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210
Zecchini Editore
RIVISTA DI CULTURA MUSICALE E DISCOGRAFICA - OTTOBRE 2009
90210
9 770392
554009
PUBBLICAZIONE MENSILE - ISSN 03925544
JAN
VOGLER
Incontro con il grande
violoncellista, fantasioso
animatore della vita
musicale di Dresda
L’ARMIDA
DI HAYDN
La maga di Tasso rivive
in disco nelle voci
della Janowitz,
della Norman e della Bartoli
SERAFINO
ROSSI
Parla il fondatore
della Tactus, casa
discografica votata
alla più nobile italianità
felix
mendelssohn
a duecento anni dalla nascita
6.90 Frs.15.- Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB (VARESE)
&sommario
musica210 - ottobre 2009
COMPOSITORI
Il giovane Mendelssohn tra un ridente
paesaggio e un luogo maledetto
30
di Piero Rattalino
RUBRICHE
7
8
10
12
14
16
FRANZ JOSEPH HAYDN
Gli approdi discografici
dell’altra Armida
37
24
28
VIOLONCELLISTI
47
Intervista a Jan Vogler. Luoghi e tempi 43
di un musicista contemporaneo
48
di Luca Segalla
85
86
di Marco Leo
96
Editoriale
Indice delle recensioni
Negozi che fanno cultura
Recite, Recital, Concerti
Letture musicali
Attualità
16 Intervista a Serafino Rossi
18 Intervista a Frank Feitler
20 Intervista a Alexandre Dratwicki
22 La polemica di Costantino Mastroprimiano
22 Ci hanno lasciato
Vetrina CD
I retroscena di Enrico Stinchelli
I dischi 5 stelle del mese
Le recensioni di MUSICA
Etichette e distribuzione
Dalla platea
Le recensioni di concerti e spettacoli a Ascona, Bergamo, Helsinki, Jesi, Merano, Montecarotto, Pafos,
Pesaro, Rimini, Salisburgo, Stresa, Trisobbio, Verbier,
Vevey, Vienna
Abbonamenti
Hanno collaborato a questo numero: Emanuele Amoroso, Michael Aspinall, Luisa Bassetto, Marco Bellano, Carlo Bellora, Giancarlo Bernacchi, Paolo Bertoli, Marco Bizzarini,
Claudio Bolzan, Michele Bosio, Vera Brentegani, Roberto Brusotti, Alberto Cantù, Riccardo Cassani, Nicola Cattò, Benedetto Ciranna, Luciano Clemeno, Roberto Codazzi, Gianni Gori, Stephen Hastings, Marco Leo, Silvia Limongelli, Mario Marcarini, Gianluigi Mattietti, Alberto Mattioli, Antonello Mattone, Maurizio Modugno, Gregorio Nardi, Aldo Nicastro, Andrea Ottonello, Stefano Pagliantini, Giuseppe Pennisi, Marzio Pieri, Carlo Porro, Giorgio Rampone, Piero Rattalino, Riccardo Risaliti, Luca Rossetto Casel, Giuseppe
Rossi, Luca Segalla, Franco Soda, Enrico Stinchelli Alessandro Taverna, Lorenzo Tozzi, Massimo Viazzo, Giovanni Vitali, Paolo Zecchini, Roberto Zecchini, Annely Zeni
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79), Berlin, Deutsches Historisches , Museum (copertina), A. Chemollo
(20b), Michele Crosera (12), Decca / Uli Weber (38c), DG (38a, 38b),
Discoland (10), Ghielmi / Pianca (67), Sasha Gusov (43-44b), Jan Gutzeit (5b, 46), Costantino Mastroprimiano (22a), Met (28a), Museo Nazionale Giuseppe Verdi (16a), Christophe Olinger (18b), Orchestra
Haydn Orchester (20a), Phoenix / Matassa (70), Eric Richmond (72), Serafino Rossi (16b), Settimane Musicali di Stresa (94), Courtesy Stuart-Liff
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editoriale &
e si leggono le missive che Mendelssohn scrisse a famigliari e amici durante il suo
soggiorno romano all’inizio del 1831, l’impressione che se ne ricava della vita
musicale è desolante: nessun’attività sinfonica; un teatro d’opera dove i cantanti
erano di second’ordine e gli orchestrali incapaci di rispettare i requisiti minimi di
intonazione e precisione ritmica; un pubblico che accoglieva con plauso le manifestazioni artistiche più mediocri. Se poi si ascolta la pagina orchestrale – più rapinosa nel suo respiro sinfonico di qualunque ouverture di Donizetti o Bellini –
che apre l’opera comica, Der Onkel aus Boston, che Mendelssohn aveva scritto quasi un
decennio prima, all’età di tredici anni, si coglie appieno il divario che esisteva allora fra la vita musicale di certe città tedesche e quella della futura capitale d’Italia. Negli ultimi centottant’anni quel divario è stato in parte colmato grazie alla visione, alla fantasia creativa e alla
volontà professionale di musicisti e amministratori del bene pubblico nel nostro Paese. Ma certe differenze
profonde rimangono. Non capita quasi mai, in Italia, che un festival musicale di primaria importanza venga affidato a un interprete cosmopolita dalla mentalita` aperta, come è successo in Germania al grande violoncellista Jan Vogler: un berlinese che vive a New York e che gestisce ora con coraggioso entusiasmo quell’imponente istituzione culturale che e` il Dresdner Musikfestspiele. E non succede mai in Germania che
un ministro in carica del governo federale inciti il suo uditorio all’odio – non nei confronti di mafiosi o truffatori, ma di coloro che si dedicano professionalmente all’arte musicale nelle sue forme piu` evolute. Come
ha fatto, in Italia, il Ministro Brunetta, suscitando sconcerto non tanto per le questioni sollevate – perche´
sappiamo tutti che nella vita musicale come in molti altri ambiti della nostra societa` ci sono individui e
gruppi di persone che abusano delle loro posizioni privilegiate – ma per l’assoluto disprezzo con cui liquidava intere categorie professionali. Un disprezzo che non comunica nessuna volonta` riformatrice ma una
smania distruttiva affine a quegli impulsi irresponsabili che fecero liquidare, negli anni novanta, tre orchestre della RAI e quel glorioso teatro di tradizione che fu il Comunale di Treviso e che ora stanno minando
le potenzialità produttive di un altro ente musico-teatrale, il Luglio Trapanese.
Meglio l’odio che l’indifferenza o l’amore ipocrita, dira` forse qualcuno. Del resto le manifestazioni più
estreme dell’amore e dell’odio sono spesso quasi indistinguibili e chiunque abbia vissuto una lunga convivenza sa quanto sia facile passare da un polo emotivo all’altro. Simili estremismi hanno pero` poco a che fare con l’amore più profondo e autentico, come dimostra la vicenda – italianissima e sempre attuale – di Armida e Rinaldo, messa in musica da Haydn a Esterha´za nel 1784. La voglia di tenere incatenato a se´
l’oggetto amato o di cedere all’effetto dopante di un’infatuazione esclusiva sono all’opposto del ruolo liberatore svolto da chi ama il prossimo senza vincoli e senza paure. E su questa verita` deve riflettere anche chi
– come noi – descrive e commenta la realtà musicale, spingendoci a mantenere quella costante, vigile attenzione che permette di distinguere tra chi fa musica amandola e chi la fa come semplice routine. Anche se il
routiniero è circondato da una fama consolidata e l’interprete ispirato e` del tutto sconosciuto.
A questo proposito va chiarito il nostro criterio nell’attribuire le stelle alle incisioni discografiche. A volte ci
viene detto – e ci diciamo – che siamo eccessivamente generosi; che scarseggiano troppo i voti minimi rispetto a quelli massimi. Si tratta in effetti di un rischio reale quando l’entusiasmo per il qui e ora di un’esecuzione musicale offusca i ricordi e i termini di paragone. Ci sono tuttavia pure dei motivi piu` razionali che
spiegano l’apparente disequilibrio. Il primo e` che assegniamo le stelle anche a quelle registrazioni storiche –
diventate in alcuni casi di riferimento – che in altre riviste europee tendono a essere trattate in rubriche a
parte. Il secondo è che ci sembra francamente inutile infierire sulle produzioni meno riuscite delle etichette
minori: in casi simili non recensiamo mai il disco a meno che il repertorio non sia di primario interesse.
Mentre è assolutamente doveroso segnalare le imprese fallite di artisti blasonati e economicamente privilegiati, pur riconoscendo che chi critica pubblicamente debba accogliere a sua volta le riserve e le obiezioni di chi
legge. Per questo motivo invito tutti coloro che hanno dimestichezza con internet a sfruttare quel luogo
apertissimo di discussione che e` il forum di MUSICA sul sito www.rivistamusica.com.
Stephen Hastings
S
&negozi che fanno cultura
Un negozio fornitissimo in via Migliorati a Reggio Emilia, ma anche
un canale di vendita per corrispondenza attraverso il sito internet
www.discolandmail.com. Due sono i motivi per interrogare Paride
Bonetta su una delle più importanti realtà commerciali italiane nell’ambito del disco classico.
Nove domande a...
Paride Bonetta di
Discoland
Qual è la storia del Suo negozio?
Discoland ha una storia molto lunga. È stato fondato dal Dott. Mamoli nel 1964 e da subito ha avuto
un’immagine molto ben definita:
prodotti di qualità, serietà nel rapporto con il cliente, ricerca di etichette e « musiche » sempre nuove e
stimolanti. In effetti, Discoland è
sempre stato un negozio specializzato, anche quando si vendeva musica
commerciale: avere un grande assortimento di classica, jazz e musica
etnica in quegli anni era veramente
atipico, soprattutto in una piccola
città di provincia come era allora
Reggio Emilia. Alla fine degli anni
ottanta abbiamo definitivamente separato i settori « musica colta » e
« musica commerciale » aprendo un
secondo punto vendita.
