2003 2004 LUGANO AUDITORIO STELIO MOLO DELLA RSI DOMENICA ore 17.30 20 2 16 7 21 18 1 22 7 settembre novembre novembre dicembre dicembre gennaio febbraio febbraio marzo ENTRATA LIBERA 9 concerti per ascoltare e capire la musica degli ultimi cento anni Studenti e insegnanti della sezione professionale del Conservatorio della Svizzera italiana diretti da Giorgio Bernasconi Presentazioni di Giovanna Riva Un progetto di CONSERVATORIO DELLA SVIZZERA ITALIANA con il sostegno di Commissione culturale cantonale Entrata libera 2003 2004 Giunto al quinto anno il ciclo Novecento, passato e presente sembra essersi conquistato una posizione di riferimento primaria nel campo della musica moderna e contemporanea nella nostra regione, sia in rapporto col pubblico sia in relazione con i compositori e gli interpreti. Diventato una specificità nel programma didattico del Conservatorio della Svizzera italiana, che ne ospita lo stadio preparatorio prima dei concerti, una delle ragioni della sua crescita sta senza dubbio nell’aspetto interdisciplinare. È indubbio che, anche di fronte all’accelerazione delle comunicazioni (responsabile di ogni forma di sincretismo nell’universo audiovisivo elettronico da cui siamo inondati), l’organizzazione della cultura ha ancora grandi difficoltà ad uscire dalla categorizzazione delle discipline artistiche com’è stata ereditata dall’Ottocento. Venuta meno l’unità del verbo musicale tentata per l’ultima volta dall’esperienza di Darmstadt negli anni Cinquanta, conclusasi con il riconoscimento di tanti linguaggi quanti sono gli individui creatori (addirittura di codici validi solo per singole opere), la musica si è trovata a ridare senso ad ogni singolo suono ripercorrendo le sue relazioni con il mondo. L’astrazione, coltivata come sforzo epurativo di ogni scoria e ipoteca di ordini imposti, anziché approdare a una dimensione assoluta (che per essere tale richiederebbe un grado di spiritualità e di utopia vietata a un’epoca quale la nostra caratterizzata dalla caduta delle ideologie), ha semplicemente ritrovato la via delle attribuzioni di senso nel cucire nuovi rapporti tra l’esistente. Il suono è tornato quindi a contaminarsi con le idee e con le rappresentazioni, a ricercare il nuovo non tanto nel mai udito quanto nella ricombinazione dei suoni, al di là di ciò che non si è ancora sperimentato ma nella memoria degli ascolti che essa è riuscita a trattenere. Il campo che si apre oggi davanti al compositore non riguarda quindi solo la dimensione del suono, ma ogni sua possibile applicazione. Di qui l’interesse per il rapporto con l’immagine, con la parola, con il gesto, con i corpi in movimento, nel recupero della dimensione letteraria, teatrale, visiva, ecc. alla ricerca di nuove unità e in un quadro multidirezionale che esige la riscrittura dei criteri di giudizio. In verità tale processo obbliga a rivedere anche il secolo che ci sta alle spalle, responsabile non solo del radicalismo che ha innescato il processo di evoluzione linguistica che ci ha portati a questo stadio, ma anche della ramificazione delle ipotesi compositive testimoniata dall’avanguardia fin dall’origine (nelle soluzioni alternative sperimentate sulla scena, sullo schermo filmico e attraverso altre vie alla ricerca di un ruolo all’altezza dei tempi). Il quinto ciclo di Novecento, passato e presente offrirà quindi alcuni significativi spunti di riflessione su opere del passato novecentesco che testimoniano tale ambito di relazioni, in presentazioni diramate in allestimenti veri e propri realizzati in collaborazione con la Scuola Dimitri e con il Dipartimento arti applicate della SUPSI. Lo spettro della manifestazione quest’anno si allarga anche grazie all’identificazione di un’unità d’intenti nel vicino Conservatorio di Como, ospitando una produzione del suo Triennio superiore sperimentale di Musica elettronica e tecnologie on line, così come le opere premiate al Concorso di composizione “Città di Como”. Infine il ritorno dopo ben 20 anni nella Svizzera italiana dell’annuale Festa dei Musicisti svizzeri, permettendo di contare sulla presenza di un pubblico aggiuntivo di intenditori e di professionisti provenienti dal resto del paese, ci ha indotto a far coincidere il nostro primo appuntamento con un concerto offerto in quell’ambito, integralmente dedicato a compositori svizzeri contemporanei. L’occasione è quindi anche quella di mostrare agli amici di oltralpe i progressi intercorsi negli ultimi due decenni nella vita musicale della nostra regione. Carlo Piccardi Giorgio Bernasconi Nato a Lugano, si è diplomato in corno al Conservatorio G. Verdi di Milano. Ha proseguito gli studi presso la Hochschule für Musik di Friburgo in Germania dove ha studiato composizione con Klaus Huber e direzione d’orchestra con Francis Travis, diplomandosi nel 1976. È stato per anni animatore e direttore del Gruppo Musica Insieme di Cremona, con il quale ha svolto un’intensa attività concertistica. Ha collaborato con la cantante Cathy Berberian con cui ha effettuato numerosi concerti in Italia e all’estero. Dal 1982 è regolarmente invitato a dirigere l’Ensemble Contrechamps di Ginevra con il quale, oltre ad essere costantemente presente nelle più importanti sedi concertistiche europee, ha effettuato tournées in Sudamerica, India, Giappone, Russia. Parallelamente a questa attività è spesso ospite di diverse orchestre italiane e straniere quali l’Orchestra della Svizzera italiana, l’Orchestra Sinfonica dell’Emilia Romagna “Arturo Toscanini”, l’Orchestra Nazionale Belga, la Tokyo Symphony Orchestra, l’Orchestra Filarmonica di Radio France. Dal 1999 si occupa dei concerti di musica da camera dedicati al repertorio noceventesco presso il Conservatorio della Svizzera, dove da quest’anno è titolare dell’insegnamento della direzione d’orchestra della musica contemporanea. 20 settembre Auditorio del Conservatorio della Svizzera italiana Inizio ore 15 Sándor Veress 1907-1992 Introduzione e coda per clarinetto, violino e violoncello Klaus Huber *1924 Auf die ruhiger Nacht-Zeit per soprano, flauto, viola e violoncello Heinz Holliger *1939 Vier Lieder ohne Worte per violino e pianoforte Thüring Braem *1944 Alleluja per voce sola Stefano Gervasoni *1962 Quattro voci per voce, flauto, clarinetto e pianoforte Barbara Zanichelli soprano Direzione Giorgio Bernasconi Francesco Angelico (allievo del corso) novembre 2 Concerto dei premiati al Concorso di composizione Città di Como Programma da definire Ensemble Laboratorio di musica contemporanea diretto da Guido Boselli In collaborazione con la Fondazione Giuditta Pasta 16 novembre Michael Jarrell *1958 Résurgences per sassofono e strumenti Solista Laurent Estoppey Arnold Schoenberg 1874-1951 Verklaerte Nacht op.4 per sestetto d’archi Gian Carlo Menotti *1911 Il telefono l’amore a tre opera buffa in un atto Libretto dell’autore Personaggi e interpreti Lucy Akiko Takiguchi soprano Ben Davide Fersini baritono Regia Barbara Bernardi In collaborazione con la SUPSI dicembre 7 Sylvano Bussotti *1931 Lachrimae per voci sole Karlheinz Stockhausen *1928 Refrain per tre esecutori (pianoforte, celesta, vibrafono) Rudolf Kelterborn *1931 Seismogramme per quattro viole da gamba Gabriel Fauré 1845-1924 Messe basse per coro di voci bianche e organo Maki Ishii 1936-2003 Black Intention IV per quattro flauti dolci Claudio Pontiggia *1963 Isetnis Improvvisazione per corno e strumenti Claudio Pontiggia corno Jean-Christophe Cholet pianoforte Coro Clairière diretto da Brunella Clerici 21 dicembre Elettrosensi Giorgio Colombo Taccani *1961 Chant d’hiver 1995 per violino e elettronica Fabio Cifariello Ciardi *1960 Finzioni 1991 per violino e nastro magnetico a quattro piste Gabrio Taglietti *1955 Aria 1994 per violino e nastro magnetico Giovanni Cospito *1955 Microcromie e interferenze 2003 per violino elettroacustico e elettronica Steve Reich *1936 Violin Phase 1979 for violin and pre-recorded tape Giuseppe Crosta Giovanni Cospito violino elettroacustico elettronica e regia del suono In collaborazione con il Conservatorio di Musica “G. Verdi” di Como Triennio Superiore Sperimentale di Musica Elettronica e Tecnologie on Line e con la Fondazione Giuditta Pasta gennaio 18 Igor Stravinsky 1882-1971 Pribautki per voce e 8 strumenti Quattro canti paesani russi per coro a cappella Pastorale per violino e quattro strumenti a fiato Berceuse du chat per voce e 3 clarinetti Les noces scènes chorégraphiques russes per soli, coro, 4 pianoforti e percussione Luisa Castellani soprano Coro da camera dell’Università di Friburgo diretto da Pascal Mayer 1 febbraio Claudio Monteverdi 1567-1643 Il combattimento di Tancredi e Clorinda dalla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso versione a cura di Luciano Berio per 3 viole, violoncello, contrabbasso e clavicembalo Testo Clorinda Tancredi Alfredo Grandini, baritono Barbara Zanichelli, soprano Davide Fersini, baritono Luciano Berio 1925-2003 Laborintus II Testo di Edoardo Sanguineti per voce recitante, tre voci femminili, otto attori, strumenti e nastro magnetico Voce recitante Federico Sanguineti Preparazione delle voci e regia Antonella Astolfi In collaborazione con la Scuola Dimitri febbraio 22 Hanns Eisler 1898-1962 Suite n. 2 dal film Niemandsland trascrizione per piccolo complesso di Steffen Schleiermacher Suite n. 3 dal film Kuhle Wampe trascrizione per piccolo complesso di Steffen Schleiermacher Suite n. 4 dal film Die Jugend hat das Wort trascrizione per piccolo complesso di Steffen Schleiermacher Arthur Honegger 1892-1955 L’idée musica per il film d’animazione di Bertold Bartosch 7 marzo Jean Cocteau 1889-1963 Les Mariés de la Tour Eiffel per due voci recitanti e mimi con le musiche di scena di George Auric 1899-1983 Ouverture Darius Milhaud 1892-1974 Marche Nuptiale Francis Poulenc 1899-1963 Francis Poulenc Darius Milhaud Germaine Tailleferre 1892-1983 Discours du Général La Baigneuse de Trouville Fugue du Massacre Valse des Dépêches Arthur Honegger 1892-1955 Germaine Tailleferre Marche Funèbre Quadrille Georges Auric Darius Milhaud Ritournelles Sortie de la Noce versione per orchestra da camera di Marius Constant Claudio Moneta Federico Caprara speaker speaker Scene e costumi Michel Gorsatt Regia di Jean Martin Roy In collaborazione con la Scuola Dimitri e la SUPSI Conservatorio della Svizzera italiana Il Conservatorio della Svizzera italiana nasce come Accademia di Musica della Svizzera Italiana, nel luglio 1985, su iniziativa privata con lo scopo di offrire ai giovani ticinesi un insegnamento musicale qualificato, sia a livello professionale, sia a livello amatoriale. La sezione professionale raggiunge entro