Per non dimenticare le vittime di terrorismo e di strage
- In memoria di tutti i caduti delle vittime di terrorismo e di strage a di tale matrice interno e
internazionale.
- Ai familiari delle vittime, che hanno dolorosamente vissuto per tanti decenni senza avere voce e
condannati in uno stato di solitudine, di sconquasso psicologico e di sofferenza umana quotidiana.
- ai feriti superstiti, che recano sulle loro carni i segni indelebili della violenza patita e che sono i
testimoni viventi della storia degli anni bui del terrorismo e dello stragismo.
- alla società civile milanese, perché tenga vivo il “dovere della memoria condivisa” dei caduti
nella triste stagione della strategia della tensione e degli opposti estremismi.
- ai giovani, perché siano educati alla legalità, al ripudio della violenza come metodo di lotta
politica, al rispetto e alla salvaguardia della vita umana.
- A quanti credono negli ideali, nella giustizia, nel dovere, purché consapevoli che per un ideale
non si ammazzano altri esseri umani diventando carnefici, ma ci si fa ammazzare per testimoniare
il proprio con coerenza di vita.
- Ai tanti Caino, che pur sono fratelli di sangue degli Abele, perché i loro figli e le loro figlie
riscoprano la fraternità e l’amore reciproco e non si nutrano dell’orgoglio ideologico di padri
assassini o del rancore e dell’ odio di figli di vittime innocenti.
- Alle istituzioni del nostro Stato democratico, affinché l’impegno a garantire verità e giustizia, si
traduca in atti concreti di solidarietà e di vicinanza con le vittime, perché il sangue della storia non
asciughi presto.
La rappresaglia delle brigate rosse della “Walter Alasia” contro la sezione periferica della DC, in
via Mottarone il 1° Aprile 1980 a Milano(1).
Dal volantino di rivendicazione delle brigate rosse si legge:
“ Il 1 aprile 1980, un nucleo armato delle brigate rosse ha attaccato e perquisito il covo democristiano di via
Mottarone. I responsabili della sede, insieme al loro illustre ospite, sono stati puniti e per un bel po’ non
potranno svolgere la loro losca attività. Ecco chi sono: Eros Robbiani via Sonnino 12, segretario di sezione e
membro del direttivo cittadino della dc, esperto di urbanistica (leggi speculazione edilizia); Antonio Iosa via
dei Frassini 39, presidente del Circolo culturale Carlo Perini; Emilio Del Buono via Monteceneri 58, direttore
del Circolo Prealpi; Nadir Tedeschi via Reni 11, Trezzano sul Naviglio, membro del Consiglio Nazionale
della Democrazia Cristiana ed esperto del mondo del lavoro.
Parlando della DC scrive… E’ questo immenso potere economico, politico, militare che fa di questo partito,
un vero partito di Stato, ch’è riuscito a coinvolgere intorno agli interessi del profitto e della rapina, altre forze
politiche. E’ questo potere che lo rende, da 30 anni, inamovibile dal governo degli interessi della borghesia.
…Per questo la distruzione di questa società vuol dire liquidare il Partito della DC, colpendolo nelle sue
strutture al centro e alla periferia . Le mani avide di questi loschi individui arrivano ovunque, fino nei
quartieri periferici ove regolano e determinano le condizioni di vita proletaria, rapinando e speculando su
tutti i bisogni vitali dei lavoratori: dalla casa alla salute, dai prezzi al mercato del lavoro. Inoltre, negli ultimi
anni stanno attuando una capillare infiltrazione nella vita dei quartieri e una conquista di maggiori consensi
alla loro politica criminale attraverso nuove leve di galoppini, che animano i cosiddetti circoli culturali come
“il Perini” e innumerevoli iniziative di propaganda controrivoluzionaria come i dibattiti sulla “delinquenza
minorile e la sua prevenzione” (leggi carcere), sui problemi della scuola (leggi selezione) ecc.
Non bastano più chiese e oratori, ma questi bastardi s’intrufolano nelle scuole, nei Consigli di Zona, nei
luoghi di lavoro e anche a Quarto Oggiaro operano i vermi democristiani (e Iosa è uno che inganna i proletari
e sottoproletari di Milano, facendo cultura per il sistema di potere dominante).
