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Apparenza giuridica, società apparente,
e tutela dei terzi contraenti
di Federico MariaGiuliani
SOMMARIO: 1.- Introduzione sull’apparentia juris. - 2.- La società apparente: a)
“tipo”, scopi, critiche di esso. – 3.- (Segue): b) l’oltrepassamento della società
occulta e l’ambiguità dell’art. 1414 cpv. – 4.- (Segue): c) la società di fatto
come creazione giurisprudenziale solutrice, in uno con la teoria della
contraddizione ancipite.
1.- INTRODUZIONE SULL’APPARENTIA JURIS
Non può negligersi che, nel lessico e nel sistema del codice civile, il
riferimento a soggetti o situazioni “apparenti” compaia più volte in diversi
contesti.
Viene in considerazione, per esempio, col suo dettato lessicale l’art. 534 cpv.
(erede apparente), o gli artt. 1414 cpv., 1415(1) e 1416(1) (contratto e titolare
apparente nella simulazione); oppure ancora si rammenta l’art. 1835
(impiegato della banca che, per il libretto di deposito a risparmio, appare
addetto al servizio).
Altre volte il concetto dell’apparenza, pur non essendo letteralmente
menzionato, è piuttosto evidente nella sua emersione. Così accade nel caso
dell’art. 1398 (falsus procurator), dell’art. 1159 (usucapione decennale), dell’art.
1396 (modificazione o estinzione della procura verso i terzi); e ancora è il
caso dell’art. 1445 (acquisto in buona fede dei terzi da contraenti di negozio
annullabile) e dell’art. 1729 (mancata conoscenza, da parte del mandatario,
della intervenuta estinzione del mandato).
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Da qui, però, ad affermare con certezza che, nell’ordinamento civilistico
esiste un concetto generale di apparenza del diritto, il passo è tutto meno
che immediato. Indici normativi inclinano bensì alla tutela della buona fede
in situazioni di apparenza giuridica non rispondente alla sostanza: buona
fede che, quando l’apparire è indotto da una condotta in specie consapevole
del dante origine alla datità fenomenica, diventa affidamento ingenerato da
altri epperò meritevole di tutela.
Tuttavia residuano, al fondo, talune perplessità sistemiche e teoretiche.
Sotto il primo aspetto, non si può escludere che, nelle pieghe del sistema, il
contemperamento degli interessi ex lege a volte scelga di non tutelare appieno
il soggetto al quale, senza sua colpa, una determinata apparenza giuridica si
manifesta. Per esempio in tema di società per azioni, l’annullamento o la
nullità di una delibera assembleare fa bensì salvi i diritti acquistati da terzi in
buona fede in base ad atti compiuti in esecuzione della deliberazione; ma
d’altronde obbliga tutti i soci, a prescindere da quelli cui l’atto unilaterale
collettivo era “apparso”, in buona fede, come del tutto valido (artt. 2377,
comma 7 ed art. 2379, ult. c.).
Sul piano della teoresi, inoltre, non si può prescindere da un importante
scuola di pensiero capitolina (che da Santoro-Passarelli in nuce si è poi
sviluppata con Irti, Orlandi, Gentili), la quale, trattando dei temi più diversi
(dottrine generali, solidarietà passiva, simulazione), ha icasticamente
sottolineato quel che segue. La contrapposizione tra fenomeno e noumeno,
e dunque tra apparenza formale e quidditas sostanziale, attengono all’essere
e non al dover essere, cioè all’ontica e non alla deontica; e siccome il diritto
appartiene a quest’ultima e non alla scienza di ciò che è, in/per esso siffatte
contrapposizioni
rischiano
di
forviare
non
poco.
Il
fatto
estrinseco/intrinseco – ivi si dice – per il diritto è bruta datità, che diventa
significativa solamente quando è integrativo della fattispecie legale, che lo
qualifica, lo disciplina, lo vieta in un modo o nell’altro a seconda dei casi.
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E del resto conferme di queste e altre notazioni, in direzione (“ostinata” e)
contraria all’apparentia juris tout court, emergeranno infra nelle riflessioni a
seguire.
