capitolo i Luoghi 2 davide daolmi capitolo i. Luoghi 3 capitolo i Luoghi V orrei cominciare con l’individuazione di uno spazio. Una superficie che abbia una sua identità fisica. Per esempio il cortile, forse illuminato a festa, di una prestigiosa casa romana di metà Seicento. È un vincolo da cui non riesco a sottrarmi quello di ricostruire il passato sulla base dei luoghi che lo caratterizzano. Più ancora del tempo, ho bisogno di conoscere lo spazio, di vederlo soprattutto. Credo che questa sorta di topofilia storica e il mio spontaneo interesse per il teatro abbiano qualcosa in comune. Ne ho avuto sentore sfogliando le pagine, per molti versi illuminanti, dell’Idea del teatro di Giulio Camillo (1480-1544) pubblicata postuma nel 1550.1 Camillo, detto anche «il Delminio», fu un curioso personaggio del primo Cinquecento, retore e alchimista; pare che sia persino riuscito a realizzare l’edificio descritto nella sua Idea con i soldi del re Francesco i di Francia. Si trattava di un teatro su modello vitruviano che disponeva al posto del pubblico il sapere universale e l’ipotetico osservatore nell’orchestra. Questa volontà di creare una ‘mappa’ tridimensionale dello scibile muoveva, come noto, dalla teoria classica dell’«arte della memoria», sistema che attribuisce un locus ad ogni singolo elemento da tenere a mente. L’Idea di Camillo ebbe straordinaria fortuna; sucitò l’interesse fra gli altri di Erasmo, Bruno e Keplero; il suo principio fu ripensato per esempio negli Utriusque cosmi historia (1617) di Fludd (che sembra però rifarsi più al Globe shakespeariano che a Vitruvio)2 e nel Kircher della Musurgia (1650), dove l’«Arca musarithmica» si propone quasi involontario trait-d’union in chiave musicale fra il «teatro» camilliano e il moderno computer.3 L’elemento interessante proposto da Camillo non è tanto l’idea – tutta barocca – di teatro come luogo di conoscenza, quanto invece il progetto di sistematizzazione del sapere, nonché il ribaltamento dei ruoli canonici fra scena e platea. L’uno, il progetto, lega indissolubilmente il sincretismo culturale di antico regime alla rappresentazione; l’altro, il ribaltamento, secondo un ideale feedback investigativo, ripropone sotto diversa luce il principio calderoniano del «teatro del mondo». Basterebbe vederlo il «teatro» di Giulio Camillo per cogliere con più sicurezza il senso di quanto dico – quasi una metadimostrazione. Purtroppo, se mai fu costruito, pare che tanto prodigioso edificio andasse bruciato da un fulmine. Ne abbiamo solo alcune ricostruzioni moderne, anche suggestive, che ce lo propongono non molto dissimile dall’Olimpico di Vicenza. Premessa 1. Camillo 1550 (v. in Bibliografia per le edizioni moderne di questo testo). Studi su Camillo e il suo «teatro» sono quelli di Yates 1966 e 1969, Wenneker 1970, Bolzoni 1984 e Turello 1993. 2. Su Robert Fludd (15741637) lo studio più recente (a parte ristampe e opere divulgative) è ancora quello di Huffman 1988; sulle sue speculazioni musicali v. la bibliografia riportata in Ashbee 2001; circa i rapporti con il Globe è lo studio di Svizzeretto 1986. 3. Su Kircher la bibliografia è tanto vasta quanto generica; sebbene la sua Musurgia (Kircher 1650) abbia goduto di un’anastatica dell’editore Olms, l’ultimo studio importante su Kircher e la musica è quello di Scharlau 1969; l’«arca» non ha subìto miglior sorte, seppur Chierotti 1994 ha cominciato a spiegarne la funzione; oltre alla raffigurazione proposta dalla Musurgia (tomo ii, cap. viii, tav. f.t. apud p. 185) conosco solo la riproduzione fotografica proposta in James 1993, p. 163, di un modello d’epoca dell’«arca» conservato alla Pepysian Library (GB-Cmc), benché Chierotti 1994, nota 30, dica che «l’unico esemplare ancora esistente di arca è conservato presso la August Bibliothek a Wolfenbüttel» (D-W). 4 davide daolmi 41. Tre possibili ricostruzioni del «teatro» di Giulio Camillo. A fianco [a ] l’ipotesi pubblicata in Wenneker 1970, sotto a destra [b ] lo schema di Yates 1966 e a sinistra [c ] il modellino proposto da Lina Bolzoni nel documentario Rai Il teatro della memoria (1990). a b c 4. Non deve stupire che tanti libri di questi anni, destinati a trattazioni d’ampio respiro, esordiscano nella titolazione con Scena di… Teatro di… 5. Tacerò del significato alchemico di tale organizzazione perché questa digressione d’esordio rischia di esse anche troppo estesa, ma si veda al proposito la bibliografia citata a nota 1 e soprattutto Wenneker 1970. Ecco, ora tutto prende forma: il sapere distribuito su sette livelli, dal più semplice, in basso, verso il più complesso; i livelli divisi a loro volta in sette spicchi; e immagini – prima che parole – a identificare i settori. L’erudito dell’epoca non aveva bisogno di Saussure e dello strutturalismo per diffidare del linguaggio come strumento di conoscenza. Elaborava spontaneamente il pensiero in modo rappresentativo. E cosa meglio di un teatro poteva offrire l’organizzazione di quelle immagini? Certo, come la scena non esclude la parola (epperò la trasforma in narrazione), così Camillo non nega del tutto la razionalità del testo. Non però per esplicitare il sistema, ma solo per descrivere principi circoscritti (quelli distribuiti in ognuna delle 49 porzioni del «teatro»): un codice, qual è il linguaggio, non può pretendere di più. Per i grandi, i massimi sistemi, è necessaria la rappresentazione: la verità non si dice, si percepisce.4 Ma Camillo compie un’operazione anche più straordinaria: ribalta la prospettiva di conoscenza. L’apprendimento non avviene nel guardare il palco ma le gradinate. Si riconoscono due spazi distinti nel teatro: la scena, che offre un sapere in divenire, e la platea, che non muta nel tempo ma solo nello spazio – gli stessi diversi livelli corrispondono a diverse classi sociali. Si ribalta la prospettiva perché da un sapere cinetico (la narrazione della scena) se ne ricerca uno statico (lo spazio gerarchico della conoscenza). In questa reciprocità ribaltata dei due luoghi teatrali, palco e platea – prima parlavo di feedback – si riesce meglio a comprendere il senso di microcosmo che l’uomo barocco ritrova nella rappresentazione.5 capitolo i. Luoghi 5 Entrambi i principi – la spontaneità sincretica del teatro e la sua disposizione a proporsi come «teatro del mondo» – sono la chiave di lettura della cultura seicentesca e sembrano giustificare la metodologia d’approccio che tento di perseguire: ovvero un’indagine che ama disporre, almeno idealmente, le informazioni in modo ‘rappresentativo’, come in un quadro o in una scena teatrale, che assai diffida della scrittura quale strumento investigativo: ormai baluardo di una cultura, quella attuale, che ha sostituito al colpo d’occhio la giustapposizione, al sapere unitamente esteso la specializzazione ottusa, al teatro l’enciclopedia. Ecco allora che, con la scusa di giustificare un mio maniacale attaccamento ai luoghi, agli spazi fisici, e insomma nel tentativo di spiegare perché ho deciso di cominciare questo studio da un cortile illuminato a festa (di cui peraltro non ho ancora detto), spero di aver innestato il germe di un’idea – l’«idea del teatro» appunto – che cominci a riconoscere nello spettacolo barocco, e specialmente nello spettacolo operistico, non una manifestazione qualunque ma un momento chiave della cultura seicentesca, un teatro capace di sopportare piani di lettura complessi, assai più mistico-conoscitivi di quanto la nostra concezione dello svago non farebbe ammettere. Su questo però ci sarà modo di tornare.6 6. Sul valore allegorico e politico dello spazio teatrale barocco si concentrano i numerosi contributi della seconda parte del recente Alonge– Bonino 2000; con specifico riferimento a Roma e all’immaginario visivo dello spettacolo sono utili le pagine introduttive di Fagiolo dell’Arco 1997, nonchè i contributi nel capitolo dedicato al Seicento in Fagiolo 1997, i, pp. 67-109. V L’occasione ediamolo allora questo cortile illuminato a festa, questo luogo della memoria da cui vorrei partire. Siamo fortunati: se anche lo spazio è stato oggi modificato, sopravvivono tuttora gli elementi caratteristici, ma soprattutto si conoscono le riproduzioni di alcune incisioni d’epoca e uno straordinario quadro a olio di Gagliardi e Lauri. Eccolo: Avrei potuto spendere mille parole per tentare di far appassionare il lettore ad una semisconosciuta opera romana di metà Seicento, ma mi è 62. Filippo Gagliardi e Filip- po Lauri, Giostra dei caroselli (1656), olio su tela, 340 × 280, Roma, Museo di Roma (Palazzo Braschi). 6 davide daolmi bastata un’immagine come questa per muoverne la curiosità. All’opera ci arriverò, nessun timore, ma prima voglio parlare di questa festa. 