la sua vita o eventuale morte, sarebbero importate. Danika sapeva essere quasi dittatoriale, ma di solito aveva ragione. Andammo a mangiare al ristorante messicano alla fine della strada, dove mia madre affermò che il cibo non reggeva il confronto con quello casalingo ma nessuno menzionò il fatto che in cucina ci fosse solo roba avariata. Quando il cameriere ci domandò cosa volessimo bere, Danika prese la parola e ordinò acqua per tutti. Avrei voluto protestare ma sapevo che aveva ragione: mia madre doveva evitare l'alcool per un po'. Dubitavo fosse stata sobria negli ultimi mesi e non era mai stata un'ubriaca di quelle tranquille. Fu un pasto allegro e lungo, durante il quale facemmo progetti per il bambino e mia madre mi strinse spesso il braccio piena di eccitazione. Grazie a Danika, quella ferita era stata curata. La lasciammo in una casa pulita e con un cuore colmo di speranza, tutto grazie alla mia ragazza. Era lei… Se mai avevo avuto dubbi, ora erano svaniti: era colei alla quale avrei pensato e desiderato fino al mio ultimo respiro. Se il giorno dopo l'avessi persa, avrei passato il tempo a struggermi. Era quel genere di amore che trovavi una sola volta nella vita. CAPITOLO VENTIDUE DANIKA Avevo chiamato mia sorella più volte dopo aver avuto il suo numero ma dato che non avevo avuto fortuna, Jerry si era offerto di fare una ricerca ed io lo avevo assecondato per via della sua intraprendenza. L'aveva trovata: viveva a Los Angeles, faceva la cameriera aspirante attrice e sarebbe venuta a Las Vegas in macchina per incontrarmi. Ero felicissima. Jerry aveva combinato l'incontro ma ci era voluto molto per stabilire una data. Io sarei stata più che pronta ad andare a mia volta a Los Angeles, ma attraverso Jerry, mia sorella aveva insistito per fare il viaggio. Ero felice per quel che stava succedendo, anche se le erano serviti mesi. Dovevamo incontrarci in un bar&grill sulla Maryland Parkway, proprio dalla parte opposta al campus universitario ed io andavo di fretta. Avevo già dieci minuti di ritardo perché il mio professore di scienze politiche si era dilungato, quando la vidi. Mi fermai. Erano passati anni dall'ultima volta ma la riconobbi all'istante. Era cambiata tantissimo ma era ancora la bellissima ragazza che ricordavo. Mia madre aveva detto che non mi somigliava ma aveva torto: i capelli castano chiaro ora le scendevano in lunghe onde sulla schiena e si era anche fatta delle mèche bionde che le stavano bene. Era molto più bassa di me e anche di mia madre, esilissima quanto una silfide. Paragonata a lei, io sembravo voluttuosa. Il viso era molto simile al mio, compresi gli occhi grigio chiaro. Forse i suoi avevano un taglio leggermente meno esotico, ma nemmeno troppo. Nonostante i capelli più chiari, a guardarla meglio sarebbe passata a malapena per una caucasica e proprio per questo, mia madre l'aveva sempre giudicata ordinaria. Che errore: Dahlia era mozzafiato! Vestiva in stile preppy, con una gonna grigia a pieghe, top di seta bianco e cardigan rosa chiaro. Completava il tutto con un paio di Mary Jane nere e calzettoni al ginocchio. Sembrava un'adorabile studentessa. Non era il tipo di look che mi sarei aspettata da una cameriera/attrice a Los Angeles, ma le stava benissimo. Quando mi vide non sorrise ma mi salutò con la mano. Grossi occhiali da sole bianchi nascondevano i suoi occhioni espressivi. Ricambiai il saluto avvicinandomi e ci ritrovammo immobili nel mezzo del marciapiede, a fissarci. L'avrei abbracciata ma non ero certa che lo volesse, perciò continuai a studiarla per prendere atto di questa nuova versione cresciuta di mia sorella. Lei sembrava fare lo stesso. Io avevo un tubino azzurro preso in prestito da Bev e ballerine in tinta. Avevo scelto uno stile femminile ma conservatore per farle una buona impressione e sembrarle l'esatto opposto dell'ultima volta che mi aveva visto in quella roulotte tetra, che aveva rappresentato così tanto orrore per noi. «Hey Dahlia» la salutai finalmente, ritrovando a malapena la voce. Il poterla rivedere mi aveva tolto il fiato, «Hai un aspetto magnifico. A quanto pare L. A ti giova.» Lei annuì brevemente pur continuando a non sorridere. «È meglio di qui. Non posso credere che tu sia rimasta… odio questa città.» Non potevo certo biasimarla: Sin City ci aveva regalato un'infanzia infernale eppure in un modo o nell'altro, io ero riuscita a farci pace. «Studio qui, ho una borsa di studio decente e lavoro per una bravissima famiglia. Non ho sentito alcun desiderio di andarmene, tutto quello che mi serve è qui.» Lei annuì di nuovo. «Possiamo andare da qualche parte?» «Ma certo! Mi dispiace per il ritardo, il mio professore non smetteva più di parlare.» «Io non avrei capito una sola virgola. Non ho nemmeno terminato il liceo.» Mi fissai i piedi con tristezza. «Mi dispiace» le dissi sottovoce. «Perché? Non è stata colpa tua. Non abbiamo mai avuto delle grandi possibilità a nostro favore… è quasi stupefacente che una di noi sia riuscita ad andare al college.» Qualcosa nelle sue parole mi diede un barlume di speranza nel fatto che non m'incolpasse di tutto. Ci prendemmo un tavolo, ordinammo dell'acqua e riprendemmo a fissarci a lungo in una sorta di strano silenzio imbarazzato. Le guardai le mani, erano così piccole e delicate. Quanto aveva già pagato una cosina delicata come Dahlia? Sola, così giovane in questo brutto mondo era sopravvissuta ovviamente, ma cosa aveva passato? Il pensiero mi fece rabbrividire. «Allora, come stai?» le domandai seria e lei mi fece un sorrisino. «Sto bene. Servo ai tavoli e sto aspettando la mia occasione. Non mi lamento.» Condividemmo di nuovo un lungo silenzio valutativo. «Io… insomma, ho conosciuto il tuo ragazzo» mi disse finalmente, sporgendo le labbra. Mi era difficile interpretare le sue espressioni ma pensai che fosse dispiaciuta e mi ritrovai a inarcare le sopracciglia con curiosità. Non ne sapevo niente. «Il mio ragazzo? Tristan?» Lei rise nervosa. «Sì, Tristan. A meno che tu ne abbia più di uno.» Le sorrisi scuotendo la testa. «No davvero, solo lui. Come diavolo hai fatto a conoscerlo?» «Il tuo capo, Jerry, mi ha invitato a sentire le registrazioni dei ragazzi un po' di tempo fa ed io ho accettato. Sono favolosi.» Annuii entusiasta. «Sì, è vero! Wow, sono gelosa. Io ancora non sono riuscita a sentirli in sala prove.» Lei mi fece un sorrisino timoroso. «Veramente ci sono andata spesso, non riuscivo a stare lontana.» Torsi la bocca, immaginando l'interesse di cinque maschietti arrapati per una diciannovenne. In realtà ero convinta che ogni donna di qualsiasi età, avrebbe destato il loro interesse. «Quindi…. tu e Tristan. Una cosa seria?» C'era un qualcosa che non mi piacque nel suo tono, come se non fosse mera curiosità. «Sì» risposi semplicemente. Non me la sentivo di condividere altro, in fondo continuavo a sentirla come un'estranea. «Lui è davvero… grande. Posso capire perché te ne sia innamorata.» «Grazie» replicai lentamente, sempre meno felice della piega presa da quella conversazione. Cercai di darle un senso, ma non trovai alcun segno chiaro di allarme. Dahlia era complicata da interpretare, il che è era triste considerato che eravamo sorelle e da bambine eravamo state inseparabili. «Cosa ti ha spinto a voler diventare attrice?» le chiesi per cambiare argomento e per curiosità. L'avrei giudicata la sua ultima scelta, visto che era sempre stata una ragazza introversa. Lei scrollò le spalle, agitandosi sulla sedia. Era chiaramente una domanda che la metteva a disagio. «Un insieme di cose. Ho avuto una particina e ho scoperto che mi piaceva. E poi è una cosa di famiglia.» Riflettei per un po' su quell'ultima battuta prima di arrendermi: non avevo idea di cosa stesse parlando dato che la nostra famiglia era composta da noi due e mia madre e nessuna ovviamente era attrice. «Cosa vuoi dire?» Lei si schiarì la gola guardandosi le mani e quando parlò, aveva la voce talmente bassa che faticai a sentire. «Nostro padre è un attore.» Il silenzio che calò non fu più imbarazzato questa volta, ma lungo. Me ne restai seduta lì, basita, a cercare di capire le sue parole. «Lo conosci?» le domandai infine. Era un mistero che per la maggior parte della mia vita mi aveva tormentato. Solo negli ultimi anni ero finalmente riuscita a scendere a patti con l'idea che non avrei mai saputo chi fosse. Mia madre era sempre stata ostinatamente chiusa riguardo all'argomento. Dahlia inclinò la testa e arrossì. «Sì.» Deglutii. Non sapevo cosa stessi provando, non ero in grado di capirlo ma aveva preso la forma di un nodo nella mia gola e di un intenso bruciore al petto. Perché mai, qualcosa legato a quest'uomo, questa persona che non c'era mai stata nelle nostre vite abbandonandoci letteralmente fin da subito; risvegliava strane emozioni dentro di me? Emozioni che rendevano la più piccola notizia e il più sciocco accenno a poter scoprire qualcosa di lui, capaci di togliermi il fiato. Me la presi con me stessa perché mi sentivo ferita: lei sapeva qualcosa di lui ed io no, ma era così. «Come lo conosci? Quando è iniziato tutto?» Lei non alzò lo sguardo. «Quando me ne andai dalla roulotte di quel maniaco trovai mamma. Era in pessimo stato come sempre ma le chiesi se potevo andare a stare con lei. Non sapevo dove altro andare. Lei rifiutò, però mi disse chi era nostro padre e mi diede il suo numero. Andai a Los Angeles e lo cercai.» Le sue labbra si curvarono in un'espressione di disgusto ma gli occhi rimasero bassi. «Non era certo quello che avevo sperato. Aveva sempre saputo di noi, passava dei soldi a mamma ma non voleva avere niente a che fare con noi. Accettò d'incontrarmi e mi diede del denaro, abbastanza da viverci anni, chiarendo però che non avrebbe mai più voluto vedermi.» Mi sentivo sopraffatta. Continuai a fissarla cercando di immaginare da dove iniziare a chiedere, ma lei riprese a parlare. «Ha una sua famiglia, quattro figli legittimi. Il più grande ha quattro anni più di te, il più piccolo tre meno di me. Si è dato piuttosto da fare in giro ma è ancora sposato. Dio solo sa quanti altri figli ha in giro. Immagino che non siamo le uniche a costituire il suo sporco segretuccio. È piuttosto famoso e pieno, pieno di soldi.» Finalmente alzò lo sguardo, notò la mia espressione e proseguì. «Per un po', finché sono stata minorenne, mi ha mantenuto. In un certo senso immagino di essergli grata ma questo non serve a migliorare molto il mio risentimento. Ho smesso di accettare soldi da lui quando sono stata in grado di mantenermi da sola. Non mi ha nemmeno mai telefonato… facevo sempre con il suo assistente. Dato che non abbiamo un vero legame non mi sembrava giusto tenere i suoi soldi. Adesso, tutto quello che voglio è diventare più famosa di lui, di tutta la sua famiglia per mostrargli quello che ha gettato via.» Aveva un tono acceso e provai dispiacere per lei: essere malamente trascurati da un genitore e completamente rifiutati dall'altro, era una medicina amara da mandare giù. Mi ci volle un po' ma finalmente le feci la domanda che avevo serbato: «Chi è?» «Bronson Giles.» Ne avevo sentito parlare: era un attore drammatico piuttosto acclamato dalla critica, un bell'uomo, ben piazzato con capelli biondi e bellissimi occhi grigio chiaro. Ricordai che qualche anno prima aveva vinto un Oscar. Lo avevo visto in qualche film, trovandolo bravo. «È il suo vero nome?» Lei fece segno di no. «Nome d'arte, ma non è segnato sui nostri certificati e mamma non mi ha mai detto quale fosse quello vero.» Non sapevo cosa pensare, cosa provare. Avrei dovuto essere orgogliosa del fatto che il mio padre biologico era famoso? Non lo ero. Non avevo alcuna parentela con lui, ma almeno adesso possedevo un viso e qualche informazione di base. Ora volevo solo fingere di non averlo mai sentito nominare, non c'era altro da fare per me. «Ti darò il suo numero se vuoi, ma dubito che riuscirai a conoscerlo. Sfortunatamente dovrò chiedergli presto altro denaro, cosa che non mi rende molto felice. Solo che… non so davvero che fare.» «Perché?» domandai preoccupata dal suo tono. Suonava così misera. Fece una smorfia nascondendo il viso fra le mani e le sue spalle si scossero seguendo i gemiti silenziosi. Avrei voluto fare il giro del tavolo per abbracciarla ma non sapevo se potevo. Forse non era ancora pronta per essere toccata da me. Lei smise velocemente e si raddrizzò. Il viso era bagnato ma l'espressione nuovamente composta. Fece un bel respiro profondo. «Sono incinta e non so che fare» disse e il suo viso sparì nuovamente fra le mani. Rimasi di ghiaccio, incerta su cosa fare o dire: non sapevo nulla di lei, mi sembrava troppo giovane per avere un bambino, ma per quanto ne sapevo avrebbe potuto essere sposata. Attesi che si ricomponesse e le domandai cauta chi fosse il padre. «Non voglio parlarne.» Fece una pausa con aria distrutta, «Non lo so.» Evitai di sottolineare come quelle due frasi fossero drasticamente agli antipodi. «Beh, se c'è qualcosa che posso fare per aiutarti, dimmelo. Mi piacerebbe essere di nuovo parte della tua vita e anche di quella del tuo bambino. Il mio cuore è sempre aperto per te, lo è sempre stato. Mi sei mancata ogni singolo giorno da quando te ne sei andata. Sono qui per te a prescindere di come avrai bisogno di me.» Ricacciai indietro le lacrime inattese. Il suo volto franò nuovamente e Dahlia guardò altrove ma allungò una mano sul tavolo mettendola sulla mia. «Mi dispiace. Quello che ci è successo è stato orribile e so di aver peggiorato le cose. Vorrei poter tornare indietro, mi vergogno di averti trattata a quel modo. Ero sconvolta da quello che avevo visto e la mia fu solo una reazione. Ero talmente distrutta da tutto quello che era successo in quella roulotte, che scappai via e basta. Questa è l'unica scusa che ho per come sono andate le cose, ma mi dispiace tantissimo.» Tremavo come una foglia, come se mi avessero tolto dalle spalle un peso enorme e il corpo dovesse muoversi in un modo o nell'altro per rendersi conto della sua nuova libertà. «Grazie» sussurrai. C'erano cose delle quali avevi un bisogno fondamentale e disperato ma che non eri in grado di capire finché l'urgenza non veniva soddisfatta. Io me ne stavo accorgendo ora: avevo bisogno di mia sorella e di sapere che non mi odiava. «Quello era un mostro e mi dispiace di averti lasciata nelle sue grinfie. Mi perdoni?» Scossi la testa respingendo altre lacrime. «Non c'è niente da perdonare, sono felice che tu sia scappata subito. È stato meglio così. E nemmeno io sono rimasta a lungo dopo la tua partenza.» «Bene. Ho avuto tantissimi incubi su te rimasta lì, che non riuscivi a scappare ma nonostante tutto ho sempre avuto troppa paura per tornare. Questa è la prima volta che vengo a Vegas da quando me ne sono andata.» «Il vecchio è morto. Un infarto.» Pensavo fosse importante dirglielo, era una notizia che a me aveva portato molto sollievo. Lei inspirò e annuì. «Ottimo, grazie per avermelo detto ma non parliamone più.» «Come vuoi. Sono davvero felice di averti ritrovato.» Lei mi sorrise in modo triste. «Sì, è bello vedere di nuovo il tuo viso. Vorrei fosse successo prima. Che piani avevi per oggi? Potremmo andare a fare shopping se sei libera.» Lo ero. Avevo fatto in modo di avere tutto il pomeriggio a quello scopo, sperando in un esito positivo ed effettivamente il risultato superava le mie aspettative. Non mi sarei mai sognata di essere nuovamente accettata o perdonata da lei. Andammo al Fashion Show ma senza comprare. Più che altro guardammo le vetrine chiacchierando come da ragazzine, quando ciondolavamo nel centro commerciale fino all'ultimo secondo solo per evitare di tornare a casa. Ci raccontammo degli anni da separate, cercando di recuperare il tempo perso. Non le dissi della mia gravidanza pur avendo l'intenzione di farlo entro breve. Era quasi ora di cena ed io dovevo andare. «Tristan ormai dovrebbe essere arrivato. Veniva a casa per il fine settimana e doveva prepararmi la cena a casa sua.» Il viso di lei s'illuminò quindi la invitai a unirsi a noi. «Non ho idea di cosa prepari, ma ti posso garantire che sarà divino» le assicurai mentre raggiungevamo le nostre auto nel parcheggio. «Oh sì, lo so» mi assicurò lei, «Ho già assaggiato la sua cucina prima.» La cosa mi contrariò. Mi ero persa qualcosa ultimamente? Come mai Tristan cucinava per mia sorella ma io non lo sapevo? Mi suonava sbagliato. «Come hai fatto? Quando Tristan ha cucinato per te?» «Sono stata a cena dai ragazzi una sera e la stava preparando lui. Lasagne da urlo!» Mi sentii un po' meglio ma non