Lia Binetti Rosini
I giochi dei bambini a Venezia
1925 ­ 1930
Io ero una bambina. Il primo campo da gioco fu la Corte del Forno dove abitava mia nonna. Ci andavo d'estate o per le feste di Pasqua, o di Natale o altro. Abitavo a Padova, allora, per cui Venezia e la Corte della nonna rappresentavano la vacanza, il diversivo, un mondo nuovo da scoprire. Dalle finestre si vedeva questa Corte, poco più di cento metri quadrati. Sulla sinistra, vecchi palazzi con le finestre gotiche che dietro davano su un canale. Questo canale era collegato alla Corte con un sottoportico. Al pian terreno, dentro finestrelle, invisibile, qualche artigiano. A destra, un grande isolato a base rettangolare alle cui estremità scorrevano a L due calli che portavano fuori dalla Corte. Al pian terreno, il retrobottega di un negozio di vetri. Di fronte, una casa bassa era l'antica trattoria “Al pignolo” con le cucine al pian terreno. La Corte, tutta lastricata in pietre rettangolari, aveva in mezzo un pozzo. Se, guardando giù, vedevo almeno una bambina, chiedevo di scendere. Mi avvicinavo, volevo sapere il suo nome, le dicevo il mio e le proponevo di giocare a qualcosa. Se una delle due aveva cinque ossi di pesca, ci si sedeva sul gradino del pozzo e si iniziava quel gioco di abilità che consisteva nel raccogliere quasi contemporaneamente un osso a terra e uno che si era lanciato in aria. Poi due e tre per volta, passandosi gli ossi a ogni errore. Il gradino era di pietra d'Istria e dopo qualche partita si sentiva freddo al sedere. Se c'era una corda, l'ideale era saltare. Prima una, contando i salti fino al primo inciampo, poi l'altra. Con un po' di allenamento si poteva saltare anche in due con la stessa corda. Se le bambine erano due, allora due facevano girare la corda e la terza saltava. In questo caso c'era tutta una serie di varianti: corda lenta, corta svelta, entrate, uscite, con un piede, con due, il tutto accompagnato da tiritere che non ricordo più. Se le corde erano due, il gioco diventava ancora più interessante. Un gesso e un vecchio tacco di scarpa da uomo erano gli ingredienti per giocare al “Campanòn”. In quella Corte c'era da un lato una serie di dieci “maségni” ottimi per essere trasformati in “Campanòn” scrivendo sopra col Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
gesso i numeri dall'uno al dieci. Il tacco si lanciava sulla prima pietra, per l'occasione chiamata casella, e poi si doveva saltare su tutte le altre stando su un piede. Sul dieci si riposava e quindi si tornava fino al due, si raccoglieva il tacco e si saltava fuori. Poi si ripeteva il gioco lanciando il tacco via via su tutte le altre caselle. A un errore il gioco passava a un'altra bambina. Era errore fare andare il tacco fuori dalla casella designata, pestare il confine delle caselle o perdere l'equilibrio. Finito di giocare sulle dieci caselle, la prima che ci arrivava doveva ripercorrere le caselle a occhi chiusi e su due piedi. A ogni passo che faceva per occupare la casella successiva doveva dire “Am” e se tutto andava bene, le veniva risposto “Salam”. Ripercorso così il Campanòn a occhi chiusi, andata e ritorno, fra gli Am e i Salam, la bambina veniva proclamata vincitrice. I turni si stabilivano col “tocco”. Lo faceva una qualsiasi delle bambine messe in cerchio, toccando a turno sul petto di ognuna, mentre recitava una filastrocca tipo: “Ai barabài barabùm cin cin
cibiribìn che ciucca el re
cìcchete ciòcchete ciumberlàcche
piglia cine chi sta fuori
ùnala dònala trènala
quare quarìncola
madre la frìncola