… e il volantino così conclude:
- attaccare e distruggere i covi della DC nei quartieri proletari!
- colpire i boss mafiosi democristiani ed espellerli dai nostri quartieri!
- colpire in tutti i modi e in tutti i luoghi i poliziotti e i carabinieri in borghese e in divisa, impedendogli di
controllare e annientare le nostre lotte!
- disarmare le forze militari di occupazione dei quartieri proletari e armarli con i loro mitra
controrivoluzionari!
- costruire i primi nuclei clandestini di resistenza!
- Costruire il partito Comunista combattente!
Compagni i carabinieri, i mercenari di Kossiga, hanno assassinato a Genova quattro compagni delle brigate
rosse: Roberto, Pasquale, Antonio operai del porto e la compagna Cecilia. La vendetta che chiediamo per
questi compagni non è quella di rispondere colpo su colpo, ma quella più tremenda di raccogliere il
loro fucile e prendere il loro posto nella lotta, certi come siamo che, alla fine, nulla rimarrà
impunito. Onore a tutti i compagni caduti combattendo per il comunismo!”
(1) Walter Alasia: figlio di operai di Sesto San Giovanni, impiegato delle Poste Italiane, aderì assai giovane a gruppi
della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua, passando poi a far parte di circoli più o meno scopertamente
fiancheggiatori delle Brigate Rosse, organizzazione terroristica nella quale, in seguito, entrò definitivamente col nome
di battaglia di "Compagno Luca".
Alle prime ore dell'alba del 15 dicembre 1976 reagì a un tentativo di arresto da parte delle forze dell'ordine,
barricandosi in casa e sparando sui poliziotti, uccidendo per prima Vittorio Padovani vice-questore di Sesto San
Giovanni. Sergio Bazzega, maresciallo dell’antiterrorismo, armato di mitra, penetrò in casa per arrestarlo, ma si
trovò di fronte nella traiettoria del suo mitra il padre, la madre e il fratello a protezione di Walter. Bazzega, per non
colpire i membri della famiglia, depositò il mitra per terra e si diresse ad arrestare il terrorista. Di ciò ne approfittò il
giovane armato, che freddò il maresciallo Bazzega. Gli agenti superstiti riuscirono a uccidere Walter Alasia, nel
momento in cui fece un tentativo di fuga dalla finestra di casa. Al nome di Alasia fu intitolata la colonna milanese delle
brigate rosse, che comprendeva un centinaio di terroristi. La colonna ebbe un ruolo a tratti distinto ed autonomo da
quello dell'organizzazione centrale. Il capo colonna Mario Moretti, con l’ex brigatista Franco Bonisoli, partecipò al
Capitolo 3 - Il trasporto al Pronto Soccorso e il ricovero al “Fatebenefratelli”
Al pronto soccorso il medico di guardia, dopo una breve attesa, per prima cosa mi fece la radiografia agli
arti inferiori. Risultò evidente che non avevo ritenzione di pallottole. Ed ero un buon segno. Vidi però che il
medico scuoteva la testa, osservando le lastre, e indicava con l’indice della mano lo spappolamento del nervo
sciatico all’arto sinistro, ove si notava anche la frattura del pèrone all’altezza del capitello.
Alla gamba destra risultavano fratture multiple dell’osso tibiale. Da un esame più accurato, il medico notò
che alla gamba sinistra, si manifestava un deficit motorio sulla fascia sinistra della coscia, con anestesia del
piede ed edema al calcagno e conseguente sospetto di lesione arteriosa.
Non risultava ferito il ginocchio, né risultavano recisioni di tendini.
Fui medicato sommariamente alla presenza di Toni, mio cognato, il primo a raggiungermi, che ritirò le
scarpe e gli indumenti intrisi di sangue da portare a casa. Gli chiesi da chi fosse stato avvertito del mio
ferimento. Mi rispose ch’era stata mia moglie a telefonargli tutta angosciata e preoccupata, dopo avere
appreso la notizia dagli amici di sezione, che si erano premurati di metterla al corrente dell’attentato.
Raffaella, mia moglie, era infatti a letto quando fu svegliata dal telefono, mentre Davide e Christian
dormivano nella loro cameretta. Avrebbe voluto accorrere subito per rendersi conto di quello che era
successo in sezione e di come erano le mie condizioni di salute, ma non ebbe il coraggio di svegliare i
bambini o di lasciarli da soli per non allarmarli e spaventarli.
