SALVATORE GAROFALO Vincenzo Romano un parroco sugli altari PRESENTAZIONE Il 17 novembre del 1963, durante il primo anno della celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, veniva proclamato beato il venerabile Vincenzo Romano, vanto non solo per la città di Torre del Greco, che ne conserva con affetto la memoria, ma anche per l’intero clero dell’Arcidiocesi di Napoli, pur ricco di figure sacerdotali nobili per santità di vita, impegno apostolico e vivacità culturale. A distanza di quarant’anni da quel momento, coscienti che abbiamo il compito non facile di tra smettere alle giovani generazioni l’amore per coloro che hanno costruito il mondo in cui esse vivono e, in particolare, per coloro che hanno lasciato una bene fica e luminosa traccia, intendiamo riproporre la let tura di un saporoso e godibile scritto “minore” di monsignor Salvatore Garofalo, che fu il postulatore della Beatificazione del par roco di Santa Croce don Vincenzo Romano. Si tratta di un “assaggio”, in specie per chi non conosce bene la figura del nostro Beato. E, se “l’ap petito vien mangiando”, senz’altro ci auguriamo che sempre più numerosi nostri concittadini sentano il desiderio – che per loro è anche un dovere –, di sape re qualcosa di più su colui che ha dato un’impronta caratteristica al modo di essere cristiani a Torre del Greco. La Basilica di Santa Croce, da lui ricostruita dopo la tremenda eruzione vesuviana del 1794, le 3 altre chiese vicine (come Santa Maria delle Grazie e Santa Maria del Principio), della cui riedificazione egli pure fu promotore, l’impegno costante nella pre dicazione, nell’amministrazione dei sacramenti, nel soccorrere i poveri e nell’impegno nel contesto socia le e lavorativo del suo tempo, fanno di Vincenzo Romano un esempio completo non solo di come un cristiano può amare Dio e i fratelli nella fedeltà e nell’umiltà della fatica quotidiana, ma anche di come un presbitero può esprimere con generosità e passione il compito di pascere il gregge affidatogli da Cristo. A tutti, allora, buona lettura, e il Beato interceda per la nostra comunità cristiana, affinché essa pro duca ancora frutti degni di Cristo. Torre del Greco, ottobre 2003 Il Parroco don GIOSUÈ LOMBARDO 4 GLI ANNI DELLA FORMAZIONE Il Beato Vincenzo Romano vide la luce tra il Vesuvio e il mare, a Torre del Greco, in provincia di Napoli. Nacque e fu battezzato lo stesso giorno: il 3 giugno 1751 e avrebbe dovuto chiamarsi Domenico, come fu denunziato nei registri, ma i parenti decisero subito per il secondo nome Vincenzo, per devozione al grande santo domenicano spagnolo, che l’arte raffigura con una fiamma sul capo e con le ali dell’angelo dell’Apocalisse. La famiglia era modesta e piissima. Il padre Nicola lavorava la terra e la madre Grazia Maria badava alla numerosa famiglia: Pietro, che fu poi religioso, Giuseppe, Felice, Gelsomina, “monaca di casa”, ed Angela. PRIMI PASSI NELLA GRAZIA Grazia Maria, la mamma, era dolcissima. Il papà, Nicola, con uno sguardo e pochissime parole, faceva filare tutti dritto. Tra le sorelle, fu la buona Gelsomina che, in particolare, prese le cure del piccolo Vincenzo il quale, fin dai primissimi anni, fu educato ad una robusta pietà e ad una giusta disciplina. Appena fu possibile, frequentò per prima cosa il catechismo domenicale 7 in Santa Croce, unica parrocchia di Torre e, in età opportuna, fu mandato a scuola presso un sacerdote, che fu poi suo padrino di Cresima. Nella scuola il primo posto era dato all’educazione morale e religiosa: si cominciava infatti con un sermoncino, spesso tenuti dagli stessi scolari. Di carattere riservato e d’intelligenza pronta, Vincenzo non fece fatica a esser tra i primi. L’educazione cristiana ricevuta in famiglia e a scuola avrebbe potuto consentire a Vincenzo di accedere presto ai sacramenti, ma dovette aspettare, secondo le disposizioni diocesane del tempo, fino ai dieci anni circa per la Prima Comunione, dopo aver ricevuto tre anni prima la Confermazione. La buona gioventù di Torre del Greco frequentava allora la Congregazione della Madonna dell’Assunta, dove, si pregava, si praticavano numerosi esercizi di pietà, si ascoltava la Parola, ci si istruiva. Il paese era pieno di sacerdoti: su circa diecimila abitanti si contavano quasi cinquanta del solo Clero diocesano e trentacinque seminaristi: per questo motivo le autorità ecclesiastiche erano molto severe nella scelta dei candidati al sacerdozio. LA NON FACILE VIA Quando, infatti, il quattordicenne Vincenzo manifestò spontaneamente il desiderio di seguire il fratello Pietro, entrato sei anni prima tra i Padri Dottrinari, 8 sulle vie della consacrazione al Signore, dovette faticare non poco per vedere il suo desiderio soddisfatto. Papà Nicola, che aveva già pensato di far di lui un bravo orefice, non fece nulla per invogliare suo figlio, ma nemmeno gli si oppose senza ragione. Volle, sì, il giudizio e il consiglio di sperimentati sacerdoti; poi, sebbene avesse già dato alla Chiesa il suo primogenito, acconsentì che si facessero i passi necessari per l’entrata di Vincenzo nel Seminario di Napoli. Ma le difficoltà maggiori dovevano venire proprio di là. Quando l’Arcivescovo del tempo, il Cardinale Antonino Sersale, era stato nominato a Napoli, Sant’Alfonso Maria de Liguori gli aveva raccomandato soprattutto la massima attenzione al Clero e una scrupolosa selezione dei seminaristi. L’Arcivescovo, infatti, riformò gli studi ecclesiastici e sviluppò i due Seminari: l’Urbano, per i napoletani, e il Diocesano per i giovani della provincia. A questo Seminario aspirava Vincenzo, il quale si vide però, sulle prime, rifiutare la domanda. I seminaristi di Torre erano già tanti e poi il Cardinale li conosceva bene – gli Arcivescovi di Napoli avevano a Torre un famoso palazzo per la villeggiatura – e sapeva che erano bravi e intelligentissimi, ma, una volta sacerdoti, c’eran di quelli che «si davano al bastoncino», cioè, non avendo molto da fare, non se lo procuravano nemmeno. Vincenzo, addoloratissimo del rifiuto, fu tenace. Poiché non si riuscì nemmeno a convincerlo di aspettare ancora qualche anno, si pensò di farlo entrare tra 9 i Gesuiti di Napoli, ma anche qui i tentativi fallirono, perché la famiglia non era disposta a fargli frequentare le scuole pubbliche dei Padri prima che fosse accolto come novizio. Dei Padri della Compagnia di Gesù Vincenzo conservò sempre un affettuoso ricordo, ma riconobbe nel suo insuccesso un intervento della Provvidenza, perché nel 1767 i buoni Padri, perseguitati in molte nazioni, furono espulsi anche da Napoli e, a un certo momento, la Compagnia sopravvisse soltanto in Prussia e nella Russia. «Certamente, diceva più tardi Vincenzo, io avrei preferito andarmene lontano dalla casa e dai parenti, e non mi sarebbe importato di andare a finire dalle parti di Mosca, ma Dio non volle perché mi aveva destinato alla parrocchia». Il Cardinale di Napoli, presso il quale intercedette per Vincenzo un nobiluomo napoletano, diede alla fine qualche buona speranza, ma volle che, all’esame previo, i professori fossero senza indulgenza. Il ragazzo di Torre, però, se la cavò con molto onore. NEL SEMINARIO Per l’anno scolastico 1765-1766 Vincenzo entrò nel Seminario Diocesano, dove il fior fiore del Clero napoletano lo educò e lo istruì. Fin dai primi giorni fu visto piangere in un angolo della Cappella: nostalgia per la casa e il paese? Ovviamente così pensavano i compagni, ma Vincenzo rispose ai suoi consola10 tori che si trattava di lacrime di gratitudine e di gioia per la grazia grande di trovarsi là, dove poteva avere tanti aiuti. E di aiuti ne ebbe molti davvero; negli studi, sotto la guida di dotti che erano celebrità nel regno di Napoli, ma per la pietà sopra ogni cosa, perché per le ardue vie dello spirito lo indirizzò e lo sorresse il Venerabile Mariano Arciero, sacerdote di eroiche virtù e apostolo del Catechismo nell’Italia Meridionale. A lui Vincenzo restò sempre legato e i suoi consigli, finché Arciero morì in odore di santità nel 1788, erano legge per il Beato. Alla fine del secondo anno di Seminario, Vincenzo ascoltò una celebre novena dell’Assunta, predicata da Sant’Alfonso nella basilica di S. Restituta in Napoli e rimasta celebre e in benedizione per il trascinante fervore del grandissimo santo napoletano. La chiave degli anni della preparazione di Vincenzo al sacerdozio sta tutta in una sua massima: «Volesse Iddio che si osservassero le regole del Seminario, perché quelle sole basterebbero a fare un santo». Infatti, bastarono, come indicano già i due soprannomi che Romano ebbe in Seminario. Lo chiamavano «la pecora stizzita», perché era di una dolcezza scontrosa, e «scialone», cioè gaudente, con allusione alla fame che egli aveva del Pane degli Angeli, l’Eucaristia; di cui si nutriva ogni giorno – cosa allora insolita – e per la gioia che diventava visibile quando poteva trattenersi ai piedi di Gesù in Sacramento. 11 La qualità dell’ingegno e un naturale trasporto per lo studio fecero ben presto primeggiare a scuola «la pecora stizzita», tanto che i Superiori gli affidarono i giovani più deboli nelle materie letterarie. Tra la Pentecoste e il Natale del 1769, Vincenzo fu ammesso alla Sacra Tonsura e agli Ordini Minori; nel 1772 faceva il passo irrevocabile nella sua offerta al Signore nell’Ordine del Suddiaconato. Subito dopo, i Superiori lo nominarono prefetto di camerata, incarico che Vincenzo avrebbe voluto rifiutare per timore che ne venisse pregiudicato lo studio. Con i suoi seminaristi il Beato fu, come dice un testimone, «dolce ed efficace». Con lui si doveva studiare seriamente e osservare tutte le regole, ma si era sicuri di essere sinceramente amati e sollecitamente aiutati. Nel 1773 fu ordinato diacono. Il suo padre spirituale diceva che un aspirante al sacerdozio si doveva preparare con la diligenza di un capitano che si appresta alla battaglia e con la coscienziosa bravura di un pilota che si avventura sul mare. L’ora di salpare era vicina. 