vare varese diese” e la bambina sul cui petto si trovava la mano alla parola “diése” iniziava il gioco. Se i bambini erano molti, di misura omogenea e in numero pari, si poteva giocare a “Libera don don”, gioco a squadre in cui si correva molto per fare dei prigionieri e per liberarli. Vinceva la squadra che per prima riusciva a liberare tutti i suoi prigionieri. Un altro gioco di questo genere era “Bandiera”. Ci si accalorava molto in questi giochi e talvolta l'esultanza della vittoria veniva calmata da una spruzzata d'acqua accompagnata dalla frase: “Fioi de cani, ghe la molaré de sigàr!” e la risposta era: “Va reméngo!” Ma nessuno aveva voglia di riprovarci e si passava a un gioco molto più silenzioso: “I mestieri muti”. Un gruppo doveva mimare un mestiere, sempre molto difficile, tipo “fumista” o “parroco” e dirne l'iniziale e la finale. L'altro doveva indovinare. Gran gioia quando il secondo gruppo riusciva a indovinare, così toccava a lui inventare un mestiere inimmaginabile e mimarlo. Un po' simile ma più statico era il gioco delle “Belle statuine”. Una stava girata verso il muro finché le altre si mettevano in posa. Le pose classiche erano di preghiera, di saluto o di danza. Una volta composte, ognuna nella sua posa, si 2
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
diceva “Via!” e la prima poteva guardarle e scegliere la posa più bella. Allora toccava a questa andare al muro per fare poi da giudice. Se nel gruppo c'era un maschio, immancabilmente sciupava tutto, perché invece di fare la bella statuina faceva la brutta statuina con sberleffi, corna, e occhi storti. C'era un tabaccaio nelle vicinanze che vendeva anche souvenir e oggetti vari. Ogni tanto faceva il riordino del negozio e tutte le cose che scartava le regalava a suo figlio, il quale allestiva una pesca che erroneamente chiamava di beneficenza, visto che i soldini che intascava se li teneva lui. L'organizzazione consisteva in una sedia con sopra una tavola per lavare dove appoggiava i suoi tesori in bell'ordine e tutti numerati. Lì si potevano vedere tabacchiere con la cromatura arrugginita, palle di vetro con la neve dentro a cui si era staccata dal fondo la Basilica di San Marco che volteggiava con la neve, spille di mosaico a cui era venuta via la spilla, collanine di vetro dai colori tristissimi, quaderni deteriorati dall'acqua alta, accendini che non accendevano e leoncini di San Marco in pietra a cui mancava come minimo la coda. I biglietti costavano cinque centesimi l'uno. Non era molto, ma parecchi erano vuoti. Comunque la cosa ci divertiva e quando Carletto si piazzava in Corte con la sua pesca, correvamo a chiamarci una con l'altra per guardare e tentare la sorte. Quando i biglietti che compravamo erano esageratamente vuoti ci arrabbiavamo e lo lasciavamo solo. Allora lui, a poco a poco, toglieva i biglietti vuoti pur di finire la sua merce prima di sera. Il retrobottega del negozio di vetri, nella bella stagione, stava con la porta aperta e si poteva vedere cosa avveniva all'interno. A un tavolo stava seduta una giovane donna che, con pennellini sottilissimi di varie misure e con dello smalto banco, dipingeva con molta pazienza e molta perizia dei finti pizzi di Burano su coppe, o piatti, o bicchieri blu. Un'altra aveva sul tavolo delle bacchettine di vetro colorato e una fiammella a gas. Di fianco, una grande ruota girevole messa di taglio, il cui bordo era largo circa venti centimetri, veniva azionata da un pedale. A cosa serviva questa attrezzatura misteriosa? A filare il vetro. La giovane donna appoggiava l'estremità della bacchettina sulla fiammella e quando questa, diventata incandescente stava per cascare giù, con un colpo maestro, faceva andare la goccia al di là della ruota che girando raccoglieva quel filamento di vetro che andava dalla bacchettina alla goccia incandescente che cadeva per terra. Qualche volta il colpo non era così maestro, allora la goccia cadeva la di qua della ruota, vicina alla soglia o addirittura in strada. Per me era una fortuna. Raccoglievo queste gocce di vetro che risultavano sempre diverse per forma o colore e, soprattutto, si differenziavano da tutti gli altri “veretti” che mettevo in un barattolo per fare ogni tanto la gara dei veretti con tre sorelline mie amiche che abitavano a Padova. Ognuna di noi possedeva un barattolo con dei cocci di vetro o di porcellana che avessero qualcosa di bello: un fiorellino, una righetta d'oro, un'incisione, oppure, casualmente, una forma particolare. Quando facevamo la gara, disponevamo i nostri veretti su un diverso gradino della scala di casa avendo cura che gli accostamenti fossero sapienti in 3
