capitolo i
Luoghi
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davide daolmi
capitolo i. Luoghi
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capitolo i
Luoghi
V
orrei cominciare con l’individuazione di uno spazio. Una superficie
che abbia una sua identità fisica. Per esempio il cortile, forse illuminato a festa, di una prestigiosa casa romana di metà Seicento.
È un vincolo da cui non riesco a sottrarmi quello di ricostruire il passato
sulla base dei luoghi che lo caratterizzano. Più ancora del tempo, ho bisogno di conoscere lo spazio, di vederlo soprattutto. Credo che questa
sorta di topofilia storica e il mio spontaneo interesse per il teatro abbiano qualcosa in comune. Ne ho avuto sentore sfogliando le pagine, per
molti versi illuminanti, dell’Idea del teatro di Giulio Camillo (1480-1544)
pubblicata postuma nel 1550.1
Camillo, detto anche «il Delminio», fu un curioso personaggio del primo Cinquecento, retore e alchimista; pare che sia persino riuscito a realizzare l’edificio descritto nella sua Idea con i soldi del re Francesco i di
Francia. Si trattava di un teatro su modello vitruviano che disponeva al
posto del pubblico il sapere universale e l’ipotetico osservatore nell’orchestra. Questa volontà di creare una ‘mappa’ tridimensionale dello scibile muoveva, come noto, dalla teoria classica dell’«arte della memoria»,
sistema che attribuisce un locus ad ogni singolo elemento da tenere a
mente. L’Idea di Camillo ebbe straordinaria fortuna; sucitò l’interesse
fra gli altri di Erasmo, Bruno e Keplero; il suo principio fu ripensato per
esempio negli Utriusque cosmi historia (1617) di Fludd (che sembra però
rifarsi più al Globe shakespeariano che a Vitruvio)2 e nel Kircher della
Musurgia (1650), dove l’«Arca musarithmica» si propone quasi involontario trait-d’union in chiave musicale fra il «teatro» camilliano e il moderno computer.3
L’elemento interessante proposto da Camillo non è tanto l’idea – tutta
barocca – di teatro come luogo di conoscenza, quanto invece il progetto
di sistematizzazione del sapere, nonché il ribaltamento dei ruoli canonici fra scena e platea. L’uno, il progetto, lega indissolubilmente il sincretismo culturale di antico regime alla rappresentazione; l’altro, il ribaltamento, secondo un ideale feedback investigativo, ripropone sotto diversa
luce il principio calderoniano del «teatro del mondo».
Basterebbe vederlo il «teatro» di Giulio Camillo per cogliere con più sicurezza il senso di quanto dico – quasi una metadimostrazione. Purtroppo,
se mai fu costruito, pare che tanto prodigioso edificio andasse bruciato da
un fulmine. Ne abbiamo solo alcune ricostruzioni moderne, anche suggestive, che ce lo propongono non molto dissimile dall’Olimpico di Vicenza.
„
Premessa
1. Camillo 1550 (v. in Bibliografia per le edizioni moderne di questo testo). Studi su
Camillo e il suo «teatro» sono
quelli di Yates 1966 e 1969,
Wenneker 1970, Bolzoni
1984 e Turello 1993.
2. Su Robert Fludd (15741637) lo studio più recente (a
parte ristampe e opere divulgative) è ancora quello di
Huffman 1988; sulle sue speculazioni musicali v. la bibliografia riportata in Ashbee
2001; circa i rapporti con il
Globe è lo studio di Svizzeretto 1986.
3. Su Kircher la bibliografia è
tanto vasta quanto generica;
sebbene la sua Musurgia
(Kircher 1650) abbia goduto di un’anastatica dell’editore Olms, l’ultimo studio importante su Kircher e la musica è quello di Scharlau
1969; l’«arca» non ha subìto
miglior sorte, seppur Chierotti 1994 ha cominciato a
spiegarne la funzione; oltre
alla raffigurazione proposta
dalla Musurgia (tomo ii, cap.
viii, tav. f.t. apud p. 185) conosco solo la riproduzione
fotografica proposta in James 1993, p. 163, di un modello d’epoca dell’«arca» conservato alla Pepysian Library
(GB-Cmc), benché Chierotti 1994, nota 30, dica che
«l’unico esemplare ancora esistente di arca è conservato
presso la August Bibliothek a
Wolfenbüttel» (D-W).
4
davide daolmi
41. Tre possibili ricostruzioni del «teatro» di Giulio Camillo. A fianco [a ] l’ipotesi
pubblicata in Wenneker 1970,
sotto a destra [b ] lo schema
di Yates 1966 e a sinistra [c ]
il modellino proposto da
Lina Bolzoni nel documentario Rai Il teatro della memoria (1990).
a
b
c
4. Non deve stupire che tanti
libri di questi anni, destinati a
trattazioni d’ampio respiro,
esordiscano nella titolazione
con Scena di… Teatro di…
5. Tacerò del significato alchemico di tale organizzazione
perché questa digressione
d’esordio rischia di esse anche
troppo estesa, ma si veda al
proposito la bibliografia citata a nota 1 e soprattutto Wenneker 1970.
Ecco, ora tutto prende forma: il sapere distribuito su sette livelli, dal più
semplice, in basso, verso il più complesso; i livelli divisi a loro volta in
sette spicchi; e immagini – prima che parole – a identificare i settori.
L’erudito dell’epoca non aveva bisogno di Saussure e dello strutturalismo per diffidare del linguaggio come strumento di conoscenza. Elaborava spontaneamente il pensiero in modo rappresentativo. E cosa meglio di un teatro poteva offrire l’organizzazione di quelle immagini? Certo,
come la scena non esclude la parola (epperò la trasforma in narrazione),
così Camillo non nega del tutto la razionalità del testo. Non però per
esplicitare il sistema, ma solo per descrivere principi circoscritti (quelli
distribuiti in ognuna delle 49 porzioni del «teatro»): un codice, qual è il
linguaggio, non può pretendere di più. Per i grandi, i massimi sistemi, è
necessaria la rappresentazione: la verità non si dice, si percepisce.4
Ma Camillo compie un’operazione anche più straordinaria: ribalta la
prospettiva di conoscenza. L’apprendimento non avviene nel guardare il
palco ma le gradinate. Si riconoscono due spazi distinti nel teatro: la
scena, che offre un sapere in divenire, e la platea, che non muta nel tempo ma solo nello spazio – gli stessi diversi livelli corrispondono a diverse
classi sociali. Si ribalta la prospettiva perché da un sapere cinetico (la narrazione della scena) se ne ricerca uno statico (lo spazio gerarchico della
conoscenza). In questa reciprocità ribaltata dei due luoghi teatrali, palco e
platea – prima parlavo di feedback – si riesce meglio a comprendere il senso di microcosmo che l’uomo barocco ritrova nella rappresentazione.5
capitolo i. Luoghi
5
Entrambi i principi – la spontaneità sincretica del teatro e la sua disposizione a proporsi come «teatro del mondo» – sono la chiave di lettura
della cultura seicentesca e sembrano giustificare la metodologia d’approccio che tento di perseguire: ovvero un’indagine che ama disporre,
almeno idealmente, le informazioni in modo ‘rappresentativo’, come in
un quadro o in una scena teatrale, che assai diffida della scrittura quale
strumento investigativo: ormai baluardo di una cultura, quella attuale,
che ha sostituito al colpo d’occhio la giustapposizione, al sapere unitamente esteso la specializzazione ottusa, al teatro l’enciclopedia.
Ecco allora che, con la scusa di giustificare un mio maniacale attaccamento ai luoghi, agli spazi fisici, e insomma nel tentativo di spiegare
perché ho deciso di cominciare questo studio da un cortile illuminato a
festa (di cui peraltro non ho ancora detto), spero di aver innestato il
germe di un’idea – l’«idea del teatro» appunto – che cominci a riconoscere nello spettacolo barocco, e specialmente nello spettacolo operistico, non una manifestazione qualunque ma un momento chiave della
cultura seicentesca, un teatro capace di sopportare piani di lettura complessi, assai più mistico-conoscitivi di quanto la nostra concezione dello
svago non farebbe ammettere. Su questo però ci sarà modo di tornare.6
6. Sul valore allegorico e politico dello spazio teatrale barocco si concentrano i numerosi contributi della seconda
parte del recente Alonge–
Bonino 2000; con specifico
riferimento a Roma e all’immaginario visivo dello spettacolo sono utili le pagine introduttive di Fagiolo dell’Arco 1997, nonchè i contributi
nel capitolo dedicato al Seicento in Fagiolo 1997, i, pp.
67-109.
V
„ L’occasione
ediamolo allora questo cortile illuminato a festa, questo luogo della
memoria da cui vorrei partire. Siamo fortunati: se anche lo spazio è
stato oggi modificato, sopravvivono tuttora gli elementi caratteristici,
ma soprattutto si conoscono le riproduzioni di alcune incisioni d’epoca
e uno straordinario quadro a olio di Gagliardi e Lauri. Eccolo:
Avrei potuto spendere mille parole per tentare di far appassionare il lettore ad una semisconosciuta opera romana di metà Seicento, ma mi è
62. Filippo Gagliardi e Filip-
po Lauri, Giostra dei caroselli
(1656), olio su tela, 340 × 280,
Roma, Museo di Roma (Palazzo Braschi).
6
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bastata un’immagine come questa per muoverne la curiosità. All’opera
ci arriverò, nessun timore, ma prima voglio parlare di questa festa.
7. La descrizione manoscritta
del 1656 è in I-Rvat, Barb. lat.
4913, c. 103v, cit. in Hammond
1998, p. 137 nota 10. Sulla Giostra del 1634 v. Hammond
1994, pp. 214-224 e la bibl. ivi
segnalata; altra descrizione
poco nota è la Fidelissima
1656 (non consultata)
63. Cristina di Svezia prima
della conversione e del trasferimento a Roma (incisione in
I-Mrsb).
„ La
Roma
di mezzo Seicento
È la sera di lunedì 28 febbraio 1656, anno bisestile, penultimo giorno di
Carnevale. Papa Alessandro vii, al secolo Fabio Chigi, s’è insediato da
pochi mesi. Non si tratta di una delle tante feste barocche; i quasi otto
metri quadri di tela danno testimonianza di quella che fu probabilmente
la più impressionante giostra di tutto il Seicento romano. La stessa descrizione manoscritta del carosello – quella offerta agli ospiti d’onore della
serata – ammette che bisognava ritornare alla ormai mitica Giostra del Saracino del 1634 perché Roma potesse vantare un’altra festa di tanto splendore; in entrambi i casi l’evento fu reso possibile dai soldi dei Barberini, il
cui sontuoso palazzo troneggia sulla destra del dipinto (ne dirò poi).7
La giostra del 28 febbraio, cosiddetta «dei caroselli», fu solo una delle
ultime serate di più di un mese di «feste barberiniane» che videro fra le
varie iniziative ben tre opere in musica (fra queste
L’armi e gli amori), nonché accademie, balli, banchetti. La critica moderna giustifica tanto dispiego
di mezzi con la presenza a quel Carnevale della regina Cristina di Svezia, neoconversa al cattolicesimo, e da qualche mese di stanza a Roma. Peccherei
però d’ingenuità se m’accontentassi della presenza
di un ospite sovrano per spiegare tanto sfarzo. Vale
invece la pena capire meglio le tensioni sociali della
Roma di quei giorni per dar conto di tanto impegno; anche perché i libri di storia trovano poco interessante occuparsi della politica italiana seicentesca, e soprattutto perché gli studi specifici sul Carnevale del 1656 tanto dettagliano sulle liste di spesa
e le enormi somme impiegate, quanto sembrano dimenticarsi dei risvolti politici sottesi. Mi si perdonerà pertanto la parentesi storico-politica che segue: ancora una volta è forza dilazionare gli accadimenti delle feste di quei giorni.
S
e ci fosse la possibilità di sorvolare il secolo e coglierne l’humus in
uno sguardo d’insieme, un dato sugli altri apparirebbe significativo
circa le sorti di Roma in un’Italia attanagliata dalla longa manus spagnola: che tale manus stava inesorabilmente perdendo il suo vigore e che
soprattutto Roma aveva ormai smesso di essere caput mundi. Il doppio
declino non è necessariamente motivato da concause e anzi la crisi spagnola in Italia è legata solo in parte agli affanni del cattolicesimo. È invece indubbio che il crescente peso politico di Parigi continuava a giovarsi
di quella situazione. Chiave di volta del passaggio di poteri dal sud al
nord dell’Europa fu la guerra dei Trent’anni (1618-1648) che, gran calderone di rivalse protestanti, permise alla cattolica Francia – e alla spregiudicatezza di Richelieu prima e di Mazzarino poi – di avere la meglio sui
cattolicissimi Asburgo di Spagna e d’Austria. Uno schemino sinottico,
però, prima di continuare, credo possa aiutare a collocare meglio quanto
segue (un ulteriore omaggio all’insegnamento di Camillo).
capitolo i. Luoghi
7
‘Carnevale della Regina’
1656
Pace di Vestfalia
1648
Guerra dei Trent’anni
1630
Pontificati
Francia
Spagna
Svezia
n
1640
1650
Pace dei Pirenei
1659
n
n
1660
1670
urbano viii
innocenzo x
alessandro vii
clemente ix
Maffeo Barberini
6.viii.1623 †23.vii.1644
Gio. Batt. Pamphili
15.ix.1644 †7.i.1655
Fabio Chigi
7.iv.1655 †22.v.1667
Giulio Rospigliosi
†9.xii.1669
luigi xiii
luigi xiv
1610 †1643
primo ministro: Richelieu
1623 †1643
primo ministro: Mazzarino
1643 †1661
1643 †1715
Luigi xiv sovrano assoluto
filippo iv
carlo ii
1621 †1665
cristina
1621 1654
34. Quadro sinottico dei
principali sovrani seicenteschi. La Pace di Vestfalia segna la fine della Guerra dei
Trent’anni, mentre quella dei
Pirenei conclude lo strascico
delle rivalità fra Spagna e
Francia.
1665 †1700
carlo x
1654 †1660
carlo xi
1660 †1697
Il declino romano entrò nella fase di non-ritorno con uno dei pontificati più lunghi e fulgidi del seicento romano, quello di papa Urbano viii
(1623-1643), quello cioè che sponsorizzò il meglio della cultura della grande Roma barocca e che sovrintese senza remore alla fortuna dei Barberini
nipoti del papa – che tanto fecero per le loro tasche ma anche per il prestigio culturale di Roma e, non da ultimo, per i fasti dell’opera romana.8
L’episodio celeberrimo del processo a Galileo, che si colloca esattamente
a metà del pontificato di Urbano viii, diventa un po’ metafora della crisi
romana. L’abiura dello scienziato (che ingenuamente redasse il Dialogo
credendo nell’appoggio illuminato del papa) fu un gesto soprattutto formale. Ammettere la crisi del sistema Tolemaico, prima che un problema
scientifico, era infliggere un nuovo colpo alla cristianità e alla stessa centralità di Roma. Centralità che si stava spostando lontano da Roma. Dove?