Dal 1995 si è deciso di concentrare
tutto i nostri sforzi solo sulla musica
« di qualità » anche perché proprio
in quell’anno è iniziata una nuova
stimolante avventura, che ha rappresentato il nostro più significativo
sforzo imprenditoriale: fondare una
nuova azienda dedita alla vendita
per corrispondenza. Discoland mail
opera in modo sostanzialmente
autonomo dal negozio e ha portato
il nostro modo di proporre musica
ben al di fuori dei confini cittadini.
10
Quali generi di musica classica vendono meglio?
Il barocco l’ha fatta e la sta facendo
da padrone anche per il numero veramente poderoso di CD dedicati a
quel periodo musicale usciti negli
ultimi anni, poi la musica dei primi
decenni dell’Ottocento e del Novecento anche perchè in quei decenni
hanno operato dei veri colossi della
storia della musica
Quali sono i dieci CD/DVD di musica
classica più venduti negli ultimi due
mesi?
I prodotti che hanno riscosso le migliori performance di vendita sono
state le integrali di Brahms (DG), la
Karajan Edition ( DG ), la Haydn
Edition (Brilliant), il CD Decca di
Alessandro Carbonare The Art of
Clarinet che abbiamo venduto benissimo in tutto il mondo, il cofanetto di Sinopoli dedicato alla seconda Scuola di Vienna (Warner
Classics), la viola celtica di Savall, i
Concerti per pianoforte di Chopin incisi da Lang Lang. Tra i DVD sono
state veramente incoraggianti le
vendite dei Concerti Brandeburghesi
dirette da Abbado e registrati nel
bellissimo ed vivacissimo Teatro
Valli di Reggio Emilia. Comunque
mi rimane difficile stilare una vera e
propria classifica in quanto, a parte
casi eclatanti (le incisioni di Pollini,
Abbado, Savall), il mercato della
classica è fatta di tantissime piccole
vendite.
musica 210, ottobre 2009
Le scelte dei clienti sono condizionate di più dagli interpreti o dal repertorio?
Per quanto riguarda il repertorio
consolidato, per intenderci i Beethoven-Brahms-Mozart... gli interpreti sono certamente la molla che
fa scattare l’intereresse dell’appassionato. Per il barocco, la musica
contemporanea ed antica, direi che
il repertorio è stato il fattore determinante per la vendita. Gli appassionati dimenticano che negli anni
ottanta, prima del CD, il repertorio
inciso era enormemente – e sottolineo enormemente – più esiguo di
adesso. Di moltissimi musicisti non
vi era nulla di registrato, ma anche
dei grandi non è che si trovasse
tanto come ora. Vorrei segnalare
che sul sito web abbiamo inserito,
dal ’95 ad oggi, oltre centottomila
referenze e che il catalogo attivo di
CD di musica classica è di oltre cinquantamila prodotti differenti.
Solo da pochi anni gli appassionati
puntano l’occhio sugli interpreti
anche per il repertorio barocco,
forse perché, finalmente usciti dalla
novità delle interpretazioni « musicalmente consapevoli », si comincia
a distinguere tra chi ha una credibilità interpretativa da chi mette
una nota dietro l’altra giusto per
arrivare alla fine del CD . Il terzo
fattore che quasi mai viene considerato è il fascino che esercitano
alcune etichette sul cliente: per intenderci, i CD ECM hanno un pubblico che li acquista molto spesso a
prescindere.
Il repertorio barocco e antico eseguito
su strumenti originali attira un diverso
tipo di cliente?
Negli anni ’80 e ’90 certamente si,
ora non più. Finalmente è terminata la diatriba tra quelli che amavano le esecuzioni « tradizionali » e la
prassi filologica. Dico finalmente
perché non se ne poteva più di
sentire acritiche e spesso immotivate difese di una prassi piuttosto che
di un’altra. L’esecuzione deve avere
una sua tensione, una sua credibilità interiore, se non ce l’ha non è
un problema di Furtwängler o
Brüggen: non ce l’ha e basta. L’unica cosa che mi pare di poter dire
è che la prassi filologica ha spazzato
via molti di quei luoghi comuni
che costituivano la retorica della
musica classica, ha tolto quella patina di stantio, ha riaperto e dato
aria ai cassetti. E a seguito di questo cambiamento è arrivato un
nuovo cliente....fondamentalmente
giovane.
Tra i dischi venduti, che rapporto c’è
tra le ristampe e le novità assolute?
La grande quantità di uscite degli
ultimi anni hanno decisamente
orientato il cliente verso un acquisto più legato alle nuove produzioni anche per i motivi che dicevo
sopra : nuovi autori, etichette, interpreti. Le ristampe sono poi il rimanente 50% del mercato, soprattutto se proposte a un prezzo « corretto ».
Che peso ha il prezzo nella scelta degli
acquisti?
Non escludo che il prezzo possa
inibire gli acquisti di CD a prezzo
pieno, ma se il prodotto è valido e
viene correttamente pubblicizzato,
io credo non ci siano particolari
problemi. Diverso è invece il far capire al cliente quanto lavoro c’è
dietro la produzione di un CD e di
conseguenza il perché un disco esce
a prezzo pieno. Se poi mi vuol
chiedere se certi prezzi super budget
corrispondono al vero prezzo del
CD le rispondo di no. Un prezzo di
vendita troppo ribassato favorisce,
magari, un certo tipo di vendita, ma
disorienta il cliente. Il prezzo di
vendita deve essere il più vantaggioso possibile, ma nei limiti della ragionevolezza.
Il mercato dei DVD è ancora in
espansione?
Direi che dopo una crescita prudente, ma inesorabile anno dopo anno,
ora ci troviamo un una situazione di
equilibrio, e comunque, soprattutto
per la lirica il DVD è diventato il
supporto più importante.
Com’è l’andamento delle vendite via
internet?
La vendita per corrispondenza segue, con numeri ovviamente molto
più alti, l’andamento del mercato.
La differenza tra il negozio e il mailing sta nel più ampio spettro di richieste che ci arrivano dai clienti
che acquistano per corrispondenza.
Nel mailing la specializzazione viene temperata da un altissimo numero di richieste di prodotti di etichette classiche più popolari e di brani
più basic. E poi le copie vendute per
singolo prodotto sono spesso molto
differenti: ricordo sempre con piacere le 530 copie vendute dell’integrale delle sonate di Beethoven eseguite da Backhaus, le quasi 300 copie delle Sinfonie di Beethoven dirette da Abbado, ma anche i 97mila
CD Naxos venduti.
Nicola Cattò
&letture musicali
Alberto Cantù, David Oistrakh. Lo
splendore della coerenza, Zecchini
Editore, Varese 2009, pp. 241,
E 20,00.
Piero Violante, I papillons di Brahms,
Sellerio, Palermo 2009, pp. 247, E
18,00
Comincia subito con un paradosso il
terzo portrait di Alberto Cantù nella
grande galleria del violino: che il virtuosismo non sia, in Oistrakh, condizione primaria, ma valga « come una riserva di energia, come una carica da utilizzare solo eccezionalmente o in modo
funzionale ma di cui essere certi ». Il Re
David dal fisico massiccio e dalla beata
paciosità sembra navigare con la forza
del perfetto equilibrio al di sopra delle
stesse risorse virtuosistiche. Di qui lo
« splendore della coerenza » che nel
ventennio e oltre dell’ultimo dopoguerra ne fa il violinista principe per
fortune non solo concertistiche, ma anche radiofoniche e discografiche: il Re
David, che diventando Re Mida trasforma in capolavori di forma anche pagine come il Concerto di Khachaturian
(uno dei miei primi gloriosi LP).
La bellezza di queste monografie violinistiche affidate alle mani sapienti di
Cantù non è solo nel ritratto di una
personalità di interprete (ritratto che più
plastico non si può) ma anche nella capacità di percorrere l’arco della storia
dell’Unione Sovietica dal fosco scenario
staliniano al disgelo; e ancora di seguire
analiticamente la carriera del violinista
attraverso il rapporto con gli altri grandi
violinisti, da Heifetz al più giovane
Leonid Kogan, le cui fortune, contrastate dall’intolleranza antisemita, erano
state incoraggiate da Oistrakh; infine la
chiarezza narrativa e critica dell’autore
nell’offrire al lettore, prima ancora della
ricca appendice di documenti sonori a
cura di Carlo Bellora, un continuo ordito di riferimenti discografici e di testimonianze d’ultima generazione.
C’è un filo rosso a legare i venti saggi
racchiusi in questo libro di Piero Violante (a partire dal primo che dà il titolo alla pubblicazione), e tal filo si rintraccia nella centralità che Vienna e la
sua tradizione storica assumono nel corpus della moderna musica europea.