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
modo che ogni pezzo figurasse di più Poi si giudicava qual'era la mostra migliore. Ricordo che eravamo sempre molto obbiettive e chi aveva i veretti più belli le venivano riconosciuti. Da quando io potevo aggiungere alla mia raccolta le gocce di vetro vincevo sempre. A Padova non c'erano, e suscitavo per questo molta invidia. Ma torniamo alla ruota. Con quelle matasse di vetro filato altre giovani donne intrecciavano cestini di varie forme e colori di cui i “foresti” andavano pazzi. In quella Corte abitava un giovanotto alto, magro e azzimato che passava spesso con la racchetta da tennis. Qualche volta mi si avvicinava con due palle da tennis in mano e mi diceva: “Ti interessano? Per me sono troppo rovinate.” Se mi interessavano? Eccome! Intanto io non ho mai capito in cosa fossero rovinate e poi erano meno scivolose e rimbalzavano meglio delle normali palline di gomma. Così, per un certo tempo, il gioco preferito diventava quello delle due palle, lanciate alternativamente sul muro. Il gioco iniziava col tocco che di preferenza era questo: “Pon pon d'oro la lilla è lancia
questo è il gioco che si fa in Francia.
Lero lero mi
lero lero ti
pon pon d'oro
sta fora ti.
Sta fora ti
sta fora mi
la mia gata la vol morir
Lassa pur che la me mora
ghe faremo na cassa dora
cassa dora de curame uno due tre amen
uno due tre amen
uno due tre amen” e il gioco iniziava con tutte le varianti possibili: con due mani e su due piedi, poi su un piede, sull'altro, con una mano e con l'altra, ahimè!, la sinistra. Quant'era difficile! Sempre accompagnate da qualche tiritera, tipo: “Vado in càe
zogo ae do bae
trovo el spasin 4
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
ghe tiro el coin” Questo gioco, naturalmente, si faceva se le bambine erano due o tre, altrimenti i tempi di attesa diventavano troppo lunghi. Così, se ogni tanto arrivavano in Corte l'Alba e la Gina col fratellino, poi Carletto, e poi la Olga e la Jole, e poi Vittorio e Sergio con la Elsa, si finiva per fare un bel girotondo di quelli cantati, con la fine che si riallacciava al principio, una specie di moto perpetuo ritmato da colpi di piede a ogni “bum” della canzone. “Vogliam vedere il bosco, bum,
vogliam vedere il bosco, bum,
vogliamo vedere il bosco, dindina dindella,
vogliam vedere il bosco dindina cavalier.”
“Il fuoco l'ha bruciato, bum,
il fuoco l'ha bruciato, bum,
il fuoco l'ha bruciato dindina dindella,
il fuoco l'ha bruciato dindina cavalier.”
“Vogliam vedere il fuoco, bum,
vogliamo vedere il fuoco, bum,
vogliam vedere il fuoco dindina dindella,
vogliam vedere il fuoco dindina cavalier.”
“L'acqua l'ha già pento, bum,
l'acqua l'ha già spento, bum,
l'acqua l'ha già spento dindina dindella,
l'acqua l'ha già spento dindina cavalier.”
“Volgiam vedere l'acqua, bum,
Volgiam vedere l'acqua, bum,
Volgiam vedere l'acqua, dindina dindella,
Volgiam vedere l'acqua, dindina cavalier.”
“Il bove l'ha bevuta, bum,
Il bove l'ha bevuta, bum,
Il bove l'ha bevuta, dindina dindella,
Il bove l'ha bevuta, dindina cavalier.”
“Vogliam vedere il bove, bum,
Vogliam vedere il bove, bum,
Vogliam vedere il bove, dindina dindella,
5
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
Vogliam vedere il bove, dindina cavalier.”
“Vittorio l'ha ammazzato, bum,
Vittorio l'ha ammazzato, bum,
Vittorio l'ha ammazzato, dindina dindella,
Vittorio l'ha ammazzato, dindina cavalier.”