7. La descrizione manoscritta del 1656 è in I-Rvat, Barb. lat. 4913, c. 103v, cit. in Hammond 1998, p. 137 nota 10. Sulla Giostra del 1634 v. Hammond 1994, pp. 214-224 e la bibl. ivi segnalata; altra descrizione poco nota è la Fidelissima 1656 (non consultata) 63. Cristina di Svezia prima della conversione e del trasferimento a Roma (incisione in I-Mrsb). La Roma di mezzo Seicento È la sera di lunedì 28 febbraio 1656, anno bisestile, penultimo giorno di Carnevale. Papa Alessandro vii, al secolo Fabio Chigi, s’è insediato da pochi mesi. Non si tratta di una delle tante feste barocche; i quasi otto metri quadri di tela danno testimonianza di quella che fu probabilmente la più impressionante giostra di tutto il Seicento romano. La stessa descrizione manoscritta del carosello – quella offerta agli ospiti d’onore della serata – ammette che bisognava ritornare alla ormai mitica Giostra del Saracino del 1634 perché Roma potesse vantare un’altra festa di tanto splendore; in entrambi i casi l’evento fu reso possibile dai soldi dei Barberini, il cui sontuoso palazzo troneggia sulla destra del dipinto (ne dirò poi).7 La giostra del 28 febbraio, cosiddetta «dei caroselli», fu solo una delle ultime serate di più di un mese di «feste barberiniane» che videro fra le varie iniziative ben tre opere in musica (fra queste L’armi e gli amori), nonché accademie, balli, banchetti. La critica moderna giustifica tanto dispiego di mezzi con la presenza a quel Carnevale della regina Cristina di Svezia, neoconversa al cattolicesimo, e da qualche mese di stanza a Roma. Peccherei però d’ingenuità se m’accontentassi della presenza di un ospite sovrano per spiegare tanto sfarzo. Vale invece la pena capire meglio le tensioni sociali della Roma di quei giorni per dar conto di tanto impegno; anche perché i libri di storia trovano poco interessante occuparsi della politica italiana seicentesca, e soprattutto perché gli studi specifici sul Carnevale del 1656 tanto dettagliano sulle liste di spesa e le enormi somme impiegate, quanto sembrano dimenticarsi dei risvolti politici sottesi. Mi si perdonerà pertanto la parentesi storico-politica che segue: ancora una volta è forza dilazionare gli accadimenti delle feste di quei giorni. S e ci fosse la possibilità di sorvolare il secolo e coglierne l’humus in uno sguardo d’insieme, un dato sugli altri apparirebbe significativo circa le sorti di Roma in un’Italia attanagliata dalla longa manus spagnola: che tale manus stava inesorabilmente perdendo il suo vigore e che soprattutto Roma aveva ormai smesso di essere caput mundi. Il doppio declino non è necessariamente motivato da concause e anzi la crisi spagnola in Italia è legata solo in parte agli affanni del cattolicesimo. È invece indubbio che il crescente peso politico di Parigi continuava a giovarsi di quella situazione. Chiave di volta del passaggio di poteri dal sud al nord dell’Europa fu la guerra dei Trent’anni (1618-1648) che, gran calderone di rivalse protestanti, permise alla cattolica Francia – e alla spregiudicatezza di Richelieu prima e di Mazzarino poi – di avere la meglio sui cattolicissimi Asburgo di Spagna e d’Austria. Uno schemino sinottico, però, prima di continuare, credo possa aiutare a collocare meglio quanto segue (un ulteriore omaggio all’insegnamento di Camillo). capitolo i. Luoghi 7 ‘Carnevale della Regina’ 1656 Pace di Vestfalia 1648 Guerra dei Trent’anni 1630 Pontificati Francia Spagna Svezia n 1640 1650 Pace dei Pirenei 1659 n n 1660 1670 urbano viii innocenzo x alessandro vii clemente ix Maffeo Barberini 6.viii.1623 †23.vii.1644 Gio. Batt. Pamphili 15.ix.1644 †7.i.1655 Fabio Chigi 7.iv.1655 †22.v.1667 Giulio Rospigliosi †9.xii.1669 luigi xiii luigi xiv 1610 †1643 primo ministro: Richelieu 1623 †1643 primo ministro: Mazzarino 1643 †1661 1643 †1715 Luigi xiv sovrano assoluto filippo iv carlo ii 1621 †1665 cristina 1621 1654 34. Quadro sinottico dei principali sovrani seicenteschi. La Pace di Vestfalia segna la fine della Guerra dei Trent’anni, mentre quella dei Pirenei conclude lo strascico delle rivalità fra Spagna e Francia. 1665 †1700 carlo x 1654 †1660 carlo xi 1660 †1697 Il declino romano entrò nella fase di non-ritorno con uno dei pontificati più lunghi e fulgidi del seicento romano, quello di papa Urbano viii (1623-1643), quello cioè che sponsorizzò il meglio della cultura della grande Roma barocca e che sovrintese senza remore alla fortuna dei Barberini nipoti del papa – che tanto fecero per le loro tasche ma anche per il prestigio culturale di Roma e, non da ultimo, per i fasti dell’opera romana.8 L’episodio celeberrimo del processo a Galileo, che si colloca esattamente a metà del pontificato di Urbano viii, diventa un po’ metafora della crisi romana. L’abiura dello scienziato (che ingenuamente redasse il Dialogo credendo nell’appoggio illuminato del papa) fu un gesto soprattutto formale. Ammettere la crisi del sistema Tolemaico, prima che un problema scientifico, era infliggere un nuovo colpo alla cristianità e alla stessa centralità di Roma. Centralità che si stava spostando lontano da Roma. Dove? Ma a Parigi, ovviamente, presso la corte di quel re, pur sempre «cristianissimo», che di lì a qualche anno si sarebbe fatto chiamare, per colmo d’ironia, il Re Sole. Roma stava alla Terra come Parigi stava al Sole di Galileo. Il trend copernicano che aveva preso l’Europa era la vera eresia che il Vaticano sapeva di non poter contrastare. L’errore di Urbano fu quello di credere di poter ridare fasto all’Urbe liberandosi del giogo spagnolo (che non godeva in prospettiva di un futuro proprio luminoso) alleandosi ostentatamente con la Francia. L’appoggio del papa a Parigi non fece che dar lustro alle mire francesi e di converso i gallici intrighi – le alleanze con i protestanti prima e la non interferenza alla pressione turca poi, sempre allo scopo di indebolire gli Asburgo – si trasformarono in fango per la ‘santità’ di Roma che già doveva occuparsi di limitare il malcontento interno suscitato dalle spese folli e dal nepotismo sfrenato di Urbano viii Barberini. Quando sullo scranno di Pietro salì Innocenzo x (1643-1655, Giovanni Battista Pamphili) la crisi era in atto, ma nessuno voleva ammetterlo. Riallacciare i rapporti con Madrid e perseguitare il clan barberino fino ad obbligarlo a trasferirsi in Francia, altro non servì che a dividere ulteriormente la città fra papisti filospagnoli strafottenti e filofrancesi che intrigavano per rifarsi nel prossimo conclave (taccio per semplicità del 8. Uno studio approfondito che penetri il senso della storia italiana di questi anni è ancora da scrivere. Fra i testi di carattere generale di cui mi sono servito sono i recenti Sella 1997 e Prosperi–Viola 2000 (studi peraltro solo parzialmente soddisfacenti); altri testi specifici saranno indicati di volta in volta. 8 davide daolmi 9. Circa gli intrighi che coinvolgevano Roma e il mondo durante i conclavi, più che le storie ufficiali moderne, in genere mutuate da Pastor 1932 (ma un’ottima sintesi è quella di Rendina 1983), val la pena leggere i pamphlet raccolti e pubblicati in quegli anni da Gregorio Leti (se ne veda l’elenco in Barcia 1981). Il rilancio dei Barberini 10. Su Olimpia Maidalchini si veda il bel libro di Chiomenti Vassalli 1979, ottimo anche per ricostruire le trame politiche di quegli anni. 45. Albero genealogico sommario della coppia Maffeo Barberini e Olimpia Pamphili, con i principali membri coinvolti nelle vicende sintetizzate in queste pagine. terzo polo, che verrà detto «squadrone volante», magmatico e imprendibile, tutto votato a una moralità di comodo e all’autarchia italiana).9 Politica, questa dell’alternanza fra fazioni, che obbligava le famiglie romane a godere dei periodi fausti accaparrando ricchezze, sistemando i parenti, erigendo monumenti a perpetua memoria – dato che poco altro sarebbe rimasto con l’insediamento del successore, in genere del partito avverso. Una filosofia del carpe diem così impregnata nella natura romana tanto da potersi ancora riconoscere nell’indolenza della moderna amministrazione italiana. Innocenzo però fu soprattutto una parentesi. Nel ’48 la pace di Vestfalia concluse la guerra dei Trent’anni; la parte del leone l’avevano fatta la Francia, sul versante cattolico, e la Svezia, su quello protestante: si fece persino a meno della ratifica della diplomazia vaticana. Era il segno definitivo della fine di Roma sul piano internazionale; eppure si preferì dare la colpa allo scarso prestigio di Innocenzo che, colmo dell’umiliazione, fu obbligato in seguito da Mazzarino a far ritornare con tante scuse i Barberini. S iamo a uno snodo fondamentale della nostra storia. Il 25 giugno 1653 il più giovane rampollo dei Barberini, il ventenne Maffeo, principe di Palestrina, sposa nientemeno che Olimpia Giustiniani. Olimpia è una Pamphili e oltretutto la nipote prediletta del papa, nonché pupilla della nonna Donna Olimpia Maidalchini, virago spregiudicata e trafficona che spadroneggiava all’ombra del cognato pontefice, tanto da esser soprannominata «la papessa».10 I due giovani diventano di colpo la coppia più alla moda di Roma, crème de la crème dei salotti di potere ma soprattutto oggetto di chiacchiere a non finire: si dice infatti che la piccola Olimpia, dodici anni appena, sia stata forzata al matrimonio per salvaguardare la crisi imminente dei Pamphili che vedevano il vecchio papa con un piede nella tomba. L’intreccio dei due casati è di quelli a cinque stelle: barberini pamphili connestabile Maffeo Carlo Filippo Pamfilo (1568-1644) (1562-1630) colonna OO urbano viii OO (1574-1655) Olimpia innocenzo x Maria Camillo maidalchini Costanza magalotti Giambattista principe Francesco Antonio Taddeo (1597-1679) cardinale (1608-1671) cardinale (1603-1647) Anna Andrea giustiniani OO Olimpia aldobrandini principessa di Rossano Maffeo Olimpia (1631) (1644) Per i Barberini è il primo passo verso un reinserimento in grande stile. Il secondo si darà di lì a un anno con la morte del papa (1655): occasione propizia per far eleggere un loro protetto. Ma il conclave fu più complicato del solito; il gioco di veti incrociati protrasse le discussioni per quattro mesi e intanto Roma si riempiva di libelli e pasquinate su questo o quel pretendente. Mazzarino si era opposto a Fabio Chigi, segretario di Stato di Innocenzo perché poco malleabile (fu lui a rifiutarsi di firmare gli accordi di Vestfalia) ma alla fine – chissà quali compromessi furono capitolo i. Luoghi 9 messi in atto – il veto fu ritirato, Chigi salì al soglio col nome di Alessandro vii e Mazzarino a vantarsi di essere l’artefice di quell’elezione. Il Carnevale del ’55 se l’era bruciato il conclave, e i Barberini non vedevano l’ora di esibirsi in tutto il loro rinnovato fulgore. Il clima era d’incertezza: l’osservatore straniero non capiva da che parte voleva stare Roma. Dimostrare al mondo che i Barberini erano ancora sulla cresta dell’onda significava dire che l’Urbe era tornata francese. Chi spingeva affinché il più francofilo dei clan romani s’imponesse sugli altri era ovviamente Mazzarino che a questo scopo non aveva lesinato in appoggi politici e finanziari.11 A quel punto il compito dei Barberini era di informare il mondo. Il Carnevale del ’56 doveva essere pertanto il ‘carnevale dei Barberini’. Ma una nuova circostanza, più o meno strategicamente pianificata, cadeva a fagiolo per rendere l’evento festivo ancora più straordinario: l’ingresso in città di Cristina di Svezia. Per capire fino a che punto Cristina, il nuovo papa, i Barberini e Mazzarino si servirono gli uni degli altri durante quei festeggiamenti sarà opportuno lasciar da parte i racconti aneddotici sulla bizzarra sovrana (che vanno benissimo finché danno gusto alla vicenda, ma diventano fuorvianti quando obnubilano il senso della dedica di quelle feste); più utile partire dal trasferimento di Cristina a Roma. (Lo so, dilaziono, ma non ho altro modo per far chiarezza.) M orto Gustavo Adolfo (1632), Cristina a sette anni eredita il trono di Svezia, la potenza protestante che meglio uscirà dalla guerra dei Trent’anni, in qualche modo nazione vessillo degli anticattolici. Neanche trentenne, dopo 22 anni di regno, al colmo del suo fulgore politico, Cristina – così si racconta – cade in una crisi mistico-religiosa che l’indurrà a convertirsi al cattolicesimo, abdicare a favore del cugino Carlo Gustavo e trasferirsi definitivamente nella Città Santa. 