Disponibile anche: - Libr: 14,50 euro - e-book (download): 9,99 euro - e-book (PDF) su CD con un audiolibro omaggio(*):9,99 euro (*) In omaggio con l’ebook su CD, l’audiolibro “Balharà” (intrigo sentimentale) CONTENUTI SPECIALI DI QUESTO E-BOOK: Lo “Spizz” La collina più alta Sara Aldegheri Sentimentale storico Trovi la prima parte del romanzo (circa il 20% dell’intero volume) in fondo all’ebook principale. Inghilterra, XVIII secolo. Jane ha vent’anni, una famiglia, una casa, una buona amica e un pretendente. Da un giorno all’altro, però, tutto le viene sottratto. Costretta a prendere servizio presso la dimora del signor Hench, uomo enigmatico e scontroso che sembra vivere con l’unico scopo di tormentarla, capirà che ci sono alcune cose a cui non può davvero rinunciare: la libertà, l’indipendenza e l’amore. ANTONIO SINDONA S ol o u n a storia d’amore www.0111edizioni.com www.0111edizioni.com www.ilclubdeilettori.com Solo una storia d’amore Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Antonio Sindona ISBN: 978-88-6578-098-5 In copertina: Immagine fornita dall’Autore ANDREA 20/12/1980, ore 11. Era lì, aula A della facoltà di giurisprudenza, università di Messina. Diciannove anni, un residuo di acne ancora in viso, capelli scomposti, barba lunga, impermeabile stazzonato stile tenente Colombo e un vago senso di inadeguatezza. Perché l’esame sarebbe stato il giorno dopo, e lui sapeva che non vi sarebbe giunto preparato. Anzi, a dirla tutta, era in quella facoltà che si sentiva fuori luogo. “Ma come fa a chiamarsi ‘introduzione alle scienze giuridiche’ una materia che forse non la capiscono neppure i laureati?” Appena l’anno prima, finito il liceo classico, si era iscritto a legge perché fin da bambino sognava di fare l’avvocato. L’avvocato o il presidente della repubblica. Da come stava messo ora, forse sarebbe stata preferibile la seconda opzione. Dopotutto per fare il presidente non ci vuole la laurea, basta la quinta elementare, anche se bisogna aspettare almeno fino a cinquant’anni. In realtà aveva iniziato l’università così come aveva finito il liceo, svogliatamente. Non è che non volesse studiare, e anzi a scuola alcune materie, poche, le aveva coltivate con passione. È che gli piacevano un sacco di cose, alcune in fondo anche banali, e non gli restava molto tempo da passare sui libri, quelli intesi come testi universitari, perché gli altri li leggeva eccome. All’appello di giugno aveva comunque superato due materie: storia del diritto romano e istituzioni di diritto romano, ventisette e ventitré, neppure troppo male, considerata la pochissima applicazione. Era stato assiduo frequentatore delle affollatissime lezioni, quasi sempre in prima fila sfruttando la benevolenza di molti suoi ex compagni di classe, oggi colleghi, che arrivavano per tempo e occupavano i primi posti anche per lui. Aveva profittato di questa apparente diligenza in entrambi gli esami. Nel secondo addirittura, ben sapendo che il professore lo aveva certamente riconosciuto, era riuscito magistralmente a interpretare la parte dello studente molto volenteroso e un po’ tonto, quello che studia tanto e si applica ma proprio non ci arriva. Il professore c’era cascato con tutte le scarpe e piuttosto che bocciarlo, gli aveva dato un voto d’incoraggiamento e parecchi consigli. Poi però era arrivata l’introduzione alle scienze giuridiche e “l’avvio a una definizione assiologica del diritto” …minchia. La difficoltà della materia l’aveva subito depresso e piuttosto che intensificare lo studio si era lasciato andare a una sorta di inerzia. Trascorreva le giornate facendo nulla, passeggiava, ascoltava musica, leggeva e rifletteva sulla vita e sulla sua età, fantasticava sul futuro, sulla ragazza che avrebbe voluto e che non aveva, poi la sera usciva con gli amici. Tutto insomma tranne che studiare. All’appello di settembre, impreparato com’era, aveva rinviato l’esame a ottobre, e da ottobre a dicembre. Era lì, si era iscritto tra gli ultimi in elenco e stava seguendo le prove dei colleghi per cercare di fiutare l’aria, capire quali fossero le domande più ricorrenti e le risposte migliori da dare, nel tentativo di recuperare qualche nozione in più e possibilmente salvarsi all’ultimo momento. Il fatto è che, nonostante il rush finale, la materia non voleva proprio entrargli in testa. Gli esaminatori poi erano senza cuore, bocciavano