Seppi il giorno dopo che, per tutta la notte, il telefono di casa squillò continuamente: erano parenti ed amici
che volevano sapere notizie più precise su quanto mi era accaduto. Mia moglie, il mattino seguente, non
disse subito la verità ai bambini; li ingannò con una “pia bugia”, informandoli ch’era stato ferito lo zio
Michele e che il papà era andato a trovarlo in ospedale e che non era rincasato di notte.
Quel due aprile Davide e Christian, che frequentavano rispettivamente la IV e la I classe elementare alla
scuola “Rinnovata Pizzigoni”, non mancarono al loro impegno scolastico quotidiano.
Davide, il maggiore di 10 anni, fu subito interpellato da un inserviente sul mio stato di salute
- “Davide come sta tuo papà, ferito ieri sera?”
- “mio papà sta bene, mamma mi ha detto che è stato ferito mio zio Michele!”
Anche l’insegnante di classe venne a conoscenza che Davide era all’oscuro della tragedia, ma non seppe
resistere dal riferirgli la triste verità.
Davide allora scoppiò a piangere. Tutti gli altri alunni della classe si associarono al suo pianto, anche perché
mi conoscevano molto bene: ero stato nominato dai loro genitori rappresentante di classe.
Nel pomeriggio rividi mia moglie all’ospedale accompagnata dai due bambini. Li riabbracciai con tanto
affetto e commozione. Entrambi i figli mi consegnarono un biglietto con gli auguri di una pronta guarigione,
firmato dagli insegnanti delle due rispettive classi. In particolare gli alunni della IV/A m’inviarono un
meraviglioso disegno augurale, raffigurante un pulcino con le uova colorate in mezza all’erba.
Eravamo nella settimana santa, che precedeva la Pasqua.
Dall’incontro con Davide e Christian ebbi netta la sensazione che, per la loro età, non avessero compreso la
tragedia familiare. Solo negli anni successivi, crescendo e vedendomi sempre alle prese coi ricoveri
ospedalieri, le medicazioni, delle piaghe e i lamenti provocati dal dolore compresero i risvolti del dramma
familiare, soffrendone psicologicamente e tuttora segnati, sul piano psichico nella loro esperienza di vita.
Dopo la medicazione d’urgenza al pronto soccorso, fui inviato al reparto ortopedico - traumatologico.
Seppi subito da un giornalista dell’ANSA, che l’azione era stata rivendicata dalle b.r. colonna “Walter
Alasia” con la solita telefonata anonima. Nel reparto non c’erano posti liberi, sicché fui adagiato nella sala
gessi per trascorrervi la notte. Dopo le 23 iniziarono le prime visite di parenti ed amici.
Ricordo la visita di una delegazione di democristiani della sezione “Enrico Mattei di Quarto Oggiaro” e poi
quella guidata dal Sindaco di Milano Carlo Tognoli.
Venne a farmi visita anche il generale dell’Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che mi portò i
saluti dell’allora Ministro dell’Interno on. Virginio Rognoni, che mi conosceva , perché era stato più volte
ospite ai dibattiti del mio circolo culturale C. Perini.
Verso mezzanotte mi raggiunsero il giornalista Carlo Lovati e il fotoreporter Ennio Barbera del quotidiano
pomeridiano“La Notte” per un’intervista, che apparve nell’edizione del 2 aprile.
Trascorsi una nottata insonne, agitatissimo per gli atroci dolori che neanche i potenti sedativi riuscivano a
calmare. Avevo la testa imbambolata e frastornata e , per tutta la notte mi sentii confuso, come se fossi in
uno stato allucinatorio e come se viaggiassi catapultato nello spazio, intento ad elaborare calcoli astronomici.
Arrivò finalmente il mattino. Il 2 aprile fu, purtroppo, una giornata “incasinata”, per via di uno sciopero
nazionale degli ospedalieri. Dopo un rapido consulto medico, mi fu ingessata la gamba destra, mentre quella
sinistra venne rimedicata ed adagiata in una valva, poiché la lesione del nervo sciatico non consentiva
l’ingessatura. Nella mattina mi interrogarono due agenti della Digos in borghese, che mi fecero sottoscrivere
una deposizione su tutto ciò che ricordavo sul tragico attentato.