11. In questa politica si spiega forse il vitalizio concesso a Marazzoli dalla corte francese di cui parla Prunieres 1913, p. 88 (si veda qui Marazzoliana, p. 214 e 218) La regina Cristina Bisogna cominciare a dire che se Svezia e Francia ebbero la meglio dalla pace di Vestafalia è perché né Mazzarino né Cristina si fecero troppi scrupoli – soprattutto religiosi – nel privilegiare la ragion di Stato, accordandosi reciprocamente, malgrado l’incompatibilità di fede, in una serie di patti che spiazzarono gli Asburgo. Fra questi accordi fu programmata anche l’appropriazione del Regno di Napoli che, appendice spagnola turbolenta e facilmente requisibile, avrebbe necessitato di un nuovo re. Al lettore, anche non digiuno della biografia di Cristina, collegare la sua conversione ai patti segreti con Mazzarino, destinati almeno in prima istanza a impadronirsi di Napoli, potrà apparire una novità. Credevo anch’io trattarsi di una mia teoria che, alla luce di troppi indizi mai messi in correlazione, valeva almeno la pena proporre e, magari in forma dubitativa, offrire alla critica dello storico. Ma nell’ultima stesura di questo lavoro mi sono accorto che la storiografia svedese aveva già avanzato questa stessa ipotesi riuscendone in seguito a documentare le fasi del progetto.12 La crisi religiosa di Cristina non fu evidentemente una finta ma fu soprattutto d’immagine: rientrava nell’acquisizione di un suo rinnovato ruolo in Europa che l’avrebbe portata a mutare le sorti del mondo, e intenzionata a ricompattare la cristianità con l’aiuto della Francia. In tutto ciò giocava un’idea di predestinazione che il misticismo barocco 12. Ne dà definitivamente conto il bellissimo libro di Åkerman 1991, preceduto da un importante articolo in italiano (Åkerman 199o), che esplicita i precedenti storiografici di questa tesi. 10 davide daolmi di Cristina prendeva molto sul serio. Un suo indubbio amore per la cultura (che poco riusciva a coltivare nei freddi e un tantino barbari paesi del Nord), la scarsa simpatia che le offriva il suo popolo, un gusto fors’anche per le decisioni ad effetto, tutto contribuì a rendere ai suoi occhi meno traumatica l’abdicazione, la conversione e il trasferimento a Roma. Ma la regina giocò anche sull’ambiguità di molti suoi gesti, a cominciare dall’acquisizione del nuovo nome di Alessandra, da tutti creduto un omaggio all’omonimo pontefice quando per lei altro non era che l’immedesimazione con Alessandro Magno, conquistatore del mondo. L’appoggio del papa, come consigliava il sempre solerte Mazzarino, era indispensabile al buon fine del piano; e se un Vaticano opportunamente reso filofrancese sarebbe stato ben felice di liberarsi degli spagnoli a lei sarebbe stato chiesto, per entrare nelle grazie di Sua Santità, di fare professione di vera fede (ovviamente cattolica). L’ipotesi che Cristina si convertisse era per il papa neoeletto una ventata di prestigio agli occhi del mondo: colpo durissimo ai prìncipi protestanti. Il progetto di Mazzarino – al momento limitato a Napoli e quindi ben più modesto di quello di Cristina che mirava all’Europa tutta – se aveva qualche buona speranza, patì anche non poche difficoltà: prima s’era dovuto aspettare che Innocenzo x morisse (troppo legato a Madrid per coinvolgerlo in questa operazione così aggressiva) poi il Chigi successore non si era rivelato l’anti-spagnolo che sarebbe stato auspicabile. Bisognava pertanto puntare sulla capacità propagandistica dei Barberini per trasformare Luigi xiv nel novello liberatore della penisola italica. Propaganda 66. La stampa veneziana dell’Istoria di Gualdo Priorato, pubblicata subito dopo quella romana (per le tre edizioni v. Gualdo 1656). L’ idea di rendere Napoli protettorato francese – non una scampagnata – cercava un ulteriore punto di forza nel prestigio internazionale che il nuovo sovrano avrebbe saputo vantare sul vicerè spagnolo: bisognava quindi diffondere il mito della regina Cristina, soprattutto nella penisola, in modo che la stima di lei evitasse fastidiose coalizioni contro l’ingerenza francese. Non credo di andare molto lontano dal vero se immagino che fu lo stesso Mazzarino a chiedere a Galeazzo Gualdo Priorato, suo fedele segretario ed apprezzato storico, di narrare i trascorsi e la gloria di tanta regina. L’Istoria della Sacra Real Maestà di Cristina Alessandra regina di Svezia (46) fu pubblicata (con i soldi di Francia?) a due mesi dalle feste barberiniane contemporaneamente in tre città: Roma, Venezia e Modena. Credo che ben poche pubblicazioni seicentesche possano vantare simile diffusione editoriale. Gualdo è storico raffinato e competente, di rara abilità diplomatica: non ha bisogno di mentire per incensare Cristina, si limita a tacerne i difetti. E l’Istoria è documento prezioso, ma non c’è bisogno di dire che si guarda bene dall’esplicitare i veri intenti dell’operazione (sempre che Gualdo li conoscesse). Peraltro il libro, che non lesina nell’encomio trasversale ai Barberini, è l’unica fonte a stampa di quelle feste, fonte insolitamente dettagliata per una manifestazione carnevalesca, ma evidentemente il fine giustificava l’eccezionalità. Tanto più appariscente si rivela poi questa attenzione al Carnevale concessa da Gualdo se si confronta con l’altra storia della regina, quella vo- capitolo i. Luoghi 11 luta dal papa. Qui ovviamente l’interesse non era l’omaggio all’ex sovrana ma il valore religioso e quindi politico della conversione. Alessandro vii diede incarico della stesura all’amico gesuita Pietro Sforza Pallavicini, colui che di lì a poco scriverà un nuova Storia del Concilio di Trento in risposta a quella quasi eretica di Paolo Sarpi. Il titolo dell’operetta parla da sé: Descrizione del primo viaggio fatto a Roma della regina di Svezia Cristina Maria convertita alla religione Cattolica e delle accoglienze quivi avute sino alla sua partenza; ma in realtà le accoglienze di cui si narra sono solo quelle concesse dal papa e pochissime righe sono dedicate ai Barberini. Si dice solo di sontuosi trattenimenti di tornei e poetiche azioni rappresentate su la scena con la melodia d’eccellenti cantori e con la vaghezza di meravigliose apparenze Pagina 73 dell’edizione postuma di Cicconi 1838. che si ebbero – a quanto vien detto – perché il papa non vi si oppose, essendo quegli spettacoli «non sol modesti [dal punto di vista morale] ma virtuosi». La Descrizione, che evidentemente poco serviva ai piani strategici di Mazzarino, non vide mai la luce è fu pubblicata solo nel 1838 ad opera del prefetto della biblioteca Albani, biblioteca nella quale era ancora conservata una copia del manoscritto. Appare evidente come le feste barberiniane servissero da un lato a illuminare la figura di Cristina, dall’altro a dar prestigio alla famiglia specchio della Francia. Il papa tollerò il forse eccessivo omaggio di un singolo clan romano, che metteva certamente in ombra gli sforzi encomiastici del Vaticano, perché lo credette tributo a una regina la cui riscoperta pietas doveva dimostrare agli occhi del mondo la bontà della causa cattolica e il rinnovato vigore del prestigio vaticano. M a le suggestioni insistentemente simboliche delle due manifestazioni cardine di queste feste – l’opera allegorica La Vita umana ovvero Il trionfo della pietà, che aprì gli omaggi, e il carosello che li chiuse – sembrano andare in altra direzione. Non voglio dilungarmi sui significati di quelle due serate perché altra è la meta di questo lavoro, ma varrà la pena almeno accennare ai messaggi più o meno espliciti che, alla luce del quadro politico qui proposto, potrebbero suggerire. Vita umana è, come tutti hanno notato, la metafora della scelta di Cristina.13 Qui lo spettatore incontra Vita, personificazione dell’umano sentire, sedotta dai Vizi e in fine disposta a scegliere la Virtù. Ma se Vita è Cristina, individuare nella conversione tale scelta significa accontentarsi di una metafora di facciata, priva in fondo della componente esortativa propria di queste operazioni: Cristina infatti s’è già convertita, non avrebbe avuto senso ribadirlo. Nell’opera i due luoghi verso cui dovranno dirigersi le azioni di Vita sono l’Intendimento e il Piacere, che di per sé non paiono realmente antitetici: all’intendimento (la ragione) oggi opporremmo la stoltezza, al piacere il dolore o, se inteso come lussuria, la morale. Solo in un’unica importante occasione la ragione si contrappone al piacere: nel dualismo maschile e femminile inteso nel significato antico di virile ed effeminato. Anche se forse può aver avuto una sua parte, non voglio qui di tirare in ballo la natura ambigua di Cristina che già faceva esplicitamente parlare i cronisti del- Allegorie della festa 13. Sulla Vita umana, oltre alla monografia di Witzenmann 1975, da completare con i passi specifici di Murata 1981, poco altro è stato fatto; segnalo Tamburini 1994, ad indicem, e Hammond 1998 e 1999. 