Ma a Parigi, ovviamente, presso la corte di quel re, pur sempre «cristianissimo», che di lì a qualche anno si sarebbe fatto chiamare, per colmo
d’ironia, il Re Sole. Roma stava alla Terra come Parigi stava al Sole di
Galileo. Il trend copernicano che aveva preso l’Europa era la vera eresia
che il Vaticano sapeva di non poter contrastare.
L’errore di Urbano fu quello di credere di poter ridare fasto all’Urbe liberandosi del giogo spagnolo (che non godeva in prospettiva di un futuro proprio luminoso) alleandosi ostentatamente con la Francia. L’appoggio del papa a Parigi non fece che dar lustro alle mire francesi e di
converso i gallici intrighi – le alleanze con i protestanti prima e la non
interferenza alla pressione turca poi, sempre allo scopo di indebolire gli
Asburgo – si trasformarono in fango per la ‘santità’ di Roma che già doveva occuparsi di limitare il malcontento interno suscitato dalle spese
folli e dal nepotismo sfrenato di Urbano viii Barberini.
Quando sullo scranno di Pietro salì Innocenzo x (1643-1655, Giovanni
Battista Pamphili) la crisi era in atto, ma nessuno voleva ammetterlo.
Riallacciare i rapporti con Madrid e perseguitare il clan barberino fino
ad obbligarlo a trasferirsi in Francia, altro non servì che a dividere ulteriormente la città fra papisti filospagnoli strafottenti e filofrancesi che
intrigavano per rifarsi nel prossimo conclave (taccio per semplicità del
8. Uno studio approfondito
che penetri il senso della storia italiana di questi anni è
ancora da scrivere. Fra i testi
di carattere generale di cui mi
sono servito sono i recenti
Sella 1997 e Prosperi–Viola 2000 (studi peraltro solo
parzialmente soddisfacenti);
altri testi specifici saranno indicati di volta in volta.
8
davide daolmi
9. Circa gli intrighi che coinvolgevano Roma e il mondo
durante i conclavi, più che le
storie ufficiali moderne, in
genere mutuate da Pastor
1932 (ma un’ottima sintesi è
quella di Rendina 1983), val
la pena leggere i pamphlet
raccolti e pubblicati in quegli anni da Gregorio Leti (se
ne veda l’elenco in Barcia
1981).
„ Il
rilancio
dei Barberini
10. Su Olimpia Maidalchini si
veda il bel libro di Chiomenti Vassalli 1979, ottimo anche per ricostruire le trame
politiche di quegli anni.
45. Albero genealogico sommario della coppia Maffeo
Barberini e Olimpia Pamphili, con i principali membri
coinvolti nelle vicende sintetizzate in queste pagine.
terzo polo, che verrà detto «squadrone volante», magmatico e imprendibile, tutto votato a una moralità di comodo e all’autarchia italiana).9 Politica, questa dell’alternanza fra fazioni, che obbligava le famiglie romane a godere dei periodi fausti accaparrando ricchezze, sistemando i parenti, erigendo monumenti a perpetua memoria – dato che poco altro
sarebbe rimasto con l’insediamento del successore, in genere del partito
avverso. Una filosofia del carpe diem così impregnata nella natura romana tanto da potersi ancora riconoscere nell’indolenza della moderna amministrazione italiana. Innocenzo però fu soprattutto una parentesi. Nel
’48 la pace di Vestfalia concluse la guerra dei Trent’anni; la parte del
leone l’avevano fatta la Francia, sul versante cattolico, e la Svezia, su quello protestante: si fece persino a meno della ratifica della diplomazia vaticana. Era il segno definitivo della fine di Roma sul piano internazionale;
eppure si preferì dare la colpa allo scarso prestigio di Innocenzo che,
colmo dell’umiliazione, fu obbligato in seguito da Mazzarino a far ritornare con tante scuse i Barberini.
S
iamo a uno snodo fondamentale della nostra storia. Il 25 giugno 1653
il più giovane rampollo dei Barberini, il ventenne Maffeo, principe di
Palestrina, sposa nientemeno che Olimpia Giustiniani. Olimpia è una
Pamphili e oltretutto la nipote prediletta del papa, nonché pupilla della
nonna Donna Olimpia Maidalchini, virago spregiudicata e trafficona che
spadroneggiava all’ombra del cognato pontefice, tanto da esser soprannominata «la papessa».10 I due giovani diventano di colpo la coppia più
alla moda di Roma, crème de la crème dei salotti di potere ma soprattutto
oggetto di chiacchiere a non finire: si dice infatti che la piccola Olimpia,
dodici anni appena, sia stata forzata al matrimonio per salvaguardare la
crisi imminente dei Pamphili che vedevano il vecchio papa con un piede
nella tomba. L’intreccio dei due casati è di quelli a cinque stelle:
barberini
pamphili
connestabile
Maffeo
Carlo
Filippo
Pamfilo
(1568-1644)
(1562-1630)
colonna
OO
urbano viii
OO
(1574-1655)
Olimpia
innocenzo x
Maria
Camillo
maidalchini
Costanza
magalotti
Giambattista
principe
Francesco
Antonio
Taddeo
(1597-1679)
cardinale
(1608-1671)
cardinale
(1603-1647)
Anna
Andrea
giustiniani
OO
Olimpia
aldobrandini
principessa di Rossano
Maffeo
Olimpia
(1631)
(1644)
Per i Barberini è il primo passo verso un reinserimento in grande stile. Il
secondo si darà di lì a un anno con la morte del papa (1655): occasione
propizia per far eleggere un loro protetto. Ma il conclave fu più complicato del solito; il gioco di veti incrociati protrasse le discussioni per quattro mesi e intanto Roma si riempiva di libelli e pasquinate su questo o
quel pretendente. Mazzarino si era opposto a Fabio Chigi, segretario di
Stato di Innocenzo perché poco malleabile (fu lui a rifiutarsi di firmare
gli accordi di Vestfalia) ma alla fine – chissà quali compromessi furono
capitolo i. Luoghi
9
messi in atto – il veto fu ritirato, Chigi salì al soglio col nome di Alessandro vii e Mazzarino a vantarsi di essere l’artefice di quell’elezione.
Il Carnevale del ’55 se l’era bruciato il conclave, e i Barberini non vedevano l’ora di esibirsi in tutto il loro rinnovato fulgore. Il clima era d’incertezza: l’osservatore straniero non capiva da che parte voleva stare Roma.
Dimostrare al mondo che i Barberini erano ancora sulla cresta dell’onda
significava dire che l’Urbe era tornata francese. Chi spingeva affinché il
più francofilo dei clan romani s’imponesse sugli altri era ovviamente Mazzarino che a questo scopo non aveva lesinato in appoggi politici e finanziari.11 A quel punto il compito dei Barberini era di informare il mondo.
Il Carnevale del ’56 doveva essere pertanto il ‘carnevale dei Barberini’.
Ma una nuova circostanza, più o meno strategicamente pianificata, cadeva a fagiolo per rendere l’evento festivo ancora più straordinario: l’ingresso in città di Cristina di Svezia. Per capire fino a che punto Cristina,
il nuovo papa, i Barberini e Mazzarino si servirono gli uni degli altri
durante quei festeggiamenti sarà opportuno lasciar da parte i racconti
aneddotici sulla bizzarra sovrana (che vanno benissimo finché danno
gusto alla vicenda, ma diventano fuorvianti quando obnubilano il senso
della dedica di quelle feste); più utile partire dal trasferimento di Cristina a Roma. (Lo so, dilaziono, ma non ho altro modo per far chiarezza.)
M
orto Gustavo Adolfo (1632), Cristina a sette anni eredita il trono di
Svezia, la potenza protestante che meglio uscirà dalla guerra dei
Trent’anni, in qualche modo nazione vessillo degli anticattolici. Neanche trentenne, dopo 22 anni di regno, al colmo del suo fulgore politico,
Cristina – così si racconta – cade in una crisi mistico-religiosa che l’indurrà a convertirsi al cattolicesimo, abdicare a favore del cugino Carlo
Gustavo e trasferirsi definitivamente nella Città Santa.
11. In questa politica si spiega
forse il vitalizio concesso a
Marazzoli dalla corte francese di cui parla Prunieres
1913, p. 88 (si veda qui Marazzoliana, p. 214 e 218)
„ La
regina Cristina
Bisogna cominciare a dire che se Svezia e Francia ebbero la meglio dalla
pace di Vestafalia è perché né Mazzarino né Cristina si fecero troppi scrupoli – soprattutto religiosi – nel privilegiare la ragion di Stato, accordandosi reciprocamente, malgrado l’incompatibilità di fede, in una serie di
patti che spiazzarono gli Asburgo. Fra questi accordi fu programmata
anche l’appropriazione del Regno di Napoli che, appendice spagnola turbolenta e facilmente requisibile, avrebbe necessitato di un nuovo re.
Al lettore, anche non digiuno della biografia di Cristina, collegare la sua
conversione ai patti segreti con Mazzarino, destinati almeno in prima
istanza a impadronirsi di Napoli, potrà apparire una novità. Credevo
anch’io trattarsi di una mia teoria che, alla luce di troppi indizi mai messi in correlazione, valeva almeno la pena proporre e, magari in forma
dubitativa, offrire alla critica dello storico. Ma nell’ultima stesura di questo lavoro mi sono accorto che la storiografia svedese aveva già avanzato
questa stessa ipotesi riuscendone in seguito a documentare le fasi del
progetto.12 La crisi religiosa di Cristina non fu evidentemente una finta
ma fu soprattutto d’immagine: rientrava nell’acquisizione di un suo rinnovato ruolo in Europa che l’avrebbe portata a mutare le sorti del mondo, e intenzionata a ricompattare la cristianità con l’aiuto della Francia.
In tutto ciò giocava un’idea di predestinazione che il misticismo barocco
12. Ne dà definitivamente
conto il bellissimo libro di
Åkerman 1991, preceduto da
un importante articolo in italiano (Åkerman 199o), che
esplicita i precedenti storiografici di questa tesi.
10
davide daolmi
di Cristina prendeva molto sul serio. Un suo indubbio amore per la cultura (che poco riusciva a coltivare nei freddi e un tantino barbari paesi
del Nord), la scarsa simpatia che le offriva il suo popolo, un gusto fors’anche per le decisioni ad effetto, tutto contribuì a rendere ai suoi occhi
meno traumatica l’abdicazione, la conversione e il trasferimento a Roma.
Ma la regina giocò anche sull’ambiguità di molti suoi gesti, a cominciare
dall’acquisizione del nuovo nome di Alessandra, da tutti creduto un omaggio all’omonimo pontefice quando per lei altro non era che l’immedesimazione con Alessandro Magno, conquistatore del mondo.
L’appoggio del papa, come consigliava il sempre solerte Mazzarino, era
indispensabile al buon fine del piano; e se un Vaticano opportunamente
reso filofrancese sarebbe stato ben felice di liberarsi degli spagnoli a lei
sarebbe stato chiesto, per entrare nelle grazie di Sua Santità, di fare professione di vera fede (ovviamente cattolica).
L’ipotesi che Cristina si convertisse era per il papa neoeletto una ventata
di prestigio agli occhi del mondo: colpo durissimo ai prìncipi protestanti. Il progetto di Mazzarino – al momento limitato a Napoli e quindi ben
più modesto di quello di Cristina che mirava all’Europa tutta – se aveva
qualche buona speranza, patì anche non poche difficoltà: prima s’era
dovuto aspettare che Innocenzo x morisse (troppo legato a Madrid per
coinvolgerlo in questa operazione così aggressiva) poi il Chigi successore
non si era rivelato l’anti-spagnolo che sarebbe stato auspicabile. Bisognava pertanto puntare sulla capacità propagandistica dei Barberini per
trasformare Luigi xiv nel novello liberatore della penisola italica.
„ Propaganda
66. La stampa veneziana
dell’Istoria di Gualdo Priorato, pubblicata subito dopo
quella romana (per le tre edizioni v. Gualdo 1656).
L’
idea di rendere Napoli protettorato francese – non una scampagnata – cercava un ulteriore punto di forza nel prestigio internazionale
che il nuovo sovrano avrebbe saputo vantare sul vicerè spagnolo: bisognava quindi diffondere il mito della regina Cristina, soprattutto nella
penisola, in modo che la stima di lei evitasse fastidiose coalizioni contro
l’ingerenza francese. Non credo di andare molto lontano dal vero se immagino che fu lo stesso Mazzarino a chiedere a Galeazzo Gualdo Priorato, suo fedele segretario ed apprezzato storico, di narrare i trascorsi e la
gloria di tanta regina.
L’Istoria della Sacra Real Maestà di Cristina Alessandra regina di Svezia
(46) fu pubblicata (con i soldi di Francia?) a due mesi dalle feste barberiniane contemporaneamente in tre città: Roma, Venezia e Modena. Credo che ben poche pubblicazioni seicentesche possano vantare simile diffusione editoriale. Gualdo è storico raffinato e competente, di rara abilità diplomatica: non ha bisogno di mentire per incensare Cristina, si limita a tacerne i difetti. E l’Istoria è documento prezioso, ma non c’è bisogno di dire che si guarda bene dall’esplicitare i veri intenti dell’operazione (sempre che Gualdo li conoscesse). Peraltro il libro, che non lesina
nell’encomio trasversale ai Barberini, è l’unica fonte a stampa di quelle
feste, fonte insolitamente dettagliata per una manifestazione carnevalesca, ma evidentemente il fine giustificava l’eccezionalità.
Tanto più appariscente si rivela poi questa attenzione al Carnevale concessa da Gualdo se si confronta con l’altra storia della regina, quella vo-
capitolo i. Luoghi
11
luta dal papa. Qui ovviamente l’interesse non era l’omaggio all’ex sovrana ma il valore religioso e quindi politico della conversione. Alessandro
vii diede incarico della stesura all’amico gesuita Pietro Sforza Pallavicini, colui che di lì a poco scriverà un nuova Storia del Concilio di Trento in
risposta a quella quasi eretica di Paolo Sarpi. Il titolo dell’operetta parla
da sé: Descrizione del primo viaggio fatto a Roma della regina di Svezia
Cristina Maria convertita alla religione Cattolica e delle accoglienze quivi
avute sino alla sua partenza; ma in realtà le accoglienze di cui si narra
sono solo quelle concesse dal papa e pochissime righe sono dedicate ai
Barberini. Si dice solo di
sontuosi trattenimenti di tornei e poetiche azioni rappresentate su la scena con la melodia d’eccellenti cantori e con la vaghezza di meravigliose apparenze
Pagina 73 dell’edizione postuma di Cicconi 1838.
che si ebbero – a quanto vien detto – perché il papa non vi si oppose,
essendo quegli spettacoli «non sol modesti [dal punto di vista morale]
ma virtuosi». La Descrizione, che evidentemente poco serviva ai piani
strategici di Mazzarino, non vide mai la luce è fu pubblicata solo nel 1838
ad opera del prefetto della biblioteca Albani, biblioteca nella quale era
ancora conservata una copia del manoscritto.