a destra e a manca e anche ai promossi mollavano diciotto e venti con sadico gusto. Seduto in prima fila si sentiva tremendamente solo e avrebbe voluto condividere l’ansia con qualche collega. Più che altro cercava qualcuno che approvasse quello che lui pensava: questa facoltà fa schifo, i professori sono dei palloni gonfiati, questa materia è inutile e i libri sono scritti in maniera volutamente incomprensibile. Oltretutto, giusto a voler prendere per il culo gli studenti, è catalogata pure come complementare. Conosceva tanti ragazzi in facoltà, ma non era particolarmente legato a nessuno. Studiava da solo e gli amici più cari erano iscritti altrove o frequentavano ancora la scuola. C’erano gli ex compagni del liceo, quasi metà classe si era iscritta a Giurisprudenza, ma dopo un anno qualcuno era già più avanti e altri erano invece rimasti molto indietro, alcuni comunque non li sopportava proprio. “Quasi quasi me vado, tanto ho sentito abbastanza da capire che solo un colpo di culo mi può salvare. Certo mi piacerebbe essere dell’umore di quella bionda della terzultima fila che parla continuamente con quell’altra, sembra che stia a una festa. Che avrà da ridere, proprio non lo so. Però è carina, anzi è proprio bella. Forse è meglio se resto un’altra mezzoretta, tanto anche se vado a casa mica studio. Ora mi ci siedo vicino, così con indifferenza le guardo le gambe, vediamo se sono all’altezza del resto.” Per quel poco che riusciva a vedere, le gambe erano in effetti una meraviglia. Né grasse né magre, muscolose solo quel tanto da renderle ben slanciate, i polpacci torniti, le ginocchia proporzionate, ma soprattutto le caviglie erano perfette. Andrea le aveva sempre ritenute la parte più sexy delle donne, più del sedere, più del seno e di tutto il resto. Vedere una signora accavallare le gambe e mostrare le caviglie lo stuzzicava molto più che vederla completamente nuda. Era capace di restare letteralmente rincretinito a fantasticare avventure erotiche con sfondi di ogni tipo e lui naturalmente assoluto protagonista. Le ragazze della sua età purtroppo, a parte il fatto che portavano quasi sempre i pantaloni, non lo seducevano abbastanza. Tranne quella bionda. Se ne stava seduta lì accanto con una gonna marrone al ginocchio, le gambe accavallate e le caviglie ostentatamente in vista che dondolavano leggermente. Pareva quasi farlo apposta, o forse lo faceva veramente apposta. In ogni caso, Andrea ne era sicuro, ogni tanto lo guardava. Di sfuggita, una frazione di secondo mentre parlava con l’altra, ma lo guardava. E adesso che fare? Era quasi mezzogiorno, tra poco avrebbero sospeso gli esami della mattina. Bisognava attaccare discorso, trovare un’idea per agganciarla, avviare uno straccio di conversazione, fare qualcosa insomma. Andrea era passato in un attimo dalla depressione preesame alla confusione più totale. Non era mai stato intraprendente con l’altro sesso. A dirla tutta, nei rapporti che aveva avuto sino a quel momento erano sempre state le ragazze a mostrarsi disponibili fino quasi a obbligarlo a dichiararsi. Aveva così scoperto che la sua naturale ritrosia, la riservatezza, l’aria un po’ trasognata, incuriosivano moltissimo e funzionavano meglio di qualunque approccio. Ma tutto questo andava bene in una comitiva, nell’ambito di un gruppo in cui avevi modo di vedere a lungo una ragazza. Qui invece il tempo scarseggiava, bisognava cogliere al volo una qualunque opportunità, altrimenti addio bionda. E tuttavia niente da fare, più cercava qualcosa di originale per rompere il ghiaccio, più annaspava nel buio. Si stava ormai facendo l’una e ancora non si decideva, restava seduto a una poltrona di distanza muto e rigido come uno stoccafisso. Però era sicuro di aver suscitato un certo interesse. La bionda aveva ricominciato a parlare con l’altra che sembrava quasi conoscerlo e ogni tanto si voltava a guardarlo. Gli sguardi si erano incrociati più di una volta e aveva la sensazione che volesse tacitamente incoraggiarlo a prendere l’iniziativa. Ma forse si ingannava. DANIELA 20/12/1980, ore 11. Era lì, Aula A della facoltà di Giurisprudenza, Università di Messina. Vent’anni, un bel corpo finalmente slanciato al punto giusto, passato attraverso la robustezza dell’adolescenza e però via via migliorato fino alla forma attuale, capelli biondo cenere tagliati a scalare, perfetti per il