www.rivistamusica.com 210 Zecchini Editore RIVISTA DI CULTURA MUSICALE E DISCOGRAFICA - OTTOBRE 2009 90210 9 770392 554009 PUBBLICAZIONE MENSILE - ISSN 03925544 JAN VOGLER Incontro con il grande violoncellista, fantasioso animatore della vita musicale di Dresda L’ARMIDA DI HAYDN La maga di Tasso rivive in disco nelle voci della Janowitz, della Norman e della Bartoli SERAFINO ROSSI Parla il fondatore della Tactus, casa discografica votata alla più nobile italianità felix mendelssohn a duecento anni dalla nascita 6.90 Frs.15.- Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE) &sommario musica210 - ottobre 2009 COMPOSITORI Il giovane Mendelssohn tra un ridente paesaggio e un luogo maledetto 30 di Piero Rattalino RUBRICHE 7 8 10 12 14 16 FRANZ JOSEPH HAYDN Gli approdi discografici dell’altra Armida 37 24 28 VIOLONCELLISTI 47 Intervista a Jan Vogler. Luoghi e tempi 43 di un musicista contemporaneo 48 di Luca Segalla 85 86 di Marco Leo 96 Editoriale Indice delle recensioni Negozi che fanno cultura Recite, Recital, Concerti Letture musicali Attualità 16 Intervista a Serafino Rossi 18 Intervista a Frank Feitler 20 Intervista a Alexandre Dratwicki 22 La polemica di Costantino Mastroprimiano 22 Ci hanno lasciato Vetrina CD I retroscena di Enrico Stinchelli I dischi 5 stelle del mese Le recensioni di MUSICA Etichette e distribuzione Dalla platea Le recensioni di concerti e spettacoli a Ascona, Bergamo, Helsinki, Jesi, Merano, Montecarotto, Pafos, Pesaro, Rimini, Salisburgo, Stresa, Trisobbio, Verbier, Vevey, Vienna Abbonamenti Hanno collaborato a questo numero: Emanuele Amoroso, Michael Aspinall, Luisa Bassetto, Marco Bellano, Carlo Bellora, Giancarlo Bernacchi, Paolo Bertoli, Marco Bizzarini, Claudio Bolzan, Michele Bosio, Vera Brentegani, Roberto Brusotti, Alberto Cantù, Riccardo Cassani, Nicola Cattò, Benedetto Ciranna, Luciano Clemeno, Roberto Codazzi, Gianni Gori, Stephen Hastings, Marco Leo, Silvia Limongelli, Mario Marcarini, Gianluigi Mattietti, Alberto Mattioli, Antonello Mattone, Maurizio Modugno, Gregorio Nardi, Aldo Nicastro, Andrea Ottonello, Stefano Pagliantini, Giuseppe Pennisi, Marzio Pieri, Carlo Porro, Giorgio Rampone, Piero Rattalino, Riccardo Risaliti, Luca Rossetto Casel, Giuseppe Rossi, Luca Segalla, Franco Soda, Enrico Stinchelli Alessandro Taverna, Lorenzo Tozzi, Massimo Viazzo, Giovanni Vitali, Paolo Zecchini, Roberto Zecchini, Annely Zeni direzione, amministrazione, abbonamenti: MUSICA - Via Tonale, 60 - 21100 Varese Tel. 0332 331041 - Fax 0332 331013 www.rivistamusica.com e-mail: [email protected] Rivista di cultura musicale e discografica fondata nel 1977 da Umberto Masini ......................................................... pubblicità: Nicola Cattò Via Tonale, 60 - 21100 Varese Tel. 0332 331041 - Fax 0332 331013 e-mail: [email protected] ......................................................... distribuzione per l’Italia: Messaggerie Periodici SpA - Aderente ADN Via G. 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Varese n. 774 del 19 gennaio 2005 spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB (Varese) ......................................................... rivista associata all’USPI ......................................................... direttore responsabile: Stephen Hastings ......................................................... segreteria e amministrazione: Sonia Severgnini ......................................................... redazione: MUSICA - Via Tonale, 60 - 21100 Varese Tel. 0332 331041 - Fax 0332 331013 e-mail: [email protected] sito web: www.rivistamusica.com ......................................................... editore: Zecchini Editore srl Via Tonale, 60 - 21100 Varese Tel. 0332 331041 - Fax 0332 331013 [email protected] - www.zecchini.com Foto: Archivio rivista MUSICA (5a, 18a, 30, 32, 34, 37, 48, 53, 60, 64, 76, 79), Berlin, Deutsches Historisches , Museum (copertina), A. Chemollo (20b), Michele Crosera (12), Decca / Uli Weber (38c), DG (38a, 38b), Discoland (10), Ghielmi / Pianca (67), Sasha Gusov (43-44b), Jan Gutzeit (5b, 46), Costantino Mastroprimiano (22a), Met (28a), Museo Nazionale Giuseppe Verdi (16a), Christophe Olinger (18b), Orchestra Haydn Orchester (20a), Phoenix / Matassa (70), Eric Richmond (72), Serafino Rossi (16b), Settimane Musicali di Stresa (94), Courtesy Stuart-Liff (28b), Tactus / Daniele Proni (58), Teatro Pergolesi di Jesi (90), Teatro Regio di Torino (22b), Teatro Sociale di Bergamo (88) ......................................................... prestampa: Datacompos srl - Via Tonale, 60 21100 Varese - Tel. 0332 335606 Fax 0332 331013 - [email protected] ......................................................... stampa: Tipografia Galli e C. via Rosmini, 20 - 21100 Varese ......................................................... È riservata la proprietà letteraria di tutti gli scritti pubblicati. 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Se poi si ascolta la pagina orchestrale – più rapinosa nel suo respiro sinfonico di qualunque ouverture di Donizetti o Bellini – che apre l’opera comica, Der Onkel aus Boston, che Mendelssohn aveva scritto quasi un decennio prima, all’età di tredici anni, si coglie appieno il divario che esisteva allora fra la vita musicale di certe città tedesche e quella della futura capitale d’Italia. Negli ultimi centottant’anni quel divario è stato in parte colmato grazie alla visione, alla fantasia creativa e alla volontà professionale di musicisti e amministratori del bene pubblico nel nostro Paese. Ma certe differenze profonde rimangono. Non capita quasi mai, in Italia, che un festival musicale di primaria importanza venga affidato a un interprete cosmopolita dalla mentalita` aperta, come è successo in Germania al grande violoncellista Jan Vogler: un berlinese che vive a New York e che gestisce ora con coraggioso entusiasmo quell’imponente istituzione culturale che e` il Dresdner Musikfestspiele. E non succede mai in Germania che un ministro in carica del governo federale inciti il suo uditorio all’odio – non nei confronti di mafiosi o truffatori, ma di coloro che si dedicano professionalmente all’arte musicale nelle sue forme piu` evolute. Come ha fatto, in Italia, il Ministro Brunetta, suscitando sconcerto non tanto per le questioni sollevate – perche´ sappiamo tutti che nella vita musicale come in molti altri ambiti della nostra societa` ci sono individui e gruppi di persone che abusano delle loro posizioni privilegiate – ma per l’assoluto disprezzo con cui liquidava intere categorie professionali. Un disprezzo che non comunica nessuna volonta` riformatrice ma una smania distruttiva affine a quegli impulsi irresponsabili che fecero liquidare, negli anni novanta, tre orchestre della RAI e quel glorioso teatro di tradizione che fu il Comunale di Treviso e che ora stanno minando le potenzialità produttive di un altro ente musico-teatrale, il Luglio Trapanese. Meglio l’odio che l’indifferenza o l’amore ipocrita, dira` forse qualcuno. Del resto le manifestazioni più estreme dell’amore e dell’odio sono spesso quasi indistinguibili e chiunque abbia vissuto una lunga convivenza sa quanto sia facile passare da un polo emotivo all’altro. Simili estremismi hanno pero` poco a che fare con l’amore più profondo e autentico, come dimostra la vicenda – italianissima e sempre attuale – di Armida e Rinaldo, messa in musica da Haydn a Esterha´za nel 1784. La voglia di tenere incatenato a se´ l’oggetto amato o di cedere all’effetto dopante di un’infatuazione esclusiva sono all’opposto del ruolo liberatore svolto da chi ama il prossimo senza vincoli e senza paure. E su questa verita` deve riflettere anche chi – come noi – descrive e commenta la realtà musicale, spingendoci a mantenere quella costante, vigile attenzione che permette di distinguere tra chi fa musica amandola e chi la fa come semplice routine. Anche se il routiniero è circondato da una fama consolidata e l’interprete ispirato e` del tutto sconosciuto. A questo proposito va chiarito il nostro criterio nell’attribuire le stelle alle incisioni discografiche. A volte ci viene detto – e ci diciamo – che siamo eccessivamente generosi; che scarseggiano troppo i voti minimi rispetto a quelli massimi. Si tratta in effetti di un rischio reale quando l’entusiasmo per il qui e ora di un’esecuzione musicale offusca i ricordi e i termini di paragone. Ci sono tuttavia pure dei motivi piu` razionali che spiegano l’apparente disequilibrio. Il primo e` che assegniamo le stelle anche a quelle registrazioni storiche – diventate in alcuni casi di riferimento – che in altre riviste europee tendono a essere trattate in rubriche a parte. Il secondo è che ci sembra francamente inutile infierire sulle produzioni meno riuscite delle etichette minori: in casi simili non recensiamo mai il disco a meno che il repertorio non sia di primario interesse. Mentre è assolutamente doveroso segnalare