Appare evidente come le feste barberiniane servissero da un lato a illuminare la figura di Cristina, dall’altro a dar prestigio alla famiglia specchio della Francia. Il papa tollerò il forse eccessivo omaggio di un singolo
clan romano, che metteva certamente in ombra gli sforzi encomiastici
del Vaticano, perché lo credette tributo a una regina la cui riscoperta
pietas doveva dimostrare agli occhi del mondo la bontà della causa cattolica e il rinnovato vigore del prestigio vaticano.
M
a le suggestioni insistentemente simboliche delle due manifestazioni cardine di queste feste – l’opera allegorica La Vita umana ovvero Il
trionfo della pietà, che aprì gli omaggi, e il carosello che li chiuse – sembrano andare in altra direzione. Non voglio dilungarmi sui significati di quelle due serate perché altra è la meta di questo lavoro, ma varrà la pena almeno accennare ai messaggi più o meno espliciti che, alla luce del quadro
politico qui proposto, potrebbero suggerire.
Vita umana è, come tutti hanno notato, la metafora della scelta di Cristina.13 Qui lo spettatore incontra Vita, personificazione dell’umano
sentire, sedotta dai Vizi e in fine disposta a scegliere la Virtù. Ma se Vita
è Cristina, individuare nella conversione tale scelta significa accontentarsi di una metafora di facciata, priva in fondo della componente esortativa propria di queste operazioni: Cristina infatti s’è già convertita,
non avrebbe avuto senso ribadirlo. Nell’opera i due luoghi verso cui
dovranno dirigersi le azioni di Vita sono l’Intendimento e il Piacere,
che di per sé non paiono realmente antitetici: all’intendimento (la ragione) oggi opporremmo la stoltezza, al piacere il dolore o, se inteso
come lussuria, la morale. Solo in un’unica importante occasione la ragione si contrappone al piacere: nel dualismo maschile e femminile
inteso nel significato antico di virile ed effeminato. Anche se forse può
aver avuto una sua parte, non voglio qui di tirare in ballo la natura
ambigua di Cristina che già faceva esplicitamente parlare i cronisti del-
„ Allegorie
della festa
13. Sulla Vita umana, oltre alla
monografia di Witzenmann
1975, da completare con i passi specifici di Murata 1981,
poco altro è stato fatto; segnalo Tamburini 1994, ad
indicem, e Hammond 1998 e
1999.
12
davide daolmi
16. Murata 1981, p. 50.
l’epoca di ermafroditismo;14 mi sembra più significativo leggere la contrapposizione fra virilità ed effeminatezza secondo i canoni dell’epoca,
ovvero fra bene comune (ragion di Stato) ed egoismo (sentimento privato).15 Uno dei motivi per cui le mire su Napoli di Mazzarino fallirono fu Cristina stessa; Cristina non seppe (o non volle) stare al gioco, né
si comportò da regina come ci si sarebbe aspettato. Le sue bizze, i suoi
capricci, l’ostentata indifferenza alle regole, all’etichetta, alla ritualità
religiosa, crearono infiniti problemi. Cristina si rivelò prestissimo una
scheggia impazzita capace, come avvenne, di far naufragare gli scopi
politici di Francia (e diciamo pure che forse questi non coincidevano
perfettamente con quelli di Cristina). Ecco allora che la strada verso
l’Intendimento è la strada verso i suoi doveri di sovrana (e soprattutto
di sovrana ossequiosa alle disposizioni di Parigi). Non quindi un significato religioso; d’altra parte nessuno dei personaggi rivela un’allegoria
sacra: non c’è Fede nella Vita umana, non c’è Speranza o Carità, nulla
che possa rimandare, come si è detto, agli autos sacramentali spagnoli,
che in questa circostanza sarebbero del tutto fuori luogo.16
17. Sulla Festa della Girandola v. la sezione Introduzione
alla festa in Fagiolo 1997, i.
Anche la scena finale – una realistica raffigurazione di Roma – conferma
questa lettura. Questo è il luogo raggiunto da Vita e pertanto meta, reale e
simbolica, del suo viaggio; ma Vita arriva a Roma prima di aver fatto la sua
scelta, tanto che qui incontrerà Vizio e Piacere travestiti da Virtù e Intendimento (quasi a voler dire che nella Città Santa non bisogna fidarsi delle
apparenze). Il valore di questo arrivo in città deve essere letto in modo del
tutto realistico. La scena cittadina finale è tutt’altro che d’invenzione: i
fuochi d’artificio raffigurati (che probabilmente chiudevano l’opera) riprendono infatti una tipica veduta romana e una manifestazione carnevalesca, la celebre «girandola», vivissima ancora in tempi recenti.17
14. Ne parla a lungo, col rischio alla fine di crederci
Quillet 1982, cap. v.
15. Su questi v. anche le pagine conclusive del cap. v (Differenze).
67a. Scena finale della Vita
umana disegno Giovanni
Francesco Grimaldi e incisione di Giovanni Battista Galestruzzi, pubblicata in Marazzoli 1658, tav. v.
37b. Joseph Wright of Derby (1734-1797)
Girandola a Castel Sant’Angelo, olio su tela
(US-CLm). Altri dipinti sullo stesso soggetto sono riproddotti nelle prime pagine di Fagiolo 1997.
67c. Lievin Cruyl [Veduta di San Pieto e
Castel Sant’Angelo, 1665], disegno preparatorio per incisione (l’originale è ribaltato), tratto da Connors–Rice 1991.
capitolo i. Luoghi
Per l’altra festa, il carosello, la metafora restituiva la fortuna di Francia
riflessa nei Barberini. Non ho letto le fonti manoscritte relative alla giostra ma, per quanto noto, non ho difficoltà a imputare le «anomalie»
allegoriche di cui riferisce Hammond alla peculiarità politica dell’evento.18 Il dato evidente è che il Carro del Sole guidato da Apollo che presiede lo scontro delle due fazioni – cavalieri contro amazzoni, ancora una
volta il maschile e il femminile in gioco – è ben lontano da potersi identificare con il papato. Il sole e le api sono sempre stati simboli dei Barberini, e per intuire che il Carro del Sole abbia connotati francesi non c’è
bisogno di ricordare l’intercambiabilità di Apollo con Luigi xiv che proprio in quegli anni si dilettava di ballare sulle scene di corte frequentemente incorniciato da petali fiammeggianti.19
Insomma è ancora da scrivere l’interpretazione di queste feste ma non
voglio occuparmene oltre, perché L’armi e gli amori, l’opera rappresentata in quelle circostanze a cui è dedicato questo lavoro, è invece ben
lontana da alcuna lettura allegorica e pone problemi d’altra natura.
E
cco finalmente il calendario di quei giorni. Di tutti gli spettacoli e
manifestazioni a cui assistette la regina nei primi mesi del 1656 ci
dice il solito Gualdo. Il Carnevale a Roma cominciava due sabati prima
del mercoledì delle Ceneri quindi durava solo dieci giorni.20 Chi la fa da
padrone sono le famiglie dei novelli sposi Maffeo e Olimpia, ovvero i
Barberini e i Pamphili, questi ultimi nella persona di don Camillo. Lo zio
della giovane Olimpia, già cardinale, s’era spretato per sposare un’altra
Olimpia, l’Aldobrandini principessa di Rossano (45), creando non pochi disagi allo zio pontefice e soprattutto mandando su tutte le furie la
madre «papessa», quell’Olimpia (e tre!) Maidalchini che aveva già pianificato per il figlio un futuro in Vaticano. Troppe Olimpie sotto lo stesso
tetto e così il principe don Camillo lasciò la residenza di famiglia di piazza Navona (oggi sede dell’ambasciata e altri istituti brasiliani) per trasferirsi con la principessa sua moglie in via del Corso (l’attuale Palazzo DoriaPamphili, sede dell’omonima Galleria), edificio subito ristrutturato e reso
adeguato ai nuovi ospiti.21
In questo palazzo don Camillo e la principessa offrirono feste per tutte le
dieci sere di Carnevale, cominciando sabato 19 con una giostra eretta nel
cortile di fronte casa (l’attuale piazza del Collegio Germanico) per finire
martedì 29 con un banchetto e un ballo rappresentativo dedicato alla
regina Cristina che – riferisce Gualdo – «dichiarò pubblicamente di non
aver goduto in Roma cosa di sua maggiore soddisfazione».22 Durante
tutti gli altri giorni di Carnevale furono allestite nel loro palazzo alternativamente due opere in musica, entrambe (o così pare) su libretto di
Giovanni Lotti e musica di Antonio Francesco Tenaglia.23
Fra le altre manifestazioni offerte a Cristina, Gualdo ricorda l’opera Il
sacrificio d’Isacco, con l’intermedio della Giuditta, rappresentato al Collegio Germanico: solo un dramma scolastico ma la musica era di Giacomo Carissimi.24 Lo stesso ambasciatore di Francia fece omaggio alla regina, facendole allestire nel Palazzo Mazzarino al Quirinale (oggi Pallavicini-Rospigliosi), una commedia francese di Corneille, Héraclius empe-
13
18. Hammond 1998, p. 154-159,
poi ripreso in Hammond 1999.
19. Cfr. Isherwood 1973, p.
157-160 della traduzione italiana.
„I
giorni
del Carnevale
20. «Il Carnevale … si fa in
Roma i soli dieci giorni avanti
la Quaresima»; Gualdo 1656,
p. 240 (ed. di Venezia).
21. Fonte delle questioni famigliari è il Diario romano di
Gigli (Barberito 1994, sub
data). Sul nuovo palazzo
Pamphili v. Carandente
1975 e De Marchi 1999.
22. Gualdo 1656, pp. 240-242
(ed. di Venezia).
23. Benché la musica sia comunque perduta, per un primo approfondimento al riguardo segnalo la bibliografia riportata in Caluori–Lionnet 2001 e la tesi di Duranti 1986.
24. Gualdo 1656, p. 247 (ed.
di Venezia); la data di rappresentazione (25 febbraio) è ricordata da Compagnoni (cit.
in Culley 1970, p. ???); il libretto manoscritto in I-Rnc
la dice di padre Casilio (cfr.
Morelli 1999, p. 325 nota
24).
14
25. Sullo stesso soggetto Calderón pubblicherà nel 1659 En
esta vida todo es verdad y todo
mentira, probabilmente ignorando il testo francese (la
stampa spagnola non è indicativa per datare la stesura);
entrambi gli autori rielaborarono una commedia del 1616
di Antonio Mira de Amescua,
La rueda de la Fortuna, il cui
più celebre lavoro, El ejemplo
mayor de la desdicha fu riadattato nel Belisario di Giacinto
Andrea Cicognini. Ai modelli
spagnoli di Héraclius dedica
un intero capitolo Cioranescu 1983, pp. 374-379; su Cicognini e il teatro spagnolo esiste un’ampia bibliografia segnalata e discussa in Maranini 2001.
26. «A trattenimento delle
lettere non era dovere che
mancassero quei dell’armi»
spiega Gualdo 1656, p. 234
(ed. di Venezia).
27. Deduco dalla descrizione
del carro che fa Gigli (cit. in Fagiolo dell’Arco 1997, p. 366),
messa a confronto con il dipinto di Gagliardi e Lauri.
28. Montalto 1941, pp. 193194.
Gualdo 1656, pp. 247 e 249
(ed. di Venezia).
davide daolmi
reur d’Orient che aveva debuttato a Parigi nel gennaio del 1647; scelta invero curiosa perché uno dei testi più ‘spagnoli’ del drammaturgo francese.25
I Barberini, come detto, si distinsero per gli omaggi a Cristina, offrendo
anche loro, dopo l’esordio anticipato dell’allegorica Vita umana (31 gennaio), altri due drammi musicali replicati per tutti i giorni del Carnevale, nonché la già citata giostra dei Caroselli del 28 febbraio che concluse
non il Carnevale (onore lasciato ai Pamphili) ma un ciclo di cinque accademie letterarie che si erano date ogni lunedì a Palazzo Farnese, residenza della regina, a partire dal 24 gennaio.26
La prima delle due opere, che debuttò domenica 20 febbraio, era una
novità assoluta e s’intitolava L’armi e gli amori; l’altra, Dal male il bene,
una ripresa del Carnevale di due anni prima e, supponendo un’equa spartizione dei giorni di festa, ritengo sia andata in scena a partire dal 24
febbraio. Marco Marazzoli, uno dei più celebrati musicisti romani durante il fulgore barberino, è l’autore delle musiche, sia di questi drammi
che della Vita umana (e probabilmente anche dei brani, perduti, cantati
nella giostra). I testi sono oggi unanimemente detti di Giulio Rospigliosi, futuro Clemente ix. Notizia, come dirò, probabilmente da rettificare.
L’elemento assolutamente eccezionale delle feste barberiniane non è
però nella quantità di allestimenti messi in atto (in fondo, a parte La
Vita umana, comparabile a quello dei Pamphili) e nemmeno nella qualità giacché, essendo perduti i lavori di Tenaglia, non c’è occasione di
confronto; anzi, secondo le parole della regina, il ballo rappresentativo
dei Pamphili fu apprezzato più d’ogn’altra cosa. Non va dimenticata
poi l’alta dose di ‘riciclo’ che operarono i Barberini, a partire dai carri
della giostra: una novità per la regina, ma già usati nell’omaggio a Maffeo Barberini nel Carnevale del ’54 27 – feste in cui si era dato anche il
debutto dell’opera Dal male il bene. Lo stesso Armi e amori con tutta
probabilità doveva essere stato preparato per il Carnevale del ’55; il lutto per la morte del papa e soprattutto il perdurare del conclave fecero
saltar poi ogni festeggiamento.