suo viso, e una consapevolezza tutta nuova di sentirsi bella e ammirata. Era già al secondo anno e quindi un po’ indietro, anzi molto indietro, con gli esami. Doveva dare ancora quella maledetta introduzione alle scienze giuridiche che la stava facendo penare. Di materie ne aveva superate quattro e il fiore all’occhiello era economia politica, costata enormi sacrifici e un quasi esaurimento nervoso. Che ne sapeva lei, con la sua maturità classica, di grafici, formule algebriche ed equazioni! Comunque, col senno di poi, doveva riconoscere che quella materia le era giovata parecchio, perché l’avvilimento l’aveva portata, quasi senza accorgersene, a perdere gli ultimi chili di troppo. Negli anni del liceo era stata femminista, di quelle che non perdevano un corteo e cantavano gli slogan alle manifestazioni. A lungo aveva indossato sempre e soltanto la divisa d’ordinanza della brava militante: gonna lunga sformata a fiori, o in alternativa blue-jeans, scarpe basse, camicetta e maglione di lana grossa molto consumato e possibilmente anch’esso sformato. All’Università non aveva rinnegato le sue convinzioni, ma aveva comunque deciso di svoltare, anche perché nonostante il gran parlare lei era sempre rimasta ai margini della rivoluzione sessuale e della libertà che gridava nelle strade ai cortei. Che male c’è, in fondo, a mostrarsi più carina, a pettinarsi meglio e a curare l’aspetto fisico? Da qualche tempo frequentava una piccola comitiva che non aveva niente a che vedere con le vecchie conoscenze della scuola. I ragazzi erano tutti più grandi, laureandi o già laureati e anche benestanti. Il sabato sera si usciva a cenare fuori. Al ristorante naturalmente, e vestiti bene. Gli anni del liceo sembravano lontanissimi e non le mancavano. Quando però si fermava a riflettere sui cambiamenti in corso nella propria vita non sempre riusciva a concludere di aver intrapreso la strada migliore. Una parte di lei era appagata di se stessa, l’altra, quella forse più vera che si risvegliava solo a volte, le provocava inquietudine e la sensazione di vivere una vita non completamente sua, fatta di rapporti superficiali e di convenzioni. Una vita recitata più che vissuta. A diciotto anni suonati, ed era ora, aveva avuto il suo primo ragazzo incominciando la sua personale rivoluzione e liberazione sessuale. Gli amici che frequentava però, a ben rifletterci, erano tutti ottime persone, ma troppo perfettini e anche un po’ noiosi. Si parlava soprattutto di studio e Università e poi ancora di sistemazione professionale, di sbocchi e carriere. Tutti serissimi argomenti che purtroppo non riuscivano ad appassionarla. Lei invece, a dire il vero, non aveva ben chiaro il suo futuro anteriore e neppure quello prossimo. A volte era graniticamente certa che si sarebbe laureata, altre aveva l’impressione di studiare solo per occupare il tempo nell’attesa di chissà cosa. Non era sicura di volersi veramente impegnare per tutti gli anni necessari, soprattutto pativa oltremodo la tensione e lo stress dell’esame e poi, a dirla tutta, non era completamente convinta di aver fatto la scelta giusta. Certo l’immagine di se stessa a trent’anni, giovane e brillante avvocatessa o abile investigatrice in polizia, la affascinava enormemente, ma il solo pensiero che per arrivarci avrebbe dovuto sopportare la tragedia di altri diciassette esami la atterriva. Comunque era lì, e l’indomani si sarebbe seduta su una di quelle tre poltroncine davanti a quegli stronzi che pareva provassero piacere solo quando bocciavano qualcuno. La materia l’aveva studiata, era preparata ma terribilmente nervosa, e sapeva che quando era nervosa esagerava. In tutto. Parlava a voce alta, rideva per nulla, si agitava. Aveva pensato di venire un giorno prima per verificare la preparazione seguendo le prove dei colleghi, ma era soltanto riuscita a parlare, anzi a cazzeggiare tutto il tempo, con Francesca, la sua amica e compagna di studio. Stava quasi per andarsene quando le si era seduto accanto quel tipo decisamente improbabile. Capelli indefinibili, non lisci non ricci e neppure ondulati, cespugliosi piuttosto, brufoli da quindicenne, barba vergognosamente non rasata almeno da due settimane e impermeabile modello Humphrey Bogart in Casablanca, nella scena dell’addio a Ingrid Bergman. Era sicura che la stesse guardando già da un po’, cercava di sorprenderlo ma lui si