troppo. Ancora non riuscivo a credere che Tristan l'avesse incontrata e non ne avesse fatto parola. Non c'era una sola possibilità che non evitasse il terzo grado più tardi. Non una al mondo. Diedi a Dahlia l'indirizzo in caso ci fossimo perse di vista, ma lei riuscì a seguirmi. Inviai a Tristan un breve sms lungo la strada. Danika: Abbiamo un ospite a cena. Non controllai la risposta e riposi il telefono prima di riprendere a guidare. Con il traffico ci vollero quarantacinque minuti per arrivare dalla Strip all'appartamento di Tristan a Henderson, ed io li passai tutti a pensare a mia sorella. Le stava succedendo qualcosa di più preoccupante di una gravidanza accidentale ma nemmeno dopo ore di confidenze, aveva mostrato alcun segnale al riguardo. Dahlia era dietro di me quando parcheggiai. Mi aveva seguito diligentemente per tutto il viaggio e così fece per le scale fino alla porta dell'appartamento. Quando la aprii, lei corse inaspettatamente dentro prima di me e la vidi piombare in cucina, buttandosi fra le braccia di un Tristan sorpreso, per stringerlo in modo esuberante. Lui replicò in modo quasi impercettibile, stringendola appena prima di sciogliersi da quel groviglio di braccia. «Tristan! Che bello rivederti» trillò Dahlia. Fissai la scena leggermente nauseata. Lui le mise le mani sulle spalle, scostandola gentilmente. «Piacere mio. Scusami.» Venne da me e mi strinse, baciandomi con calore. Non era uno di quei baci che mia sorella avrebbe dovuto vedere, ma la cosa non lo fermò di certo, né impedì la mia reazione. Non ero mai stata in grado di dirgli di no. Quando Tristan si staccò, il mio cervello era ridotto in poltiglia ma le mie domande erano ancora ben presenti nella mia mente. «Perché non mi hai detto che avevi conosciuto mia sorella?» domandai guardandolo attenta in viso. La sua fronte s'increspò mentre lanciava a Dahlia uno sguardo incomprensibile prima di rispondere. «La conosco a malapena perciò non mi sembrava tutto questo granché. Possiamo parlarne più tardi?» Non era la risposta che avrei voluto ma frenai la lingua. Non desideravo certo avere questo strano scambio di vedute davanti a lei. Io e Dahlia ci sistemammo sul divano chiacchierando, mentre Tristan preparava la cena. Spesso, lui usciva dalla cucina, si sedeva accanto a me baciandomi la fronte, la mano, la guancia. Era sempre stato così per natura, ma il mio stato delicato sembrava aver mandato le sue inclinazioni spontanee a dei livelli sovrumani. Amavo che fosse così affettuoso ma alla quarta volta notai che Dahlia reagiva abbassando lo sguardo e ogni tanto, ridacchiando. Alla fine glielo chiesi: «Stai bene? C'è qualcosa che non va?» Lei scosse la testa continuando a guardarsi le mani. «No, no, sto bene. Siete davvero affettuosi voi due. Non avevo capito quanto fosse seria.» «Te l'ho detto che era così» le ricordai cauta. Mi domandai se fosse il caso di specificarle a che livello di serietà fossimo, ma poi ripensai al fatto che conosceva Jerry. Non sapevo quanto fosse brava a mantenere i segreti ed io volevo aspettare per dare la notizia a tutti quando saremmo stati pronti. Se Bev non lo avesse scoperto direttamente da me, ci sarebbe rimasta male. «Sì, è vero. Ti sei innamorata di lui a prima vista?» Ci riflettei un po' sopra. «All'incirca. Fra noi… c'è sempre stata una certa chimica. All'inizio abbiamo provato a combatterla, ma come vedi, siamo qui.» Lei annuì. «Già. Tristan e qualsiasi donna produrrebbero quell'effetto.» Non apprezzai per niente quel giudizio e non era ancora finita. «Credevo che fossi al settimo cielo per quanto lo amavi, chi non lo sarebbe stato? Non mi ero accorta che anche lui fosse pazzo di te.» «Ah, no? E cosa pensavi? Dimmi: quale impressione ti dava lui?» «Beh, è che lui… non so, sta fuori città per così tanto tempo. Insomma, vive bene anche a Los Angeles, lontano da te. Pensavo che essendo una cosa seria, avrebbe provato a essere più presente.» «Credi che nessuno dei due abbia avuto da ridire sulla tabella di marcia delle registrazioni? Beh, non è così ma è un problema temporaneo. Immagino che lui potrebbe lasciare il gruppo ma ormai dovrebbero arrivare al termine in un paio di settimane, almeno è quello che ho sentito.» Lei fece spallucce. «Se lo dici tu. A me sembra che quello sia uno stile di vita che non si può accendere e spegnere a piacimento. Non so, forse quando ho visto come viveva là e ho saputo che aveva la ragazza, ho pensato che fosse una storia più disimpegnata. Le cose che succedono in quella casa metterebbero alla prova qualsiasi relazione stabile. Non so come tu possa sopportarlo.» «Quali cose? Racconta.» Sentii le guance in fiamme e la rabbia montare. Lei lanciò un'occhiata verso la cucina come per accertarsi che Tristan non riuscisse a sentire ciò che stava per dirmi. «Alcool, droghe, feste continue… donne» elencò chiaramente ma con voce tranquilla. Sentii travasare la bile ma rimasi composta. «Mi stai suggerendo che Tristan mi ha tradito?» Anche la questione droghe mi preoccupava, proprio come il bere quando spinto all'estremo, ma quella scoperta catalizzava la mia attenzione come niente altro. Lei scosse la testa velocemente, sgranò gli occhi e fece una smorfia. «No, no, non sto affatto dicendo quello. Lui non è così, ma è solo. Quanto pensi che riesca a resistere prima di cedere alle tentazioni che ci sono là? Ogni uomo ha dei bisogni.» Strinsi la mascella. Amavo mia sorella ma detestavo che desse per scontato di conoscere Tristan meglio di me. Che avesse una qualsiasi intuizione sui suoi bisogni che io non avevo avuto. «Grazie per la tua preoccupazione» le dissi sforzandomi di mantenere un tono gentile, «Ma è compito mio badare ai bisogni di Tristan e non credo si sia mai lamentato. Appena questo disco sarà finito, lui tornerà a casa e tutto rientrerà nella normalità. Abbiamo ancora qualche settimana di relazione a distanza.» La mia mente ignorò il fatto che ormai lo andavo dicendo da mesi. Dahlia non sembrò convinta e mi domandai perché. Come mai tutto questo le stava tanto a cuore da diventare affar suo? Mi stavo agitando ogni secondo di più. «E quando il gruppo inizierà il tour promozionale? Come farete poi, andrai con loro?» Sbattei le ciglia: Tristan non mi aveva mai menzionato il tour, anche se ne avevo sentito parlare. «Andare con loro?» ripetei piatta, «Beh, no. Ho troppe cose in ballo qui. Non posso lasciare la scuola, il lavoro e tutto quello che ho per seguirli. È un'idea assurda.» «Io lo farei» sostenne lei con una certa veemenza. Serrai i pugni. «Farei qualsiasi cosa per tenermi stretta uno come Tristan, anche se significasse mettere da parte tutta la mia vita. Non pensi che lui ne valga la pena?» «So meglio di chiunque altro quanto vale. Lui è il mio mondo ma non mi chiederebbe mai di fare qualcosa del genere. Oltretutto, non ha detto una sola parola di questo tour.» Questa volta mantenere un tono educato mi era costato uno sforzo ben maggiore. Lei lanciò un'occhiata diretta in direzione di Tristan che ci dava la schiena cucinando, probabilmente ignaro della nostra conversazione. «Beh, dovresti chiederglielo. Non so perché non ti abbia detto niente, ma la band sta progettando un tour di tre mesi appena terminato di registrare.» «Tre mesi?» scoppiai a voce tanto alta che anche lui si voltò. Mi guardò interrogativo ed io scossi la testa. Ne avremmo parlato più tardi, idealmente una volta soli. Feci a mia sorella un sorriso piuttosto rigido. «Possiamo discuterne dopo. Troviamo un altro argomento, ok?» Tristan aveva preparato le enchiladas, che sapeva essere il mio piatto preferito. Io preparai la tavola mettendo tre bicchieri di acqua, uno per ciascuno, ma lui arrivò con una bottiglia di Jack Daniel's e se ne versò una dose generosa. Da quando ero rimasta incinta era migliorato molto in generale, ma il bere stava raggiungendo nuovi livelli. Fissai la bottiglia: l'alcool era diventato un problema. C'era stato un periodo in cui avevo creduto che fosse più l'uso occasionale di droga a preoccuparmi maggiormente, ma il bere ormai mi sembrava diventato lo scoglio maggiore. «Solo per sciogliere la tensione» mi spiegò lui con un sorriso affascinante, sparandomi le sue pericolose fossette. Pensai a come non gli fosse mai servito sciogliere la tensione in mia compagnia: gli bastavo io, specie durante una serata trascorsa a casa. Il cibo era ottimo e mi chiesi come fosse possibile che nulla di ciò che cucinava Tristan, riuscisse mai a scatenare quella che era nausea costante ormai. Arrivai al dessert prima di chiedere e fu comunque una lotta: «Allora, cos'è questa storia che ho sentito, di un tour di tre mesi?» Tristan si bloccò con un cucchiaio di torta al cioccolato a metà strada. Lo mise giù con aria imbarazzata mentre guardava mia sorella come se volesse rimproverarla. Non mi piaceva quella storia: se avevano passato assieme tempo a sufficienza per aver sviluppato una specie di linguaggio muto, la mia pace interiore ne avrebbe risentito. Cosa diavolo stava succedendo? «Il produttore discografico sta cercando di mettere assieme la cosa ma io non ho ancora firmato. Non mi sono impegnato in niente. Non sono sicuro di andare e ti avrei chiesto cosa ne pensavi.» «Sai, è divertente come dici sempre di non sapere cosa farai, ma sembri sempre finire col fare ciò che ti chiedono gli altri. Penso che tu abbia già preso la decisione ma non vuoi dirmelo perché sai che è un'idea terribile, che non approverò.» La sua mano coprì la mia sul tavolo. «Tesoro, ho preso la decisione adesso. Vedo che la cosa non ti va giù perciò non lo farò, punto e basta. Come ho detto, non ho mai dato il mio assenso, era solo una proposta dal produttore e non ho problemi a rifiutarla.» Suonava talmente convincente che mi lasciai illudere. Dahlia finì per addormentarsi sul divano invece che tornare a casa così tardi ed io mi ritrovai sola con Tristan nel bagno a lavarmi i denti prima di rivolgergli nuovamente la parola. «Perché non mi hai detto che vi conoscevate? Perché me l'hai tenuto nascosto?» Lui sputò, mettendo via lo spazzolino e i suoi occhi incrociarono i miei nello specchio. «Non volevo preoccuparti.» «Cosa vuol dire?» La sua fronte si aggrottò mentre si grattava la mandibola. «Non agitarti…» «Questa non è mai una buona premessa.» «Sì, lo so, hai ragione. Dahlia ha iniziato a venire a casa forse tre mesi fa. Capitava spesso. Ho cercato di metterla in guardia e di assicurarmi che i ragazzi sapessero che era off-limits ma non so… Pensavo che ti saresti preoccupata del fatto che stesse così tanto coi ragazzi. È molto carina, ma non ascolta. Speravo che una volta ritrovate, saresti riuscita a convincerla a usare il buon senso, ma lei continuava a rimandare l'incontro. Poi un po' di tempo fa ha smesso di venire a casa e ho pensato che il problema fosse risolto, ma ero preoccupato che il fatto di averci frequentato senza averti chiamata ferisse i tuoi sentimenti. Sono sollevato, sembrate comunque andare d'accordo.» «Anche voi due» borbottai e lui rise. «Immagino di sì. Quando ha iniziato a girare per casa, di solito io mi chiudevo in camera per evitare qualsiasi cosa Dean stesse macchinando, ma l'ho vista in giro un paio di volte. Davo per scontato che venisse per vedere uno degli altri, anche se non ti saprei dire chi.» «E mi ha anche detto che continuate ad avere le groupie in giro.» La cosa non mi sconvolgeva ma comunque non ero felice. «Sai che non…» «Sì, lo so ma non è questo il punto. Tu mi avevi promesso che avresti messo delle regole.» «L'ho fatto, ma questo non vuol dire che sia in grado di farle rispettare. Quando Dean le infrange, il giorno dopo non mi presento in studio, ma devo ammettere che sembro proprio fare il suo gioco. Credo che se rimanessimo impantanati così per sempre a lui non dispiacerebbe affatto. Le prime tre volte che si è portato a casa delle ragazze me ne sono andato in hotel ma nemmeno quello ha sortito effetto. A volte le butto fuori io stesso, ma sono ragazze. Ho preso a calci Dean ma a lui non frega un cazzo di quello che faccio. A questo punto potrei andarmene ma dovrei allo studio più di quanto io possa permettermi di pagare. Mi dispiace, ma è diventato un casino che non sono in grado di sistemare. L'unica cosa che desidero adesso è finire e uscire da questo giro.» «Come mai non mi hai mai raccontato niente finora? Va avanti da mesi?» Lui scrollò le spalle con aria infelice. «Ne hai già abbastanza a cui pensare. Che uomo sarei se non riuscissi nemmeno a gestire i miei stessi problemi, specie considerata la tua condizione?» «Non tornare e basta» gli proposi all'improvviso più che decisa, «È una cosa negativa per te, che ti sta consumando. Troveremo un modo per ripagare lo studio e se ti citano, abbiamo Bev e Jerry che possono aiutarci.» Lui si spostò dietro di me e accolse la mia pancia fra le mani molto delicatamente. «Si può fare. Terminerò il disco e tornerò a casa. Dobbiamo risparmiare per quando arriverà questo angioletto.» Gli feci un sorriso di estrema felicità. Quando parlava del bambino non ero in grado di trattenermi, mi scioglievo fra le sue dita. «Lei ha una bella cotta per te» lo informai dopo un po' con voce molto bassa. Non volevo certo che mia sorella mi sentisse attraverso le pareti. Tristan fece una smorfia, dimostrandomi che se n'era accorto. «Credimi: lo sopporto meno di te ma cosa posso farci? Devo essere gentile con lei, è tua sorella. Le ho già chiesto di lasciar perdere due volte. Lei ha smesso di venire a casa perciò penso abbia capito.» Almeno dal suo lato, la cosa mi lasciò soddisfatta. Da quello di Dahlia invece, non sapevo che pensare ma speravo che si facesse un quadro completo e andasse avanti. Tristan mi baciò il collo e una mano salì a stringermi un seno. «Tristan» lo avvertii, cercando invano di suonare severa, «Non possiamo, non con mia sorella sotto lo stesso tetto.» «Oh, diavolo, no. La butto fuori subito se deve andare così.» Alzai gli occhi al cielo. «Dovrai deciderti a superare questa tua timidezza. Presto avremo in casa un bambino: smetteremo di fare sesso solo perché saremo sotto lo stesso tetto?» Ci rimuginai sopra: non avevo ancora pensato a certe logistiche. «La risposta è no, Danika, non praticheremo certo l'astinenza. Se proprio devi, puoi cercare di stare in silenzio ma io non ho intenzione di tenere giù le mani, né stanotte né mai. E poi pensa a quanto sei sciocca, considera tutte le volte che l'abbiamo fatto a casa di Bev.» Aveva ragione, ma anche io avevo un punto da sostenere: «Ma l'appartamento è molto più piccolo e si sente tutto.» «Non m'interessa.» Anche quello era vero… Ero in grado di riconoscere una battaglia persa e così feci con questa, con dignità e sfortunatamente anche poco silenziosamente. Lui mi spogliò, mi sdraiò sul letto e mi lavorò con la lingua fino a farmi mordere una mano per evitare di gridare. Fu implacabile e solo quando mi lasciai finalmente sfuggire un gridolino, risalì coprendo il mio corpo scopandomi con forza. Una volta terminato, nessuno avrebbe avuto dubbi su ciò che era successo. Dubitavo che i vicini stessi non ci avessero sentito. «Sei un coglione, sembrava quasi che volessi farci scoprire.» «Beh, mettiamola così: non m'interessa se lei ha capito e adesso non hai più motivo di essere imbarazzata!» CAPITOLO VENTITRÉ DANIKA Alla fine fu colpa della stanchezza estrema. Avevo sempre così tanto da fare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Fra scuola e lavoro la mia vita era una maratona e non ero in grado di rallentarla. Non c'erano pause nemmeno per un riposino o un pasto decente. La spossatezza mi stava consumando ma essendo sempre stata una persona infaticabile prima della gravidanza, non avevo molta pazienza al riguardo. E così non le prestai le giuste attenzioni. Oggi se ci ripenso, mi assumo ogni colpa. Il senno di poi è sempre così brutale… Fu grazie a un passo falso che iniziò tutto. Ormai ero arrivata quasi al quinto mese. Non indossavo più roba aderente per non far notare la pancia visibile. Preferivo magliette larghe e felpe che potessero nascondere la gravidanza a Bev, pur sapendo che non ci sarei riuscita ancora per molto. Sapevo che mi stavo comportando da codarda ma detestavo l'idea che lei fosse delusa da me. Quindi, nessuno sapeva tranne me, Tristan e Leticia. E Tristan c'era sempre poco. Erano le quattro del mattino di un venerdì e lo stavo aspettando al suo appartamento, dove sarebbe dovuto tornare quel pomeriggio. Aspettare era un verbo eccessivamente positivo. Sperare era più adeguato… Lui mi aveva detto che sarebbe tornato ma ormai quel che diceva