“Volgiam veder Vittorio, bum,
Volgiam veder Vittorio, bum,
Volgiam veder Vittorio, dindina dindella,
Volgiam veder Vittorio, dindina cavalier.”
“Vittorio è nel bosco, bum,
Vittorio è nel bosco, bum,
Vittorio è nel bosco, dindina dindella,
Vittorio è nel bosco, dindina cavalier.”
Il resto lo lascio immaginare. Quando qualche tranquillo artigiano intento alla sua opera si accorgeva che quel chiasso, sia pure gioioso, non avrebbe avuto fine, preso dalla disperazione, ricorreva alla classica spruzzata d'acqua. Se eravamo solo bambine, ma troppe per giocare al Campanon o alle due palle o alla corda o agli ossi, si faceva un girotondo dove una stava fuori e saltellava in senso contrario al girotondo, cantando: “Oh quante belle figlie Madama Doré,
oh quante belle figlie”.
il girotondo in coro rispondeva: “Se le ho me le tengo Madama Dorè
se le ho me le tengo.” “Il Re ne comanda una Madama Dorè,
il Re ne comanda una.”
“E come la vorrebbe Madama Dorè,
e come la vorrebbe?”
“La vorrebbe col vestito celeste Madama Dorè,
la vorrebbe col vestito celeste”.
Se le bambine col vestito celeste erano due, si passava a chiedere altri particolari: occhi, capelli, scarpe, finché si capiva inequivocabilmente qual'era la bambina prescelta e questa usciva dal girotondo, dava la mano a quella che stava fuori e con lei riprendeva a cantare:
6
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
“Oh quante belle figlie, madama Dorè... “ finché si formava il girotondo all'esterno e all'interno restava un'ultima bambina che usciva dal girotondo e ricominciava il gioco. L' “Omnibus” era un gioco elettrizzante perché ci consentiva di uscire abusivamente dalla Corte e viaggiare per campi e campielli dei dintorni. Ci voleva una lunga corda e un bambino un po' intraprendente che facesse da cavallo. La corda passata dietro al collo e dietro le ascelle del cosiddetto cavallo, veniva tenuta nei suoi capi estremi da un altro bambino che faceva da postiglione. In mezzo ai due tratti di corda tesi fra il cavallo e il postiglione, tutti gli altri bambini in fila indiana facevano da passeggeri. Così composto, l'Omnibus partiva. Il cavallo nitriva e saltellava per simulare il galoppo. Il postiglione dava la rotta e tutti, e sentendoci protetti dalla corda e dalla compagnia, andavamo felici per calli e campielli inusitati. Al ritorno, dopo questa gran corsa, ci si fermava a bere alla fontanella che c'era poco prima della nostra Corte. Le mamme, preoccupate dal silenzio, ci aspettavano alle finestre. Talvolta i miei genitori mi staccavano da questi giochi per portarmi fuori con loro. Allora dovevo salire, lavarmi, pettinarmi, mettermi un vestito buono e le scarpe pulite. Attraversando la Corte per uscire, guardavo con un po' di invidia le compagne di gioco che restavano lì a divertirsi ma, nello stesso tempo, le salutavo con un po' di sussiego. In piazza San Marco i miei genitori, per consolarmi, mi compravano un cartoccetto di granoturco perché dessi da mangiare ai colombi e ci facessi amicizia. Allora mettevo qualche chicco sulla mano tesa e aspettavo. Dopo un po', superata la prima timidezza, i colombi si avvicinavano e mi volavano sulle spalle e sulla mano facendomi tanto ridere, per il solletico, per il timore di quei beccottii e per la gioia di vederli mangiare. Il papà, per aumentare il mio divertimento, si metteva dei chicchi sull'ala del cappello che subito si adornava di colombi. A casa dei nonni, quando mi svegliavo alla mattina, mi veniva data una tazza di latte e cacao con i grissini, una delizia esclusiva. La mamma diceva che il cacao faceva “riscaldo” e usava darmi latte e caffè col pane. Perciò mangiavo lentamente, con raccoglimento la colazione speciale della nonna. Poi mi avvicinavo ala finestra e guardavo in Corte. La