le imprese fallite di artisti blasonati e economicamente privilegiati, pur riconoscendo che chi critica pubblicamente debba accogliere a sua volta le riserve e le obiezioni di chi legge. Per questo motivo invito tutti coloro che hanno dimestichezza con internet a sfruttare quel luogo apertissimo di discussione che e` il forum di MUSICA sul sito www.rivistamusica.com. Stephen Hastings S &negozi che fanno cultura Un negozio fornitissimo in via Migliorati a Reggio Emilia, ma anche un canale di vendita per corrispondenza attraverso il sito internet www.discolandmail.com. Due sono i motivi per interrogare Paride Bonetta su una delle più importanti realtà commerciali italiane nell’ambito del disco classico. Nove domande a... Paride Bonetta di Discoland Qual è la storia del Suo negozio? Discoland ha una storia molto lunga. È stato fondato dal Dott. Mamoli nel 1964 e da subito ha avuto un’immagine molto ben definita: prodotti di qualità, serietà nel rapporto con il cliente, ricerca di etichette e « musiche » sempre nuove e stimolanti. In effetti, Discoland è sempre stato un negozio specializzato, anche quando si vendeva musica commerciale: avere un grande assortimento di classica, jazz e musica etnica in quegli anni era veramente atipico, soprattutto in una piccola città di provincia come era allora Reggio Emilia. Alla fine degli anni ottanta abbiamo definitivamente separato i settori « musica colta » e « musica commerciale » aprendo un secondo punto vendita. Dal 1995 si è deciso di concentrare tutto i nostri sforzi solo sulla musica « di qualità » anche perché proprio in quell’anno è iniziata una nuova stimolante avventura, che ha rappresentato il nostro più significativo sforzo imprenditoriale: fondare una nuova azienda dedita alla vendita per corrispondenza. Discoland mail opera in modo sostanzialmente autonomo dal negozio e ha portato il nostro modo di proporre musica ben al di fuori dei confini cittadini. 10 Quali generi di musica classica vendono meglio? Il barocco l’ha fatta e la sta facendo da padrone anche per il numero veramente poderoso di CD dedicati a quel periodo musicale usciti negli ultimi anni, poi la musica dei primi decenni dell’Ottocento e del Novecento anche perchè in quei decenni hanno operato dei veri colossi della storia della musica Quali sono i dieci CD/DVD di musica classica più venduti negli ultimi due mesi? I prodotti che hanno riscosso le migliori performance di vendita sono state le integrali di Brahms (DG), la Karajan Edition ( DG ), la Haydn Edition (Brilliant), il CD Decca di Alessandro Carbonare The Art of Clarinet che abbiamo venduto benissimo in tutto il mondo, il cofanetto di Sinopoli dedicato alla seconda Scuola di Vienna (Warner Classics), la viola celtica di Savall, i Concerti per pianoforte di Chopin incisi da Lang Lang. Tra i DVD sono state veramente incoraggianti le vendite dei Concerti Brandeburghesi dirette da Abbado e registrati nel bellissimo ed vivacissimo Teatro Valli di Reggio Emilia. Comunque mi rimane difficile stilare una vera e propria classifica in quanto, a parte casi eclatanti (le incisioni di Pollini, Abbado, Savall), il mercato della classica è fatta di tantissime piccole vendite. musica 210, ottobre 2009 Le scelte dei clienti sono condizionate di più dagli interpreti o dal repertorio? Per quanto riguarda il repertorio consolidato, per intenderci i Beethoven-Brahms-Mozart... gli interpreti sono certamente la molla che fa scattare l’intereresse dell’appassionato. Per il barocco, la musica contemporanea ed antica, direi che il repertorio è stato il fattore determinante per la vendita. Gli appassionati dimenticano che negli anni ottanta, prima del CD, il repertorio inciso era enormemente – e sottolineo enormemente – più esiguo di adesso. Di moltissimi musicisti non vi era nulla di registrato, ma anche dei grandi non è che si trovasse tanto come ora. Vorrei segnalare che sul sito web abbiamo inserito, dal ’95 ad oggi, oltre centottomila referenze e che il catalogo attivo di CD di musica classica è di oltre cinquantamila prodotti differenti. Solo da pochi anni gli appassionati puntano l’occhio sugli interpreti anche per il repertorio barocco, forse perché, finalmente usciti dalla novità delle interpretazioni « musicalmente consapevoli », si comincia a distinguere tra chi ha una credibilità interpretativa da chi mette una nota dietro l’altra giusto per arrivare alla fine del CD . Il terzo fattore che quasi mai viene considerato è il fascino che esercitano alcune etichette sul cliente: per intenderci, i CD ECM hanno un pubblico che li acquista molto spesso a prescindere. Il repertorio barocco e antico eseguito su strumenti originali attira un diverso tipo di cliente? Negli anni ’80 e ’90 certamente si, ora non più. Finalmente è terminata la diatriba tra quelli che amavano le esecuzioni « tradizionali » e la prassi filologica. Dico finalmente perché non se ne poteva più di sentire acritiche e spesso immotivate difese di una prassi piuttosto che di un’altra. L’esecuzione deve avere una sua tensione, una sua credibilità interiore, se non ce l’ha non è un problema di Furtwängler o Brüggen: non ce l’ha e basta. L’unica cosa che mi pare di poter dire è che la prassi filologica ha spazzato via molti di quei luoghi comuni che costituivano la retorica della musica classica, ha tolto quella patina di stantio, ha riaperto e dato aria ai cassetti. E a seguito di questo cambiamento è arrivato un nuovo cliente....fondamentalmente giovane. Tra i dischi venduti, che rapporto c’è tra le ristampe e le novità assolute? La grande quantità di uscite degli ultimi anni hanno decisamente orientato il cliente verso un acquisto più legato alle nuove produzioni anche per i motivi che dicevo sopra : nuovi autori, etichette, interpreti. Le ristampe sono poi il rimanente 50% del mercato, soprattutto se proposte a un prezzo « corretto ». Che peso ha il prezzo nella scelta degli acquisti? Non escludo che il prezzo possa inibire gli acquisti di CD a prezzo pieno, ma se il prodotto è valido e viene correttamente pubblicizzato, io credo non ci siano particolari problemi. Diverso è invece il far capire al cliente quanto lavoro c’è dietro la produzione di un CD e di conseguenza il perché un disco esce a prezzo pieno. Se poi mi vuol chiedere se certi prezzi super budget corrispondono al vero prezzo del CD le rispondo di no. Un prezzo di vendita troppo ribassato favorisce, magari, un certo tipo di vendita, ma disorienta il cliente. Il prezzo di vendita deve essere il più vantaggioso possibile, ma nei limiti della ragionevolezza. Il mercato dei DVD è ancora in espansione? Direi che dopo una crescita prudente, ma inesorabile anno dopo anno, ora ci troviamo un una situazione di equilibrio, e comunque, soprattutto per la lirica il DVD è diventato il supporto più importante. Com’è l’andamento delle vendite via internet? La vendita per corrispondenza segue, con numeri ovviamente molto più alti, l’andamento del mercato. La differenza tra il negozio e il mailing sta nel più ampio spettro di richieste che ci arrivano dai clienti che acquistano per corrispondenza. Nel mailing la specializzazione viene temperata da un altissimo numero di richieste di prodotti di etichette classiche più popolari e di brani più basic. E poi le copie vendute per singolo prodotto sono spesso molto differenti: ricordo sempre con piacere le 530 copie vendute dell’integrale delle sonate di Beethoven eseguite da Backhaus, le quasi 300 copie delle Sinfonie di Beethoven dirette da Abbado, ma anche i 97mila CD Naxos venduti. Nicola Cattò &letture musicali Alberto Cantù, David Oistrakh. Lo splendore della coerenza, Zecchini Editore, Varese 2009, pp. 241, E 20,00. Piero Violante, I papillons di Brahms, Sellerio, Palermo 2009, pp. 247, E 18,00 Comincia subito con un paradosso il terzo portrait di Alberto Cantù nella grande galleria del violino: che il virtuosismo non sia, in Oistrakh, condizione primaria, ma valga « come una riserva di energia, come una carica da utilizzare solo eccezionalmente o in modo funzionale ma di cui essere certi ». Il Re David dal fisico massiccio e dalla beata paciosità sembra navigare con la forza del perfetto equilibrio al di sopra delle stesse risorse virtuosistiche. Di qui lo « splendore della coerenza » che nel ventennio e oltre dell’ultimo dopoguerra ne fa il violinista principe per fortune non solo concertistiche, ma anche radiofoniche e discografiche: il Re David, che diventando Re Mida trasforma in capolavori di forma anche pagine come il Concerto di Khachaturian (uno dei miei primi gloriosi LP). La bellezza di queste monografie violinistiche affidate alle mani sapienti di Cantù non è solo nel ritratto di una personalità di interprete (ritratto che più plastico non si può) ma anche nella capacità di percorrere l’arco della storia dell’Unione Sovietica dal fosco scenario staliniano al disgelo; e ancora di seguire analiticamente la carriera del