e quel che faceva erano due cose diverse ed io sapevo di avere il cinquanta per cento delle probabilità di non rivederlo fino a notte inoltrata. Dopo lo stupore iniziale dovuto alla gravidanza, per un po' era stato puntuale ma terminato il disco, cosa che entrambi desideravamo, lui era tornato a casa. Purtroppo i miei impegni non erano certo migliorati né rallentati. Anzi, il contrario e il nostro tempo assieme non era ancora tanto quanto avrebbe dovuto essere; così Tristan si era ritrovato con troppa libertà fra le mani, una cosa pessima per uno come lui. Riuscivo a capire col passare dei giorni che la cosa non avrebbe funzionato e dopo qualche settimana alla ricerca disperata di un qualche equilibrio, gli avevo detto di andarsene in tour. Quindi, a suo discapito, eravamo tornati a una routine a lunga distanza e lui si era ritrovato in viaggio. Le registrazioni a Los Angeles erano state un danno per lui, ma il tour era peggio. Ormai mancavano solo tre settimane e stavo contando i giorni. Ero rimasta in piedi fino all'una della mattina per studiare, con l'intenzione poi di incontrarmi con un gruppo di studio per qualche ora prima delle lezioni. Era stata una settimana pesante. Mi feci una doccia lampo entrando e uscendo di corsa e sfortunatamente, nel tentativo di evitare il bordo della vasca, traballai cadendoci dentro. I piedi mi scivolarono via, prima uno poi l'altro ed io mi ritrovai a piegarmi su me stessa. Buttai le mani in avanti cercando di salvarmi ma il bordo mi colpì allo stomaco togliendomi il fiato. Le parti metalliche che formavano le guide della cabina doccia mi graffiarono la pelle. Mi accoccolai nella vasca accarezzandomi la pancia e piangendo per via della mia goffa disattenzione. Ero profondamente scossa. Mi ci volle così tanto per asciugarmi e vestirmi, per infilare ogni singolo pezzo da seduta, che arrivai quasi un'ora dopo al gruppo di studio ma le cose parvero sistemarsi e la mia giornata proseguì. Non sembravano esserci sviluppi preoccupanti e quello mi dava sicurezza del fatto che la caduta non avesse procurato danni permanenti. Verso le cinque del pomeriggio iniziai ad avere dei crampi. Non erano molto forti ma chiamai comunque l'ambulatorio medico, parlando brevemente con un'infermiera all'apparenza annoiata e impaziente. Le spiegai il mio problema con tono incerto. Detestavo discuterne ad alta voce, come se ammettere un possibile intoppo con il bambino volesse dire dargli maggiore valenza. Non volevo che quella mia paura diventasse tangibile. Sentii la gomma schioccare nel mio orecchio prima che la voce stanca menzionasse una spiegazione sulle contrazioni di Braxton-Hicks e sui fattori da tenere presente prima di agitarmi e andare all'ospedale. La salutai in uno stato di annebbiamento e lei riappese. A quanto pareva avevo esaurito il mio tempo disponibile per parlare con l'infermiera. Chiamai allora Tristan, bisognosa di parlare con qualcuno, nonostante lui non fosse certo l'unica opzione possibile. Non ebbi risposta, né alle cinque né alle sei. Né tantomeno alle sette. Alle otto iniziai a notare qualche macchiolina di sangue. Non richiamai l'infermiera pensando che avrei preferito andare in ospedale piuttosto che ascoltare di nuovo quel suo tono scocciato. E comunque, nessuno dei miei sintomi era troppo grave. Tornai a casa di Tristan e i crampi peggiorarono, anche se non eccessivamente. Nell'appartamento non c'era anima viva: né lui né Dean. Alle dieci mi ritrovai piegata a metà da un dolore lancinante. Il sangue non si era arrestato. Non sapevo chi chiamare, non volevo far vedere a nessuno quanto fossi stata irresponsabile. Mi ero fatta mettere incinta da un uomo che non si faceva vivo quando diceva che lo avrebbe fatto e che nemmeno rispondeva più alle mie telefonate. Sapevo che non avrebbe dovuto esserci così tanto sangue ma era normale che le donne incinte manifestassero dello spotting, no? Non sapevo cosa fare. Dovevo chiamare un'ambulanza? L'ospedale non era così lontano e oltretutto, dopo aver chiamato Tristan e avergli mandato sms a ripetizione nelle ultime cinque ore, il mio cellulare era morto. Dean e Tristan non si erano mai preoccupati di avere una linea fissa, chi mai l'aveva al giorno d'oggi con tutti i cellulari che c'erano? Però ero sola e non avevo il carica batterie dietro. Non andai nel panico. Mi sentivo troppo stanca, troppo letargica per quello. Il panico richiedeva un eccesso di energie. Il sangue non era poi tanto, mi ripetei. Mi sdraiai premendomi addosso un asciugamano nella speranza di fermare l'emorragia con quel tamponamento. Era peggiorato all'improvviso? Lo si poteva ancora definire spotting? Ormai era un flusso continuo e preoccupante. Mi accarezzai lentamente il ventre arrotondato chiudendo gli occhi: volevo questo bambino, pensai. Era la cosa più simile a una preghiera: ti prego, lascia che abbia il bambino. Non avevo mai desiderato qualcosa così tanto, nemmeno l'amore di Tristan. TRISTAN Kenny mi lasciò sul marciapiede davanti al mio palazzo. Ero stracotto. Sapevo che poi l'avrei pagata ma al momento non provavo dolore e un po' di rotture varie mi sembravano un prezzo equo per quello stordimento necessario. Sapevo di avere ricevuto degli sms di Danika, ma era di nuovo incazzata con me e la nostra ultima conversazione era iniziata e finita con lei che mi accusava di essere inaffidabile. Era più di quanto riuscissi a sopportare al momento. Mi ci volle un po' per pescare le chiavi di casa dalla tasca e riuscire ad aprire la porta. Incespicai più volte per arrivare in camera. Avevo appena iniziato a slacciarmi i jeans quando guardando il letto, nonostante il buio mi resi conto di non essere solo. «Danika» la chiamai dolcemente. Non volevo svegliarla in caso dormisse, né certo che mi vedesse di nuovo così se potevo evitarlo. Mi sdraiai al suo fianco ancora completamente vestito, allungando una mano per trovare la sua. Le dita erano flaccide, il palmo gelato. Mi avvicinai di più. Anche completamente andato, il mio primo istinto era riscaldarla. Scivolai sotto le coperte abbracciandola. Era talmente addormentata che non si mosse nemmeno. Dimenticando il fatto che non intendevo svegliarla, spostai la mano lungo la sua maglietta e il corpo, partendo da uno dei seni rotondi, poi sul ventre incontrando una resistenza a forma di asciugamano appallottolato fra le sue gambe. Impazientemente, cercai di penetrare gli strati di tessuto ma m'immobilizzai quando le mie dita toccarono qualcosa di umido e freddo. Il mio cuore iniziò a battere furiosamente, il suono più chiaro di quella stanza altrimenti silenziosa. Arretrai, tornando immediatamente sobrio ma non per questo più agile. Incespicai per arrivare alla parete e accendere la luce mentre montava il panico. Con quelle mie attenzioni primitive le avevo tolto le coperte di dosso e la prima cosa che notai fu il sangue. Tanto sangue. Il mio respiro s'incagliò nei polmoni mentre tornavo da lei, appoggiando le dita tremanti sul suo collo. Chiusi gli occhi dal sollievo quando sentii un debole battito. Deglutii a fatica dando un'altra occhiata al suo corpo: c'era davvero troppo sangue. L'asciugamano che aveva arrotolato fra le cosce era impregnato e sotto, anche le lenzuola. Troppo, troppo sangue. Cercai a fatica il cellulare nella tasca. Non ricordo di aver chiamato il 911, o di aver parlato e non so nemmeno quanto tenni il cellulare all'orecchio prima di chiudere la conversazione. Ero terrorizzato all'idea di muoverla perciò mi raggomitolai su di lei per provare a riscaldarla, tirando giù la sua maglietta per quanto possibile. Le accarezzai i capelli mormorandole parole rassicuranti all'orecchio che tuttavia erano a mio unico beneficio. Lei continuava a non reagire nemmeno al tocco delle mie mani riverenti e consolatrici. Non ero mai stato tanto spaventato, un terrore assoluto che mi stordiva. Riuscivo a sentire i denti che battevano producendo un rumore che sembrava riempire la stanza: click- click-click. La coprii fino al mento controllandole nuovamente le pulsazioni. Click-click-click. Il tempo rallentò fino a che mi parve di aspettare per ore ma lei non si svegliò. Alla fine percepii il suono dell'ambulanza che arrivava. A Las Vegas era piuttosto comune, ma in quel momento fu davvero benvenuto e mi spinse a muovermi. Mi assicurai che la porta non fosse chiusa a chiave, poi cambiai idea e la spalancai del tutto. Ero da lei quando i paramedici entrarono, rumorosi ma efficienti. Rimasi con gli occhi incollati su Danika, alla ricerca disperata di un suo segno di vita. Si agitò quando la spostarono dal letto alla barella, le sue mani le caddero dal ventre e il mio stomaco si attorcigliò. Forse era colpa dello stato in cui ero rincasato o dello choc, ma solo in quel momento mi resi conto che il bambino era in pericolo. Mi ero talmente concentrato su Danika da non prendere quell'ipotesi nemmeno in considerazione prima. No. Mi rifiutavo di pensarci. Di pensare a entrambe le ipotesi: non potevo accettarlo, non dopo tutto il resto. Ultimamente ero stato strano, lasciando correre un mucchio di cose ma questo, questo era troppo. Un pensiero insopportabile: io volevo la nostra famigliola. Ne avevo bisogno. Danika si riprese in ambulanza. Pianse, gridò e imprecò mentre quella piccola vita scivolava via da lei, ma alla fine rimase inerme come me. Ore dopo, sconfitta, finalmente trovò un po' di pace con l'aiuto di alcuni antidolorifici ed io passai la notte più lunga della mia vita all'ospedale domenicano St. Rose, dove perdemmo nostro figlio. Non avrei mai creduto che la vita fosse in grado di buttarmi addosso qualcosa che potesse distruggermi quanto la morte di Jared, ma l'aveva fatto. La perdita di mio fratello aveva scavato un piccolo buco nel mio cuore lasciandolo a sanguinare in modo lento e costante, ma questa… questa era un'emorragia. La mia mente si concentrò con morbosa determinazione su ciò che avrei potuto fare diversamente. Seduto nella stanza dell'ospedale il più possibile vicino a Danika addormentata, scorsi ogni singola chiamata persa, ogni messaggio che avevo ignorato: mi aveva cercato per ore ma io non mi ero fatto vivo ed era successo questo. Nessuna donna avrebbe dovuto affrontare un evento simile da sola. Il suo cellulare si era scaricato, gliel'avevo sentito dire a fatica ai paramedici e lei era rimasta lì, alla deriva, nessun soccorso all'orizzonte. Non importava in che modo la mettessi: era colpa mia. Continuai a vegliare quel corpo sdraiato per tutta la notte, odiando me stesso, avvelenandomi in maniera permanente con quel sentimento negativo. L'orrore assoluto del trovarla così, del non sapere se sarebbe vissuta o meno, si era trasformato in dolore per la perdita e alla fine, in una pacata decisione. Cosa stavo facendo, cosa stavo pensando? Avevo il diritto di continuare a tenere questa bellissima creatura dal futuro luminoso, in quel casino che era la mia vita? Ero forte abbastanza da lasciarla andare? Non avevo risposte o almeno non di quelle che potevo ammettere al momento. Avevo già perso troppo. Quando finalmente lei si risvegliò, mi guardò a malapena. Le chiesi come stesse e lei chiuse gli occhi mentre le lacrime sgorgavano dalle palpebre serrate. Mi odiava anche lei? Non avevo il coraggio di chiedere. «Mi dispiace così tanto, tesoro» le dissi stringendole una mano e piangendo con lei. Stavamo tornando a casa quando finalmente si lasciò andare. «Era un maschietto» sussurrò in pena. Accostai la macchina. Mi tremavano le spalle. La sua mano mi sfiorò un braccio, mi voltai e presi a singhiozzare col viso nascosto nel suo collo. «Jared Jeremiah Vega» disse poi distrutta. Ed io con lei. «Jeremiah per Jerry?» domandai quando finalmente trovai la forza. La sentii annuire contro la mia guancia. «Era un nome perfetto, Danika.» Aveva continuato a piangere sommessamente ma iniziò a singhiozzare, un profluvio di lacrime incontenibili. «È tutta colpa mia» accusò, «Sono caduta nella doccia l'altra mattina e sono andata avanti come se niente fosse, pensando di stare bene. Sarei dovuta andare all'ospedale e non sarebbe successo niente di tutto questo. Avremmo ancora il nostro piccolo.» Non riuscivo a sopportare che si incolpasse per un incidente. «No, no, no» le sussurrai teneramente fra i capelli, «Non è colpa tua. Non dirlo, è insostenibile. La colpa è mia, avrei dovuto essere lì con te.» Lei protestò, dicendomi che non era così ma non le credetti, non so se per colpa del tono o per via della mia coscienza. La tragedia non riscuoteva mai la sua libbra di carne tutta per intero. Ci metteva un po' tra il colpirti direttamente, l'essere digerita e in casi importanti come questo, per far venire a galla una reazione autentica. Questa perdita non aveva ancora terminato di infierire su di noi. CAPITOLO VENTIQUATTRO DANIKA Dopo quell'evento la caduta per noi diventò lenta, libera e inesorabile. C'erano giorni nei quali mi arrabbiavo con ogni fibra di me stessa e altri nei quali ero stordita come Tristan ma senza aver bisogno dell'alcool. L'aborto aveva prodotto molte lacerazioni, tanti piccoli pezzettini di noi due che andavano ricuciti. Solo che non c'era più filo sufficiente per entrambi. A malapena bastava per uno di noi. Tristan era spesso assente ed io non avevo persona con cui condividere il dolore, che mi confortasse. Non l'avevo detto né a Bev né a Jerry. Per quanto ne sapevano, avevo semplicemente passato qualche giorno a casa di Tristan, nulla fuori dall'ordinario. Non riuscivo a parlarne e sebbene lo sguardo amorevole di Bev mi suggerisse che sapeva di qualcosa che non andava, non lo ammisi mai ad alta voce. Andai a casa di Tristan durante una delle sue rare visite in città. Avrebbe dovuto aspettarmi, ma era ovvio che non fosse pronto quando entrai in camera. Lo trovai solo, appoggiato alla testiera del letto. Si vedeva chiaramente che era cotto. Non sapevo di cosa fosse fatto e non domandai: il mezzo non era importante quanto la causa e il fatto che ora lui non si nascondesse più, quando aveva sempre usato una sorta di filtro per il mio bene. Si capiva che aveva semplicemente gettato la spugna. Non battei ciglio né evitai di guardarlo dritto negli occhi iniettati di sangue o di osservare le mani tremanti mentre accendeva una sigaretta, cercando senza successo di restituirmi lo sguardo. Assorbii tutto nella sua brutale realtà e mi ritrovai a piangere e a chiedergli con voce tremante: «Cosa posso fare? Dimmelo e lo farò. Dimmi come posso aiutarti.» E salvarti, pensai. Lui non fece una sola piega. La sua sensibilità e i suoi sentimenti per me erano arrivati a un tale grado di deterioramento o semplicemente era troppo fatto. Potevano essere l'una, l'altra o entrambe le cose. Quando rispose, la sua voce era vacua. Non c'era nulla, nemmeno l'ombra di ciò che avrebbe dovuto provare in risposta al mio dolore. «Non puoi. Non posso nemmeno io.» «Beh, qualcosa deve riuscirci. Non ti rendi conto di quello che ti stai facendo? Non vedi cosa fai a me, non t'importa di distruggermi?» «Cosa vuoi da me?» domandò con voce un po' più animata. «Tutto» gridai adirata e distrutta, «Tutto quello che mi hai promesso e di cui ho bisogno. Ciò che sono disposta a darti è ciò che voglio da te. Non puoi farlo per me, Tristan? Non ti è rimasto niente?» Lui scosse semplicemente la testa e i suoi occhi si chiusero. Tanto valeva discutere col letto. ll giorno dopo non ricordava nulla, ma io sì. Avevo memoria di ogni cosa: non c'erano droghe a stordirmi, a farmi dimenticare. Non avrei mai scelto quella strada perché non ne sarei uscita. E forse, non ci sarebbe riuscito nemmeno Tristan. Iniziai a notare un cambiamento graduale anche dentro di me. Ero meno me stessa o meglio, ero più una versione diversa di me. Divenni meno Danika, la ragazza forte che lavorava sodo per costruirsi un futuro, e mi trasformai più in Dani, l'ombra di quella che ero stata da bambina, l'affamata d'amore che non ne aveva mai avuto abbastanza. Mi ritrovai dentro i miei vecchi schemi d'infanzia, quelli concessivi. Tristan non era mia madre: la nostra relazione ovviamente era di diversa natura e lui mi aveva amato molto più di quanto non avesse mai fatto mamma; ma io stavo tornando a essere quella che ero stata durante il periodo in cui lei si era presa cura di me; o meglio, io di lei. La prima volta che me ne resi conto mi venne una tale nausea che finii per vomitare la cena nel bagno. No, pensai, ti prego, no. Io lo amo e lui ama me. Possiamo farci reciprocamente del bene. A lui serve solo più tempo. Questa frase tristissima divenne un mantra