2. LA SOCIETÀ APPARENTE: A) “TIPO”, SCOPI, CRITICHE DI ESSO
Si potrebbe essere indotti a pensare de plano che, essendo – quanto meno
geneticamente – la società un contratto (inter alia ex art. 2328, c. 1), non vi sia
ragione di dubitare che essa sia simulabile, atteso che il contratto sociale non
è certo negozio unilaterale non recettizio, rectius con destinatari non
determinati (categoria quest’ultima cui la simulazione non si attaglia).
Qualche dubbio però già lo pone, dopo la riforma societaria del 2003, il
regime di nullità dell’atto costitutivo delle società per azioni (di cui all’art.
2332), secondo cui la più radicale patologia contrattuale è ormai compressa a
tre casi-limite, e peraltro non pregiudica l’efficacia degli atti compiuti,
dalla/nella società nulla, dopo la iscrizione nel registro delle imprese. Non
solo, ma la causa di nullità può essere rimossa e iscritta, con il che quella non
può più essere dichiarata. Ciò per un verso non segue il parametro di cui
all’art. 1418 – ché per esempio la indeterminatezza/indeterminabilità
dell’oggetto, ovvero la violazione di norme imperative tout court sembrano
lasciare intatto il contratto sociale; e per altro verso in tal guisa s’intacca il
noto brocardo, secondo cui ciò che è nullo non produce nessun effetto.
Evidentemente (come ha perspicuamente osservato l’Angelici nelle sue
lezioni di diritto commerciale post riforma), il legislatore ha fatto prevalere,
sul regime generale delle nullità, altri interessi ed esigenze, poste alla base
della società per azioni come attività sul mercato dei traffici.
E per il vero i dubbi sulla simulabilità della società, come società apparente,
non sono finiti qui.
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Secondo autorevole dottrina (Jaeger), la società apparente non sarebbe tanto
un caso speciale di simulazione contrattuale, quanto piuttosto una creazione
giurisprudenziale (per vero coonestata da parte della dottrina tra cui
Galgano). Creazione che ha bensì – si dice - nella sostanza il fine di tutelare i
terzi nel caso di fallimento, dacché costoro sono senza colpa caduti nel
tranello di pensare che un ente vi fosse, diverso dai singoli soci; tal che
lasciarli in balia di nessuna tutela creditoria nella decozione, ovvero a
rincorrere i singoli soci affermandone la responsabilità solidale, appare
immeritevole di essere opinato. E pur tuttavia tale scuola di pensiero non
manca di lumeggiare le anomalie contraddittorie insite in una siffatta
applicazione dell’apparenza simulatoria. Così si è detto che, nel caso di
società apparente in accomandita, per il qual tipo non vi è ragione di
denegare la simulabilità una volta attestatala per gli altri, non è dato di capire
come poi, nella disciplina fallimentare, si possano distinguere i soci
illimitatamente responsabili – cui opporre la mera apparenza appunto - dagli
altri. Si dirà: ma siccome sono soci apparenti non importa che siano
apparentemente responsabili in misura limitata o illimitata; e tuttavia, se
apparentia juris si dice esserci, essa deve rappresentare qualche cosa di preciso
secondo le regole giuridiche nelle loro varie forme; viceversa c’è qualche
cosa che non va nell’assunto di partenza, e bisogna rimeditare il tutto. Sennò
quale società simulata/apparente fanno valere i terzi creditori nel fallimento?
Quella solo – e per forza di cose - in nome collettivo? E’ una tesi, ma prova
troppo poco.
Diciamo, del resto, solo in nome collettivo giacché, a ben vedere, la
obiezione su menzionata si riconnette all’art. 1414 cpv., ult. parte. Infatti,
atteso che in linea generale (v. art. 2251) i contratti costitutivi delle società
commerciali debbono essere fatti quanto meno per iscritto (artt. 2296) - se
non per atto pubblico (art. 2328) -, non può avere effetto tra le parti un
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contratto dissimulato concluso con la forma della mera oralità, se non con
quella della mera attuazione comportamentale.