12 davide daolmi 16. Murata 1981, p. 50. l’epoca di ermafroditismo;14 mi sembra più significativo leggere la contrapposizione fra virilità ed effeminatezza secondo i canoni dell’epoca, ovvero fra bene comune (ragion di Stato) ed egoismo (sentimento privato).15 Uno dei motivi per cui le mire su Napoli di Mazzarino fallirono fu Cristina stessa; Cristina non seppe (o non volle) stare al gioco, né si comportò da regina come ci si sarebbe aspettato. Le sue bizze, i suoi capricci, l’ostentata indifferenza alle regole, all’etichetta, alla ritualità religiosa, crearono infiniti problemi. Cristina si rivelò prestissimo una scheggia impazzita capace, come avvenne, di far naufragare gli scopi politici di Francia (e diciamo pure che forse questi non coincidevano perfettamente con quelli di Cristina). Ecco allora che la strada verso l’Intendimento è la strada verso i suoi doveri di sovrana (e soprattutto di sovrana ossequiosa alle disposizioni di Parigi). Non quindi un significato religioso; d’altra parte nessuno dei personaggi rivela un’allegoria sacra: non c’è Fede nella Vita umana, non c’è Speranza o Carità, nulla che possa rimandare, come si è detto, agli autos sacramentali spagnoli, che in questa circostanza sarebbero del tutto fuori luogo.16 17. Sulla Festa della Girandola v. la sezione Introduzione alla festa in Fagiolo 1997, i. Anche la scena finale – una realistica raffigurazione di Roma – conferma questa lettura. Questo è il luogo raggiunto da Vita e pertanto meta, reale e simbolica, del suo viaggio; ma Vita arriva a Roma prima di aver fatto la sua scelta, tanto che qui incontrerà Vizio e Piacere travestiti da Virtù e Intendimento (quasi a voler dire che nella Città Santa non bisogna fidarsi delle apparenze). Il valore di questo arrivo in città deve essere letto in modo del tutto realistico. La scena cittadina finale è tutt’altro che d’invenzione: i fuochi d’artificio raffigurati (che probabilmente chiudevano l’opera) riprendono infatti una tipica veduta romana e una manifestazione carnevalesca, la celebre «girandola», vivissima ancora in tempi recenti.17 14. Ne parla a lungo, col rischio alla fine di crederci Quillet 1982, cap. v. 15. Su questi v. anche le pagine conclusive del cap. v (Differenze). 67a. Scena finale della Vita umana disegno Giovanni Francesco Grimaldi e incisione di Giovanni Battista Galestruzzi, pubblicata in Marazzoli 1658, tav. v. 37b. Joseph Wright of Derby (1734-1797) Girandola a Castel Sant’Angelo, olio su tela (US-CLm). Altri dipinti sullo stesso soggetto sono riproddotti nelle prime pagine di Fagiolo 1997. 67c. Lievin Cruyl [Veduta di San Pieto e Castel Sant’Angelo, 1665], disegno preparatorio per incisione (l’originale è ribaltato), tratto da Connors–Rice 1991. capitolo i. Luoghi Per l’altra festa, il carosello, la metafora restituiva la fortuna di Francia riflessa nei Barberini. Non ho letto le fonti manoscritte relative alla giostra ma, per quanto noto, non ho difficoltà a imputare le «anomalie» allegoriche di cui riferisce Hammond alla peculiarità politica dell’evento.18 Il dato evidente è che il Carro del Sole guidato da Apollo che presiede lo scontro delle due fazioni – cavalieri contro amazzoni, ancora una volta il maschile e il femminile in gioco – è ben lontano da potersi identificare con il papato. Il sole e le api sono sempre stati simboli dei Barberini, e per intuire che il Carro del Sole abbia connotati francesi non c’è bisogno di ricordare l’intercambiabilità di Apollo con Luigi xiv che proprio in quegli anni si dilettava di ballare sulle scene di corte frequentemente incorniciato da petali fiammeggianti.19 Insomma è ancora da scrivere l’interpretazione di queste feste ma non voglio occuparmene oltre, perché L’armi e gli amori, l’opera rappresentata in quelle circostanze a cui è dedicato questo lavoro, è invece ben lontana da alcuna lettura allegorica e pone problemi d’altra natura. E cco finalmente il calendario di quei giorni. Di tutti gli spettacoli e manifestazioni a cui assistette la regina nei primi mesi del 1656 ci dice il solito Gualdo. Il Carnevale a Roma cominciava due sabati prima del mercoledì delle Ceneri quindi durava solo dieci giorni.20 Chi la fa da padrone sono le famiglie dei novelli sposi Maffeo e Olimpia, ovvero i Barberini e i Pamphili, questi ultimi nella persona di don Camillo. Lo zio della giovane Olimpia, già cardinale, s’era spretato per sposare un’altra Olimpia, l’Aldobrandini principessa di Rossano (45), creando non pochi disagi allo zio pontefice e soprattutto mandando su tutte le furie la madre «papessa», quell’Olimpia (e tre!) Maidalchini che aveva già pianificato per il figlio un futuro in Vaticano. Troppe Olimpie sotto lo stesso tetto e così il principe don Camillo lasciò la residenza di famiglia di piazza Navona (oggi sede dell’ambasciata e altri istituti brasiliani) per trasferirsi con la principessa sua moglie in via del Corso (l’attuale Palazzo DoriaPamphili, sede dell’omonima Galleria), edificio subito ristrutturato e reso adeguato ai nuovi ospiti.21 In questo palazzo don Camillo e la principessa offrirono feste per tutte le dieci sere di Carnevale, cominciando sabato 19 con una giostra eretta nel cortile di fronte casa (l’attuale piazza del Collegio Germanico) per finire martedì 29 con un banchetto e un ballo rappresentativo dedicato alla regina Cristina che – riferisce Gualdo – «dichiarò pubblicamente di non aver goduto in Roma cosa di sua maggiore soddisfazione».22 Durante tutti gli altri giorni di Carnevale furono allestite nel loro palazzo alternativamente due opere in musica, entrambe (o così pare) su libretto di Giovanni Lotti e musica di Antonio Francesco Tenaglia.23 Fra le altre manifestazioni offerte a Cristina, Gualdo ricorda l’opera Il sacrificio d’Isacco, con l’intermedio della Giuditta, rappresentato al Collegio Germanico: solo un dramma scolastico ma la musica era di Giacomo Carissimi.24 Lo stesso ambasciatore di Francia fece omaggio alla regina, facendole allestire nel Palazzo Mazzarino al Quirinale (oggi Pallavicini-Rospigliosi), una commedia francese di Corneille, Héraclius empe- 13 18. Hammond 1998, p. 154-159, poi ripreso in Hammond 1999. 19. Cfr. Isherwood 1973, p. 157-160 della traduzione italiana. I giorni del Carnevale 20. «Il Carnevale … si fa in Roma i soli dieci giorni avanti la Quaresima»; Gualdo 1656, p. 240 (ed. di Venezia). 21. Fonte delle questioni famigliari è il Diario romano di Gigli (Barberito 1994, sub data). Sul nuovo palazzo Pamphili v. Carandente 1975 e De Marchi 1999. 22. Gualdo 1656, pp. 240-242 (ed. di Venezia). 23. Benché la musica sia comunque perduta, per un primo approfondimento al riguardo segnalo la bibliografia riportata in Caluori–Lionnet 2001 e la tesi di Duranti 1986. 24. Gualdo 1656, p. 247 (ed. di Venezia); la data di rappresentazione (25 febbraio) è ricordata da Compagnoni (cit. in Culley 1970, p. ???); il libretto manoscritto in I-Rnc la dice di padre Casilio (cfr. Morelli 1999, p. 325 nota 24). 14 25. Sullo stesso soggetto Calderón pubblicherà nel 1659 En esta vida todo es verdad y todo mentira, probabilmente ignorando il testo francese (la stampa spagnola non è indicativa per datare la stesura); entrambi gli autori rielaborarono una commedia del 1616 di Antonio Mira de Amescua, La rueda de la Fortuna, il cui più celebre lavoro, El ejemplo mayor de la desdicha fu riadattato nel Belisario di Giacinto Andrea Cicognini. Ai modelli spagnoli di Héraclius dedica un intero capitolo Cioranescu 1983, pp. 374-379; su Cicognini e il teatro spagnolo esiste un’ampia bibliografia segnalata e discussa in Maranini 2001. 26. «A trattenimento delle lettere non era dovere che mancassero quei dell’armi» spiega Gualdo 1656, p. 234 (ed. di Venezia). 27. Deduco dalla descrizione del carro che fa Gigli (cit. in Fagiolo dell’Arco 1997, p. 366), messa a confronto con il dipinto di Gagliardi e Lauri. 28. Montalto 1941, pp. 193194. Gualdo 1656, pp. 247 e 249 (ed. di Venezia). davide daolmi reur d’Orient che aveva debuttato a Parigi nel gennaio del 1647; scelta invero curiosa perché uno dei testi più ‘spagnoli’ del drammaturgo francese.25 I Barberini, come detto, si distinsero per gli omaggi a Cristina, offrendo anche loro, dopo l’esordio anticipato dell’allegorica Vita umana (31 gennaio), altri due drammi musicali replicati per tutti i giorni del Carnevale, nonché la già citata giostra dei Caroselli del 28 febbraio che concluse non il Carnevale (onore lasciato ai Pamphili) ma un ciclo di cinque accademie letterarie che si erano date ogni lunedì a Palazzo Farnese, residenza della regina, a partire dal 24 gennaio.26 La prima delle due opere, che debuttò domenica 20 febbraio, era una novità assoluta e s’intitolava L’armi e gli amori; l’altra, Dal male il bene, una ripresa del Carnevale di due anni prima e, supponendo un’equa spartizione dei giorni di festa, ritengo sia andata in scena a partire dal 24 febbraio. Marco Marazzoli, uno dei più celebrati musicisti romani durante il fulgore barberino, è l’autore delle musiche, sia di questi drammi che della Vita umana (e probabilmente anche dei brani, perduti, cantati nella giostra). I testi sono oggi unanimemente detti di Giulio Rospigliosi, futuro Clemente ix. Notizia, come dirò, probabilmente da rettificare. L’elemento assolutamente eccezionale delle feste barberiniane non è però nella quantità di allestimenti messi in atto (in fondo, a parte La Vita umana, comparabile a quello dei Pamphili) e nemmeno nella qualità giacché, essendo perduti i lavori di Tenaglia, non c’è occasione di confronto; anzi, secondo le parole della regina, il ballo rappresentativo dei Pamphili fu apprezzato più d’ogn’altra cosa. Non va dimenticata poi l’alta dose di ‘riciclo’ che operarono i Barberini, a partire dai carri della giostra: una novità per la regina, ma già usati nell’omaggio a Maffeo Barberini nel Carnevale del ’54 27 – feste in cui si era dato anche il debutto dell’opera Dal male il bene. Lo stesso Armi e amori con tutta probabilità doveva essere stato preparato per il Carnevale del ’55; il lutto per la morte del papa e soprattutto il perdurare del conclave fecero saltar poi ogni festeggiamento. L’aspetto significativo è invece nel valore propagandistico che si diede a queste feste. L’intera partitura della Vita umana fu stampata e pubblicata con dedica di Marazzoli a Cristina di Svezia. Tutti e tre i drammi furono poi allestiti non in un salone del palazzo, come avevano fatto i Pamphili (che erigeranno una scena stabile solo nel 1684),28 ma in un teatro vero e proprio appositamente pensato per accogliere «tutte le persone civili» – secondo l’uso di Francia che, in ossequio all’ideale pubblico (e ancora una volta propagandistico) del governo, ammetteva a corte chiunque potesse permettersi un abito decente. Per la giostra dei Caroselli poi, oltre ai palchi per la nobiltà, si prepararono spazi