nella mia mente: vivevo per gli "e se" e i "se solo". Divenni quella che pensavo Tristan volesse che fossi, invece di pensare a ciò che serviva a me. Il potere che aveva su di me era arrivato a un tale livello debilitante ma ero io che gliel'avevo concesso, assieme al mio cuore. Conoscevo la depressione, avevo sofferto di diverse forme in gioventù ma quella che mi assalì fu paralizzante. Ai picchi maniacali estremi, seguivano quelli più prostranti. Per la prima volta in vita mia iniziai a fantasticare di morire. Non di mettere necessariamente fine alla vita, quanto piuttosto alla pace, alla tranquillità dell'atto. Era un periodo buio per me, la fase più nera che avessi mai sperimentato in cui i pensieri prendevano sempre una piega contorta, morbosa. Guardavo i ventilatori sul soffitto e mi vedevo impiccata. Ogni incrocio sul quale passavo andando a scuola era una potenziale opportunità per mettere la parola fine al mio dolore. Una manciata di antidolorifici serviva improvvisamente a un nuovo scopo nella mia mente. Pensavo a come la vita sarebbe andata avanti senza di me quasi con ossessione: forse la mia morte avrebbe funto da sveglia per far sì che Tristan si rimettesse in carreggiata. Magari gli sarei mancata così tanto che mi avrebbe seguito in un posto migliore, dove il peso dei dispiaceri era meno gravoso. Ci sarebbe stato anche Jared e il nostro piccolo che qui era a malapena formato, sarebbe stato vivo e perfetto. Avremmo potuto toccarlo e chiamarlo per nome e le cose sarebbero andate meglio. Sfortunatamente, ci pensò un'altra tragedia a farmi uscire dal buco nero della depressione. Come se i miei stessi pensieri morbosi avessero acquisito sostanza, il colpo seguente parve derivare dai miei stessi incubi: Leticia fece ciò su cui io mi ero fissata. Dire che non aveva preso bene la notizia dell'aborto era semplificare: mi aveva chiesto di non andare più a trovarla ed io non ne ero stata ferita, solo preoccupata perché sapevo quanto bisogno avesse di quel sostegno che rifiutava. Io stessa ne avevo poco da distribuire ormai, perciò la lasciai in pace senza discutere. A posteriori, avrei dovuto combattere ma non avrei mai saputo se le cose sarebbero cambiate. Le nostre scelte sono personali e quella di Leticia fu impulsiva e permanente. Tristan era venuto a trovarmi a casa e all'inizio avevo pensato che fosse finalmente pronto per stare meglio e volesse il mio aiuto. Quando aprii la porta e lo vidi in faccia però, seppi di essere in pieno torto. Lo condussi in camera mia senza dire una parola, sedendo sul bordo del letto al suo fianco. Lui mi prese la mano guardandosi il grembo ed io passai l'altro braccio attorno alle sue spalle, accarezzandogliele con affetto. Non sapendo più cosa dirgli ormai, lasciai che il silenzio ci tenesse compagnia. L'aborto aveva tolto anche a lui la voglia di lottare, senza contare tutto quello che aveva passato in precedenza. Alla fine, dopo un'eternità passata ad accarezzargli la schiena e le spalle, lui rabbrividì sotto le mie mani e lo disse. All'inizio riuscii a malapena a capire le sue parole inframmezzate a bassi mugugni e singhiozzi affannosi. «Oh, no» sussurrai mettendo insieme i pezzi. Mi voltai verso di lui, stringendolo contro il mio corpo, sdraiandomi e obbligandolo a sistemarsi sopra di me. Lui non fece alcuna resistenza continuando a parlare a bassa voce di sua madre, la sua povera madre tutta sola, che aveva messo fine alla sua vita con un flacone di sonniferi. Lo consolai, in fondo era quello il mio compito. Ma la mia reazione iniziale, quella viscerale, fu di rabbia profonda: come aveva osato? Come aveva potuto essere così egoista e fare questo al mio povero, caro Tristan? Era una soluzione così drastica per i suoi problemi, difficile da immaginare, dura da digerire. Leticia era sempre stata una donna piena di conflitti, gli stessi che io provavo nei suoi confronti: le volevo bene sinceramente, e dentro al vero amore c'era sempre spazio per il perdono ma il modo in cui aveva trattato Tristan mi faceva infuriare e tuttavia dispiacere per lei. Sempre, anche in quel momento. Alla fine, quella prima reazione fu di breve durata. Più di tutto provavo pena per lei: tutti eravamo arrivati a un punto di rottura nella vita ma lei aveva ricevuto troppi colpi, vissuto troppe tragedie perché la sua debole mente riuscisse a sopportarle. Parlare al suo funerale fu come vivere nuovamente il passato, con la differenza che io e Tristan eravamo gli unici presenti. Il suicidio era sempre un argomento delicato. «So che non era perfetta. Ho ben chiari i suoi difetti, ma era una donna affettuosa. Amava con tutto il suo enorme cuore e quando quel cuore si è spezzato, ci ha lasciati.» Mi rivolsi direttamente a Tristan: «Lei ti voleva bene, so che era così. Era accecata dal dolore ma sono certa che nei suoi momenti lucidi, ti adorasse e fosse orgogliosa di averti come figlio. Io sono nessuno in questo mondo, so poco di Dio, delle stelle e della vita ultraterrena ma sono certa di questo: da qualche parte, la sua anima è ancora viva e ti custodisce. C'è un posto in cui sono tutti, Jared, nostro figlio e tua madre. Il mio rapporto con Leticia è stato breve ma profondo. Mi ha fatto sentire amata. Anzi: so che mi ha voluto bene e questo ha significato molto per me. Non importa se è egoismo: la sua morte non dovrebbe avere più importanza della sua vita, perciò ricordiamocela per come ci ha voluto bene e non per il modo in cui se n'è andata.» Tristan mi guardò annuendo, gli occhi lucidi e la mascella tremante. Stava soffrendo ma io avevo colto nel segno e mi sentii gratificata dall'essere riuscita a dargli un po' di respiro nonostante quel buco nero che era diventata la sua mente. Per quanto terribile, la tragedia di Leticia servì a uno scopo, almeno per me. Fu come se la nebbia che mi offuscava il cervello si fosse sollevata ed io fossi nuovamente in grado di pensare. Faceva ancora male: avevo un cuore pieno di dolore per ogni perdita, ma ricominciai a vivere, ad alzarmi, a muovermi. A compiere piccoli passi nella giusta direzione. Sola. CAPITOLO VENTICINQUE DANIKA Il declino di Tristan dopo questo avvenimento fu inarrestabile. Ogni tragedia sembrava risucchiarlo un po' più a fondo nelle spire del suo inferno personale. Sembrava che ogni errore, ogni ricaduta lo trascinasse giù fino a che il peso di tutti i nostri fallimenti ci seppellì. All'inizio affogammo insieme ma il mio istinto di sopravvivenza era troppo forte per continuare così a lungo. La mia presa su di lui divenne sempre più debole e alla fine ogni dito si spezzò e la mano si aprì, lasciandolo andare. Nessuno avrebbe potuto dire che non avessi lottato per lui. Nessuno avrebbe potuto affermare che non avessi perso. Entrai nel suo appartamento arrabbiata, frustrata e delusa. Ormai erano questi i sentimenti ai quali mi ero abituata per quanto riguardava Tristan. Mi aveva di nuovo dato buca: avremmo dovuto incontrarci per cena due ore prima e lui invece era lì solo, spaparanzato sul divano. Notai che stava giocando con un piccolo braccialettino nero simile a quelli che indossava Jared. Li avevamo distribuiti al funerale del fratello e la cosa non mi sorprese. Tuttavia, ero comunque arrabbiata. Ultimamente tutto, dalla paura alla disperazione, al bisogno di aiutarlo, sembrava convogliare in una rabbia amara che mi teneva sveglia la notte. Stavo cercando di esserci per lui, ma chi c'era per me? Il suo sguardo appannato puntava al soffitto. «Lo so perché lo stai facendo, non credere che non l'abbia capito. Il dolore è tale che faresti di tutto per attutirlo. Ti fa talmente male che sei disposto a perdere ogni cosa pur di mandarlo via.» Lui rimase in silenzio continuando a far girare il braccialettino e fu proprio quel silenzio a parlare. «Lo capisci a che punto sei arrivato o non ti interessa nemmeno più?» Silenzio. «Ti dice qualcosa il fatto che ho già pensato a come sarà il tuo braccialetto quando lo seguirai?» Lui smise di tormentarlo per un breve attimo poi riprese, sempre muto. «Ho deciso che sarà un mazzo di carte. Ti piace l'idea? Puoi dire di no ovviamente, dato che stiamo parlando del tuo funerale» e su quella parola la mia voce cedette. Tristan sospirò e finalmente spostò gli occhi dal soffitto al mio viso, guardandomi con aria terribilmente seccata considerato che era fatto fino al midollo. «Pensi che lui lo vorrebbe? Vorrebbe che tu lo seguissi? A Jared non serve che lo imiti, Tristan e nemmeno Leticia ti vorrebbe là dove sta adesso. Nostro figlio…» singhiozzai e dovetti fermarmi per riprendermi. Ancora non riuscivo a parlare del nostro angioletto perduto senza crollare. «Nostro figlio non ha bisogno che tu lo raggiunga. Forse adesso non c'è più nulla che tu possa fare per lui, ma io ho bisogno di te. Io sono qui e ti sto chiedendo di smettere di inseguire questi fantasmi e ricominciare a vivere con me.» «Tu non hai bisogno di me. A te non serve anima viva Danika, sei più forte di tutti noi e sei migliore senza di me.» «Non cominciare. Ti dico solo questo e poi ti lascio stare: è finita Tristan. Questo è l'ultimo avviso: se ti ritrovo in questo stato, ho chiuso. Volevi un ultimatum, l'hai avuto.» Tornai a casa con le spalle incurvate sotto un peso eccessivo. Mi stesi a letto e non mi rialzai per ore, per giorni. Cosa restava di una donna che aveva dato tutto al suo uomo? Non era una risposta facile e impossibile da negare persino per me: nulla. Di lei, rimaneva il nulla. Avevo dato troppo? C'era ancora qualcosa da usare per provare ad andare avanti? Mi domandai anche se fosse successo questo a mia madre, provando per la prima volta da anni, un accenno di compassione nei suoi confronti. C'era stato un qualche uomo che l'aveva distrutta nello spirito, rendendola un guscio quando se n'era andato? Ed io, mi sarei lasciata trasformare a mia volta in un fantasma apatico? No, pensai furiosamente. Io ero più forte, avrei combattuto fino alla fine. Anche se ero riuscita a determinare fin da subito cosa mi avrebbe trasformato in una come lei, non significava che lo sarei diventata. Io possedevo un'innegabile qualità che avevo scoperto fin da quando ero una bambinetta senza amore: sapevo sopravvivere. E così, cercai di ripartire da quello. TRISTAN Era a casa mia che si agitava dentro la mia cucina, di nuovo incazzata. Mi portò una tazza di caffè che sorseggiai ascoltandola sfogare la sua frustrazione in cucina. Feci una smorfia udendo il rumore di qualcosa che si rompeva e improvvisamente ebbi l'illuminazione che non fosse colpa delle nostre separazioni. Lei sembrava infastidita sì, stressata e occupata ovviamente; ma il dolore nei suoi occhi e la rabbia non erano causati dalla mia assenza, quanto dalla mia presenza. Fu una scoperta che mi devastò, accendendo una luce in me. Non fu una lampadina ma una vera e propria ondata luminosa, che colpì rischiarando tutto quello che non volevo vedere, ogni angolo oscuro e sinistro della mia pietosa esistenza. I fatti erano la luce ed io li avevo ignorati troppo a lungo. La mia esistenza era maledetta: le persone che amavo, quelle che mi stavano vicine e dipendevano da me erano morte ed io ne ero responsabile. Per quanto mi riguardava, ogni singola morte sarebbe stata evitabile ma io avevo fallito in quello. Non avevo futuro, questo ormai mi era chiaro da un po'. Quello che però mi divenne lampante, facendomi accapponare la pelle per la sua limpida semplicità, fu il pensiero che Danika non fosse obbligata a condividere il suo con me. Non doveva essere trascinata sul fondo dell'abisso assieme a me. Ero stato egoista a volerla trattenere sulla nave che colava a picco, lei meritava molto di più. Cosa avevo pensato di fare portandola nella mia vita incasinata? Come avevo mai potuto credere che sarei stato abbastanza per lei? Tornò in camera con un piatto e del cibo che poggiò sul comodino prima di sistemarsi davanti a me, le mani ai fianchi. Misi la tazza sul pavimento e la presi per la vita. Indossava dei jeans aderenti a vita bassa e nascosi il viso contro la pelle nuda, fra la linea della sua biancheria e quella della maglietta. Potevo davvero farlo? Di certo non avrei potuto resistere senza toccarla almeno un'ultima volta. Le sue mani s'infilarono fra i miei capelli, tirandoli. Da quel semplice tocco si capiva che stava tenendo a freno la sua rabbia. Non era mai stata arrabbiata con me per tanto tempo, a prescindere da quanto lo meritassi. La baciai sulla sua pancia perfetta. «Danika» sospirai contro la sua pelle. Le mie braccia si strinsero attorno al suo corpo, «Non possiamo andare avanti.» Lei s'irrigidì poi si rilassò, accarezzandomi i capelli. «Bevi dell'altro caffè, Tristan. Torna in te prima di ricominciare a dire sciocchezze.» Le baciai ancora la pancia, chiudendo gli occhi e facendo appello a una forza che non credevo di avere. «Non funziona, Danika. Lo sai meglio di me.» «Smettila» disse tagliente, tirandomi la testa all'indietro per obbligarmi a guardarla. Sussultai ma lei fu implacabile. Mi baciò e si sdraiò accanto a me. Grugnii sistemandomi sopra di lei, bisognoso di sentirla contro di me più di tutto il resto, anche se per l'ultima volta. «Mi dispiace» sussurrai sul suo viso, «Ho chiuso.» Non riuscivo a sopportare nemmeno per un secondo il suo sguardo, quegli occhi feriti che mi condannavano, quella bocca contratta dalla rabbia. «Smettila» mi intimò ma questa volta la sua voce era debole, incerta. Eppure non aveva ancora finito di dare il tormento a entrambi: sollevò la testa premendo le labbra sulle mie ed io la accolsi con un mugolio roco. Quando l'avrei lasciata andare, si sarebbe portata via un'altro pezzo importante di me. Non c'era nulla che potessi fare o cambiare. «È finita, tesoro» ripetei quando ci staccammo per riuscire a respirare. «No» protestò flebilmente. Ci baciammo ancora, lei mi sfilò la maglietta ed io feci lo stesso con lei, le mie mani vagavano libere sulla sua pelle nuda. Mi prese l'erezione stringendola ed io mi spinsi contro il suo palmo. Ero solo un essere umano pieno di difetti… Spogliò entrambi, attirandomi sopra di sé ma non la penetrai. Rimasi appoggiato su di lei, i nostri corpi perfettamente incastrati, i nostri cuori che battevano furiosi uno contro l'altro e la mia erezione che pulsava lungo la sua fessura. Era la tortura più squisita che potesse esistere. Quando tutto il resto fallì, diventai quel tipo di bastardo che sapevo lei avrebbe odiato. Strinsi gli occhi come se mi stessi preparando a ricevere un cazzotto e nascosi il viso nel suo collo. «Penso che sia meglio starmene da solo. Questa cosa del legame proprio non fa per me.» Lei iniziò a singhiozzare ed io la abbracciai. Mi baciò continuando a gemere. La ricambiai con gli occhi sempre chiusi. «Perché Tristan, perché fai così?» «Dobbiamo fare quel che è meglio per noi e a questo punto delle nostre vite non siamo l'ideale insieme.» Utilizzai il noi perché lei non avrebbe mai accettato di essere da sola in quello; ma era una menzogna oltre che la mia unica speranza. «Questo matrimonio è stato un errore.» Lei tremò sotto di me, muovendo i fianchi per spingermi dentro di sé. I suoi gemiti diventarono dolci sbuffi delicati contro la mia guancia. Con un rantolo roco sprofondai dentro di lei fino alla radice. Stavo morendo e in quei miei ultimi spasmi, mi concessi di possederla ancora una volta. Ogni stoccata fu una dolce agonia, ogni suo grido un insieme di dolore e piacere. Riversai la mia soddisfazione dentro a quel suo piccolo corpo perfetto e un flusso di disprezzo nei confronti di me stesso condì ogni singolo movimento. Una volta terminato, la mia pelle si sarebbe dovuta ammantare di vergogna. Il senso di colpa non avrebbe dovuto permettermi di riposare più. Ma quei condizionali non avevano importanza… Venni dentro di lei e lì rimasi, crollando dal sonno. Quando mi risvegliai quattordici ore più tardi, lei era sparita. DANIKA Era sdraiato sopra di me, dentro di me. Addormentato. Rimase così per tutta la notte ed io non mi mossi intenzionalmente. Respirai chiudendo gli occhi e pensando che non avrei mai dimenticato questa sensazione di lui sopra e dentro di me, che mi consumava prima di lasciarmi andare. Era troppo insensibile, si era spinto eccessivamente oltre per rendersi conto che non mi sarei mai liberata di lui, che tutto ciò che aveva fatto era stato mandarmi alla deriva. Non mi ero mai sentita così male… quel senso di abbandono disarmante e d'insopportabile desiderio sarebbero rimasti con me per minuti, ore, giorni, settimane, mesi. Per anni. Ripresi la mia vita superando