L’aspetto significativo è invece nel valore propagandistico che si diede a
queste feste. L’intera partitura della Vita umana fu stampata e pubblicata
con dedica di Marazzoli a Cristina di Svezia. Tutti e tre i drammi furono
poi allestiti non in un salone del palazzo, come avevano fatto i Pamphili
(che erigeranno una scena stabile solo nel 1684),28 ma in un teatro vero e
proprio appositamente pensato per accogliere «tutte le persone civili» –
secondo l’uso di Francia che, in ossequio all’ideale pubblico (e ancora
una volta propagandistico) del governo, ammetteva a corte chiunque potesse permettersi un abito decente. Per la giostra dei Caroselli poi, oltre ai
palchi per la nobiltà, si prepararono spazi insolitamente vasti destinati al
popolo, cosa di cui Gualdo ebbe di che stupirsi:
Questi signori, col fare anche demolire alcune loro case contigue, fecero drizzare due
larghe e commode scalinate nella parte sinistra. Erano queste capaci di 3000 persone in
circa …
La pompa e maestà di questa operazione invaghì la curiosità di tutta Roma e de’ paesi
circonvicini onde, benché la folla della gente all’ingresso fosse grandissima, con tutto ciò
furono introdotte senza confusione tutte le persone civili …
capitolo i. Luoghi
15
L’armi e gli amori, dunque, si svolsero in un teatro, non proprio pubblico
(non era a pagamento) ma destinato anche al popolo e quindi in qualche modo forma ibrida fra rappresentazione di corte e quell’opera «mercenaria» che si andava diffondendo in molti centri italiani. Gualdo dice
quell’allestimento ricco poi di «apparati e mutazioni di scene», testimonianza di un teatro tutt’altro che provvisorio. Tanto più importante quindi
ritornare a calpestare i luoghi dell’evento e individuare e definire finalmente quegli spazi che hanno visto un allestimento per più aspetti tutt’altro che marginale.
R
ipartiamo allora dal quadro di Lauri e Gagliardi. Ci si sono messi in
due a dipingere la tela, non tanto per le dimensioni quanto perché
Filippo Gagliardi (†1659), più abile nella prospettiva, s’incaricò dell’impianto architettonico, mentre Filippo Lauri (1623-1694), aggiunse pazientemente spettatori, personaggi e figurini della giostra.29 Doppio quindi
l’intento: il ricordo delle feste ma anche l’omaggio a uno degli edifici più
belli di Roma, nonché residenza di rappresentanza dei Barberini e in
qualche modo emblema della loro rinnovata potenza. (Oggi è la sede, in
perenne restauro, del Museo di arte antica e di altre istituzioni.)
Il palazzo è detto «Alle Quattro Fontane» perché s’erge al centro di un
isolato il cui lato Sud-Ovest s’affaccia sull’omonima via che prende il
nome dal quadrivio che incontra via del Quirinale nel punto in cui diventa via xx Settembre.
„ Il
Palazzo alle
Quattro Fontane
29. Il primo a far conoscere il
dipinto fu Incisa 1959 in occasione dell’acquisto della
tela da parte del Museo di
Roma. La meticolosità di Lauri è tale da far supporre che,
almeno il pubblico in primo
piano, sia un’innumerevole
sequenza di ritratti di persone reali con nome e cognome.
Se ne veda il particole in Fagiolo 1997, ii, p. 104.
38. L’isolato di Palazzo Barberini come si presenta oggi
(pianta a volo d’uccello tratta da Guides Gallimard, Paris
1993).
La particolarità dell’incrocio omonimo, che al moderno turista può forse apparire dimesso, non trae la sua fama solo dalle quattro piccole fontane allegoriche di fine del Cinquecento disposte su ciascuno degli angoli del quadrivio; quanto dal valore urbanistico che assume il luogo, frutto
della ristrutturazione viaria di Sisto v (1585-1590), che concede un quadruplo campo prospettico: verso Porta Pia e altri tre celeberrimi obelischi romani, quelli dell’Esquilino, del Quirinale e di Trinità dei Monti.30
Per comprendere la sontuosità del palazzo basterebbe dire che la parete
che si vede raffigurata nel dipinto dei «Caroselli» non è che il fianco dell’edificio, dotato di altri due ingressi principali, la cui scenografia ad effetto fu progettata da Bernini e Borromini. Le eleganti incisioni di Alessandro Specchi (1668-1729) – architetto noto per la realizzazione del Porto
di Ripetta (smantellato purtroppo nel primo Novecento) 31 – ne mostrano le facciate anteriore e posteriore.
30. Benedetti 1992.
31. Su Specchi si veda Spagnesi 1997.
16
davide daolmi
49. [Alessandro Specchi]
Facciata principale del Palazzo Barberino dell’eccellentissimo signore prencipe di Pellestrina con li due fianchi che la
compongano | nel monte Quirinale. Architettura del cavalier
Bernino. | 1. Fianco verso la
piazza – 2. Altro fianco verso
il giardino | A. Specchi disegno et intaglio – dato in luce
da Domenico de’ Rossi dalle
sue stampe in Roma alla Pace
con licenza de’ superiori. – 17
[in Specchi 1999, tav. xvii]
310. [AlessandroSpecchi] Veduta posteriore del medemo Palazzo
Barberino con facciata e scala che
porta al giardino, et al piano della sala | Architettura del cavalier
Bernino. | 1. Giardino con l’obelisco antico verso le Quattro
Fontane | Dato in luce da Domenico de’ Rossi dalle sue stampe in Roma alla Pace con privilegio del Santo Padre e licenza
de’ superiori. – 20 [in Specchi
1699, tav. xx]
32. Specchi 1699.
33. Sui de’ Rossi stampatori
vedi Macchi 1945, Esposito
1972 e Ciofetta 1991.
511. «Facciata maestra del pa-
lazzo delli Barberini alle
Quattro Fontane»; in Rossi
1638, tav. n.n.
34. Ferrerio 1655, tavv. 7 e 8.
35. Falda 1655.
Furono pubblicate in un volume stampato nel 1699 con due titoli diversi:
Il primo libro del nuovo teatro delli palazzi in prospettiva di Roma moderna,
altre volte pubblicato come Il quarto libro del nuovo teatro…32 La spiegazione della doppia dicitura obbliga a una piccola digressione. Già nel 1638
uno dei più insigni stampatori romani, Giambattista de’ Rossi,33 sensibile
al rinnovamento edilizio della città, svecchiò la tradizione di pubblicare
incisioni dei reperti antichi e lanciò la moda, che si sarebbe rivelata fortunatissima, degli edifici moderni. Pubblicò infatti una serie di prospetti anonimi, non sempre raffinatissimi, dal titolo Palazzi diversi nell’alma città di
Roma, dove una delle tavole riproduceva, pur con le proporzioni alterate,
il trionfale ingresso ovest dell’appena completato Palazzo Barberini (411).
Durante il pontificato di Innocenzo x, il figlioccio di Rossi, Giovanni
Giacomo, il vero artefice della fortuna seicentesca della famiglia, pubblicò una serie di semplici facciate ad opera di Pietro Ferrario, col titolo di
Palazzi di Roma de’ più celebri architetti. Il volume, dedicato al cardinale
Antonio Barberini, riproduceva del Palazzo alle Quattro Fontane la pianta
e ancora la fronte ovest – una bidimensione questa volte dalle proporzioni corrette.34 Seguì un secondo volume, Nuovi disegni dell’architetture
e piante, inciso da un altro giovane promettente architetto Giovanni Battista Falda.35 Rossi s’accorse del talento di Falda e gli commissionò numerosi altri libri d’incisioni: non più piatte facciate ma raffinati scorci
capitolo i. Luoghi
17
prospettici di piazze ed edifici romani. Il capolavoro è l’opera in tre volumi, pubblicata fra il 1665 e il 1669, intitolata Il nuovo teatro delle fabriche et edificii in prospettiva di Roma moderna.
Nel 1699 l’erede Domenico de’ Rossi, volle proseguire la collezione assegnando ad Alessandro Specchi il Quarto libro del nuovo teatro che apparve anche come Il primo libro, evidentemente volendo sfruttare con questo titolo la novità e con quello il successo editoriale del patrigno. Quarant’anni dopo un altro editore, «Al piè del marmo», riproporrà la stessa
soluzione pubblicando un Quinto – Secondo libro del nuovo teatro inciso
da Giovanni Domenico Campiglia.
L’attenzione alle incisioni di Specchi va al di là dell’erudizione calcografica: queste si completano infatti con due viste del Palazzo Barberini
di cui una, unica fonte figurativa, mostra anche l’edificio teatrale destinato a opere e commedie.
512. I tre frontespizi di Falda 1665, 1667 e 1669.
313. [AlessandroSpecchi] Segue l’altra veduta per fianco
del palazzo verso la piazza dell’eccellentissimo signor prencipe di Pellestrina | Architettura
del cavalier Bernino. | 1. Facciata per fianco verso la piazza – 2. Facciata principale –
3. Altro fianco verso il giardino – 4. Teatro da comedie. |
Data in luce da Domenico de’
Rossi dalle sue stampe in Roma
alla Pace con licenza de’ superiori. – 18 [in Specchi 1999, tav.
xviii]
313a. Particolare del Teatro Barberini tratto dalla tavola in alto.
La didascalia riferisce puntualmente «4. Teatro da comedie» permettendoci di individuare con certezza la palazzina nel complesso dell’edificio
e contemporaneamente riconoscerne la collocazione separata.
Potrei fermarmi qui: il teatro è stato identificato. Tuttavia questo è il primo
vero teatro moderno di cui Roma possa vantarsi e forse meriterebbe più
attenzione. È vero che le feste nei palazzi della città erano frequenti: spesso
514. [AlessandroSpecchi] Al-
tro fianco del Palazzo Barberino […] 1. Facciata principale con li due fianchi che lo
compongono – 2. Fianco verso il giardino col ponte levatore che porta all’appartamenti – 3. Altro fianco verso
la piazza […]; in Specchi
1999, tav. xix.
18
davide daolmi
si allestivano vere e proprie opere in teatrini provvisori e il Collegio Romano aveva probabilmente una sala specificamente destinata alle commedie,
ma nessuna famiglia romana aveva mai adibito un’ala del palazzo a teatro
stabile e tantomeno aveva fatto costruire un intero edificio destinato a tale
impiego. Il fatto poi che, pur gratuitamente, vi affluissero anche borghesi
(rendendolo un teatro semipubblico) gli concede un ruolo politico – certamente non casuale – che obbliga ad un approfondimento. Provo allora,
più che a ricostruirne la storia rappresentativa, già divulgata per quanto
noto (ne dirò poi), a occuparmi, ancora una volta, del luogo, della struttura architettonica e del modo con cui erano sfruttati gli spazi occupati.
Teatro Barberini
515. Foto del palazzetto attuale scattata da via Barberini in
tempi recenti.
416. a Planimetria ottocentesca dell’isolato prima dell’apertura di via Barberini
(da Létarouilly 1860);
b pianta odierna di Roma
(Touring Club Italiano 1977);
c la medesima ruotata a
Nord-Ovest in coincidenza
con l’orientamento ottocentesco; d la planimetria di
Létoruoilly con la moderna
rete viaria.
C
hi facesse oggi un giro attorno al Palazzo alle Quattro Fontane con
in mente l’incisione di Specchi avrebbe di che rimanere deluso: lo
spiazzo antistante il lato nord del palazzo, quello della «Giostra dei caroselli», è infatti la parte che più ha subìto modifiche, risultando oggi quasi
irriconoscibile. Eppure guardando con attenzione un casolare a pianta
quadrata addossato al palazzo proprio nel punto dove una volta doveva
sorgere il teatro, l’ignaro visitatore riconoscerebbe, sotto le ultime vestigia di archi romani, l’elegante portale dell’incisione e, con una certa approssimazione, anche la linea delle finestre. Per il resto nessun’altra coincidenza: l’edificio è infatti a tre piani (e non due) con lucernario e, anche
volendo supporre l’aggiunta di una soppalcatura abitabile, le dimensioni appaiono assai tozze rispetto all’incisione. Cos’è successo?
a
b
c
d
N
„ Il
N
capitolo i. Luoghi
19
Confrontando una pianta ottocentesca dell’isolato (416a) con una moderna (b) e, opportunamente ruotata, avvicinando questa alla prima (c)
salta subito all’occhio la sostanziale modifica urbanistica (d).
Come ricordava Urbano Barberini nel 1963,36 l’apertura di quella che è
l’odierna via Barberini, avvenuta dopo il 1932 a seguito del nuovo piano
regolatore, oltre ad aver ristretto drasticamente il cortile della «Cavallerizza» dove avvenne la «Giostra dei caroselli», s’è portata via un pezzo di
teatro. L’altro pezzo fu comunque raso al suolo e quindi non c’è più molto
da riconoscere: ne dà testimonianza una fotografia dell’archivio privato
Barberini che Jorgen Hartmann pubblicò nel 1964.
36. Barberini 1963, p. 6; v.
anche Insolera 1980, p. 414
e segg.
317. Foto del 1932 scattata in
occasione della domolizione
dell’ex Teatro Barberini (Archivio privato Barberini),
pubblicata in Hartmann
1964, p. 7.
Il portone però c’è ancora. Il suo disegno godeva infatti di una firma
prestigiosa, quella di Pietro da Cortona; si pensò così di preservarlo ricostruendovi attorno, pur nello spazio più angusto che era rimasto, un edificio che ne riprendesse le fattezze per reinserirvi il vecchio portale. Sappiamo che il disegno è di Cortona – come è suo l’altro arco distrutto,
detto «Portonaccio», che dava su piazza Barberini – perché un’altra serie
di incisioni di Specchi derivate da precedenti disegni di Ciro Ferri (16341689) e pubblicata in tre volumi successivi dal solito Domenico de’ Rossi
(1701, 1711, 1721), riproduce i due portali indicandone la paternità.37
Se un problema appare facilmente risolto (ovvero perché il teatro si sia
accorciato), un altro, scatenato nel 1958 proprio da Urbano Barberini,
sembra confondere di nuovo le idee. Il Barberini, venendo a conoscere
un dipinto di Hans Ditlev Christian Martens generalmente noto come
La visita di papa Leone xii allo studio di Thorvaldsen, ritenne di potervi
riconoscere l’interno del Teatro Barberini, ovvero della palazzina adibita
ad autorimessa di famiglia e granaio fino al 1932.
Lo scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844) si trasferì infatti nel
1797 a Roma, affittando dai Barberini alcuni locali, incuneati fra via delle
Quattro Fontane e l’attuale piazza Barberini, proprio di fronte alla facciata ovest del palazzo. Il 1° agosto 1822 Thorvaldsen firmò però un nuo-
5i.18 Il portale cortonesco del
Teatro Barberini inciso da
Specchi (v. nota 37).
37. Specchi 1721, i (1701), tavv.
51 e 52; sui disegni di Ferri v.
Morolli 1987.