nonna si accorgeva subito dalla mia espressione che la Corte era vuota. Allora prendeva un bicchiere d'acqua, ci tagliava dentro delle scaglie di sapone e mescolava a lungo finché il sapone non si fosse sciolto. Poi arrotolava un foglio di carta da quaderno piuttosto strettamente in modo da formare una cannuccia e lo fermava legandoci intorno del filo. Mi dava il tutto esortandomi a soffiare con la cannuccia dentro al bicchiere finché si gonfiava di bollicine. Poi apriva la finestra della cucina che aveva il vetro a ghigliottina e guardando giù faceva quel verso come di tanti bacetti che si usa per chiamare un gatto. Subito i gatti che lei era abituata a nutrire quotidianamente accorrevano con i musetti in su per vedere cosa gli arrivasse quel giorno. Io intingevo la cannuccia nel bicchiere e soffiavo nell'aria lentamente. Una, due o più bolle si staccavano successivamente dalla cannuccia e volteggiavano nella Corte ora salendo, ora 7
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
scendendo, portandosi dietro luci e colori dell'ambiente circostante. I gatti stavano immobili a guardarle coi musetti protesi come per attirarle. E di tanto in tanto qualche bolla scoppiava sul loro naso. Strizzavano gli occhi, scuotevano un po' la testa e si rimettevano in posizione. Il mio gioco delle bolle aveva una controparte. Io facevo le bolle e loro le acchiappavano. Avevo trovato dei compagni di gioco. Neri, soriani, bianchi, pezzati. Stavano lì a lungo ad aspettare le mie bolle. A forza di soffiare, la testa mi si frastornava e la cannuccia tutta imbevuta di acqua e sapone mi si spappolava in mano. Anche la saponata era quasi finita e la nonna diceva che così poteva bastare. Mi levava il bicchiere, mi asciugava le mani e abbassava la finestra a ghigliottina. Da dietro il vetro vedevo allontanarsi con aria incerta, in ordine sparso, dondolando lentamente il sedere, i miei compagni di gioco, neri, soriani, bianchi, pezzati. Da mezza padovana e mezza veneziana divenni veneziana completa. Partendo da Padova, lasciai la mia raccolta di veretti alle tre sorelline mie amiche. I nuovi campi da gioco a Venezia furono la Corte Gregolini e i Giardinetti Reali. In Corte Gregolini giocai ben poco perché vi abitavano tutti maschi: i quattro Held, i tre Coniglio, Bruno Comini e mio fratello. C'erano anche gli Jacchia, ma la Graziella era troppo piccola ed Enrico, non so, non si vedeva mai. Così mi limitavo a guardare dalla finestra i giochi dei maschi: il pallone, le momòle che non so come si chiamino in altre parti d'Italia e che consistevano nello scavalcare un ragazzo messo con la schiena piegata prendendo una rincorsa sempre calcolata in passi e piedi, oppure la lotta. Ai giardinetti, nella bella stagione, potevo trovare qualche bambina con cui divertirmi. Se ce n'era una sola, proponevo di giocare a dama. Sulle panchine di pietra c'era sempre disegnata qualche scacchiera e le pedine ce le procuravamo cercando dei sassi, in parte bianchi e in parte scuri. Per questo gioco, però, mi riusciva più facile incontrare un maschio che una bambina. Se le bambine erano parecchie, si poteva giocare ai colori. Una affidava sommessamente il nome di un colore a ogni bambina. Un'altra, che nel frattempo stava discosta, si avvicinava e cominciava il rituale: “Don don, don don, don don, chi sona 'sto bruto campanòn?”
“Un diavolo co quatro caene de fogo che domanda un color.”
Che color?” Veniva chiesto un colore. Se c'era, la bambina che lo portava usciva e si metteva nell'angolo designato come “Inferno”. Se non c'era continuava il rituale. “Din din, din din, din din,
chi sona 'sto bel campanin?”
“Un angelo co quatro caene de oro che domanda un color.
8
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
“Che color?”