breve tempo un ottimo livello ottenendo già nell’aprile 1988 il riconoscimento dei suoi diplomi a livello federale dalla Conferenza dei Direttori dei Conservatori Svizzeri. Segue il riconoscimento da parte del Cantone Ticino. Da allora il Conservatorio ha guadagnato prestigio, ha continuamente migliorato la qualità della formazione, diventando – grazie anche alla fama dei suoi docenti – una meta per studenti provenienti da tutto il mondo: tra gli studenti che hanno svolto i loro studi a Lugano troviamo giovani russi, giapponesi, coreani, statunitensi, australiani, argentini, colombiani, canadesi e naturalmente tanti europei, svizzeri e ticinesi. Nel gennaio del 2000 è stato superato un traguardo importante con il riconoscimento provvisorio quale Scuola universitaria di musica, passo indispensabile per poeter offrire anche in futuro una formazione musicale professionale di livello internazionale. In questo senso esiste pure un dipartimento di ricerca e sviluppo, anch’esso fondamentale per il consolidamento quale Scuola universitaria di musica. interpreti Francesco Angelico Nato nel 1977 a Caltagirone, è diplomato in violoncello. Dal 1999 al 2002 ha suonato nell’Orchestra Giovanile Italiana sotto la direzione di Yuri Ahronovitch, Zubin Mehta, Claudio Abbado, Carlo Maria Giulini, Gianandrea Noseda. Ha frequentato corsi di direzione d’orchestra con Carlo Maria Giulini, Deian Pavlov e Jorma Panula. Dal 2002 approfondisce il repertorio del XX secolo con Giorgio Bernasconi presso il Conservatorio della Svizzera italiana, ottenendo una borsa di studio della Fondazione G. Camozzi. È stato selezionato per l’ammissione al Corso internazionale di direzione d’orchestra organizzato dalla Fondazione “Orpheum” di Zurigo. Antonella Astolfi Dopo essersi diplomata nel 1979 all’Istituto delle Arti di Monza ha conseguito nel 1981 il diploma in drammaturgia al Piccolo Teatro di Milano. Dal 1982 si è volta alla formazione in training di voce e in canto jazz classico e lirico. Dal 1986 insegna alla Scuola teatro Dimitri. Barbara Bernardi Bolognese, regista di teatro e di programmi radiotelevisivi, specializzatasi all’inizio degli anni ‘80 nella regia lirica con il progetto “Teatro Studio” (che ha diplomato, tra gli altri, Carlo Rizzi e Luisa Castellani e dove ha studiato con Götz Friederich e Renate Ackermann). Ha curato numerose regie d’opera in teatri italiani. Si dedica da anni soprattutto alla didattica e insegna in numerosissimi corsi di formazione, oltre che al Conservatorio della Svizzera Italiana e all’Accademia Internazionale della Musica di Milano. Dal 2003 è docente nei Master sull’ Opera Buffa dell’Associazione ‘700 Musica di Brescia. Federico Caprara Nato a Venezia nel 1964, si è formato alla Scuola di teatro “Avogaria” di Giovanni Poli, frequentando in seguito il Laboratorio di esercitazioni sceniche di Roma diretto da Luigi Proietti. Ha partecipato anche all’”atélier” del Centro di arte scenica contemporanea “Arsénique” di Losanna. Ha lavorato con vari registi (G. Perelda, L. Proietti, B. Morassi, A. Marchetti, S. Piccardi, A. Ballerio) ed ha partecipato anche a produzioni cinematografiche e televisive. Luisa Castellani Interprete particolarmente apprezzata per l’estrema duttilità della tecnica vocale, affinata con insegnanti come Gina Cigna e Dorothy Dorow, si dedica in particolare al repertorio contemporaneo. La curiosità intellettuale l’ha portata e realizzare anche concerti-spettacolo, a voce sola o con altri solisti (ad esempio Atopos con Antonio Ballista). Luciano Berio l’ha voluta per dar voce alla nuova edizione del suo Calmo, che Luisa Castellani ha portato nei principali teatri e festival insieme con Sequenza III e Folksongs. Ha assicurato “prime assolute” di composizioni di autori quali Berio, Cage, De Pablo, Donatoni, Ferneyhough, Francesconi, Gervasoni, Kurtag, Panni, Pennisi. Ha interpretato le opere dei più importanti compositori del 900 storico, sotto la direzione di maestri come Berio, Eötvos, Ferro, Gelmetti,Robertson, Sinopoli, Tamayo. Ha ricoperto ruoli in Esequie della Luna e Tristan di F. Pennisi, Anton di E. Scogna, The turn of the screw di B. Britten, Outis e La vera storia di L. Berio, La madre invita a comer di L. De Pablo, Il velo dissolto di F. Donatoni, in teatri come La Scala di Milano, il Teatro Comunale di Firenze e la Fenice di Venezia e ha ricevuto, nel 1991 il premio Gino Tani per la lirica. Ha collaborato con varie orchestre e vari ensembles (London Sinfonietta, Wien Modern, Ensemble Intercontemporain, ASKO Ensemble di Amsterdam, Copntrechamps, ecc.) e partecipato a festival importanti (Helsinki, Berlino, Venezia, Bruxelles, Holland Festival e altri). Come didatta, è stata invitata a tenere corsi di perfezionamento e conferenze in molti paesi (Bolivia, Cina, Stati Uniti, Svizzera, Ungheria), oltre che in Italia, come responsabile della Classe di Vocalità Contemporanea dei Corsi di formazione della CEE. Ha registrato per radio e televisioni in molti paesi e numerosi CD. JeanChristoph Cholet È nato nel 1962 a Bhül in Germania. Di formazione classica, egli si consacra definitivamente al jazz a 23 anni. Allievo di Bill Dobbins, Kenny Barron e Richie Beirach, ha vinto per due anni consecutivi il Concours National de Jazz de la Défense ed è stato finalista per la direzione dell’Orchestre National de Jazz (ONJ). È leader e compositore dell’Odéjy (Orchestre départemental de Jazz de l’Yonne) con la quale ha registrato, nel 1995, la Suite alpestre ispirata al folclore musicale transalpino e realizzata in coproduzione con Mathias Rüegg (Vienna Art Orchestra). Tale registrazione ha ricevuto il giudizio “Choc” del mensile specializzato “Jazzman”. Ha composto musica per spettacoli di danza, per il circo, il teatro e musica sinfonica. Ha suonato con W. Puschnig, L. Sclavis, M. Portal, F. Jeanneau, P. Fresu, M. Michel; è stato membro del Claudio Pontiggia Sextet (CD Espoir nel 1999) e de Il Trio (CD Aspetti nel 2000 e CD Immagini e percorsi nel 2001) con C. Pontiggia, H. Keanzig e M. Papaux. Dal 2000 al 2003 è stato responsabile del Teatro di Auxerre (Bourgogne). L’identità della sua scrittura, dalle melodie raffinate e ricche di colori, si è manifestata già dal suo primo disco del 1992 Ostinatologie che gli ha fatto guadagnare la stima di tanti jazzisti in Francia e all’estero. Coro Clairière Il Coro di Voci Bianche Clairière nasce all’interno della Scuola di Musica del Conservatorio della Svizzera Italiana ed è composto da ragazzi e ragazze dai 5 ai 16 anni. Tre sezioni corrispondenti all’età e al livello di preparazione compongono un gruppo di una settantina di elementi che presenta un repertorio molto variegato che spazia dalle sequenze gregoriane a pagine del romanticismo tedesco e francese, privilegiando gli autori del 900. Interpreta pure brani di musica popolare, in particolare dell’Est europeo, che canta in lingua originale. Ha al suo attivo numerosi concerti nella Svizzera Italiana e all’estero. Nell’estate 2002 ha partecipato, con 6 rappresentazioni, alla Carmen di Bizet messa in scena al Castelgrande di Bellinzona. Sulla base di alcune registrazioni è stato selezionato quale rappresentante della Svizzera Italiana insieme ad alcuni prestigiosi cori europei per partecipare alla 39.ma edizione del Festival di musica corale di Montreux, che si è svolto dal 4 al 7 aprile 2002, ottenendo una menzione e riscuotendo un notevole successo di pubblico e critica. Brunella Clerici Nata nel 1967, ha compiuto gli studi musicali al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, diplomandosi in pianoforte, composizione, musica corale e direzione di coro. La sua pratica è prevalentemente rivolta alla coralità giovanile: dal 1994 dirige il coro di voci bianche al Conservatorio della Svizzera italiana, con il quale ha tenuto numerosi concerti in Svizzera e all’estero. Alcune sue composizioni sono state eseguite nella rassegna Musica e Metrò di Milano, presso la Sala di Como e nel ciclo Novecento, passato e presente. Laurent Estoppey Sassofonista svizzero nato a Try (VD) nel 1970. Ha studiato al Conservatorio di Losanna, dove si è diplomato, con Michel Surget e Georges Koerper. Ha svolto attività di insegnante in vari conservatori svizzeri (Vevey, Morges, Neuchâtel, La Chaux- deFonds). Dal 2000 insegna al Conservatorio della Svizzera italiana. Dal 2001 è direttore della Scuola di Musica della Città di Losanna. Si esibisce come solista e in formazioni cameristiche (Duo Dilemme, Quatuor Marquis de Saxe, EC2 Sextet, Duo Degré 21, 1+1=1+1 concerts-concepts con la flautista Anne Gilliot). Collabora con varie orchestre e gruppi strumentali (Orchestre de chambre de Genève, Orchestra della Svizzera italiana, Sinfonietta de Lausanne, Ensemble Contrechamps, Verbier Festival Youth Orchestra). Dei concorsi a cui ha partecipato sono da menzionare il primo premio al Concorso Léopold Bellan di Parigi (1990) e il primo premio al Concours national d’exécution musicale di Riddes (1993). È molto attivo nel campo della musica contemporanea ed ha collaborato con molti compositori svizzeri assicurando l’esecuzione di una ventina di opere (P.Grella-Mozejko, G. Nicholson, D. Visvikis, L. Mettraux, F. Maffei, M. Guerandi, A. Albanese, C. Charrière, J.