insolitamente vasti destinati al popolo, cosa di cui Gualdo ebbe di che stupirsi: Questi signori, col fare anche demolire alcune loro case contigue, fecero drizzare due larghe e commode scalinate nella parte sinistra. Erano queste capaci di 3000 persone in circa … La pompa e maestà di questa operazione invaghì la curiosità di tutta Roma e de’ paesi circonvicini onde, benché la folla della gente all’ingresso fosse grandissima, con tutto ciò furono introdotte senza confusione tutte le persone civili … capitolo i. Luoghi 15 L’armi e gli amori, dunque, si svolsero in un teatro, non proprio pubblico (non era a pagamento) ma destinato anche al popolo e quindi in qualche modo forma ibrida fra rappresentazione di corte e quell’opera «mercenaria» che si andava diffondendo in molti centri italiani. Gualdo dice quell’allestimento ricco poi di «apparati e mutazioni di scene», testimonianza di un teatro tutt’altro che provvisorio. Tanto più importante quindi ritornare a calpestare i luoghi dell’evento e individuare e definire finalmente quegli spazi che hanno visto un allestimento per più aspetti tutt’altro che marginale. R ipartiamo allora dal quadro di Lauri e Gagliardi. Ci si sono messi in due a dipingere la tela, non tanto per le dimensioni quanto perché Filippo Gagliardi (†1659), più abile nella prospettiva, s’incaricò dell’impianto architettonico, mentre Filippo Lauri (1623-1694), aggiunse pazientemente spettatori, personaggi e figurini della giostra.29 Doppio quindi l’intento: il ricordo delle feste ma anche l’omaggio a uno degli edifici più belli di Roma, nonché residenza di rappresentanza dei Barberini e in qualche modo emblema della loro rinnovata potenza. (Oggi è la sede, in perenne restauro, del Museo di arte antica e di altre istituzioni.) Il palazzo è detto «Alle Quattro Fontane» perché s’erge al centro di un isolato il cui lato Sud-Ovest s’affaccia sull’omonima via che prende il nome dal quadrivio che incontra via del Quirinale nel punto in cui diventa via xx Settembre. Il Palazzo alle Quattro Fontane 29. Il primo a far conoscere il dipinto fu Incisa 1959 in occasione dell’acquisto della tela da parte del Museo di Roma. La meticolosità di Lauri è tale da far supporre che, almeno il pubblico in primo piano, sia un’innumerevole sequenza di ritratti di persone reali con nome e cognome. Se ne veda il particole in Fagiolo 1997, ii, p. 104. 38. L’isolato di Palazzo Barberini come si presenta oggi (pianta a volo d’uccello tratta da Guides Gallimard, Paris 1993). La particolarità dell’incrocio omonimo, che al moderno turista può forse apparire dimesso, non trae la sua fama solo dalle quattro piccole fontane allegoriche di fine del Cinquecento disposte su ciascuno degli angoli del quadrivio; quanto dal valore urbanistico che assume il luogo, frutto della ristrutturazione viaria di Sisto v (1585-1590), che concede un quadruplo campo prospettico: verso Porta Pia e altri tre celeberrimi obelischi romani, quelli dell’Esquilino, del Quirinale e di Trinità dei Monti.30 Per comprendere la sontuosità del palazzo basterebbe dire che la parete che si vede raffigurata nel dipinto dei «Caroselli» non è che il fianco dell’edificio, dotato di altri due ingressi principali, la cui scenografia ad effetto fu progettata da Bernini e Borromini. Le eleganti incisioni di Alessandro Specchi (1668-1729) – architetto noto per la realizzazione del Porto di Ripetta (smantellato purtroppo nel primo Novecento) 31 – ne mostrano le facciate anteriore e posteriore. 30. Benedetti 1992. 31. Su Specchi si veda Spagnesi 1997. 16 davide daolmi 49. [Alessandro Specchi] Facciata principale del Palazzo Barberino dell’eccellentissimo signore prencipe di Pellestrina con li due fianchi che la compongano | nel monte Quirinale. Architettura del cavalier Bernino. | 1. Fianco verso la piazza – 2. Altro fianco verso il giardino | A. Specchi disegno et intaglio – dato in luce da Domenico de’ Rossi dalle sue stampe in Roma alla Pace con licenza de’ superiori. – 17 [in Specchi 1999, tav. xvii] 310. [AlessandroSpecchi] Veduta posteriore del medemo Palazzo Barberino con facciata e scala che porta al giardino, et al piano della sala | Architettura del cavalier Bernino. | 1. Giardino con l’obelisco antico verso le Quattro Fontane | Dato in luce da Domenico de’ Rossi dalle sue stampe in Roma alla Pace con privilegio del Santo Padre e licenza de’ superiori. – 20 [in Specchi 1699, tav. xx] 32. Specchi 1699. 33. Sui de’ Rossi stampatori vedi Macchi 1945, Esposito 1972 e Ciofetta 1991. 511. «Facciata maestra del pa- lazzo delli Barberini alle Quattro Fontane»; in Rossi 1638, tav. n.n. 34. Ferrerio 1655, tavv. 7 e 8. 35. Falda 1655. Furono pubblicate in un volume stampato nel 1699 con due titoli diversi: Il primo libro del nuovo teatro delli palazzi in prospettiva di Roma moderna, altre volte pubblicato come Il quarto libro del nuovo teatro…32 La spiegazione della doppia dicitura obbliga a una piccola digressione. Già nel 1638 uno dei più insigni stampatori romani, Giambattista de’ Rossi,33 sensibile al rinnovamento edilizio della città, svecchiò la tradizione di pubblicare incisioni dei reperti antichi e lanciò la moda, che si sarebbe rivelata fortunatissima, degli edifici moderni. Pubblicò infatti una serie di prospetti anonimi, non sempre raffinatissimi, dal titolo Palazzi diversi nell’alma città di Roma, dove una delle tavole riproduceva, pur con le proporzioni alterate, il trionfale ingresso ovest dell’appena completato Palazzo Barberini (411). Durante il pontificato di Innocenzo x, il figlioccio di Rossi, Giovanni Giacomo, il vero artefice della fortuna seicentesca della famiglia, pubblicò una serie di semplici facciate ad opera di Pietro Ferrario, col titolo di Palazzi di Roma de’ più celebri architetti. Il volume, dedicato al cardinale Antonio Barberini, riproduceva del Palazzo alle Quattro Fontane la pianta e ancora la fronte ovest – una bidimensione questa volte dalle proporzioni corrette.34 Seguì un secondo volume, Nuovi disegni dell’architetture e piante, inciso da un altro giovane promettente architetto Giovanni Battista Falda.35 Rossi s’accorse del talento di Falda e gli commissionò numerosi altri libri d’incisioni: non più piatte facciate ma raffinati scorci capitolo i. Luoghi 17 prospettici di piazze ed edifici romani. Il capolavoro è l’opera in tre volumi, pubblicata fra il 1665 e il 1669, intitolata Il nuovo teatro delle fabriche et edificii in prospettiva di Roma moderna. Nel 1699 l’erede Domenico de’ Rossi, volle proseguire la collezione assegnando ad Alessandro Specchi il Quarto libro del nuovo teatro che apparve anche come Il primo libro, evidentemente volendo sfruttare con questo titolo la novità e con quello il successo editoriale del patrigno. Quarant’anni dopo un altro editore, «Al piè del marmo», riproporrà la stessa soluzione pubblicando un Quinto – Secondo libro del nuovo teatro inciso da Giovanni Domenico Campiglia. L’attenzione alle incisioni di Specchi va al di là dell’erudizione calcografica: queste si completano infatti con due viste del Palazzo Barberini di cui una, unica fonte figurativa, mostra anche l’edificio teatrale destinato a opere e commedie. 512. I tre frontespizi di Falda 1665, 1667 e 1669. 313. [AlessandroSpecchi] Segue l’altra veduta per fianco del palazzo verso la piazza dell’eccellentissimo signor prencipe di Pellestrina | Architettura del cavalier Bernino. | 1. Facciata per fianco verso la piazza – 2. Facciata principale – 3. Altro fianco verso il giardino – 4. Teatro da comedie. | Data in luce da Domenico de’ Rossi dalle sue stampe in Roma alla Pace con licenza de’ superiori. – 18 [in Specchi 1999, tav. xviii] 313a. Particolare del Teatro Barberini tratto dalla tavola in alto. La didascalia riferisce puntualmente «4. Teatro da comedie» permettendoci di individuare con certezza la palazzina nel complesso dell’edificio e contemporaneamente riconoscerne la collocazione separata. Potrei fermarmi qui: il teatro è stato identificato. Tuttavia questo è il primo vero teatro moderno di cui Roma possa vantarsi e forse meriterebbe più attenzione. È vero che le feste nei palazzi della città erano frequenti: spesso 514. [AlessandroSpecchi] Al- tro fianco del Palazzo Barberino […] 1. Facciata principale con li due fianchi che lo compongono – 2. Fianco verso il giardino col ponte levatore che porta all’appartamenti – 3. Altro fianco verso la piazza […]; in Specchi 1999, tav. xix. 18 davide daolmi si allestivano vere e proprie opere in teatrini provvisori e il Collegio Romano aveva probabilmente una sala specificamente destinata alle commedie, ma nessuna famiglia romana aveva mai adibito un’ala del palazzo a teatro stabile e tantomeno aveva fatto costruire un intero edificio destinato a tale impiego. Il fatto poi che, pur gratuitamente, vi affluissero anche borghesi (rendendolo un teatro semipubblico) gli concede un ruolo politico – certamente non casuale – che obbliga ad un approfondimento. Provo allora, più che a ricostruirne la storia rappresentativa, già divulgata per quanto noto (ne dirò poi), a occuparmi, ancora una volta, del luogo, della struttura architettonica e del modo con cui erano sfruttati gli spazi occupati. Teatro Barberini 515. Foto del palazzetto attuale scattata da via Barberini in tempi recenti. 