E, se non può avere effetto fra le parti, non è affatto scontato che i terzi
possano farlo valere (ex art. 1415 cpv.) quando esso pregiudica i loro diritti
di credito. Poiché, tanto per cominciare – come osserva l’ultima
giurisprudenza di legittimità sulle clausole simulatorie di prezzo nelle vendite
immobiliari -, il patto simulatorio/dissimulato, che difetta di forma legale,
non può essere provato né per testimoni né per presunzioni (arg. ex artt.
2725 e 2729 cpv.): il che già inchioda l’interessato a una probatio diabolica (e
ricollega a quanto si diceva sopra sul clivage tra soci illimitatamente e
limitatamente responsabili nel fallimento). Inoltre, non può escludersi una
diversa lettura, giusta la quale il fatto che manchi, nel contratto simulato, la
forma prescritta per il contratto dissimulato, elimina in radice che questo
possa essere comunque provato: il “tra esse”, cioè, di cui all’art. 1414 cpv.
c.c., costituisce pleonasmo visto l’art. 1418 cpv.; e la “nullità” del contratto
simulato in quanto tale (nemmen poi condivisa da tutta la dottrina, che alle
volte predilige la “inattitudine a produrre effetti”) non è la stessa cosa di
quella del dissimulato.
Un ipotetico contraddittore potrebbe opinare che, in presenza di una società
apparente – o di un’apparenza di società -, non vi è da provare alcun
negozio dissimulato, poiché la società apparente non nasconde alcunché,
bensì costituisce l’espressione – a mezzo di vari indici – della esistenza di un
ente che in verità non c’è. Simulazione assoluta, in altre parole, e non già
relativa; tal che piuttosto l’onus probandi investe la sussistenza degli indici
esteriori necessari per indurre un’apparenza/un affidamento societario,
piuttosto che il contenuto di un quid sotterraneo e non esteriorizzato.
Può essere. Ma il ragionamento non mena assai lontano, poiché comunque
si tratta di provare l’esistenza di un contratto apparente, che però è formale
ex lege, il che, se allontana dall’art. 1414 cpv. – il quale alla forma del
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contratto dissimulato fa riferimento –, rimbalza però sui citati artt. 2725 e
2729 cpv.
Ecco che allora si fa strada, nella mente dell’interprete, la figura della società
occulta, e l’esigenza di raffrontarla con la società apparente. Si pensa infatti:
se la prova della società apparente…”appare” diabolica, perché il contratto
di società è formale, allora può essere che si debba ragionare in termini di
una società che non è stata “formalizzata”, e che pure vi è - epperò è
occulta.
Ciò prima di rassegnarsi al deludente esito di una società apparente relegato
alla società semplice senza apporti immobiliari o di mobili registrati.
Deludente sì, ma in specie contraddittorio. Ché se il fine precipuo della
figura dell’apparenza societaria è tutelare i creditori nel fallimento (v. supra),
la tigre “è di carta”, sol che si pensi che la società semplice, non potendo
svolgere attività commerciale, non fallisce (artt. 2249 c.c. ed art. 1 legge fall.).
3.- (SEGUE):
B)
L’OLTREPASSAMENTO
DELLA
SOCIETA’
OCCULTA
E
L’AMBIGUITÀ DELL’ART. 1414 CPV.
Se la società apparente si manifesta e risulta tale nell’affidamento dei terzi,
anche se i soci apparenti nel sostrato veridico non sono soci, viene da dire
che la società occulta è il rovescio. Che, cioè, essa non si manifesta in alcun
modo come ente e compagine sociale, eppur vi è nella sostanza delle cose.
Oltrepassando questo linguaggio a-giuridico, e piuttosto lumeggiando gli
interessi in gioco, la società occulta – in uno con l’imprenditore occulto di
bigiaviana memoria – nasce idealmente, ancora una volta, a tutela dei
creditori in ispecie fallimentari. Per i creditori, cioè, non è la stessa cosa
potersi rivalere su – e se del caso far fallire – un imprenditore individuale,
invece che una società composta di quello stesso soggetto oltre ad un altro,
persona fisica o giuridica illimitatamente responsabile (atteso che, dopo la
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riforma del 2003, la vexata quaestio della possibile partecipazione di società di
capitali in società di persone si è finalmente conchiusa in senso positivo).