girava dall’altra parte. Aveva accavallato le gambe e ora dondolava la caviglia, quasi mettendosi in mostra, certa che lui fosse interessato all’argomento. Non le dispiaceva affatto che le guardasse le gambe, provava anzi il sottile piacere della seduzione. Mai e poi mai avrebbe immaginato qualche anno prima ai collettivi e nelle riunioni studentesche di riuscire a fare qualcosa di minimamente paragonabile a questo, e di divertirsi per giunta. Del resto con la gonna lunga a fiori e le polacchette sarebbe stato altamente improbabile. «Ti dice niente questo tizio seduto accanto?» «Lo conosco di vista, andava a scuola al Maurolico, dovresti ricordartelo pure tu. Perché ti interessa?» «Perché se ne sta seduto a una poltroncina di distanza, muto e fermo che pare imbalsamato, e ogni tanto mi guarda.» «Certo come no, la donna fatale. A me pare piuttosto che abbia lo sguardo perso nel vuoto, sarà atterrito per gli esami, come tutti del resto. Però non è male, le occhiaie gli arrivano sotto il naso ma nel complesso ha un suo fascino.» «Appunto, il fascino dell’orrido!» «Non è vero, anzi quell’aria un po’ sbattuta gli dona, se poi togli qualche stravaganza, tipo l’impermeabile come quello di mio nonno, devi ammettere che ha delle qualità. Gli tagli la barba, gli sistemi in qualche modo i capelli, gli metti addosso un abbigliamento decente e diventa carino.» «Comunque deve essere povero.» «Perché?» «Non lo so, non che mi importi. Però veste male, è dimesso, sembra che non se la passi troppo bene.» «Magari invece è ricchissimo e lo fa apposta per acchiappare quelle come te che si incuriosiscono. Guarda che l’ho capito che ti piace.» Era quasi l’una e avevano già chiamato i candidati degli ultimi esami della mattinata. Fra poco sarebbero andati tutti a casa, compreso lo strano personaggio che pareva osservarla. Daniela faceva di tutto per incrociare il suo sguardo, quasi incoraggiandolo a dire qualcosa, qualunque scemenza per iniziare un minimo di conversazione. La storia d’amore I «Devi fare esami oggi?» «No, domani mattina, probabilmente sul tardi. Dipenderà tutto dalla percentuale di assenti e bocciati lampo. Sono il numero 100.» «Con quella barba di due settimane non ti faranno nemmeno sedere.» «Quella me la taglio domani.» «Oltre alla barba potresti anche darti una pettinata. Lo dico per te, aumenteresti senz’altro le tue chances.» «Lo terrò a mente. Tu invece?» «Anch’io devo fare esami domattina, sono il numero 103, la mia amica è il 104.» Il ghiaccio era rotto, ora però bisognava continuare e qui le cose si complicavano non poco. Dopo le ultime parole di Daniela era calato di nuovo il silenzio, il cervello di Andrea lavorava freneticamente alla disperata ricerca di qualcosa di originale per continuare a chiacchierare, aveva quasi l’impressione di sentire il rumore delle rotelle che giravano vorticosamente nella sua testa senza produrre alcun risultato apprezzabile. “Sto facendo la figura dell’idiota.” Daniela era dubbiosa. Aveva preso l’iniziativa ma ora non sapeva decidersi. Lui rimaneva di nuovo zitto e lei non capiva. Forse aveva esagerato, la battuta sui capelli poteva risparmiarsela, oppure molto semplicemente non era così interessato come a lei era parso. Aveva ragione Francesca, ultimamente tendeva a sopravvalutarsi. Era un atteggiamento sbagliato, lo sapeva, del tutto contrario a quello troppo dimesso di prima. Col tempo avrebbe trovato la giusta misura, ma intanto le piaceva così. Aveva la sensazione di sentirsi come il brutto anatroccolo che finalmente diventa un cigno. Fino al ginnasio i suoi l’avevano praticamente marcata a vista. Veniva accompagnata a scuola e riportata a casa dai genitori della sua amica del cuore. Entravano e uscivano dall’edificio sempre e soltanto dalla porta secondaria. A parte i compagni di classe, e solo per il tempo che trascorreva in aula, non aveva avuto una conoscenza maschile. Aveva il permesso di uscire unicamente nel pomeriggio e soltanto con alcune amiche, più imbranate di lei. Alle otto di sera poi scattava il coprifuoco. Quello era l’orario in cui rientrava dal lavoro suo padre. Al liceo aveva cambiato scuola e conquistato un po’ più di libertà. Con i nuovi compagni era poi scattato l’impegno politico: riunioni, collettivi, lotta per la parità, cortei e manifestazioni. Quegli anni però non l’avevano convinta del tutto, la spregiudicatezza delle idee