Si presentò, a questo punto, il problema del trasferimento in altro ospedale, che fosse dotato di un reparto di
microchirurgia neurologica per un intervento di alta specializzazione. Milano era, all’epoca, sprovvista di
tale struttura sanitaria. Mi si prospettarono allora tre soluzioni: Legnano, Brescia, Modena gli unici centri
ospedalieri dotati di reparti di microchirurgia neurologica.
Un primo approccio telefonico con l’ospedale di Legnano diede esito negativo: non c’erano posti - letto e
avrei dovuto attendere una quarantina di giorni. Benché avessi perduto molto sangue, non ricevetti alcuna
trasfusione. Le analisi del sangue furono effettuate solo il 3 aprile.
Per i medici del Fatebenefratelli, una volta impacchettato dal gesso, avrei potuto tranquillamente tornarmene
a casa ad attendere il nuovo ricovero in centro specializzato.
Protestai energicamente sull’assurdità della proposta e insistei a chiedere che fosse l’Ospedale stesso a
trasferirmi d’urgenza ad altra struttura sanitaria più idonea.
Nel frattempo mi fu assegnata un letto “volante” che fu aggiunto, in via provvisoria, in una stanzetta di
quattro posti.
Antonio Iosa qualche ora dopo il ricovero all’ospedale “Fatebenefratelli” - foto Ennio Barbera de “La Notte”.
sequestro di Aldo Moro in via Fani e Moretti fu uno degli autori della condanna a morte dello statista democristiano.
Capitolo 4
La solidarietà umana della società civile e dei partiti democratici
Dal due al quattro aprile ricevetti numerose visite non solo di uomini politici, ma anche di esponenti del
mondo intellettuale, operatori sociali e culturali dei quartieri popolari di Milano e di semplici cittadini, che
vollero testimoniare lo sgomento, la solidarietà e la condanna per la violenza terroristica praticata contro un
cittadino, che si batteva per i diritti del popolo dei quartieri . Particolarmente significativo l’incontro con
mons. Giacomo Biffi, allora vescovo ausiliare per la cultura di Milano (poi diventato cardinale di Bologna).
Il telegramma più inatteso fu quello della scrittrice Camilla Cederna, una grande estimatrice ed amica del
Circolo culturale Carlo Perini, perché aveva partecipato direttamente ad alcuni dibattiti, sin dai tempi della
strage di Piazza Fontana, sulla “ morte di Pinelli e sul caso Valpreda”(il primo, l’anarchico innocente che
morì in circostanze misteriose alla Questura di Milano e il secondo, il presunto mostro della strage di Piazza
Fontana schiaffato sulle prime pagine dei giornali). La nota scrittrice,, dopo l’assalto fascista al Circolo
culturale Carlo Perini del 21 giugno 1971, era diventata una ammiratrice del mio Circolo che, in quel periodo
storico, era considerato un luogo singolare e uno spazio sociale del dialogo interculturale, quindi, un grande
punto di riferimento del confronto civile e democratico della città. Anche la galassia dei gruppuscoli
giovanili della sinistra extraparlamentare del Movimento del ‘68 era attivamente presente a questo e ad altri
ripetuti incontri sui molteplici argomenti di dibattito politico e culturale, soprattutto, fra cattolici e marxisti.
Il Circolo Perini svolgeva all’epoca, nella città di Milano, un ruolo importante di promozione umana e
sociale e costituiva un luogo di riferimento della vita comunitaria per mettere insieme idee, speranze, lotte
sociali e frustrazioni, privilegiando il dialogo e il confronto fra tutte le culture della sinistra storica, del
cattolicesimo progressista e del liberalismo democratico e laico.
La scrittrice così si esprimeva: “dolorosamente colpita, affettuosamente vicina, con molti auguri”.