-L. Darbellay, A. Kovach, C. Taranu, A. Chalier, J. Balissat, I. Gotovsky). Davide Fersini Nato a Milano nel 1976. Dopo essersi laureato in psicologia nel 2001 ha intrapreso lo studio regolare del canto sotto la guida del baritono Roberto Coviello presso l’Accademia Internazionale della Musica di Milano (ex Scuola Civica Musicale). Nel 2003 ha iniziato ad esibirsi in concerti operistici, debuttando come Brighella in un allestimento dell’Arlecchinata di Antonio Salieri allestita dall’Associazione 700 Musica di Brescia. Michel Gorsatt Nato a Vevey nel 1963. Dopo aver frequentato l’anno introduttivo all’École de Beaux-Arts di Sion e dopo la maturità artistica, ha frequentato l’Accademia di Brera dove si è diplomato in scenografia nel 1991. Attualmente frequenta l’ultimo semestre del DAA (architettura d’interni) presso la SUPSI a Lugano. Dal 1995 insegna scultura su creta privatamente e per conto del Dipartimento Istruzione e Cultura del Canton Ticino (corsi per adulti). Nel 2001 ha realizzato per la SUPSI la scenografia di Marie Curie, una donna di Lunari-Piccardi al Teatro Cittadella di Lugano. Alfredo Grandini Baritono formato nei Conservatori di Pesaro e di Firenze. Dopo essersi laureato all’Università di Bologna si dedica anche alla ricerca musicologica. È autore di saggi pubblicati su riviste specializzate e di uno studio sull’attività del Teatro Petrarca di Arezzo pubblicato da Olschki. A questa città è legato anche per aver fatto parte per oltre dieci anni della commissione artistica della Fondazione “Guido d’Arezzo” organizzatrice dell’omonimo Concorso Polifonico Internazionale di cui è stato direttore esecutivo. Dal 2000 al 2002 ha diretto anche il Settembre Musicale Aretino, da lui ideato. La sua attività concertistica si svolge prevalentemente in ambito cameristico ed oratoriale con esibizioni in Italia e all’estero (Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Svizzera, Austria, Canada), soprattutto nei festival di musica antica. Partecipa regolarmente alle produzioni del Coro della RTSI diretto da Diego Fasolis. In altre occasioni ha collaborato con complessi quali I Solisti del Madrigale, Nova Ars Cantandi, Odhecaton, L’Homme armé, King’s Consort, The Harp Consort, la Stagione Armonica, Cantar lontano. Pascal Mayer Fondatore del Chœur de l’Université et des Jeunesses musicales di Friburgo, che ha diretto fino al 2000, ha studiato canto e direzione di coro nei Conservatori di Friburgo e di Zurigo. Nel corso degli studi è stato membro dell’Ensemble Vocal de Lausanne (sotto la direzione di Michel Corboz), del Chœur de la Radio Suisse romande (sotto la direzione di André Charlet) e del Coro da camera di Stoccarda (sotto la direzione di Frieder Berius). Pauls Sacher l’ha chiamato a dirigere per cinque anni il Basler Kammerchor, mentre è stato condirettore del Chœur de Chambre Romand dal 1987 al 1997 a fianco di Charlet. Nel 1995, con il collega vallesano Hansruedi Kämpfen, ha costituito il Chœur suisse des Jeunes sotto l’egida della Federazione Europa Cantat. Da 19 anni dirige la Maîtrise de Saint-Pierre-aux-Liens di Bulle. A Losanna è direttore del coro Faller e, dal 1999, del coro Pro Arte. È professore di musica al Collège Sainte-Croix di Friburgo. È spesso invitato a Monaco e a Dresda, come preparatore dei rispettivi cori radiofonici. Claudio Moneta Nato a Milano nel 1967 si è formato presso il Centro Teatro Attivo di N. Ramorino e N. Bonati. Ha iniziato l’attività di attore professionista nel 1989, facendo parte di varie compagnie (Calindri-Feldmann, Mantesi-Migneco, Teatro dell’Elfo, Chiediscena, Lugano Teatro, Nuovo Piccolo Teatro, ecc.). Svolge un’intensa attività di doppiatore. Collabora alla RTSI dal 1994, tra l’altro prestando la voce al pupazzo Peo nella fortunata serie televisiva per bambini. Jean-Martin Roy Dopo la formazione di attore è stato membro fondatore del Théâtre-Création di Losanna. Dal 1972 ha lavorato come docente alla Schauspielschule di Amburgo e tenuto corsi in tutta la Germania. Dal 1977 al 1980 è stato insegnante di “improvvisazione teatrale” presso la Scuola Teatro Dimitri, di cui è stato direttore nel periodo 1983-1986. Come libero professionista lavora in qualità di attore e di regista in tutta la Svizzera. Federico Sanguineti È nato a Torino il 19 dicembre 1955 e attualmente insegna Filologia italiana presso l’Università degli studi di Salerno. Nel1973-74 ha studiato recitazione e regia presso il Teatro Stabile di Genova, avendo come maestro Carlo Cecchi. Nel 1990-1, ha messo un scena, insieme a Nicla Carbone (Flora) e a Gennaro Scala (Edward), Un leggero malessere di Harold Pinter in versione lucano-napoletana. È coautore, insieme a Rosanna Benvenuto, di un testo narrativo, Marrakech, costruito su monologhi e dialoghi concepiti, inter alia, come realizzabili sulla scena da uno o più attori. Akiki Takiguchi Soprano giapponese, diplomatasi nel 1997 presso l’Università statale di Belle Arti e Musica di Tokyo, dove ha partecipato anche ad alcuni stage di musicoterapia. Nel 1998 si è trasferita in Italia per perfezionarsi con i maestri M. Dal Piva, L. Gorla, R. Ely, e con G. Malatesta in arte scenica presso la Scuola di Musica di Milano. Nel 2001 è entrata nella classe di perfezionamento di Luisa Castellani presso il Conservatorio della Svizzera italiana, ottenendo una borsa di studio dalla Rotary International Foundation, presso cui si è anche esibita in concerto. Svolge attività concertistica in Giappone, Italia e Svizzera. Barbara Zanichelli Soprano leggero di coloratura. Nata a Parma, si è diplomata in violino nel Conservatorio della sua città. Si è in seguito dedicata al canto, studiando tecnica vocale con Anatoli Goussev a Milano e perfezionandosi prassi esecutiva della musica barocca presso la Civica Scuola di Musica di Milano con C. Miatello e R. Gini. Ha seguito i corsi sul repertorio belcantistico tenuti da Luciana Serra e Sergio Bertocchi. Si sta perfezionando con Luisa Castellani presso il Conservatorio della Svizzera Italiana a Lugano. Come soprano del quintetto vocale Vox Altera, ha vinto il PrimoPremioal Concorso internazionale “Luca Marenzio” per formazioni vocali madrigalistiche. Ha tenuto concerti in importanti sale e rassegne italiane ed estere quali l’Accademia di S. Cecilia (parte del Pastorello nel “Tannhäuser” di Wagner, nella stagione 2001-2002, direttore M.W. Chung), Nuova Consonanza a Roma, Milano Musica e Musica e poesia a S.Maurizio a Milano, Abbazia di Rouyemont a Parigi, Festival internazionale di musica a Brno, Festival di Saintes, Konzerthaus a Vienna, Festival di Innsbruck, Festival di Anversa, Festival di Utrecht e ha partecipato a registrazioni televisive e radiofoniche italiane ed europee. Ha registrato per le case discografiche ERATO, ARCANA, TACTUS, VIRGIN, CHANDOS, BONGIOVANNI. Luciano BERIO 1925-2003 Vi sono autori che hanno fatto della ricerca, della sperimentazione, la loro prima ragione d’essere. Sono compositori complessi, articolati, profondi, ricolmi di novità e di fascino. Sono musicisti che hanno segnato, in lettere di fuoco, i destini della storia della musica. Tra questi, nel vasto panorama italiano, Claudio Monteverdi (Cremona 1567 Venezia 1643) e Luciano Berio (Oneglia, Imperia 1925 - Radicondoli, Siena 2003) sono tra i maggiori rappresentanti. Vi è, nella loro musica, un gusto naturale per l’espressione profonda, ricca, colorata, audace; vi è, nei loro inconfondibili suoni, un desiderio inesausto d’istrospezione, ricerca, contaminazione. Così Monteverdi, nella massima maturazione del Rinascimento, tra Mantova e Venezia, ha saputo convogliare le più diverse voci in una mirabile sintesi strumentale e drammatica; così Berio, nel cuore del Novecento, quando nei primi anni cinquanta fondò con Bruno Maderna lo Studio di Fonologia della Rai di Milano e partecipò da protagonista alla straordinaria officina sonora di Darmstadt – senza mai imprigionarsi in rigidi schemi, e sempre con un gioioso senso empirico – ha voluto rivisitare le più disparate tendenze: mescolando in una originale visione il piacere per il folclore con gli esempi più colti, le sollecitazioni popolari con una tecnica magistrale, gli influssi più disparati: dal pop, al rock, alle musiche extraeuropee, ai modelli più alti della tradizione, con un gusto per la sperimentazione senza uguali che sbocciano ogni volta in limpidi risultati fonici. Quando nel 1624 Monteverdi compose Il combattimento di Tancredi e Clorinda, madrigale in forma rappresentativa pubblicato più di dieci anni più tardi nella prima parte dell’Ottavo libro, la polemica con gli accademici rinascimentali e soprattutto con Giovanni Maria Artusi, si era già dissolta in una nube d’indifferenza. Con la Seconda pratica, ovvero perfettione della moderna musica, Claudio Monteverdi ed il fratello Giulio Cesare, anche teoricamente, avevano giustificato le sue nuove opere, più melodiche, più drammatiche e più vicine all’espressione della parola. L’espressione accesa, vibrante, unica che ascoltiamo scaturire dai toccanti versi di Torquato Tasso, tratti dal XII canto della Gerusalemme liberata, in cui i paradossi della guerra e dell’amore, dell’odio e della pace esplodono in uno strazio infinito: il cristiano Tancredi non si accorge di combattere contro l’amata Clorinda, non riconoscibile sotto le vesti di una guerriera pagana; solo più tardi, feritala a morte, il tragico riconoscimento: e la dolce Clorinda morente che gli implora il battesimo cristiano. Una scena teatrale ricolma di tensione, commozione, e acuita splendidamente dalle parole del narratore e dal nuovo stile concitato, messo a punto da Monteverdi proprio per questo lavoro, che moltiplicando freneticamente i valori ritmici della sillabazione, prelude visionariamente agli inediti intarsi vocali di Berio, cui dobbiamo questa particolare versione. Con Laborintus II, del 1965, quella tensione, quella sperimentazione, è dilatata in una sontuosa partitura. Su testo di Edoardo Sanguineti, “come già nell’omologa raccolta di poesie dello stesso autore, vi vengono sviluppati alcuni ‘temi’ danteschi della Vita Nuova, del Convivio e della Divina Commedia. Attraverso analogie formali e semantiche questi ‘temi’ sono combinati con testi biblici e testi di Eliot e Pound. Uno dei principali riferimenti formali è il ‘catalogo’ (in senso medioevale, come stanno a dimostrare i riferimenti alle Etimologie di Isidoro di Siviglia) che collega i due centrali ‘temi’ danteschi della memoria e dell’usura. Il principio del ‘catalogo’ coinvolge anche alcuni aspetti della struttura musicale, infatti Laborintus II è anche un catalogo di riferimenti (non citazioni) a Monteverdi, Stravinsky e a modi di esecuzione tipici del jazz. Le parti strumentali sono spesso sviluppate come un’estensione delle azioni vocali delle tre cantanti e dei mimi-attori. Un breve inserto di musica elettronica è concepito come una estensione dell’azione strumentale. Parte integrante della struttura del lavoro sono i diversi gradi di intellegibilità del testo: le parole singole e le frasi talvolta sono percepibili come tali, tal’altra come ‘timbri’ della ‘struttura’ sonora globale. Laborintus II si configura come un discorso ininterrotto (la voce umana vi è sempre presente in vari modi e con varie funzioni), una sorta di theatrical speech, una ‘conferenza’ a più livelli, una eterofonia di ‘arie’, la cui struttura musicale perfettamente determinata suggerisce di volta in volta diversi modi – reali e virtuali – di drammaturgia” (Berio). E un mondo sempre più ricolmo di mistero e di suono. Paolo Repetto *1944 Thüring BRAEM Nato nel 1944 a Basilea. Dopo la sua formazione di pianista, direttore d’orchestra e compositore a Basilea, Siena e Salisburgo, contemporaneamente a quella musicologica nelle università della città natale e di Heidelberg, ha vissuto dal 1970 al 1973 negli Stati Uniti (Curtis Institute of Music di Filadelfia, Santa Fe Summer Opera, University of California Berkeley). Dal 1973 al 1987 ha diretto la Musik-Akademie di Basilea. Nel 1987 ha assunto la direzione del Conservatorio di Lucerna. Dal 1999 al 2001 