12 I PRIMI PASSI NEL SACERDOZIO PRIME ESPERIENZE SACERDOTALI Dal padre, il Beato aveva ereditato la serietà e la laboriosità in ogni cosa, dalla madre una dolcezza profonda ma piena di riserbo, e queste qualità si intrecciano in tutto il tessuto della sua lunga vita sacerdotale. La sua serietà rischiava di invischiarlo negli scrupoli e la sua dolcezza avrebbe potuto farlo troppo remissivo, ma la virtù, come è noto, sta precisamente nel mezzo e si raggiunge con la fatica di ogni ora. Il Beato fu ordinato sacerdote la vigilia della festa della SS. Trinità del 1775, nella basilica di Santa Restituta, fatta costruire a Napoli dall’imperatore Costantino al tempo di Papa Silvestro (314-335). L’indomani, egli celebrava la prima Messa nella parrocchia di Santa Croce a Torre del Greco. Il fratello Giuseppe, che era presente, ricordava che il raccoglimento e il fervore di Vincenzo fecero colpo sulla folla, tra la quale ci fu chi con ammirazione disse: «Sembra un santo». In realtà, la Messa fu per tutta la vita la grande ora di Vincenzo e il fervore e il gusto della Prima Messa non gli mancarono mai fino alla morte. I molti ministeri, la cura di un popolo estroso e imprevedibile, che a tutte le ore lo cercava e lo 15 impegnava, non valsero mai a distrarlo dall’adempimento più attento del suo fondamentale dovere sacerdotale, che era anche tutta la gioia della sua vita. Il Beato non si è mai mosso da Torre del Greco e dalla sua casa paterna, dove occupò una stanza ancora oggi conservata quasi intatta. La casa è in un quartiere popolare e Vincenzo poteva ascoltare dal balcone le voci della strada, gli strilli dei bambini e il cicaleccio delle donne. I contemporanei hanno definito il Beato «un celebre faticatore», un «operaio instancabile» nella vigna di Dio. Infatti, Vincenzo non era di quelli che si davano «al bastoncino»! Egli avrebbe potuto facilmente diventare un uomo di studio, uno di quei bravi sacerdoti che, zelanti nel ministero, nutrivano anche velleità letterarie e coi saggi della loro cultura diventavano le celebrità del paese. Tutti s’aspettavano che così fosse per il figlio di Nicola Romano, il quale, però, preferì subito mettere a servizio del bene anche le sue qualità naturali. LA SCUOLA Dopo essersi consultato col suo padre spirituale don Mariano Arciero, Vincenzo aprì una scuola in casa per i giovanetti torresi. La scuola era gratuita, ma il maestro era esigente, o meglio, come dicono i suoi alunni, «esatto». Le lezioni cominciavano con un pensiero religioso sulla festa liturgica del giorno e 16 facevano parte del programma l’insegnamento del Catechismo e le pratiche religiose: ogni giorno, la Messa e la visita al Sacramento. Una serie di cartellini distribuiti nella stanza recavano, in bella scrittura, alcune massime eterne e con don Vincenzo non era possibile prendersela comoda: amava i suoi ragazzi, ma era attentissimo a educarli a una scrupolosa applicazione al dovere e al senso della responsabilità. Ben presto, con l’autorizzazione dell’Arcivescovo, il Beato aprì anche una scuola particolare per gli aspiranti al sacerdozio. A Napoli, la sua fama ancora durava. Il Rettore del Seminario non sapeva augurare di meglio ai seminaristi di Torre che facessero la stessa riuscita di Romano; i professori avrebbero voluto averlo collega, ma l’Arcivescovo preferiva che Vincenzo gli curasse gli allievi torresi del seminario, per i quali un giudizio di Romano era per lui decisivo. Fu in questi anni che Vincenzo approfondì meticolosamente le materie ecclesiastiche e compilò un manuale di dogmatica e di morale, oltre a scrivere moltissimi appunti di studio che ancora si conservano tra le sue carte. Con i seminaristi, Vincenzo si regolò – dice un testimone – «col medesimo rigore come egli era stato educato in Seminario, senza eccedere i limiti della prudenza e della carità». Diremo una volta per tutte che queste parole: «rigore», «severità», ritornano spesso a proposito di Romano, ma esse vanno intese nel loro giusto significato. Una sua massima preferita era: «Dobbiamo fare bene il bene», e tutti sanno che questo non è possibi17 le senza una notevole dose di quella serietà, che solo i faciloni giudicano spietata o scostante. Sta il fatto che alla scuola di Vincenzo crebbero sacerdoti zelantissimi e di specchiate virtù. INCONTRO ALLE ANIME La duplice scuola non esaurì in quegli anni tutta l’attività di don Vincenzo, il quale si impegnò contemporaneamente in vari ministeri. Cominciò come cappellano festivo in una piccola cappella rurale perduta nella campagna, dove fece le prime prove nella predicazione, spiegando il Vangelo della domenica e insegnando il Catechismo. Tre anni dopo fu obbligato ad accettare l’ufficio di Padre spirituale della Congregazione dell’Assunta, riservandosi però di rinunziare all’emolumento annesso. Il Beato trattò quei «confratelli» – per lo più operai, contadini, commercianti – come se fossero la parte più eletta di Torre. Fu anche Cappellano festivo della chiesa del Conservatorio dell’Immacolata Concezione, affidato alle Teresiane istituite alla fine del ’600 dalla Serva di Dio Serafina da Capri, dove erano una cinquantina tra suore e educande. Don Vincenzo si era iscritto a una Congregazione napoletana per le missioni popolari detta «della Conferenza», diretta da don Mariano Arciero, e attese con entusiasmo a quel ministero, allora prediletto dai sacerdoti più dotti e più pii del Clero di Napoli. 18 Predicò anche spessissimo e insegnò il Catechismo nella Congrega del SS. Sacramento annessa alla parrocchia. L’Arcivescovo Filangieri aveva in quel tempo ordinato che nelle parrocchie fosse tenuta ogni giorno un’istruzione al popolo e, sebbene vari sacerdoti di Torre fossero stati impegnati a questo scopo, alla fine rimase sulla breccia il solo Vincenzo. Già prima della sua nomina a parroco, il Beato aveva introdotto a Torre del Greco la sciavica, cioè la “retata”, che consisteva in una predica all’aperto, nei punti principali del paese, per convogliare il popolo alle pratiche di pietà in chiesa. Vincenzo ha sempre avuto, nonostante l’aristocrazia del suo spirito, una notevole capacità di adattamento anche alla gente più grezza, con la quale riusciva particolarmente efficace ed eloquente. Verso il 1790 fu abilitato anche alla confessione delle donne e l’amministrazione del sacramento della penitenza lo occupò fino al punto che avrebbe rinunziato per essa alla scuola, se don Mariano Arciero non lo avesse dissuaso. Nelle adunanze settimanali del Clero torrese toccò a don Vincenzo proporre la soluzione dei casi morali, e i suoi diligenti manoscritti, in pulito latino, stanno a testimoniare l’equilibrio e la saggezza che lo ispirarono sempre. Non si tirava mai indietro quando il parroco lo incaricava dell’assistenza agli infermi e ai moribondi, rischiando anche la vita, come accadde una volta per un ammalato contagioso. «Il Signore – dice un testimone – lo liberò dalla morte per le preghiere di tutta la gente di Torre», la 19 quale «ne temeva la perdita come un flagello peggiore di qualunque rovina prodotta dalle eruzioni vesuviane». Il suo terrore era quello dei santi: non perdere tempo! Più tardi scriverà: «Un artefice che, tenuto a faticar tutto il giorno per l’utile del padrone, se ne rubasse una o due ore senza operar cosa alcuna, o non l’impiegasse che a suo profitto in pregiudizio del padrone, sarebbe stimato ingannatore». Per un santo sacerdote dare e darsi è un assillo, perché ogni momento può essere quello scelto dalla grazia di Dio. IL VESUVIO STERMINATORE Torre del Greco paga la felicità della sua stupenda posizione, al centro di uno dei panorami più celebrati del mondo, con la paura del Vesuvio che la domina da vicino; ma i torresi non gliel’hanno mai data vinta e, nonostante le eruzioni e le distruzioni, son rimasti attaccati a loro infido suolo. Nel 1794 l’ira del vulcano, che ai tempi di Romano fu attivissimo, si scatenò. Il 15 giugno, dopo un terremoto premonitore, la montagna si squarciò e la lava di fuoco si riversò sulle campagne e sull’abitato di Torre del Greco. Cenere finissima e micidiali lapilli piovevano sulla città, i cui abitanti fuggirono precipitosamente, lasciando sotto le macerie una quindicina di morti. La casa del Beato fu una delle poche scampate all’ira di fuoco. La chiesa par20 rocchiale di Santa Croce, che era una delle più belle chiese dell’Arcidiocesi e ricca di pregevoli opere d’arte, fu completamente travolta dalla lava. Muto testimone del disastro fu il campanile, rimasto intatto nei due ordini superiori, com’è ancora oggi. Fu distrutta anche la chiesa del Conservatorio dell’Immacolata e resa impraticabile quella della Congrega dell’Assunta, dove il Beato era rispettivamente cappellano e Padre spirituale. Torre del Greco doveva essere quasi tutta ricostruita, ma invano le autorità cercarono di convincere i suoi abitanti a occupare un territorio più vicino a Napoli e meno esposto al vulcano. Prima d’ogni cosa, dopo aver provveduto a riattivare i traffici della città e specialmente la pesca, si pensò a riedificare la chiesa principale, che era di patronato municipale. Quattro mesi dopo l’eruzione, una commissione di sei sacerdoti e sei laici era già al lavoro per raccogliere fondi e per reclutare la mano d’opera, soprattutto quella volontaria. Non ci si contentò di una qualsiasi chiesa per sostituire l’antica, ma si fecero le cose assai in grande, e tuttora la parrocchiale di Santa Croce è uno degli edifici sacri più vasti dell’Arcidiocesi di Napoli. A Capodanno del 1795 ebbero inizio i lavori di sgombero delle macerie, iniziati dal clero e dal popolo che si erano recati sul cantiere in processione, portando gli attrezzi necessari. L’avvio alla difficile impresa fu dato da don Vincenzo Romano, già scelto come membro della commissione sunnominata, il quale non solo infervorò tutti con le parole, ma da 21 quel momento fu veramente l’anima della riedificazione di Santa Croce, che fu definitivamente compiuta soltanto quattro anni prima della morte del Beato. Le offerte venivano portate a lui, perché il popolo ne aveva piena fiducia ed era convinto che il danaro si moltiplicasse nelle sue mani. In realtà, Vincenzo, per pagare puntualmente gli operai, non dubitava di contrarre debiti personali anche di notevole importo, e quando gli amministratori laici della chiesa pretesero di controllare personalmente il movimento finanziario, tutto sarebbe fallito se, con unanime consenso, non si fosse di nuovo affidata ogni cosa a Vincenzo. ECONOMO CURATO L’eruzione vesuviana aveva distrutto anche la casa di città dell’unico parroco di Torre del Greco, don Gennaro Falanga, ottantatreenne, il quale giudicò di non potere più per l’età far fronte agli enormi bisogni della sua popolazione in quei tristi frangenti. Ritiratosi in una sua casa di campagna, chiese all’Arcivescovo di dargli un coadiutore. Non era difficile scegliere tra il numeroso clero torrese chi, per età ed esperienza, oltre che per virtù, poteva mettersi accanto a Falanga, ma la «pubblica fama» impose il nome di Romano, che il vecchio parroco aveva per