Studioso emerito della Mitteleuropa,
Violante fa luce sul percorso che dalla
Wiener Klassik portò, attraverso tappe
intermedie (vedi il saggio su Zemlinsky), alla problematica avventura dei lari
novecenteschi e a ciò che ne è conseguito in termini di esperienza contemporanea. Ma è sorprendente come tale
esperienza non vieti il riconoscimento
di una sorta di liaison mai da alcuno
pronunciata con la Parigi di Cocteau e
dei Sei; e mi pare che ivi riposi il tratto
di maggior originalità del lavoro dello
scrittore. Si leggano in merito i saggi
Tre passi nella modernità e Souvenir de
Vienne, fra i più intelligenti di cui la letteratura musicale italiana oggi possa godere; ma non meno che delizioso è
quello che ha a titolo Lady in the Dark,
in cui Violante tenta con invidiabile
coraggio la difesa d’ufficio di un compositore che il severo oltranzismo di un
Webern aveva con sprezzo escluso dal
novero dei raccomandabili, ossia Kurt
Weill. La prosa vi è intrigante almeno
quanto le argomentazioni; e un piccolo
estratto di p. 158 varrà a farne testo:
« Se si ascoltano in sequenza My Shup
da Lady in the Dark e Ein Schiff dalla
Dreigroschenoper si sente quanto distante
sia la nave americana dalle vele di seta
dell’antica nave berlinese con otto vele.
Ma in questo passaggio [...] si consuma
il destino di uno dei musicisti più geniali del ventesimo secolo ».
g.g
a.n.
Massimo Mila, I Quartetti di Mozart,
(Introduzione di Giovanni Morelli)
Piccola Biblioteca Einaudi, Torino
2009, pp. 90, E 15,00
Finzi, Collected Songs – 44 Songs including 7 Cycles or Sets (high voice),
Boosey & Hawkes, Londra 2008,
pp. 170, $ 22,95
Si tratta del primo corso di laurea tenuto da Mila all’Università di Torino nel
1962, un lavoro ricco di informazioni
presentate con uno stile rigoroso e sagacia, quasi una guida all’ascolto da consultare all’uso. Il volumetto è diviso in
cinque sezioni precedute da un inquadramento introduttivo (sezione più corposa quella che analizza i quartetti dedicati ad Haydn). Non troviamo esempi
musicali, ma l’esposizione è infarcita di
citazioni tratte dai classici commenti di
De Wyzéwa e De Saint-Foix, Abert,
Einstein (a volte confermati, a volte
smentiti), seguendo una traiettoria evolutiva che porta l’autore a rilevare, per
esempio, la comparsa per la prima volta
della forma sonata nell’ultimo movimento di un quartetto (Quartetto K
160), oppure la freschezza quasi operistica dei lavori del periodo italiano o
ancora il modo d’usare la scrittura contrappuntistica « perfino nei Minuetti »
nel primo periodo viennese. Ma Mila sa
anche ridere sotto i baffi mettendo in
guardia dai pericoli di un’interpretazione troppo descrittiva, stigmatizzando
come « incredibile interpretazione » ciò
che scrive nel 1927 Thomas F. Dunhill
a proposito del secondo tema del primo
movimento del Quartetto K. « La bizzarra melodia sembra quasi essere suggerita dai suoni che emanano da un
pollaio! Certamente questo è il chiocciolio di molte galline in differenti
chiavi [...] la più bella musica da cortile
che sia mai stata composta! ». O come
quando riporta la critica negativa di un
recensore viennese: « I suoi nuovi quartetti dedicati ad Haydn sono di gran
lunga troppo ricchi di spezie perché si
possano gustare a lungo ».
Come ho già lamentato in altre occasioni, le canzoni di Gerald Finzi sono poco
conosciute al di fuori dei paesi anglofoni; quest’ampia antologia, che comprende oltre la metà (frammenti esclusi) della
produzione liederistica del compositore
londinese, può essere un’utile occasione
di approfondimento, magari in combinazione con una delle (non molte) monografie discografiche disponibili sul
mercato, come il sempre valido doppio
album Hyperion di cui recensiremo la
ristampa sul prossimo numero.
Tra le raccolte di Finzi viene data qui
preferenza a quelle postume, allestite
dagli editori accorpando il vasto lascito
di inediti trovato tra le carte del compositore alla sua morte prematura, il 27
settembre 1956. Si tratta di Till Earth
outwears e I said to Love, entrambe su
poesie del prediletto Thomas Hardy, e
delle miscellanee Oh fair to see e To a
Poet. Esse sono affiancate dal primo vero successo di Finzi, il ciclo in due parti
A Young Man’s Exhortation (sempre da
Hardy), e da due collezioni da Shakespeare, Let us Garlands bring e le canzoni
da Love’s Labour Lost. Più di metà dei
Songs sono presentati nella tonalità originale; quelli scritti per un registro più
grave sono stati trasposti in modo quasi
sempre ragionevole (forse solo « At
Middle-Field Gate in February » e un
paio di canzoni shakespereane risultano
un po’ troppo « schiarite »).
La stampa è sempre molto leggibile,
presentando in particolare con molta
chiarezza le varianti previste da Finzi; A
Young Man’s Exhortation utilizza una soluzione tipografica un poco più « old
fashioned », evidentemente risultando
da una semplice ristampa.
m.v.
14
musica 210, ottobre 2009
r.b.
&attualità
Gustav Kuhn presenta la nuova
stagione dell’Orchestra Haydn
& Otto prime assolute
per festeggiare
l’Orchestra Haydn
La Stagione 2009-10 dell’Orchestra
Haydn di Bolzano e Trento – la
cinquantesima dalla sua fondazione –
si presenta ancora all’insegna di
Haydn, già ricordato nella precedente stagione con ben nove delle sue
sinfonie, cui ora si aggiungono la n.
39, e le classiche « Londinesi » nn. 92,
100 e 103. A sottolineare la perdurante attualità di Haydn e il suo
ruolo di padre fondatore della musi-
Un angolo di Francia a Venezia
Una suggestiva immagine del Palazzetto Bru Zane a Venezia
Il tre ottobre, con l’apertura del Festival « Le origini del Romanticismo
francese », inizia ufficialmente l’attività
di produzione concertistica del Palazzetto Bru Zane a Venezia, un centro
di ricerca musicologica, dedicato all’Ottocento francese, che promette di
essere una delle iniziative culturali più
importanti di questi anni. Ne parliamo con Alexandre Dratwicki, il direttore scientifico.
Ci descriva l’avventura del Palazzetto
Bru Zane: qual è la sua storia, quali i
suoi obiettivi?
Quando nel 2005 Nicole Bru, tramite la Fondazione Bru, ha deciso di acquistare il Palazzetto Zane, l’ha subito
visto come un luogo ideale per la
musica; si trattava, di fatto, di una sala
da ballo. Ma Madame Bru non voleva semplicemente realizzare una sala
da concerti, come tante altre, ma ha
immaginato che le molte stanze che
20
contornano la sala da ballo principale
potessero adempire ad altri scopi e
che, quindi, tutto il complesso potesse soddisfare delle esigenze complementari. Ecco quindi che le è stato
proposto di creare un centro di ricerca musicale, che associasse la ricerca
musicologica e la produzione di concerti; inoltre, poiché la sala non è cosı̀
grande, si è subito avvertita la necessità
di stringere delle collaborazioni perché
le manifestazioni si svolgessero anche
in altri luoghi, a Venezia e all’estero.
A pochi passi dal Palazzetto, d’altronde, c’è la Scuola Grande San Giovanni
Evangelista, la cui sala è perfetta per accogliere grandi complessi cameristici o
piccole orchestre. Quando poi è stato
il momento di decidere a quale repertorio dedicarsi, si è creduto opportuno
concentrarci sulla musica francese. La
signora, del resto, ha goduto dei consigli del direttore Hervé Niquet, il quale
musica 210, ottobre 2009
ca sinfonica sono stati commissionati
otto nuovi lavori ad altrettanti compositori, tutti ispirati a Haydn. I nomi sono: Alberto Colla, Silvia Colasanti, Michele dall’Ongaro, Matteo
D’Amico, Girolamo Deraco, Ivan
Fedele, Roberto Molinelli e Giovanni Sollima. Dulcis in fundo, il concerto straordinario di Claudio Abbado a capo delle Orchestre Haydn e
Mozart unite, che presenteranno a
Bolzano, il 31 ottobre e a Bologna
la Sinfonia n. 7 di Bruckner e il
Concerto per violino di Alban Berg.
www.haydn.it
& Bychkov e le sorelle
Labèque inaugurano la
stagione 2009-2010 di
Lingotto Musica
Il prossimo 24 ottobre si terrà, nel-
ha fatto notare che sulla musica francese dell’Ottocento ci sono ancora grandi lacune e creare un centro simile a
Venezia sarebbe stata una bellissima
idea, poiché il Romanticismo francese
è completamente impregnato d’Italia,
attraverso il « Prix de Rome » e la presenza dei grandi operisti italiani a Parigi. Ecco quindi perché l’Ottocento
francese è l’ambito di lavoro del Palazzetto Bru Zane.
Come è organizzata la Fondazione?
Come si dividono i ruoli?
Occorre una premessa. Nel 2005 Madame Bru ha creato la Fondazione
Bru, che sostiene progetti umanitari e
culturali di ogni tipo; nel 2007 è stata
derivata una Fondazione « figlia », di
diritto italiano, che è, appunto, la
Fondazione Palazzetto Bru Zane. I
due ambiti di lavoro principali sono
la ricerca e la programmazione, la seconda dipendente dalla prima, a sua
volta motivata, talora, da festival o
occasioni di esecuzione. Io sono il direttore scientifico responsabile delle
pubblicazioni, delle registrazioni e
della parte musicologica, mentre Olivier Lexa è il direttore generale, responsabile dell’aspetto economico,
della gestione delle partnership e della
diffusione e programmazione dei
concerti; in questo ultimo aspetto è
coadiuvato da mio fratello, Benoı̂t
Dratwicki, che si occupa degli artisti,
dei programmi e di tutti i dettagli.