416. a Planimetria ottocentesca dell’isolato prima dell’apertura di via Barberini (da Létarouilly 1860); b pianta odierna di Roma (Touring Club Italiano 1977); c la medesima ruotata a Nord-Ovest in coincidenza con l’orientamento ottocentesco; d la planimetria di Létoruoilly con la moderna rete viaria. C hi facesse oggi un giro attorno al Palazzo alle Quattro Fontane con in mente l’incisione di Specchi avrebbe di che rimanere deluso: lo spiazzo antistante il lato nord del palazzo, quello della «Giostra dei caroselli», è infatti la parte che più ha subìto modifiche, risultando oggi quasi irriconoscibile. Eppure guardando con attenzione un casolare a pianta quadrata addossato al palazzo proprio nel punto dove una volta doveva sorgere il teatro, l’ignaro visitatore riconoscerebbe, sotto le ultime vestigia di archi romani, l’elegante portale dell’incisione e, con una certa approssimazione, anche la linea delle finestre. Per il resto nessun’altra coincidenza: l’edificio è infatti a tre piani (e non due) con lucernario e, anche volendo supporre l’aggiunta di una soppalcatura abitabile, le dimensioni appaiono assai tozze rispetto all’incisione. Cos’è successo? a b c d N Il N capitolo i. Luoghi 19 Confrontando una pianta ottocentesca dell’isolato (416a) con una moderna (b) e, opportunamente ruotata, avvicinando questa alla prima (c) salta subito all’occhio la sostanziale modifica urbanistica (d). Come ricordava Urbano Barberini nel 1963,36 l’apertura di quella che è l’odierna via Barberini, avvenuta dopo il 1932 a seguito del nuovo piano regolatore, oltre ad aver ristretto drasticamente il cortile della «Cavallerizza» dove avvenne la «Giostra dei caroselli», s’è portata via un pezzo di teatro. L’altro pezzo fu comunque raso al suolo e quindi non c’è più molto da riconoscere: ne dà testimonianza una fotografia dell’archivio privato Barberini che Jorgen Hartmann pubblicò nel 1964. 36. Barberini 1963, p. 6; v. anche Insolera 1980, p. 414 e segg. 317. Foto del 1932 scattata in occasione della domolizione dell’ex Teatro Barberini (Archivio privato Barberini), pubblicata in Hartmann 1964, p. 7. Il portone però c’è ancora. Il suo disegno godeva infatti di una firma prestigiosa, quella di Pietro da Cortona; si pensò così di preservarlo ricostruendovi attorno, pur nello spazio più angusto che era rimasto, un edificio che ne riprendesse le fattezze per reinserirvi il vecchio portale. Sappiamo che il disegno è di Cortona – come è suo l’altro arco distrutto, detto «Portonaccio», che dava su piazza Barberini – perché un’altra serie di incisioni di Specchi derivate da precedenti disegni di Ciro Ferri (16341689) e pubblicata in tre volumi successivi dal solito Domenico de’ Rossi (1701, 1711, 1721), riproduce i due portali indicandone la paternità.37 Se un problema appare facilmente risolto (ovvero perché il teatro si sia accorciato), un altro, scatenato nel 1958 proprio da Urbano Barberini, sembra confondere di nuovo le idee. Il Barberini, venendo a conoscere un dipinto di Hans Ditlev Christian Martens generalmente noto come La visita di papa Leone xii allo studio di Thorvaldsen, ritenne di potervi riconoscere l’interno del Teatro Barberini, ovvero della palazzina adibita ad autorimessa di famiglia e granaio fino al 1932. Lo scultore danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844) si trasferì infatti nel 1797 a Roma, affittando dai Barberini alcuni locali, incuneati fra via delle Quattro Fontane e l’attuale piazza Barberini, proprio di fronte alla facciata ovest del palazzo. Il 1° agosto 1822 Thorvaldsen firmò però un nuo- 5i.18 Il portale cortonesco del Teatro Barberini inciso da Specchi (v. nota 37). 37. Specchi 1721, i (1701), tavv. 51 e 52; sui disegni di Ferri v. Morolli 1987. 20 davide daolmi vo contratto per acquisire un ulteriore spazio, molto più grande dei precedenti, sempre di proprietà Barberini. Il locale, destinato a show room, avrebbe ospitato il meglio delle sue opere e divenne oggetto di visita ammirata di turisti e curiosi. Qui vi passò, fra gli altri, il 18 ottobre 1826, persino papa Leone xii. Martens, giovane apprendista presso lo scultore, immortalò l’episodio in quello che è probabilmente il suo unico quadro di una certa fama (e vi si autoritrasse in basso a sinistra intento a dipingere) offrendoci un’importante vista interna dell’edificio. 419. Hans Ditlev Christian Martens, La visita di papa Leone xii allo studio di Thorvaldsen (1822), Copenaghen, Museo Thorvaldsen. 38. Barberini 1957, p. 17. 39. Hartmann 1963, Barberini 1963, Hartmann 1964, Barberini 1964. 40. I contributi apparsi su «L’Urbe» – del tutto ignorati dai musicologi (penso a Murata e Hammond che pure molto hanno investigato sui Barberini) – furono ripresi per la prima volta nella tesi di laurea di Pietrangeli 1969 (studio attualmente inaccessibile), quindi da Colini 1977 (non consultato); nella piccola ma assai documentata guida di Negro 1995, pp. 65 e segg.; con nuove precisazioni in Tamburini 1997, pp. 241 nota 178, e Tamburini 2000; infine Hammond 1999, p. 57, riproduce il dipinto ma non esplicita le fonti. 41. Barberini 1957, p. 17. Il quadro, oggi al Museo Thorvaldsen di Copenaghen, ritornò in Italia per la prima volta nel 1957 in occasione dell’esposizione romana «Da Villa Ludovisi a piazza Barberini». Urbano Barberini, nell’introduzione al catalogo della mostra dichiarerà senza incertezze che il «grande studio» Thorvaldsen era l’ex Teatro Barberini, riconoscendovi «benissimo la grande capriata in legno come si vede nel quadro di Martens».38 Da qui scaturì un’elegante polemica – di quelle dottissime e pacate come non se ne incontrano più – fra il Barberini e il già citato Hartmann che si protrasse per un paio d’anni in quattro successivi articoli pubblicati su «L’Urbe».39 Poiché all’ultima risposta del Barberini non seguirono ulteriori obiezioni, da allora la critica ha ritenuto, pur con qualche trascurabile perplessità che il quadro di Martens possa riprodurre effettivamente l’interno dell’ex Teatro Barberini.40 Bisogna però ammettere che le obiezioni avanzate da Hartmann contro la tesi Barberini appaiono del tutto condivisibili e molte di queste non sembrano essere state opportunamente smontate nelle due repliche pubblicate all’epoca. Un primo punto fondamentale di dissenso era scaturito da quanto scriveva il Barberini a proposito della sistemazione del «grande studio» (quello del quadro di Martens) nel piano superiore di «due enormi ambienti rettangolari, uno al pian terreno e uno al primo piano».41 Hartmann si chiedeva come fosse possibile portare marmi a un piano rialzato rischiando soprattutto il cedimento del pavimento. Il Bar- capitolo i. Luoghi 21 berini obiettò che non si trattava di marmi ma di copie in gesso (tesi poi rivelatasi infondata), senza però spiegare come queste si sarebbero potute trasferire a un piano alto. La seconda obiezione di Hartmann riguardava la porta a due battenti aperta sul lato corto dell’edificio (visibile al centro del dipinto in fondo) che entrerebbe in contraddizione con la pianta ottocentesca del teatro che lo vuole chiuso da un lato a causa del prolungamento del palazzo, e dall’altro dal gruppo di case posto al di qua della strada privata poi diventata via Barberini. Il terzo punto debole della tesi Barberini si lega alla sproporzione fra l’altezza della stanza dipinta da Martens e lo spazio che il secondo piano della palazzina avrebbe in effetti potuto concedere. Infine il quarto argomento coinvolge la scarsa riconoscibilità della posizione delle finestre. Viste le scarsissime notizie sul Teatro Barberini, il dipinto di un interno sarebbe stato una preziosa fonte iconografica. Ho desiderato con tutte le mie forze che la ragione fosse dalla parte del Barberini ma alla fine, di fronte all’evidenza dei fatti ho dovuto ammettere che Hartmann aveva molti più argomenti dalla sua parte. Non c’è modo di sciogliere le incogruenze della tesi Barberini se non ammettendo che si tratti di un altro edificio. Il confronto inoltre del dipinto con una possibile ricostruzione operata sulle informazioni note del teatro mostra chiaramente che – a parte l’inconciliabile presenza del portone e l’assenza delle finestre piccole sottostanti i finestroni laterali – quando si fa coincidere la spiovenza del tetto ci si accorge inequivocabilmente che la stanza dipinta da Martens è più alta (o più stretta) di un eventuale piano rialzato ovvero, ammettendo il più ragionevole ingombro di entrambi i piani, nettamente più bassa dell’ex teatro. Tuttavia se anche viene a cadere la tesi del Barberini perché non ammettere la sua buona fede? La memoria dell’edificio distrutto un quarto di secolo prima offre una serie di informazioni sull’ex teatro che permettono di comprendere meglio la struttura della palazzina, almeno per come si era trasformata prima che fosse rasa al suolo. Innanzi tutto le capriate. Nel riconoscere un tipico sistema di sostegno del tetto (che in effetti potrebbe appartenere a qualunque altra palazzina) il Barberini ci dice che il teatro aveva un tetto a capriate, esattamente come moltissimi teatri di quegli anni (l’esempio più prestigioso era per tutti il Farnese). Dall’archivio Barberini saltano poi fuori due preziose 620. Confronto fra la sezione del «grande studio» di Thorvaldsen ricavata dal dipinto di Martens (in rosso) e quella del Teatro Barberini che misurava approssimativamente m 15 d’altezza per 18,5 di larghezza (muri compresi). Per le dimensioni v. oltre. 22 davide daolmi immagini, una fotografia degli anni Venti del Novecento e un acquarello dello stesso Barberini realizzato poco prima della distruzione del teatro. 521. Disegno acquarellato realizzato da Urbano Barberini prima della distruzione del teatro (Roma, Museo di Roma). 422. Foto della rimessa delle auto (ex teatro) scattata negli anni Venti (Archivio privato Barberini). Da qui appare evidente che la facciata laterale del teatro (con al centro la porta di Cortona) proseguiva verso nord sovrastando anche la strada privata (poi via Barberini) con un portico o sottopasso in cui si riconoscono nell’acquarello due piani abitabili. Un particolare della tavola xvii di Specchi (49) dimostra che tale prolungamento esisteva già alla fine del Seicento. Mi chiedo a questo punto perché, giacché il teatro fu costruito ex novo non si sia data una configurazione continua alla facciata. La risposta più ovvia è che il portico sia stato aggiunto successivamente. Non è così. Il quadro di Gagliardi e Lauri, al di là della struttura provvisoria in legno eretta per la festa, restituisce la forma del teatro come era nel 1656. Il preciso impianto prospettico del dipinto permette di ricostruire una visione della prima forma del teatro, ricavarne una pianta e confrontarla con la planimetria di Létarouilly. 423a. Parziale dal dipinto di Gagliardi e Lauri su cui sono evidenziate le case retrostanti gli spalti per la giostra. In verde i contorni visibili, in arancio quelli dedotti. capitolo i. Luoghi 23 423b. Gli elementi di contorno ricavati dalla figura precedente evidenziano una distribuzione edilizia affatto diversa da quella deducibile dalle piante sette-ottocentesche. 