Ora però, anche a questo proposito, un po’ come si è visto accadere con la
società apparente, perspicua dottrina (Denozza) tende a ridimensionare la
categoria giuridica. Ché – si osserva – per un verso la teoria bigiaviana
dell’imprenditore occulto (cui si connette quella della società occulta) è
risalente e non è mai stata massivamente condivisa; per altro verso le spinte
che stavano alla sua base, sul piano degli interessi, sono oggidì oltrepassate
dall’art. 147 legge fall.
Ed invero, ai sensi di tale norma, i soci illimitatamente responsabili,
quand’anche non persone fisiche e “risultanti” dopo la dichiarazione di
fallimento, falliscono ipso jure per il fallire della società commerciale
partecipata – sempre che questa sia una s.a.p.a. ovvero una s.n.c. o una s.a.s.
Al che viene da chiedersi: ha qualche cosa tutto ciò a che fare con l’istituto
della simulazione?
Certo si è che vi è un ostentamento – per esempio l’impresa individuale – e
di contro un nascondimento – per esempio un socio occulto (persona fisica
o giuridica) di quello, per di più col tratto della responsabilità illimitata. Ma,
in materia societaria, ancora si dubita che ci si possa muovere sul piano
semplicemente contrattuale, concependo la dissimulazione assoluta di un
contratto di società.
Piuttosto, si preferisce dire che ciò che è fatto oggetto di ostensione, e per
l’opposto di nascondimento, è nella sua propria essenza un’attività. Ma per le
attività, si chiosa, non si dà simulazione (Distaso).
Tal che, sebbene anche in subiecta materia emergano interessi di tutela di terzi
creditori, la figura della società occulta non permette di scavare oltre nel
solco della società apparente. In effetto, come da presentimento, nella
società occulta il problema formale del contratto sociale svapora. Ma ciò
non tanto perché in questa, a differenza che nella società apparente, il
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contratto sociale è dissimulato anziché simulato; ché, comunque,
diversamente dal “contratto (..) apparente” (art. 1414 cpv.) - cioè a dire
anche un non-contratto - sussiste au fond nella società occulta un contratto
sociale per cui s’impongono i requisiti di forma. Per parte sua, nel caso della
società apparente, il contratto sotteso – per definizione un non contratto –
può bensì essere fatto valere, ma sembrerebbe che, per apparire, il contratto
stesso si debba manifestare coi suoi crismi di forma legale. Viceversa, più
che un apparire, esso si palesa come flatus vocis o fantasma, cui nessuna
persona non dissennata dà credito (nel senso di affidamento) sia pur come
mero noumeno.
All’uopo conviene dire due parole, ancora, sul capoverso dell’art. 1414. Ci si
è domandati, in dogmatica, se ivi la sussistenza dei requisiti legali di sostanza
e di forma vada riferita al contratto esibito oppure a quello occultato.
Ebbene, osservando sintatticamente il periodo dell’alinea, si vede che il
soggetto del verbo “ha effetto” è “il contratto dissimulato” – quello cioè
“diverso da quello apparente”; dopo di che, c’è forse un “ne” di troppo (“ne
sussistano”), ché bastava dire “purché sussitano”. Ma quel “ne” assume un
portato, sol che si provi a leggere il periodo omettendolo, col che si ha la
sensazione che il sussistere dei requisiti di sostanza e di forma si riferisca a
un che d’imprecisato, a un nulla o a un tutto - il che fa lo stesso. Ecco che
allora “ne sussistano” significa che “ivi” – cioè nello stesso contratto
dissimulato - debbono sussistere detti requisiti, per come la legge lo regola
sul piano della forma a seconda di quale contratto esso sia. E non di meno
taluno ha opinato che non si legge “ivi” bensì “ne”, e che pertanto
quest’ultima particella vada riferita a ciò che è più sopra, cioè al “contratto
(..) apparente”; sicché in quest’angolo il contratto nascosto può bensì
produrre effetti (tra le parti), ma purché esso abbia gli stessi crismi di forma
esistenti o prescritti quanto al contratto apparente.