violinista attraverso il rapporto con gli altri grandi violinisti, da Heifetz al più giovane Leonid Kogan, le cui fortune, contrastate dall’intolleranza antisemita, erano state incoraggiate da Oistrakh; infine la chiarezza narrativa e critica dell’autore nell’offrire al lettore, prima ancora della ricca appendice di documenti sonori a cura di Carlo Bellora, un continuo ordito di riferimenti discografici e di testimonianze d’ultima generazione. C’è un filo rosso a legare i venti saggi racchiusi in questo libro di Piero Violante (a partire dal primo che dà il titolo alla pubblicazione), e tal filo si rintraccia nella centralità che Vienna e la sua tradizione storica assumono nel corpus della moderna musica europea. Studioso emerito della Mitteleuropa, Violante fa luce sul percorso che dalla Wiener Klassik portò, attraverso tappe intermedie (vedi il saggio su Zemlinsky), alla problematica avventura dei lari novecenteschi e a ciò che ne è conseguito in termini di esperienza contemporanea. Ma è sorprendente come tale esperienza non vieti il riconoscimento di una sorta di liaison mai da alcuno pronunciata con la Parigi di Cocteau e dei Sei; e mi pare che ivi riposi il tratto di maggior originalità del lavoro dello scrittore. Si leggano in merito i saggi Tre passi nella modernità e Souvenir de Vienne, fra i più intelligenti di cui la letteratura musicale italiana oggi possa godere; ma non meno che delizioso è quello che ha a titolo Lady in the Dark, in cui Violante tenta con invidiabile coraggio la difesa d’ufficio di un compositore che il severo oltranzismo di un Webern aveva con sprezzo escluso dal novero dei raccomandabili, ossia Kurt Weill. La prosa vi è intrigante almeno quanto le argomentazioni; e un piccolo estratto di p. 158 varrà a farne testo: « Se si ascoltano in sequenza My Shup da Lady in the Dark e Ein Schiff dalla Dreigroschenoper si sente quanto distante sia la nave americana dalle vele di seta dell’antica nave berlinese con otto vele. Ma in questo passaggio [...] si consuma il destino di uno dei musicisti più geniali del ventesimo secolo ». g.g a.n. Massimo Mila, I Quartetti di Mozart, (Introduzione di Giovanni Morelli) Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 2009, pp. 90, E 15,00 Finzi, Collected Songs – 44 Songs including 7 Cycles or Sets (high voice), Boosey & Hawkes, Londra 2008, pp. 170, $ 22,95 Si tratta del primo corso di laurea tenuto da Mila all’Università di Torino nel 1962, un lavoro ricco di informazioni presentate con uno stile rigoroso e sagacia, quasi una guida all’ascolto da consultare all’uso. Il volumetto è diviso in cinque sezioni precedute da un inquadramento introduttivo (sezione più corposa quella che analizza i quartetti dedicati ad Haydn). Non troviamo esempi musicali, ma l’esposizione è infarcita di citazioni tratte dai classici commenti di De Wyzéwa e De Saint-Foix, Abert, Einstein (a volte confermati, a volte smentiti), seguendo una traiettoria evolutiva che porta l’autore a rilevare, per esempio, la comparsa per la prima volta della forma sonata nell’ultimo movimento di un quartetto (Quartetto K 160), oppure la freschezza quasi operistica dei lavori del periodo italiano o ancora il modo d’usare la scrittura contrappuntistica « perfino nei Minuetti » nel primo periodo viennese. Ma Mila sa anche ridere sotto i baffi mettendo in guardia dai pericoli di un’interpretazione troppo descrittiva, stigmatizzando come « incredibile interpretazione » ciò che scrive nel 1927 Thomas F. Dunhill a proposito del secondo tema del primo movimento del Quartetto K. « La bizzarra melodia sembra quasi essere suggerita dai suoni che emanano da un pollaio! Certamente questo è il chiocciolio di molte galline in differenti chiavi [...] la più bella musica da cortile che sia mai stata composta! ». O come quando riporta la critica negativa di un recensore viennese: « I suoi nuovi quartetti dedicati ad Haydn sono di gran lunga troppo ricchi di spezie perché si possano gustare a lungo ». Come ho già lamentato in altre occasioni, le canzoni di Gerald Finzi sono poco conosciute al di fuori dei paesi anglofoni; quest’ampia antologia, che comprende oltre la metà (frammenti esclusi) della produzione liederistica del compositore londinese, può essere un’utile occasione di approfondimento, magari in combinazione con una delle (non molte) monografie discografiche disponibili sul mercato, come il sempre valido doppio album Hyperion di cui recensiremo la ristampa sul prossimo numero. Tra le raccolte di Finzi viene data qui preferenza a quelle postume, allestite dagli editori accorpando il vasto lascito di inediti trovato tra le carte del compositore alla sua morte prematura, il 27 settembre 1956. Si tratta di Till Earth outwears e I said to Love, entrambe su poesie del prediletto Thomas Hardy, e delle miscellanee Oh fair to see e To a Poet. Esse sono affiancate dal primo vero successo di Finzi, il ciclo in due parti A Young Man’s Exhortation (sempre da Hardy), e da due collezioni da Shakespeare, Let us Garlands bring e le canzoni da Love’s Labour Lost. Più di metà dei Songs sono presentati nella tonalità originale; quelli scritti per un registro più grave sono stati trasposti in modo quasi sempre ragionevole (forse solo « At Middle-Field Gate in February » e un paio di canzoni shakespereane risultano un po’ troppo « schiarite »). La stampa è sempre molto leggibile, presentando in particolare con molta chiarezza le varianti previste da Finzi; A Young Man’s Exhortation utilizza una soluzione tipografica un poco più « old fashioned », evidentemente risultando da una semplice ristampa. m.v. 14 musica 210, ottobre 2009 r.b. &attualità Gustav Kuhn presenta la nuova stagione dell’Orchestra Haydn & Otto prime assolute per festeggiare l’Orchestra Haydn La Stagione 2009-10 dell’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento – la cinquantesima dalla sua fondazione – si presenta ancora all’insegna di Haydn, già ricordato nella precedente stagione con ben nove delle sue sinfonie, cui ora si aggiungono la n. 39, e le classiche « Londinesi » nn. 92, 100 e 103. A sottolineare la perdurante attualità di Haydn e il suo ruolo di padre fondatore della musi- Un angolo di Francia a Venezia Una suggestiva immagine del Palazzetto Bru Zane a Venezia Il tre ottobre, con l’apertura del Festival « Le origini del Romanticismo francese », inizia ufficialmente l’attività di produzione concertistica del Palazzetto Bru Zane a Venezia, un centro di ricerca musicologica, dedicato all’Ottocento francese, che promette di essere una delle iniziative culturali più importanti di questi anni. Ne parliamo con Alexandre Dratwicki, il direttore scientifico. Ci descriva l’avventura del Palazzetto Bru Zane: qual è la sua storia, quali i suoi obiettivi? Quando nel 2005 Nicole Bru, tramite la Fondazione Bru, ha deciso di acquistare il Palazzetto Zane, l’ha subito visto come un luogo ideale per la musica; si trattava, di fatto, di una sala da ballo. Ma Madame Bru non voleva semplicemente realizzare una sala da concerti, come tante altre, ma ha immaginato che le molte stanze che 20 contornano la sala da ballo principale potessero adempire ad altri scopi e che, quindi, tutto il complesso potesse soddisfare delle esigenze complementari. Ecco quindi che le è stato proposto di creare un centro di ricerca musicale, che associasse la ricerca musicologica e la produzione di concerti; inoltre, poiché la sala non è cosı̀ grande, si è subito avvertita la necessità di stringere delle collaborazioni perché le manifestazioni si svolgessero anche in altri luoghi, a Venezia e all’estero. A pochi passi dal Palazzetto, d’altronde, c’è la Scuola Grande San Giovanni Evangelista, la cui sala è perfetta per accogliere grandi complessi cameristici o piccole orchestre. Quando poi è stato il momento di decidere a quale repertorio dedicarsi, si è creduto opportuno concentrarci sulla musica francese. La signora, del resto, ha goduto dei consigli del direttore Hervé Niquet, il quale musica 210, ottobre 2009 ca sinfonica sono stati commissionati otto nuovi lavori ad altrettanti compositori, tutti ispirati a Haydn. I nomi sono: Alberto Colla, Silvia Colasanti, Michele dall’Ongaro, Matteo D’Amico, Girolamo Deraco, Ivan Fedele, Roberto Molinelli e Giovanni Sollima. Dulcis in fundo, il concerto straordinario di Claudio Abbado a capo delle Orchestre Haydn e Mozart unite, che presenteranno a Bolzano, il 31 ottobre e a Bologna la Sinfonia n. 7 di Bruckner e il Concerto per violino di Alban Berg. www.haydn.it & Bychkov e le sorelle Labèque inaugurano la stagione 2009-2010 di Lingotto Musica Il prossimo 24 ottobre si terrà, nel- ha fatto notare che sulla musica francese dell’Ottocento ci sono ancora grandi lacune e creare un centro simile a Venezia sarebbe stata una bellissima idea, poiché il Romanticismo francese è completamente impregnato d’Italia, attraverso il « Prix de Rome » e la presenza dei grandi