424. a Ipotesi di ricostruzione della planimetria attorno al Teatro Barberini al tempo della «Giostra dei caroselli» (1656) sulla base della pianta pubblicata in Létarouilly 1860; b a fianco l’ingombro edilizio testimoniato già a aprtire dalla pianta di Nolli (1748). L’elemento sorprendente è che il teatro non solo aveva una quinta finestra con cornice proprio in coincidenza del portico, ma si estendeva per tutto l’isolato fino ad affacciarsi sulla via parallela di San Nicola da Tolentino. Il prolungamento è confermato dalla pianta di Roma di Falda del 1678 (seppur qui il porticato sembra avere acquisito un piano in più). 4 25. Particolare da Falda 1676; in evidenza il prolungamento del teatro fino al limitare della strada di San Nicola da Tolentino; si osserva l’aggiunta di un piano ulteriore con tre finestre alzato sopra il portico. 24 42. Riprodotto in Connors– Rice 1991, p. 173; ivi per la datazione. davide daolmi Appare strano a questo punto che il fiammingo Liévin Cruyl, disegnando nel 1665 una veduta di piazza Barberini,42 sembri delineare un edificio ben più corto, forse limitato solo all’aggiunta della quinta finestra del teatro, quella a ridosso del portico (l’originale in piccolo appare ribaltato perché preparato per un’incisione). Ovvero, una raffigurazione assai prossima a quella visibile in due delle quattro tavole di Specchi del Palazzo Barberini (49, 13a) del 1699. 626a. Liévin Cruyl, Piazza Barberini, disegno, 1665. 526b. Particolare del teatro tratto dal disegno precedente (ribaltato). L’unica ipotesi che riesco a formulare è che nel 1665 il prolungamento era già stato scorciato e Falda nel ’76, almeno per i dettagli di Palazzo Barberini, si era rifatto a disegni preparatori ripresi prima del 1665. In effetti nel 1667 Falda aveva pubblicato una più piccola pianta di Roma (dove il teatro mancava del tutto) che rende probabile un lavoro propedeutico databile molti anni prima o comunque realizzato sulla scorta di piante precedenti almeno un paio di decenni.43 5 27. Particolare del teatro tratto dall’incisione di Specchi del 1699 (49). 43. Cfr. Frutaz 1962, ii, tavv. 345-349). Viene spontaneo chiedersi a questo punto se questo edificio del 1656 così allungato – la cui forma ha vita breve, venti-venticinque anni, sostanzialmente in corrispondenza alla documentabile attività del Teatro Barberini – fosse tale per scopi teatrali, per esempio per offrire una prospettiva più profonda o lasciare più spazio al pubblico. Saremmo di fronte a una superficie larga circa 18 metri e mezzo, e profonda più di 70. Apparentemente sproporzionato? Forse, o forse no. Proprio a metà del secolo si andava diffondendo l’uso di allungare drasticamente il palco secondo una pratica già diffusa in Francia (e non è il caso di ribadire quanto i Barberini fossero attenti alle cose d’Oltralpe). Uno dei principali fautori italiani di questo tipo di teatro fu Gaspare Vigarani (15861663), già artefice di importanti teatri a Reggio e Modena. Vigarini presto godette dell’ammirazione di Luigi xiv che nel 1659 lo chiamò a Parigi per costruire la celebre Salle des Machines. Inaugurata tre anni dopo, la Salle occuperà un perimetro murario di circa 20 metri per 70 allestendo un teatro di 13 metri per oltre 60 – in proporzione addirittura più lungo di quello dei Barberini – con una scena profonda ben 35 metri. capitolo i. Luoghi 25 328a-b. Pianta della Salle des Machine (1662), progettata da Gaspare Vigarani, rapportata alla ricostruzione su medesima scala del perimetro del Teatro Barberini comprensivo del prolungamento che arriva alla via di San Nicola da Tolentino. In basso alzata della facciata principale (l’unica visibile). Deduco le dimensioni, con qualche approssimazione, da Létaroilly 1860 (mia ricostruzione442). Dal confronto delle piante si nota come il Teatro Barberini fosse solo po’ più piccolo della Salle des Machines. Ma allora la sala romana è un’anticipazione della scena parigina che ospiterà l’Ercole amante ? Sappiamo da Gualdo che la regina Cristina raggiunse il suo posto attraverso una scala segreta a chiocciola.44 Questo obbliga a supporre che la platea fosse disposta verso il palazzo. Il portico renderebbe infatti disagevole la disposizione di gradoni e palchetti essendo più alto della base del teatro (potendo invece coincidere con il piano rialzato della scena). Bernini però, scenografo per lo spettacolo d’inaugurazione del 1639, era nettamente ostile alle prospettive profonde ‘alla francese’.45 È peraltro possibile che Bernini – la cui partecipazione al progetto del teatro è solo ipotizzata 46 – abbia elaborato la condanna a questo tipo di teatro solo più avanti: forse proprio dopo aver sperimentato la difficile gestione delle macchine e la pessima acustica della scena che il Teatro Barberini aveva rivelato – un ulteriore motivo capace fra l’altro di spiegare l’oblio in cui cadde l’edificio subito dopo il ‘Carnevale della regina’. Mi chiedo se sia possibile che Vigarani sia stato artefice o quantomeno ispiratore del progetto. Elena Tamburini riferisce di un viaggio dell’architetto estense a Roma nel 1645 47 (data certamente successiva all’inaugurazione del teatro ma che non esclude precedenti contatti), e ritiene vi siano motivi comunione fra l’architetto estense e i Barberini, tanto da riconoscere significative similitudini fra il boccascena del loro teatro – 44. «La regina, doppo essersi compiaciuta di osservare la nobiltà degli appartamenti, la ricchezza degli addobbi di quel regio palazzo ornato anche di pitture eccellenti, calò per una scala segreta nel teatro»; Gualdo 1656, p. 237 (ed di Venezia). Pietrangeli 1968, p. 60, riferisce che la scala era chiamata «lumaca»; cit. in Tamburini 1997, p. 251 nota 212. 45. Tamburini 1997, p. 281-282. 46. Tamburini 1997, p. 241 nota 179. 47. Tamburini 1987. 26 48. Tamburini 1997, p. 284. davide daolmi visibile in una delle incisioni della Vita umana – e quello del Nino figlio di Berlingero Gessi, tragedia dedicata proprio l’anno precedente al duca d’Este (e quindi riferibile forse a un teatro modenese); ancora ritrovando motivi di relazione anche nelle architetture francesi degli anni Settanta del più celebre Carlo Vigarani, figlio di Gaspare.48 In effetti si tratta di elementi suggestivi ma labili. Non ci sono prove (a parte la forma esterna dell’edificio) per affermare che il Teatro Barberini fosse all’altezza del 1656 un teatro di tipo francese. Semmai ci sono indizi contrari. Infatti – osserva sempre Tamburini – in occasione dell’inaugurazione del teatro nelle carte del fondo barberiniano si parla espressamente di «stanze dietro la scena» e più precisamente di un «ponte che va alle stanze dietro alla detta scena», frase che chiaramente rimanda al porticato, e che obbliga a far finire la scena prima del detto «ponte». Credo quindi più probabile supporre lo spazio teatrale assai più corto e limitato alle due massicce lesene ancora visibili nella foto dei primi del Novecento (422) che delimiterebbero una profondità complessiva, fra scena e platea di ca. 32 metri (428b, riscostruzione dell’alzata). 49. Tamburini 1997, p. 241 e segg. 529-30. Parziale delle pianta di Giovanni Maggi del 1625 e di Goert van Schayck del 1630 (rist. anast. in Frutaz 1962, ii, tavv. 307-331); cfr. anche Insolera 1980, pp. 262 e segg. 50. Blunt 1958, p. 282. Il Teatro Barberini fu realizzato per opera di Valerio Poggi e Bartolomeo Breccioli. Cominciato nal 1636 fu inaugurato nel Carnevale del 1639 con una riedizione di Chi soffre speri, con scene di Borromini.49 È probabilmente in questa occasione che fu alzata la lunga palazzina a cavallo del viottolo privato. Per quanto è dato capire dalle piante di Maggi (1625) e Schayck (1630), per la verità non troppo precise, già s’individuano abitazioni nell’isolato prospiciente, per cui è possibile che l’edificio sia semplicemente stato addossato a case esistenti, o magari modificate solo in parte. Evidentemente si preferì terminare il teatro al limitare della stradina privata perché si rendevano necessarie stanze dietro il palco per gli attori e il deposito delle scene. Il motivo invece per cui una palazzina sorta ex novo presenti un cornicione che la taglia orizzontalmente, quando dovrebbe essere di un solo piano, e soprattutto preveda un portale forse eccessivamente ingombrante, è chiarito – come già aveva notato Anthony Blunt 50 – da una delle due incisioni che pubblica Pompilio Totti nel suo Ritratto di Roma moderna capitolo i. Luoghi 27 del 1638 (431) dove ben si comprende come Pietro da Cortona avesse realizzato un semplice muro divisorio fra la Cavallerizza e il giardino, muro che poi fu evidentemente integrato nell’edificio teatrale. A essere pignoli si potrebbe pensare che l’impianto architettonico reso dal dipinto di Gagliardi e Lauri non fosse già tale nel 1639. Fino al ’56 non sopravvivono infatti raffigurazioni delle case prospicienti il palazzo e, pur non essendovi in quell’anno specifiche notizie di modifiche architettoniche, Gualdo riferiva che per la giostra fu necessario «demolire alcune loro case contigue».51 Un confronto fra il grande dipinto e l’incisione di Totti mostra come nessuna casa occupasse precedentemente il cortile della Cavallerizza; ciò farebbe supporre che per l’occasione proprio la fisionomia muraria del teatro fosse stata alterata dandogli la forma allungata di cui s’è detto. Ma non è così. Il grande arco per cui accedevano carri e cavalieri si trova infatti addossato alle case retrostanti; sarebbe stato un arco cieco se non si fosse aperto un varco radendo al suolo, anche solo provvisoriamente, le case che ne ostruivano l’ingresso. È certamente qui che si è dovuto abbattere alcune case. Di questa demolizione non è rimasta traccia in piante o incisioni perché, dopo il 1656, la prima planimetria di Roma data solo al 1678, quando fu disegnata la preziosa vista a volo d’uccello di Falda. D’altra parte proprio nel dipinto di Gagliardi e Lauri appare visibile la fine del tetto di una casa al di là degli spalti, parallela al cortile della Cavallerizza, il cui muro coincide con un varco che sembra il proseguimento dell’ingresso dell’arco trionfale (423a-b). Se non c’è motivo di credere che le demolizioni di cui dice Gualdo debbano essere qualcosa di diverso dall’apertura utile al detto arco, assenti altre notizie di alterazioni architettoniche, credo verosimile che la forma allungata dell’edificio teatrale possa ritenersi tale fin dall’inizio. S ciolti alcuni dubbi, per quanto possibile, vorrei tracciare in conclusio ne le fasi degli allestimenti barberiniani in relazione alla costruzione del Palazzo alle Quattro Fontane e successivamente all’apertura del teatro. Ricordavo precedentemente come il palazzetto che oggi prende il posto del teatro fosse addossato ad antichi archi romani. Nella prima pianta planimetrica di Roma, disegnata con cura del particolare da Leonardo Bufalini e pubblicata nel 1551, la zona appare pressoché disabitata, ma sono ancora riconoscibili i reperti antichi. Per individuare esattamente la corrispondenza con la rete viaria attuale è necessario riconoscere su una pianta moderna quelli che sono i punti di riferimento ancora presenti dopo cinque secoli. 