In questo caso il colore indovinato andava nell'angolo designato come “Paradiso”. Per rendere più interessante il gioco, si cercavano dei colori difficili, come “indaco”, o “scarpete dea Madona”. Un gioco meno mellifluo era quello della “Berlina” perciò si faceva anche con i maschi. E con i maschi si giocava a “dame e cavalieri”. Però bisognava essere in proporzioni adatte: o un maschio di più o una femmina di più. I maschi si schieravano di fronte alle femmine e uno alla volta si inchinavano davanti a una bambina. Se lei accettava, la coppia cominciava a fare un tunnel con le braccia; se rifiutava, il bambino tornava in riga e aspettava il turno successivo per provare con un'altra bambina. Via via che si formavano le coppie, si allungava il tunnel e quello o quella che restavano scompagnati dovevano passare chini sotto al tunnel e prendersi tanti colpi sulla schiena. Se erano di più i maschi, le bambine potevano fare le schizzinose e scegliere fra i richiedenti. Ma se erano di più le bambine era prudente accettare il primo che ci chiedeva per non restare scompagnata, umiliata e offesa. Spesso si facevano dei giochi in cui si doveva correre per nascondersi, e questo era molto bello perché era un modo per godere quei giardini in tutta la loro dimensione e bellezza. Alberi, aiuole fiorite, gallerie di sempreverde, vasche con pesci, fontanelle. A maggio, il profumo delle rose e dei gelsomini era inebriante. Quanto mi piaceva! Una volta, mentre stavo uscendo per raggiungere la mamma che stava sulle panchine esterne, completamente dimentica dei cartelli che vietavano di cogliere i fiori, mi avvicinai a una rosa di una bellezza superba. La guardai a lungo affascinata. Poi, allungai un mano, ne spezzai il gambo e con questo tesoro in mano, tenuto sotto al volto chino per coglierne tutta la bellezza e il profumo, mi incamminai verso l'uscita. Avevo fatto solo pochi passi quando mi trovai davanti un intoppo “grande come un uomo”. Alzai la testa. Guardai in su. I miei occhi si incontrarono con quelli di un vigile. Lo scrutai per un po'. Immobile. Non sorrideva. Lui mi fissò per qualche secondo senza dir nulla. Poi mi disse: “Dove hai preso quella rosa?” Io, ammutolita dalla paura, gli indicai con la mano l'aiuola. Lui disse: “Lo sai che sono dieci e dieci di multa?” Io feci cenno di sì con la testa. Allora lui si tolse lentamente un guanto bianco, tirò fuori un libretto e mi chiese il nome. Ero troppo spaventata per proferire parola e continuavo a guardarlo facendo no con la testa, mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime. Lui mi guardò ancora per un po' in silenzio, poi mi disse: “Vai via!” e mentre mi allontanavo mi gridò: “Ma non farlo più!” Talvolta mentre giocavamo chiassosamente, giungeva un suono cupo che copriva le nostre voci. Così cupo da assomigliare a uno dei suoni più bassi dell'organo di San Marco. Incuriositi, uscivamo all'esterno dei giardini lungo la balaustra che dava sul bacino di San Marco, donde sentivamo venire questo suono intermittente. Oh, stupore! Grandissimo, lentissimo, illuminatissimo entrava, trainato dai rimorchiatori, un transatlantico. Col gran pavese al vento, una banda 9
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
a bordo che suonava e i marinai allineati per tutta la lunghezza del ponte, sull'attenti in segno di saluto, la grande nave faceva il suo ingresso nel bacino e si fermava. Dopo un poco, un andirivieni di gondole dalla riva alla scaletta della nave, portava a terra i passeggeri. Allora correvamo ai piedi del Ponte della Paglia, ci si sedeva sui gradini dalla parte del canale a guardare questi “foresti” che scendevano al Danieli. Il gancér, di solito un vecchietto con un camicie grigio e un berretto col frontino, con in mano un bastone uncinato, aveva il compito di tenere la gondola accostata finché non fossero scesi i nuovi arrivati e tutti i loro bagagli. Come ci sembravano belli! Tutti diversi: o molto alti e biondi, o minuti con occhi a mandorla, o vestiti con tuniche ricamate, o in puro stile inglese, o tutti in pelle con borchie. Chissà chi erano. Chissà da dove venivano. Certo era un turismo d'élite. Saremmo