operisti italiani a Parigi. Ecco quindi perché l’Ottocento francese è l’ambito di lavoro del Palazzetto Bru Zane. Come è organizzata la Fondazione? Come si dividono i ruoli? Occorre una premessa. Nel 2005 Madame Bru ha creato la Fondazione Bru, che sostiene progetti umanitari e culturali di ogni tipo; nel 2007 è stata derivata una Fondazione « figlia », di diritto italiano, che è, appunto, la Fondazione Palazzetto Bru Zane. I due ambiti di lavoro principali sono la ricerca e la programmazione, la seconda dipendente dalla prima, a sua volta motivata, talora, da festival o occasioni di esecuzione. Io sono il direttore scientifico responsabile delle pubblicazioni, delle registrazioni e della parte musicologica, mentre Olivier Lexa è il direttore generale, responsabile dell’aspetto economico, della gestione delle partnership e della diffusione e programmazione dei concerti; in questo ultimo aspetto è coadiuvato da mio fratello, Benoı̂t Dratwicki, che si occupa degli artisti, dei programmi e di tutti i dettagli. Lei ha dichiarato che « dopo la grande avventura della riscoperta del Barocco, adesso è il turno del repertorio romantico francese ». Possiamo dire che si l’Auditorium torinese, il primo degli otto concerti che costituiscono la stagione 2009-10 della prestigiosa associazione: l’onore spetterà al direttore russo Semyon Bychkov e alle sorelle Labèque, Katia e Marielle, moglie di Bychkov. Sui leggii della WDR Sinfonieorchester Köln il Concerto per due pianoforti di Mendelssohn e la gigantesca Alpensinfonie di Richard Strauss. La stagione completa su www.lingottomusica.it & Il XV Festival Lodoviciano Come ogni anno torna l’appuntamento con la rassegna, diretta da Giovanni Battista Columbro, dedicata a Lodovico da Viadana. L’edizione 2009 avrà per titolo « Il Quinto Cielo di Marte » (Dante paragona i tratta di partiture poco o male conosciute? È importante precisare che la missione del Palazzetto non è un’idea che sorge dal nulla: almeno da venti-trent’anni anni musicologi e direttori d’orchestra, in tutto il mondo, lavorano in tal senso, però sono azioni spesso con una connotazione molto locale, oppure limitate da problemi economici, e che difficilmente possono dare luogo a un’affermazione di queste partiture nel repertorio corrente e nella coscienza generale. Noi vogliamo raggruppare e coordinare le energie di tutte le persone che hanno lavorato, e lavorano, su questi temi; bisogna tuttavia riconoscere che da qualche anno i teatri d’opera in Francia stanno ricominciando a programmare opere come Gustave III di Auber, o Charles VI di Halévy, la Juive all’Opéra di Parigi, l’Africaine a Strasburgo e Marsiglia, gli Huguenots a Metz... Lo interpreto come un ritorno di interesse per l’Ottocento, tanto più significativo se si nota come, ormai, il Barocco francese ha conquistato nei cartelloni una presenza costante: anche direttori e registi si dirigono sempre più verso il Romanticismo francese. Ci sono compositori oggi totalmente sconosciuti, che sopravvivono solo come nomi – come Dubois – di grande valore. Questo vale per l’opera e la musica sinfonica... E quella da camera! Al Palazzetto la sala è adatta soprattutto per recital pianistici, trii e quartetti d’archi, concerti di romances. Tornando alla musica poco nota, il genere del Concerto per pianoforte e orchestra si riassume, &i retroscena di enrico stinchelli Caro tenore, ti scrivo... Giuseppe di Stefano con Rudolf Bing Il 13 ottobre del 1952, Sir Rudolf Bing, general manager del Metropolitan di New York, scrive al tenore Giuseppe di Stefano che chiede di saltare le prime due settimane di prove di un nuovo allestimento di Bohème (che andrà in scena il 29 dicembre) per poter partecipare a alcune recite della stessa opera alla Scala: « Lei non ha ancora idea di cosa io intenda quando parlo di ‘‘nuove edizioni’’ e di ‘‘modo nuovo di affrontare gli aspetti teatrali dell’opera lirica’’ [...]. Le avevo detto che la Bohème di quest’anno sarà tutta nuova, e che per questo ho scritturato uno dei maggiori registi cinematografici dei nostri tempi [Joseph L. Mankiewicz, n.d.r.]. Il fatto che Lei abbia interpretato la Bohème tanto spesso peggiora notevolmente la situazione, perché se la nuova edizione deve essere buona, credo che niente di quanto Le è consueto nel recitare sarà utile [...]. Dovrete disimparare quello che sapete e imparare nuovi modi di muovervi e di gestire. Avevo sperato che queste possibilità Le interessassero, perché possono trasformarLa da un ottimo cantante in un ottimo artista, invece, a quanto pare, Lei pensa soltanto di guadagnare qualche dollaro in più alla Scala e a risparmiarsi le prove ». 28 È un cambio di prospettive storico, quello proposto dalla dura lettera di Bing a uno dei più celebri cantanti dell’epoca. Il regista, d’ora in poi, influirà sempre di più rispetto ai divi del canto. E gradualmente si capovolgono anche i budget: la parte vocale, un tempo preponderante, passa a valere oggi tra il 13 e il 19% nell’economia generale di un allestimento, mentre regı̀a scene e costumi arrivano a costituire la voce in capitolo più sostanziosa. Un’opera lirica costa tantissimo. Nel 1991 il Teatro alla Scala investiva in media seicento milioni di lire per ogni spettacolo, cento milioni in più rispetto al Metropolitan di New York (che però allestiva il musica 210, ottobre 2009 triplo di recite in un anno rispetto al tempio milanese). Oggi il costo medio è salito parecchio, sfiorando per l’Italia qualcosa come cinquecentomila euro a spettacolo, di cui a volte solo il 5% viene coperto dagli incassi. Non a caso la maggioranza delle Fondazioni liriche in Italia versa in tragiche condizioni di passivo, rischiando seriamente la chiusura. E stiamo ancora parlando di medie, poiché vi sono spettacoli (certi, temibili, nuovi allestimenti) che possono arrivare a costare anche quattro o cinque milioni di euro, a fronte di cachet singoli per il regista-divo che raggiungono l’esorbitante cifra di cinquecentomila euro ad allestimento. Il deficit, in tali casi, non è che un’ovvia conseguenza. Per molti il tenore è il cantante più pagato per antonomasia, anche se è solo dagli anni ottanta del Settecento, quando Giacomo David riuscı̀ a ottenere maggiori cachet dei castrati scritturati per le stesse opere, che i cantanti di questo registro possono rivaleggiare economicamente con i soprani. E ben pochi tenori sono riusciti a avvicinarsi ai guadagni dell’irlandese John McCormack, dedito più all’attività concertistica che a quella teatrale e nominato conte nel 1924 da Papa Pio XI. In una carriera più che trentennale (1906-1938) arrivò a possedere dodici Rolls Royce, una scuderia di purosangue, due violini di valore inestimabile, proprietà in Irlanda, California, a Londra, New York e nella Nuova Inghilterra, e un conto in banca di molti milioni di dollari; Luciano Pavarotti, al confronto, fu San Francesco. Scorrendo infatti le « buste paga » dei cantanti precedenti l’era moderna (i divi del periodo barocco e romantico), scopriamo che i tre tenori possono sicuramente considerarsi sottopagati rispetto ai castrati Farinelli e Senesino o a soprani come la Durastanti nel Settecento, quando l’accento posto su un virtuosismo estremo aveva fatto lievitare i cachet rispetto al secolo precedente. Una tendenza che prosegue nel primo Ottocento, quando soprani e tenori come Giuditta Pasta e Giovan Battista Rubini riescono a guadagnare cifre iperboliche, non tanto in Italia quanto a Parigi, Londra, Madrid e San Pietroburgo. Certo, bisognava essere bravi; in questo, il sistema antico, ancora non regolato da sindacati di categoria e agenzie, basava tutto su una meritocrazia precisa e spietata: se canti meglio, guadagni di più. Inoltre, principi e mecenati erano soliti arrotondare i compensi con laute « mance », spesso tabacchiere ricolme di monete d’oro, titoli nobiliari, terreni, palazzi, emolumenti vari. Nella seconda metà Gli approfondimenti di MUSICA 30 musica 210, ottobre 2009 COMPOSITORI Nel duecentesimo anniversario della nascita di Felix Mendelssohn-Bartholdy un cofanetto della Brilliant, pur trascurando l’ambito teatrale, offre un’occasione rara di esplorare la produzione giovanile del compositore, tra il sacro, il sinfonico e il cameristico. Il giovane Mendelssohn tra un ridente paesaggio e un luogo maledetto di Piero Rattalino La Brilliant raccoglie in quaranta dischi, in occasione del bicentenario della nascita, una parte molto cospicua della vastissima produzione musicale di Mendelssohn, offrendoci un « Mendelssohn Portrait », un Ritratto di Mendelssohn, che non può essere se non il benvenuto, anche se nel Ritratto, come vedremo poi, manca un qualcosa di non secondario. Il maggior pregio della pubblicazione consiste secondo me nel fatto di comprendere un’ampia silloge di ciò che Mendelssohn creò fra il 1821 e il 1829, e cioè nel periodo formativo fra i dodici e i vent’anni. Solo chi non possiede nulla di Mendelssohn