20
davide daolmi
vo contratto per acquisire un ulteriore spazio, molto più grande dei precedenti, sempre di proprietà Barberini. Il locale, destinato a show room,
avrebbe ospitato il meglio delle sue opere e divenne oggetto di visita ammirata di turisti e curiosi. Qui vi passò, fra gli altri, il 18 ottobre 1826,
persino papa Leone xii. Martens, giovane apprendista presso lo scultore,
immortalò l’episodio in quello che è probabilmente il suo unico quadro
di una certa fama (e vi si autoritrasse in basso a sinistra intento a dipingere) offrendoci un’importante vista interna dell’edificio.
419. Hans Ditlev Christian
Martens, La visita di papa Leone xii allo studio di Thorvaldsen (1822), Copenaghen,
Museo Thorvaldsen.
38. Barberini 1957, p. 17.
39. Hartmann 1963, Barberini 1963, Hartmann 1964,
Barberini 1964.
40. I contributi apparsi su
«L’Urbe» – del tutto ignorati
dai musicologi (penso a Murata e Hammond che pure
molto hanno investigato sui
Barberini) – furono ripresi
per la prima volta nella tesi
di laurea di Pietrangeli
1969 (studio attualmente
inaccessibile), quindi da Colini 1977 (non consultato);
nella piccola ma assai documentata guida di Negro
1995, pp. 65 e segg.; con nuove precisazioni in Tamburini 1997, pp. 241 nota 178, e
Tamburini 2000; infine
Hammond 1999, p. 57, riproduce il dipinto ma non esplicita le fonti.
41. Barberini 1957, p. 17.
Il quadro, oggi al Museo Thorvaldsen di Copenaghen, ritornò in Italia
per la prima volta nel 1957 in occasione dell’esposizione romana «Da
Villa Ludovisi a piazza Barberini». Urbano Barberini, nell’introduzione
al catalogo della mostra dichiarerà senza incertezze che il «grande studio» Thorvaldsen era l’ex Teatro Barberini, riconoscendovi «benissimo
la grande capriata in legno come si vede nel quadro di Martens».38 Da
qui scaturì un’elegante polemica – di quelle dottissime e pacate come
non se ne incontrano più – fra il Barberini e il già citato Hartmann che si
protrasse per un paio d’anni in quattro successivi articoli pubblicati su
«L’Urbe».39 Poiché all’ultima risposta del Barberini non seguirono ulteriori obiezioni, da allora la critica ha ritenuto, pur con qualche trascurabile perplessità che il quadro di Martens possa riprodurre effettivamente
l’interno dell’ex Teatro Barberini.40
Bisogna però ammettere che le obiezioni avanzate da Hartmann contro
la tesi Barberini appaiono del tutto condivisibili e molte di queste non
sembrano essere state opportunamente smontate nelle due repliche pubblicate all’epoca. Un primo punto fondamentale di dissenso era scaturito da quanto scriveva il Barberini a proposito della sistemazione del «grande studio» (quello del quadro di Martens) nel piano superiore di «due
enormi ambienti rettangolari, uno al pian terreno e uno al primo piano».41 Hartmann si chiedeva come fosse possibile portare marmi a un
piano rialzato rischiando soprattutto il cedimento del pavimento. Il Bar-
capitolo i. Luoghi
21
berini obiettò che non si trattava di marmi ma di copie in gesso (tesi poi
rivelatasi infondata), senza però spiegare come queste si sarebbero potute trasferire a un piano alto. La seconda obiezione di Hartmann riguardava la porta a due battenti aperta sul lato corto dell’edificio (visibile al
centro del dipinto in fondo) che entrerebbe in contraddizione con la
pianta ottocentesca del teatro che lo vuole chiuso da un lato a causa del
prolungamento del palazzo, e dall’altro dal gruppo di case posto al di
qua della strada privata poi diventata via Barberini. Il terzo punto debole della tesi Barberini si lega alla sproporzione fra l’altezza della stanza
dipinta da Martens e lo spazio che il secondo piano della palazzina avrebbe
in effetti potuto concedere. Infine il quarto argomento coinvolge la scarsa riconoscibilità della posizione delle finestre.
Viste le scarsissime notizie sul Teatro Barberini, il dipinto di un interno
sarebbe stato una preziosa fonte iconografica. Ho desiderato con tutte le
mie forze che la ragione fosse dalla parte del Barberini ma alla fine, di
fronte all’evidenza dei fatti ho dovuto ammettere che Hartmann aveva
molti più argomenti dalla sua parte. Non c’è modo di sciogliere le incogruenze della tesi Barberini se non ammettendo che si tratti di un altro
edificio. Il confronto inoltre del dipinto con una possibile ricostruzione
operata sulle informazioni note del teatro mostra chiaramente che – a
parte l’inconciliabile presenza del portone e l’assenza delle finestre piccole sottostanti i finestroni laterali – quando si fa coincidere la spiovenza
del tetto ci si accorge inequivocabilmente che la stanza dipinta da Martens è più alta (o più stretta) di un eventuale piano rialzato ovvero, ammettendo il più ragionevole ingombro di entrambi i piani, nettamente
più bassa dell’ex teatro.
Tuttavia se anche viene a cadere la tesi del Barberini perché non ammettere la sua buona fede? La memoria dell’edificio distrutto un quarto di
secolo prima offre una serie di informazioni sull’ex teatro che permettono di comprendere meglio la struttura della palazzina, almeno per come
si era trasformata prima che fosse rasa al suolo.
Innanzi tutto le capriate. Nel riconoscere un tipico sistema di sostegno
del tetto (che in effetti potrebbe appartenere a qualunque altra palazzina) il Barberini ci dice che il teatro aveva un tetto a capriate, esattamente
come moltissimi teatri di quegli anni (l’esempio più prestigioso era per
tutti il Farnese). Dall’archivio Barberini saltano poi fuori due preziose
620. Confronto fra la sezione del «grande studio» di
Thorvaldsen ricavata dal dipinto di Martens (in rosso)
e quella del Teatro Barberini
che misurava approssimativamente m 15 d’altezza per
18,5 di larghezza (muri compresi). Per le dimensioni v.
oltre.
22
davide daolmi
immagini, una fotografia degli anni Venti del Novecento e un
acquarello dello stesso Barberini realizzato poco prima della distruzione del teatro.
521. Disegno acquarellato
realizzato da Urbano Barberini prima della distruzione
del teatro (Roma, Museo di
Roma).
422. Foto della rimessa delle
auto (ex teatro) scattata negli anni Venti (Archivio privato Barberini).
Da qui appare evidente che la facciata laterale del teatro (con al centro la
porta di Cortona) proseguiva verso nord sovrastando anche la strada privata (poi via Barberini) con un portico o sottopasso in cui si riconoscono
nell’acquarello due piani abitabili. Un particolare della tavola xvii di Specchi (49) dimostra che tale prolungamento esisteva già alla fine del Seicento. Mi chiedo a questo punto perché, giacché il teatro fu costruito ex novo
non si sia data una configurazione continua alla facciata. La risposta più
ovvia è che il portico sia stato aggiunto successivamente. Non è così.
Il quadro di Gagliardi e Lauri, al di là della struttura provvisoria in legno
eretta per la festa, restituisce la forma del teatro come era nel 1656. Il
preciso impianto prospettico del dipinto permette di ricostruire una visione della prima forma del teatro, ricavarne una pianta e confrontarla
con la planimetria di Létarouilly.
423a. Parziale dal dipinto di
Gagliardi e Lauri su cui sono
evidenziate le case retrostanti
gli spalti per la giostra. In verde i contorni visibili, in arancio quelli dedotti.
capitolo i. Luoghi
23
423b. Gli elementi di contorno ricavati dalla figura precedente evidenziano una distribuzione edilizia affatto
diversa da quella deducibile
dalle piante sette-ottocentesche.
424. a Ipotesi di ricostruzione della planimetria attorno al Teatro Barberini al
tempo della «Giostra dei caroselli»
(1656) sulla base della pianta pubblicata
in Létarouilly 1860; b a fianco l’ingombro edilizio testimoniato già a aprtire
dalla pianta di Nolli (1748).
L’elemento sorprendente è che il teatro non solo aveva una quinta finestra con cornice proprio in coincidenza del portico, ma si estendeva per
tutto l’isolato fino ad affacciarsi sulla via parallela di San Nicola da Tolentino. Il prolungamento è confermato dalla pianta di Roma di Falda
del 1678 (seppur qui il porticato sembra avere acquisito un piano in più).
4 25. Particolare da Falda
1676; in evidenza il prolungamento del teatro fino al limitare della strada di San Nicola da Tolentino; si osserva
l’aggiunta di un piano ulteriore con tre finestre alzato
sopra il portico.
24
42. Riprodotto in Connors–
Rice 1991, p. 173; ivi per la datazione.
davide daolmi
Appare strano a questo punto che il fiammingo Liévin Cruyl, disegnando nel 1665 una veduta di piazza Barberini,42 sembri delineare un edificio ben più corto, forse limitato solo all’aggiunta della quinta finestra del
teatro, quella a ridosso del portico (l’originale in piccolo appare ribaltato perché preparato per un’incisione). Ovvero, una raffigurazione assai
prossima a quella visibile in due delle quattro tavole di Specchi del Palazzo Barberini (49, 13a) del 1699.
626a. Liévin Cruyl, Piazza
Barberini, disegno, 1665.
526b. Particolare del teatro tratto dal disegno precedente (ribaltato).
L’unica ipotesi che riesco a formulare è che nel 1665 il
prolungamento era già stato scorciato e Falda nel ’76,
almeno per i dettagli di Palazzo Barberini, si era rifatto a disegni preparatori ripresi prima del 1665. In effetti nel 1667 Falda aveva pubblicato una più piccola
pianta di Roma (dove il teatro mancava del tutto) che
rende probabile un lavoro propedeutico databile molti
anni prima o comunque realizzato sulla scorta di piante precedenti almeno un paio di decenni.43
5 27. Particolare del teatro
tratto dall’incisione di Specchi del 1699 (49).
43. Cfr. Frutaz 1962, ii, tavv.
345-349).
Viene spontaneo chiedersi a questo punto se questo edificio del 1656 così allungato – la cui forma ha vita breve,
venti-venticinque anni, sostanzialmente in corrispondenza alla documentabile attività del Teatro Barberini
– fosse tale per scopi teatrali, per esempio per offrire
una prospettiva più profonda o lasciare più spazio al
pubblico. Saremmo di fronte a una superficie larga circa 18 metri e mezzo,
e profonda più di 70. Apparentemente sproporzionato? Forse, o forse no.
Proprio a metà del secolo si andava diffondendo l’uso di allungare drasticamente il palco secondo una pratica già diffusa in Francia (e non è il caso
di ribadire quanto i Barberini fossero attenti alle cose d’Oltralpe). Uno dei
principali fautori italiani di questo tipo di teatro fu Gaspare Vigarani (15861663), già artefice di importanti teatri a Reggio e Modena. Vigarini presto
godette dell’ammirazione di Luigi xiv che nel 1659 lo chiamò a Parigi per
costruire la celebre Salle des Machines. Inaugurata tre anni dopo, la Salle
occuperà un perimetro murario di circa 20 metri per 70 allestendo un
teatro di 13 metri per oltre 60 – in proporzione addirittura più lungo di
quello dei Barberini – con una scena profonda ben 35 metri.
capitolo i. Luoghi
25
328a-b. Pianta della Salle des
Machine (1662), progettata
da Gaspare Vigarani, rapportata alla ricostruzione su medesima scala del perimetro
del Teatro Barberini comprensivo del prolungamento che
arriva alla via di San Nicola
da Tolentino. In basso alzata
della facciata principale
(l’unica visibile). Deduco le
dimensioni, con qualche approssimazione, da Létaroilly 1860 (mia ricostruzione442).
Dal confronto delle piante si nota come il Teatro Barberini fosse solo po’
più piccolo della Salle des Machines. Ma allora la sala romana è un’anticipazione della scena parigina che ospiterà l’Ercole amante ?
Sappiamo da Gualdo che la regina Cristina raggiunse il suo posto attraverso una scala segreta a chiocciola.44 Questo obbliga a supporre che la
platea fosse disposta verso il palazzo. Il portico renderebbe infatti disagevole la disposizione di gradoni e palchetti essendo più alto della base
del teatro (potendo invece coincidere con il piano rialzato della scena).
Bernini però, scenografo per lo spettacolo d’inaugurazione del 1639, era
nettamente ostile alle prospettive profonde ‘alla francese’.45 È peraltro
possibile che Bernini – la cui partecipazione al progetto del teatro è solo
ipotizzata 46 – abbia elaborato la condanna a questo tipo di teatro solo
più avanti: forse proprio dopo aver sperimentato la difficile gestione delle macchine e la pessima acustica della scena che il Teatro Barberini aveva rivelato – un ulteriore motivo capace fra l’altro di spiegare l’oblio in
cui cadde l’edificio subito dopo il ‘Carnevale della regina’.
Mi chiedo se sia possibile che Vigarani sia stato artefice o quantomeno
ispiratore del progetto. Elena Tamburini riferisce di un viaggio dell’architetto estense a Roma nel 1645 47 (data certamente successiva all’inaugurazione del teatro ma che non esclude precedenti contatti), e ritiene vi
siano motivi comunione fra l’architetto estense e i Barberini, tanto da
riconoscere significative similitudini fra il boccascena del loro teatro –
44. «La regina, doppo essersi
compiaciuta di osservare la
nobiltà degli appartamenti, la
ricchezza degli addobbi di
quel regio palazzo ornato anche di pitture eccellenti, calò
per una scala segreta nel teatro»; Gualdo 1656, p. 237 (ed
di Venezia). Pietrangeli
1968, p. 60, riferisce che la scala era chiamata «lumaca»; cit.
in Tamburini 1997, p. 251 nota
212.
45. Tamburini 1997, p. 281-282.
46. Tamburini 1997, p. 241
nota 179.
47. Tamburini 1987.
26
48. Tamburini 1997, p. 284.
davide daolmi
visibile in una delle incisioni della Vita umana – e quello del Nino figlio
di Berlingero Gessi, tragedia dedicata proprio l’anno precedente al duca
d’Este (e quindi riferibile forse a un teatro modenese); ancora ritrovando motivi di relazione anche nelle architetture francesi degli anni Settanta del più celebre Carlo Vigarani, figlio di Gaspare.48
In effetti si tratta di elementi suggestivi ma labili. Non ci sono prove (a
parte la forma esterna dell’edificio) per affermare che il Teatro Barberini
fosse all’altezza del 1656 un teatro di tipo francese. Semmai ci sono indizi
contrari. Infatti – osserva sempre Tamburini – in occasione dell’inaugurazione del teatro nelle carte del fondo barberiniano si parla espressamente di «stanze dietro la scena» e più precisamente di un «ponte che va
alle stanze dietro alla detta scena», frase che chiaramente rimanda al porticato, e che obbliga a far finire la scena prima del detto «ponte». Credo
quindi più probabile supporre lo spazio teatrale assai più corto e limitato alle due massicce lesene ancora visibili nella foto dei primi del Novecento (422) che delimiterebbero una profondità complessiva, fra scena e
platea di ca. 32 metri (428b, riscostruzione dell’alzata).