e dei discorsi restavano in superficie senza attraversarla. In ogni caso, passato il liceo, l’aveva fatta finita con tutto. Era pure dimagrita e si era lasciata crescere i capelli. Sentiva di essersi ormai liberata dalle scorie di una educazione troppo repressiva, così come dalle esagerazioni studentesche. Andrea intanto era come paralizzato. Succedeva sempre così, ogni volta che una ragazza gli piaceva, e solo di recente aveva imparato a fare di necessità virtù. Con le ragazze non ci provava più nel senso classico del termine, aveva capito che forse valeva la pena di assecondare la sua natura. Insomma piuttosto che dire scemenze per far colpo, meglio star zitto. L’estate precedente, al campeggio, era stato l’unico fra gli amici della sua combriccola a farsi una ragazza, Alessandra, proprio in questo modo. L’aveva avvicinata per primo il suo amico Giovanni piantando la bandierina di conquista come al risiko. Andrea per lealtà verso il compagno, nonostante si sentisse attratto da lei, si era fatto da parte. Sciolto dall’obbligo di dover essere simpatico e divertente a tutti i costi, se ne stava quasi sempre zitto o lasciava la comitiva e se ne andava per fatti suoi. Dopo un po’ si era ritrovato Alessandra dappertutto. Andava a farsi la doccia ed era lì, scendeva in spiaggia da solo e lei arrivava e stendeva l’asciugamano accanto al suo, passeggiava in pineta e gli si materializzava a fianco. Finché una sera l’aveva baciato confessandogli di essere attratta da lui, di aver capito che era diverso da tutti gli altri, che era sensibile e sognatore come lei. Andrea naturalmente non l’aveva contraddetta, anche perché in cuor suo sapeva che in fondo era veramente così. In ogni caso aveva concluso che le donne sono proprio strane: mezza popolazione maschile del campeggio andava dietro ad Alessandra, il suo amico ci perdeva il sonno, e lei si invaghiva dell’unico ragazzo che apparentemente non sembrava interessato a lei. La storia non era sopravvissuta alla vacanza ma gli aveva fatto proprio bene. Adesso però in quell’aula era combattuto, da una parte credeva di star facendo una monumentale figura di merda e temeva di perdere l’ennesima occasione, dall’altra percepiva, fiutava che forse andava bene anche così. Tutto sommato era stata lei a prendere l’iniziativa e ora sembrava quasi che lo stesse pesando, sentiva addosso i suoi sguardi che lo trapassavano, aveva la netta sensazione che lei stesse valutando l’eventualità di continuare, o finirla lì. «Senti sono stanca, me ne vado a casa. Tu resti o vieni via?» «Vengo anch’io, tanto qui per stamattina non c’è altro da vedere.» «Io vado a piedi, abito poco oltre piazza Cairoli. Tu?» «Io no. Cioè io abito più in periferia, ma ho la macchina vicino alla piazza, posso accompagnarti per un po’.» «Cosa fai nella vita? Voglio dire oltre a lasciarti crescere la barba e a non curarti i brufoli.» «Niente di particolare, quello che fai anche tu. Studio, vorrei laurearmi e fare l’avvocato. Però…» «Però cosa?» «Giurisprudenza fino a oggi è stata una grandissima delusione.» * * * Daniela, salutato Andrea, si era diretta verso casa. In realtà non era così vicina come gli aveva lasciato credere, ma non voleva che lui la accompagnasse fin sotto al palazzo. Non lo conosceva abbastanza, anzi non lo conosceva affatto, ora che ci pensava non sapeva neppure il suo nome. Non glielo aveva chiesto e lui ovviamente non glielo aveva detto, visto che a quanto pare parlava solo se interrogato. Camminando si specchiava nelle vetrine del viale San Martino e si sorprendeva a sorridersi. Proprio così, passeggiava senza fretta, si guardava riflessa e rideva. Eppure non avrebbe dovuto. Era a meno di ventiquattrore dall’esame. Il rigido copione delle precedenti vigilie aveva sempre messo in scena stomaco chiuso, crampi, nausea, capogiri, depressione e voglia di morire. Fino a prima mattinata tutto si era svolto secondo normalità. Dopo colazione aveva vomitato poi, quando i crampi allo stomaco erano diventati insopportabili, si era affidata alla solita pillola e infine, prima di andare in facoltà, aveva preso le canoniche venti gocce per il mal di testa. Ora invece stava benissimo, aveva anche fame. Andrea, appena lasciata Daniela, era tornato indietro lungo la stessa via. La macchina in realtà l’aveva parcheggiata vicino alla circonvallazione, esattamente all’opposto di piazza Cairoli. Aveva