può essere realmente interessato al Concerto per violino op. 64 eseguito da Siegfried Söckigt o alla Sinfonia « Italiana » diretta da Frans Brüggen. Questi sono artisti che sanno sı̀ fare, e bene, il loro mestiere, ma che evidentemente non si collocano nell’empireo degli Heifetz e dei Karajan e dei tanti altri mostri sacri che costellano la discografia mendelssohniana. L’occasione di ascoltare il Te Deum del 1826 o l’ottava delle sinfonie per archi anche nella versione con i fiati aggiunti è invece rara, ed è preziosa per chi vuole conoscere Mendelssohn un po’ più a fondo di quanto non capiti ordinariamente. Su questo primo periodo della creatività di Mendelssohn io mi soffermerò dunque a lungo, mentre sorvolerò sui periodi successivi. Eintritt Eintritt, Ingresso, come nelle Scene della foresta di Schumann. Partiamo dal frontespizio del box, in cui troviamo solo il cognome Mendelssohn, mentre nei label dei dischi troviamo il doppio cognome Mendelssohn-Bartholdy. E qui non sarà fuor di luogo una piccola spiegazione. Alcuni anni or sono il direttore di un conservatorio di provincia, noto più per le sue accorte frequentazioni politiche che per la sua attività di musicista, presentando in una conferenza-stampa il programma dei saggi annuali del suo istituto disse con orgoglio: « Eseguiremo anche una sinfonia di Mendelssohn nella trascrizione di Bartholdy ». Come dire Bach-Busoni o Mussorgski-Ravel. Ma il signor Mendelssohn e il signor Bartholdy erano stati, in vita, una sola persona. Una persona che in realtà, a rigore, avrebbe dovuto chiamarsi con un terzo nome: Dessau. Qualcuno fra i miei lettori ricorderà forse un vecchio film neorealista ambientato in Emilia nel 1944, un film in cui un rigido soldato tedesco, controllando i documenti dei viaggia- tori che salivano su un traghetto fluviale, diceva a una Carla Gravina diventata terrea in volto: « Il suo cognome è Modèna. Lei è ebrea? ». Perché gli ebrei prendevano spesso il nome dalla città d’origine. Nel 1729 Meldel Dessau, abitante a Dessau, aveva imposto il nome di Moses al suo primogenito. Moses Dessau, che divenne un grande filosofo illuminista, chiuse in cantina il Dessau e inventò il nome Mendels-Sohn, figlio di Mendel (Mendel invece di Meldel perché più facile da pronunciare). Il secondo figlio maschio di Moses Mendelssohn, Abraham, divenne banchiere, si sposò con Lea Salomon ed ebbe quattro figli: Felix, il secondogenito, nacque ad Amburgo il 3 febbraio 1809. Gli ebrei non potevano frequentare le scuole pubbliche, certe professioni erano loro precluse, ecc. ecc. Abraham Mendelssohn non ebbe problemi, nel mettere alle costole dei suoi figli una schiera di eccellentissimi privati istitutori. A Berlino, dove la famiglia si trasferı̀ nel 1811, Felix studiò lingua e letteratura tedesca, latino e greco, francese e inglese, aritmetica e matematica, disegno, danza, ginnastica, nuoto, equitazione, e teoria musicale, composizione, pianoforte, canto, violino. Nessuna scuola pubblica avrebbe potuto fare di meglio, anzi.... Tuttavia Abraham decise nel 1819 di far battezzare i figli, e nel 1822 fu battezzato anche lui, insieme alla sua sposa. In quell’occasione aggiunse al Mendelssohn il Bartholdy, cognome adottato da un suo cognato Salomon che aveva dato il... buon esempio convertendosi per primo al protestantesimo. Nacque cosı̀ il Mendelssohn-Bartholdy che il gioviale direttore di conservatorio interpretava alla stregua del Bach-Busoni. Abraham non era però ancora soddisfatto. MendelssohnBartholdy era secondo lui troppo lungo (« non è un nome di tutti i giorni », scrisse al figlio), e Mendelssohn era da scartare per più cogenti ragioni: « Se tu ti chiami Mendelssohn sei automaticamente ebreo, e questo non ti è di giovamento, tanto più che non è vero ». Conclusione: « Devi chiamarti Felix Bartholdy ». Abraham non faceva distinzioni fra religione e razza: se cambiava la prima cambiava automaticamente anche la seconda. L’antisemitismo virulento della seconda metà del secolo l’avrebbe pensata ben diversamente. E se pur avesse accettato il consiglio del padre, cosa che non fece, il nome Felix Bartholdy non avrebbe evitato che le musiche di Felix Mendelsmusica 210, ottobre 2009 31 Le recensioni di MUSICA BACH quarto classificato ex-aequo, András Schiff. Osservazione lungimirante: Gavrilov ebbe poi una carriera effimera, il secondo ex-aequo, Igolinski, rimase nell’Unione Sovietica, Chung divenne direttore d’orchestra, il terzo classificato, Egorov, morı̀ giovane ancora, della quarta classificata ex-aequo, Eteri Andjaparidze, si persero subito le tracce, il solo Schiff è oggi uno dei leader dell’interpretazione al pianoforte. La carriera di Schiff si basò sulla riproposta di Bach, che negli anni settanta veniva toccato dai pianisti con molta circospezione perché lo ». Io ho ascoltato diligentemente le sei Partite una in fila all’altra durante un lungo viaggio in automobile, e alla fine mi sono trovato un po’ come quel dongiovanni che, quasi colto sul fatto in un letto sbagliato, fa appena in tempo a rifugiarsi nell’armadio in cui la donna fraudolentemente amata conserva le boccette dei profumi. Quando finalmente il legittimo marito se ne va per i fatti suoi la fedifraga, sollevata di spirito, apre l’armadio e abbraccia l’uomo che ne esce. Il quale le sussurra, stremato: « Tutto quel profumo! Ti prego, cara, dammi un macchina non si è notato che è falso ». Harnoncourt non è la Bibbia, no, ma io, che forse sono all’antica, preferisco la sua filologia a quella di Schiff. E credo nella filologia di Badura-Skoda più che nella filologia di Schiff per quanto riguarda il Preludio della Partita n. 1 o la Toccata della Partita n. 6: Badura-Skoda sostiene che secondo la tradizione italo-tedesca il pralltriller non deve iniziare lı̀ dalla nota ausiliaria. Il suo ragionamento è molto approfondito: perché non dargli credito? Schiff, in una breve nota pubblicata nel booklet, spiega di aver voluta- & András Schiff & sembrava che il futuro avrebbe visto – la Nemesi storica! – il rovesciamento di quello che era avvenuto alla fine del Settecento: allora il pianoforte aveva mandato in soffitta il clavicembalo, alla fine del Novecento il clavicembalo – nel repertorio bachiano e scarlattiano e, come dicono tanto volentieri i politici di oggi, e quant’altro – avrebbe mandato in soffita il pianoforte. Chi aveva puntato su questa tesi si ritrovò con un palmo di naso. Schiff, sposando la tesi opposta, prima si costruı̀ una nicchia e poi la allargò a dismisura, tanto da diventare autorevole anche nei classici viennesi e in Schumann. Il suo Bach, iniziato nella tradizione di Bartók e di Fischer, si è evoluto lentamente, fino a raggiungere oggi la perfezione. Bandito l’uso dei pedali, bel suono tondo e squillante, limitazione estrema del legato e uso sistematico del non-legato, tempi né troppo lenti né troppo mossi, dinamica « centrista » con smussatura degli estremi, ornamentazioni aggiunte molto discrete, espressione colloquiale e garbata, tono espositivo estatico. Questo Bach, dicevo, è perfetto e, se si consente con le scelte di fondo di Schiff, non c’è null’altro da dire che « godiamoce- 52 pezzo di m... ». O Schiff, dicevo io, perché non estendi quel fortissimo che fai alla fine di tre gighe e che mi piace cosı̀ tanto? Perché, invece di tanti mordenti e schleifer, non ti servi di altre aggiunte del tipo di quelle che fai nei minuetti della Partita n. 1? Perché non ti lasci contagiare – solo un po’, come con la vaccinazione antivaiolosa – da quel Pollini che in Bach si fiacca la pianta del piede destro, da tanto che pigia il pedale di risonanza? Perché non ombreggi qualche volta il suono con il pedale « una corda »? Perché, soprattutto, sostituisci l’eterno legato con l’eterno non-legato? O Schiff, perché non mi dai un pezzettino di m....?. Vero è che il legato scritto è l’eccezione, nella musica barocca. Vero è che il legato aggiunto dai vecchi revisori è apocrifo e antistorico. Ma Nikolaus Harnoncourt scrisse nel 1982: « Secondo i principi in uso oggi le note di uguale valore devono essere suonate o cantate con la maggior regolarità possibile, come perle: tutte rigorosamente uguali! [...] Per quanto riguarda l’eloquenza, in ogni caso, questo modo di fare la musica non funziona. Esso ha in sé un che di meccanico, e siccome la nostra epoca si è votata alla musica 211, novembre 2009 mente scelto, e non per comodità di collocazione in due dischi, un ordine diverso da quello di Bach: Partita n. 5 per iniziare, e poi n. 3, n. 1, n. 2, n. 4, n. 6, con la sequenza Sol maggiore, La minore, Si bemolle maggiore, Do minore, Re maggiore, Mi minore. Da Sol in scala fino a Mi, con perfetta alternanza di maggiore e minore. Questa è una bella idea e l’ascolto del ciclo cosı̀ « riformato » ci guadagna, anche se in concerto mi sembrerebbe preferibile, per ragioni di durata rispettiva, scambiare di posizione la n. 1 e la n. 4. Il panorama