è stato rettore della Musikhochschule di Lucerna dove insegna anche nella classe di direzione d’orchestra. La sua attività compositiva, inizialmente influenzata da Webern, poi da Pierre Boulez e John Cage, si estende su un centinaio di opere circa, in tutti i generi. Le ultime più importanti: Il gong magico (mimopera), Litteri un Schattä (oratorio), Dirge (concerto per violino e dieci strumenti a fiato). Alleluja per voce sola è stata scritta per un’occasione, come accompagnamento di una cerimonia nuziale per la chiesa di Bellelaye nel Giura svizzero. Si tratta di un pezzo per una “nobile epoca”: il testo su cui si basa parla della necessità di mantenersi vitale grazie al calore umano (Thoreau). Musicalmente traccia un arco dalla bucolicità di Syrinx di Debussy alla chiarezza di un corale bachiano, che è riconoscibile come tale attraverso l’eco simile all’effetto di pedale tenuto, specialmente in un ambiente risonante come quello per il quale è stato concepito. *1931 Sylvano BUSSOTTI Opera per voce del 1978, Lachrimae di Sylvano Bussotti testimonia di alcune caratteristiche fondamentali della sua estrosa personalità. Da una parte si rileva un gusto eminentemente grafico e “pittorico” della partitura, in cui la notazione si sviluppa in un vortice finemente decorativo: note che si trasformano in liberi puntini; valori ritmici che si sciolgono in filamenti preziosi; pentagrammi che si moltiplicano in orizzonti di una astratta geometria; un testo plurilingue (italiano, francese, inglese, tedesco), che galleggia su un mare grafico di difficile interpretazione. Dall’altra, si è catturati da un sensualissimo gusto vocale che si profila in una dimensione riccamente melodica. Diversamente dai compositori della sua generazione, attivi soprattutto intorno all’officina di Darmstadt, Bussotti ha sempre privilegiato una musica istintiva, sensuale, libera, molto lontana da qualsiasi geometrica prefigurazione; un’arte del suono in cui la dirompente forza dell’eros domina sovrana. Dalle opere strumentali, a quelle soprattutto vocali e teatrali, il suo istinto compositivo lo ha sempre portato ad esaltare le forze di una raffinata corporeità. A partire dai balletti – in cui dà sfogo a tutti i suoi furori coreografici – passando per le fondamentali opere teatrali: La Passion selon Sade (1965), Lorenzaccio (1972), Nottetempo (1976), egli ha compendiato la sua originale visione di un’opera d’arte totale – costituitasi intorno all’idea di “Bussottioperaballet” – dove memoria, autobiografia, desiderio, metamorfosi, gioco, erotismo, finzione, si intrecciano in una festa riccamente sensuale. Una festa, quasi un rito pagano, dove la sua dimensione personale ha saputo mescolare le più svariate e intime forme dell’espressione, unendole ad una concezione sonora – ora vocale, ora strumentale, ora melodica ora sperimentale – sempre riccamente lirica. Caso pressoché unico nella storia della musica, Bussotti ne rappresenta il suo aspetto più “licenzioso”, dannunziano, in cui ogni gesto, ogni espressione, pur partendo dalla mente, è sempre filtrata dalle nude forze dell’eros. Paolo Repetto Fabio CIFARIELLO CIARDI *1960 Nato a Roma, da anni divide il suo impegno fra la musica strumentale e quella elettroacustica. Le sue composizioni sono state premiate in diversi concorsi internazionali: Ennio Porrino (Cagliari 1989), Luigi Russolo (Varese 1992), Musica Nova (Praga 1993), SIMC selezione CD (Tokyo 1993), Olympia (Atene 1993), Spectri Sonori 93 (Tulane USA), Concours international de musique electroacoustique (Bourges 1998). Collabora regolarmente con il Dipartimento di psicologia dell’Università di Roma La Sapienza ed è membro di ECONA – Interuniversity Centre for the Research on Cognitive Processing in natural and artificial systems. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni dedicate alla psicologia della musica, alla musica contemporanea e alla politica musicale. È docente di composizione al Conservatorio di Perugia. È direttore responsabile della rivista on-line www.nuovaconsonanza.it. 1889 - 1963 Jean COCTEAU “È la poesia dell’infanzia raggiunta da un magistrale tecnico”. Così Jean Cocteau concludeva il suo felice commento su Parade di Erik Satie, il precursore, il maestro ideale, il padre spirituale del cosiddetto “Gruppo dei Sei”. Parigi anni 1920; un grande desiderio di evadere dalla Germania; una grande irritazione verso tutto quello che sapeva di romantico, malinconico, intimistico, sinfonico, nostalgico; un rifiuto totale verso tutta quella musica “che si ascolta con la testa tra le mani”, addirittura di un certo Debussy (quello soprattutto del Pelléas) e di un certo Stravinsky (quello teatralmente estroverso de Le sacre du printemps). Un fervente desiderio di ritornare giovani, più che giovani, bambini. Una elegante, astratta, anche felicemente comica volontà di essere estremamente immediati, solari, spensierati, genuini. Una nuova, maliziosa corrente di candida semplicità, di irruente freschezza, contro la geriatrica malinconia del tardo romanticismo; contro un prepotente wagnerismo che aveva inghiottito, nei suoi fumi religiosamente ipnotici e sentimentali, troppi talenti. Voglia d’inedite fonti, brama di nuove realtà: il primo, impareggiabile jazz (quello davvero povero e “osceno” nei suoi improvvisati arabeschi melodici e nei suoi irrazionali guizzi ritmici); la musica comica e pungente del circo; i timbri e le melodie stralunate del luna-park; le note sapide e stonate dei saltimbanchi; infine, il mondo felicemente sonoro dei nuovi caffè come luoghi per il music-hall. Darius Milhaud, Francis Poulenc, Arthur Honegger, Geores Auric, Louis Durey, Germaine Tailleferre, tutti nati intorno all’ultimo decennio del 1800 e tutti residenti a Parigi, furono definiti i Sei francesi; furono per alcuni anni vicini, riconoscendo in Erik Satie il loro maestro spirituale. Non avevano un preciso programma; non volevano cambiare il mondo; non erano ancorati a particolari ideologie, ma erano convinti, ciascuno a suo modo, che la musica aveva bisogno di maggior semplicità e freschezza. Amici di Jean Cocteau, avevano trovato nella sua brillante estroversione un piacevole altoparlante. Forse, meno di lui amavano i simboli, ma tra i travestimenti di Arlecchino e l’autenticità del Gallo, anche loro non avevano dubbi. Se un eccesso di pensierosità e di coscienza aveva abbattuto la civiltà e la musica in un torbido soliloquio – sfociato tragicamente nella follia della Grande Guerra – molto meglio era pregredire nei luoghi dell’incoscienza e della grazia, della pre-razionalità e del gioco. Idealmente molto vicini al gruppo dada – di cui Satie anticipò i temi centrali – come allegri saggi taoisti capirono che solo la mobilità e la morbidezza, la flessibilità e la naturalezza garantiscono la linfa vitale. Soprattutto per questo collaborarono con i più giocosi pittori dell’epoca, Braque e Picasso; e con i coreorafi più dinamici e innovativi. Certo, non tutti ebbero la stessa statura artistica; dei Sei, soltanto Milhaud, Honegger e Poulenc hanno conquistato un posto al sole nell’esclusivo panorama della storia della musica; ma, ad eccezione di Durey (che non condivise alcune idee), tutti collaborarono per le musiche de Les mariés de la tour Eiffel, un originale spettacolo rappresentato per la prima volta la sera del 18 giugno 1921 al Teatro dei Champs-Elysées per la compagnia dei balletti svedesi di Rolf de Maré, con coreografie di Jean Cocteau, che ascolteremo nella versione per orchestra da camera di Marius Constant. Come una farsa dadaista, il testo di Cocteau narrato dalle due voci recitanti elude ogni preciso significato, ogni logica, ogni senso. Vi è, al contrario, un divertito gusto per il gioco, per l’improvvisazione, per un infantile divertimento; vi è, senza tregua, un succedersi di cose che appaiono senza senso, una storia di realtà irreali, una fragile, solenne grazia da cinema muto. Sulla prima piattaforma della torre Eiffel due uomini narrano di cose divertenti e impossibili: di un cacciatore che ha sbagliato preda; di una festa di nozze; del discorso di un generale; di un ciclista che chiede la strada per Chatou; di una bagnante che esce da una macchina fotografica e si mette a danzare; di uno struzzo irriverente; di un grosso bambino che diventerà pugile, poeta, architetto? di telegrammi; di un leone che inghiotte il generale; di una marcia funebre; di nuovo dello struzzo che non ne vuole sapere di rientrare nella macchina fotografica; di una splendida rappresentazione delle nozze stesse scambiate per un grande capolavoro primitivo; della successiva scomparsa dei vari personaggi e della macchina fotografica stessa. Gioco, farsa, non-senso, visione. L’apparire della realtà come la più irreale delle cose. La spuma incomprensibile sul mare del tempo. Con le musiche gioiose e sapienti di Georges Auric (Ouverture), Darius Milhaud (Marcia Nuziale), Francis Poulenc (Discorso del generale e La bagnante di Trouville), Germaine Tailleferre (Valzer dei telegrammi), Arthur Honegger (Marcia funebre), e ancora Tailleferre (Quadriglia) e Milhaud (Ritornello e Uscita). Paolo Repetto Giorgio COLOMBO TACCANI *1961 Nato a Milano, si è laureato all’Università statale di Milano con una tesi su Hyperion di Bruno Maderna, alla quale nell’ottobre 1993 è stato attribuito il Premio Missiroli in occasione di un convegno dedicato al teatro musicale italiano del dopoguerra a Bergamo. Si è parallelamente diplomato al Conservatorio di Milano in pianoforte (1984) e composizione (1989) sotto la guida di Pippo Molino e Azio Corghi. Ha conseguito il diploma al corso di perfezionamento biennale in composizione tenuto da Franco Donatoni all’Accademia di S. Cecilia a Roma. Ha seguito corsi di perfezionamento con Corghi e Ligeti ed è stato selezionato per partecipare al laboratorio estivo dedicato all’informatica musicale dall’IRCAM nel 1995. È stato premiato e segnalato in vari concorsi internazionali. Dal 1991 si occupa di musica elettronica presso lo studio AGON – acustica informatica musica del quale è divenuto socio nel 1993. Dopo aver insegnato dal 1992 al 1999 composizione alla Civica Scuola di Musica di Milano, dal 1999 insegna composizione presso il Conservatorio di Torino. Giovanni COSPITO *1955 Si è diplomato in chitarra classica e fagotto. Ha studiato composizione al Conservatorio di Milano e conseguito il diploma di musica elettronica presso il Conservatorio di Venezia. Ha lavorato presso vari centri di informatica musicale: il CSC dell’Università di Padova, Agon-acustica informatica musica di Milano, il LIM dell’Università statale di Milano, il LIMB della Biennale di Venezia, il DIST dell’Università di Genova, l’IRCAM di Parigi. Ha contribuito alla nascita del Laboratorio per la sperimentazione e la didattica dell’informatica musicale presso la Civica Scuola di Musica di Milano. Dal 1990 la sua produzione musicale si avvale di strumenti informatici e i suoi lavori sono stati eseguiti in vari festival, in trasmissioni radiofoniche, in convegni, in rassegne e concerti. Nel 1995 ha creato lo Studio sincretica. 