tragedia, dolore e difficoltà ma il mio cuore e la mia anima rimasero dentro quel letto. Quell'ultimo incontro mi lasciò a pezzi, distrutta. Parti di me erano sparse fra quelle lenzuola, pezzi essenziali che non sarebbero mai tornati insieme, mentre io continuavo ad andare avanti. La vita è così crudele… I fatti erano anche troppo chiari quando riuscivi a vederli attraverso il filtro anestetizzato di un nuovo dolore, in quel breve lasso fra la negazione e l'agonia. Avevo due percorsi distinti davanti a me: uno era dolorosamente chiaro, lastricato di brutali certezze. Potevo andare avanti: avrebbe fatto male, distruggendo parti di me ma mi avrebbe condotto a un futuro. Non era la strada che avevo desiderato, ma la vita non ti dava mai ciò che volevi, era solo una questione di vivere con quello che ti serviva. Tristan iniziò a chiamarmi una settimana dopo scusandosi, cercando di convincermi a riprenderlo indietro ma io non cedetti mai. Non risposi. Non potevo farlo. Lui aveva troppe armi che avrebbe potuto usare contro di me senza sforzo. Armi contro le quali io ero indifesa. L'unico modo per sopravvivere sarebbe stato evitarle del tutto. Spedii Jerry da Tristan con le carte per il divorzio e una lunghissima lettera in cui mettevo a nudo il mio cuore, spiegandogli ogni azione e dandogli una scelta: separazione o riabilitazione. Doveva decidere. Non sopportavo di rivederlo, non ero in grado di rimanere stabile avendo sotto gli occhi la prova tangibile di come lui si stava devastando. C'era ancora un pezzetto di me al quale aggrapparmi per salvarmi e in un ultimo sforzo, dovevo almeno provare a farlo. Se non avessi risparmiato nemmeno quel frammento ferito, avrei perso ogni possibilità di uscirne viva. Le carte non ci misero molto a tornare indietro firmate e lui non mi richiamò più. CAPITOLO VENTISEI DANIKA Più di un mese dopo iniziai a provare quella nausea familiare che associavo a una sola cosa, poiché l'avevo provata solo in un'unica altra condizione. Quando ci pensai faticai a crederci, ma in fondo perché no? L'ultima brutale, devastante volta che eravamo stati insieme aveva avuto un suo peso, una sua sostanza, quindi non potevo certo sorprendermi che avesse portato a dei risultati così incisivi. Ero incinta. Di nuovo. Mi ritrovai terrorizzata ma eccitata. No, esaltata e da un istante all'altro tutto cambiò. Una nuova vita dentro di me rendeva quello che prima mi era parso insormontabile, una possibilità. Il divorzio diventava non necessario, quest'insopportabile separazione permanente da Tristan era repentinamente terminata grazie al cielo. Quella piccola crocetta mi portò dal credere che la nostra rottura fosse l'unico modo per riuscire a sopravvivere integra, al capire con disperato sollievo che non dovevo più torturarmi. Avevo troncato ogni contatto con Tristan con determinazione ed ero riuscita a mantenermi risoluta fino a quel momento, anche se con difficoltà. Provavo un dolore pulsante e acuto, come se i nostri cuori fossero stati annientati e avevo vissuto un giorno dopo l'altro senza crollare solo grazie alla forza di volontà. Ma ora non dovevo soffrire oltre. Mi sentivo come se fossi uscita sulla parola. Il mio cuore era di nuovo libero. Gli avrei raccontato del bambino e avremmo trovato un modo per risolvere tutto. Mi dissi che la notizia lo avrebbe aiutato a ripulirsi. L'altra volta non era successo ma ora era diverso, avevamo molto da perdere: non c'era spazio per gli errori, dovevo riuscire a farglielo capire. Non chiamai lui ma Kenny per scoprire dove fosse e fui fortunata: Tristan era tornato in città per il fine settimana. La mia giornata passò come se galleggiassi su una nuvola: tutto sarebbe andato bene d'ora in poi, ne ero certa. Ricordo tutto di quel venerdì, persino il tempo. Era una splendida giornata d'inizio primavera, il sole splendeva e c'era una leggera brezza che mi pettinava i capelli mentre andavo a lezione con un sorriso inattaccabile sul viso. Quella sera mi preparai con cura. Mi resi conto mentre mettevo mascara e rossetto rosso, che era la prima volta da mesi che mi truccavo, che mi guardavo direttamente nello specchio. Prima di scoprire del bambino ero stata uno zombie e sentirsi nuovamente viva era così bello! Una meraviglia. Rammento nel dettaglio anche cosa indossai, dallo scamiciato nero aderente coi bottoncini che scopriva la scollatura (uno dei preferiti di Tristan per via dell'accesso spettacolare) fino alle scarpe col tacco rosse, che sapevo amava più di me. Mi arricciai i capelli lasciandoli liberi sulla schiena. Mi feci le unghie colorandole di un rosso brillante perché fossero in tono con scarpe e rossetto. Volevo stupirlo, sapevo che togliergli subito il fiato non avrebbe fatto male e mi sarei presa quel poco di vantaggio che potevo. Indossai anche l'anello di fidanzamento e la fede. Lui si era rifiutato di riprenderli ma io non me ne ero mai liberata. Non ci sarei riuscita. Mentre guidavo fino a casa sua, le mie mani tremavano per l'eccitazione e la trepidazione. Non ero così ingenua da credere che sarebbe stato un incontro semplice eppure mi sentivo fiduciosa nel fatto che in un modo o nell'altro, saremmo riusciti a risolvere tutto. Avevamo così tanto in ballo adesso. Non volevo soffermarmi su cose morbose, come ad esempio quanto sarebbe stata felice Leticia se fosse rimasta con noi. Riuscivo solo a concentrarmi su questo bambino, sul recupero della nostra famiglia per potergli dare una vita migliore. Volevo che i suoi genitori avessero un'altra possibilità per essere felici, che sua madre ne avesse una di vivere serenamente. Sapevo che non sarebbe stato facile, a Tristan chiaramente serviva la riabilitazione e una terapia di gestione del dolore. Era un tossico e aveva sofferto troppo tutto insieme per poter fare da solo, me ne rendevo perfettamente conto. Se fosse stato in grado di fermarsi con le sue sole forze, non sarebbe arrivato a quel punto. Mi ripetei che il bambino lo avrebbe convinto. In fondo lui voleva essere padre, uno di quelli bravi e presenti e su quello non ne dubitavo: questo figlio avrebbe cambiato le cose. Con la scoperta della mia gravidanza, tutti gli angoli ciechi della mia vita avevano recuperato la piena visibilità. Dove prima c'era disperazione ora regnava la speranza, quella che serviva anche a Tristan. Per la prima volta nell'arco di un mese mi sentivo piena di ottimismo perché tutto sarebbe andato bene. Arrivai al suo appartamento col cuore leggero e bussai, avendo restituito la chiave assieme alle carte per il divorzio. Mi aprì Dean. Non ero felice di vederlo ma lui invece sembrava il contrario, il che secondo la mia esperienza non era mai stato un buon segno. «Danika! Che tempismo favoloso! Ci stavamo divertendo un po' tutti insieme, entra. Trovi Tristan in cucina, ha perso la sua camicia e la vodka perciò è molto, molto scorbutico.» Alzai gli occhi al cielo. Ecco perché era così di buon umore, pensava che sarei esplosa vedendo Tristan e quello sarebbe stato il massimo per lui. La casa era piena di gente, uomini e donne mai visti. Da quello che si passavano, mi resi conto che c'era di tutto. Le regole erano state buttate nel cesso ma mi ripetei che non m'interessava. Quello che m'importava era il futuro e salvare il salvabile. Lo vidi e scelsi di assumere un'espressione piatta. Le cose erano peggiori di quanto le avessi immaginate… ed io avevo immaginato molto. Tristan era senza maglietta e a piedi nudi, i jeans bassi sui fianchi. Teneva in mano una bottiglia vuota di vodka, sbraitando qualcosa sul trovare chi si era bevuto tutto senza rifornire il bar. Dall'ultima volta che l'avevo visto sembrava aver perso più di dieci chili, le ossa sporgevano spaventose dal suo viso. Aveva sempre avuto l'aspetto sano, di uno che si pompava in palestra ma quella sua magrezza evidenziava chiaramente quanto fosse grosso. Non era solo una questione di altezza, per quanto fosse effettivamente alto, ma era l'ossatura a renderlo diverso. I suoi occhi facevano paura e quando mi riconobbe, divennero ancora più grandi. Sbatté la bottiglia vuota sul bancone, il botto sufficiente a spaventarmi. Aveva un aspetto talmente brutto che avrei voluto piangere. Poteva tornare indietro? Ci saremmo riusciti entrambi? Mi ripetei fermamente che non era più solo una domanda: dovevamo farlo. Lui mi indicò serrando la mascella e la sua espressione rese il suo terribile dimagrimento ancor più evidente. «Tu» mimò, come se non credesse che fossi davvero lì, come se lo stessi perseguitando. «Io» dissi dolcemente e con il cuore a pezzi per lui. Aveva toccato il fondo. Si spostò verso di me coi pugni stretti e un'espressione minacciosa. «Ho bisogno di parlarti» gli dissi piano. Lui scosse la testa più volte mentre mi bloccava contro il bordo del bancone, stringendomi malamente le spalle. Mentre prima la sua mole mi aveva sempre affascinato, eccitandomi; all'improvviso mi sembrava spaventosa. Questo era un lato di lui che non avevo mai sperimentato prima. Le sue mani erano più brutali che mai, lo sguardo gelido e appannato e quando parlò, il tono rude e maligno. «Per chi ti sei vestita così? Mi hai già dimenticato?» Le sue grosse dita mi strofinarono le labbra ammaccandole per togliermi il rossetto. «Per chi, eh? So che non l'hai fatto per me. Dimmi il suo nome così posso andare a ucciderlo.» «Tristan, smettila. Cosa stai facendo? Dobbiamo parlare.» «Parlare? Tu mi hai chiesto un fottuto divorzio e adesso vuoi parlare?» Le sue mani andarono ai miei capelli, stringendoli tanto da farmi venire le lacrime. «Sì. Ti prego, calmati. Ho qualcosa d'importante da dirti. Andiamo da qualche parte dove possiamo stare soli, non voglio farlo qui.» Mi prese per i fianchi sollevandomi sul bancone. Per quanto fosse messo male in quel momento, non mostrava alcuno sforzo nel sostenere il mio peso. Per lui era nulla. Mi aprì le gambe sistemandovi in mezzo i fianchi e i suoi occhi fissarono le sue mani che mi sollevavano il vestito. Cercai di tenermi coperta il più possibile ma lui mi bloccò, scoprendomi le mutandine tanto che chiunque avesse guardato, le avrebbe viste. Non sembrava rendersi conto che non eravamo soli e che casa sua era piena di sconosciuti. «Smetti» lo pregai con dolcezza, «Ti prego, basta.» «Cosa, non sei pronta?» domandò andando al primo bottone del mio abito, proprio sotto alla scollatura. Lo tirò sgarbatamente riuscendo a slacciarne due. «Per chi è tutto questo? Dimmelo.» «Sei fuori controllo e devi fermarti» cercai di mantenere la voce ferma ma ne uscì un pigolio tremulo e spaventato, che Tristan non parve percepire. Le sue palpebre pesanti studiavano il mio corpo. «È passato così tanto tempo e tu sei qui, così. Un accesso facile per essere presa. È ovvio che volevi qualcuno stasera. Non faccio più per te?» Mi palpeggiò stringendo forte la mia carne morbida. Avrei avuto i lividi il giorno dopo ma questo non lo fermò. Mi baciò selvaggiamente, spingendo la sua lingua fino in fondo alla mia gola. Quasi soffocai dall'intensità del sapore di alcool nel suo alito. Mi strattonò, depredando la mia bocca senza alcuna gentilezza. Era come se avesse completamente dimenticato quanto fosse forte. Tristan era fuori di testa quella sera, uno sconosciuto. Non ero certa sul da farsi ma sapevo che non potevo lasciare che mi toccasse ancora, non così. Slacciò un altro bottone e un altro ancora. Quando l'avevo indossato, mi ero sentita così ardita da evitare il reggiseno. Che errore! Non ci avrei messo molto a ritrovarmi in topless. Lui si chinò e mi succhiò la pelle dal collo al petto, mordendomi un capezzolo talmente forte da farmi piangere. «Ti piace, vero?» mugugnò contro la mia pelle. Cercai di respingerlo ma ovviamente senza risultati. Lui era in grado di affrontare uomini grandi e grossi riducendoli a bambole di pezza ed io non reggevo certo il confronto. Avevo dato per scontato che avrebbe tenuto sotto controllo la sua forza con me, ma non lo stava facendo. Gemetti di dolore e lui mi strinse nuovamente con troppa energia. Una delle sue mani sconosciute scivolò lungo il mio corpo ed io cercai di muovermi per evitare che andasse a meta, ma invano. Lui spinse una delle sue grosse dita dentro di me, facendomi gridare dal disagio. Ero ovviamente asciutta perciò faceva male, eppure fu quello ad aiutarmi. All'apparenza, la mia mancata eccitazione lo risvegliò da quello strano sortilegio. Arretrò fissandomi. «Beh, non vuoi?» Scossi la testa con vigore. «No, no, no» sussurrai come una cantilena. «Allora perché cazzo sei qui?» ruggì allontanandosi. «Per parlare.» «Mi stai dicendo di no?» «Al momento. Non posso affrontarti adesso.» «Oh, non puoi? Credi di essere l'unica figa qui dentro?» Se ne andò ed io mi rimisi in piedi cercando di sistemarmi il vestito. Lui era sparito dietro l'angolo e non mi sentivo per niente dispiaciuta, dovevo allontanarmene in fretta, fino a che non fosse tornato nuovamente in sé. Ritornò che io ero ancora appoggiata al bancone, a tenermi chiuso l'abito domandandomi cosa avrei fatto. Non sopportavo il pensiero di andarmene e basta senza aver sistemato alcunché, ero troppo scossa per attraversare la stanza, figurarsi guidare fino a casa. Tristan aveva in mano la fotografia del nostro matrimonio, quella che aveva appeso sul letto. Me la allungò e la usai per coprire la mia metà superiore. «Prendi, io non voglio più vederla. È ovvio che per te comunque, non aveva alcun significato.» E sparì di nuovo. Dean mi spaventò facendomi gridare quando mi parlò da dietro. «Vieni qui, Danika, vieni a sederti sul divano. C'è un posto libero per te.» Il suo tono era insolitamente gentile ma non affidabile eppure lo seguii in salotto. Avevo bisogno di sedere, così presi posto dove lui aveva fatto spazio, tenendomi davanti la fotografia e fissando il vuoto. Stavo tremando dalla testa ai piedi. Dean si accucciò davanti a me con la fronte aggrottata, come se fosse preoccupato. Chi diavolo era quest'uomo? Un altro sconosciuto. «Ti prendo un po' di succo, magari ti aiuta. Sembri in stato di choc, un po' di zucchero ti farà bene credo.» Annuii. Mi sentivo troppo imbambolata anche solo per provare a immaginare il perché di quel suo comportamento. Le sue parole erano notevolmente rallentate quindi era ubriaco, ma lo avevo visto pieno fino all'orlo tante volte e non era mai stato così gentile. Andò mentre Tristan tornava con due groupie. Le avevo riconosciute dal modo sciatto con cui vestivano e per lo sguardo vuoto negli occhi di entrambe. Scossi lentamente la testa desiderando solo che questa serata finisse. «Guarda quanto è facile rimpiazzarti» mi gridò lui. Era talmente ubriaco da dondolare sul posto. Abbracciò ciascuna ragazza. «Due volte.» Ricacciai indietro le lacrime. «Ma che diavolo ti prende?» gli domandai con voce tremante. «Che diavolo mi prende? Che diavolo prende a me?! L'hai dimenticato? Tu mi hai chiesto il divorzio.» Dean tornò senza dire una parola e sistemò sul tavolino davanti a me un bicchiere di succo d'arancia, scoccandomi un sorrisino di comprensione alcolica prima di sparire nuovamente. Mi sarei ricordata la forma arrotondata del bicchiere, l'esatta sfumatura del succo che conteneva. E che era pieno fin quasi all'orlo. «Oh: è questo che vuoi?» gridò Tristan guardando male la schiena di Dean che se ne andava, «Tu e quello sfigato di Dean, una cosa fottutamente preziosa!» Presi una lunga sorsata da quel memorabile bicchiere di succo d'arancia, sentendomi quasi troppo stanca per portarlo alla bocca. Aveva un sapore cattivo, un po' amaro, ma lo attribuii alla mia bocca. Tristan sollevò le braccia spedendo le due verso il corridoio. «Andate ad aspettarmi in camera, rimpiazzi. Arrivo subito.» Le ragazze obbedirono ed io bevvi ancora. Per quanto dura fosse guardarlo così, lo feci. Forse per colpa della nostra lite o per Dean, la stanza si era svuotata completamente e pensai che fosse la cosa più vicina al concetto di privacy. Alzai lo sguardo su di lui e glielo dissi con un sussurro: «Sono incinta.» Lui sbatté gli occhi, solo quello e non disse una parola, tanto che non capii se avesse sentito. «Come hai potuto farlo, Danika? Come hai potuto spedirmi qui Jerry con le carte per il divorzio senza darmi una possibilità di parlare?» «L'ho mandato con le carte e una lettera. Ti avevo scritto che ti avrei incontrato se volevi provare a sistemare le cose. Non l'hai letta? Tutto quello che dovevi fare era andare in riabilitazione Tristan, ma tu hai firmato e basta. Questo casino è colpa di entrambi, non puoi buttare tutto addosso a me.» Lui alzò le braccia al cielo. I muscoli di torace e stomaco assecondarono il movimento. Quella cosa l'aveva spiazzato. «Una lettera? Cazzate! Non c'era nessuna lettera.» Scossi ripetutamente la testa. Era davvero così fuori da non ricordarla? «Sì che c'era» sussurrai, sentendomi improvvisamente stordita. Scossi nuovamente la testa ma fu solo peggio. Facendo attenzione, rimisi giù il succo di arancia. Avrei ricordato che era pieno a metà e che non lo avrei più toccato. C'era qualcosa che non andava… «Tristan, non mi sento bene. Non credo di riuscire a guidare, ho bisogno di stendermi.» «Dean, la porti a casa?» gridò lui. M'indicò arricciando le labbra, «Hai divorziato da me, te ne sei dimenticata?» mi ricordò e ancora: «Sei in difficoltà? Non è un mio problema.» Io continuai solo a scuotere la testa. Tristan si voltò verso il muro, lo colpì tre volte lasciandoci dentro un buco poi caracollò fino in camera. Le lacrime iniziarono a scendermi lente mentre mi sdraiavo sul divano lasciandomi andare. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti un secondo di più. CAPITOLO VENTISETTE DANIKA Una mano sul braccio mi fece leggermente spaventare. «Andiamo, Danika. Ti riporto a casa.» Era la voce di Dean ma nonostante gli occhi aperti, non riuscivo a capire le sue parole. Mi aiutò a sedere poi ad alzarmi e alla fine mi ritrovai appoggiata a lui mentre mi portava fuori dall'appartamento. Sbattei le palpebre nel tentativo di far svanire quella strana nuvola che rivestiva la mia mente. «Cosa sta succedendo?» mormorai, lottando per non chiudere nuovamente gli occhi. «Ti do solo un passaggio. Shh, forza, sarai a casa in men che non si dica e potrai parlare con Tristan domattina o quando torna sobrio. Questa sera è impazzito.» Sostenne la maggior parte del mio peso mentre scendevamo lentamente i gradini, con cautela. «Perché sei così gentile questa sera?» gli domandai, chiudendo gli occhi una volta che mi ebbe aiutato gentilmente a salire in macchina. Dean non rispose, mi guardò a malapena mentre sistemava il grosso quadro del mio matrimonio sul mio grembo prima di chiudere lo sportello. Non mi ero nemmeno accorta che l'avesse portato. Strinsi la fotografia al petto e chiusi gli occhi. L'auto si avviò. Mi sforzai di rimanere sveglia e sentii un tocco freddo sulla mia gamba. Non capii subito cosa fosse ma seppi che era sbagliato. Mantenni a fatica gli occhi aperti e la mano gelida di Dean mi accarezzò la coscia. «Cosa stai facendo?» sussurrai arrochita, cercando di spostarmi. Lui sollevò la mano riportandola al volante. «Shh, torna a dormire. Starai bene e ti riporterò a casa fra poco.» Aveva ancora un tono rassicurante. Fu allora che mi resi conto di come la versione gentile di Dean facesse più paura dello stronzo senza censure al quale ero abituata, ma ero talmente intontita che i miei occhi si chiusero di nuovo. Poi mi sovvenne un pensiero che mi spinse a lottare per riprendermi: «Non dovresti guidare, sei ubriaco» lo ammonii. Lui rise. «E sballatissimo. Ci siamo sparati speedball e shortini di vodka in onore del nostro caro Jared. Non preoccuparti però, guido meglio da ubriaco perciò sei in buone mani. Adesso torna a dormire.» Volevo litigare con lui, perché era ovvio che quel suo discorso fosse una sciocchezza, ma lo sforzo di aprire la bocca e parlare era troppo grande per me e non riuscii a emettere alcun suono. Le sue dita fredde si spostarono e mi strinsero nuovamente la gamba salendo questa volta e io protestai più forte che potevo ma lui continuò, accarezzandomi da sopra le mutandine prima di togliere le dita. «So bene cosa c'è lì sotto. Non immagini nemmeno quante volte ho visto te e Tristan assieme. Adoro il tuo corpicino, sei il mio tipo di ragazza. A me piacciono minute ma con le curve e con una fica stretta e accogliente. Non sarò come quello a cui sei abituata: Tristan è una bestia, perciò non preoccuparti, domattina te ne accorgerai appena. E poi ho sentito che sei incinta, quindi stai tranquilla.» «Tu sei malato» gli dissi, «Non mi farei toccare da te nemmeno se fossi l'ultimo uomo rimasto sul pianeta.» Ero felice di essere riuscita ad articolare dire una frase tanto lunga tutta per intero. Mi sentivo così letargica che quello mi sembrava un piccolo successo. Lui mi strinse nuovamente la coscia ed io gli lanciai un'occhiataccia. «Sai, avrei preferito che ti fossi finita tutto il bicchiere. Ti preferisco quando stai zitta.» «Che cosa credi? Tristan ti ucciderà letteralmente per questo.» «Forse, se lo verrà a sapere. Hai intenzione di dirglielo? Sai che ne sarà disgustato quando lo scoprirà. Potrà anche uccidermi ma non vorrà toccarti mai più.» «Non mi interessa. Non mi interessa! Glielo dirò così ti ammazzerà, lo dirò a tutti. Non la farai franca.» «Questo se te ne ricorderai. Credo che domattina la tua memoria sarà un po' confusa, ma se mi sbaglio sei libera di dire tutto.» Mentre parlava, la sua mano saliva sempre più verso l'alto, accarezzando e stringendo la pelle del mio interno coscia. Continuavo a ripetergli di smettere ma lui non ascoltava e infilò un dito nelle mutandine per arrivare dove non aveva diritto di andare. Non ricordavo che la cornice con la foto fosse così pesante, ma adesso lo era, talmente pesante che riuscii solo a spostarla in avanti a coprirmi il grembo. Il bordo superiore mi premeva sull'addome, ma almeno le mie cosce erano al riparo da quella sua mano che rovistava. A Dean non parve importare, tanto che si spostò sulla scollatura del vestito spaziando liberamente sul mio seno. «Smetti di toccarmi» gli intimai, suonando più ubriaca che arrabbiata. Dentro di me ero talmente adirata che mi stupivo di non riuscire a ricavare un po' di forza da quel sentimento. «Mm, non credo che lo farò. Che ne dici di rimetterti buona? Come ho detto, ti preferisco quando stai zitta.» «Ti odio» sussurrai, alzando in vano una mano per coprirmi il petto. C'era talmente tanta pelle esposta e lui era molto più forte di me. «Cosa vuoi fare?» domandai con il tono più alto che riuscissi a raggiungere, «E perché? Perché?» Lui rise, tornando il solito Dean. Quello gentile ormai era andato. «Vuoi davvero che te lo dica? Ok, se insisti, ma tanto non ti ricorderai niente. Userò parole sconce se è quello che fa per te.» «Fottiti!» «No, Danika fotto te. Ecco cos'ho in mente: ci faremo una bella gita nel deserto, a circa un'ora dalla città. Non importa quanto lotterai perché per quando arriveremo, sarai nel mondo dei sogni.» Mi strinse un capezzolo girandomelo con forza e continuò nonostante io lottassi contro la sua mano. «Sarai talmente fatta che potrò usarti come voglio e non ti ricorderai nulla domattina. Stai tranquilla, ho dei bei piani in mente per te.» Riuscivo a percepire il sorriso malato anche dalla sua voce. «Prima ho intenzione di spogliarti. Non terrai nemmeno le scarpe. Lasceremo tutto in macchina. Poi ti tirerò fuori, ti metterò a faccia in giù e culo sul cofano. Ti aprirò le gambe e mi scoperò prima la tua fica, perché muoio dalla voglia di sentirla. Credo che uscirò prima di venire però, perché voglio provare anche il tuo culo. Quello me lo scoperò per secondo e senza lubrificante. Non m'importa se ti faccio male, tanto non sentirai niente ma domani, quello che il tuo corpo ricorderà sarà divertente.» «Malato di merda» sputai fuori iniziando a tremare. Pensavo fosse un buon segno, forse gli effetti della droga stavano iniziando a svanire. «Come dici tu. Ti verrò nel culo o magari sulla schiena, quello non l'ho ancora deciso perciò sarà una sorpresa. E ti lascerò tutto addosso, così dovrai ripulirti e sarai talmente confusa che magari penserai sia roba di Tristan. Chi lo sa, comunque dovrai ripulirti. Quando avrò finito, ti sdraierò in terra davanti alla macchina, così sarai illuminata dai fari.» Tolse la mano finalmente e si fermò a un semaforo rosso. Non avevo idea di dove fossimo, ma almeno non eravamo ancora arrivati al deserto. «Starò a osservarti, a guardarti tutta quanta. Ti aprirò le gambe e starò ad ammirare lo spettacolo a lungo, così ogni volta che vorrò potrò chiudere gli occhi e ricordare. Ci vorrà un po' ma quando avrò fatto, t'infilerò il mio cazzo giù in gola, più a fondo che posso. Ovviamente non verrò così, non saresti in grado di succhiarmelo bene, ma voglio comunque dartelo. E dopo, chi lo sa? Magari ti scopo le tette o di nuovo la fica. Vedrò cosa mi eccita maggiormente. Ti avrò per ore e tu non potrai farci niente. T'infilerò il cazzo in ogni buco che hai e non potrai dire di no. Quando avrò finito, ti rivestirò e ti lascerò da qualche parte. Forse all'appartamento o magari nel tuo letto. Ha importanza? Domattina ti risveglierai sentendoti sporca come non mai e non ricorderai perché, ma sarai troppo disgustata per lasciare che Tristan ti tocchi di nuovo, perché lui ti amava e tu hai lasciato che il suo migliore amico ti usasse come una bambola.» «Tu non sei il suo migliore amico» riuscii a dirgli, «Nemmeno ti sopporta più.» Quello lo destabilizzò facendolo schiumare. Si voltò e mi aggredì: «Fanculo: è tutta colpa tua.» Lo stavo guardando in faccia quando accadde. Un secondo prima ero in sua balìa e quello dopo ero nelle mani del destino, mentre un altro veicolo ci veniva addosso centrando il suo lato. Ricordo che iniziammo a girare e girare e una volta finito, il dolore. In seguito, mi avrebbero detto che avevamo fatto dei continui testacoda finché il mio lato dell'auto si era schiantato contro un palo del telefono, rientrando. La parte del guidatore era messa molto peggio. Quando il mio lato impattò, lo stavo ancora guardando: il suo corpo era maciullato e sanguinante, gli occhi vuoti. Nessuno avrebbe dovuto bisogno di darmi la notizia: avevo visto Dean morire. Non avrei mai più domandato di lui. Ricordo che la mia testa sbatté contro il cruscotto, i vetri che si frantumavano e dei pezzetti che mi s'incastravano nella pelle del viso, nel petto e nelle braccia. Tuttavia, quello fu solo un assaggio, seguito quasi istantaneamente da un bruciore acuto allo stomaco mentre la cornice fra le mie mani andava in pezzi, ferendomi in vari punti sulla pancia. Ad oggi ancora non so se mi misi a urlare ma nel profondo, quella parte di me che moriva dalla voglia di essere madre, che lo desiderava intensamente, che viveva e respirava per quel giorno in cui il mio bambino, la carne della mia carne avrebbe visto la luce; quella parte di me gridò: «Nooooo.» Forse, nel buio più profondo, non avevo mai smesso di gridare. Il dolore fu intenso e indimenticabile ma fu l'agonia della gamba spappolata che fortunatamente mi fece svenire alla fine. Quando mi risvegliai, ero in ospedale a riprendermi da operazioni chirurgiche multiple e non dovetti chiedere. Sapevo. Avevo perso tutto in quell'auto. Solo che non immaginavo cosa avrebbe significato. CAPITOLO VENTOTTO TRISTAN Mi svegliai sussultando. La testa mi stava uccidendo e prima che aprissi gli occhi, avevo già l'amaro in bocca. Rimasi a occhi chiusi per un po' e le mie mani toccarono quello che sembrava un corpo nudo accanto al mio, poi con una sorta di orrore, un altro. Feci un balzo quando sfiorai un grosso seno. Mi buttai fuori dal letto riuscendo a malapena ad arrivare in bagno prima di iniziare a vomitare. Rigettai il contenuto dello stomaco con lunghi conati. Non avevo idea di chi ci fosse nel mio letto, ma sapevo chi non era e quello mi spaventò a sufficienza da farmi tornare sobrio. Non lo scoprirà, non lo scoprirà, non lo scoprirà mi ripetei come un mantra. Ci eravamo lasciati e lei aveva smesso di rispondere alle mie chiamate più di un mese fa, divorziando senza nemmeno una telefonata, eppure prima di questo avevo sempre avuto una speranza. Ora sapevo di aver fatto qualcosa di imperdonabile. Di essere stato imperdonabile. Mi infilai nella doccia per lavare via i miei peccati e piccoli frammenti della serata mi tornarono alla mente: quel cazzo di speedball, gli shortini e un mucchio di dettagli fumosi nel mezzo. Il tributo morboso a mio fratello… ricordai che non mi importava che mi capitasse qualcosa. Forse speravo che succedesse, così sarei finito all'ospedale e lei sarebbe stata male per me tanto da rivolermi ancora. Avevo pensato quello… Poi rammentai che lei era venuta all'appartamento, affermando di dovermi parlare ma non ricordavo di cosa. Me l'aveva detto ed io l'avevo dimenticato oppure aveva taciuto del tutto? Di tutte le volte in cui avrebbe potuto farsi viva… le cose non sarebbero potute andare peggio. Era tornata per una riconciliazione? Mi sentii talmente male da non riuscire a chiamarla considerato le due troiette ancora nel mio letto, ma dovevo scoprire perché Danika fosse venuta. Quando mi sentii sobrio almeno a livello fisico, tornai in camera impaurito. Le due tipe nude erano sveglie e una mi chiamò per nome sollevandosi sui gomiti. Guardai a malapena tutte e due mentre fissavo un punto sopra al letto dove ci sarebbe dovuta essere una fotografia e mi si aggrovigliarono le budella... Era venuta per prendersela? In quel caso era un buon segno, oppure no? Gliel'avevo data io o se l'era portata via da sola? Mi servivano risposte, ma prima dovevo svuotare il letto e bruciare le lenzuola. Ordinai a quelle due di vestirsi, nicchiando visibilmente ogni volta che dicevano qualcosa della notte precedente. Non le riconoscevo e dubitavo di averle scelte da una fila di volontarie. Una aveva i capelli scuri, l'altra castano chiaro ed entrambe le tette finte. Era tutto quello che avevo notato. Quella coi capelli scuri mi si avvicinò cercando di accostarsi ma io sollevai un braccio per avvertirla e lei sorrise imperturbabile. «Sei stato fantastico stanotte. Nessuna delle due riusciva a tenere il passo. Sei un vero stallone, ci hai scopato fino a consumarci.» Mi passai una mano sulla faccia pensando che avrei vomitato di nuovo. «Andate per favore. Ieri sera ero fatto e non voglio ricordare il casino che ho combinato.» Loro non si mossero, fissandomi. «Fuori dai coglioni» ruggii allora, «Via dalla mia cazzo di stanza!» E grazie a Dio finalmente sparirono. Ripulii la stanza da cima a fondo, disinfettando ogni superficie e dedicai al bagno lo stesso trattamento visto che ero ancora annebbiato per quanto riguardava i dettagli della nottata. Non ero sicuro di sentirmi sollevato o ulteriormente spaventato quando notai che nel mio cestino c'erano svariati preservativi. Almeno avevo usato una protezione. Vomitai ancora e buttai le lenzuola. Me ne era rimasto solo un altro set ma non m'importava. Finì nel bidone anche quello. Rifeci la doccia, mi lavai i denti e andai a cercare altre salviette disinfettanti. Erano le tre del pomeriggio quando telefonai, ma rispose direttamente la casella vocale. Feci l'ennesima doccia: insaponare, risciacquare, ripetere. Mi avrebbe perdonato? C'era un modo per nasconderle questa cosa? Non l'avevo tradita, non tecnicamente dato che avevamo chiuso, ma non ero in vena di tecnicismi. Mi sentivo un disgraziato perché nel mio cuore, eravamo ancora sposati. E se lei fosse venuta per riconciliarsi, per darmi un'altra possibilità ed io l'avessi calpestata nella mia corsa all'autodistruzione, sarei stato in grado di perdonare me stesso? Una risposta facile da dare: no. La chiamai, trovai di nuovo la casella vocale e ripulii la camera un'altra volta. Andò avanti così per giorni. Al quinto ricevetti una chiamata dalla madre di Dean. Mi comunicò una notizia che avrebbe cambiato la mia vita. Buttò giù i dettagli troppo in fretta perché la capissi, ma il suo tono era quasi vacuo. «Morto?» ripetei. Non lo vedevo da giorni ma non era affatto inusuale. Ero sconvolto oltre ogni dire ma anche così, non ero pronto a quello che sarebbe seguito. «Aveva qualcuno in macchina» continuò la donna. Pensai che fosse davvero sotto choc per riuscire a essere così calma dopo la morte del figlio, «Una ragazza che lavorava per il vostro manager, Jerry.» Ero in camera mia vicino al muro. Ci caddi addosso finendo sul pavimento e quasi perdendo il telefono. «Co-cos'ha detto?» domandai gracchiando dal terrore. «C'era una ragazza in macchina con lui. L'auto è distrutta e comunque se Dean fosse sopravvissuto, si sarebbe beccato una grave denuncia per guida in stato di ebbrezza.» «Cos'è successo alla ragazza, sta bene?» «La ragazza? Oh… la conoscevi? Non sono sicura di cosa le sia successo, non ho chiesto.» Riattaccai e chiamai Jerry, che fortunatamente rispose al terzo squillo dicendomi solo: «Lei sta bene, Tristan.» E dopo il panico arrivò la rabbia. «Perché non me l'hai detto? È accaduto giorni fa, come hai potuto tenermelo nascosto?» All'altro capo ci fu una