resta tuttavia, per il mio gusto, ugualmente monotono. Non vorrei parere irrispettoso. Schiff, come dicevo, è indubbiamente uno dei leader dell’odierna interpretazione al pianoforte. Però, come afferma lui stesso, « la grande musica è più grande dei suoi esecutori ». E le Partite di Bach possono sprigionare altri profumi ancora, oltre a quello della rosa. Piero Rattalino SACD BACH Cantate Vol. 44 Wir müssen durch viel Trübsal BWV 146; Siehe, ich will viel Fischer aussenden BWV 88; Gott fähret auf mit Jauchzen BWV 43 soprano Rachel Nicholls controtenore Robin Blaze tenore Gerd Türk basso Peter Kooij Bach Collegium Japan, direttore Masaaki Suzuki BIS SACD 1791 DDD 75:48 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A HHHH . Percorso davvero esaltante quello offerto da Suzuki in questo nuovo volume della sua integrale bachiana (dedicato a tre Cantate del 1726, tutte riccamente strumentate), un’integrale che può essere considerata un punto di riferimento per l’equilibrio globale, l’aderenza stilistica, lo splendore timbrico: valori, questi, che si possono qui riscontrare, ad esempio, nella splendida Cantata BWV 43, con il suo esultante e trascinante coro iniziale accompagnato dai brillanti interventi delle trombe e con la notevole varietà espressiva delle arie (tutte piuttosto brevi e affidate a ognuno dei quattro solisti di canto), sempre abbinate a un breve recitativo. Altrettanto grandiosa (ma ancor più severa) la Cantata BWV 146, introdotta da un’ampia sinfonia (rielaborazione di un Concerto violinistico andato perduto e successivamente trascritto per clavicembalo), da un coro, da due arie e da un duetto di vaste dimensioni, oltre ai consueti recitativi e al corale conclusivo. Non poco singolare poi la concezione prevalentemente solistica della Cantata BWV 88, divisa in due parti e articolata in tre recitativi, tre arie, un arioso e un duetto, siglati da un brevissimo corale. L’esecuzione, come accennato, può essere considerata pienamente all’altezza della situazione, soprattutto sul versante strumentale e corale: notevolissima la compattezza del coro (formato da dodici elementi, tra i quali gli stessi solisti) e la resa timbrica dell’organico strumentale, ove si sono particolarmente distinti gli infaticabili e puntuali strumenti a fiato: dalle trombe per la BWV 43 (con l’intervento di una tromba solista nell’aria per basso), ai corni per la BWV 88, al flauto traverso e agli oboi (e oboi d’amore) per la BWV 146. Per quanto riguarda i solisti di canto, il soprano Rachel Nicholls canta con la purezza cristallina e la semplicità di una voce bianca (senza i limiti, però, di quest’ultima), anche se non avrebbe guastato una maggior partecipazione, ad esempio, nell’aria « Ich säe meine Zähren » da BWV 146. Robin Blaze conferma le sue notevoli doti, già apprezzate nei precedenti volumi, pur evidenziando, anche in questo caso, un eccessivo ritegno espressivo (è il caso dell’ampia aria « Ich LEO CD KAGEL Kantrimiusik soprano Angela Tunstall contralto Susan Bickley tenore Alan Belk Nieuw Ensemble, direttore Ed Spanjaard WINTER & WINTER 910 150-2 DDD 45:23 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A HHHHH . Coloro che sono stati alla Biennale di Venezia nel 2007 ricorderanno l’esecuzione di Kantrimiusik di Kagel (diretta dallo stesso compositore con l’ensemble musikFabrik) come uno dei momenti clou del festival. Ora questo lavoro, vitale e spassosissimo, lo si può ascoltare nella registrazione fatta nel 1997 dall’olandese Nieuw Ensemble, formazione insuperabile in questo genere di cose, che richiedono oltre alla perizia tecnica anche una forte dose di humour. Kantrimusik, « pastorale » per voci e strumenti, eseguita la prima volta nel 1975, riassume perfettamente lo spirito ludico, la grande musicalità, lo stile irriverente e pieno di fantasia del compositore scomparso lo scorso anno. È un una sorta di ironico commentario sulla musica folk, sui suoi intrecci con la musica classica (musica di campagna e musica sulla campagna, come la sinfonia pastorale), sulle sbilenche esecuzioni degli ensemble amatoriali « da diporto (genere « folk », sottogenere « arrangiamento ») ». C’è un’immagine che illumina l’intera composizione: « Mi riferisco a quelle serate in cui gruppi di intere famiglie con bambini, vestiti alla moda locale, salgono sul palcoscenico. Atteggiandosi come i fedeli rappresentanti di un determinato paese, predicano solidarietà attraverso una musica falsificata. Quante volte, in certi momenti, non si rimpiange il destino del folclore di essere contemporaneamente portavoce e divertimento di una società? ... Il pezzo non reclama di proposito alcuna autenticità delle fonti, ma elabora le solite musiche apocrife. Qualsiasi interpretazione dovrebbe chiarire quanta parodia e quanta caricatura o seriosità vi siano nel brano. Un brano che può essere rappresentato sia in forma semplicemente concertistica, sia in forma scenica; in questo caso il sottotitolo sarebbe « una parodia in scene » [...] ». Cosı̀ i suoni del banjo e della chitarra si mescolano con quelli di corno, clarinetto, violino e pianoforte, creando atmosfere di Ländler e film western. I suoni registrati evocano suoni di natura, cavalli al galoppo, cinguettii, ronzii di insetti, fotogrammi bucolici di bande sgan- gherate che suonano valzer sotto una pioggia battente, di campane di chiesa e di trattori, di corali e echi di Lieder romantici, di soffi di vento e grotteschi versi di animali. Una sintesi di naturalismo, impressionismo e verismo, dominata da un grande senso del teatro. Esilarante, assolutamente da ascoltare. Gianluigi Mattietti CD LEES Quartetto n. 1; Quartetto n. 5; Quartetto n. 6 Cypress String Quartet NAXOS 8.559628 DDD 62:23 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B HHH . Nella collana « American Classics » della Naxos è ora il turno dell’opera cameristica di Benjamin Lees, compositore americano di origine russe nato in Manciuria nel 1924 e cresciuto in California. Accanto al giovanile Quartetto n.1, lavoro classicamente politonale (e, a mio parere, non personalissimo), suddiviso in tre movimenti ed eseguito nel 1954, in prima newyorchese, nientemeno che dal Quartetto di Budapest, troviamo i Quartetti n. 5 e n. 6, gli ultimi (per ora) della serie dedicati entrambi all’ensemble responsabile di questa registrazione, e cioè il Cypress String Quartet. A dire il vero anche queste ultime opere non si impongono per originalità (sebbene il Quartetto n. 5 sia stato inserito nei « 101 Great Ensemble Works » dalla Chamber Music America, come ricordano le particolareggiate note di copertina, qui solo in inglese), né sono in grado di solleticare le esigenze più profonde di chi cerca esperienze d’ascolto in trasformazione e quindi non necessariamente solo originali e desuete. Tutto sembra già sentito, metabolizzato: Bartók, Shostakovich, Britten... ma all’acqua di rose però! Concentratissime, peraltro, le esecuzioni del Cypress String Quartet, molto chiare e formalmente ben strutturate. Massimo Viazzo DVD Video LEO L’Alidoro (commedia per musica in tre atti su libretto di G. Federico) M. G. Schiavo, M. Ercolano, V. Varriale, F. Russo Ermolli, G. De Vittorio, F. Morace, G. Ruggeri; Orchestra Barocca Cappella della Pietà de’ Turchini, direttore Antonio Florio regia Arturo Cirillo scene Massimo Bellando Randone DYNAMIC 33588 (2 DVD) 165:00. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B HHHH . L’Alidoro – registrato al Teatro Valli di Reggio Emilia in occasione della prima ripresa moderna dell’opera, nel febbraio 2008 – è uno di quei DVD che paiono non perdere nulla, da un punto di vista visivo, rispetto alla rappresentazione dal vivo. Il merito di ciò va ascritto all’azzeccata regia di Arturo Cirillo, che, concentrando la propria attenzione sui gesti e sull’espressione dei volti, e avvalendosi di splendidi costumi settecenteschi a fronte di scene pressoché vuote, si rende forse più godibile sul piccolo schermo che in teatro. L’opera di Leo, datata 1740, è, come la più nota Amor vuol sofferenza, un esempio di « commedia per musica »: genere ibrido che accosta situazioni « serie » e scenette esilaranti, arie col da capo di tipo metastasiano e forme più libere ispirate alla musica popolare, lingua italiana e vernacolo napoletano. Proprio la scelta linguistica (ogni personaggio si esprime con la lingua propria del suo ceto sociale) rivela un’attenzione al realismo che percorre la partitura e dà i suoi frutti migliori nella scena del gioco della morra: splendido bozzetto in cui l’orchestra scandisce il ritmo serrato delle scommesse di Meo e Marcello, che gli interpreti realizzano in perfetta sintonia. I ruoli vocali maschili risulterebbero, da locandina, spettare a dei bassi, ma Giuseppe De Vittorio (Marcello) è un tenore che, pur penalizzato da un timbro non esaltante, sa fraseggiare molto bene ponendo in rilievo il passaggio dalle battute stizzite al simulato