1898 - 1962 Hanns EISLER Quando nel 1923 Hanns Eisler completò i suoi studi presso l’Accademia musicale di Vienna, sotto il magistero di Arnold Schoenberg e di Anton Webern, sarebbe potuto diventare uno dei massimi rappresentanti della corrente dodecafonica: così ricca, così astratta, così difficile e metafisica. Avrebbe potuto, come Krenek, come Dallapiccola, continuare quella visione di un sogno geometrico, di una nuova armonia pitagorica, lontana dalle irrazionali e bizzarre presenze del mondo. Nelle sue prime opere, soprattutto da camera, aveva dimostrato di poter innestare su quel ferreo tronco nuovi germogli d’inediti lirismi, capaci di sviluppare la meravigliosa ramificazione di un canto elegante e sobrio. Al contrario, subito dopo qualche riuscito esperimento, decise di percorrere un’altra strada. Convintosi che quegli innesti avevano qualcosa di eccessivamente ibrido, decise risolutamente di dedicarsi a nuovi organismi. Trasferitosi nel 1924 a Berlino, grazie soprattutto all’amicizia con Brecht, Busch e Becher, divenne uno dei più importanti artefici di un’arte e una musica semplice, immediata, popolare – in un’epoca in cui soprattutto le avanguardie musicali si allontanavano sempre di più dal pubblico. Abbracciò i principi del marxismo-leninismo, diede vita alla Lega degli scrittori proletari rivoluzionari, e divenne “il primo compositore della classe operaia”. Ma era possibile conciliare il magistero di una musica ben fatta, raffinata, con i gusti spesso banali di un ampio strato sociale completamente digiuno di ogni espressione estetica? Era possibile trovare un equilibrio tra ciò che si pensava e si produceva e una capacità percettiva, quella della gente meno istruita, che aveva ancora molto da maturare? Infine, si poteva ripristinare la difficilissima unione tra l’astrazione del concetto e il desiderio di concretezza? Il compagno Zdanov, dall’Unione Sovietica, predicava la massima semplicità ed esigeva da ogni artista il sacrificio di qualsiasi ricerca o sperimentalismo a favore di un’arte assolutamente immediata e popolare. Ma Hanns Eisler, con i famosi colleghi Bertold Brecht, Ernest Bloch e Walter Benjamin, allontanandosi dalla linea ufficiale del partito, ricercò per tutta la vita una difficile mediazione. In verità, quando ascoltiamo la sua musica, quella soprattutto vocale-corale e quella per i film, abbiamo la netta sensazione che un’immensa voglia di semplicità lo nutrisse, che una grande volontà di comunicazione lo dominasse. Vi è sempre, in questi suoni, un ottimismo, un’allegria, un vivace sentimento dell’essere; vi è sempre, nel progetto di quest’arte nobilmente popolare, “uno stile che al più alto livello artistico, riesce a raggiungere le grandi masse”. Eisler credeva fermamente nell’unione delle arti, nella loro organica collaborazione, nell’idea centrale di arte-totale; ed era convinto che anche per il cinema la musica potesse esprimere il proprio meglio. Per questo compose colonne sonore per circa 40 film – soprattutto durante il suo esilio negli Stati Uniti – fra cui l’insuperabile gioiello de Il circo di Charlie Chaplin; per questo, nel 1947, con Adorno scrisse il libro Comporre per il film. Così, le tre Suite – scritte tra il 1931 ed il ‘32 – tratte dalle musiche dei rispettivi film, e articolate tutte in quattro parti nelle trascrizioni di Steffen Schleiermacher, testimoniano della più alta volontà di un felice musicista che ha saputo coniugare il più alto magistero compositivo con la massima semplicità e grazia. Gabriel FAURÉ 1845 - 1924 Quando nel 1907 Gabriel Fauré completò questa piccola Messe basse – un intimo gioiello di soavità e di grazia – aveva già raccolto i notevoli frutti della sua lunga carriera. Dopo aver svolto l’attività di organista nelle principali chiese di Parigi: Notre-Dame de Clignancourt, Saint-Honoré d’Eylau, Saint-Sulpice, la Madeleine, era diventato dapprima professore di composizione, poi direttore del Conservatorio della capitale francese. Da bambino, aveva studiato alla severa scuola Niedermeyer, sotto la guida di Camille Saint-Saens, di cui divenne intimo amico e con il quale condivise una netta antipatia per ogni forma di sperimentalismo e di avanguardia. Cresciuto alle fonti di una limpida tradizione classicista, educato sugli impareggiabili modelli di Bach, Mozart, Beethoven e del romanticismo tedesco, non fu mai tentato da una musica particolarmente nuova e originale. Certo, ascoltò con simpatia i lavori più suggestivi e moderni del suo allievo Ravel, ma vide sempre con antipatia le nuove alchimie sonore dell’estroso Debussy. Come l’autore de La Mer, amò intensamente il canto gregoriano, ma mentre per Debussy il ritorno alla modalità medievale è sempre il catalizzatore che fa reagire la grande invenzione del moderno, per lui rimane il prezioso aroma, la fine angostura, nell’intimo alveo di una forma classica. Scrisse moltissime opere: vocali, da camera, per pianoforte e per orchestra; e alcuni lavori di argomento sacro, come il famoso Requiem op. 48, del 1888, il giovanile Cantico di Jean Racine, e questa deliziosa Messa bassa, dove i ricordi di una liturgia antica s’intrecciano al suo paziente mestiere di organista. Quattro estatici tempi: Kyrie, Sanctus, Benedictus, Agnus Dei, per coro di voci bianche e organo, in cui la casta fanciulla del modalismo medioevale si sposa con il fine cavaliere del sentimento classico. Paolo Repetto *1962 Stefano GERVASONI Nato a Bergamo, è stato incoraggiato alla composizione da Luigi Nono. Nel 1980 si è iscritto al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, dove ha studiato con Luca Lombardi, Niccolò Castiglioni e Azio Corghi. Dopo aver seguito i corsi di György Ligeti in Ungheria (1990), ha completato la sua formazione all’IRCAM di Parigi dove ha frequentato il corso di composizione e informatica musicale. La sua carriera internazionale si è consolidata negli anni di permanenza a Parigi (1992-95), dove ha ricevuto diversi incarichi di composizione dalle istituzioni culturali francesi, fino a diventare “pensionnaire” all’Accademia di Francia a Roma. Gervasoni ha ricevuto anche numerosi riconoscimenti internazionali: il Premio Goffredo Petrassi (1987, 1989), il Premio Lario Musica (1988), il Premio Mozart (1991), il Premio del Forum 91 (Université de Montréal), il Premio del Kompositionsseminar di Boswil (1995). Fin dagli esordi la sua produzione è pubblicata da Ricordi. Per orchestra ha composto: In Eile zögernd III, Sensibile, Adagio für Glasorchester, Sonata sopra Sancta Maria. Per complesso da camera: Concertino per contrabbasso, An, Macchina del baccano sentito, Su un arco di bianco, Animato, Dal belvedere di non ritorno, Concerto pour alto, Lilolela, Descdesesasf, Bleu jusqu’au blanc, Parola, Atemseile, Far niente, Pas si, Antiterra, Eyeing, Rigirio; e per voce e ensemble: Die Aussicht, Un recitativo, Quattro voci, Least Bee, L’ingenuo, Due poesie francesi di Ungaretti, Due poesie francesi di Rilke, Due poesie francesi di Beckett. Così l’autore presenta la sua composizione dal titolo Quattro voci per soprano, flauto, clarinetto e pianoforte del 1988: Ho scelto di musicare quattro testi, molto diversi tra loro, di poeti contemporanei (Vittorio Sereni, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Giorgio Caproni), perché uno di temi che mi interessa approfondire nel mio lavoro è quello della differenza. È in questa direzione che, mi accorgo, si sta evolvendo la mia musica. Se prima ogni composizione era per me un’esperienza di riunificazione – instabile, momentanea – di elementi diversi in un “universo” nel quale restavano solo lontani echi di conflitti, ora questa possibilità è persa: emergono sempre più le differenze, le opposizioni diventano inconciliabili, le contrapposizioni si fanno nette, brusche, violente, i salti di registro sempre più frequenti, gli equilibri si rompono in favore di dualismi senza mediazioni. Così ho composto questi quattro pezzi, preoccupandomi di trasferire musicalmente la diversità dei testi non tanto adottando piani stilistici diversi o diversi materiali, quanto elaborando forme le cui strutture rispondessero ai principi differenziatori di cui ho detto. Le quattro poesie, indipendenti e distanti, compongono un piccolo ciclo il cui elemento unificatore è costituito dalla differenza. Il poggio Quel che di qui si vede – mi sentite? – dal belvedere di non ritorno – ombre di campagne scale naturali e che rigoglio di acque che lampi che fiammate di colori che tavole imbandite – è quanto di voi di qui si vede e non sapete quanto più ci state. Vittorio Sereni Stella variabile (in “Tutte le poesie” Garzanti 1986) Prima o dopo l’esperienza? di là o di qua dal macigno? Niente, non ha ombra né luce negli occhi di lei quella differenza. Tutto perso? o tutto parificato? ugualmente assolto dal non essere o dall’essere stato? Oh storia umana, oh sangue dilapidato. Mario Luzi Per il battesimo dei nostri frammenti (Garzanti 1985) C cascato è il cavo cielo & la cometa cresta è di cotte croste & cruda creta: celibe è il cosmo, in chiara crisi cronica, cubo cilindro & circumsfera conica: crocida il corvo, cuculia il cuculo, chiucchiurla il chiurlo & crepita col culo: cecato mi è il colòn, cacato ho il cazzo, chiudi sta cantilena, can cagnazzo: Edoardo Sanguineti Alfabeto Apocalittico (1982) (in “Bisbidis” Feltrinelli 1987) asparizione In una via di Lima. O di qui. Non importa. In sogno forse. In eco. Nel battito già perdutamente dissolto di una porta. Giorgio Caproni Il franco cacciatore (1973 - 1982) (in “Tutte le poesie” Garzanti 1983) *1939 Heinz HOLLIGER Nato a Langenthal, ha studiato contemporaneamente composizione, oboe e pianoforte a Berna, Parigi e Basilea. Vincitore di numerosi premi internazionali, virtuoso dell’oboe universalmente apprezzato, ha avviato anche un’importante carriera di direttore d’orchestra. Come compositore si è sviluppato all’ombra dello strumentista prestigioso, realizzando subito una sintesi originale tra l’eredità di Berg e di Bartók (attraverso l’insegnamento di Sándor Veress), lo strutturalismo bouleziano e la sperimentazione radicale del materiale strumentale. Unendo rigore estremo ed espressività esacerbata, la sua musica si situa sempre ai