pausa. «Senti, Tristan… non vuole vederti.» La mano che avevo libera andò al braccio e iniziò a grattare sovrappensiero. «L'ha detto lei?» chiesi con lo stomaco sottosopra e il cuore a pezzi. «Mi dispiace amico. Devi rispettare la sua volontà, sembra molto risoluta.» «In che ospedale, Jerry?» Lui sospirò chiaramente. «Non puoi venire qui, Tristan. È meglio di no.» «Dimmelo.» «St. Rose.» «Hai detto che sta bene ma è stata ferita?» «In modo piuttosto grave.» «Dimmi.» «Ha picchiato la testa e ha un trauma cranico. È ancora ricoverata ma dovrebbe riprendersi.» Deglutii faticosamente continuando a grattarmi via la pelle dall'avambraccio. «C'è altro?» «I vetri l'hanno tagliata ma è in via di miglioramento.» Grattare. Graffiare. Scavare. «Altro?» «Ha il ginocchio distrutto. Potrà camminare di nuovo alla fine ma rimarrà zoppa e non ballerà più, Tristan.» La mia mano andò al petto proprio sul cuore. Grattare. Graffiare. Scavare. Mi scivolò il telefono ma non prima che il suono dei miei stessi singhiozzi arrivasse all'orecchio di Jerry. Non resistetti tre ore. M'infilai in macchina prima di rendermi conto che la mia mano era piena di sangue. Mi guardai il braccio e il torace, davvero sorpreso da quanto mi fossi graffiato. Non avevo sentito nulla. Tornai in casa, mi feci una doccia, mi cambiai e uscii. Fu allora che notai la macchina di Danika parcheggiata al marciapiede. Non uscivo da giorni ma doveva essere rimasta lì dalla sera dell'incidente. DANIKA Le notizie mi giunsero a pezzi, in modo contorto e sbagliato, rendendomi difficile la comprensione. Fu solo quando sentii Bev assalire il medico che misi insieme alcune parti nel giusto ordine. «Non può farlo in questo modo. Se una donna ha appena perso un figlio, non può iniziare col dirle che non potrà averne altri. Sono un avvocato, razza di idiota, perciò badi bene a quel che dice o la denuncerò per stress emotivo.» Il medico scappò via dalla stanza e mi ritrovai Bev accanto che mi accarezzava i capelli, per cercare di dare a quel momento un sollievo impossibile. «Non posso davvero citarlo, tesoro. Ho solo perso la calma e quella è la mia tattica per spaventarli. Se pensassi che c'è una possibilità però lo denuncerei subito. Quel bastardo si merita di peggio.» Cercai di prestare attenzione ma la mia mente continuava a tornare alla notizia. «Ho perso il mio bambino» sussurrai. «Sono davvero tanto dispiaciuta, Danika. Non sapevo che fossi incinta ma ti conosco e so che se lo eri, lo volevi. Mi dispiace.» «E non posso averne altri.» «No, piccola mia. So che è difficile anche da pensare, ma un giorno quando incontrerai l'uomo giusto e sarà il momento giusto per te, potrai adottarli. Puoi ancora diventare madre Danika, solo non nel modo in cui avevi sperato.» Quasi non la sentii, concentrata com'ero solo sul dolore e sulla mia perdita. Rimasi lì e mi sentii come se assieme al piccolo, se ne fosse andata anche la mia anima. Pensavo sarei stata completamente stordita ma purtroppo non fu così. C'era ancora qualcosa, qualcosa di terribile che m'incendiò il cuore appena Tristan entrò in camera mia, il volto pallidissimo. Lo avevo già visto distrutto, lo avevo visto vacillare sconvolto per una perdita. L'avevo visto ubriaco, fatto, stordito, devastato e fuori di testa dalla rabbia. Ma così… mai. Sembrava un uomo che avesse perso l'intero mondo. Mi ci volle ogni briciola della mia forza di volontà per non cedere a quello spettacolo. All'esterno ostentavo calma ma dentro ero una tempesta, un uragano che non avrebbe lasciato avvicinare Tristan. Lui non ne avrebbe percepito nemmeno un'ombra, dovevo almeno apparirgli composta e determinata se volevo sperare di riuscire a superare questa cosa. «Ho appena saputo dell'incidente. Come… ecco, stai meglio?» Scrollai le spalle. Mi era difficile guardare quei suoi occhi lucidi in quel viso smunto. Se l'avessi fatto per più di un nanosecondo alla volta, mi sarei tradita. Al suo sguardo non si poteva sfuggire. «Vivrò.» «Senti male?» Ancora spallucce. «Vivrò. Non mi va di parlarne.» Il mio tono non sopportava il rifiuto. «Va bene, ok. Sono solo felice che tu stia bene.» Pensai che bene fosse un aggettivo piuttosto generoso ma non lo dissi. «Jerry mi ha detto che non volevi vedermi. È così?» Fu dura riuscire ad ammetterlo. Lui indietreggiò chiaramente sconvolto. La sua mano andò al braccio e iniziò a grattarsi un punto sotto la maglietta. Andò avanti un bel po' prima di trovare nuovamente le parole e dato che l'attesa era eccessiva, chiusi gli occhi voltando la testa. «Quella sera è successo qualcosa? Eri venuta per incontrarmi, abbiamo litigato? Ho visto che manca la foto dal muro ma non ricordo cos'è successo. Cos'eri venuta a dirmi?» La mia bocca s'indurì. «Niente d'importante.» «Danika, per favore…» «Ti prego Tristan, per favore, vattene e basta. Noi ci facciamo solo del male, non lo capisci? Dopo quel che è successo non è ancora chiaro? Devo riuscire a dimenticarti e l'unico modo è restare lontani.» «Hai torto, Danika.» «Ascoltami, Tristan: tu sei un male per me, è finita.» Gli uscirono dalla bocca dei suoni orribili. Alla fine aprii gli occhi e lo vidi che mi fissava con l'espressione più distrutta che gli avessi mai visto. Si stava grattando il petto, ecco perché emetteva quei versi, come se provenissero dal profondo del suo cuore. «È finita, Tristan. Vattene, ti prego.» Dovetti voltare nuovamente il viso e chiudere gli occhi. Se non fosse sparito sarei sicuramente crollata. Lo sentii osservarmi a lungo prima di chiedermi con un tono che fu poco più di un sospiro: «Posso riavere la fotografia?» «Non si è salvata.» Come molte altre cose. Finalmente, per fortuna se ne andò. TRISTAN Bev mi saltò alla gola come una furia. Non avevo mai visto niente del genere. Una donna pelle e ossa sulla quarantina che cercava di avere la meglio su un grosso figlio di puttana come me. Lasciai che si sfogasse, rimanendo fermo mentre mi picchiava sul torace e mi schiaffeggiava in volto. Ansimava e piangeva quando terminò, guardandomi piena di odio. Era una donna formidabile se non nella forma, nella forza di volontà. Non dubitavo del fatto che se decideva per qualcosa, sarebbe accaduta secondo la sua idea. Il fatto che mi avesse attaccato non mi aveva per nulla sorpreso. Piantò un dito nel mio petto e con voce bassa ma tremante di furia mi disse: «Devi andartene. Lei ti ha chiesto di farlo ed è quello che deve succedere. Ma prima ho un paio di cosette da dirti. Sapevi che quel tipo, Dean la stava portando a casa? Lo stava facendo con il tuo consenso?» Feci una smorfia. La maggior parte di quella serata era avvolta nella foschia ma ricordavo di averle gridato qualcosa al riguardo, assieme al resto. Ero quasi sicuro che fosse una mia idea. «Sì, Dean era il mio coinquilino.» «E lo sapevi che le avevano dato una dose di Rohypnol?» Il mio corpo si congelò. Pensai che non potesse averlo fatto, che non avrebbe mai osato. «È successo a casa tua. L'unica cosa che lei ha bevuto è stato mezzo bicchiere di succo d'arancia che le aveva portato proprio il tuo amico. Sei stato tu a portare quella roba nella sua vita» gridò con voce spezzata. La sua bocca s'indurì mentre si riprendeva e la sua mano volò nuovamente a schiaffeggiarmi. Sopportai anche quello concio di meritarlo. Non pensavo che Bev sarebbe mai riuscita a detestarmi più di quanto odiassi me stesso in quel momento. «L'hai messa in macchina con uno stupratore figlio di puttana che era fuori come un balcone. Tu lei hai fatto questo. Tu. Adesso sparisci dalla mia vista: se ti rivedo, te la farò pagare.» Me ne andai, la mia mente crollò sotto il peso delle informazioni che Bev mi aveva dato. Non esitavo a crederle quando diceva che avrebbe trovato il modo per farmela pagare se mi avesse rivisto, ma non me ne andavo certo per quello. Se Danika mi avesse voluto, sarei rimasto con lei nonostante tutto. Niente in questa vita me l'avrebbe impedito. Ma era quello il problema: lei non mi voleva. Era stata chiara: io le facevo solo del male mentre da sola sarebbe vissuta meglio. Finalmente se ne era accorta. Andai al funerale di Dean ribollendo per tutto il tempo. Non avevo più persone a me care ma era la prima volta che mi rendevo conto di disprezzarne una che avevo perso. Mi sarei dovuto sentire male ma non mi dispiaceva nemmeno per la sua morte. Se Dean fosse rimasto vivo, con tutto quel che avevo saputo, l'avrei ucciso con le mie stesse mani. Persino quando mi aveva fatto incazzare da matti, avevo comunque avuto nutrito fiducia nel fatto che non sarebbe mai arrivato a quello. Capire quanto male avessi riposto la mia speranza era un boccone amaro da mandar giù. Se era stato capace di drogare Danika e portarla Dio sa dove, per fare quel che aveva in mente, che altro aveva combinato? Le sue azioni erano state puramente subdole, del tutto diaboliche. Se non fosse stata una Bev furibonda a raccontarmelo, non ci avrei creduto. Lei non aveva motivo di inventarlo e non era una donna che prendeva per buone le chiacchiere. Passai una settimana d'inferno, torturandomi con il rimpianto e facendomi di qualsiasi cosa trovassi a portata di mano. Sette giorni dopo aver fatto visita a Danika in ospedale, entrai in riabilitazione. CAPITOLO VENTINOVE DANIKA M'infarcirono di dettagli, talmente tanti dettagli inutili sulla perdita di cartilagine e tessuto muscolare; particolari dolorosi sui danni irreparabili all'utero e minuzie infinite su chirurgia e fisioterapia. Il succo di tutto era: ero storpia e non avrei mai più potuto avere bambini. La mia risposta a quella realtà? Non lascerò che mi definisca perciò, Dio aiutami, non mi farò nemmeno buttare giù. Non potevo più ballare e non avrei più portato una vita dentro di me. Quelli erano fatti. Mi rifiutai di piangerci sopra o se lo feci, mi resi conto che erano lacrime inutili. Avrei trovato altro in cui rispecchiarmi, dovevo solo capire cosa. Bev si prese del tempo libero per curarmi. Ero sconvolta perché lei non aveva mai fatto più di una settimana di vacanza prima ma per me, si prese quasi un mese intero. Mi aiutò in casa, mi tenne compagnia e curò la mia psiche. «Perché sei così buona con me?» le domandai a un certo punto, «Perché sei sempre stata buona? Sono un tale fardello per te e tu invece hai fatto così tanto per aiutarmi. Sappiamo entrambe che non potrò mai ripagarti della tua gentilezza.» Bev mi fece un sorriso tristissimo e una delle sue mani morbide mi accarezzò lentamente i capelli. «Oh, piccola, non capisci?» Sbattei le ciglia scuotendo la testa, del tutto ignara. «Capire cosa?» le domandai. «Non sei mai stata un peso, Danika e questa non è gentilezza.» Scossi nuovamente la testa, aggrottando le sopracciglia confusa. «Se non è gentilezza, cos'è?» I suoi occhi si riempirono di lacrime e la sua espressione mi addolorò. «Tesoro, è quella che si chiama famiglia.» Quello fu il mio punto di rottura: iniziai a singhiozzare, a piangere, a gemere senza trattenermi, sonoramente. Lei mi abbracciò mormorando parole di conforto al mio orecchio, la voce bassa piena di lacrime. Famiglia, pensai assolutamente ammutolita da quel pensiero. Famiglia… ebbi un flash degli anni passati grazie alla sicura generosità di Bev e Jerry, alla loro bontà. Famiglia. La cosa cui più ambivo era stata mia senza che nemmeno l'avessi chiesta. Era lì, nel bene e nel male. La famiglia. EPILOGO DANIKA Qualche mese dopo l'incidente ricevetti una telefonata da mia sorella: era in travaglio. Guidai per cinque ore e arrivai giusto in tempo per il parto. Avevamo continuato a sentirci telefonicamente e via e-mail ed io ero anche andata a trovarla qualche volta prima di perdere il mio primo bambino. Quella nascita ci rese nuovamente sorelle. Poter condividere con lei quel momento fu una gioia agrodolce. Ero l'unico famigliare presente, l'unica lì per lei. Chiamò il bambino Jack Markova e fui la prima a tenerlo in braccio, gli tagliai il cordone e mi innamorai di lui. La riportai a casa dall'ospedale e mi fermai per aiutarla a sistemarsi con il piccolo. Rimasi due settimane, curando il piccolo per far sì che lei si riposasse mentre si riprendeva. Zoppicavo per casa cercando di renderla un ambiente confortevole per quel piccolo senza padre. Una sera, mentre le rimboccavo le coperte e il piccolino dormiva nella culla di vimini accanto al letto, mia sorella mi guardò e mi disse: «So chi è il padre.» Mi sedetti al suo fianco e lei cercò la mia mano. La guardai in attesa: sapevo che sarebbe stata una brutta scoperta, lo capivo e basta, anche se ignoravo la natura di quella negatività. Poiché la mia mente vagava ancora per luoghi oscuri, le possibilità erano infinite. La cosa che temevo maggiormente però, non era la peggiore che poteva esserle capitata. Lo sapevo perché era già successa. Lei mi strinse la mano e chiuse gli occhi. «Non avevo un ragazzo o un amante. Non sapevo cosa mi fosse successo finché non ho capito di essere incinta, ma ricordo un paio di notti… L'indomani sapevo che mi era capitato qualcosa, che c'era qualcosa di sbagliato. Mi risvegliavo in luoghi e in condizioni che non avevo presente.» «Oh no, Dahlia» sussurrai accarezzandole una guancia. «Mi ci è voluto un po' per mettere insieme tutto, ma poi ho iniziato a scoprire i fatti e mi sono resa conto che in quelle notti strane, Dean mi aveva drogato. Lo affrontai e lui non ammise mai di averlo fatto ma era evidente che fosse colpevole. E quando gli dissi che ero incinta la cosa non lo sconvolse minimamente. Mi disse dritto in faccia che era lui il padre e lo odiai. Già non lo sopportavo prima che succedesse tutto... Non ho avuto il coraggio di liberarmi del bambino e nemmeno di darlo via ma mi sono allontanata da lui. Non gli avrei mai permesso di far parte della vita del piccolo, era uno stupratore e un poco di buono. L'avrei voluto denunciare ma non riuscivo a pensare a che pro. Che stupida… Quando ho davvero capito tutto quello che mi era capitato, ormai le prove erano sparite.» «Povera cara» le dissi baciandole la fronte e soffrendo per lei, «Mi dispiace che tu sia finita impigliata in quella rete.» La sua mano si posò delicatamente sulla testolina del piccolo Jack nella culla. «Sono in pace adesso. Amo questo bambino Danika, con tutto il mio cuore e il resto è passato.» Avevo talmente tanto veleno dentro di me, talmente tanti rimpianti che non mi sfuggì il fatto che nonostante le inclinazioni malevoli, Dean aveva dato vita a uno splendido bambino; mentre il mio amore con Tristan era finito in tragedia. La vita era davvero molto crudele, ma io avrei sempre amato quel piccolo. Entrambe avremmo stravisto per lui: il mio perfetto nipotino. SEI MESI DOPO Non lo guardai in viso ma ascoltai le sue parole, sentendo più di quello che in realtà aveva da dire. Eravamo seduti in un piccolo bar, dove avevo accettato d'incontrarlo. Era assieme ad altre due persone, un ragazzo e una donna. Gli avevo detto che non lo avrei incontrato da sola e quella era stata la sua soluzione. Non avrei voluto farlo, ma quando lui mi aveva spiegato lo scopo come parte del suo programma di riabilitazione, non ero stata in grado di rifiutarmi. Non avremmo mai più condiviso le nostre vite, ma quello non significava che volessi rovinargli il recupero. Sarei voluta arrivare prima, così che lui non dovesse vedere quanto ancora fosse faticoso per me muovermi. Era un istinto frutto in parte della pietà e in parte del mio orgoglio e non ero certa di quale fosse più forte. Mi ero vestita in modo scrupoloso: i capelli lisci e sciolti, il trucco pesante ma di classe, la gonna lunga per nascondere il tutore alla gamba e le scarpe ortopediche; la maglietta aderente per evidenziare comunque le forme. Non ero riuscita a illudermi a lungo, l'orgoglio era più potente. Sfortunatamente non ero riuscita ad arrivare prima. Tristan e i suoi due nuovi amici erano al tavolo a bere caffè ridendo di qualcosa, quando entrai. Fui ridicolmente grata all'uomo che mi tenne la porta in modo che potessi zoppicare dentro. Era sorprendente come le piccole cose riuscissero a darmi sollievo e lottare con la porta sotto lo sguardo di Tristan era un'umiliazione che in quel momento non m'interessava. Mi bruciava il petto mentre lo raggiungevo al tavolo vuoto vicino all'entrata, un passo assistito alla volta. Mi sarei voluta sedere prima che mi notasse, ma non fui così fortunata. Mi bastò un'occhiata al suo viso e seppi che non sarei stata in grado di guardarlo per il resto dell'incontro. Non volevo vedere il crudo rimpianto e la pietà nei suoi occhi. Preferivo qualsiasi altra cosa alla sua compassione. Finii per