abbandono passionale. Del mugnaio Meo (Gianpiero Ruggeri) si ricorda soprattutto la spassosa imitazione onomatopeica del « chicchirichı̀ » nell’aria del secondo atto, mentre Filippo Morace (il vecchio Giangrazio) si distingue per il bel timbro basso-baritonale e l’espressività della recitazione, frutto di molta familiarità con l’opera napoletana. La scrittura per le voci maschili, in ogni caso, non è mai troppo impervia, conformemente al ruolo drammaturgico di personaggi buffi, popolani o parvenu, che parlano in dialetto o in un espressivo miscuglio di toscano e napoletano. La parte del leone tocca, ovviamente, alle donne, tre soprani e un contralto. Quest’ultima, Elisa, nel DVD è in realtà interpretata da un mezzosoprano con registro particolarmente esteso nelle regioni acute, Maria Russo Ermolli, che esprime il carattere bisbetico del personaggio con le colorature dell’aria « Ri- solviti ad amarmi », le cui riprese sono arricchite di variazioni ogni volta diverse. I tre soprani hanno, opportunamente, tratti vocali chiaramente differenziati: Valentina Varriale, che impersona l’ostessa Zeza, unica donna di estrazione popolare e parlata dialettale, ha una voce calda e corposa, dal colore « mediterraneo », che favorisce, da un lato, la morbidezza dei passaggi verso l’acuto e, dall’altro, il realismo della travolgente loquacità napoletana che si esprime nell’aria del primo atto (con un colpo di genio La città d’elezione di Leonardo Leo La Cappella della Pietà de’ Turchini – che ha riesumato L’Alidoro di Leo (un napoletano d’adozione) – ha sede nella chiesa di Santa Caterina da Siena, nel cuore della città partenopea (www.turchini.it). Per chi volesse soggiornare negli stessi quartieri spagnoli, consigliamo l’Hotel Il Convento, un tre stelle molto gradevole con camere doppie a partire da 80 Euro. Chi desidera invece riscoprire gli ambienti frequentati dai viaggiatori della Belle Epoque – con un panorama indimenticabile del golfo – può optare per il Grand Hotel Parker’s. I prezzi ufficiali sono elevati (a partire da 200 euro), ma si trovano delle offerte molto convenienti su internet. Hotel Il Convento Via Speranzella 137a - 80134 Napoli Tel.: 081 403977 www.hotelilconvento.com Grand Hotel Parker’s Corso Vittorio Emanuele 135 80121 Napoli - Tel.: 081 7612474 www.grandhotelparkers.it F U O R I D A L L E N O T E il regista fa allontanare Meo, sommerso da quel fiume di parole, durante la ripresa). Il protagonista Luigi/Ascanio/Alidoro (il cui nome varia col procedere di travestimenti e agnizioni), unico ruolo en travesti, spetta a Maria Ercolano, dotata di grandi possibilità espressive che emergono fin dall’aria « Luci belle », dove la malinconia della seconda strofa, che ha il suo culmine nel « penar » cantato a mezza voce prima della ripresa, si contrappone agli musica 211, novembre 2009 65 Le recensioni dal vivo di MUSICA con costumi stilizzati (di Franca Squarciapino), giocata su movimenti un po’ stereotipati, a parte la bella scena della sfinge, creatura mostruosa avvolta in un grande drappo nero che si allargava in due immense ali. Bravissimo, nel ruolo eponimo, Stefan Ignat, baritono dal timbro eroico ma pieno di sfumature, capaci di rendere tutta la gamma delle inquietudini del suo personaggio. Di livello assai vario il resto del cast: tra i migliori Oana Andra (Giocasta), Horia Sandu (Tiresia), Ionuþ Pascu (Creonte), Valentin Racoveanu (il pastore). Tra le sette sezioni tematiche del festival spiccava quella dedicata ai « Compositori romeni del XX seIl Macbeth è l’opera di Verdi che ha meno bisogno di fondali suggestivi e di elaborati cambi di scena: si può benissimo raccontare l’intera vicenda con un accorto impiego delle luci e con qualche proiezione sul sipario di tulle per la scena di battaglia nel quarto atto e per quella specie di seduta spiritica che apre il terzo. L’importante è che i volti e i gesti dei personaggi siano ben illuminati anche quando « la luce langue » e che la recitazione sia sempre credibile e motivata interiormente. Andrea Cigni – un regista che ha saputo accortamente rinnovare uno spettacolo ideato in origine da Andrea De Rosa per il Circuito Lirico Lombardo – mostra di avere le priorità giuste e in diverse momenti riesce a suscitare un effetto forte con mezzi minimi, soprattutto quando è in scena la grandissima Lady Macbeth di Paoletta Marrocu: il soprano che – meglio di qualunque altro in questi ultimi decenni – è riuscito a costruire il personaggio partendo dalle inflessioni minime del testo di Piave e Maffei, fraseggiando con l’eloquenza di una grande attrice nel pieno rispetto del disegno musicale verdiano. In quest’occasione la cantante sarda ha delineato una moglie e regina sensuale e dominatrice e ha mostrato – Punto di forza del Belcanto Festival un po’ debole di quest’anno, Il viaggio a Reims di Rossini proposto dall’Accademia di S. Cecilia è stato un fragrante bouquet donato al settembre romano. E ha dimostrato, a fronte della Norma non eccelsa qui udita nel 2008, come oggi sia meno agevole metter su il capolavoro belliniano che il pur complesso « adieu » del pesarese all’opera italia- 88 colo » che metteva a confronto, sotto le splendide volte dell’Ateneo Romeno, autori di generazioni e stili diversi: i lavori meno recenti apparivano accomunati da un certa impronta neoclassica e folklorica, ad esempio nei cicli liederistici di Pascal Bentoiu, Valentin Timaru, Mihail Jora, o nei quartetti per archi (affidati all’ottimo Quartetto Florilegium) di Lucian Metianu, Maia Ciobanu, Fred Popovici. Altra aria si respirava nei concerti del Traiect Ensemble, votato alla sperimentazione elettronica; dell’Hyperion Ensemble, che ha eseguito pezzi di Costin Cazaban, Ana Maria Avram e Iancu Dimitrescu (storico esponente dell’avanguardia rumena e fondatore dell’ensemble) « per ensemble e suoni assistiti dal computer »; dell’Esemble Pro Contemporania, che ha eseguito Marty and Gloria di Irinel Anghel – performance dal gusto surrealista che metteva insieme una suonatrice di fisarmonica, chitarra e tastiera elettrica, dei bambini, un cerimoniere dall’enorme cappello, una donna con ventaglio, un robot telecomandato – e Il Gioco degli Innocenti di Mihaela Stanculescu-Vosganian, pezzo un po’ rocchettaro e pieno di interferenze stilistiche per due voci femminili, chitarra elettrica, violino e violoncello, violino. Di buon livello l’Orchestra Filarmonica della Transilvania, diretta da Sa- VERDI Macbeth L. Grassi, P. Marrocu, E. Turco, P. Spissu, A. Liberatore, M. Voleri, P. Toscano, F. Desini; Corale Luigi Canepa, Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa De Carolis, direttore Balázs Kocsár regia Andrea Cigni scene e costumi Alessandro Ciammarughi Sassari, Teatro Verdi, 7 ottobre 2009 Luca Grassi e Paoletta Marrocu con la piena complicità dell’ottimo concertatore ungherese Balázs Kocsár (anche lui un vero uomo di teatro) – come gran parte del ruolo può essere risolta tra il pianissimo e il mezzoforte, spiegando la voce solo nei climax più accesi. E ha rivelato quanta verità umana può trapelare dagli sguardi di questa donna: taglienti, imperiosi, pieni di desiderio e talvolta impauriti. Anche il personaggio di Macbeth va costruito con la massima dedizione, soprattutto per rendere l’estrema reattività di questo marito, re e assassino a tutto ciò che gli accade intorno. Per Luca Grassi – debuttante nel ruolo – il lavoro di costruzione è appena all’inizio: la voce è ben educata e traccia con intelligenza il percorso emotivo di « Pietà, rispetto, amore » nell’ultimo ROSSINI Il viaggio a Reims R. Feola, D. Barcellona, E. Gorshunova, E. Dehn, S. Yijie, D. Kortchak, M. Palazzi, N. Ulivieri, P. Bordogna, B. Quiza, P. Quiralte Gomez, M. Karahan Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di S. Cecilia, direttore Kent Nagano Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 21 settembre 2009 na. Kent Nagano per primo vi si è trovato a suo impeccabile agio. Diremmo anzi che questo ci è parso l’approccio direttoriale alla Cantata musica 211, novembre 2009 scenica rossiniana più interessante dopo Abbado. Tanto costui poneva in luce le matrici d’humour italiano e la « folie organisée », consuete en- scha Goetzel, che ha eseguito il Concerto per violino « Trinity » di Theodor Grigoriu, dominato da un morbido melos popolareggiante (solista Sherban Lupu); l’elettrizzante Concerto n. 2 per orchestra d’archi di Sigismund Todut˛ă (uno dei più grandi compositori romeni dopo Enescu, che ha anche studiato all’Accademia Santa Cecilia di Roma sotto la guida di Casella e Pizzetti), e l’applauditissimo Concerto per Sax e orchestra di Calin Ioachimescu, lavoro che richiedeva l’esecuzione (anche simultanea) di diversi sassofoni, offrendo cosı̀ al solista Daniel Kientzy l’occasione per una grande performance. Da vera star. Gianluigi Mattietti atto, ma la sua recitazione cattura la nostra attenzione solo a tratti e la figura che disegna