conto suo già designato. Appena ebbe sentore di ciò, don Vincenzo si precipitò in campagna dal suo par22 roco e con le lacrime agli occhi lo scongiurò di allontanargli un peso che egli si riteneva incapace di portare; protestò che lo avrebbe aiutato in tutti i modi, specialmente nel più duro ministero dell’assistenza agli infermi e ai moribondi, e promise un regalo a chi gli avesse portata la notizia che l’Arcivescovo aveva nominato un altro sacerdote a Economo curato. Lettere e messaggi facevano la spola tra Napoli e Torre per piegare le resistenze di Romano, il quale non riuscì nel suo intento. Svenne in piazza alla notizia che la sua nomina era ormai certa e quando, per un ultimo tentativo, si recò dall’Arcivescovo per convincerlo della sua indegnità, si sentì dire da Sua Eminenza: «Quando siete stato ordinato, che cosa avete promesso al Vescovo?». «Eminenza – rispose Romano – promisi obbedienza». «Ebbene – ripigliò il Cardinale con un tono che troncava ogni indugio – obbedite». Soltanto l’obbedienza piegò il Beato, il quale, come il Curato d’Ars, sapeva che le responsabilità di un pastore d’anime sono tali e tante da far tremare chi è deciso a fare il proprio dovere fino in fondo: «Amico mio – diceva il Curato d’Ars a un sacerdote – voi non sapete ciò che voglia dire per un parroco presentarsi al tribunale di Dio». E desiderò spesso di fuggire in luogo solitario a «piangervi la sua povera anima». L’umiltà impedisce ai santi di giudicarsi a cuore leggero adatti al ministero più responsabile, ma li fa anche pronti a tutto osare per virtù d’obbedienza, che sola fa cantare vittoria. 23 Cominciò così, nel 1796, una nuova stagione della vita del Beato. Fin dai primi giorni, egli fu in pratica il responsabile unico di tutta la vita parrocchiale, mentre gli spettava anche il gravoso compito di provvedere alla ricostruzione della chiesa distrutta. San Pietro, nella sua prima lettera, chiamava i fedeli «pietre viventi […] edificati come edificio spirituale per un sacerdozio santo, allo scopo di offrire vittime spirituali bene accette a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (2,5) e, prima delle pietre morte, Vincenzo curò le pietre vive della Chiesa. Un sacerdote suo consigliere delinea così il suo atteggiamento spirituale durante tutto il tempo in cui durò il lavoro di riedificazione di Santa Croce: «Siccome egli era persuaso che la gran confidenza in Dio elimina ed allontana i principi della perniciosa disperazione, così potentemente si vedeva nelle sue prediche e discorsi la perfettissima fiducia in Dio, e nel medesimo tempo la premura di animare tutti alla cristiana speranza; e per quanto era vivo nell’esprimere le umane miserie, ed il proprio nulla, e l’impotenza umana a qualunque opera salutare, così mirabilmente quasi risorgendo si vedeva tutto animato, e con una confidenza teneramente filiale e coraggiosa, andarsi a riposare nel seno delle divine misericordie». Non ci sono che i santi, i quali sanno ridurre in armonia la sfiducia nei mezzi umani, che per altri sarebbe sconforto e disperazione, con l’abbandono in Dio, che per chi non è santo ha tutto l’aspetto di una ingenua temerità. I santi soltanto sanno essere diffi24 denti e insieme fiduciosi, prudenti e spericolati allo stesso tempo, senza mai perdere la misura della virtù. Il Beato ebbe molto a patire da parte degli scettici e dei seminatori di zizzania, i quali lo accusavano di megalomania nei progetti ed erano certissimi che la chiesa non sarebbe stata portata mai a fine. Egli rispondeva con le parole di Dio: «Se il Signore non edifica la casa, invano vi faticano i costruttori» (Sal 126,1) e diceva che se Dio voleva la chiesa, nessuna difficoltà ne avrebbe impedita l’edificazione, mentre se quella non era la Sua volontà tutto l’oro del mondo non sarebbe servito a tirar su un muro. Il Cardinale di Napoli aveva concesso che gli operai volontari potessero lavorare alla costruzione della chiesa anche nei giorni festivi e ogni domenica Don Vincenzo scendeva alla marina, accompagnato da gran folla di popolo, per risalirne portando sulle spalle i mattoni che una feluca torrese trasportava gratuitamente dall’isola d’Ischia. Per accendere l’entusiasmo dei fedeli, il Beato compose anche una canzoncina, che suggeriva i pensieri più adatti perche la fatica materiale fosse appoggiata a generosi e devoti sentimenti del cuore. Per soccorrere il Clero torrese, ridotto dall’eruzione vesuviana in estrema miseria, il Cardinale Giuseppe Capece Zurlo aveva depositato una somma di danaro, dai cui interessi provvedere all’istituzione a Torre di una Collegiata, al servizio di Santa Croce. Tra i primi canonici fu don Vincenzo, che il 16 ottobre 1796 ricevette con i colleghi la solenne investitura. 25 PASTORE DEL GREGGE A LUI AFFIDATO PARROCO DI TORRE DEL GRECO Nel settembre del 1799 moriva, a ottantanove anni, don Gennaro Falanga parroco di Santa Croce e Preposito Curato nella nuova Collegiata. Pochi giorni dopo, i governatori laici della chiesa, avvalendosi di un loro diritto, presentavano all’Arcivescovo come candidato alla successione don Vincenzo Romano. La designazione fu unanime; per salvare le debite forme, erano stati messi in lista altri due candidati, i quali però si ritirarono spontaneamente, riconoscendosi per meriti e virtù inferiori al canonico Romano. Vincenzo s’era già proposto di ritirarsi dalla cura parrocchiale appena fosse stato nominato il nuovo parroco, e quando seppe della proposta dei governatori, ricorse ai buoni uffici di un sacerdote amico per convincerli a desistere, ma gli amministratori e «quasi tutte le famiglie di Torre» insistevano col Beato perché dicesse sì. Qualcuno gli fece anche presente che sarebbe stato un disonore per lui, già Economo Curato, farsi sopravanzare da un altro, ma egli rispose: «Meglio mi contento di aver del disonore che andare all’inferno». Quand’era giovane sacerdote aveva detto a un chierico: «Se qualcuno volesse mandarmi un’imprecazione, dovrebbe dirmi: ti possa 29 veder parroco!». Naturalmente, egli non intendeva dire che è sciagura grande essere parroco, ma misurava col metro dell’umiltà gli oneri e gli onori, confrontandoli con la propria pochezza. Anche questa volta fu necessario che il Cardinale gli imponesse di ubbidire, e quando Vincenzo tornò a casa, disse al fratello Giuseppe: «Se anche mi avrebbe precettato di andare alla forca, l’avrei ubbidito». Fino alla fine dei suoi giorni Vincenzo continuò a riflettere sui suoi formidabili doveri: «Ho accettato la cura delle anime in virtù di santa obbedienza, per non commettere un aperto peccato grave; avrei voluto piuttosto la morte, che aggravarmi di questo sì pericoloso peso della cura delle anime. Questa carica non si può accettare né per onore né per interesse o altro fine, ma soltanto per volontà di Dio, il quale come assoluto Padrone esige questo servizio da me». Il 29 dicembre 1799 Vincenzo prese canonico possesso della parrocchia. Durante la cerimonia fu visto accigliato e dispiacente, pensieroso e piuttosto afflitto, mentre intorno a lui un popolo intero era in festa. Alcuni giorni dopo, a chi gli chiedeva con una punta di sorridente malizia come si trovasse sotto la “cappa magna” di Preposito Curato, rispose: «Camminiamo sopra l’acqua, come San Pietro», alludendo all’episodio evangelico in cui l’apostolo, invitato da Gesù a raggiungerlo camminando sulle acque del lago di Tiberiade, ebbe un attimo di paura e stava per affondare se il Maestro non gli avesse teso la mano. La preghiera quotidiana del parroco Romano era: 30 «Signore, niente posso, niente sono, niente so, la Cura è vostra; nella vostra parola, come San Pietro, mi getto in questo mare […]. O Gesù: io sono l’asinello sotto di voi, voi guidatemi, voi tiratemi, voi regolatemi». TUTTO PER LE ANIME Superato il primo sbalordimento e sconforto, la «pecora stizzita» del Seminario di Napoli diventò, come dice un testimone, «un cavallo sfrenato». Fino alla morte non ebbe per sé una sola giornata di riposo e lasciò il suo gregge per poche ore soltanto, quando doveva recarsi in Curia per gli affari di parrocchia. Anche allora, non c’era verso di farlo fermare a Napoli neanche quando perdeva il calesse che doveva, per dodici chilometri, ricondurlo a Torre; preferiva fare a piedi il cammino per poter essere nella nottata a casa. Perfino nelle campagne prossime a Torre si recava soltanto se era necessario per adempiere i suoi doveri verso le anime a lui affidate. Accettava di sedere a mensa solo con i sacerdoti e, per dovere di gratitudine e di riverenza, faceva compagnia all’Arcivescovo il quale, quando era in villeggiatura, spesso lo invitava a pranzo. Anche allora, però, poteva accadere che Sua Eminenza lo aspettasse invano: il Preposito si scusava con garbo di essere stato impedito dall’assistenza a un moribondo. Si levava all’alba e con una sottana tutta pezze ma 31 nettissima, il cappello di ruvida lana a falde lunghe in testa, calzando pesanti scarpe con una fibbiuccia di ferro, percorreva il brevissimo cammino che divideva casa sua dalla chiesa. Dopo aver preparato tutto il necessario con grandissima cura, celebrava la Messa sottolineando con la voce le parole più belle del Messale e alcune invocazioni del Pater. Spesso non riusciva a trattenere le lacrime durante la Consacrazione. Una tazzina di «caffè di bottega», un intruglio che del caffè conservava un lontano ricordo, era tutto il suo sostentamento fino all’ora di pranzo. Il tempo lasciatogli libero dalle udienze dei fedeli, specialmente dei poveri, e dagli affari di Parrocchia lo trascorreva inginocchiato dinanzi all’altare del SS. Sacramento. Il Preposito di Torre praticamente non aveva orario, perché in chiesa, in casa, in strada, c’era sempre qualcuno che aveva urgente bisogno di lui e non poteva disporre di ore comode. Mangiava poco e preferiva i legumi perché, diceva, sono figlio di un povero contadino. Nel tempo di Quaresima, gli bastavano per cena alcuni agli abbrustoliti sotto la cenere o pochi fichi secchi. Nel napoletano, il riposo del pomeriggio è quasi un rito, ma il Beato vi ricorreva solo nelle grandi occasioni, quando, per esempio, le tradizionali feste e processioni di Torre gli richiedevano una lunga fatica. Ritornato nel primo pomeriggio in parrocchia, divideva ancora le ore tra la stanza in sagrestia e l’altare del Sacramento, se non era impegnato a confessare gli uomini. Rubava le ore alla notte per 32 alimentare il suo spirito con la preghiera, la lettura spirituale o lo studio. In tutto dormiva tre o quattro