limiti dell’espressione. Ossessionata dalle immagini della follia e della morte, essa si carica di significati esistenziali, nutrita dalla presenza di figure visionarie e dal destino degli esclusi dalla società. “La composizione è per me come un viaggio in un territorio sconosciuto”. Vier Lieder ohne Worte, composti nel 1981, fanno riferimento allo spirito del Romanticismo tedesco. L’opera è basata su un testo sottinteso, un “diario” il cui contenuto serve da fondamento alla genesi delle strutture musicali. È in qualche modo un crittogramma del “diario” attraverso il simbolismo cifrato delle parole e delle lettere (in ciò Holliger si rifà a una lunga tradizione musicale che va da Josquin a Berg, passando per Bach e Zelenka). Il contenuto verbale è nel contempo trasfigurato dalla musica. I Vier Lieder ohne Worte hanno un carattere intimistico, non nel senso della musica romantica da salotto, ma piuttosto in quello della poesia di un Paul Celan. Il lirismo e la violenza dei gesti musicali, specialmente nel terzo movimento, si iscrivono nel vuoto. L’ultimo movimento accentua questo carattere: gli elementi “motivici” dell’opera sono colti da un processo inesorabile di dissoluzione. La composizione tende al silenzio come a una forma suprema della verità espressiva. Le tecniche esecutive non tradizionali, specialmente i suoni prodotti nel corpo del pianoforte, allargano il campo musicale alle diverse qualità di rumori: sono integrate a una scrittura precisa nei minimi dettagli. Philippe Albéra Arthur HONEGGER 1892 - 1955 Diversamente da Eisler, Arthur Honegger considerava la musica per film un genere minore, una banale arte applicata. Credendo che nessuno va al cinema per ascoltare dei suoni, convinto che nessuno in quel luogo d’immagini può prestargli qualche significativa attenzione – ma quanto si sbagliava! – una volta scrisse che il comporre per la nuova industria di Hollywood era “un compito ingrato”, ma uno dei pochi lucrativi che gli avrebbero permesso di consacrarsi alla creazione di sinfonie, per la gloria del suo nome. Spirito estremamente dinamico, grande amante di svariati sport e della sua lussuosa Bugatti – con la quale sfrecciava anche a 120 chilometri l’ora! – concepì tutta la sua produzione musicale nel segno di un libero e fascinoso eclettismo, ricco di fermenti e di vitalità, che lo portò a scrivere molte opere da camera, svariate liriche per pianoforte, molta musica per orchestra, tra cui 5 vivaci sinfonie, e numerose composizioni per il teatro – oscillando, con sorprendente facilità, tra miti moderni (Skating Rink, Pacific 231) e miti biblici e antichi (Judith, Saul, Prométhéé, Antigone). Tuttavia la musica per L’idée, del 1934, e di altri film come Napoléon di Abel Gance e Les misérables di Raymond Bernard, sconfessano, almeno in parte, il suo pessimismo. Certo, il più alto Honegger risiede tra le vette di lavori come Il re Davide, Giovanna D’Arco al rogo, il dinamico Pacific 231 e il Concertino per pianoforte e orchestra; ma anche questa musica da film, ispirata da una serie di xilografie di Frans Masereel, evoca qualcosa di più che piacevole. E, utilizzando nell’organico orchestrale anche le onde Martenot – in quegli anni un nuovissimo strumento elettro-acustico – per rappresentare il concetto dell’Idea come assoluta purezza, libertà, uguaglianza e fraternità, simbolizzata nel film da una ragazza pudicamente nuda, riesce a strutturarsi in una limpida panna melodica. Paolo Repetto Klaus HUBER *1924 Nato a Berna ha studiato violino con Stefi Geyer e composizione con Willy Burkhard (Zurigo) e Boris Blacher (Berlino). La sua affermazione avvenne nel 1959 in occasione delle giornate musicali mondiali della Società Internazionale di Musica Contemporanea a Roma. Dopo l’attività di insegnamento a Zurigo, Lucerna e Basilea assunse nel 1973 la cattedra di composizione all’accademia musicale di Friburgo in Brisgovia. La sua frequentazione della teologia della liberazione secondo Ernesto Cardenal lo condusse a un impegno compositivo ancorato ad un’etica cristiana e politicamente profilato (Erniedrigt - Gecnechtet - Verlassen Verachtet ..., La Terre des Hommes). Dal 1990 la sua attività didattica si svolge liberamente in corsi e seminari per i quali è invitato in tutto il mondo. A partire dal trio per archi Des Dichters Pflug (1989) Huber sperimenta i terzi di tono e i modi arabi. Contemporaneamente il suo pensiero viene fortemente marcato dalla poetica dello scrittore russo Ossip Mandelstam, a cui ha dedicato un’opera scenica. Huber è uno dei pochi compositori del nostro paese la cui reputazione in patria sia eguagliata da quella di cui gode all’estero. Il suo corpus compositivo ab- braccia tutti i generi, dal teatro al grande oratorio fino alla musica da camera e ai pezzi per un solo strumento. Prassi musicale, riflessione teorica e mediazione pedagogica formano per lui un unico complesso. I suoi saggi sull’arte, sugli artisti e sulla società lo rivelano come acuto analista e critico uomo del nostro tempo. La composizione Auf die ruhige Nacht-Zeit (nelle tranquille ore notturne), per soprano, flauto e trio per archi, risale al 1958, a un periodo in cui Huber era interessato alle soluzioni vocali e ai testi mistici del tardo barocco. In relazione alla sua adesione alla dodecafonia l’opera ha una sua importanza poiché afferma un elemento di distinzione rispetto al metodo schönberghiano. Intesa in modo ortodosso la pratica seriale parte dal riconoscimento delle 12 note come sono date nel sistema temperato. Auf die ruhige Nacht-Zeit è costruita sulle seste minori intonate come puri intervalli, consonanti. Dichiara il compositore: “Già in occasione della prima esecuzione mi sono accorto che questa musica non risuona come dovrebbe se è intonata in modo temperato. Solo se si intonano seste minori pure, questa musica prende effettivamente quota. Ci fu poi un certo periodo in cui io non riuscivo più a sopportare l’onnipresente intonazione temperata dei 12 suoni”. 1936 - 2003 Maki ISHII Nato a Tokio, ha studiato composizione e direzione d’orchestra dal 1952 al 1958 trasferendosi poi a Berlino per seguire i corsi di composizione di Boris Blacher e Josef Rufer. Nel 1962 è ritornato in Giappone dove ha svolto un’intensa attività come compositore e direttore d’orchestra. Le sue composizioni sono eseguite in tutto il mondo. Il Festival d’automne di Parigi, nel 1978, gli dedicò il “Portrait Maki Ishii”. Considerato uno dei più importanti compositori giapponesi, ha diviso la sua attività tra il suo paese d’origine e l’Europa, in particolare la Germania, facendosi apprezzare per la sua capacità di sintesi tra la cultura orientale e quella occidentale. È morto nel mese di giugno di quest’anno. Black intention designa una speciale concezione musicale che vuole indagare l’oscurità, il maligno; il lato negativo del nostro subconscio. È il titolo di una serie di composizioni che tentano di incorporare un nuovo, unico senso del ritmo, del suono e delle tecniche esecutive. *1958 Michael JARRELL Nato a Ginevra, ha studiato composizione nella classe di Eric Gaudibert al Conservatorio di Ginevra e in occasione di diversi soggiorni negli Stati Uniti (Tanglewood, 1979). Ha completato la sua formazione alla Staatliche Hochschule für Musik di Friburgo in Brisgovia sotto la guida di Klaus Huber. Dal 1982 la sua attività di compositore è stata coronata da numerosi premi: Premio Acantes (1983), Beethovenpreis della città di Bonn (1986), Premio Marescotti (1986), Gaudeamus e Henriette Renié (1988), Sie- mens-Förderungspreis (1990). Tra il 1986 e il 1988 soggiorna alla Cité des Arts a Parigi e partecipa allo stage di informatica musicale dell’IRCAM. Nel 1988-89 gli è concesso il soggiorno a Villa Medici a Roma. Successivamente (1989-90) è membro dell’Istituto Svizzero a Roma. Dall’ottobre 1991 al giugno 1993 è compositore “in residence” dell’Orchestra di Lione. Dal 1993 è professore di composizione presso la Hochschule für Musik di Vienna. Nel 1996 è accolto come compositore “in residence” al Festival di Lucerna. Résurgences è una composizione del 1996. Così ne spiega la genesi il compositore: “Una ‘risorgenza’ è una riapparizione in forma di sorgente, è il riemergere, la riapparizione di una falda acquifera. La scelta del titolo non è stata difficile, poiché quando mi accinsi a scrivere questo pezzo, l’idea era proprio quella di una musica sotterranea, di una musica che apparirebbe di quando in quando, ma che sarebbe anche la sorgente di tutto ciò che apparirebbe in superficie”. Résurgences è il risultato di un incarico di composizione congiunto dell’ensemble Court-Circuit, del Conservatorio di Parigi, della Cité de la Musique, di Ars Mobilis e del Conservatorio ed Musik Hochschule di Zurigo. La prima esecuzione è avvenuta il 9 maggio 1996 all’Auditorio Colbert della Biblioteca nazionale di Francia. Rudolf KELTERBORN *1931 Rudolf Kelterborn è uno dei compositori elvetici più rappresentativi della scena contemporanea ed è tra i pochi a godere di una reale reputazione internazionale. È nato a Basilea. Ha insegnato all’Accademia di Basilea, di cui fu anche direttore e poi anche al Conservatorio di Zurigo. È stato poi per numerosi anni direttore del dipartimento musicale della DRS e anche il redattore della Schweizerische Musikzeitung. Kelterborn ha fatto pure il direttore d’orchestra, dirigendo principalemente sue proprie composizioni e ha anche scritto parecchio di musica, specialmente contributi di carattere analitico. Sono scritti che testimoniano bene il suo ampio orizzonte culturale. E questo lo si vede anche nella sua produzione musicale, nelle scelte, negli indirizzi che essa manifesta, per esempio nella sua musica teatrale. Una delle cose più significative in questo ambito fu, nel 1974, la trasformazione in opera di un lavoro di Dürrenmatt, Ein Engel kommt nach Babylon, che fu un lavoro in cui lo stesso drammaturgo si mostrò disponibile a rielaborare il proprio testo per renderlo adatto a questa nuova destinazione teatral-musicale. Seismogramme è stata scritta nel 1992 per il Yukimi Kambe Viol Consort e fu eseguita lo stesso anno a Tokyo. Sul brano ecco il commento del compositore stesso: Mi ha sempre intrigato l’idea di comporre per strumenti storici, soprattutto per la delicatezza dei loro timbri (tra l’altro un brano per voce solistica e strumenti rinascimentali in un organico piuttosto corposo, un brano per flauti a becco barocchi, ecc.). Il titolo “Seismogramme” evoca naturalmente associazioni al sismografo, capace di registrare con estrema sensibilità le scosse (della terra). I sette brevi movimenti in cui si articola la composizione sono in una certa