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Ora non vi è chi non veda che la tutta la problematica della forma, riferita
alla società apparente, in tanto ha un senso in quanto si adotti la seconda
lettura - testé prospettata - dell’art. 1414 cpv.; nel senso cioè che il noncontratto di società – scil. l’assenza di esso – può valere a dispetto
dell’apparenza societaria purché abbia, quale controdichiarazione, la forma
scritta. Quanto all’atto notarile, il pubblico ufficiale non può, per
ordinamento che gli compete, rogare una dissimulazione assoluta; e quindi al
più l’atto pubblico non sarà un non-contratto (cioè appunto una
controdichiarazione nullificante rispetto all’apparire), bensì una società con
una diversa compagine partecipativa.
4. (SEGUE): C) LA SOCIETÀ DI FATTO COME CREAZIONE GIURISPRUDENZIALE
SOLUTRICE, IN UNO CON LA TEORIA DELLA CONTRADDIZIONE ANCIPITE
Che sia forse la nozione di società di fatto a illuminare i nostri temi?
Anche qui siamo in presenza di una creazione giurisprudenziale, tanto è vero
che le corti hanno consolidato da tempo la nota triade di elementi, i quali
debbo sussistere acciocché di società di fatto possa parlarsi: a) fondo
comune; b) alea comune; c) affectio societatis.
Prescindendo dalle questioni insite in codesta triade – come per esempio la
impalpabilità dell’affectio (tal che si parla di prova diabolica) -, fatto si è che, al
manifestarsi dei tre indici scatta - anche e sopra tutto verso
l’amministrazione finanziaria - un ente di fatto, che non può essere una
società di capitali (ancora per la forma notarile), ma quanto meno una
società di persone, anche commerciale, sotto la specie della “società
irregolare” di cui all’art. 2297.
E qui vi è un primo passo in avanti, alla luce del diritto vivente in parola.
L’art. 2297 non disciplina il contratto di società irregolare siccome concluso
oralmente (a dispetto dell’art. 2296), ma in quanto non (ancora) iscritto nel
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registro delle imprese (alla camera di commercio competente per territorio).
Dal che è inferibile che la forma scritta dei contratti di società commerciali
di persone non è a pena di nullità, bensì mezzo per la pubblicità.
Ulteriore corollario è quello per cui non occorre che una società apparente,
per potersi manifestare come tale, sia dotata au fond di una
controdichiarazione “nullificatrice” in forma scritta. Per la contraddizione
che non lo consente.
E ancora l’art. 1414 cpv. c.c. va probabilmente letto nel senso che i requisiti
di forma debbono sussistere in capo al contratto dissimulato/occulto,
identificati a mezzo delle norme legali sul tipo di contratto che le parti
vogliono sia “effettivamente” – cioè il simulato corretto dal dissimulato (sì
che, nel caso della clausola simulata sul prezzo della compravendita
immobiliare, occorre che il sovrappiù di numerario “in nero” sia pattuito
anch’esso per iscritto).
Orbene, rispetto alla società apparente, la società di fatto sembra possedere
una qualche differenza strutturale. Nel senso che nella prima una società si
manifesta come tale anche se per vero non c’è; mentre nella seconda essa si
manifesta per quel che è, nonostante non sia stata regolarizzata al registro
delle imprese – ergo si manifesta come esistente al di là della insussistente
pubblicità.
Che se poi ci si muove verso la società occulta, viene da dire che questa non
appare eppure c’è; mentre la società di fatto appare e, nonostante il difetto di
pubblicità, vi è altresì.
Sono differenze che sfumano non poco, sol che si esca dal dogma
volontaristico e dunque ci si distacchi dal volere non formalizzato dei soci.
Non è un caso che in dottrina (Cottino, Galgano) si discuta sull’autonomia
effettiva delle tre figure, non essendo essa affatto scontata.