ore d’estate e cinque d’inverno. OPERAIO NELLA VIGNA DI DIO Abbiamo visto come il Beato si ritenesse un operaio che non aveva il diritto di defraudare neppure di un’ora il suo Padrone. Tutti gli uomini nascono al servizio di Dio, per la sua gloria e per la propria salvezza e felicità, perciò il Parroco di Torre procurò ai suoi figliani occasioni di servire con fedeltà e gioia il Signore e per imparare a conoscere in lui il Padre celeste. La domenica era, come per ogni parroco, una giornata pienissima per Vincenzo. Per il pubblico della prima Messa, che veniva celebrata all’alba ed era affollata dai poveri che non avevano il coraggio di mostrarsi alla vista degli altri, dagli operai e dalla gente di campagna, aveva introdotto la Messa prati ca. Dal pulpito, il Preposito suggeriva pensieri, preghiere e affetti che disponevano i fedeli ad assistere con devozione e con frutto al Divin Sacrificio. A tale scopo, egli aveva raccolto in un quadernetto il materiale opportuno; più tardi, nel 1820, per l’insistenza di degnissimi sacerdoti, si rassegnò a pubblicare un volumetto in cui, oltre alla Messa pratica, si trovava un Rosario meditato per il popolo che, diceva l’Arcivescovo, «sarebbe piaciuto a Mons. de Liguori», cioè 33 a Sant’Alfonso. Celebrava la sua Messa festiva verso le nove e vi teneva una lunga omelia. Nel primo pomeriggio era l’ora della «sua privativa»: il catechismo ai poveri, concluso dalla recita degli atti cristiani, dalla benedizione col Crocifisso e dalla distribuzione dell’elemosina. Una volta che il Cardinale Ruffo Scilla sorprese il Preposito tra i suoi poveri, esclamò: «Mi sembra San Vincenzo de Paoli!». Dopo aver cantato i vespri in coro con la Collegiata, il Beato teneva ancora una lunga istruzione al popolo, prima d’impartire la benedizione eucaristica, e a tarda sera faceva un giro tra le “Cappelle serotine”, dove erano raccolti giovani e uomini. Ogni settimana, il sabato, si teneva il Rosario predicato. Il succo dei pensieri proposti da Romano al suo gregge si trova appunto nel libretto al quale abbiamo accennato sopra. Il primo lunedì del mese il Beato raccoglieva tutti i sacerdoti per una giornata di ritiro, che doveva predicare lui stesso se non voleva proteste: «Vogliamo assolutamente che voi ci facciate questa predica – dicevano i sacerdoti – diteci quel che volete, noi siamo contenti; se verrà un altro sacerdote a predicare non verremo al ritiro». Un affettuoso ricatto, al quale il Preposito cedeva sempre. Il gruppo più cospicuo dei suoi manoscritti è costituito da una trentina di fascicoli contenenti le prediche al Clero, lucidissime e piene di citazioni dalla Bibbia, dai Santi Padri, dai Concili e dai più celebri teologi e autori ascetici, in appoggio ad argomenti che miravano 34 sempre al sodo. Istituì anche ritiri particolari, specializzati come oggi si dice, per le madri di famiglia e per le “monache di casa”, come erano allora chiamate le pie donne che si consacravano al Signore e vestivano anche un abito religioso, ma non abitavano in convento. Agli uomini e ai giovani provvedevano le Congreghe. Ogni venticinque del mese, il Beato aveva caro che il popolo lo dedicasse al mistero dell’Incarnazione e della nascita di Gesù e lo preparava con prediche spiranti particolare tenerezza. Fra la predicazione quaresimale e del tempo d’avvento, le novene, gli ottavari, i tridui…, pochi giorni soltanto nell’anno erano vuoti di predicazione e i contemporanei si meravigliavano come il Beato «potesse sostenere l’enorme peso di queste continue fatiche; ed è da notarsi che non si dimostrò mai stanco in mezzo a tante occupazioni». Introdusse in parrocchia anche la Via Crucis solenne e la pratica delle Tre ore di agonia: dal mezzogiorno alle tre del venerdì santo, i fedeli affollavano Santa Croce per ascoltare dal Preposito il commento alle sette parole di Gesù in Croce. La solennità del Corpus Domini è festeggiata tuttora a Torre in modo assolutamente caratteristico, con l’e rezione nelle principali strade del paese di grandiosi “altari”, che sono elaborate architetture in muratura o dipinte su tela, con illuminazioni diverse ogni anno e per ogni strada, con artistici “tappeti” di fiori nelle chiese. Lo scopo principale di tutte le pie pratiche era per 35 Vincenzo quello di attirare i fedeli alla partecipazione al convito eucaristico con comunioni generali, alle quali egli stesso preparava con grande cura i suoi figliani. A proposito di pie associazioni, è da notare che il Beato fu il primo iscritto torrese all’Aggregazione del Santissimo Cuore di Gesù, e quando inaugurò l’associazione nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli, «nel contemplare l’immagine del Sacro Cuore e divenuto esso una fiamma, perdette i sensi e rimase in contemplazione quasi creduto morto», secondo quanto attesta il Rettore della chiesa, testimone oculare. BOCCA DI PARADISO Vincenzo fu, come fu detto degli apostoli di Gesù, un «servitore della parola» (At 1,2). «Aveva sempre la bocca aperta per annunziare la parola di Dio a tutto il popolo», affermano i testimoni della sua vita. Egli era solito ripetere: «La parola di Dio è quella prodigiosa semenza che produce buona vita, buona morte e il paradiso», e la paragonava a una fontana da lasciare sempre aperta per il beneficio delle anime. Nel ’700 ci furono predicatori ricchi di parole, ma vuoti di contenuto e tronfi, ma quello fu anche il secolo in cui la predicazione popolare ebbe i più grandi modelli come, per le provincie meridionali, il gesuita San Francesco de Gironimo, il francescano San Leonardo da Porto Maurizio e, primo fra tutti, 36 Sant’Alfonso. Al Beato importava che la predicazione fosse illuminazione dell’intelligenza: «Spiegava i misteri della dottrina cattolica con tanta chiarezza e convinzione di animo che gli si leggeva in faccia il gusto del suo spirito nel prestare ai suoi figliani questo pascolo di salute». «Sminuzzava con limpida precisione la dottrina» ed era «semplice e niente affatto affettato, sentenzioso nei concetti, zelante nel porgere […], pieno di sodi argomenti, senza apparato di parole gonfie, inutili, offensive, ma dirette solamente a istruire e a convertire i cuori […]. Si adattava alla capacità di tutti, in modo che i rozzi capivano e gli intelligenti vi trovavano del piacere». Le sue idee erano penetrate e penetranti, i suoi pensieri sofferti, i suoi sentimenti veraci e scoperti, e lo spirito soprannaturale lo animava tutto. La sua intima partecipazione agli argomenti trattati gli strappava spesso lacrime spontanee, che asciugava furtivamente, e in alcune occasioni, come nel giovedì e nel venerdì santo, il suo fervore era tale che un medico afferma d’aver visto il suo volto risplendere: «Io vedevo nel suo volto ringiovanito quasi un lucido sotto la pelle, tutto differente da quando lo avevo veduto prima, entrando in chiesa». Un suo intercalare notissimo a tutti era: «Fede viva, fede viva»; la sua predicazione mirava a far praticare la verità ai fedeli, con la partecipazione ai sacramenti. Ai sacerdoti raccomandava, in un tempo in cui nel regno delle Due Sicilie serpeggiavano gli 37 errori, di custodire la fede del popolo nella verità insegnate dalla Chiesa e di essere a tutti di esempio nell’attaccamento a essa. Quasi sempre tirava in lungo le prediche, fino al punto da dover essere avvertito di concludere («Non la finiva mai quando parlava di Dio») e si scusava dicendo di non accorgersene, trascinato dall’argomento e dall’ispirazione. In realtà, egli voleva, specialmente nei giorni festivi, trattenere il popolo in chiesa il più a lungo possibile per fargli degnamente santificare il tempo che dev’essere dedicato al Signore. A Torre, inoltre, la quasi totalità della popolazione maschile era impegnata per nove mesi all’anno nella pesca del corallo in mari lontani, ed era perciò necessario tenere sott’occhio le famiglie prive del loro capo e che avevano tutto il tempo da impiegare nei doveri cristiani. AMMINISTRATORE DELLA CASA DI DIO La parrocchia di Santa Croce, sotto il governo del Beato, diventò un modello di organizzazione per ciò che riguarda la preparazione e la partecipazione del popolo ai sacramenti, che sono i canali della grazia. Il battesimo veniva amministrato lo stesso giorno della nascita. In occasione del precetto pasquale, si teneva l’elenco accurato di tutti coloro che vi erano obbligati e ai quali veniva consegnata una scheda, che serviva poi per verificare le eventuali assenze; il Preposito faceva il giro di tutte le strade, casa per 38 casa, per invitare i ritardatari e convincere i recalcitranti. Nel ministero delle confessioni era tutto «carità e pazienza, pazienza e carità» e la sua regola era che «quando si dà l’assoluzione, l’anima assolta dovrebbe andare subito in paradiso». Con i penitenti seguiva «la via di mezzo tra il sommo rigore e la colpevole condiscendenza»; il suo confessionale era affollato più di uomini che di donne ed egli poteva dire che molti operai suoi penitenti facevano la comunione ogni domenica. Aveva una cura scrupolosa degli infermi e dei moribondi, incaricando a loro beneficio il maggior numero possibile di sacerdoti e riservando a sé gli ammalati più difficili o più ripugnanti. In un paese di marinai, accadeva spesso di avere qualcuno di essi che aveva contratto in lontani paesi pericolosissime malattie e nessuno, nemmeno la polizia, poteva trattenere il parroco dal precipitarsi presso di loro per portare a essi il soccorso consolatore della fede. Il suo medico curante diceva di lui che «era un leone per la gloria di Dio», perché nessuno riusciva a contenere il suo zelo quando si trattava di eliminare gli scandali. Era solito dire che il Nemico di Dio si contenta anche di poco se non può guadagnare del tutto un’anima, e così anche chi non può fare molto per il Signore deve fare tutto quello che può, senza desistere né scoraggiarsi. Nei casi più ribelli ricorreva anche alle maggiori autorità ecclesiastiche e al sindaco del paese, ricordandogli che, come “padre” della sua popolazione, era tenuto a intervenire anche 39 per la salute spirituale dei torresi quando, con i suoi poteri, era in grado di reprimere l’immoralità. Allo scopo di richiamare le anime sulla retta via scriveva frequentissime, paterne e pressanti lettere, alcune delle quali sono ancora conservate fra i suoi manoscritti. I divertimenti allora erano piuttosto semplici se li paragoniamo con quelli del nostro tempo, ma esaurivano egualmente tutta la voglia di sfrenarsi che si annida nell’uomo e scatenavano sentimenti elementari in un popolo fervido, perciò Romano, durante il carnevale specialmente, si batteva contro le mascherate, i teatri e i balli che, dicono i contemporanei, «nel modo con cui si eseguono a Napoli non possono essere liberi da immoralità e da peccati». Dove non riusciva con gli ammonimenti, interveniva col danaro e pagava attori e giocolieri perché abbandonassero la piazza di Torre, lasciando in pace le sue anime. 