49. Tamburini 1997, p. 241 e
segg.
529-30. Parziale delle pianta
di Giovanni Maggi del 1625 e
di Goert van Schayck del 1630
(rist. anast. in Frutaz 1962,
ii, tavv. 307-331); cfr. anche
Insolera 1980, pp. 262 e segg.
50. Blunt 1958, p. 282.
Il Teatro Barberini fu realizzato per opera di Valerio Poggi e Bartolomeo
Breccioli. Cominciato nal 1636 fu inaugurato nel Carnevale del 1639 con
una riedizione di Chi soffre speri, con scene di Borromini.49 È probabilmente in questa occasione che fu alzata la lunga palazzina a cavallo del
viottolo privato. Per quanto è dato capire dalle piante di Maggi (1625) e
Schayck (1630), per la verità non troppo precise, già s’individuano abitazioni nell’isolato prospiciente, per cui è possibile che l’edificio sia semplicemente stato addossato a case esistenti, o magari modificate solo in parte.
Evidentemente si preferì terminare il teatro al limitare della stradina privata perché si rendevano necessarie stanze dietro il palco per gli attori e
il deposito delle scene.
Il motivo invece per cui una palazzina sorta ex novo presenti un cornicione che la taglia orizzontalmente, quando dovrebbe essere di un solo
piano, e soprattutto preveda un portale forse eccessivamente ingombrante,
è chiarito – come già aveva notato Anthony Blunt 50 – da una delle due
incisioni che pubblica Pompilio Totti nel suo Ritratto di Roma moderna
capitolo i. Luoghi
27
del 1638 (431) dove ben si comprende come
Pietro da Cortona avesse realizzato un semplice muro divisorio fra la Cavallerizza e il
giardino, muro che poi fu evidentemente integrato nell’edificio teatrale.
A essere pignoli si potrebbe pensare che l’impianto architettonico reso dal dipinto di Gagliardi e Lauri non fosse già tale nel 1639.
Fino al ’56 non sopravvivono infatti raffigurazioni delle case prospicienti il palazzo
e, pur non essendovi in quell’anno specifiche notizie di modifiche architettoniche,
Gualdo riferiva che per la giostra fu necessario «demolire alcune loro case contigue».51
Un confronto fra il grande dipinto e l’incisione di Totti mostra come nessuna casa occupasse precedentemente il cortile della Cavallerizza; ciò farebbe supporre che per l’occasione proprio la fisionomia muraria del
teatro fosse stata alterata dandogli la forma
allungata di cui s’è detto. Ma non è così. Il
grande arco per cui accedevano carri e cavalieri si trova infatti addossato alle case
retrostanti; sarebbe stato un arco cieco se
non si fosse aperto un varco radendo al suolo, anche solo provvisoriamente, le case che ne ostruivano l’ingresso. È
certamente qui che si è dovuto abbattere alcune case. Di questa demolizione non è rimasta traccia in piante o incisioni perché, dopo il 1656, la
prima planimetria di Roma data solo al 1678, quando fu disegnata la
preziosa vista a volo d’uccello di Falda. D’altra parte proprio nel dipinto
di Gagliardi e Lauri appare visibile la fine del tetto di una casa al di là
degli spalti, parallela al cortile della Cavallerizza, il cui muro coincide
con un varco che sembra il proseguimento dell’ingresso dell’arco trionfale (423a-b). Se non c’è motivo di credere che le demolizioni di cui dice
Gualdo debbano essere qualcosa di diverso dall’apertura utile al detto arco,
assenti altre notizie di alterazioni architettoniche, credo verosimile che la
forma allungata dell’edificio teatrale possa ritenersi tale fin dall’inizio.
S
ciolti alcuni dubbi, per quanto possibile, vorrei tracciare in conclusio
ne le fasi degli allestimenti barberiniani in relazione alla costruzione
del Palazzo alle Quattro Fontane e successivamente all’apertura del teatro.
Ricordavo precedentemente come il palazzetto che oggi prende il posto
del teatro fosse addossato ad antichi archi romani. Nella prima pianta
planimetrica di Roma, disegnata con cura del particolare da Leonardo
Bufalini e pubblicata nel 1551, la zona appare pressoché disabitata, ma
sono ancora riconoscibili i reperti antichi. Per individuare esattamente
la corrispondenza con la rete viaria attuale è necessario riconoscere su
una pianta moderna quelli che sono i punti di riferimento ancora presenti dopo cinque secoli.
531. Incisione anonima pubblicata in Totti 1638, p. 275.
51. Gualdo 1656, p. 247 (ed.
di Venezia).
„ Sui
resti del vecchio
Campidoglio
28
432c. Particolare della pianta
di Leonardo Bufalini (1555)
che individua i resti archeologici su cui sorgerà Palazzo
Barberini. Sulla pianta di Bufalini v. Insolera 1980, p. 112
e segg.; per un’edizione moderna della pianta e di quelle
che seguono v. Frutaz 1962.
52. Che le rovine siano il vecchio Campidoglio o il Circo
di Flora non so dire. In un
codice anonimo della Avery
Library della Columbia University, intitolato Description
de Rome moderne, databile fra
il 1677 e il 1681 si legge (adotto la traduzione della moderna edizione di Connor–Rice
1990, p. 138): «I giardini del
Palazzo [Barberini] non hanno nulla di straordinario, se
non il fatto che poggiano sulle rovine del primo Campidoglio, sorto in questo luogo
fin dalla nascita di Roma».
davide daolmi
532a-b. Frammento della pianta di Bufalini
a confronto con una moderna cartina (stesso orientamento). In rosso le mura romane
(tratto più spesso), le due strade che parallele raggiungono Porta Pia (1) e Porta Salaria
(2), le chiese di Trinità dei Monti (3), di Santa Maria Maggiore (4), e infine l’esedra delle
Terme di Traiano (5). In blu le strade aperte
successivamente: la traversa dell’esedra traiana e il collegamento fra Trinità dei Monti e
Santa Maria Maggiore che incontra l’attuale
via xx settembre all’incrocio delle Quattro
Fontane. In verde la via interna al quadrilatero, oggi scomparsa.
La pianta, già allungata in orizzontale, patisce in questo punto ulteriori alterazioni. Per evitare di posizionare le Terme di Traiano a cavallo di due lastre Bufalini fa slittare il perimetro verso l’alto dilatando ulteriormente l’area dove sorgerà Palazzo Barberini. Ciò malgrado
il disegno è straordinariamente accurato e dà conto della zona quand’era
ancora coltivata a vigneti. Nel particolare s’individua un reticolato detto
«Capitolium veterum sacellum Iovis, Iunonis et Minervae»; più sotto un
recinto quadrato è indicato come «Vinea cardinalis Carpi», mentre la strada a destra, la via Pia, poi xx settembre, è detta «Alte semitae». Attorno alla
villa, collocata la centro della vigna del cardinale Rodolfo Pio da Carpi,
sorgerà il primo nucleo dell’attuale Palazzo Barberini, e gli archi del reticolato (opus reticolatum) del vecchio campidoglio (che pare sostenessero il
Circo detto di Flora) sono quelli che si riconoscono ancor oggi alle spalle
dell’ex Teatro Barberini.52
capitolo i. Luoghi
La villa Carpi, già di Giacomo Cesi, fu acquistata nel 1549 e rivenduta a
Giulio Della Rovere nel 1565, passò quindi in eredità al duca Francesco
Maria d’Urbino per essere rivenduta al cardinale Alessandro Sforza dei
conti di Santa Fiora nel 1578.53 La pianta di Etienne Dupérac del 1577 restituisce la forma assunta dalla villa Carpi e rivela come l’opus reticulatum
fosse ormai ridotto a terrapieno di cui sopravvivono i ruderi esterni ad
arco addossati al colle e riconoscibili fin sotto il fianco Nord della villa.
29
53. Per queste e le successive
notizie sulle vicende di Palazzo Barberini v. la bibliografia
in Negri 1995; una prima
apprezzabile sintesi era già in
Golzio 1971, p. 35 e segg.
Gli Sforza trasformarono la villa in un massiccio palazzo a strapiombo sugli
archi romani, come mostra la pianta di Antonio Tempesta del 1593 e, più in
dettaglio, un’incisione di Alò Giovannoli dei primi anni del Seicento.
633. Particolare della pianta di Dupérac del
1577 ribaltata di ca. 180° rispetto a quella di Bufalini (la strada in rosso sulla destra è via Pia,
l’attuale via xx settembre).
534. Particolare della pianta
di Antonio Tempesta del 1593
(orientamento coerente a
Bufalini, seppur poco più inclinato).
335. Incisione di Alò Giovannoli del vecchio Palazzo Sforza su i resti del vecchio Campidoglio.
Il Palazzo Sforza – oggi visibile alle spalle dell’ex Teatro Barberini – ha
subìto tali modifiche da apparire irriconoscibile, ma ha ancora le sue
fattezze originarie nel dipinto di Gagliardi e Lauri, come nell’incisione
di Specchi (42, 13). Si nota inoltre nella pianta
di Tempesta la presenza della nuova via Felice
(oggi Sistina / Quattro Fontane / De Pretis) che
Sisto v aveva aperto nel 1588 tagliando in due
la proprietà dei Grimani: l’area Nord così
creata fu venduta agli Sforza l’anno successivo. Qui verranno cominciati i lavori di ampliamento del palazzo, occupando quello che
sarà il braccio Nord del moderno Barberini.
La pianta di Matthaus Greuter del 1618, oltre
a dare un’idea dell’ampliamento in corso testimonia una definitiva sistemazione dell’isolato molto vicina alla forma odierna.
Nel 1625 gli Sforza, a seguito di un tracollo finanziario, vendettero palazzo e terreno al cardinale Francesco Barberini che donava la re-
636. Vista dalla pianta di
Greuter (1618) poco prima
della costruzione di Palazzo
Barberini.
-ri
a
-f
er
30
davide daolmi
54. Blunt 1958, p. 260.
55. Non ho potuto verificare
un’ulteriore opportunità. La
pianta comunemente nota di
Maggi non è quella stampata
da Paolo Maupin nel 1625, ma
la ristampa di Carlo Losi del
1774, e forse è possibile che
questi abbia operato alcuni
ammodernamenti alle lastre
originarie.
56. Così la tesi di Waddy citata in Hammond 1994, p. 330
nota 7.
„ Spettacoli
57. Hammond 1994, p. 201.
58. Di cui racconta Rolland
1902.
sidenza al fratello Taddeo, desideroso di trasformare il luogo in una delle
più prestigiose corti romane. La pianta di Giovanni Maggi (429), incisa
proprio quell’anno, propone il Palazzo Sforza in una forma assai più
articolata e molto vicina a quello che sarà del Barberini. Antony Blunt
suppone che Maggi abbia solo preannunciato quello che sarà il futuro
progetto Barberini 54 ma, se è vero che spesso le piante presentavano progetti in corso, in questo caso l’anticipazione sembra ai limiti della preveggenza, considerando che una stampa si completa mesi prima e che
quell’anno c’era stato solo un passaggio di proprietà, i lavori cominciando solo due anni dopo. È forse più semplice supporre che Maderno, l’architetto dei Barberini, abbia recuperato il progetto precedente (sempre
che non fosse egli stesso responsabile dei lavori degli Sforza).55
Non mi occuperò delle complicate questioni che entusiasmano gli storici dell’arte sulle paternità di costruzione di Palazzo Barberini che vedono coinvolti i quattro più grandi architetti dell’epoca, Maderno, Cortona, Borromini e Bernini. Mi basta osservare che i Barberini acquistarono
un edificio già abitabile, seppur assai diverso dalla forma definitiva, tanto da permettere a Maffeo Barberini di insediarsi fin dal 1626 e di dare da
subito ricevimenti e banchetti.56
L
a prima opera in musica di cui si ha notizia, accolta in una sala imprecisata del palazzo – ormai comunemente chiamato «alle Quattro Fontane» ma ancora dalle vecchie fattezze ‘sforzesche’ – è dell’estate 1628. Si
tratta del Contrasto di Apollo e Marsia che Hammond ha voluto individuare nel Marsia di Ottavio Tronsarelli, libretto pubblicato nel 1631. L’opera,
sempre secondo le ipotesi di Hammond, sarebbe stata interpretata dal castrato Marcantonio Pasqualini, giovandosi delle musiche di Kapsberger.57
Già nel 1632 il nuovo Palazzo Barberini è pressoché completato e pare
agibile nella sua gran parte. È di questo Carnevale l’allestimento del Sant’Alessio di Landi e Rospigliosi, spettacolo già programmato per il Carnevale precedente presso l’altro Palazzo Barberini, quello ai Giubbonari,
ma forse mai andato in scena. In questa occasione sappiamo anche, dalla
testimonianza di Jean-Jaques Bouchard,58 che l’opera fu allestita nella
stanza detta Sala dei marmi (o delle statue) a fianco del salone principale
(437), quello celeberrimo al primo piano affrescato da Cortona (il soffitto sarà terminato solo nel 1639). La pianta del
piano nobile è quella, al solito, pubblicata da Létaroully, dove è chiaramente individuabile la sala
per il teatro. Oggi parte dell’ala del Circolo delle
Forze Armate, lo stanzone continuerà a essere
usato per feste e banchetti anche nei secoli successivi. Un dipinto di Carlo Santarelli del 1876
ricorda la festa per la vittoria di Mentana dove il
lato corto mostra un trionfale banchetto: la sala
appare forse un po’ angusta ed eccessivamente
alta, ma misurava 13 metri per 17 e, se rapportata
al cornicione esterno, non doveva essere alta più
337. Pianta di Palazzo Barberini (piano nobile) da Létarouilly
1860; in evidenza la Sala dei marmi.
capitolo i. Luoghi
31
di 8 metri e mezzo. In realtà questa sala come il salone affrescato dal cortona e la sala ovale, godono
di un soffitto a volta che
occupa parte del piano
superiore. La parete in
fondo raffigurata da Santarelli è perfettamente in
proporzione con un rettangolo di metri 9 × 12,5
misurato al cornicione,
ovvero escludendo la rotondità del soffitto. Un
elemento prezioso per
quanto dirò più avanti.