Lei ha dichiarato che « dopo la grande
avventura della riscoperta del Barocco,
adesso è il turno del repertorio romantico francese ». Possiamo dire che si
l’Auditorium torinese, il primo degli
otto concerti che costituiscono la stagione 2009-10 della prestigiosa associazione: l’onore spetterà al direttore
russo Semyon Bychkov e alle sorelle
Labèque, Katia e Marielle, moglie di
Bychkov. Sui leggii della WDR Sinfonieorchester Köln il Concerto per due
pianoforti di Mendelssohn e la gigantesca Alpensinfonie di Richard Strauss.
La stagione completa su www.lingottomusica.it
& Il XV Festival
Lodoviciano
Come ogni anno torna l’appuntamento con la rassegna, diretta da
Giovanni Battista Columbro, dedicata a Lodovico da Viadana. L’edizione 2009 avrà per titolo « Il Quinto
Cielo di Marte » (Dante paragona i
tratta di partiture poco o male conosciute?
È importante precisare che la missione del Palazzetto non è un’idea che
sorge dal nulla: almeno da venti-trent’anni anni musicologi e direttori
d’orchestra, in tutto il mondo, lavorano in tal senso, però sono azioni spesso con una connotazione molto locale, oppure limitate da problemi economici, e che difficilmente possono
dare luogo a un’affermazione di queste partiture nel repertorio corrente e
nella coscienza generale. Noi vogliamo
raggruppare e coordinare le energie di
tutte le persone che hanno lavorato, e
lavorano, su questi temi; bisogna tuttavia riconoscere che da qualche anno i
teatri d’opera in Francia stanno ricominciando a programmare opere come
Gustave III di Auber, o Charles VI di
Halévy, la Juive all’Opéra di Parigi,
l’Africaine a Strasburgo e Marsiglia, gli
Huguenots a Metz... Lo interpreto come un ritorno di interesse per l’Ottocento, tanto più significativo se si nota
come, ormai, il Barocco francese ha
conquistato nei cartelloni una presenza
costante: anche direttori e registi si dirigono sempre più verso il Romanticismo francese. Ci sono compositori oggi totalmente sconosciuti, che sopravvivono solo come nomi – come Dubois – di grande valore.
Questo vale per l’opera e la musica
sinfonica...
E quella da camera! Al Palazzetto la
sala è adatta soprattutto per recital
pianistici, trii e quartetti d’archi, concerti di romances. Tornando alla musica poco nota, il genere del Concerto
per pianoforte e orchestra si riassume,
&i retroscena
di enrico stinchelli
Caro tenore, ti scrivo...
Giuseppe di Stefano con Rudolf Bing
Il 13 ottobre del 1952, Sir Rudolf
Bing, general manager del Metropolitan di New York, scrive al tenore
Giuseppe di Stefano che chiede di
saltare le prime due settimane di
prove di un nuovo allestimento di
Bohème (che andrà in scena il 29
dicembre) per poter partecipare a
alcune recite della stessa opera alla
Scala: « Lei non ha ancora idea di
cosa io intenda quando parlo di
‘‘nuove edizioni’’ e di ‘‘modo nuovo di affrontare gli aspetti teatrali
dell’opera lirica’’ [...]. Le avevo
detto che la Bohème di quest’anno
sarà tutta nuova, e che per questo
ho scritturato uno dei maggiori registi cinematografici dei nostri tempi [Joseph L. Mankiewicz, n.d.r.].
Il fatto che Lei abbia interpretato la
Bohème tanto spesso peggiora notevolmente la situazione, perché se la
nuova edizione deve essere buona,
credo che niente di quanto Le è
consueto nel recitare sarà utile [...].
Dovrete disimparare quello che sapete e imparare nuovi modi di
muovervi e di gestire. Avevo sperato che queste possibilità Le interessassero, perché possono trasformarLa da un ottimo cantante in un
ottimo artista, invece, a quanto pare, Lei pensa soltanto di guadagnare qualche dollaro in più alla Scala
e a risparmiarsi le prove ».
28
È un cambio di prospettive storico,
quello proposto dalla dura lettera di
Bing a uno dei più celebri cantanti
dell’epoca. Il regista, d’ora in poi,
influirà sempre di più rispetto ai divi del canto. E gradualmente si capovolgono anche i budget: la parte
vocale, un tempo preponderante,
passa a valere oggi tra il 13 e il
19% nell’economia generale di un
allestimento, mentre regı̀a scene e
costumi arrivano a costituire la voce in capitolo più sostanziosa.
Un’opera lirica costa tantissimo.
Nel 1991 il Teatro alla Scala investiva in media seicento milioni di
lire per ogni spettacolo, cento milioni in più rispetto al Metropolitan
di New York (che però allestiva il
musica 210, ottobre 2009
triplo di recite in un anno rispetto
al tempio milanese). Oggi il costo
medio è salito parecchio, sfiorando
per l’Italia qualcosa come cinquecentomila euro a spettacolo, di cui
a volte solo il 5% viene coperto dagli incassi. Non a caso la maggioranza delle Fondazioni liriche in
Italia versa in tragiche condizioni di
passivo, rischiando seriamente la
chiusura. E stiamo ancora parlando
di medie, poiché vi sono spettacoli
(certi, temibili, nuovi allestimenti)
che possono arrivare a costare anche quattro o cinque milioni di euro, a fronte di cachet singoli per il
regista-divo che raggiungono l’esorbitante cifra di cinquecentomila
euro ad allestimento. Il deficit, in
tali casi, non è che un’ovvia conseguenza.
Per molti il tenore è il cantante più
pagato per antonomasia, anche se è
solo dagli anni ottanta del Settecento, quando Giacomo David riuscı̀ a
ottenere maggiori cachet dei castrati
scritturati per le stesse opere, che i
cantanti di questo registro possono
rivaleggiare economicamente con i
soprani. E ben pochi tenori sono
riusciti a avvicinarsi ai guadagni
dell’irlandese John McCormack,
dedito più all’attività concertistica
che a quella teatrale e nominato
conte nel 1924 da Papa Pio XI. In
una carriera più che trentennale
(1906-1938) arrivò a possedere dodici Rolls Royce, una scuderia di
purosangue, due violini di valore
inestimabile, proprietà in Irlanda,
California, a Londra, New York e
nella Nuova Inghilterra, e un conto in banca di molti milioni di dollari; Luciano Pavarotti, al confronto, fu San Francesco. Scorrendo
infatti le « buste paga » dei cantanti
precedenti l’era moderna (i divi del
periodo barocco e romantico), scopriamo che i tre tenori possono sicuramente considerarsi sottopagati
rispetto ai castrati Farinelli e Senesino o a soprani come la Durastanti
nel Settecento, quando l’accento
posto su un virtuosismo estremo
aveva fatto lievitare i cachet rispetto al secolo precedente. Una tendenza che prosegue nel primo Ottocento, quando soprani e tenori
come Giuditta Pasta e Giovan Battista Rubini riescono a guadagnare
cifre iperboliche, non tanto in Italia quanto a Parigi, Londra, Madrid
e San Pietroburgo. Certo, bisognava essere bravi; in questo, il sistema
antico, ancora non regolato da sindacati di categoria e agenzie, basava
tutto su una meritocrazia precisa e
spietata: se canti meglio, guadagni
di più. Inoltre, principi e mecenati
erano soliti arrotondare i compensi
con laute « mance », spesso tabacchiere ricolme di monete d’oro, titoli nobiliari, terreni, palazzi, emolumenti vari. Nella seconda metà
Gli approfondimenti di MUSICA
30
musica 210, ottobre 2009
COMPOSITORI
Nel duecentesimo anniversario della nascita
di Felix Mendelssohn-Bartholdy un cofanetto
della Brilliant, pur trascurando l’ambito teatrale, offre un’occasione rara di esplorare la
produzione giovanile del compositore, tra il
sacro, il sinfonico e il cameristico.
Il giovane Mendelssohn tra un ridente
paesaggio e un luogo maledetto
di Piero Rattalino
La Brilliant raccoglie in quaranta dischi, in occasione del bicentenario della nascita, una parte molto cospicua della vastissima produzione musicale di Mendelssohn, offrendoci un
« Mendelssohn Portrait », un Ritratto di Mendelssohn, che
non può essere se non il benvenuto, anche se nel Ritratto,
come vedremo poi, manca un qualcosa di non secondario. Il
maggior pregio della pubblicazione consiste secondo me nel
fatto di comprendere un’ampia silloge di ciò che Mendelssohn creò fra il 1821 e il 1829, e cioè nel periodo formativo
fra i dodici e i vent’anni. Solo chi non possiede nulla di
Mendelssohn può essere realmente interessato al Concerto per
violino op. 64 eseguito da Siegfried Söckigt o alla Sinfonia
« Italiana » diretta da Frans Brüggen. Questi sono artisti che
sanno sı̀ fare, e bene, il loro mestiere, ma che evidentemente
non si collocano nell’empireo degli Heifetz e dei Karajan e
dei tanti altri mostri sacri che costellano la discografia mendelssohniana. L’occasione di ascoltare il Te Deum del 1826 o
l’ottava delle sinfonie per archi anche nella versione con i
fiati aggiunti è invece rara, ed è preziosa per chi vuole conoscere Mendelssohn un po’ più a fondo di quanto non capiti
ordinariamente. Su questo primo periodo della creatività di
Mendelssohn io mi soffermerò dunque a lungo, mentre sorvolerò sui periodi successivi.