mentito per poterla accompagnare. Quella bugia, a ben pensarci, era stata l’unica alzata d’ingegno di tutta la mattinata. Comunque era certo di averla, se non conquistata, almeno incuriosita. Come si chiamava? Non lo sapeva. Possibile? Possibile sì, visto che non le aveva neppure chiesto il nome. E nemmeno le aveva detto il suo. Forse non era partito troppo bene. Ma domani si sarebbero certamente rivisti. Mentre camminava aveva netta, precisa, stampata nella mente l’immagine di lei. E gli piaceva. Però tutto quel tempo da trascorrere prima della mattina seguente diventava un problema serio. Sapeva di dover studiare duramente per cercare di migliorare in extremis la preparazione, ma per farlo avrebbe dovuto smettere di pensare a quella ragazza e non era certo di riuscirci. Era invece sicuro che si sarebbe arreso senza condizioni, abbandonandosi a sognare a occhi aperti. II Ore dieci, Aula A della facoltà di giurisprudenza, la stessa del giorno prima. Andrea era lì dalle otto e trenta, invano intento a concentrarsi sullo studio. Le venti ore precedenti erano state un incubo. In famiglia tutti avevano capito che qualcosa non andava. Durante il pomeriggio la mamma, con le scuse più banali, era entrata e uscita dalla sua stanza trovandolo sempre con i gomiti appoggiati alla scrivania, le mani a reggere il capo e lo sguardo perso nel vuoto. Sua sorella, già laureata, si era offerta più volte di farlo ripetere, ma lui aveva decisamente rifiutato. Il padre per fortuna lavorava fino a tardi e comunque era sempre molto discreto. Fino a sera insomma era rimasto inebetito sui libri o a ciondolare per casa. A cena poi aveva mangiato come un lupo, cosa che faceva sempre quando aveva qualche problema, ed era andato subito a letto sperando di riuscire a dormire e poi svegliarsi al mattino presto per ripassare. La nottata invece era stata tremenda, si era girato e rigirato inutilmente senza prendere sonno, aveva l’impressione di non essersi addormentato un solo minuto. L’aveva pensata e immaginata in ogni situazione e con tutte le possibili varianti: lei che gli dichiarava il suo amore; lei che stava con un altro ragazzo e lui li vedeva baciarsi; lei che lasciava l’altro per lui; lei che tornava con l’altro lasciando lui. E poi: loro due insieme; loro due che facevano l’amore; loro due che si sposavano. E ancora: lei che lo tradiva spudoratamente; lei che pensava che lui la tradisse, ma non era vero perché lui amava solo lei. Alle sei e mezzo di mattina aveva preso il libro solo per compiacere sua mamma lasciandole intendere che stava ripassando la materia. Alle sette e mezzo aveva deciso di sbrigarsi per uscire. Si era fatto la barba, tagliandosi più del solito, e poi aveva indossato la tenuta da esame: pantalone blu scuro, camicia azzurra con i bottoni al colletto e maglione girocollo, blu pure quello. Aveva lasciato perdere i capelli, tanto non era cosa, ed era uscito. La facoltà doveva ancora aprire e lui si trovava già lì. Seguiva gli esami con l’occhio incollato all’entrata per vederla arrivare. Alle dieci e trenta ancora niente. Cominciava a temere che le fosse successo qualcosa. Alle dieci e quarantacinque, quando lui era già quasi nel baratro, Daniela era entrata insieme alla sua amica, l’aveva visto e gli si era seduta accanto. «Ma che faccia hai? Sembri uno zombie.» «In effetti non ho dormito molto stanotte, ho cercato di ripassare.» «Io invece no, credo di essere abbastanza preparata e poi all’ultimo momento non si conclude mai niente.» Veramente Daniela non aveva quasi studiato. All’ora di pranzo era tornata a casa e aveva mangiato di gusto, la prima volta che accadeva alla vigilia di un esame. Aveva visto un po’ di televisione ed era andata a riposarsi. Nel pomeriggio, dopo due ore di sonno, cosa anche questa fuori dal comune, aveva chiamato Francesca ed era rimasta incollata al telefono. L’argomento di conversazione, manco a dirlo, era stato lui. Francesca aveva detto che era carino. E poi quell’aria indefinibile. Sembrava un intellettuale che vivesse fra le nuvole. Comunque aveva la faccia da gatto, sì, sembrava un gatto. Che età aveva? Il fisico non era male, un po’ bassino ma proporzionato, troppo magro forse. Ma dopotutto meglio magro che grasso. Peccato per quei brufoli. Però non erano molti, se ne sarebbero andati. Finito con Francesca, tramortita dalle chiacchiere, verso le sei