misura da intendere come la sensibile registrazione di scosse emozionali; essi si svolgono per lo più in registri tenui, commisurati alle caratteristiche delle viole da gamba. Solo raramente (ad esempio nel secondo e nel sesto) si giunge ad esiti violenti. *1911 Gian Carlo MENOTTI In un’epoca invasa da quelle strane macchinette che chiamiamo telefonini – così utili, così maleducati – è simpatico, è particolarmente attuale riascoltare un’opera come Il Telefono o l’amore a tre dell’italo-americano Gian Carlo Menotti, ben noto personaggio dell’Italia musicale, di formazione statunitense, ideatore e direttore del celebre Festival spoletiano “dei due Mondi”. Su un libretto scorrevole, piacevole, lo stesso compositore ha dipanato una storiella breve, paradossale: Ben (baritono) vorrebbe parlare con la propria ragazza, Lucy (soprano), ma, di fatto, al di là di qualche frammentario tentativo, non ci riesce: Lucy è sempre impegnata a rispondere e a parlare al telefono: ora chiacchierando con l’amica Margaret, che le parla di Jane e di Paul, di John e di Jean, di Bets e di Bob, di ... ecc.; ora raccontando di altre telefonate che ha ricevuto e di altre storie; ora rispondendo a George che la rimprovera per un suo pettegolezzo; ora chiamando Pamela per dirle di George; infine, esasperato, Ben se ne va, deve prendere il treno: soltanto al telefono potrà dire a Lucy che l’ama e che vuole sposarla. Scritta nel 1946, quest’operetta leggera, comica, incentrata su di un curioso particolare, sembra volutamente ignorare la tragedia della guerra e le sue drammatiche realtà. Con un linguaggio sonoro eclettico, tradizionale, tonale – che si rifà ai nobili modelli ottocenteschi – Menotti sembra ignorare anche le profonde problematiche del linguaggio musicale del suo tempo. Se la musica del Novecento è stata soprattutto ricerca, profondità, sperimentazione, volontà del nuovo, il suo gesto sonoro – circoscritto, melodico, isolato – sembra eludere totalmente il Novecento stesso. Una piccola isola appare nel cuore di un immenso mare; pochi decenni or sono altri isolotti sono apparsi, i cosiddetti neo-romantici, componendosi in un piacevole, fragile arcipelago. Fino a quando questi felici atolli di una musica quasi sempre senza dolore e senza profondità, resisteranno alla potenza dell’oceano? Paolo Repetto *1963 Claudio PONTIGGIA Cornista, nato a Lugano. Ha conseguito il diploma di virtuosità presso il Conservatorio di Losanna nel 1982. Dal 1989 al 1991 ha insegnato corno presso il Conservatorio di Sion e, attualmente, è professore presso i Conservatori di Friborgo, La-Chaux-deFonds e Lugano. Fin dall’inizio della sua carriera ha affiancato all’attività didattica collaborazioni con le maggiori orchestre svizzere. È stato primo corno dell’Orchestre de Chambre de Génève, dedicandosi contemporaneamente anche alla musica improvvisata. In questo ambito egli vanta collaborazioni con i maggiori jazzisti americani ed europei (Palle Danielson, Marc Johnson, Miles Davis, Giorgio Gaslini, Enrico Rava…); è stato per otto anni musicista della Vienna Art Orchestra. Dal 1999 è membro dell’Ensemble OggiMusica. Ha partecipato a numerose registrazioni discografiche, sia in ambito classico sia in quello jazzistico. Ha in seguito dato vita a propri gruppi, incidendo alcuni pregevoli CD per Altri Suoni. È spesso chiamato a tenere master class sull’improvvisazione per strumenti a fiato. Nel 2002 gli è stato assegnato il Premio della Fondazione Suisa per la Musica per la sua attività artistica. L’idea di questa composizione è stata suggerita da Giorgio Bernasconi, con il quale egli collabora nell’ambito dell’Ensemble OggiMusica, e il quale desiderava la creazione di un’opera che riprendesse alcuni spunti, temi, idee musicali, passaggi che il pubblico avesse avuto modo di ascoltare durante l’esecuzione del programma. Quest’ultimo, di conseguenza, è stato pensato in maniera piuttosto variegata, con la partecipazione di un Quartetto di flauti dolci, di un Quartetto di viole da gamba e di un Coro di voci bianche. Il concerto prevede che tutti i musicisti partecipanti restino sul palco per la sua intera durata e che vengano tutti coinvolti in un gran finale. A Jean-Christhope Cholet e Claudio Pontiggia, jazzisti di chiara fama, è affidata la parte compositiva e d’improvvisazione. Steve REICH *1936 Nato a New York, ha studiato musica e filosofia alla Cornell University di Ithaca e alla Julliard School di New York. Appassionato di jazz, di cinema e di arti figurative, ha seguito attivamente gli esperimenti delle avanguardie nelle capitali delle due coste degli Stati Uniti (New York e San Francisco, dove iniziò la sua carriera di compositore con Its Gonna Rain per nastro magnetico). Lavorando sul procedimento del cosiddetto tape-loop è pervenuto agli esiti che ne hanno fatto uno dei maggiori esponenti del minimalismo. Il suo saggio Music as a gradual process del 1968 è considerato il punto di riferimento teorico della “musica ripetitiva” come si è sviluppata negli Stati Uniti. Dopo un periodo di applicazioni dimostrative Reich è riuscito a sottrarre i processi minimalistici all’iterazione dirigendosi verso l’esplorazione delle dimensioni timbriche e armoniche. Violin Phase risale al 1967: è una delle sue prime composizioni basate su formule ripetute e gradualmente progredenti da una fase all’altra. Fondamentalmente la tecnica su cui si basa è una variazione del canone tradizionale. L’esecutore al violino suona contro uno, poi due e finalmente tre sezioni preregistrate su nastro da se stesso. Ogni cambiamento graduale di fase è compiuto dall’esecutore allontanandosi lentamente dal nastro stazionario. 1874 - 1951 Arnold SCHOENBERG Arnold Schoenberg scrisse il poema sinfonico per sestetto d’archi Verklaerte Nacht (Notte trasfigurata) op. 4, nel 1899, ispirandosi alle forti visioni di una poesia di Richard Dehmel – più tardi, nel 1917, ne fece una sontuosa trascrizione orchestrale. Uno dei massimi compositori del Novecento, uno dei più grandi innovatori dell’arte del XX secolo, con quest’opera pagava idealmente il suo tributo ad una tradizione ricchissima ed imponente. Brahms e Wagner, come due solenni cariatidi, ne reggono la poderosa forma. “Divenni brahmsiano incontrando Zemlinsky. Il suo amore abbracciava Brahms e Wagner e perciò divenni presto anch’io un loro convinto seguace. Nessuna meraviglia, quindi, se la musica che composi a quel tempo rispecchia l’influenza di quei due maestri. (...) Questa è la ragione per cui nella mia Verklaerte Nacht la costruzione tematica è basata da un lato su un ‘modello’ e su una ‘sequenza’ sopra un’armonia circolare di tipo wagneriano, e dall’altro su una tecnica di sviluppo della variazione brahmsiana. Pure a Brahms può essere accreditata la disparità delle misure (...). Ma il trattamento degli strumenti, il modo della composizione e gran parte delle sonorità sono strettamente wagneriani. Penso però che qualche elemento schoenberghiano possa ritrovarsi nella lunghezza di alcune melodie, nella sonorità, nelle combinazioni contrappuntistiche e dei motivi, in certi movimenti armonici semicontrappuntistici e dei bassi verso la melodia. Finalmente c’erano già alcuni passaggi di tonalità imprecisa che possono essere considerati premonitori del futuro.” Un futuro che scorgiamo ben chiaro anche noi, tra le pieghe di questo possente e raffinato lavoro che, insieme ai Gurrelieder (1900-’11) e al poema sinfonico Pelleas und Melisande (op.5, 1903), ci testimonia della farfalla Schoenberg che lentamente, ma perentoriamente, sta abbandonando la crisalide dell’ultimo romanticismo per volare nei rarefatti cieli dell’atonalità. Paolo Repetto *1928 Karlheinz STOCKHAUSEN Nel cuore della musica più nuova, più moderna, a volte anche più difficile, ci sono opere che riescono ad imporsi facilmente, con una grazia quasi mozartiana. È il caso di Refrain di Karlheinz Stockhausen, un’opera per tre esecutori: al pianoforte, alla celesta, al vibrafono e alle percussioni, anche con brevissimi interventi vocali, scritta nel 1959. Una splendida decorazione spaziale; un gioco rarefatto di estatici timbri e profondi silenzi. Un percorso rituale di presenze e magiche assenze. Un pulviscolare ritorno a probabili meditazioni orientali. Un’opera anche parzialmente aleatoria, in cui le infinite possibilità del caso sono indicate da un sottile quadrante di plastica che viene fatto ruotare sopra i semicerchi della partitura suggerendone l’esecuzione dei ritornelli. Una raffinatissima commistione di predeterminazione e casualità, forma e astrazione, timbri e silenzi. Allievo di Frank Martin a Colonia, poi di Milhaud e Messiaen a Parigi, Stockhausen, nelle sue opere, oscilla sempre tra geometria e lirismo, ordine e visione, struttura e preghiera. Partito negli anni Cinquanta da posizioni iper-strutturalistiche – come tutti i protagonisti del periodo di Darmstadt – in cui tutto il materiale compositivo è ordinato secondo una ferrea logica seriale, predeterminata; passando per la “Gruppen-Technik” – dove il materiale sonoro viene individuato e utilizzato soprattutto per le sue valenze spaziali, dislocando in diversi punti della sala la provenienza e le durate del suono – una tecnica di “campi temporali” utilizzata soprattutto in Gruppen per tre orchestre (1956), Gesang der Junglinge, (1955-’56) e in Carré (per quattro cori e quattro orchestre, 1959-60); e dopo il citato periodo aleatorio e quello elettronico – in cui sempre più il suono viene dilatato in una magica dimensione virtualmente metafisica e atemporale – Stockhausen è infine approdato ad un personalissimo eclettismo che gli ha permesso, in varie opere – da Momente (1962-64, 1972) a Inori (1973-74), da Hymnen (1966-67, 1969) a Mantra (1969-70) da Kontakte (1960) agli splendidi Klavierstucke, fino al grandioso ciclo operistico Licht (Luce) di sette opere teatrali, ancora in fase di completamento – di esplorare con infinita varietà ogni sfera del suono: dal puntillismo più rarefatto, al ritorno della tonalità; dal recupero del folclore e di citazioni universali alle più visionarie efflorescenze elettroniche. Paolo Repetto Igor STRAVINSKY 1882 - 1971 Poco prima dello scoppio della Grande Guerra, poco prima del suo lungo ritiro nella neutrale e accogliente Svizzera – già conosciuta grazie ad altri soggiorni con l’intera famiglia – nel 1913 Stravinsky volle rivedere la sua cara Russia. Erano trascorsi alcuni mesi, da quando aveva conosciuto i deliri della febbre tifoidea, e per un soffio era scampato alle nere spirali della morte, che di lì a poco inghiottirono suo fratello Gurij e la sua seconda mamma, la balia Berta. Soprattutto per controbilanciare