fissargli la clavicola. Non sopportavo quello che avevamo perso, le promesse infrante. Erano tutte lì ad accusarmi, colme di senso colpa e pietismo al tempo stesso. «Ti posso prendere qualcosa? Un caffè o un tè?» Ebbi un brivido. Le sue prime parole erano state un'offerta di servirmi perché ero menomata? Non potevo sopportarlo e quasi mi alzai. «Un po' di tè, grazie» risposi a fatica dopo aver riflettuto su cosa sarebbe stato più umiliante. Non mi mossi mentre lui andava dritto al bancone e tornava con due tazze di tè per entrambi. Fissai la mia, aggiunsi lo zucchero e continuai a guardarci dentro. «Latte?» mi offrì lui. Scossi la testa poi aggiunsi un'altra bustina di zucchero. Non ne bevvi un solo sorso. Non lo toccai nemmeno. «Ho molti rimpianti, molte brutte cose per le quali ammettere le mie colpe, ma credimi quando dico che l'impatto di queste mie azioni negative sulla tua vita è quello più grande.» Rimase dal suo lato del tavolo, gli occhi sulle sue mani. C'era sincerità in quel suo sguardo profondamente abbattuto ma quella non l'avevo mai messa in dubbio. Guardai velocemente altrove. Ovvio che fosse dispiaciuto, lo ero anche io. Nessuno di noi avrebbe voluto che le cose finissero a quel modo. Ma lui era sano e tutto d'un pezzo e prima quando l'avevo visto ridere, felice. Forse le cose si erano davvero messe al meglio per lui nonostante tutto: era stato un casino assieme a me e ora era rinato. Quell'osservazione piantò un piccolo seme di amarezza dentro di me, che con il tempo sarebbe cresciuto e avrebbe dato i suoi frutti. «Io non merito il tuo perdono dopo tutto quello che è successo, ma è ciò che ti sto chiedendo.» Le sue parole erano artificiose, come se le avesse provate in precedenza. «Sappi che se potessi tornare indietro per evitare tutto, lo farei e che mi ritengo responsabile per tutte le brutte cose che sono capitate. Mi dispiace per il modo in cui la mia mancanza di limiti ha inciso su di te. Qualsiasi cosa tu voglia da me, io te la darò: sono al tuo servizio, Danika. Sempre. Ed è mio sincero desiderio che un giorno, magari col tempo, tu possa considerare di essermi di nuovo amica.» Amica? Rifuggii quell'idea. Non poteva essere o si sarebbe trasformata in una lunga tortura. Amici? Era come uno schiaffo in pieno viso. Non capiva che se ci avessimo provato, se fossimo rimasti in contatto in modo platonico, io non sarei mai riuscita a passare oltre? «Tristan.» Solo pronunciare il suo nome era faticoso, come avrei fatto a superare il resto? Feci una lunga pausa per stabilizzare la mia voce e ritrovare un tono formale prima di continuare: «Considerati perdonato, ma ti prego di non ritenerti responsabile per tutto quello che è accaduto. Le cose non sono andate come speravamo.» Che bel modo di sminuire la cosa… «Nessuno è colpevole. Perciò sì, hai tutto il mio perdono. Detto ciò, devo rifiutare la tua richiesta di amicizia. Ci sono cose… Quello che voglio dire è che alcune persone devono rimanere lontane e noi siamo un esempio.» Avrei voluto dire molto altro ma scelsi di trattenermi. L'unica sua risposta per un po' furono dei respiri strappati. «Se questo è ciò che provi, rispetto la tua decisione» replicò e mi parve che quasi le parole lo strozzassero. «Lo è, ma grazie per esserti scusato. Ti auguro ogni bene» deglutii faticosamente guardando in basso, «Sono felice che tu sia riuscito a farti aiutare.» Dopo un'attesa che fu un'eterna agonia, lui si alzò andandosene. Non ci guardammo più. Rifiutai di alzarmi prima che lui e i suoi amici fossero spariti e fissai il mio tè a lungo nell'attesa. Non ne presi nemmeno un goccio. Era stata una tortura, ma a tutto serviva la parola fine e quell'incontro era stata la nostra. Col cuore a brandelli ma la volontà tutta d'un pezzo, la mia vita ricominciò. CIRCA SEI ANNI DOPO AL RICEVIMENTO PER LE NOZZE DI JAMES E BIANCA CAVENDISH DANIKA «Quell'energumeno è anche più grosso di te» mi scappò di bocca mentre Tristan si accomodava accanto a me nel posto assegnatogli al tavolo. Mi diede un'occhiata veloce poi posò gli occhi su Akira ma il suo sguardo gridava cose che avrei preferito non sapere. Ad esempio, la mia osservazione era stata un po' più insolente di quanto l'avrei desiderata e a Tristan ancora piaceva la mia sfacciataggine. Infatti si stava dimostrando compiaciuto: la sua espressione era accalorata e… beh, altro che non avevo intenzione di rendere noto. «Non farti strane idee» mi disse pigramente prendendo un sorso d'acqua, «Quell'enorme bastardo è occupato.» Socchiusi gli occhi guardandolo. «Questo lo so, è sposato con una top-model. Era solo per dire… Dev'essere strano per te, che di solito sei sempre quello più grosso, dover alzare gli occhi per guardare qualcuno. Senza contare che i suoi bicipiti sono un po' più gonfi dei tuoi.» Il suo respiro frusciò in una risata di stupore: «Tu e la tua mania per le braccia grosse. Le mie sono comunque più larghe del tuo giro vita, non si sono affatto rimpicciolite.» Impormi di non posarvi sopra gli occhi fu una vera lotta, per quanto sapessi che aveva ragione. Mi accarezzai distrattamente il ginocchio offeso sotto il tavolo finché percepii Tristan che mi guardava. «Ti fa ancora male?» domandò dolcemente, come se non potesse farne a meno. Cercai di assumere un'espressione attenta. «Tutto ok, è solo un po' rigido. Nulla di cui tu debba preoccuparti.» Niente al mondo avrebbe potuto scioccarmi più della sua mano sulla mia gamba. Scivolò sotto alla mia per carezzarmi il ginocchio con un movimento sicuro, come se sapesse dove toccare per farmi stare meglio. Quello, era sempre stato uno dei suoi talenti speciali. «Che stai facendo?» sibilai a denti stretti. Lo sguardo omicida che gli rivolsi non lo fece minimamente indugiare… bastardo spaccone. «Sto solo cercando di aiutarti» rispose del tutto sincero. «Non mi serve il tuo aiuto.» Il mio tono era velenoso ma lui non smise di accarezzarmi né io mi scostai. Negli ultimi sei anni era stato troppo semplice riuscire a tenerlo lontano e mi resi conto di non sapere cosa fare quando non avevo l'astio a far da barriera. «Lo so, credimi. Ma se fossi io ad avere bisogno di farlo?» «Siamo al matrimonio di due persone che adoro, perciò sarò civile per altri dieci secondi, ma faresti meglio a non illuderti che…» «Che ne dici di un'amicizia? Possiamo almeno provarci. Niente cazzate, giuro.» M'irrigidii, conscia d'irradiare ostilità. Frankie, al braccio della sua ragazza, captò il mio sguardo. Era un matrimonio, un'occasione felice e il suo sguardo preoccupato ebbe la meglio su di me. Era preoccupata che facessi una scenata e mi feriva il fatto che ne avesse ben donde. Sono più matura di così, mi dissi. E diamine, perché non potevamo essere amici? Non pensavo che Tristan provasse più alcuna attrazione nei miei confronti, sapevo che quel che voleva era davvero solo amicizia e perdono, perciò perché non avrei dovuto darglieli? Perché provavo il bisogno di chiuderlo fuori del tutto? Conoscevo la risposta: ero come un animale ferito che reagiva di scatto alla sua indifferenza, quella che negli anni si era cristallizzata, diventando la causa del mio dolore ancora vivo. «Niente cazzate?» domandai, ma prima che potesse rispondermi proseguii, «Si, ti credo adesso. Non immaginavo ti piacessero gli storpi.» La sua mano scivolò mollemente dal mio ginocchio. Lo guardai in viso un attimo prima che lui abbassasse gli occhi sul tavolo e mi pentii all'istante di esser stata così maligna. Non importava in cosa si fossero trasformati i suoi sentimenti per me, avevo ancora la capacità di ferirlo nel profondo. «Mi dispiace» ritrattai. Quando aprii la bocca per aggiungere altro però, lo sguardo furente di Frankie mi bloccò. Sedette dall'altro lato di Tristan e mi lanciò un'occhiata ostile che mai avrei immaginato mi avrebbe dedicato. «Tutto ok?» gli domandò sfiorandogli un braccio. Lui annuì brevemente, si alzò e se ne andò. «Quando la finirai di fargli del male? Quando sarà abbastanza per te? Se avevi bisogno di punirlo, beh: congratulazioni, l'hai spedito all'inferno. Che altro vuoi?» Una parte di me era livida per ogni parola uscita da quella sua bocca ma l'altra, quella che oggi non riusciva a tacere, sapeva che Frankie aveva ragione. Erano sei anni che lo stavo punendo e la cosa mi era sfuggita di mano. Lei si alzò per andargli dietro e assicurarsi che stesse bene. La fermai trattenendola con la mano. «Ci penso io» dissi alzandomi a mia volta, «Tu hai i tuoi doveri da testimone a cui badare.» «Ti prego, Danika. Non devi tornare con lui ma per favore, almeno sii gentile. Ne ha passate tante, è stato così per entrambi. E queste stronzate sono negative anche per te stessa.» Lo sapevo e glielo resi noto annuendo con lo sguardo. Lo trovai che vagabondava fra gli alberi, a metà strada fra le tende per la cerimonia e quella specie di fortezza che James definiva ‘casa’. «Tristan» lo chiamai ad alta voce. Lui si bloccò, non si voltò ma si fermò. Lo raggiunsi in fretta prendendogli un braccio. «Mi spiace per quello che ti ho detto. Era una cattiveria e non lo intendevo sul serio. Tu mi conosci, non sembro essere capace di tenere le cose per me e a volte mi scappano di bocca nei modi peggiori.» «Sei diventata piuttosto brava invece, ti tieni dentro tutto, da un bel pezzo.» Le mie sopracciglia ebbero un guizzo… era vero. Per quanto fossi migliorata nel tenere a freno la lingua, non riuscivo comunque a decifrare il sottinteso del suo tono. «Sì, sono cresciuta. Ma quello che ti ho detto prima, beh, non era da persona adulta e mi dispiace. Non ce l'ho con te, ho davvero superato la nostra storia e penso che tu abbia ragione: non c'è motivo per non essere di nuovo amici.» «Grazie.» La sua voce era bassa e roca, la testa china sul petto. Anche nella semi-oscurità riuscivo a vedere che teneva gli occhi bassi. C'era nella sua postura, qualcosa che parlava di sconfitta e un pessimismo tale nella sua voce che non fui in grado di evitarlo. Lo abbracciai per consolarlo, per sostenerlo, senza riflettere se fosse una cosa per lui, per me o per entrambi. Dovetti alzarmi in punta di piedi per mettergli le braccia al collo e lui comunque si abbassò. Per una decina di secondi rimase contratto come un cadavere poi reagì, le sue braccia mi strinsero tanto che mi sfuggì un gemito mentre mi spremeva fuori l'aria. Allentò la presa ed io inspirai un paio di volte prima di rilassarmi. Il mio corpo parve avere la meglio grazie ai ricordi sensoriali risvegliati da quel contatto: eravamo un treno in corsa assieme eppure ogni volta che avveniva un contatto, provavo una sensazione di positività. Mi spinsi a lui nascondendo il viso contro il suo collo. Tristan arretrò leggermente ed io alzai la testa guardandolo. Per quanto non riuscissi a distinguerlo bene nell'oscurità, sapevo che mi stava fissando. «Tristan» mormorai sottovoce. Lui abbassò la testa finché fra le nostre bocche non ci fu che un alito d'aria eppure, anche così, mi ritrovai a pensare che non lo avrebbe davvero fatto. «Tristan.» Le sue mani circondarono il mio viso e con la coda dell'occhio ne registrai il tremore. La sua testa si piegò da un lato, la mia dall'altro e le nostre labbra si unirono. Mi baciò: uno dei quei baci disperati, famelici, selvaggi che mi fece dimenticare il passato e il futuro al tempo stesso. Avevo passato la maggior parte della vita a dimostrarmi freddamente riservata nei confronti del mondo; certa di un autocontrollo che all'apparenza mi veniva spontaneo. Era bastato un breve bacio e tutti quegli anni erano svaniti: il passato e il presente si fondevano in un solo, unico pensiero che aveva vita ora. E proprio in quel momento, tutto quello che serviva era il legame, la sensazione che nasceva dall'unione delle nostre labbra e scendeva lungo il mio corpo, accendendone ogni molecola fino a incendiarlo. Scattai. Le mie mani gli arpionarono le spalle, la mia bocca si fece rapace sulla sua. Mi ero sempre reputata brava a baciare e sapevo con certezza che anche Tristan lo era, ma in quel momento non c'era alcuna gentilezza. Prendemmo, prendemmo e restituimmo sotto forma di denti che collidevano e lingue che si sfidavano. Le sue mani si portarono sui miei fianchi, sollevandomi contro di sé. Quanto mi era mancato quel corpo: il suo profilo, ogni curva, dosso, piega era tutto ciò di cui avevo bisogno. Incrociai le gambe attorno alla sua vita, emettendo dei suoni animaleschi quando la sua erezione premette contro la mia pancia prima e il mio clitoride poi. Sapevo che stava camminando portandomi in braccio ma non m'importava: continuai a succhiargli la lingua, a mordergli il labbro fino a che non sentii il gusto del sangue. Il cielo ci sarebbe potuto cadere addosso e non mi sarei spostata, non avrei rinunciato a questo momento in cui tutto sembrava essere tornato a posto, e ogni torto vendicato. Tristan cercò di mettermi giù ma non glielo permisi, stringendogli i fianchi come una morsa con le gambe e le spalle con le braccia. Inclinò la testa all'indietro e gli morsi il collo, strofinandomi contro il suo torace. «Ti prego» sussurrò arrochita. Quella piccola richiesta mi fece scostare abbastanza da guardarlo. Eravamo illuminati da una lanterna sopra le nostre teste e presi atto di ciò che ci circondava: eravamo sul portico nel retro del ranch e Tristan stava separando i nostri fianchi per mettermi seduta sulla grossa balaustra che correva lungo tutto il perimetro del patio. Glielo lasciai fare, confusa e disorientata. Deglutii a fatica, aprendo la bocca per dire chissà cosa, quando le sue mani presero l'orlo del mio vestito da damigella color lavanda e lo sollevarono oltre i miei fianchi. Quello riuscì a sopprimere efficacemente il mio bisogno di parlare. Ci stavamo buttando a capofitto in quella pazzia ma io non riuscii a preoccuparmi del casino che ne sarebbe derivato in un secondo tempo. Lo volevo, ne avevo bisogno, come di tutto il resto da quando avevo cauterizzato tutta la felicità della mia vita. Tirò su del tutto il vestito, facendolo passare oltre la mia testa fino a bloccarmi le braccia. Non sapevo né m'importava se fosse una scelta intenzionale oppure no. Mi slacciò il reggiseno sul davanti e gemendo si piegò, accogliendo uno dei miei globi frementi fra le labbra. Le sue mani armeggiarono con la cintura e la cerniera dei suoi pantaloni. Grugnì ed io sussultai quando la sua erezione finalmente libera mi rimbalzò sullo stomaco. Le sue grosse dita mi scostarono le mutandine e il glande si spinse dentro di me mentre Tristan rialzava la testa per riprendere possesso nuovamente della mia bocca. Non esitò, non domandò se fossi certa ed io ne fui sollevata: non ci sarebbero stati freni di sorta in grado di rallentare un tale schianto. Lui arretrò, avanzò nuovamente e il suo uccello sprofondò dentro di me con forza. Il mondo si fermò mentre ci prendevamo ciò di cui avevamo bisogno, quello di cui avevo avuto fame fin dall'ultima volta in cui ero stata tra le sue braccia. Fu un amplesso frenetico, un ritrovarsi convulso che mi portò all'acme dell'estasi nel giro di poche poderose stoccate; troppo in fretta, a perfetta testimonianza di quella che era stata la nostra torrida storia d'amore. Rimanemmo inerti a lungo e cosa più importante, nel silenzio più totale. Le parole avrebbero spezzato l'incantesimo perché erano la realtà. Questo era un momento rubato, che volevo mantenere il più lontano possibile dalla vita vera. A un certo punto, la mia fronte era finita contro la sua spalla e la sua guancia si era appoggiata sulla punta della mia testa. Non si era sfilato e l'unico movimento che condividevamo era quello necessario ai nostri respiri ansanti, mentre il suo membro si contraeva ancora dentro di me. Rimanemmo così per quelli che sarebbero potuti essere minuti o anche un'ora. Non avevo idea di cosa lui stesse pensando ed io stessa mi sforzavo di non indugiare su altro tranne quell'attimo e il piacere di esser stata fra le sue braccia in quel breve lampo di mancata lucidità che avevamo avuto. Il primo colpo di testa che mi ero concessa negli ultimi anni era stato davvero spettacolare. «Danika.» Quando alla fine lui parlò, la sua voce era dolce ma soffocata. Sospirai pesantemente, scostandomi. L'incantesimo era svanito. LIBRI DI R.K. LILLEY IN ITALIANO FRA LE NUVOLE - LA SERIE IN VOLO AD ALTA QUOTA COI PIEDI PER TERRA (prossimamente) TRISTAN & DANIKA COSE PERICOLOSE LIBRI DI R.K. LILLEY IN LINGUA ORIGINALE THE WILD SIDE SERIES THE WILD SIDE IRIS DAIR TYRANT THE OTHER MAN THE UP IN THE AIR SERIES MR. 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