40 MOMENTI SALIENTI DEL SERVIZIO DI PARROCO UN GRANDE ELEMOSINIERE A Torre dicevano appunto così: «Il Preposito è un grande elemosiniere» e «cavaliere» nel dare; le sue elargizioni, però, erano dirette a scongiurare i peccati ai quali inclina una miseria amara e a togliere le occasioni di scandalo. I familiari dovevano sorvegliarlo con attenzione se non volevano che i suoi cassetti si vuotassero continuamente della biancheria: più d’una volta, ad esempio, dovettero cucirgli in fretta un nuovo paio di calzoni, perché quelli di Vincenzo erano passati a qualche povero. Per sfuggire ai suoi, il Preposito, da un terrazzino di casa, allungava il proprio materasso a una povera donna che ne aveva bisogno per maritare la figlia e incaricava gli amici di acquistare a Napoli capi di corredo per le fidanzate che la lunga attesa metteva in pericolo. Il fratello Giuseppe, che era il capo della famiglia Romano dopo la morte del padre, si lamenta che Vincenzo era sempre senza quattrini e non gli dava un soldo, per cui delle rendite di casa non gli passava nulla, perché doveva mantenerlo. Una volta, tra il serio e il faceto, Vincenzo disse a sua cognata: «Tu hai quel cassettino ove son riposti gli oggetti d’oro, 43 vediamo di che valore siano, vendiamo tutto e diamo ai poverelli». Una volta, racconta un testimone, «alcuni picchiarono alla sua porta e chiesero del parroco per un infermo, il Servo di Dio subito si buttò dal letto per accorrere. In mezzo alla strada, quei birbanti mariuoli gli dissero: «Preposito, dacci l’orologio». Subito lo cavò di tasca e lo consegnò, dicendo: «Voi avete fatto male nell’avermi qui tradotto con la bugia, me lo potevate chiedere in casa. Io ve lo regalo; confesserete la bugia e il furto che sono peccati, ma non v’imbarazzate per la restituzione, perché io ve l’ho donato». APOSTOLATO DEL MARE I torresi ricavavano quasi tutta la loro ricchezza dal mare e specialmente dalla pesca del corallo, per cui il re di Napoli chiamava Torre del Greco «la spugna d’oro del suo regno». Quella ricchezza, però, costava lacrime e sangue. Le barche coralline, in numero da trecento a duecento al tempo del Beato, ciascuna con circa dieci marinai a bordo, partivano dalla spiaggia di Torre tra febbraio e maggio con la benedizione solenne del parroco, per tornare circa nove mesi dopo. Durante tutto questo tempo affrontavano i pericoli del mare e le insidie dei corsari, e spesso la lunga fatica non dava i frutti sperati. Accadeva anche che gli equipaggi fossero catturati e ridotti in schiavitù, specialmente sulle 44 coste dell’Africa, dove i banchi corallini erano più promettenti. Un sacerdote accompagnava i marinai per l’assistenza religiosa, fornito dal Beato di immagini sacre e di oggetti di devozione. La preoccupazione di quei figli in balia di mari crudeli toglieva il sonno al parroco, alle cui cure restavano affidate le famiglie e i loro interessi. Il ricordo di questa sua sollecitudine pastorale rimase vivissimo anche dopo la morte del Beato: nella sua casa di via Piscopia si vedono numerosi quadretti ex-voto, sui quali sono dipinte ingenuamente barche coralline in preda a furiose tempeste, mentre in alto campeggia l’immagine del Beato Vincenzo in atto di protezione. Immagini del Beato stampate su tela avevano un posto d’onore sulle barche o sventolavano sui pennoni a tutti i venti. I pescatori e i commercianti torresi di coralli si segnalarono per la loro generosità nella raccolta dei fondi per la riedificazione della parrocchia, perciò Vincenzo ebbe estrema cura che quelle offerte fossero utilizzate col massimo scrupolo. Un negoziante torrese di coralli andò un giorno a piangere dal parroco perché era stato derubato in viaggio dalla sua merce di ingente valore. Il Preposito prima lo rimproverò «dei risentimenti che aveva fatto per tale perdita, poi decisamente gli annunciò che dopo pochi giorni avrebbe ricuperato i suoi coralli». Il pover’uomo tenne per buona l’ammonizione, ma non poté fare a meno di non prendere in considerazione la notizia che gli aveva anticipato il 45 Beato. Dopo pochi giorni, però, si presentò a Santa Croce un sacerdote forestiero, accompagnato da uno sconosciuto: era il ladro, che veniva a restituire nelle mani di Vincenzo il mal tolto. Il Preposito fece subito chiamare il negoziante torrese per ridargli il suo e per indurlo a riconciliarsi col ladro. I due divennero addirittura amici. Particolare rilievo merita un singolare e significativo intervento del Beato nel mondo dei corallari, a dimostrazione della sua sensibilità per le condizioni sociali ed economiche dei suoi figliani e della sua preoccupazione di moralizzare un settore così importante della parrocchia. L’impresa del corallo era molto complessa ed esigeva l’intervento di capitalisti, di padroni di barche e di equipaggi, i cui rapporti di interesse erano complicati e si prestavano agli abusi. Il re di Napoli, su richiesta e con l’aiuto di esperti torresi, aveva promulgato nel 1790 il famoso Codice corallino e aveva istituito una Compagnia del corallo, ma l’uno ebbe scarsa applicazione e l’altra non ebbe mai inizio, sicché mancava il rimedio efficace all’avidità degli imprenditori e dei trafficanti. Durante la Santa Visita in parrocchia del Cardinale Arcivescovo Ruffo nel 1816, il Beato Vincenzo si premurò di metterlo a parte dei problemi di giustizia e di morale posti dalla pesca e dal commercio del corallo e formulò, in un prezioso rapporto, quesiti precisi. Una commissione di canonici di Napoli esaminò attentamente il documento e fornì le risposte ai complessi interrogativi. 46 Per questa via, il Beato provvide a fare appello alla coscienza cristiana dei suoi figliani, perché i loro guadagni e la loro ricchezza non gridassero vendetta al cospetto di Dio. Imprenditori e marinai, datori e prestatori d’opera, sapevano d’ora in avanti quali erano i loro veri doveri e i loro giusti diritti. TRA GUERRE E RIVOLUZIONI La vita del Beato Romano si svolse in un periodo in cui le vicende del regno delle Due Sicilie furono piuttosto tumultuose e confuse. Nato sotto i Borboni, Vincenzo vide l’esplosione della Repubblica Partenopea dal gennaio al giugno del 1799, il cosiddetto decennio francese con i Napoleonidi sul trono di Napoli (1806-1815), il governo provvisorio del 1821 e, negli intervalli, il via vai dei Borboni da Napoli. Religione e politica, in quel tempo, erano, in buona o in mala fede, inestricabilmente intrecciati tra loro e tutti facevano appello al Vangelo per tirare il Clero alla loro parte. Il Beato non badò alle effimere fortune e fu partigiano dell’ordine e della pace; stette sempre dalla parte dei diritti della Chiesa, senza compromessi o sottintesi. Gli avvenimenti di Napoli ebbero a Torre confuse ed esagitate ripercussioni. Anche tra i parrocchiani di Vincenzo impazzì la nuova libertà e proprio a lui fu rivolto, nel ’99, l’invito a tenere il discorso ufficiale in occasione dell’innalzamento dell’albero della 47 libertà nella piazza vicinissima alla sua casa. Vincenzo si schermì con buon garbo, ma fu accusato di sentimenti antirepubblicani presso il Direttorio di Napoli. Chiamato a discolparsi, si sentì dare del bugiardo: «Peccatore sì, bugiardo no!» rispose, e la provvidenziale presenza tra i giudici di un suo antico compagno di scuola lo salvò dalle peggiori conseguenze: ne andava di mezzo la testa! Dal pulpito, Vincenzo predicava contro gli eccessi e il libertinaggio dei giacobini e perciò fu chiamato «brigante», «bestemmiatore della repubblica», reo di pregare per il rovesciamento del nuovo governo. Effettivamente, Vincenzo aveva organizzato turni di adorazione e di preghiere, ma soltanto perché la tranquillità ritornasse per tutti e si spegnesse la fiamma dell’odio e della violenza. Una volta accompagnava due condannati a morte per un tratto di strada deserto e coperto dalla lava vesuviana, quando gli infelici espressero il desiderio di un bicchiere d’acqua. Il Beato, che non aveva assolutamente modo di provvedere, li esortò ad avere pazienza e si rivolse al cielo con accorata preghiera. Quasi d’improvviso, si vide allora davanti un vecchio con una caraffa in mano: «È acqua del cielo, – gridò – acqua del paradiso», ed ebbe la consolazione di vedere i condannati affrontare con cristiana rassegnazione l’ultimo supplizio. Durante il decennio francese, il Beato fu privato della congrua parrocchiale e dovette chiedere egli stesso l’elemosina per soccorrere i suoi carissimi 48 poveri. Ebbe continui fastidi e fiere minacce dal truculento commissario di polizia francese di Torre del Greco, al quale rispondeva imperturbabile: «Io non vi temo quando si tratta della gloria di Dio. Ecco la mia vita». Ai facinorosi, che avrebbero voluto far di lui un fedele repubblicano, diceva: «La legge di Dio è una, l’anima è una […]. Per la legge di Dio non importa morire un anno prima o un anno dopo». Si dava da fare per mantenere a freno le soldatesche, che in quegli anni avevano il loro quartiere a Torre del Greco, e riuscì a salvaguardare l’onore e la pace delle famiglie. PER IL PAPA Vincenzo partecipò intimamente al dolore della Chiesa per le tristi vicende di Papa Pio VII, che Napoleone aveva ridotto in prigionia nel 1809. Quando, nel 1814, il Papa ritornò alla Sede Apostolica tra il giubilo universale, sembrò che il Preposito di Torre del Greco impazzisse di gioia. Per tre giorni indisse solennissime feste e consentì, per l’unica volta in vita sua, che la musica in chiesa fosse affidata a un’orchestra. Per il discorso di occasione, raccolse notizie da un sacerdote forestiero particolarmente informato e trascinò all’entusiasmo il popolo. Durante gli anni della prigionia del Papa, il Beato aveva steso una fitta rete di preghiere tra i sacerdoti e i fedeli: «Pietro è in carcere», diceva, e come la 49 prima comunità cristiana innalzava a Dio suppliche per l’Apostolo prigioniero di Erode Agrippa, così la sua parrocchia, con lo stesso spirito e fervore, doveva pregare per la liberazione del successore di Pietro. Il Papa fu informato della festa fatta dal Preposito di Torre da un sacerdote romano che vi aveva assistito e si