L’incontro più sorprendente e commovente l’ho avuto con una delegazione di rappresentanti di operai del
Consiglio di fabbrica dell’Alfa Romeo di Arese, ove i dirigenti sindacali e i lavoratori erano stati oggetto di
13 dicembre 1972 – Gaetano Pecorella, Camilla Cederna (scrittrice), Giampiero Boria, Arialdo Banfi e Luca
Boneschi, avvocati sono stati i relatori al dibattito organizzato dal Circolo culturale Carlo Perini sul tema “La strage
di Milano - Dal caso Valpreda alle piste nere”.
2 aprile 1980 - La manifestazione unitaria dei lavoratori milanesi in piazza Prealpi in segno di solidarietà per i feriti
Nadir Tedeschi , Eros Robbiani, Antonio Iosa ed Emilio De Buono - foto G. De Bellis de “L’Unità”.
Oggi la ex sede della sezione DC di via Mottarone è stata trasformata in un ristorante.
minacce terroristiche, per la presenza di un nucleo consistente di autonomi, simpatizzante e inneggiante ai
militanti brigatisti del partito armato.
Non dimentico i giornalisti che accorsero al mio capezzale per notizie e particolari su quei terribili minuti
dell’attentato: tutti, increduli, per il ferimento di un operatore culturale della periferia, che lottava assieme al
popolo dei quartieri di Milano per il decentramento del dibattito culturale, aperto anche ai facinorosi della
sinistra extraparlamentare e contestativa e a quei giovani che avevano scelto l’eversione armata e vivevano in
libertà e che, agitando il libretto rosso di “Mao”, urlavano con “La DC non si dialoga, ma si spara!”.
Fitte furono, infine, le visite dei numerosi familiari e parenti, quelle degli amici, degli estimatori del Circolo
culturale Carlo Perini, dei militanti di base di tutti i partiti politici, soprattutto DC, PCI, PSI e di esponenti
dei comitati di quartiere, dei circoli culturali e della società civile milanese. I dolori alle gambe mi
tormentavano. Unico sollievo erano le tante visite che ricevevo, le quali, pur affaticandomi, mi consentivano
di parlare della tremenda esperienza. Era, per me, uno sfogo parlarne per superare la depressione psichica,
per reagire ai lancinanti dolori, per sconfiggere quel senso di paura che mi era rimasta.
Non mi sentivo un eroe e tanto meno avevo chiesto di esserlo, ma mi ritenevo una persona sfortunata
costretta a vivere, suo malgrado, una grande tragedia personale e familiare, anche se qualcuno si era
azzardato a definirmi un “eroe della democrazia”. Ma quale eroe, neanche per caso, potevo essere io se
colpito a tradimento e, per lo spavento, mi venne uno shock diabetico. “Sono un fifone, non un eroe!”
Vorrei ricordare un episodio molto bello di quel secondo giorno di ricovero del 2 aprile. Tra gli ammalati
ricoverati nel reparto di ortopedia vi era un giovane pakistano vittima di un atto d’aggressione subito alla
Stazione centrale di Milano con la tecnica della “Bibita al sonnifero”. Lo sventurato giovane non aveva
denaro che gli consentisse di ritornare al suo paese d’origine e di comprarsi le stampelle.
Noi ammalati, in segno di solidarietà, effettuammo una colletta per raccogliere la somma necessaria e per
aiutare concretamente un extracomunitario ammalato, povero e sfortunato che meritava solo solidarietà e non
discriminazione razzista (altro che norme sui clandestini e medici-spia della cultura leghista!).
Avevo anche il tempo per riflettere e meditare sulla violenza, che non paga nessuno, nemmeno coloro che la
predicano e ne fanno un’arma di lotta per fini ideologici e politici. Continuo a rammaricarmi, che tanti
giovani frequentatori dei dibattiti al Circolo culturale Carlo Perini, avessero scelto l’antagonismo armato e
non il dialogo civile e il confronto democratico. Come operatore culturale e promotore del dialogo mi sentivo
sconfitto e fallito. Inizia da quel lontano 1 aprile, il mio calvario di vittima e rifletto su quell’insulto fattomi
dai brigatisti di essere “Il servo di Kossiga”. Proprio io, che nulla avevo da spartire con gli intrighi politici e
piduisti del picconatore e gladiatore Kossiga, dovevo essere accusato di esserne il servo?
1 aprile 1980 - ’ingresso della sezione DC pochi minuti dopo la sparatoria in via Mottarone Mi. - (foto G. De Bellis).
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