In questo primo Sant’Alessio le scene dovevano essere dello stesso Cortona, mentre alle macchine sovrintese probabilmente
Valerio Poggi (colui che poi progetterà il Teatro Barberini): corago generale, oltre che librettista, Giulio Rospigliosi. Eppure il residente fiorentino ebbe modo di lamentarsi della qualità dell’allestimento, che invece
piacque molto a Bouchard. 59 La differenza di giudizio è evidente: a Roma,
come a Parigi, erano ancora ignote le quinte mobili che già Francesco Guitti
aveva usato nei celebri Intermedi fiorentini del 1626 e di nuovo nel 1828 per
l’inaugurazione del Teatro Farnese di Parma.
Non è un caso, quindi, che proprio Guitti fosse chiamato per il Carnevale successivo ad allestire in quella stessa sala l’Erminia sul Giordano –
libretto, al solito, di Giulio Rospigliosi, scene di Andrea Camassei, musica di Michelangelo Rossi.60 Per la prima volta Roma godette della meraviglia delle quinte a scomparsa.61 La lettera introduttiva della partitura a
stampa pubblicata nel 1637 si sofferma proprio sui
piacevoli inganni delle macchine e delle volubili scene che impercettibilmente fecero
apparire, ora annichilarsi un gran rupe e comparirne una grotta e un fiume dal quale si
vede sorger prima il Giordano e poi le Naiadi; ora venirsene Amore a volo et appresso
nascondersi fra le nuvole; ora per i sentieri dell’aria in un carro tirato da draghi portarsi
Armida et in un baleno sparire; ora cangiarsi l’ordinaria scena in campo di guerra, le
selve in padiglioni e le prospettive del teatro in muraglie dell’assediata Gerusalemme;
ora da non so qual voragine di Averno far sortita piacevolmente orribile i demonii in
compagnia di furie, le quali insieme danzando et assise poscia in carri infernali per
l’aria se ne sparissero …
Certo tanto impegno scenotecnico, testimoniato dalle riproduzioni di cinque mutazioni incise da François Collignon e inserite nella partitura,62
obbliga a supporre un teatro pur provvisorio ma nient’affatto improvvisato. La stanza era piuttosto ampia e – ovunque fosse sistemato il palco –
poteva godere di uscite posteriori e laterali. Spazio pertanto più che degno
ma non immenso. Eppure le scene mostrano da due a quattro paia di quinte,
oltre al fondale e alla macchina per nuvole e amorini. Venezia, i cui teatri
erano privi di sottopalco (per motivi ‘lagunari’), aveva insegnato a usare la
538. Carlo Santarelli, Sala dei
marmi di Palazzo Barberini
(1867), olio su tela, Roma,
Museo di Roma.
59. Per un approfondimento
anche bibliografico sulla rappresentazione v. Hammond
1994, p. 202 e segg.; da integrare con Tamburini 1997, p.
240 nota 175.
60. Hammond 1994, p. 205 segg.
61. Bjurström 1961, p. 27.
Rossi 1637, «Lo stampatore a
chi legge».
62. Le cinque scene e frontespizio compaiono anche in
d’Afflitto–Romei 2000,
pp. 21, 43-45.
32
davide daolmi
parte superiore della scena per collocare carrucole e tiranti, e si comprende quanto il soffitto a volta sia stato qui sfruttato alla scopo.
63. Pubblicate in Landi 1634;
le incisioni sono riprodotte
anche in D’Afflitto–Romei
2000, pp. 38-41, con la curiosa didascalia: «Prospettive delle sciene della famossissima
rappresentazione di S. Alessio
fatta dall’E.mo Sig. Card. Barberino nel Palazzo della Cancelleria in Roma»; non ho idea
dove si tragga la frase (né è
detto nel volume) ma soprattuto non so che c’entri la
Cancelleria quando le altre
fonti note in nessun caso collocano il Sant’Alessio in quel
palazzo.
539a-b. Le ipotesi d’ingombro della sala sulla base delle
incisioni delle scene di Erminia e Sant’Alessio. L’impressione, sulla base della dimensione dei personaggi è che nel
secondo caso sia stato ammpliato decisamente il boccascena.
A fidarmi delle incisioni del ’37 potrei dire, sulla scorta delle dimensioni
dei personaggi raffigurati e dello spazio della della sala, che il boccascena
poteva misurare circa 8 metri per 5 e mezzo lasciando due-tre metri ai lati
e, con un palco non troppo elevato (non oltre un metro), due metri in alto,
più la volta. Siamo veramente al limite per contenere eventuali macchine
sceniche: eppure, a quanto pare, l’opera fu rappresentata con successo, e il
Carnevale seguente adottò una soluzione scenica addirittura più ardita.
Nel 1634 – l’anno della «Giostra del Saracino» di piazza Navona – fu infatti
riproposto il Sant’Alessio, ma questa volta con cambi di scena a vista, come
erano stati sperimentati per l’Erminia. Se ne pubblicò la partitura quell’anno stesso con ben otto incisioni sempre di Collignon.63 Questa volta il
rapporto fra la prospettiva e i personaggi fa supporre un netto ingrandimento del boccascena ma, elemento singolare, la proporzione del boccascena, presente nell’incisione, coincide perfettamente con le dimensioni
del salone precedentemente calcolate: ovvero di 8 metri e mezzo di altezza
e 13 metri di larghezza (parete corta). Supponendo che l’arco scenico aderisse ai muri, si viene a confermare l’allargamento del boccascena.
Non ho difficoltà ad ammettere che si tratta di correlazioni forse del
tutto artificiali, potendo le immagini non essere così fedeli. L’arcoscenico in effetti – inciso su calco separato perché non fosse ridisegnato ogni
volta – potrebbe essere una semplice cornice decorativa, diversa dalla
disposizione praticata. D’altra parte le proporzioni fanno supporre una
certa attenzione alla verosimiglianza. Ma allora, se l’incisione riproponesse fedelmente l’impianto teatrale originale si deve ammettere un duplice artificio scenotecnico: lo stupore offerto al pubblico e la soluzione
meccanica capace di operare in uno spazio tanto angusto. A malapena
sembra infatti ci sia modo di muovere le quinte ma, soprattutto, è la
discesa della nuvola con trionfo di angeli musicanti dell’ultima scena che
– apparentemente irrealizzabile – lascia senza parole. Apparenza, questa
della nuvola, tipica del teatro barocco, che in questa circostanza – una
sala di palazzo priva di torre e graticciata – obbliga ad artifici meccanici
infinitamente più ingegnosi.
capitolo i. Luoghi
33
340. Scena finale del Sant’Alessio (non riprodotta nell’anastatica di Forni), in cui
cala la nuvola con angeli musicanti che tanto impressionò i cronisti.
A meno che non si sia fatto un buco nel soffitto, per far scendere tanto
apparato bisogna infatti ammettere che la nuvola sia composta di due
parti con un elemento che cala fra il secondo e il terzo paio di case e
l’altro fra queste ultime e il fondo. In tal modo non solo si dimezza l’altezza complessiva della macchina ma, completamente alzata, la si confonde con i teli di cielo.
Credo poi che il meccanismo a quinte mobili non fosse ancora quello
«torelliano», dove il rientro di un telaio provocava l’uscita dell’altro, permettendo quindi un continuo e sempre vario cambio di scene. Qui l’impianto della città, ancora di reminiscenza serliana, è probabilmente fisso
e quasi certamente tridimensionale.
641. La probabile organizza-
zione scenica del Sant’Alessio: tre paia di elementi fissi
per la città, altrettante quinte piatte e mobili riproducenti il giardino (e, in altra occasione, la grotta d’Averno), i
due piani di fondo (viola e
giallo) e la macchina della
nuvola distribuita su due livelli (rosso e blu).
34
davide daolmi
Non si spiegherebbe altrimenti perché ad ogni quinta debba corrispondere una casa separata, obbligando a improbabili strade traverse, e non
venga realizzato l’inganno prospettico dell’edificio continuo. Fra un elemento fisso e l’altro della città passavano probabilmente le quinte piatte
a forma di roccia o di albero che, sovrapponenedosi alle case mutavano
completamente scena. Si tratta di un procedimento ancora ibrido, di scena
solo parzialmente a scomparsa – dove a una scena fissa tridimensionale,
se ne alterna una sempre mutevole su quinte piatte – che condizionerà
anche l’impianto drammaturgico di Armi e amori, tanto da indurmi a pensare che la tecnica scenografica romana degli anni Cinquanta non si fosse
tenuta aggiornata rispetto alla pratica ormai in uso nell’Italia del Nord.
64. Murata 1975 [1981], p. 2831, 253-257; Hammond 1994,
pp. 224-226. Sul riciclaggio
delle scene v. Povoledo 1998.
„ Il
nuovo teatro
65. Murata 1975 [1981], p. 3234, 258-262; Hammond 1994,
pp. 226-227 e ad indicem.
66. Vedasi qui Marazzoliana
p. 208.
67. Lettera di Giulio Ropigliosi (Roma) al fratello Camillo
(Pistoia) del 1° gennaio 1638
(I-Rvat, Vat. lat. 13363, c. 1) cit.
in Murata 1981, p. 290.
In occasione del Carnevale del 1635 la sala delle Quattro Fontane accolse
I santi Didimo e Teodora di Rospigliosi. L’allestimento, a quanto riferiscono i dispacci romani, non fu meno impegnativo dei precedenti, ma
non sopravvivono le incisioni delle scene che certamente riprendevano
l’apparato e le macchine già usate in Erminia e Alessio.64 La musica, forse
di Stefano Landi o Virgilio Mazzocchi, è perduta. Ormai il «dramma in
musica» dei Barberini era il vero momento clou del Carnevale romano e
si rese evidente quanto era scomodo allestire uno spettacolo tanto complesso all’interno di una sala di rappresentanza.
Francesco, Antonio e Taddeo Barberini pensarono così di erigere un teatro che permettesse di svolgere anche una funzione propagandistica,
estendendo il prestigio familiare non solo ai nobili invitati ma anche a
un più vasto pubblico di borghesi, artigiani e curiosi. Lo spazio scelto fu
il giardino a nord, separato dal bel muro disegnato da Cortona (431). Il
costruirvi lì una palazzina avrebbe inoltre occultato i «grottoni» romani
sottostanti al vecchio Palazzo Sforza (435) che facevano forse ‘vestigia
antiche’ ma che ormai a fianco del nuovo modernissimo Palazzo Barberini rischiavano di sfigurare.
L’edificazione del teatro durò circa tre anni. Durante i Carnevali che precedettero l’inaugurazione fu sempre il salone interno ad accogliere gli spettacoli più impegnativi. Nel ’36 furono replicati I santi Didimo e Teodora;
mentre nel ’37 si vide uno spettacolo del tutto nuovo, L’Egisto. Immancabilmente su libretto di Rospigliosi, ebbe la musica di Domenico Mazzocchi – l’autore della Catena d’Adone rappresentata a Parma nel ’26 – e Marco Marazzoli, musico dei Barberini già dalla fine degli anni Venti.65
Nell’anno successivo, il 1638, la solita sala del palazzo accoglie a quanto
pare un solo ballo pantomimico, La pazzia d’Orlando, su soggetto sempre di Rospigliosi e musica, forse, di Marazzoli.66 La nuova opera di Rospigliosi, Il san Bonifacio, va in scena invece al palazzo della Cancelleria,
ma «sarà cosa ordinaria senza nessuna mutazione di scena o apparenza».67 Forse le spese per il nuovo teatro quasi completato obbligano a
ristrettezze; di altri motivi non è dato sapere.
Per il carnevale del 1639 il teatro è pronto. Possiamo ipotizzarne una visione prospettica dell’esterno, secondo quanto osservato nelle pagine precedenti, assai diversa da come ce lo raffigurerà Specchi alla fine del secolo (423b). Ma se come pare di capire, il perimetro dell’edificio teatrale
capitolo i. Luoghi
35
rimaneva confinato nella zona corrispondente al giardino si deve supporre che le successive alterazioni architettoniche non furono legate a
esigenze dello spazio teatrale. Se ne può ipotizzare pianta e alzato.
342. Ipotesi di pianta originaria del Teatro Barberini (mia
ricostruzione). Che la platea
fosse sul modello del Teatro
Farnese è solo una supposizione, ma sembra improbabile che adottasse eventuali
soluzioni più complesse (ad
esempio palchetti o ballatoi)
essendo, almeno fino al 1642,
una struttura provvisoria
presente solo nel tempo del
Carnevale.
In questa prima fase, come detto, l’allestimento di scena e platea è ancora provvisorio, dismettendosi probabilmente a fine Carnevale e destinando lo stanzone ad altri scopi. Ma certamente gli allestimenti qui collocati saranno stati più spettacolari di quanto non avessero fatto precedentemente gli stessi Barberini.
Il teatro fu inaugurato con una ripresa dell’Egisto ovvero Chi soffre speri.
Allestimento celeberrimo e studiatissimo,68 ricordato soprattutto per La
fiera di Farfa, l’intermezzo composto da Marazzoli che riproduceva, con
animali veri in scena, il trambusto di un mercato il giorno di festa: idea di
Bernini (unico caso fra tutti gli allestimenti barberiniani in cui il suo nome
compaia esplicitamente nei conti di spesa).69 Si intuisce subito come il
nuovo spazio abbia stimolato ad apparizioni particolarmente spettacolari.
Purtroppo non si hanno immagini dello spettacolo, né del nuovo teatro.
L’unica raffigurazione dell’interno del teatro è quella della Vita umana
di 17 anni dopo; troppo lontano per un teatro che veniva rifatto ogni
anno, che ebbe forma definitiva solo nel 1642 e fu di nuovo restaurato
nel 1654, dopo quasi dieci anni di inattività. Eppure un particolare po-
68. Oltre Murata e Hammond segnalati precedentemente (e relativa bibliografia) v. soprattutto Bianconi–
Walker 1985.
69. Hammond 1994, p. 237; v.
inoltre Tamburini 1997, p.
245 nota 192.
36
70. Bianconi–Walker 1985
[1993, p. 224].
davide daolmi
trebbe indicare una continuità: le quattro colonne di proscenio della
Vita umana (1656) sono pressoché identiche a quelle del Sant’Alessio
(1634). Una nota di spesa dell’Egisto precisa che si recuperarono le quattro colonne usate l’anno prima nel Palazzo della Cancelleria, ovvero
dove si era allestito il Bonifacio.70
443a-b. Confronto fra i capitelli delle colonne di proscenio raffigurate nelle incisioni per il Sant’Alessio (1634,
Sala dei marmi) e per la Vita
umana (1656, Teatro Barberini).
Che siano sempre le stesse quattro colonne che, di volta in volta restaurate e magari ridipinte, continuarono a ricomparire per quasi un quarto
di secolo (1634-1656)? È un elemento interessante che potrà servirci poi.