era offerto di chiedere al Santo Padre la grazia più desiderata da Vincenzo. Egli domandò che gli fosse concesso di dare al suo popolo la benedizione in nome del Papa, e che il Santo Padre stesso inviasse una sua particolare benedizione perché Torre del Greco fosse liberata dal flagello delle eruzioni vesuviane. Da Roma arrivò subito la risposta favorevole con un certo numero di «devozioni» e alcune «cartelle della Madonna» da gettare nel cratere del Vesuvio, come a soffocarne l’ira. Nonostante la fatica dell’ascensione, il Beato si recò personalmente, accompagnato dal popolo, a compiere la cerimonia con grande spirito di fede. NON PIÙ FUOCO SU TORRE Dalla spaventosa conflagrazione del 1794 in poi, il Vesuvio aveva tenuto in ansia i torresi con continue eruzioni e il Beato aveva moltiplicato preghiere e processioni di penitenza, animando il popolo alla fiducia nella protezione di Dio. Fu in una di queste occasioni che, attesta il sacerdote Agnello Palomba, «annunziò all’udienza numerosissima che Iddio, 50 mercé l’intercessione della sua Madre, sarebbesi benignato nell’altissima sua clemenza di frenare le lave vesuviane, che non più sarebbero in seguito discese a distruggere Torre. Da quel giorno in poi ci sono state altre eruzioni, ma le lave di fuoco or corse a levante, or corse a ponente, non mai più sono corse verso Torre. Questa predizione la fece mentre predicava sulla pubblica piazza […] e tuttora si ricorda al popolo». Sta di fatto che Torre, pur trovandosi nel settore più esposto al Vesuvio, fino a oggi non ha più lamentato disastri come quelli del 1794, e la fiducia nella promessa del Beato resta vivissima nel suo popolo. Già nel 1822, quando si rinnovò l’incubo del fuoco vesuviano, mentre il cielo in pieno mezzogiorno era più nero della mezzanotte per una fittissima pioggia di cenere, la folla piangente intorno al parroco Romano attribuì alle sue preghiere l’improvvisa apparizione del sole. BRUCIATO IN EFFIGIE I moti carbonari del 1820-1821 furono particolarmente attivi a Torre. Il Papa Pio VII aveva condannato la setta perché, pur fingendo «una singolare osservanza e un meraviglioso impegno per la Religione Cattolica», pretendeva di «dare ad ognuno una gran licenza di formarsi la religione a capriccio». Fedelissimo all’insegnamento del Pastore della Chiesa, il 51 parroco di Torre non diede tregua col suo zelo ai carbonari locali. Quando gli prospettarono i vantaggi di iscriversi egli stesso alla setta, rispose: «Ho facoltà di ascrivervi, se volete, alla pia Unione del SS. Rosario, all’Ora da farsi al SS. Sacramento; non conosco altre adunanze di cui mi parlate». Gli minacciarono perfino di infliggergli una salutare bastonatura e lo molestavano insolentemente fino in casa sua, ma i parrocchiani provvidero a scortare in ogni passo il loro Curato. Le teste calde dovettero accontentarsi di fare con la paglia un goffo fantoccio vestito da prete, per avere la magra soddisfazione di bruciare almeno in effigie l’irriducibile prete, che aveva detto: «Io non temo né voi né centomila come voi; temo solamente quel Dio che mi deve giudicare […] . Mi trovo in questo posto e devo fare il mio dovere, e ancorché mi sacrificassero morirò contento». 52 VERSO L’INCONTRO CON CRISTO RADIOSO TRAMONTO Il 1 gennaio 1824, mentre due ore prima di giorno si levava dal letto per tenere la Messa pratica in parrocchia, Vincenzo mise un piede in fallo e si fratturò il femore sinistro. Immediatamente soccorso e steso sul letto, si preoccupava dei doveri cui mancava: «Benedetto Dio! Benedetto Dio! Iddio così vuole […]. Povera gente, mi aspetta». A chi chiedeva come gli fosse accaduta la disgrazia, rispondeva sorridendo: «Mi è avvenuto per i peccati miei […]. Ben fatto, con me questo ci vuole» e parlava di «fioretto» mandatogli da Dio. La frattura compromise definitivamente la sua salute, già minata da un’attività parrocchiale di trent’anni senza riposo. Appena gli fu possibile, cominciò a scendere in chiesa per riprendere le sue occupazioni, ma scriveva al sindaco: «La caduta mi mantiene ancora spossato e continuamente addolorato; non posso fisicamente soddisfare agli indispensabili molteplici affari parrocchiali, che da me personalmente si debbano adempire, ma sopra le forze naturali e con continuo dolore, e se alle volte eccedo un poco il male notevolmente si aggrava». Pensò seria55 mente a rinunziare alla parrocchia fin dal 1827, ma temette di opporsi alla volontà di Dio. Dopo la frattura gli si aprirono nelle gambe due dolorosissime piaghe, che lo costrinsero all’immobilità. Provvide a farsi sostituire dal suo nipote don Felice Romano, che poi fu vescovo di Ischia, e ogni sera voleva una relazione esauriente di tutto ciò che era stato fatto. Nel 1827, quando, col completamento della facciata, furono definitivamente portati a termine i lavori della ricostruzione della parrocchia distrutta nel 1794, aggiunse di suo pugno nell’iscrizione commemorativa una frase alla quale nessuno aveva pensato; volle, cioè, che fosse noto nei secoli che quella gloriosa impresa di tutto un popolo era stata possibile «per la mirabile provvidenza di Dio». Il 21 novembre 1828 il Beato ebbe un grande dolore: la cupola troppo ardita della sua chiesa crollò fragorosamente alla fine della Messa mattutina, seppellendo sotto le materie dieci morti e otto feriti. Quattro mesi prima, egli aveva confidato al suo medico, con parole misteriose, che sarebbe accaduto qualche cosa di molto grave, mentre i tecnici chiamati per verificare la stabilità della cupola avevano assicurato, qualche giorno prima del crollo, che non c’era nulla da temere. Vincenzo volle trascinarsi con pena somma a Napoli, per invocare personalmente dal re Francesco I un aiuto per la riedificazione della cupola. Il 30 novembre inviò a tutto il Clero di Torre il suo testamento spirituale: una lunghissima lettera sulla necessità della carità fraterna, concludendola: «Cari 56 carissimi fratelli, con la faccia per terra, con tutto il calore vi prego a prontamente ed interamente adempire questo sì rilevante e dolcissimo precetto, non solamente per dar gusto e il dovuto onore al nostro amantissimo Divin redentore, ed essere da Lui sempre benedetti e liberalissimamente premiati, ma anche per, confondere l’insopportabile superbia degli spiriti infernali, i quali […] per via di bugie e d’inganni seducono tanti poveri uomini, che o ignorante mente o maliziosamente, liberamente e volontariamente consentendo loro si lasciano ingannare». All’inizio della novena di Natale del 1831, don Felice Romano, tornando a casa, trovò lo zio seduto sul letto col Breviario tra le mani e tutto tremante. Il medico diagnosticò una polmonite che avrebbe avuto un rapidissimo decorso. Con tutta solennità fu portato dal Clero e dal popolo in processione il Viatico e venne amministrato al Beato, sempre lucidissimo di mente, il sacramento degli infermi. Morente, si preoccupava ancora di ricordare al nipote gli obblighi parrocchiali; ai sacerdoti che gli suggerivano pii e fervorosi pensieri rispondeva commentando i testi sacri propostigli e raccomandandosi perché gli venisse concessa la grazia preziosa di un «buon passaggio». Le annose piaghe avevano fatto di lui «un uomo di dolore», crocifisso col Cristo. La notte che precedette la morte, chiese del nipote sacerdote; alcuni presenti, per risparmiare il povero don Felice sfinito dalle veglie, suggerirono che uno di loro finges57 se di essere il nipote del Preposito, credendo che egli non era in grado di accorgersene. Ma, alla voce che gli diceva: «Zi’ prete, che cosa volete?», Vincenzo ebbe un guizzo: «Perché dite la bugia? La bugia è sempre peccato. Voi non siete mio nipote. Dite: sta riposando». Con un filo di voce raccomandò che si pregasse l’Arcivescovo di provvedere immediatamente alla nomina di un nuovo parroco per Santa Croce. Il mattino del 20 dicembre ricevette ancora i sacramenti, poi, mormorando fino all’ultimo i dolcissimi nomi di Gesù e Maria spirò alle dieci e tre quarti. L’ITINERARIO VERSO LA GLORIA Quando i rintocchi lenti e desolati della campana grande della parrocchia diedero alla popolazione l’annunzio della santa morte del parroco, tutta Torre si riversò nella casa del Beato e riuscì difficilissimo impedire che i suoi abiti venissero fatti a pezzi da chi già voleva una reliquia. Si era stabilito di trasportare in chiesa la salma per la via più breve, ma il popolo impose al corteo il giro lungo delle più solenni processioni e salutò l’ultimo passaggio del suo parroco decorando i balconi con coperte di seta e gettandogli fiori e confetti. Immediatamente il Clero e le autorità di Torre fecero istanza all’Arcivescovo di Napoli per il deposito canonico della salma benedetta, che avvenne il 22 dicembre. Il corpo era flessibile e si 58 pensò di salassarlo: il sangue fluì come vivo e fu conservato nella cassa della sepoltura. Nel necrologio per i registri della Collegiata fu scritto: «Nessun dubbio può insorgere sulla sua santa vita, mentre a relazione di santi sacerdoti e suoi confessori conservò sempre l’innocenza battesimale, e non mai alcuna parola inconsiderata gli uscì di bocca, e i suoi discorsi anche familiari sempre di Dio, nemico giurato della maldicenza e mormorazione, zelantissimo per la salute eterna delle sue pecorelle». L’elogio funebre, tenuto alla presenza della salma di Vincenzo e dinanzi a migliaia di testimoni della sua vita, già esaltava la sua «virtù rara e sublime […], tutta soda e celeste» e auspicava che il Pastore supremo della Chiesa di Dio potesse un giorno glorificare il pastore fedele di Torre del Greco. La fama di santità del Preposito di Torre, l’attribuzione a lui di grazie particolari e spesso straordinarie da parte di chi ricorreva presso Dio al suo patrocinio, le istanze rivolte all’Arcivescovo di Napoli, indussero l’autorità diocesana ad aprire il Processo Informativo sulla vita, virtù e miracoli del Servo di Dio. Consegnati a Roma tutti i documenti relativi, Papa Gregorio XVI firmò il 3 giugno 1843 il decreto di Introduzione della Causa di Beatificazione. Il 25 marzo 1895, Leone XIII dichiarò che il Venerabile Vincenzo Romano aveva nella sua vita esercitato in grado eroico le virtù teologali della fede, speranza e carità verso Dio e il prossimo, insieme con le virtù cardinali della prudenza, giustizia, temperanza e fortezza. 