di pomeriggio si era seduta finalmente alla scrivania. Ma aveva concluso zero. Senza prendersela, però. A sera, novità assoluta prima di un esame, aveva cenato regolarmente con i suoi. Sua mamma, testimone muta e dolente di tutte le vigilie tristi, non sapeva raccapezzarsi. La vedeva fare cose mai fatte, la sentiva ridere al telefono, e la guardava esterrefatta mangiare con appetito. Più di una volta le aveva chiesto se per caso non avessero rinviato gli esami, o avesse deciso di non presentarsi. Quell’atteggiamento non la convinceva, c’era sotto qualcosa. Lei comunque era andata a letto presto come ogni volta e aveva faticato a prendere sonno, ma non per la paura dell’esame. La mattina si era alzata fresca e riposata. Appena sveglia in effetti, passato lo stato di grazia del giorno prima, la paura dell’esame l’aveva azzannata, ma non come le altre volte. Non aveva vomitato, né era stata preda dei soliti crampi. Dopo colazione aveva preso i libri ed era persino riuscita a ripassare qualcosa. Verso le dieci e mezza, con calma, era uscita di casa. Tanto l’esame non sarebbe stato prima dell’una o addirittura nel pomeriggio. «Come ti sei vestito? Sembri un becchino.» «Per essere più serio, mi sono anche fatto la barba.» «E ti sei tagliato tutta la faccia. E i capelli?» «Per quelli non c’è speranza meglio lasciarli così.» «Allora hai ripassato?» «Poco.» «Come ti senti?» «Mi sento che non so un cazzo.» «Scusa ma perché vuoi fare l’esame? Rinvia a febbraio.» «Non posso, ho già rinviato a settembre e poi a ottobre. Se non faccio l’esame corro il rischio di non poter più tornare a casa.» «Addirittura?» «Nella mia famiglia su queste cose si scherza poco. Mia sorella più grande si è già laureata, in corso e brillantemente, il suo ragazzo pure. Tutti e due in giurisprudenza. Se consideriamo i parenti stretti, e sono tanti, quasi tutti i miei cugini più grandi hanno preso la laurea col massimo dei voti. Non ho scampo.» «Ma non è peggio se ti bocciano?» «No. Posso sempre raccontare di essermi confuso o che il professore mi ha fatto cadere su un argomento che non era nel programma. Anche se è molto difficile che se la bevano.» «Insomma non stai messo bene.» «Puoi dirlo.» «Aspetta, stanno dicendo qualcosa.» “Per questa mattina gli esami chiuderanno con il numero cento, i candidati dal numero centouno al centoventi dovranno ripresentarsi nel pomeriggio a partire dalle quindici.” «Meglio così almeno mi cavo il dente subito.» Alle dodici e quarantacinque era stato chiamato, ultimo studente della mattinata. Nella prima risposta aveva confuso qualcosa ma era passato indenne, alla seconda erano incominciati i guai, la terza aveva sancito il crollo. Bocciato in meno di un quarto d’ora. Daniela non era andata via. Aveva aspettato al suo posto che lui finisse. «È andata male.» «Infatti. Scusami, me ne voglio andare subito.» «Aspetta, parliamo da due giorni e non ci siamo nemmeno presentati.» «Hai ragione, Andrea Scuderi.» «Piacere, Daniela Giordano.» «Allora ciao, in bocca al lupo per i tuoi esami.» III Ma che gli era preso, era andato via come un fulmine quasi senza salutarla. Se lei non glielo avesse detto, non avrebbe saputo neppure il suo nome. Avrebbe potuto seguire i suoi esami nel pomeriggio e invece non aveva fatto neanche quello. La bocciatura l’aveva reso furioso. Ma perché? In fondo era prevedibile. Anzi, vista la poca preparazione, era la cosa più probabile. E allora perché se l’era presa così tanto? Non riusciva a darsi una spiegazione logica. Ma dentro di sé sapeva che la risposta era lei. Era per lei che avrebbe voluto superare la materia. Non voleva ammetterlo ma si sentiva umiliato, si rivedeva seduto davanti alla cattedra a farfugliare in preda alla confusione più totale e avrebbe voluto spararsi. È vero, glielo aveva detto di non essere preparato. Ma lui non era quel ragazzo balbettante e impaurito cui il professore aveva restituito con disprezzo il libretto universitario. Era di più e di meglio. E correva il rischio di non farglielo sapere mai. Si sarebbe dovuto fermare un poco, accompagnarla a casa come il giorno prima e magari aprirsi di più, spiegarle i suoi pensieri, raccontargli di lui. E invece niente. La vergogna e l’umiliazione della bocciatura l’avevano sopraffatto e non era stato capace di riprendere al volo la situazione. Sentiva di avere un talento naturale nel fare sempre le