stati lì delle ore se le nostre mamme non ci avessero portati via perché bisognava andare a casa per la cena. Nei giorni successivi, capitava di incontrare per la città qualcuno di quei foresti, e nella luce del sole sembravano ancora più belli o comunque affascinanti. Certo, a Venezia, si vedevano personaggi eccezionali come Gandhi, il prof. Piccard, Toscanini, o Greta Garbo. Uscire era sempre festoso, sia se uscivamo con la mamma, sia se ci recavamo ai giardinetti. Talvolta, non trovavo nessuno dei miei compagni di gioco, oppure si metteva a piovere. Allora, da sola o in compagnia, andavo nella biblioteca dei bambini che stava sotto alle Procuratie Nuove a un primo piano del Palazzo Reale, in un mezzanino con le finestre a lunotto che davano su Piazza San Marco. Ci veniva incontro una gentile signora che per prima cosa ci faceva lavare le mani accuratamente con un sapone al Lisoformio. Poi ci salutava compitamente dandoci la mano e ci chiedeva nome ed età. Ci domandava se avessimo delle preferenze e quali, altrimenti ci consigliava lei una lettura adatta. Ci portava in giro per gli scaffali a cercare il libro per noi e, trovatolo, ci introduceva nella sala di lettura dopo averci raccomandato il silenzio più assolto per non disturbare i piccoli lettori. Ci indicava un posto a uno dei bassi tavoli e ci faceva sedere su quelle seggioline per bambini. Se leggendo non capivamo qualche parola, potevamo andargliela a chiedere camminando in punta di piedi e sussurrandola nel suo orecchio. Dalle finestre si vedeva la Piazza. Per me era un posto magico, dove provavo un grande benessere, e per lunghi anni ho collegato l'odore della saponetta al lisoformio a quell'ambiente. Tanto mi affascinava quel cortile di Palazzo Reale con la scalinata che percorrevo per andare in biblioteca, che feci amicizia con la figlia del portiere perché mi ero accorta che aveva il privilegio di giocare proprio in quel cortile. Ogni tanto, quando mia mamma se ne stava con le amiche al caffè in Piazza San Marco, andavo a trovarla. I suoi giocattoli erano raccolti in uno scatolone, ed erano un vecchio centrino, una bamboletta, un soprammobile rotto, un pezzetto di stoffa, una scatoletta e così via. Ci si metteva sui primi gradini dello scalone e utilizzando quei materiali che diventavano divani, letti, tavoli, sedie e altri oggetti d'arredamento, 10
Lia Binetti Rosini I giochi dei bambini a Venezia
giocavamo a chi faceva la casa più bella. Una volta, io, con la collaborazione sua, e una volta lei con la collaborazione mia. Lei diceva che ero molto brava e che sapevo inventare degli appartamenti bellissimi. La cosa mi gratificava. Ma un giorno, chissà perché, litigammo e non ci vedemmo più. D'estate, quando la banda municipale cominciava a suonare di sera, i genitori di Corte Gregolini andavano in Piazza al caffè a sentire la musica e i figli avevano il permesso di andare ai giardinetti accompagnati dalle cameriere. I giardinetti veri e propri, però, erano chiusi e si stava in quel tratto di riva prospiciente la laguna. Sotto al parapetto, erano allineate all'ancora le barche della Compagnia della Vela. Al largo qualche imbarcazione illuminata da palloncini di carta e qualcuno che cantava. Gondole, vaporetti, in alto la luna. Trovavamo anche altri bambini e bambine; formavamo una bella banda e si giocava a “libera dono don” o a “dame e cavalieri”. Le cameriere avevano l'ordine di sorvegliarci e di riportarci ai genitori in Piazza al termine del concerto. Ma loro avevano sempre cose importanti da dirsi con dei marinai e non si accorgevano mai quando finiva la musica. Così, erano i genitori che venivano a prendere noi. Lemme lemme, si riattraversava la Piazza che cominciava a spopolarsi. I colombi erano tutti a dormire. Facevamo il ponte dei Dài, il pezzo di calle dei Fabbri con le botteghe chiuse, la stretta Calle Gregolini e, nella Corte, e il portoncino di casa nostra. A letto, con la finestra aperta, sentivo il rumore di una fontanella. Qualche gatto si azzuffava. Qualche ubriaco passava cantando. Il campanile degli Armeni suonava i dodici tocchi. Padova, 1984
11
Scarica

I giochi dei bambini a Venezia