59 Il grande Papa, firmando il relativo decreto, augurava non lontano il giorno in cui l’Italia avrebbe avuto un sublime esempio di parroco proposto al Clero secolare. Le due guarigioni riconosciute dall’autorità apostolica del Sommo Pontefice Paolo VI come miracolose, e quindi valide per procedere con sicurezza alla Beatificazione di Vincenzo Romano, sono avvenute nel 1892 e nel 1940. Il primo caso è quello della signora Maria Carmela Restucci di Torre del Greco, sessantenne, affetta da tumore maligno al petto. Dopo essersi recata a pregare nella casa di Romano, la notte stessa si svegliò perfettamente e, a giudizio dei medici, inspiegabilmente guarita. Nel 1940, Suor Maria Carmela Cozzolino, dell’Istituto di Maria SS. Addolorata in Torre del Greco, era affetta da un carcinoma alla gola assolutamente inguaribile. Due giorni dopo il termine di una novena di preghiere fatta dalla Comunità per lei al Venerabile Vincenzo Romano, Suor Maria Carmela era in agonia e si aspettava la sua imminente morte per soffocamento. Addormentatasi profondamente quella sera, l’indomani era in perfetta salute. Il medico, richiamato d’urgenza, credette di dover firmare l’atto di morte e invece dovette onestamente dichiarare di trovarsi di fronte a un fatto che esulava completamente dal suo giudizio e a una guarigione che nessun sanitario avrebbe saputo spiegare. Domenica 17 novembre 1963, per la prima volta l’immagine di un parroco italiano del Clero secolare 60 splendeva nella «gloria» della Basilica di San Pietro. L’auspicio di Leone XIII è compiuto: il «sublime esempio» di Vincenzo Romano si impone alla venerazione e all’imitazione di tutto il Clero e il popolo cattolico, a maggior gloria di Dio. 61 DISCORSI DEI PAPI SUL BEATO VINCENZO ROMANO AL NUOVO BEATO VINCENZO ROMANO FULGIDO ESEMPIO DI SACERDOTE E PARROCO Signor Cardinale, Venerabili Fratelli, Diletti Figli, Salutiamo il nuovo Beato don Vincenzo Romano, e rallegriamoci nel Signore, che ci lascia contemplare come cittadino del cielo questo suo fedele ed esemplare seguace. Abbiamo motivi particolari non pochi per essere lieti di questa glorificazione, oltre quello principale dell’onore che è così tributato al Signore e che ridonda sulla Chiesa intera, la quale vede l’albo dei suoi figli vittoriosi arricchirsi del nome d’un nuovo eletto. Non possiamo tacere che uno di questi motivi è costituito dal fatto che questo Beato Romano era napoletano! Di Torre del Greco, a dir vero; cioè nato e vissuto nella rinomata e ridente cittadina distante da Napoli poco più d’una decina di chilometri, quanto basta per dare agli abitanti di Torre del Greco una loro distinta fisionomia morale e popolare, e perciò una ragione di legittimo vanto di ascrivere nella propria anagrafe, anzi nella propria storia, questo suo raro ed ormai celebre figlio, nato appunto, vissuto e 65 morto a Torre del Greco; ma quanto basta altresì per riconoscere alla popolosa borgata ed a questo illustre suo cittadino l’onore di appartenere all’arcidiocesi di Napoli, alla sua circoscrizione civile, alla sua cultura, alla sua educazione, alla sua vita. Dobbiamo esprimere le Nostre felicitazioni al Signor Cardinale Arcivescovo di Napoli per questa beatificazione, dobbiamo estenderle al venerabile Clero ed ai fedeli tutti dell’arcidiocesi partenopea, ed a quelli della fertile e benedetta e famosa terra della Campania, perché la virtù riconosciuta in Vincenzo Romano non è solo strettamente a lui personale, ma è rappresentativa d’una spiritualità e d’un costume, che possiamo ben dire regionali. Questa considerazione del Beato nel quadro religioso e civile, in cui si svolse la sua vita, apre alla nostra mente varie questioni, sia generali che particolari, di grande interesse, alle quali risponderanno gli storici e gli agiografi, e alle quali appena accenniamo; quale sia, ad esempio, l’influsso dell’ambiente sulla personalità d’un santo, quanto questi riceva, assorba, modifichi ed esprima della mentalità popolare che lo circonda, e come perciò egli assurga a tipo caratteristico e nobile d’un’età e d’una popolazione. Che l’ambiente abbia enorme importanza nello svolgimento della nostra vita lo dice il fatto che grande parte della educazione consiste nel porre intorno all’alunno un complesso di circostanze e di fattori, che dovrebbero favorire lo sviluppo migliore dell’alunno stesso, come pure grande parte della disciplina ascetica con66 siste nella scelta e nella disposizione di condizioni ambientali utili alla formazione e all’esercizio della vita spirituale. Nel caso nostro l’ambiente è quello offerto dalla modesta e comune maniera di vivere d’una famiglia del popolo napoletano nella seconda metà del settecento e nei primi decenni dell’ottocento, perfezionato dall’educazione ecclesiastica di quel tempo e di quella città. Don Vincenzo Romano non è uscito da quell’area locale e morale; perciò la sua figura ne è tipica e rappresentativa. E la ricerca dei coefficienti che qualificano tale figura ci fa facilmente scoprire delle visioni splendide e grandiose: Napoli è in grande forma a quell’epoca, il suo nome è europeo, e la sua vita religiosa è caratterizzata dalla presenza e dall’azione d’un’altra santa figura di primo ordine: Alfonso Maria de Liguori, che era nato quasi cinquant’anni prima di Vincenzo Romano, ma che gli fu contemporaneo per oltre trent’anni, nel periodo cioè in cui S. Alfonso irradiava i suoi insegnamenti di scrittore e di dottore, ed i suoi esempi di religioso e di Vescovo. È certo che il movimento di pensiero e di azione, a cui S. Alfonso dava origine in quegli anni e in quella regione, fece scuola anche per l’umile ed intelligente prete di Torre del Greco; e fu alta scuola, anche perché essa pure partecipe e fautrice del risveglio religioso e dell’ascetismo canonico del Clero napoletano di quegli anni. A chi obbiettasse che quegli anni e quelli del successivo periodo napoleonico non erano, sotto molti aspetti, favorevoli alla apparizione d’un feno67 meno di santità ecclesiastica – basti pensare alle correnti gianseniste, alla politica anticlericale di Bernardo Tanucci, e ai bisogni di riforma morale e religiosa, di cui lo stesso S. Alfonso ci informa –, potremmo fare un’altra osservazione, ch’è proprio la lode migliore dei Santi rispetto all’ambiente, in cui si svolge la loro formazione e la loro attività; ed è quella che vede come il Santo, e nel nostro caso il Beato Vincenzo Romano, non solo personifica e porta a livello superiore quanto di bene l’ambiente possiede, ma reagisce a quanto di male o di misero l’ambiente gli offre e impone al costume corrente; perché egli sa risuscitare energie spirituali e morali dal fondo delle singole anime e dal cuore del popolo, che altri né supponeva esistessero né sapeva cavare. L’osservazione non è soltanto fonte di ammirazione per il servo di Dio, che si è francato dai vincoli delle consuetudini invalse, credute inespugnabili, ma dev’essere anche lezione per noi, quando c’insegna che ogni ambiente, con la grazia del Signore e con la buona volontà, può essere fertile di santità: con ciò che ha di buono aiuta e conforta, con ciò che ha di avverso provoca a militante fortezza l’anima grande. E cioè ci ammonisce a non sopravalutare le condizioni d’ambiente, quasi fossero per l’anima forte, libera e cristiana indispensabili e determinanti: alla virtù, al bene, se positive, alla mediocrità o al vizio, se negative; esse sono certamente coefficienti molto importanti e spesso praticamente influenti e prevalenti sulla condotta della gente comune, non però su 68 quella dell’eroe della virtù, che le domina e le personifica, se buone, vi resiste e spesso le supera e le trasforma, se cattive. La santità cioè fiorisce, se Dio aiuta, dappertutto; ed ogni ambiente le può giovare, ogni condizione di vita le può essere propizia, quando l’incontro delle due volontà, la divina e l’umana, vi provocano la vittoriosa scintilla della carità (cf. Rom 8, 35). Ed è ciò che precisamente ammiriamo nel nuovo Beato: la sua è proprio una santità che scaturisce dal dialogo col suo ambiente: egli vi è nato, vi si è formato; egli lo assorbe, lo plasma in se stesso sul modello cristiano e sacerdotale, poi lo rieduca, lo evangelizza, lo santifica. Era infatti un prete, del paese, come ve ne erano tanti a quel tempo; un Sacerdote diocesano, ch’ebbe la fortuna di un’ottima educazione in Seminario, e che poi ritorna fra i suoi familiari e compaesani ad esercitare vari ministeri dapprima, poi l’ufficio di Parroco, per oltre trent’anni, dal 1799 al 1831, anno della sua morte. Lo schema della sua vita sembra quello normale per un Sacerdote in cura d’anime. Dov’è l’aspetto straordinario proprio della santità? Dov’è l’aspetto esemplare che meriti la nostra imitazione e la nostra venerazione? Per rispondere, dovremmo narrare la storia di questo buon curato e vedremmo quale sia il genere di perfezione proprio di chi si consacra alla vita pastorale; è il dono di sé per la salvezza degli altri. E poiché oggi tanto si parla di vita pastorale, vedremmo questo semplice prete di campagna venirci 69 incontro, dalla terra del Vesuvio, per insegnarci qualche cosa di magnificamente attuale e universale. Che Vincenzo Romano, ad esempio, abbia prefisso a se stesso la massima di «fare bene il bene», indica quale esigenza di perfezione abbia dominato la sua vita. Vi sarebbe da parlare della sua vita interiore, della sua religione personale, del suo impegno allo studio, della sua austerità privata, del suo distacco dal denaro e dalle ambizioni onorifiche non ignote talvolta anche ai buoni sacerdoti, in una parola dello sforzo ascetico che domina tutto il corso dei suoi anni e che compenetra la continua proiezione di sé al servizio degli altri ed in gran parte ne risulta; si dovrebbe fare un accenno a certi bagliori mistici, che qua e là sfuggono dal segreto d’un’anima sempre tesa alle cose di Dio e sempre pronta ad esprimerne l’esperienza con gli accenti affettivi e sentimentali, propri del temperamento meridionale e della scuola alfonsiana. Ma ciò che ora attrae la Nostra attenzione è il suo comportamento pastorale, cioè l’esercizio del suo ministero esteriore a vantaggio del prossimo; ma non potremo trascurare due previe osservazioni: che questo ministero esteriore si alimenta di vita interiore, ne trae le sue radici, le sue energie, i suoi impulsi, i suoi conforti; non è un mestiere profano, non è l’affanno di Marta, non è la dissipazione che svuota l’attivista d’una sua profondità personale; è carità che arde di dentro e che si accende nell’intimità del colloquio devoto e della meditazione pensosa e poi trabocca. E 70 perciò (seconda osservazione), questo stesso ministero esteriore, mentre attrae il sacerdote che vi ha dedicato la vita e diventa per lui un obbligo assillante, lo spaventa e lo opprime nello stesso tempo, e quasi lo respinge, per il senso opprimente di responsabilità che porta con sé e per le enormi difficoltà, che sempre rappresenta e che, appena avvertite, mettono in evidenza la sproporzione tra i doveri da compiere e le forze disponibili, immensi i primi, povere e vacillanti le seconde. È il tormento di chi si consacra alla cura d’anime. Viene opportuna la parola di S. Agostino: «Niente è in questa vita, e specialmente in questo tempo, più difficile, più faticoso, più pericoloso» (Epistola ad Valerium 21: PL 35, 88). Il Beato Vincenzo Romano provò anche lui la paura d’un ministero così impegnativo e responsabile com’è quello del Parroco; avrebbe voluto sottrarsi a tanto onere, ed ebbe a dire di sé: «Avrei voluto piuttosto la morte, che aggravarmi di questo sì pericoloso peso della cura d’anime; questa carica non si può accettare né per onore, né per interesse, o per altro fine; ma soltanto per volontà di Dio». Riscontriamo così in Lui una somiglianza con il Santo Curato d’Ars, anch’egli oppresso interiormente dalla responsabilità dei doveri pastorali, fino a tentare di fuggire dalla sua parrocchia. Abbiamo nominato S. Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars: sarebbe interessante notare molti altri aspetti di somiglianza fra quel santo parroco e questo, legati entrambi a eguali doveri, e entrambi 71 straordinariamente abili ad esercitarvi, sia pure in forme e misure differenti, virtù analoghe e a ricavarne meriti somiglianti. Troveremo così anche in Vincenzo Romano una grande profusione di parola di Dio; da quella sistematica, e non mai abbastanza raccomandabile, della catechesi, vera base della vita religiosa e profonda esigenza del tempo nostro, a quella esortativa e edificante (si dice che fosse perfino prolissa la predicazione del nostro Beato; ora forse anche la sua non lo sarebbe più!). Troveremo la premura antiveggente di far partecipare i fedeli alla celebrazione della S. Messa; un suo libretto dal titolo «la Messa pratica» ci dice come egli avesse l’intuito di quella necessità che l’assemblea dei fedeli preghi bene, preghi insieme e preghi coordinando pensieri e voci a quelli del Sacerdote celebrante, necessità la quale oggi è riconosciuta dalla dottrina della Chiesa e promossa dai movimenti liturgici. Troveremo una carità, che si espande fuori del puro esercizio del culto, e si interessa e si affatica per tutti i bisogni umani privi d’altro soccorso: il Parroco a nulla è estraneo, tutti conosce, tutti conforta, tutti ammonisce, tutti benefica. Anzi la sua carità da individuale si fa sociale, da spirituale anche professionale ed economica (per ritornare subito morale e religiosa), se ciò è richiesto da quel bene delle anime, che per un Parroco è «suprema lex». Il Beato Vincenzo ci dà, a questo riguardo, un bellissimo esempio, quasi precursore della carità sociale della Chiesa 72 ai nostri giorni, organizzando ed assistendo i pescatori di corallo, che a Torre del Greco erano e sono tuttora numerosi, laboriosi e bisognosi. Così che egli merita che noi lo consideriamo, come si suol dire, «d’attualità», come esempio di virtù di cui il nostro tempo ha manifesto bisogno. E lo avranno caro, come Protettore e come modello, i fedeli tutti, ma in modo particolare i Sacerdoti, quelli diocesani specialmente, per i quali l’obbligo della perfezione cristiana non è sostenuto dalla professione religiosa, ma è reclamato sia dalla loro dignità, sia dal loro ministero, e, quando questo sia esercitato con pienezza di carità, mediante il ministero stesso quella perfezione diventa possibile e grande. Ai Parroci soprattutto siamo felici di additare un loro Fratello in cielo; ad essi va, anche in questa occasione, il Nostro particolare ed affettuoso pensiero: possa il Beato mostrare loro la grandezza della loro missione; e pensando in quali difficili e modeste condizioni tanto spesso si svolge il loro ministero, ricorderemo loro che «non sono gli orizzonti geografici ad allargare quelli dello spirito, ma la vastità degli orizzonti dell’anima a dare anche ad un luogo minuscolo le dimensioni dell’universo» (Garofalo, p. 36). E voglia questo nuovo Beato loro mostrare che e come un Sacerdote in cura d’anime dev’essere santo; voglia lui sostenere i loro disagi, compensare le loro privazioni, fortificare il loro spirito di sacrificio e di disinteresse, consolare le loro pene, premiare le loro 73 fatiche! Vada a loro con i Nostri voti la Nostra Benedizione. Perché, Fratelli e Figli, è di Sacerdoti zelanti, è di Parroci santi che soprattutto abbisogna oggi la Chiesa: essa ne celebra uno nuovo in Paradiso, possa essa annoverarne una moltitudine nuova anche nel mondo presente! 17 novembre 1963 Paolo VI 74 Discorso di S.S. Giovanni Paolo II Carissimi sacerdoti e fedeli di Torre del Greco! Ringrazio voi e il vostro Arcivescovo, il Signor Cardinale Michele Giordano, e ringrazio il Signor Sindaco per il saluto rivoltomi. Un pensiero riconoscente a Voi tutti presenti, per la festosa e calorosa accoglienza, tipica delle popolazioni di questa terra felice, le cui straordinarie bellezze naturali sembrano sottolineare la comune gioia di questo incontro. Il più illustre figlio di Torre del Greco è senza dubbio il Beato Vincenzo Romano. Egli vi ha lasciato un’eredità spirituale preziosa con l’esempio di una santa vita, del fervore sacerdotale e della totale dedizione che caratterizzano gli oltre trent’anni del suo ministero pastorale. Erano, quelli, tempi difficili e calamitosi per le vicende storiche e per la disastrosa attività del vicino Vesuvio che nel 1794 devastò la vostra città, seminando terrori e lutti. Con un ritmo di attività quasi incredibile, Egli fu maestro di evangelica carità ai sacerdoti e provvido padre ai fedeli, dei quali condivise sofferenze e preoccupazioni. Fu anche un precursore della carità sociale, così importante per la Chiesa d’oggi, con l’assistenza spirituale e la tutela dei diritti dei pescatori di corallo, 75 per i quali era celebre Torre del Greco. Durante i lunghi periodi di assenza degli uomini su mari lontani, il Beato riservava particolari cure alle loro famiglie. Ma Vincenzo Romano lavorò intensamente e soprattutto per la formazione delle coscienze e per l’evangelizzazione. Alla radice dei problemi personali e sociali di solito si riscontrano cause legate all’infermità delle coscienze e all’aridità dei cuori. Vincenzo Romano lo sapeva ed era perciò convinto che il primo impegno di ogni buon pastore deve essere la formazione dottrinale e morale dei propri fedeli. Egli pertanto si dedicò con sollecitudine e costanza alla catechesi parrocchiale ed al ministero delle confessioni, vedendo in ciò un’occasione privilegiata di formazione delle coscienze. Alla gente del popolo propose il Vangelo nella sua semplicità ed autenticità, divenendo egli stesso testimone credibile ed araldo della parola di Cristo con una vita povera, umile e, soprattutto, integralmente dedita al ministero. L’impegno per l’evangelizzazione fu nella sua vita la sola vera passione e per questo, come l’Apostolo Paolo, Egli si comportò in modo da essere amorevole in mezzo a Voi come una madre che nutre con cura le proprie creature (cf. Ts 2,7). Dimostrò anzi di essere disposto a dare ai torresi non solo il Vangelo, ma la sua stessa vita, come a figli diventati a lui singolarmente cari (cf. ivi 2,8). Con tale animo egli vi annunziò il Vangelo di Dio, sforzandosi di essere catecheta in tutti i modi ed in ogni circostanza. 76 Come ben sapete, egli usò il metodo della “sciabica”; catechizzava i fedeli ovunque si trovassero, visitandoli nelle case o accompagnandoli lungo le strade. Con intuizione che anticipava i tempi, il vostro Patrono si preoccupò così del valore della Messa festiva ed insegnò ai fedeli come si assiste ad essa, non da estranei o muti spettatori, ma comprendendo bene e partecipando consapevolmente all’azione sacra grazie alla luce ricevuta nell’ascolto della parola di Dio (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 47). La voce dello Spirito che guidò il santo Parroco torrese nel suo ministero è la stessa voce che oggi fa appello a questa Chiesa particolare per chiedere a tutti voi di prodigarvi per la nuova evangelizzazione, attendendo alla riforma delle coscienze nella luce della parola di Dio e concorrendo a rinnovare i costumi morali sia nella vita privata che in quella pubblica. Lo Spirito Vi invita ad attuare la carità che si espande a partire dalla fede, ad aprire senza timore gli occhi su quei bisogni umani per i quali spesso mancano la comprensione ed il soccorso della collettività. Vi invita ad un impegno solidale per il bene dell’uomo, di ogni uomo e di tutto l’uomo, al fine di raggiungere la sperata promozione sociale, nel contesto di un autentico progresso umano. Lo Spirito richiede a Voi una carità che sappia difendere coraggiosamente la vita, liberando ogni uomo dalla schiavitù della violenza e delle intimidazioni provenienti da poteri illegali. Lo Spirito vi invita ad operare tutti con unità d’intenti con generosa 77 dedizione, fidando nella forza della verità e della giustizia. La comunità di Torre del Greco non lascerà cadere l’esempio e la memoria del suo umile e santo parroco di un tempo. Vi invito tutti a riprendere ancora oggi il suo programma pastorale, per inserirlo nelle moderne tensioni sociali con il suo stesso fervore e la sua medesima passione. Questo è il ricordo che voglio lasciare a voi, sacerdoti, religiosi e laici impegnati nella catechesi e nel servizio ecclesiale, mentre imparto a tutti la mia benedizione, con uno speciale pensiero per i giovani, le famiglie, i sofferenti. 11 novembre 1990 Giovanni Paolo II 78 INDICE Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 3 Gli anni della formazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 5 I primi passi nel Sacerdozio. . . . . . . . . . . . . . . . . » 13 Pastore del gregge a lui affidato. . . . . . . . . . . . . . » 27 Momenti salienti del servizio di parroco . . . . . . . » 41 Verso l’incontro con Cristo . . . . . . . . . . . . . . . . . » 53 Discorsi dei Papi sul Beato Vincenzo Romano. . . » 63 79 Finito di stampare nel mese di novembre 2003 dall’A.C.M. SpA Torre del Greco Foto: ALIBERTI - POMPOSO 2. Il Campanile 4. Interno della Cupola 5. Supportico Piscopia, che il Beato percorreva per recarsi in S. Croce 6. Stanza del Beato 7. Dipinto dell’Ecce Homo nella casa del Beato 8. Reliquia del Beato (avambraccio destro)