Eintritt
Eintritt, Ingresso, come nelle Scene della foresta di Schumann.
Partiamo dal frontespizio del box, in cui troviamo solo il cognome Mendelssohn, mentre nei label dei dischi troviamo il
doppio cognome Mendelssohn-Bartholdy. E qui non sarà
fuor di luogo una piccola spiegazione. Alcuni anni or sono il
direttore di un conservatorio di provincia, noto più per le sue
accorte frequentazioni politiche che per la sua attività di musicista, presentando in una conferenza-stampa il programma
dei saggi annuali del suo istituto disse con orgoglio: « Eseguiremo anche una sinfonia di Mendelssohn nella trascrizione di
Bartholdy ». Come dire Bach-Busoni o Mussorgski-Ravel.
Ma il signor Mendelssohn e il signor Bartholdy erano stati, in
vita, una sola persona. Una persona che in realtà, a rigore,
avrebbe dovuto chiamarsi con un terzo nome: Dessau.
Qualcuno fra i miei lettori ricorderà forse un vecchio film
neorealista ambientato in Emilia nel 1944, un film in cui un
rigido soldato tedesco, controllando i documenti dei viaggia-
tori che salivano su un traghetto fluviale, diceva a una Carla
Gravina diventata terrea in volto: « Il suo cognome è Modèna. Lei è ebrea? ». Perché gli ebrei prendevano spesso il nome
dalla città d’origine. Nel 1729 Meldel Dessau, abitante a Dessau, aveva imposto il nome di Moses al suo primogenito.
Moses Dessau, che divenne un grande filosofo illuminista,
chiuse in cantina il Dessau e inventò il nome Mendels-Sohn,
figlio di Mendel (Mendel invece di Meldel perché più facile
da pronunciare). Il secondo figlio maschio di Moses Mendelssohn, Abraham, divenne banchiere, si sposò con Lea Salomon ed ebbe quattro figli: Felix, il secondogenito, nacque
ad Amburgo il 3 febbraio 1809.
Gli ebrei non potevano frequentare le scuole pubbliche, certe
professioni erano loro precluse, ecc. ecc. Abraham Mendelssohn non ebbe problemi, nel mettere alle costole dei suoi figli una schiera di eccellentissimi privati istitutori. A Berlino,
dove la famiglia si trasferı̀ nel 1811, Felix studiò lingua e letteratura tedesca, latino e greco, francese e inglese, aritmetica
e matematica, disegno, danza, ginnastica, nuoto, equitazione,
e teoria musicale, composizione, pianoforte, canto, violino.
Nessuna scuola pubblica avrebbe potuto fare di meglio, anzi.... Tuttavia Abraham decise nel 1819 di far battezzare i figli, e nel 1822 fu battezzato anche lui, insieme alla sua sposa.
In quell’occasione aggiunse al Mendelssohn il Bartholdy, cognome adottato da un suo cognato Salomon che aveva dato
il... buon esempio convertendosi per primo al protestantesimo.
Nacque cosı̀ il Mendelssohn-Bartholdy che il gioviale direttore di conservatorio interpretava alla stregua del Bach-Busoni. Abraham non era però ancora soddisfatto. MendelssohnBartholdy era secondo lui troppo lungo (« non è un nome di
tutti i giorni », scrisse al figlio), e Mendelssohn era da scartare
per più cogenti ragioni: « Se tu ti chiami Mendelssohn sei
automaticamente ebreo, e questo non ti è di giovamento,
tanto più che non è vero ». Conclusione: « Devi chiamarti
Felix Bartholdy ».
Abraham non faceva distinzioni fra religione e razza: se cambiava la prima cambiava automaticamente anche la seconda.
L’antisemitismo virulento della seconda metà del secolo l’avrebbe pensata ben diversamente. E se pur avesse accettato il
consiglio del padre, cosa che non fece, il nome Felix Bartholdy non avrebbe evitato che le musiche di Felix Mendelsmusica 210, ottobre 2009
31
Le recensioni di MUSICA
BACH
quarto classificato ex-aequo, András
Schiff. Osservazione lungimirante:
Gavrilov ebbe poi una carriera effimera, il secondo ex-aequo, Igolinski, rimase nell’Unione Sovietica,
Chung divenne direttore d’orchestra, il terzo classificato, Egorov,
morı̀ giovane ancora, della quarta
classificata ex-aequo, Eteri Andjaparidze, si persero subito le tracce,
il solo Schiff è oggi uno dei leader
dell’interpretazione al pianoforte.
La carriera di Schiff si basò sulla riproposta di Bach, che negli anni
settanta veniva toccato dai pianisti
con molta circospezione perché
lo ». Io ho ascoltato diligentemente
le sei Partite una in fila all’altra durante un lungo viaggio in automobile, e alla fine mi sono trovato un
po’ come quel dongiovanni che,
quasi colto sul fatto in un letto sbagliato, fa appena in tempo a rifugiarsi nell’armadio in cui la donna
fraudolentemente amata conserva le
boccette dei profumi. Quando finalmente il legittimo marito se ne
va per i fatti suoi la fedifraga, sollevata di spirito, apre l’armadio e abbraccia l’uomo che ne esce. Il quale
le sussurra, stremato: « Tutto quel
profumo! Ti prego, cara, dammi un
macchina non si è notato che è falso ». Harnoncourt non è la Bibbia,
no, ma io, che forse sono all’antica,
preferisco la sua filologia a quella di
Schiff. E credo nella filologia di Badura-Skoda più che nella filologia
di Schiff per quanto riguarda il Preludio della Partita n. 1 o la Toccata
della Partita n. 6: Badura-Skoda sostiene che secondo la tradizione italo-tedesca il pralltriller non deve
iniziare lı̀ dalla nota ausiliaria. Il suo
ragionamento è molto approfondito: perché non dargli credito?
Schiff, in una breve nota pubblicata
nel booklet, spiega di aver voluta-
&
András Schiff
&
sembrava che il futuro avrebbe visto – la Nemesi storica! – il rovesciamento di quello che era avvenuto alla fine del Settecento: allora
il pianoforte aveva mandato in soffitta il clavicembalo, alla fine del
Novecento il clavicembalo – nel
repertorio bachiano e scarlattiano e,
come dicono tanto volentieri i politici di oggi, e quant’altro – avrebbe mandato in soffita il pianoforte.
Chi aveva puntato su questa tesi si
ritrovò con un palmo di naso.
Schiff, sposando la tesi opposta, prima si costruı̀ una nicchia e poi la
allargò a dismisura, tanto da diventare autorevole anche nei classici
viennesi e in Schumann. Il suo
Bach, iniziato nella tradizione di
Bartók e di Fischer, si è evoluto
lentamente, fino a raggiungere oggi
la perfezione. Bandito l’uso dei pedali, bel suono tondo e squillante,
limitazione estrema del legato e uso
sistematico del non-legato, tempi
né troppo lenti né troppo mossi,
dinamica « centrista » con smussatura degli estremi, ornamentazioni
aggiunte molto discrete, espressione
colloquiale e garbata, tono espositivo estatico. Questo Bach, dicevo, è
perfetto e, se si consente con le
scelte di fondo di Schiff, non c’è
null’altro da dire che « godiamoce-
52
pezzo di m... ». O Schiff, dicevo io,
perché non estendi quel fortissimo
che fai alla fine di tre gighe e che
mi piace cosı̀ tanto? Perché, invece
di tanti mordenti e schleifer, non ti
servi di altre aggiunte del tipo di
quelle che fai nei minuetti della
Partita n. 1? Perché non ti lasci
contagiare – solo un po’, come con
la vaccinazione antivaiolosa – da
quel Pollini che in Bach si fiacca la
pianta del piede destro, da tanto
che pigia il pedale di risonanza?
Perché non ombreggi qualche volta
il suono con il pedale « una corda »?
Perché, soprattutto, sostituisci l’eterno legato con l’eterno non-legato? O Schiff, perché non mi dai un
pezzettino di m....?.
Vero è che il legato scritto è l’eccezione, nella musica barocca. Vero è
che il legato aggiunto dai vecchi
revisori è apocrifo e antistorico. Ma
Nikolaus Harnoncourt scrisse nel
1982: « Secondo i principi in uso
oggi le note di uguale valore devono essere suonate o cantate con la
maggior regolarità possibile, come
perle: tutte rigorosamente uguali!
[...] Per quanto riguarda l’eloquenza, in ogni caso, questo modo di
fare la musica non funziona. Esso
ha in sé un che di meccanico, e siccome la nostra epoca si è votata alla
musica 211, novembre 2009
mente scelto, e non per comodità
di collocazione in due dischi, un
ordine diverso da quello di Bach:
Partita n. 5 per iniziare, e poi n. 3,
n. 1, n. 2, n. 4, n. 6, con la sequenza Sol maggiore, La minore, Si bemolle maggiore, Do minore, Re
maggiore, Mi minore. Da Sol in
scala fino a Mi, con perfetta alternanza di maggiore e minore. Questa è una bella idea e l’ascolto del
ciclo cosı̀ « riformato » ci guadagna,
anche se in concerto mi sembrerebbe preferibile, per ragioni di durata
rispettiva, scambiare di posizione la
n. 1 e la n. 4. Il panorama resta tuttavia, per il mio gusto, ugualmente
monotono. Non vorrei parere irrispettoso. Schiff, come dicevo, è indubbiamente uno dei leader dell’odierna interpretazione al pianoforte.
Però, come afferma lui stesso, « la
grande musica è più grande dei
suoi esecutori ». E le Partite di Bach
possono sprigionare altri profumi
ancora, oltre a quello della rosa.