il peso e la violenza di quell’Ignoto, aveva sentito il profondo desiderio di riassaporare la certezza delle origini: la linfa delle radici. Così rivide i luoghi della sua infanzia; così riaffondò le vibranti mani nel grande tesoriere del folclore slavo. Al suo ritorno portò con sé alcune raccolte di poesie popolari russe, tra cui quella ricchissima di Kireevskij (da cui è tratto il testo per Le Nozze); molti ricordi, e molte melodie arcaiche, misteriose e felici, che riaffioravano alla sua mente come spuma di un mare scintillante e immenso. In più, appena rientrato in Svizzera, si fece spedire un’altra antologia sul folclore della sua patria che sua padre aveva gelosamente custodito. Si dice giustamente che alcuni compositori del Novecento – soprattutto del secondo Novecento – talvolta sono troppo astratti e cerebrali, poiché hanno smarrito il contatto con l’humus storico, con le radici di una tradizione antichissima e vitale. Al contrario, nessun musicista come Stravinsky, lungo l’ampio arco della sua prodigiosa attività compositiva, si è tanto riccamente alimentato alle inesauribili fonti dei popoli e della storia. Come Picasso, anch’egli capì subito che la creazione dal nulla, l’invenzione ex nihilo è una trovata della presunzione umana, o il suggerimento di un’entità sterile e diabolica. In verità, come ci dimostrano le loro variegatissime opere – in cui tutta la storia e tutta la tradizione, anche di lontane culture, viene rimescolata e trasfigurata in un impareggiabile arcobaleno di forme e di suoni – nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Invenzione come metamorfosi, trasformazione come creazione. Con l’esaltazione timbrica e ritmica de La Sara della primavera, terminata nel 1913, Stravinsky aveva fatto esplodere l’ipertrofica orchestra tardoromantica in un vortice abbagliante di lampi e di suoni, di visioni e di bagliori, ispirandosi ai ricchi aromi di antiche melodie slave: ora imitate, ora trasformate, ora reinventate in un tessuto sonoro completamente nuovo. Subito dopo, a partire dalle Tre liriche giapponesi – suggerite dalla freschezza delle stampe orientali e scritte sotto il benevolo influsso del Pierrot Lunaire di Schoenberg – aveva sentito il bisogno di nuove ricerche timbriche, di nuovi percorsi attraverso un universo musicale più intimo e rarefatto. L’intimismo del ritorno alle proprie origini russe; la raffinatezza d’inedite voci. Ad eccezione della Pastorale, del 1908, Pribaoutki, Quattro canti paesani russi e le Berceuses du chat, sono tutte opere concepite in Svizzera, tra il 1914 ed il 1917; sono piccoli capolavori da camera, che diversamente dal gigantismo sonoro della Sagra, sono stati concepiti con i colori pastello della leggerezza e della trasparenza, dell’ironia e della grazia: i giochi dell’allegria e di un “rustico umorismo”, con candide marezzature infantili, nelle Canzoni piacevoli di Pribaoutki; i quattro brevi cori femminili a cappella: Presso la chiesa di Chigisakh, Ovsen, Il luccio, Mastropancia, dei Quattro canti paesani russi, su parole di antiche contadine che predicavano il futuro leggendo gli improbabili simboli delle foglie di tè versate con ritualità in preziose sottocoppe; la lirica romanza senza parole della Pastorale, nella seconda versione per soprano e strumenti del 1923; e le squisite moine delle Berceuses du chat, che attraverso la voce e tre diversi clarinetti: quello in mi bemolle, quello in la e quello basso, descrivono la presenza misteriosa di un gatto: ora flessuoso, ora immobile, ora agile, ora ipnotico, ora affettuosamente soffice. Anche Le Nozze, composte tra il 1912 ed il ‘17, appartengono al periodo svizzero, ma videro la loro veste strumentale definitiva soltanto nel 1923. Dapprima furono concepite per un’enorme orchestra: due opposte compagini che avrebbero dialogato con il coro e le voci soliste; poi vennero pensate per un organico più piccolo, secondo il modello del tutto originale vicino alle orchestrine del circo e del luna-park di Renard e de L’Histoire du soldat; poi per un’altra versione con l’accompagnamento principale di un armonium e di una pianola, entrambi amplificati elettricamente, sopra il tessuto degli archi; infine, si cristallizzarono nella definitiva, adamantina versione per soli, coro, quattro pianoforti ed un gruppo nutritissimo di percussioni. Quale festa di luci, quale fasto di suono! in una timbrica eminentemente percussiva. Quale ferrea tensione! Mai, nella storia della musica occidentale, si era udito un brano strutturato secondo una dimensione tanto riccamente ritmica, dove anche il suono dei pianoforti e il colore delle diverse voci trasformano la loro naturale vocazione lirica in una macchina sontuosamente martellante, in una possente e fulgida icona minerale. Quattro ininterrotti “quadri” che celebrano i riti matrimoniali di una Russia arcaica: 1) il lamento della sposa, i singhiozzi della madre, le declamazioni salmodiche delle compagne; 2) le drammatiche raccomandazioni dei genitori dello sposo, i commenti divertiti dei compagni; 3) l’accompagnamento della sposa verso l’altare, lo schiamazzo degli amici, l’invocazione ai santi Cosimo e Damiano per la benedizione della cerimonia; 4) la caotica euforia del banchetto nuziale, con brandelli di canzoni, auguri, chiacchiere, invocazioni, brindisi, e la finale unione ero- tica dei due sposi. Il tutto mescolato in un abbagliante, percussivo turbine d’invenzione e citazione, modernità e tradizione – alcuni temi sono ispirati all’antico repertorio slavo – dove la sacra liturgia del matrimonio si trasforma nel più alto simbolo dell’abbandono e dell’unione, del rinnovamento e della rinuncia, della morte e dell’amore. Paolo Repetto Gabrio TAGLIETTI *1955 Ha iniziato gli studi di composizione con Franco Margola al Conservatorio di Parma, proseguendoli al Conservatorio di Milano con Davide Anzaghi e dimplomandosi nel 1981 con Giacomo Manzoni. Nel 1978 ha ottenuto il primo importante riconoscimento con il quartetto per archi Le rondini, unica opera italiana selezionata al 5° Seminario internazionale dei compositori di Boswil. Da allora le sue composizioni sono state eseguite nei più importanti festival e premiate in vari concorsi, fra cui il Franco Evangelisti (1987), Guido d’Arezzo (1989), Mario Zafred (1990), Valentino Caracciolo (1991). È diplomato anche in pianoforte e, come pianista, svolge un’intensa attività col Gruppo Musica Insieme di Cremona, con cui organizza il festival Spazionovecento. Ha inoltre lavorato a molte traduzioni di saggi e libri di carattere musicale, fra cui il carteggio Schönberg-Mann (Archinto 1993), quattro saggi di Adorno (Einaudi 2001). Dal 1997 insegna composizine presso il Conservatorio di Mantova. Sándor VERESS 1907 - 1992 Nato a Kolozsvár (Ungheria) ha studiato al conservatorio di Budapest con Bela Bartók (pianoforte) e Zoltán Kodaly (composizione). Dopo essere stato assistente di composizione di Laszlo Lajtha, divenne direttore della sezione dedicata alla musica popolare del museo etnografico ungherese, per il quale condusse ricerche in Ungheria, Transilvania e lungo la Moldava. Veress partecipò attivamente al movimento di riforma della pedagogia musicale nell’Ungheria dell’anteguerra. Dal 1935 al 1943 fu assistente di Bartók nella sezione di musica popolare dell’Accademia ungherese delle scienze. Dal 1943 al 1949 fu professore di composizione nel Conservatorio di Budapest. Nel 1949 lasciò l’Ungheria e, dopo soggiorni a Stoccolma e a Roma, trovò in Svizzera la sua seconda patria. Dal 1950 insegnò composizione, teoria e pedagogia musicale al Conservatorio di Berna, diventando anche professore nella locale Università nel 1968. Il titolo Introduzione e coda indica che si tratta della cornice di una composizione concepita in più parti. Non è tuttavia un’opera incompiuta, bensì un’opera che ha trovato la sua compiutezza secondo la volontà dell’autore. Il titolo non è dunque uno scherzo, ma un accenno al non detto. Nell’Introduzione il gruppo cromatico dei tre suoni mi -fa - fa diesis (battute 1-2. 38-41. 97) costituisce il nucleo strutturale da cui partono le tesissime linee melodiche. Nella battuta 52 la melodia s’innalza in un parlando-rubato, gesto sentito nella maniera ornata del canto popolare ungherese. Nella Coda il gruppo dei sei suoni re bemolle - fa -mi / fa diesis - re -mi bemolle ne è il nucleo strutturale. Solo nella battuta 36 traggono origine dal precipitoso movimento strutture ritmiche che sfociano nel gesto febbrile del Tempo-giusto. Questi due gesti polarizzati della musica popolare non risuonano immediatamente, ma come se fossero riflessi; ricordo e pensiero musicali si intrecciano. Elettrosensi Questo concerto è il primo di una rassegna che frequenterà i repertori contemporanei destinati ai nuovi strumenti musicali elettroacustici: nuovi strumenti musicali per rinnovate forme espressive che utilizzano tutto il potenziale del gesto esecutivo degli strumenti acustici della tradizione, in un mondo di nuovi suoni e di cura compositiva della loro dimensione spaziale. Il violino elettroacustico, producendo direttamente un segnale audio elettrico, può connettersi direttamente a tutti i dispositivi elettronici di trattamento e diffusione del suono conservando, nello stesso tempo, tutte le possibilità esecutive del violino acustico. Questo permette una interazione immediata ed efficace con tutti i dispositivi elettronici creando variazioni continue di timbri, di dinamiche e di penetrazione sonora degli spazi architettonici. La compenetrazione poi, fra i suoni dello strumento e quelli puramente elettronici, è totale in tutte le sue dimensioni senza alcuna disparità di livelli o di mobilità sonora: si tratta finalmente di vere e proprie forme concertate fatte di omogeneità e contrapposizioni, di staticità e mobilità, di sonorità minime e sonorità piene, di esplosioni di masse e di linee liriche. Gli autori delle composizioni presentate, appartengono alla generazione di musicisti che ha pienamente vissuto l’evoluzione delle nuove tecnologie elettroniche ed informatiche, inserendo costantemente nelle proprie produzioni musicali l’uso di questi strumenti. Ormai superata ogni fase puramente sperimentale e, in qualche modo, liberi da qualsiasi deferenza alla tecnologia fine a se stessa, questi lavori compositivi si integrano perfettamente nelle identità espressive e stilistiche di ogni singolo autore. Ognuno di essi arriva alle nuove tecnologie da percorsi diversi e con una propria identità che si manifesta, nel programma presentato, con una ricca varietà di tecniche, stili e poetiche. Grafica : RTSI - Raffaela Casasopra Stampa : Tipo-Offset Aurora