trasmette le paure dell’uomo privato ma non la volontà prepotente di chi sa uccidere. Shakespeare e Verdi mettono a nudo questo personaggio davanti ai nostri occhi, ma Grassi – anche se a un certo punto si toglie la camicia – rimane metaforicamente vestito dall’inizio alla fine. Nel contesto di un approccio lirico e intimista al dramma (del tutto appropriato negli spazi raccolti del Teatro Verdi) il Banco di Enrico Turco ha funzionato molto bene, con grande umanità d’accento, e si sono fatti valere sia il Malcolm di Marco Voleri sia il Macduff di Alessandro Liberatore, emotivamente centrato e accolto con un caldo applauso dopo l’aria del quarto atto. L’Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa De Carolis ha risposto con apprezzabile duttilità e concentrazione espressiva al gesto sempre sicuro di Kocsár e il coro è riuscito a dare il giusto afflato a « Patria oppressa », mentre nelle scene delle streghe le voci femminili da sole avevano faticato ad unire la giusta precisione sonora alla necessaria incisività verbale (meno male che c’erano i sopratitoli!). Stephen Hastings trambe all’ambito buffo del Nostro, quanto l’altro ha evidenziato gli orizzonti a venire, che è a dire un’ironia già « à la française », certa leggerezza offenbachiana e, meglio ancora, quell’ondivago, ma vigile spirito da Grand Hôtel des Bains internazionale: ove gli ultimi detentori del buon gusto si radunano per ragionare del proprio amore all’eleganza, all’antico, alla poesia, alla siva ma di un’ispirazione « europea » e impressionista: in particolare, raramente ho trovato il conclusivo e un po’ travagliato « Chôrinho » cosı̀ ben saldato al resto della Suite. La serie dei Preludi ha confermato tutti i pregi di tale visione interpretativa, assecondando la maggiore caratura linguistica tramite un È davvero centrata la definizione di Aleko, prima delle tre opere compiute di Rachmaninov, che viene data nel programma di sala di questa serata conclusiva del 48º Stresa Festival: « una vera enciclopedia del teatro musicale russo ». Palesi, difatti, in quello che è il saggio finale del diciannovenne musicista, le influenze dei maggiori operisti russi, dagli « antichi » Glinka e Borodin nei numeri di danze, cori festosi e racconti (l’aria del vecchio zingaro) ai più vicini Mussorgski (il cui modello si sente palesemente nel coro finale) e – per ogni dove – l’amatissimo Ciaikovski, la cui ombra si staglia felicemente dietro al numero più celebre dell’intera opera, quella cavatina di Aleko che ha attratto i maggiori bassi di area slava, da Chaliapin in poi. Gianandrea Noseda – che ad inizio serata ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Stresa – si è buttato a capofitto nella partitura, sbalzata con passione e senso del teatro, seppure con tempi talvolta esageratamente convulsi, nella scansione quasi effettistica: il A detta di Michel Dalberto, già vincitore nel 1975 del Concorso « Clara Haskil » e succeduto nel 1991 a Nikita Magaloff alla Presidenza della Giuria, questa XXXIII edizione del Premio ha cercato proprio un musicista « alla Haskil ». Un’impostazione ideologica che guarda non solo allo stile d’esecuzione della grande pianista rumena naturalizzata svizzera, ma ma anche al repertorio che le diede gloria soprattutto nell’ultimo decennio circa di vita, a partire dal dopoguerra fino alla morte, avvenuta nel 1960. Un repertorio in cui dominavano incontrastati i grandi classici, Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, ma che guardava intensamente anche ai romantici Chopin, Schumann, e Brahms, che sperimentava l’originalità di Scarlatti come la timbrica di Debussy e Ravel. Niente di più lontano dalla tradizione del virtuosismo trascendentale tardottocentesco in cui la Haskil si era formata. 94 fraseggio ricco di rubati e di meditazione espressiva, appoggiato su un cantabile sempre nitido eppure liquido ed evocativo (in particolare nel terzo Preludio). La seconda parte del concerto si è aperta con il recentemente scoperto « ValseChôro », espunto dalla prima stesura della Suite, e proposto qui in dittico con il Chôros n. 1; una posizione in cui, a dire il vero, risalta ancor più l’estraneità del brano alla vena più schiettamente folclorica, mentre il suo carattere malmostoso lo rende forse maggiormente affine ai Preludi. Infine, gli Studi: coraggiosamente affrontati in fondo al lungo programma, eppure il con- RACHMANINOV L’isola dei morti; Aleko S. Vassilieva, S. Murzaev, G. Bezzubenkhov, E. Akimov, N. Vassilieva; Coro del Teatro Regio di Torino, BBC Philharmonic Orchestra, direttore Gianandrea Noseda Stresa, Palazzo dei Congressi, 5 settembre 2009 Gianandrea Noseda dirige Rachmaninov bellissimo preludio risultava poco nitido, cosı̀ come la « canzone » di Zemfira creava qualche problema alla bravissima Vassilieva, tanto survoltati erano gli accenti. Non va dimenticato, però, un supporto al canto generalmente eccellente e un gusto per il preziosismo timbrico e orchestrale che rende piena giustizia a una partitura in tal senso scintillante; e il cast – senza dimenticare il buon apporto di orchestra e coro – era all’altezza. Certo, la differenza fra i quattro solisti del Marinksy, Finale del Concorso Internazionale « Clara Haskil » (musiche di Beethoven e Mozart) pianoforte Nima Sarkechik, François Dumont, Adam Laloum Orchestre de Chambre de Lausanne, direttore Jesús López Cobos Vevey, Théâtre de Vevey, 3 settembre 2009 Perciò cercare un musicista nello stile della Haskil cosı̀ come la ricordiamo nel dopoguerra, significa voler individuare un pianista che pur avendo al suo arco tutte le frecce del virtuosismo non voglia distinguersi in senso stretto come tale, e che sia raffinato, anche come camerista, e mai incline all’esteriorità (la Haskil, si sa, collaborò con Grumiaux, con Casals, con Enescu). Da cui la scelta del Concorso di inserire, a partire da quest’anno, una prova semifinale di musica da camera. Al suono dei Concerti op. 37 e op. 73 di Beethoven e del Concerto K 491 di Mozart, la finale del Concorso si è giocata di fioretto tra concorrenti giovanissimi di età musica 210, ottobre 2009 compresa tra i ventidue e i ventisei anni, tutti di area francese (compreso il franco-iraniano Nima Sarkechik). Nonostante si vociferasse che la finale con orchestra fosse un po’ sottotono, vuoi per la tensione dei concorrenti, vuoi per problemi di acustica della sala, la vittoria, meritatissima, è andata al più giovane dei finalisti, il pianista Adam Laloum, interprete di squisita sottigliezza del Concerto in Do minore K 491 di Mozart. Fin dalla scarna entrata « a fantasia » del Concerto, la sua capacità di sentire la musica, in un suonare vivo e nervoso, nello stesso tempo intimo e delicato, lo hanno subito distinto dagli altri concorrenti. L’intensità raccolta con cui intonava gli intervalli, incline al sussurro, come certista non ha ceduto un passo in termini di freschezza digitale, di energia espressiva (vedi gli Studi nn. 4, 10, 11) e di acume interpretativo. Meritatissimi dunque i convinti applausi, che hanno indotto Dieci a concedere ancora due bis. Roberto Brusotti pur bravi, e la splendida Svetla Vassilieva era notevole: la freschezza del suo fraseggio, l’insinuante sensualità dell’accento, la bellezza del canto disegnavano una Zemfira virtualmente perfetta e facevano avvertire il fossato che la divideva da uno stile più tradizionale e melodrammatico. Palese, in tal senso, l’esempio del baritono Murzaev che, pur cantando complessivamente bene, ricorreva ai gigionismi di tradizione senza scavare davvero la psicologia di Aleko. La serata, che ha avuto un esito trionfale, si era aperta con una lettura de L’isola dei morti sbalzata in un unico blocco tesissimo, davvero arroventato: se il rilevo dei dettagli andava fatalmente perduto, grande merito di Noseda è l’essere riuscito a tendere un unico arco per gli oltre venti minuti del brano, dando il massimo rilievo ai ritorni tematici, senza nessuna concessione alle bellurie sonore e ai facili effettismi. Una grande, ed originale, interpretazione. Nicola Cattò l’espressività di ogni singola nota persino nelle scale ornamentali, denotava una capacità non comune di comunione con il suono. Pur non impeccabile, l’esecuzione è stata in crescendo ed è culminata nel Finale, Allegretto in forma di tema con variazioni, particolarmente interessante negli episodi contrappuntistici e ritmicamente innervati, come nella trascinante coda. Successo già in parte conquistato da Laloum nelle precedenti prove, con notevoli interpretazioni di Kreisleriana op. 16 di Schumann e del Quintetto op. 34 di Brahms. Nulla, quindi hanno potuto l’efficientismo del brillante François Dumont, interprete convinto del Quinto Concerto di Beethoven, come la capacità coloristica di Nima Sarkechik, che nel beethoveniano Concerto op. 37 ha accusato i segni tangibili della tensione connessa con la realtà di una finale di concorso . Silvia Limongelli