Piero Rattalino
SACD
BACH Cantate Vol. 44 Wir müssen
durch viel Trübsal BWV 146; Siehe,
ich will viel Fischer aussenden BWV
88; Gott fähret auf mit Jauchzen
BWV 43 soprano Rachel Nicholls
controtenore Robin Blaze tenore Gerd
Türk basso Peter Kooij Bach Collegium Japan, direttore Masaaki Suzuki
BIS SACD 1791
DDD 75:48 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A
HHHH
.
Percorso davvero esaltante quello
offerto da Suzuki in questo nuovo
volume della sua integrale bachiana
(dedicato a tre Cantate del 1726,
tutte riccamente strumentate),
un’integrale che può essere considerata un punto di riferimento per
l’equilibrio globale, l’aderenza stilistica, lo splendore timbrico: valori,
questi, che si possono qui riscontrare, ad esempio, nella splendida
Cantata BWV 43, con il suo esultante e trascinante coro iniziale accompagnato dai brillanti interventi
delle trombe e con la notevole varietà espressiva delle arie (tutte
piuttosto brevi e affidate a ognuno
dei quattro solisti di canto), sempre
abbinate a un breve recitativo. Altrettanto grandiosa (ma ancor più
severa) la Cantata BWV 146, introdotta da un’ampia sinfonia (rielaborazione di un Concerto violinistico
andato perduto e successivamente
trascritto per clavicembalo), da un
coro, da due arie e da un duetto di
vaste dimensioni, oltre ai consueti
recitativi e al corale conclusivo.
Non poco singolare poi la concezione prevalentemente solistica della Cantata BWV 88, divisa in due
parti e articolata in tre recitativi, tre
arie, un arioso e un duetto, siglati
da un brevissimo corale. L’esecuzione, come accennato, può essere
considerata pienamente all’altezza
della situazione, soprattutto sul versante strumentale e corale: notevolissima la compattezza del coro
(formato da dodici elementi, tra i
quali gli stessi solisti) e la resa timbrica dell’organico strumentale, ove
si sono particolarmente distinti gli
infaticabili e puntuali strumenti a
fiato: dalle trombe per la BWV 43
(con l’intervento di una tromba solista nell’aria per basso), ai corni per
la BWV 88, al flauto traverso e agli
oboi (e oboi d’amore) per la BWV
146. Per quanto riguarda i solisti di
canto, il soprano Rachel Nicholls
canta con la purezza cristallina e la
semplicità di una voce bianca (senza
i limiti, però, di quest’ultima), anche se non avrebbe guastato una
maggior partecipazione, ad esempio, nell’aria « Ich säe meine Zähren » da BWV 146. Robin Blaze
conferma le sue notevoli doti, già
apprezzate nei precedenti volumi,
pur evidenziando, anche in questo
caso, un eccessivo ritegno espressivo (è il caso dell’ampia aria « Ich
LEO
CD
KAGEL Kantrimiusik soprano Angela
Tunstall contralto Susan Bickley tenore Alan Belk Nieuw Ensemble, direttore Ed Spanjaard
WINTER & WINTER 910 150-2
DDD 45:23 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A
HHHHH
.
Coloro che sono stati alla Biennale
di Venezia nel 2007 ricorderanno
l’esecuzione di Kantrimiusik di Kagel (diretta dallo stesso compositore
con l’ensemble musikFabrik) come
uno dei momenti clou del festival.
Ora questo lavoro, vitale e spassosissimo, lo si può ascoltare nella registrazione fatta nel 1997 dall’olandese Nieuw Ensemble, formazione
insuperabile in questo genere di cose, che richiedono oltre alla perizia
tecnica anche una forte dose di humour. Kantrimusik, « pastorale » per
voci e strumenti, eseguita la prima
volta nel 1975, riassume perfettamente lo spirito ludico, la grande
musicalità, lo stile irriverente e pieno di fantasia del compositore
scomparso lo scorso anno. È un
una sorta di ironico commentario
sulla musica folk, sui suoi intrecci
con la musica classica (musica di
campagna e musica sulla campagna,
come la sinfonia pastorale), sulle
sbilenche esecuzioni degli ensemble
amatoriali « da diporto (genere
« folk », sottogenere « arrangiamento ») ». C’è un’immagine che illumina l’intera composizione: « Mi riferisco a quelle serate in cui gruppi
di intere famiglie con bambini, vestiti alla moda locale, salgono sul
palcoscenico. Atteggiandosi come i
fedeli rappresentanti di un determinato paese, predicano solidarietà attraverso una musica falsificata.
Quante volte, in certi momenti,
non si rimpiange il destino del folclore di essere contemporaneamente portavoce e divertimento di una
società? ... Il pezzo non reclama di
proposito alcuna autenticità delle
fonti, ma elabora le solite musiche
apocrife. Qualsiasi interpretazione
dovrebbe chiarire quanta parodia e
quanta caricatura o seriosità vi siano
nel brano. Un brano che può essere
rappresentato sia in forma semplicemente concertistica, sia in forma
scenica; in questo caso il sottotitolo
sarebbe « una parodia in scene »
[...] ». Cosı̀ i suoni del banjo e della
chitarra si mescolano con quelli di
corno, clarinetto, violino e pianoforte, creando atmosfere di Ländler
e film western. I suoni registrati evocano suoni di natura, cavalli al galoppo, cinguettii, ronzii di insetti,
fotogrammi bucolici di bande sgan-
gherate che suonano valzer sotto
una pioggia battente, di campane di
chiesa e di trattori, di corali e echi
di Lieder romantici, di soffi di vento
e grotteschi versi di animali. Una
sintesi di naturalismo, impressionismo e verismo, dominata da un
grande senso del teatro. Esilarante,
assolutamente da ascoltare.
Gianluigi Mattietti
CD
LEES Quartetto n. 1; Quartetto n. 5;
Quartetto n. 6 Cypress String Quartet
NAXOS 8.559628
DDD 62:23 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B
HHH
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Nella collana « American Classics »
della Naxos è ora il turno dell’opera cameristica di Benjamin Lees,
compositore americano di origine
russe nato in Manciuria nel 1924 e
cresciuto in California. Accanto al
giovanile Quartetto n.1, lavoro classicamente politonale (e, a mio parere, non personalissimo), suddiviso
in tre movimenti ed eseguito nel
1954, in prima newyorchese, nientemeno che dal Quartetto di Budapest, troviamo i Quartetti n. 5 e n.
6, gli ultimi (per ora) della serie dedicati entrambi all’ensemble responsabile di questa registrazione, e
cioè il Cypress String Quartet. A
dire il vero anche queste ultime
opere non si impongono per originalità (sebbene il Quartetto n. 5 sia
stato inserito nei « 101 Great Ensemble Works » dalla Chamber
Music America, come ricordano le
particolareggiate note di copertina,
qui solo in inglese), né sono in grado di solleticare le esigenze più
profonde di chi cerca esperienze
d’ascolto in trasformazione e quindi
non necessariamente solo originali
e desuete. Tutto sembra già sentito,
metabolizzato: Bartók, Shostakovich, Britten... ma all’acqua di rose
però! Concentratissime, peraltro, le
esecuzioni del Cypress String
Quartet, molto chiare e formalmente ben strutturate.
Massimo Viazzo
DVD Video
LEO L’Alidoro (commedia per musica
in tre atti su libretto di G. Federico) M.
G. Schiavo, M. Ercolano, V. Varriale, F.
Russo Ermolli, G. De Vittorio, F. Morace, G. Ruggeri; Orchestra Barocca
Cappella della Pietà de’ Turchini, direttore Antonio Florio regia Arturo Cirillo
scene Massimo Bellando Randone
DYNAMIC 33588 (2 DVD)
165:00. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . B
HHHH
.
L’Alidoro – registrato al Teatro Valli
di Reggio Emilia in occasione della
prima ripresa moderna dell’opera,
nel febbraio 2008 – è uno di quei
DVD che paiono non perdere nulla,
da un punto di vista visivo, rispetto
alla rappresentazione dal vivo. Il
merito di ciò va ascritto all’azzeccata regia di Arturo Cirillo, che, concentrando la propria attenzione sui
gesti e sull’espressione dei volti, e
avvalendosi di splendidi costumi
settecenteschi a fronte di scene
pressoché vuote, si rende forse più
godibile sul piccolo schermo che in
teatro. L’opera di Leo, datata 1740,
è, come la più nota Amor vuol sofferenza, un esempio di « commedia
per musica »: genere ibrido che accosta situazioni « serie » e scenette
esilaranti, arie col da capo di tipo
metastasiano e forme più libere
ispirate alla musica popolare, lingua
italiana e vernacolo napoletano.
Proprio la scelta linguistica (ogni
personaggio si esprime con la lingua propria del suo ceto sociale) rivela un’attenzione al realismo che
percorre la partitura e dà i suoi
frutti migliori nella scena del gioco
della morra: splendido bozzetto in
cui l’orchestra scandisce il ritmo
serrato delle scommesse di Meo e
Marcello, che gli interpreti realizzano in perfetta sintonia. I ruoli vocali maschili risulterebbero, da locandina, spettare a dei bassi, ma Giuseppe De Vittorio (Marcello) è un
tenore che, pur penalizzato da un
timbro non esaltante, sa fraseggiare
molto bene ponendo in rilievo il
passaggio dalle battute stizzite al simulato abbandono passionale. Del
mugnaio Meo (Gianpiero Ruggeri)
si ricorda soprattutto la spassosa
imitazione onomatopeica del
« chicchirichı̀ » nell’aria del secondo
atto, mentre Filippo Morace (il
vecchio Giangrazio) si distingue per
il bel timbro basso-baritonale e l’espressività della recitazione, frutto
di molta familiarità con l’opera napoletana.