71. Bianconi–Walker 1985
[1993, p. 224].
72. Cit. in Tamburini 1997, p.
242 nota 180.
Sappiamo inoltre che furono realizzate guide per le scene mobili sia sopra che sotto il palco;71 e che tali scene erano «grandi doi terzi più degli
altri anni».72 Informazione che trova piena conferma nel confronto fra le
dimensioni della sala interna al palazzo e quelle del nuovo teatro, più
alto esattamente di due terzi (senza contare il tetto).
444. Sezione della Sala dei
marmi (lato corto, parallelo
all’arcoscenico) a confronto
con il Teatro Barberini: lo
spazio della scena aumenta in
altezza di due terzi rispetto
alla sala più piccola (rapporto di 3 a 5).
73. Tamburini 1997, p. 243.
74. Cit in Ademollo 1888, p. 30.
Si sa inoltre che l’orchestra era disposta ai piedi del palco separata da
una struttura in ferro battuto e che il sipario veniva sollevato.73 Non moltissimo in verità per farci un’idea più precisa dell’interno. E soprattutto
nulla si sa sulla disposizione del pubblico. Nel noto dispaccio di Montecuccoli si accenna alla difficoltà di sistemare la gran quantità di persone
accorse e si precisa che il cardinale Antonio Barberini aveva chiesto al
residente estense di attendere in un cortiletto fin tanto che fosse stata
sistemata «la gente di minor conto per poter poi dare luogo migliore a
me e a chi era meco».74 Da questa affermazione non sembra potersi riconoscere spazi differenziati per nobili e borghesi. Inoltre la precisazione
sempre di Montecuccoli che Francesco Barberini «andando banco per
banco con modi umanissimi e di somma cortesia, fece per quanto possibile stringer ognuno» mi fa credere una volta di più che il pubblico fosse
sistemato su semplici gradoni («banchi»), forse a ferro di cavallo, sul
modello del Teatro Farnese. Ciò non esclude la possibilità che vi fosse
capitolo i. Luoghi
37
anche un limitato numero di palchetti destinato forse alle dame o ai nobili di maggior rango, tuttavia tale soluzione ibrida, senz’altro adottata
nella sistemazione del 1642 (v. oltre), sembra troppo complessa per un
teatro da smontare a fine Carnevale.
Quello stesso Carnevale il nuovo teatro ospitò anche una ripresa del San
Bonifacio.75 Poi più nulla. Non ci sono notizie circa gli allestimenti del
Teatro Barberini per il Carnevale 1640 e per l’anno successivo ci si deve
accontentare della laconica nota del residente veneto che accenna a «commedie et rappresentazioni ben sontuose reiterate più d’una volta in casa
de’ Cardinali Barberino e Antonio con musiche di concerto di voci oltre
l’ordinario …».76 Non è realmente certo che ci si riferisca a opere vere e
proprie, e stupisce in effetti come, inaugurato il nuovo teatro, i drammi
barberiniani di cui Roma parla vengano rappresentate altrove.
È possibile forse che, in una drammaturgia tutta barocca della propria
immagine, i Barberini abbiano voluto porre un tempo d’attesa prima
dell’anno 1642; non è da escludere però che l’assunzione della direzione
della famiglia da parte di Antonio Barberini possa aver avuto gioco nell’enfasi celebrativa dell’occasione, data in cui forse si segna la conclusione ufficiale dei lavori del Palazzo alle
Quattro Fontane. Quest’anno Girolamo Teti pubblica infatti le Aedes
Barberinae, dedicate a Mazzarino,
dove il panegirico alla famiglia del
papa è filtrato dalla celebrazione del
nuovo palazzo. Il frontespizio che riproduce la residenza completata
mostra, a lato, anche il nuovo teatro
da poco realizzato. Si tratta a mia conoscenza della raffigurazione più
antica del teatro.
Ma c’è dell’altro. Come già aveva rilevato Pietrangeli (poi reso noto da
Tamburini), il Teatro Barberini fu
completamente ristrutturato proprio
in occasione del Carnevale del 1642, venendo ad accogliere un impianto
architettonico finalmente stabile e destinato esclusivamente alle rappresentazioni.77 Il teatro sembra così assumere un suo specifico ruolo politico, non solo come sede mediatica ma anche come struttura architettonica capace, nel decoro e nella magnificenza, di essere di per sé emblema di
potenza. L’opera con cui s’inaugura la rinnovata sede s’intitola, non ce
ne stupiamo, Il palazzo d’Atlante, riferimento chiaramente destinato a
usare l’edilizia come specchio della monumentale grandezza del suo proprietario. Non bisogna farsi ingannare dai significati che propone l’Allegoria et argomento pubblicato per l’occasione:78 qui si spiega come il palazzo altro non sia che la vanità di ciò che si desidera («una immagine
della vita umana») ovvero il piacere procurato dai beni materiali; mentre
il mago Atlante è il mondo personificato, artefice e creatore di questi
beni-apparenza. Questo significa che in Atlante/Barberini si dovrebbe
75. Hammond 1994, p. 234235.
76. Cit. in Hammond 1994, p.
241 e nota 127.
345. Antiporta figurata delle
Aedes Barberinae (Teti 1642).
In alto il particolare del Teatro Barberini individuato dal
rettangolo.
77. Tamburini 1997, pp. 243244.
78. Rospigliosi 1642 (pubblicato con la data erronea 1662;
cfr. Franchi 1988, pp. 96-97).
38
davide daolmi
forse riconosce l’Ercole-demiurgo che erige altari (o palazzi del piacere)
alla gloria di se stesso? Se il soggetto sembra incensare il committente, la
metafora ne svela la vanità dell’azione: strana allegoria davvero. Autore
del libretto e della spiegazione del soggetto è, come sempre, Giulio Rospigliosi che, attraverso questo gioco di significati contrastanti, rivela tutta
la sua abilità diplomatica nel riuscire a far prevalere, pur con qualche
sofisma, una severa rettitudine morale anche in occasione delle più esplicite manifestazioni di omaggio cortigiano.
79. Hammond 1994, pp. 243253; v. anche Murata 1981,
pp. 42-44, 301-306.
80. Tamburini 1997, pp. 244
nota 191.
La musica dello spettacolo che durò più di sette ore fu di Luigi Rossi, la cui
raffinatezza melodica può forse aver compromesso la tenuta drammatica
lamentata da qualche spettatore.79 Il bilancio conclusivo fu però un successo, malgrado i numerosi problemi che precedettero l’allestimento legati
ai malori di Rossi e a certa inesperienza dello scenografo Andrea Sacchi.80
La forma assunta dal teatro a questa altezza cronologica è, seppur completamente rinnovata, con tutta probabilità molto vicina a quella provvisoria del ’39 ma quasi nulla si sa di preciso. Rospigliosi dice il teatro
capace di 3500 persone, cifra sorprendente se si pensa che oggi la Scala
non accoglie più di 2500 persone (e gode di una platea profonda 20 metri, 4 ordini di palchi e due gallerie). Se tuttavia forse tal numero appare
eccessivo, certo non dubito che ogni spazio fosse sfruttato al suo meglio:
gradoni a ferro di cavallo tutt’attorno, panche parallele in platea (improbabile vi fosse gente in piedi visto la durata degli spettacoli), gallerie
e palchetti addossati ai muri senza divisori.
Anche in questo caso, come dopo l’inaugurazione del ’39, per gli anni
successivi non ci sono notizie di presunti altri allestimenti nel teatro.
Improbabile però che dopo tanto sforzo lo spazio fosse lasciato chiuso,
credo invece che il suo utilizzo più o meno sistematico, accompagnato
da allestimenti di non particolare preminenza – balli, commedie, accademie, cantate – abbia indotto i cronisti a trascurare il luogo e gli spettacoli. Almeno per i primi due anni.
81. Chiomenti Vassalli
1979, cap. xx.
82. Murata 1975 [1981], pp. 52
e segg., 348-351; Ciliberti
1986, pp. 263-330.
Dopo la morte di Urbano viii (1644) e la caduta in disgrazia con fuga a
Parigi dei Barberini, non solo il teatro, ma il palazzo stesso fu chiuso e
lasciato alla cura di pochi camerieri. La crisi della famiglia si protrasse
fino al 1653 quando il famoso matrimonio di Maffeo e Olimpia sancì la
riconciliazione. Ma le vere feste di nozze si ebbero solo con il Carnevale
successivo, perché la dodicenne giovane sposa, maritata a forza dalla famiglia, s’era rinchiusa nelle sue stanze di Piazza Navona e – sembra riconoscersi il piglio caparbio della nonna Maidalchini – s’era rifiutata per
oltre sei mesi di mettere piede alle Quattro Fontane.81
Il Carnevale del ’54 vide a Palazzo Barberini banchetti e balli, una giostra
in cui trionfava il ventenne Maffeo sul Carro del Sole e, nel teatro per
l’occasione liberato da nove anni di polvere, una commedia di Pompeo
Colonna con intermedi in musica e l’opera Dal male il bene (ancora un
titolo emblematico).82 Per i capricci di Olimpia fu il Carnevale la vera
festa di nozze e si spiega così perché Allacci leghi Dal male al bene al
matrimonio principesco, facendo cadere in errore chi ha voluto anticipare la prima dell’opera al 1653.
capitolo i. Luoghi
Come già accennato il Carnevale del ’55 passò sotto silenzio a seguito del
conclave e il 1656 segna la data ultima della vita del teatro, almeno di quella
documentata. Dopo il «Carnevale della regina» sembra che il teatro abbia
chiuso i battenti. Sarà stato proprio così? Forse, come per i ‘buchi’ degli
anni precedenti, le rappresentazioni ivi allestite saranno parse troppo ordinarie per meritar menzione. Certo è che con gli anni Sessanta del secolo
il prestigio teatrale romano, a parte le occasionali esuberanze di Cristina, si
rivolge decisamente alle iniziative di Lorenzo Onofrio Colonna.83
39
83. Tamburini 1997.
Tuttavia la partitura a stampa della Vita umana offre alcuni incisioni
della scena e una di queste propone l’arco scenico con il sipario calato. La
villa raffigurata sul telo sembra voler essere un omaggio alla celebre villa
di Caprarola costruita dal Vignola per il duca di Parma: chissà, forse si
può azzardare che si volesse suggerire un riferimento a Palazzo Farnese,
residenza romana della regina Cristina, anch’essa proprietà del duca.
346. La prima delle cinque
incisioni che ornano la partitura della Vita umana (Marazzoli 1658); disegno di
Giovanni Francesco Grimaldi, incisione di Giovanni Battista Galestruzzi.
647. Un foto della villa di Ca-
prarola del duca di Parma;
progetto di Giacomo Vignola (1507-1573).
L’altro aspetto interessante è la notizia di fontanelle e giochi d’acqua che
ornavano il proscenio del 1639, gli stessi, apparentemente, che ricompaiono nell’incisione della Vita umana.84 Se è quindi vero che il teatro ebbe
numerosi rifacimenti, è ragionevole supporre – anche in considerazione
del probabile riutilizzo delle colonne – che questi non siano stati così
radicali e che la fisionomia della scena proposta dall’incisione del 1656
non debba essere molto diversa dalla prima impostazione del teatro.
Altre osservazioni si possono fare sulle dimensioni. Se anche in questo
caso la struttura venisse a coincidere con le pareti com’era per il Sant’Alessio dovremmo ammettere un boccascena enorme, e un limitatissimo spazio per le macchine. Se invece si supponesse un boccascena più
piccolo (proporzionato cioè alle colonne) non solo vi sarebbe l’altezza
necessaria sopra la scena (nell’incisione si nota chiaramente il proseguimento del muro sopra l’arco scenico), ma anche sufficiente spazio ai lati
84. Tamburini 1997, p. 243.
40
85. «Sarà cosa molto buona,
quando si possa e si abbia
comodo, fare le dette entrate
e scale con li corridori che
portano sopra ai gradi o palchetti per di fuori del recinto
del teatro, cioè de’ muri di
quello … così l’auditorio non
resterà impedito d’udire li recitanti dal rumore che possa
far la gente nel camminare»,
dall’ed. mod. di Craig 1972,
p. 6.
davide daolmi
della scena che renderebbe più agevole la disposizione di scalinate e palchetti laterali e offrirebbe eventualmente la possibilità di un’intercapedine muraria percorribile per raggiungere i propri posti ai ballatoi o palchetti laterali, di cui Carini Motta, nel suo trattato sulla costruzione dei
teatri, sottolineerà l’importanza.85
448. L’arcoscenico della Sala
dei marmi rapportato a quello del Teatro Barberini supponendo le colonne di proscenio quale elemento di continuità.
Si tratta evidentemente di ipotesi che avrebbero bisogno di ulteriori conferme, ma anche un’ipotesi può essere utile a dare identità a un importante teatro la cui scarsa fortuna storiografica in gran parte è legata alla
mancanza di fonti, anche visive.
Alla fine del secolo l’incisione di Specchi (427) indica ancora l’edificio
come «teatro da comedia» ma è possibile che quello fosse solo l’uso solito di chiamare il casolare, ormai svincolato dal reale utilizzo. Qui, in ogni
caso, si nota chiaramente come lo spazio retrostante il palco sia stato
buttato giù, conservando solo la porzione del porticato, nuovamente ribassata, a cui sembra addossarsi una piccola tettoia spiovente.
86. Blunt 1958, p. 282.
Della destinazione settecentesca dell’edificio non si sa nulla. L’ipotesi che
fosse adibito a scuderia rimane tale, perché il contratto di Thorvaldsen,
che parla di un «locale che ha sempre servito ad uso di scuderia» non
può riferirsi all’ex teatro (e l’aggettivo «sempre» ne è ulteriore conferma). Ma prima o poi in quei locali i cavalli furono certamente sistemati.
È probabile che la creazione dei due livelli, di cui parlava il Barbarini, sia
stata contemporanea alla trasformazione in scuderia del pian terreno,
collocando il granaio nel vano superiore (detto infatti «granarone» ancora nel Novecento). Nel 1910 fu aggiunto un ulteriore piano ribassato,
quasi un sottotetto che è mantenuto nel rifacimento odierno.86 Il Barberini c’informa che dal 1913 il locale divenne la rimessa per le auto di famiglia. La foto di quegli anni (422) mostra come a destra del portale cortoniano fosse stato aperto un ulteriore ingresso, forse per agevolare il movimento di più automobili. L’edificio attuale, a parte la destinazione bancaria, sembrerebbe forse richiamare i fasti di un vecchio teatrino, magari
del secolo scorso, magari d’avanspettacolo, peccato che a ricordarlo sia
solo la nuova fronte di via Barberini (con tanto d’insegne nobiliari) che
giammai appartenne al vecchio teatro.
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