Sul piano degli interessi, è sempre il terzo contraente – creditore – a essere al
centro dell’attenzione. Talché si pensa che il creditore della società apparente
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meriti tutela siccome tale, poiché egli è incorso nell’affidamento di buona
fede, giusta il quale l’ente societario esiste. Per parte sua, il contraente
creditore della società occulta, si pensa meriti tutela sulle orme dell’art. 1415
cpv. c.c. Infine, quanto alla società di fatto, di nuovo l’affidamento in ciò che
si palesa effettualmente, dovrebbe far divisare, in capo al terzo contraente,
una tutela facente capo, in buona sostanza, all’art. 1415, primo comma, c.c.
A questo punto, però, torna in considerazione quella dottrina antiontologista – e piuttosto de-ontica -, di cui si è fatta menzione all’inizio di
questo scritto (par. 1, in fine). Se ci si pone in quell’ottica prospettica, si
debbono abbandonare le categorie dell’essere e dell’apparire – che si è visto
condurre, nella nostra materia, a taluni confondimenti e difficoltà probatorie
-, per concepire l’idea di un nucleo diverso delle fattispecie. Un nucleo che è
quello della contraddizione ancipite, tale per cui indici contrattuali, che
depongono in un certo segno (esistenza di una società o viceversa), si
giustappongono ad altri indici, pure effettuali, che depongono nella
direzione esattamente opposta (inesistenza di una società o viceversa).
Ebbene, sussistendo una sì fatta ambiguità, l’ordinamento – si dice – non la
vieta ma neppure la sostiene e l’appoggia. Ché piuttosto esso impone ai
consociati di essere quanto più univoci e meno ambigui possibile, onde non
ingenerare misunderstandings in capo ai terzi, contraenti ed in ispecie creditori.
Tal che l’ancipitezza testé detta va risolta, ermeneuticamente, in un senso o
nell’altro, proprio nell’interesse dei terzi. E tra i due (o più) corni della
fiamma, prevarrà obiettivamente quello che: a) o genera affidamento (arg. ex
art. 1415 c. 1°); b) oppure merita di essere maieuticamente portato a galla per
non danneggiare chi, dal sostrato (semi)nascosto, trae nocumento (arg. ex
art. 1415 cpv.).
Il che pare un’endiadi contraddittoria, sì che non si capisce quale dei due
risvolti, di testo e contesto negoziale, si dia per essente per i terzi. E qui la
legge, a rigore – sol che si esamini il mentovato art. 1415 nella sua totalità –,
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induce l’interprete a ritenere che: a) il terzo creditore può di per sé risolvere
l’ancipitezza (con)testuale, facendo emergere ciò che ictu oculi non risulta ma
nell’insieme prevale; b) invece il terzo, che non è direttamente creditore di
uno dei soggetti del rapporto contrattuale ancipite bensì successore a titolo
particolare da uno di quelli, merita tutela laddove non si sia avveduto
dell’ancipitezza del (con)testo, e sia per l’effetto – in buona fede – caduto
nella lettura più immediata e superficiale dell’ancipitezza stessa (magari non
avvedendosi neppure della contraddizione da dipanare).
E allora tutto si fa questione, eminentemente, di “testo e contesto” (per dirla
con Irti), cioè d’interpretazione di langue e parole, di segni e indici e stati di
cose.
E per vero tutto ciò non spazza via i problemi legati al formalismo
negoziale, di cui si è ampiamente detto. Infatti, nella maieutica di testo e
contesto, l’art. 1414 cpv. permane al centro della deontica e, secondo la
preferibile lettura di tale disposto (supra, par. 3, in fine), bisogna pensare che una visione punitiva per le sole parti sul piano del formalismo apparendo
opinabile - non soltanto tra i contraenti dell’ancipitezza, ma anche verso i
terzi, occorra che l’eventuale forma legale (di testo e contesto) sia rispettata
in toto, senza degradare, in porzioni dell’ambiguità, verso forme meno
rigorose di quelle prescritte.
Certo, fattispecie e disciplina giurisprudenziale della società di fatto aprono
in subiecta materia qualche scorcio sul punto della forma; ma si tratta di un
alcunché di limitato, risolvendosi nella sola collettiva e nell’accomandita
semplice (arg. ex artt. 2297 e 2315).
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federico maria giuliani - Quadrimestrale di Business and Tax