La scrittura per le voci maschili, in
ogni caso, non è mai troppo impervia, conformemente al ruolo drammaturgico di personaggi buffi, popolani o parvenu, che parlano in
dialetto o in un espressivo miscuglio di toscano e napoletano. La
parte del leone tocca, ovviamente,
alle donne, tre soprani e un contralto. Quest’ultima, Elisa, nel DVD
è in realtà interpretata da un mezzosoprano con registro particolarmente esteso nelle regioni acute,
Maria Russo Ermolli, che esprime
il carattere bisbetico del personaggio con le colorature dell’aria « Ri-
solviti ad amarmi », le cui riprese
sono arricchite di variazioni ogni
volta diverse. I tre soprani hanno,
opportunamente, tratti vocali chiaramente differenziati: Valentina
Varriale, che impersona l’ostessa
Zeza, unica donna di estrazione
popolare e parlata dialettale, ha una
voce calda e corposa, dal colore
« mediterraneo », che favorisce, da
un lato, la morbidezza dei passaggi
verso l’acuto e, dall’altro, il realismo della travolgente loquacità napoletana che si esprime nell’aria del
primo atto (con un colpo di genio
La città d’elezione di Leonardo Leo
La Cappella della Pietà de’ Turchini
– che ha riesumato L’Alidoro di Leo
(un napoletano d’adozione) – ha sede nella chiesa di Santa Caterina da
Siena, nel cuore della città partenopea (www.turchini.it). Per chi volesse
soggiornare negli stessi quartieri
spagnoli, consigliamo l’Hotel Il Convento, un tre stelle molto gradevole
con camere doppie a partire da 80
Euro. Chi desidera invece riscoprire
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F U O R I
D A L L E
N O T E
il regista fa allontanare Meo, sommerso da quel fiume di parole, durante la ripresa). Il protagonista Luigi/Ascanio/Alidoro (il cui nome
varia col procedere di travestimenti
e agnizioni), unico ruolo en travesti,
spetta a Maria Ercolano, dotata di
grandi possibilità espressive che
emergono fin dall’aria « Luci belle »,
dove la malinconia della seconda
strofa, che ha il suo culmine nel
« penar » cantato a mezza voce prima della ripresa, si contrappone agli
musica 211, novembre 2009
65
Le recensioni dal vivo di MUSICA
con costumi stilizzati (di Franca
Squarciapino), giocata su movimenti un po’ stereotipati, a parte la
bella scena della sfinge, creatura
mostruosa avvolta in un grande
drappo nero che si allargava in due
immense ali. Bravissimo, nel ruolo
eponimo, Stefan Ignat, baritono dal
timbro eroico ma pieno di sfumature, capaci di rendere tutta la gamma delle inquietudini del suo personaggio. Di livello assai vario il resto del cast: tra i migliori Oana Andra (Giocasta), Horia Sandu (Tiresia), Ionuþ Pascu (Creonte), Valentin
Racoveanu (il pastore).
Tra le sette sezioni tematiche del
festival spiccava quella dedicata ai
« Compositori romeni del XX seIl Macbeth è l’opera di Verdi che ha
meno bisogno di fondali suggestivi
e di elaborati cambi di scena: si può
benissimo raccontare l’intera vicenda con un accorto impiego delle
luci e con qualche proiezione sul
sipario di tulle per la scena di battaglia nel quarto atto e per quella
specie di seduta spiritica che apre il
terzo. L’importante è che i volti e i
gesti dei personaggi siano ben illuminati anche quando « la luce langue » e che la recitazione sia sempre
credibile e motivata interiormente.
Andrea Cigni – un regista che ha
saputo accortamente rinnovare uno
spettacolo ideato in origine da Andrea De Rosa per il Circuito Lirico
Lombardo – mostra di avere le
priorità giuste e in diverse momenti
riesce a suscitare un effetto forte
con mezzi minimi, soprattutto
quando è in scena la grandissima
Lady Macbeth di Paoletta Marrocu:
il soprano che – meglio di qualunque altro in questi ultimi decenni –
è riuscito a costruire il personaggio
partendo dalle inflessioni minime
del testo di Piave e Maffei, fraseggiando con l’eloquenza di una
grande attrice nel pieno rispetto del
disegno musicale verdiano. In quest’occasione la cantante sarda ha delineato una moglie e regina sensuale e dominatrice e ha mostrato –
Punto di forza del Belcanto Festival
un po’ debole di quest’anno, Il
viaggio a Reims di Rossini proposto
dall’Accademia di S. Cecilia è stato
un fragrante bouquet donato al settembre romano. E ha dimostrato, a
fronte della Norma non eccelsa qui
udita nel 2008, come oggi sia meno agevole metter su il capolavoro
belliniano che il pur complesso
« adieu » del pesarese all’opera italia-
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colo » che metteva a confronto,
sotto le splendide volte dell’Ateneo
Romeno, autori di generazioni e
stili diversi: i lavori meno recenti
apparivano accomunati da un certa
impronta neoclassica e folklorica,
ad esempio nei cicli liederistici di
Pascal Bentoiu, Valentin Timaru,
Mihail Jora, o nei quartetti per archi (affidati all’ottimo Quartetto
Florilegium) di Lucian Metianu,
Maia Ciobanu, Fred Popovici.
Altra aria si respirava nei concerti
del Traiect Ensemble, votato alla
sperimentazione elettronica; dell’Hyperion Ensemble, che ha eseguito pezzi di Costin Cazaban, Ana
Maria Avram e Iancu Dimitrescu
(storico esponente dell’avanguardia
rumena e fondatore dell’ensemble)
« per ensemble e suoni assistiti dal
computer »; dell’Esemble Pro Contemporania, che ha eseguito Marty
and Gloria di Irinel Anghel – performance dal gusto surrealista che
metteva insieme una suonatrice di
fisarmonica, chitarra e tastiera elettrica, dei bambini, un cerimoniere
dall’enorme cappello, una donna
con ventaglio, un robot telecomandato – e Il Gioco degli Innocenti di
Mihaela Stanculescu-Vosganian,
pezzo un po’ rocchettaro e pieno
di interferenze stilistiche per due
voci femminili, chitarra elettrica,
violino e violoncello, violino. Di
buon livello l’Orchestra Filarmonica della Transilvania, diretta da Sa-
VERDI Macbeth L. Grassi, P. Marrocu, E. Turco, P. Spissu, A. Liberatore,
M. Voleri, P. Toscano, F. Desini; Corale Luigi Canepa, Orchestra dell’Ente
Concerti Marialisa De Carolis, direttore Balázs Kocsár regia Andrea Cigni
scene e costumi Alessandro Ciammarughi
Sassari, Teatro Verdi, 7 ottobre 2009
Luca Grassi e Paoletta Marrocu
con la piena complicità dell’ottimo
concertatore ungherese Balázs Kocsár (anche lui un vero uomo di teatro) – come gran parte del ruolo
può essere risolta tra il pianissimo e
il mezzoforte, spiegando la voce solo
nei climax più accesi. E ha rivelato
quanta verità umana può trapelare
dagli sguardi di questa donna: taglienti, imperiosi, pieni di desiderio
e talvolta impauriti.
Anche il personaggio di Macbeth
va costruito con la massima dedizione, soprattutto per rendere l’estrema reattività di questo marito,
re e assassino a tutto ciò che gli accade intorno. Per Luca Grassi – debuttante nel ruolo – il lavoro di costruzione è appena all’inizio: la voce è ben educata e traccia con intelligenza il percorso emotivo di
« Pietà, rispetto, amore » nell’ultimo
ROSSINI Il viaggio a Reims R. Feola, D. Barcellona, E. Gorshunova, E.
Dehn, S. Yijie, D. Kortchak, M. Palazzi, N. Ulivieri, P. Bordogna, B. Quiza, P.
Quiralte Gomez, M. Karahan Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di
S. Cecilia, direttore Kent Nagano
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 21 settembre 2009
na. Kent Nagano per primo vi si è
trovato a suo impeccabile agio. Diremmo anzi che questo ci è parso
l’approccio direttoriale alla Cantata
musica 211, novembre 2009
scenica rossiniana più interessante
dopo Abbado. Tanto costui poneva
in luce le matrici d’humour italiano
e la « folie organisée », consuete en-
scha Goetzel, che ha eseguito il Concerto per violino « Trinity » di Theodor
Grigoriu, dominato da un morbido
melos popolareggiante (solista Sherban Lupu); l’elettrizzante Concerto n.
2 per orchestra d’archi di Sigismund
Todut˛ă (uno dei più grandi compositori romeni dopo Enescu, che ha
anche studiato all’Accademia Santa
Cecilia di Roma sotto la guida di
Casella e Pizzetti), e l’applauditissimo Concerto per Sax e orchestra di Calin Ioachimescu, lavoro che richiedeva l’esecuzione (anche simultanea)
di diversi sassofoni, offrendo cosı̀ al
solista Daniel Kientzy l’occasione
per una grande performance. Da vera star.
Gianluigi Mattietti
atto, ma la sua recitazione cattura la
nostra attenzione solo a tratti e la
figura che disegna trasmette le paure dell’uomo privato ma non la volontà prepotente di chi sa uccidere.