scelte sbagliate. E adesso? Sapeva solo il nome e che abitava dalle parti di piazza Cairoli. Era molto probabile, se avesse superato l’esame, che dopo le vacanze di Natale avrebbe cominciato a seguire le lezioni di diritto privato. Anche lui se le sarebbe sciroppate. Forse non tutto era perduto. Se poi non l’avesse vista alle lezioni, si sarebbe messo a pattugliare giorno e notte i dintorni del viale San Martino, prima o dopo l’avrebbe certamente incontrata di nuovo. In famiglia comunque non era andata troppo male. La colpa della bocciatura se l’era beccata il professore che l’aveva fatto cadere su una domanda incomprensibile. Sua sorella gli aveva retto il gioco dichiarando che quello era un vero stronzo che faceva sempre così e sua mamma non si era lamentata troppo, anche se Andrea aveva capito che era ormai arrivata al limite della tolleranza. In casa non erano troppo abituati a bocciature e voti bassi, dopo la tregua armata di Natale la mamma sarebbe certamente partita all’attacco con le prediche. Tutta colpa di Valeria, così si chiamava sua sorella, che aveva avuto una carriera scolastica e universitaria brillante che lui, fratello più piccolo, era sempre stato costretto a inseguire. In realtà erano molto simili e la differenza d’età di quasi cinque anni non s’avvertiva più. Andrea si confidava con lei e le aveva rivelato di aver conosciuto una ragazza bellissima. Daniela aveva lasciato l’aula sconcertata. Va bene che era stato bocciato e non poteva certo fare salti di gioia, però liquidarla così! Non glielo avesse chiesto lei, neppure il suo nome le avrebbe detto. Era tornata in facoltà al pomeriggio molto meno determinata di alcune ore prima. L’aveva cercato con lo sguardo ma lui non c’era. A casa, all’ora di pranzo, era riuscita a mandar giù solo pochi cucchiai di pastina, che naturalmente aveva vomitato subito. Prima di presentarsi all’esame aveva dato fondo a tutta la farmacia che si portava nella borsa per ogni evenienza. Lo stato di grazia delle ultime ventiquattrore era improvvisamente svanito. La tensione, salita via via con l’approssimarsi della chiamata, aveva fatto sì che si sedesse infine davanti alla cattedra preda del solito nervosismo. Il docente per fortuna non era tra i più cattivi, aveva cercato subito di tranquillizzarla e così erano trascorsi senza danni i primi minuti che per lei si rivelavano sempre decisivi. L’esame era così andato liscio fino alle domande finali, quelle sul negozio giuridico. Lì si era inspiegabilmente confusa e al professore non era rimasto che promuoverla nella parte generale della materia, con l’esclusione del negozio per il quale avrebbe dovuto presentarsi all’appello successivo. Nonostante tutto era molto soddisfatta. Il negozio giuridico in fondo rappresentava solo una piccola parte che avrebbe potuto tranquillamente ripassare qualche settimana prima dell’appello di febbraio. L’incubo introduzione, intanto, era svanito. Adesso l’aspettavano le feste di Natale e poi, a gennaio, una bella settimana bianca. Prima dell’esame infatti aveva preso un mezzo accordo con Rosanna, la cugina di Brescia. Sarebbero andate a sciare al Passo del Tonale se lei fosse stata promossa. IV Il panico prima e la soddisfazione subito dopo avevano momentaneamente accantonato Andrea dalla mente di Daniela, ma quella faccia e quell’espressione da gatto erano prepotentemente tornate ad affollare i suoi pensieri quando tutto era finito. Trascorsi ormai due giorni dall’esame, si aggirava indolente per la casa, si sdraiava sul letto per leggere qualcosa, accendeva lo stereo, poi la televisione, senza riuscire a trovar pace. Aveva voglia di rivederlo, sentiva la sua mancanza. Tutto questo era illogico. Come poteva aver bisogno di qualcuno che conosceva così poco? Ma intanto era così. Doveva prendere atto della situazione. Voleva rivederlo e avrebbe trovato il modo. Quei due giorni d’attesa poi l’avevano convinta che se avesse aspettato lui, sarebbero arrivati alla laurea prima di parlarsi di nuovo. Bisognava ancora una volta prendere l’iniziativa. Daniela però non sapeva dove abitava, qual era il suo telefono e come rintracciarlo. Nella sua mente si accavallavano disegni e strategie ma non veniva a capo di nulla. Finalmente, sentita Francesca, che peraltro era stata promossa per intero e non “quasi” come lei, aveva escogitato un piano e si accingeva a metterlo in pratica.