Shakespeare e Verdi mettono a nudo questo personaggio davanti ai
nostri occhi, ma Grassi – anche se a
un certo punto si toglie la camicia
– rimane metaforicamente vestito
dall’inizio alla fine.
Nel contesto di un approccio lirico
e intimista al dramma (del tutto appropriato negli spazi raccolti del
Teatro Verdi) il Banco di Enrico
Turco ha funzionato molto bene,
con grande umanità d’accento, e si
sono fatti valere sia il Malcolm di
Marco Voleri sia il Macduff di
Alessandro Liberatore, emotivamente centrato e accolto con un
caldo applauso dopo l’aria del quarto atto. L’Orchestra dell’Ente Concerti Marialisa De Carolis ha risposto con apprezzabile duttilità e concentrazione espressiva al gesto sempre sicuro di Kocsár e il coro è riuscito a dare il giusto afflato a « Patria oppressa », mentre nelle scene
delle streghe le voci femminili da
sole avevano faticato ad unire la
giusta precisione sonora alla necessaria incisività verbale (meno male
che c’erano i sopratitoli!).
Stephen Hastings
trambe all’ambito buffo del Nostro,
quanto l’altro ha evidenziato gli
orizzonti a venire, che è a dire
un’ironia già « à la française », certa
leggerezza offenbachiana e, meglio
ancora, quell’ondivago, ma vigile
spirito da Grand Hôtel des Bains
internazionale: ove gli ultimi detentori del buon gusto si radunano
per ragionare del proprio amore all’eleganza, all’antico, alla poesia, alla
siva ma di un’ispirazione « europea »
e impressionista: in particolare, raramente ho trovato il conclusivo e
un po’ travagliato « Chôrinho » cosı̀
ben saldato al resto della Suite.
La serie dei Preludi ha confermato
tutti i pregi di tale visione interpretativa, assecondando la maggiore caratura linguistica tramite un
È davvero centrata la definizione di
Aleko, prima delle tre opere compiute di Rachmaninov, che viene
data nel programma di sala di questa serata conclusiva del 48º Stresa
Festival: « una vera enciclopedia del
teatro musicale russo ». Palesi, difatti, in quello che è il saggio finale
del diciannovenne musicista, le influenze dei maggiori operisti russi,
dagli « antichi » Glinka e Borodin
nei numeri di danze, cori festosi e
racconti (l’aria del vecchio zingaro)
ai più vicini Mussorgski (il cui modello si sente palesemente nel coro
finale) e – per ogni dove – l’amatissimo Ciaikovski, la cui ombra si
staglia felicemente dietro al numero
più celebre dell’intera opera, quella
cavatina di Aleko che ha attratto i
maggiori bassi di area slava, da
Chaliapin in poi. Gianandrea Noseda – che ad inizio serata ha ricevuto la cittadinanza onoraria di
Stresa – si è buttato a capofitto nella partitura, sbalzata con passione e
senso del teatro, seppure con tempi
talvolta esageratamente convulsi,
nella scansione quasi effettistica: il
A detta di Michel Dalberto, già vincitore nel 1975 del Concorso « Clara
Haskil » e succeduto nel 1991 a Nikita Magaloff alla Presidenza della
Giuria, questa XXXIII edizione del
Premio ha cercato proprio un musicista « alla Haskil ». Un’impostazione
ideologica che guarda non solo allo
stile d’esecuzione della grande pianista rumena naturalizzata svizzera, ma
ma anche al repertorio che le diede
gloria soprattutto nell’ultimo decennio circa di vita, a partire dal dopoguerra fino alla morte, avvenuta nel
1960. Un repertorio in cui dominavano incontrastati i grandi classici,
Haydn, Mozart, Beethoven e Schubert, ma che guardava intensamente
anche ai romantici Chopin, Schumann, e Brahms, che sperimentava
l’originalità di Scarlatti come la timbrica di Debussy e Ravel. Niente di
più lontano dalla tradizione del virtuosismo trascendentale tardottocentesco in cui la Haskil si era formata.
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fraseggio ricco di rubati e di meditazione espressiva, appoggiato su
un cantabile sempre nitido eppure
liquido ed evocativo (in particolare
nel terzo Preludio). La seconda
parte del concerto si è aperta con
il recentemente scoperto « ValseChôro », espunto dalla prima stesura della Suite, e proposto qui in
dittico con il Chôros n. 1; una posizione in cui, a dire il vero, risalta
ancor più l’estraneità del brano alla
vena più schiettamente folclorica,
mentre il suo carattere malmostoso
lo rende forse maggiormente affine
ai Preludi. Infine, gli Studi: coraggiosamente affrontati in fondo al
lungo programma, eppure il con-
RACHMANINOV L’isola dei morti; Aleko S. Vassilieva, S. Murzaev, G. Bezzubenkhov, E. Akimov, N. Vassilieva; Coro del Teatro Regio di Torino, BBC
Philharmonic Orchestra, direttore Gianandrea Noseda
Stresa, Palazzo dei Congressi, 5 settembre 2009
Gianandrea Noseda dirige Rachmaninov
bellissimo preludio risultava poco
nitido, cosı̀ come la « canzone » di
Zemfira creava qualche problema
alla bravissima Vassilieva, tanto survoltati erano gli accenti. Non va
dimenticato, però, un supporto al
canto generalmente eccellente e un
gusto per il preziosismo timbrico e
orchestrale che rende piena giustizia
a una partitura in tal senso scintillante; e il cast – senza dimenticare
il buon apporto di orchestra e coro
– era all’altezza. Certo, la differenza
fra i quattro solisti del Marinksy,
Finale del Concorso Internazionale « Clara Haskil » (musiche di Beethoven
e Mozart) pianoforte Nima Sarkechik, François Dumont, Adam Laloum Orchestre de Chambre de Lausanne, direttore Jesús López Cobos
Vevey, Théâtre de Vevey, 3 settembre 2009
Perciò cercare un musicista nello
stile della Haskil cosı̀ come la ricordiamo nel dopoguerra, significa voler individuare un pianista che pur
avendo al suo arco tutte le frecce
del virtuosismo non voglia distinguersi in senso stretto come tale, e
che sia raffinato, anche come camerista, e mai incline all’esteriorità (la
Haskil, si sa, collaborò con Grumiaux, con Casals, con Enescu). Da
cui la scelta del Concorso di inserire, a partire da quest’anno, una
prova semifinale di musica da camera.
Al suono dei Concerti op. 37 e op.
73 di Beethoven e del Concerto K
491 di Mozart, la finale del Concorso si è giocata di fioretto tra
concorrenti giovanissimi di età
musica 210, ottobre 2009
compresa tra i ventidue e i ventisei
anni, tutti di area francese (compreso il franco-iraniano Nima Sarkechik). Nonostante si vociferasse che
la finale con orchestra fosse un po’
sottotono, vuoi per la tensione dei
concorrenti, vuoi per problemi di
acustica della sala, la vittoria, meritatissima, è andata al più giovane dei
finalisti, il pianista Adam Laloum,
interprete di squisita sottigliezza del
Concerto in Do minore K 491 di Mozart. Fin dalla scarna entrata « a fantasia » del Concerto, la sua capacità
di sentire la musica, in un suonare
vivo e nervoso, nello stesso tempo
intimo e delicato, lo hanno subito
distinto dagli altri concorrenti. L’intensità raccolta con cui intonava gli
intervalli, incline al sussurro, come
certista non ha ceduto un passo in
termini di freschezza digitale, di
energia espressiva (vedi gli Studi
nn. 4, 10, 11) e di acume interpretativo. Meritatissimi dunque i
convinti applausi, che hanno indotto Dieci a concedere ancora
due bis.
Roberto Brusotti
pur bravi, e la splendida Svetla Vassilieva era notevole: la freschezza
del suo fraseggio, l’insinuante sensualità dell’accento, la bellezza del
canto disegnavano una Zemfira virtualmente perfetta e facevano avvertire il fossato che la divideva da
uno stile più tradizionale e melodrammatico. Palese, in tal senso,
l’esempio del baritono Murzaev
che, pur cantando complessivamente bene, ricorreva ai gigionismi di
tradizione senza scavare davvero la
psicologia di Aleko.
La serata, che ha avuto un esito
trionfale, si era aperta con una lettura de L’isola dei morti sbalzata in
un unico blocco tesissimo, davvero
arroventato: se il rilevo dei dettagli
andava fatalmente perduto, grande
merito di Noseda è l’essere riuscito
a tendere un unico arco per gli oltre venti minuti del brano, dando il
massimo rilievo ai ritorni tematici,
senza nessuna concessione alle bellurie sonore e ai facili effettismi.
Una grande, ed originale, interpretazione.
Nicola Cattò
l’espressività di ogni singola nota
persino nelle scale ornamentali, denotava una capacità non comune di
comunione con il suono. Pur non
impeccabile, l’esecuzione è stata in
crescendo ed è culminata nel Finale,
Allegretto in forma di tema con variazioni, particolarmente interessante negli episodi contrappuntistici e
ritmicamente innervati, come nella
trascinante coda. Successo già in
parte conquistato da Laloum nelle
precedenti prove, con notevoli interpretazioni di Kreisleriana op. 16
di Schumann e del Quintetto op. 34
di Brahms. Nulla, quindi hanno potuto l’efficientismo del brillante
François Dumont, interprete convinto del Quinto Concerto di Beethoven, come la capacità coloristica
di Nima Sarkechik, che nel beethoveniano Concerto op. 37 ha accusato
i segni tangibili della tensione connessa con la realtà di una finale di
concorso .
Silvia Limongelli
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