531. Incisione anonima pubblicata in Totti 1638, p. 275. 51. Gualdo 1656, p. 247 (ed. di Venezia). Sui resti del vecchio Campidoglio 28 432c. Particolare della pianta di Leonardo Bufalini (1555) che individua i resti archeologici su cui sorgerà Palazzo Barberini. Sulla pianta di Bufalini v. Insolera 1980, p. 112 e segg.; per un’edizione moderna della pianta e di quelle che seguono v. Frutaz 1962. 52. Che le rovine siano il vecchio Campidoglio o il Circo di Flora non so dire. In un codice anonimo della Avery Library della Columbia University, intitolato Description de Rome moderne, databile fra il 1677 e il 1681 si legge (adotto la traduzione della moderna edizione di Connor–Rice 1990, p. 138): «I giardini del Palazzo [Barberini] non hanno nulla di straordinario, se non il fatto che poggiano sulle rovine del primo Campidoglio, sorto in questo luogo fin dalla nascita di Roma». davide daolmi 532a-b. Frammento della pianta di Bufalini a confronto con una moderna cartina (stesso orientamento). In rosso le mura romane (tratto più spesso), le due strade che parallele raggiungono Porta Pia (1) e Porta Salaria (2), le chiese di Trinità dei Monti (3), di Santa Maria Maggiore (4), e infine l’esedra delle Terme di Traiano (5). In blu le strade aperte successivamente: la traversa dell’esedra traiana e il collegamento fra Trinità dei Monti e Santa Maria Maggiore che incontra l’attuale via xx settembre all’incrocio delle Quattro Fontane. In verde la via interna al quadrilatero, oggi scomparsa. La pianta, già allungata in orizzontale, patisce in questo punto ulteriori alterazioni. Per evitare di posizionare le Terme di Traiano a cavallo di due lastre Bufalini fa slittare il perimetro verso l’alto dilatando ulteriormente l’area dove sorgerà Palazzo Barberini. Ciò malgrado il disegno è straordinariamente accurato e dà conto della zona quand’era ancora coltivata a vigneti. Nel particolare s’individua un reticolato detto «Capitolium veterum sacellum Iovis, Iunonis et Minervae»; più sotto un recinto quadrato è indicato come «Vinea cardinalis Carpi», mentre la strada a destra, la via Pia, poi xx settembre, è detta «Alte semitae». Attorno alla villa, collocata la centro della vigna del cardinale Rodolfo Pio da Carpi, sorgerà il primo nucleo dell’attuale Palazzo Barberini, e gli archi del reticolato (opus reticolatum) del vecchio campidoglio (che pare sostenessero il Circo detto di Flora) sono quelli che si riconoscono ancor oggi alle spalle dell’ex Teatro Barberini.52 capitolo i. Luoghi La villa Carpi, già di Giacomo Cesi, fu acquistata nel 1549 e rivenduta a Giulio Della Rovere nel 1565, passò quindi in eredità al duca Francesco Maria d’Urbino per essere rivenduta al cardinale Alessandro Sforza dei conti di Santa Fiora nel 1578.53 La pianta di Etienne Dupérac del 1577 restituisce la forma assunta dalla villa Carpi e rivela come l’opus reticulatum fosse ormai ridotto a terrapieno di cui sopravvivono i ruderi esterni ad arco addossati al colle e riconoscibili fin sotto il fianco Nord della villa. 29 53. Per queste e le successive notizie sulle vicende di Palazzo Barberini v. la bibliografia in Negri 1995; una prima apprezzabile sintesi era già in Golzio 1971, p. 35 e segg. Gli Sforza trasformarono la villa in un massiccio palazzo a strapiombo sugli archi romani, come mostra la pianta di Antonio Tempesta del 1593 e, più in dettaglio, un’incisione di Alò Giovannoli dei primi anni del Seicento. 633. Particolare della pianta di Dupérac del 1577 ribaltata di ca. 180° rispetto a quella di Bufalini (la strada in rosso sulla destra è via Pia, l’attuale via xx settembre). 534. Particolare della pianta di Antonio Tempesta del 1593 (orientamento coerente a Bufalini, seppur poco più inclinato). 335. Incisione di Alò Giovannoli del vecchio Palazzo Sforza su i resti del vecchio Campidoglio. Il Palazzo Sforza – oggi visibile alle spalle dell’ex Teatro Barberini – ha subìto tali modifiche da apparire irriconoscibile, ma ha ancora le sue fattezze originarie nel dipinto di Gagliardi e Lauri, come nell’incisione di Specchi (42, 13). Si nota inoltre nella pianta di Tempesta la presenza della nuova via Felice (oggi Sistina / Quattro Fontane / De Pretis) che Sisto v aveva aperto nel 1588 tagliando in due la proprietà dei Grimani: l’area Nord così creata fu venduta agli Sforza l’anno successivo. Qui verranno cominciati i lavori di ampliamento del palazzo, occupando quello che sarà il braccio Nord del moderno Barberini. La pianta di Matthaus Greuter del 1618, oltre a dare un’idea dell’ampliamento in corso testimonia una definitiva sistemazione dell’isolato molto vicina alla forma odierna. Nel 1625 gli Sforza, a seguito di un tracollo finanziario, vendettero palazzo e terreno al cardinale Francesco Barberini che donava la re- 636. Vista dalla pianta di Greuter (1618) poco prima della costruzione di Palazzo Barberini. -ri a -f er 30 davide daolmi 54. Blunt 1958, p. 260. 55. Non ho potuto verificare un’ulteriore opportunità. La pianta comunemente nota di Maggi non è quella stampata da Paolo Maupin nel 1625, ma la ristampa di Carlo Losi del 1774, e forse è possibile che questi abbia operato alcuni ammodernamenti alle lastre originarie. 56. Così la tesi di Waddy citata in Hammond 1994, p. 330 nota 7. Spettacoli 57. Hammond 1994, p. 201. 58. Di cui racconta Rolland 1902. sidenza al fratello Taddeo, desideroso di trasformare il luogo in una delle più prestigiose corti romane. La pianta di Giovanni Maggi (429), incisa proprio quell’anno, propone il Palazzo Sforza in una forma assai più articolata e molto vicina a quello che sarà del Barberini. Antony Blunt suppone che Maggi abbia solo preannunciato quello che sarà il futuro progetto Barberini 54 ma, se è vero che spesso le piante presentavano progetti in corso, in questo caso l’anticipazione sembra ai limiti della preveggenza, considerando che una stampa si completa mesi prima e che quell’anno c’era stato solo un passaggio di proprietà, i lavori cominciando solo due anni dopo. È forse più semplice supporre che Maderno, l’architetto dei Barberini, abbia recuperato il progetto precedente (sempre che non fosse egli stesso responsabile dei lavori degli Sforza).55 Non mi occuperò delle complicate questioni che entusiasmano gli storici dell’arte sulle paternità di costruzione di Palazzo Barberini che vedono coinvolti i quattro più grandi architetti dell’epoca, Maderno, Cortona, Borromini e Bernini. Mi basta osservare che i Barberini acquistarono un edificio già abitabile, seppur assai diverso dalla forma definitiva, tanto da permettere a Maffeo Barberini di insediarsi fin dal 1626 e di dare da subito ricevimenti e banchetti.56 L a prima opera in musica di cui si ha notizia, accolta in una sala imprecisata del palazzo – ormai comunemente chiamato «alle Quattro Fontane» ma ancora dalle vecchie fattezze ‘sforzesche’ – è dell’estate 1628. Si tratta del Contrasto di Apollo e Marsia che Hammond ha voluto individuare nel Marsia di Ottavio Tronsarelli, libretto pubblicato nel 1631. L’opera, sempre secondo le ipotesi di Hammond, sarebbe stata interpretata dal castrato Marcantonio Pasqualini, giovandosi delle musiche di Kapsberger.57 Già nel 1632 il nuovo Palazzo Barberini è pressoché completato e pare agibile nella sua gran parte. È di questo Carnevale l’allestimento del Sant’Alessio di Landi e Rospigliosi, spettacolo già programmato per il Carnevale precedente presso l’altro Palazzo Barberini, quello ai Giubbonari, ma forse mai andato in scena. In questa occasione sappiamo anche, dalla testimonianza di Jean-Jaques Bouchard,58 che l’opera fu allestita nella stanza detta Sala dei marmi (o delle statue) a fianco del salone principale (437), quello celeberrimo al primo piano affrescato da Cortona (il soffitto sarà terminato solo nel 1639). La pianta del piano nobile è quella, al solito, pubblicata da Létaroully, dove è chiaramente individuabile la sala per il teatro. Oggi parte dell’ala del Circolo delle Forze Armate, lo stanzone continuerà a essere usato per feste e banchetti anche nei secoli successivi. Un dipinto di Carlo Santarelli del 1876 ricorda la festa per la vittoria di Mentana dove il lato corto mostra un trionfale banchetto: la sala appare forse un po’ angusta ed eccessivamente alta, ma misurava 13 metri per 17 e, se rapportata al cornicione esterno, non doveva essere alta più 337. Pianta di Palazzo Barberini (piano nobile) da Létarouilly 1860; in evidenza la Sala dei marmi. capitolo i. Luoghi 31 di 8 metri e mezzo. In realtà questa sala come il salone affrescato dal cortona e la sala ovale, godono di un soffitto a volta che occupa parte del piano superiore. La parete in fondo raffigurata da Santarelli è perfettamente in proporzione con un rettangolo di metri 9 × 12,5 misurato al cornicione, ovvero escludendo la rotondità del soffitto. Un elemento prezioso per quanto dirò più avanti. In questo primo Sant’Alessio le scene dovevano essere dello stesso Cortona, mentre alle macchine sovrintese probabilmente Valerio Poggi (colui che poi progetterà il Teatro Barberini): corago generale, oltre che librettista, Giulio Rospigliosi. Eppure il residente fiorentino ebbe modo di lamentarsi della qualità dell’allestimento, che invece piacque molto a Bouchard. 59 La differenza di giudizio è evidente: a Roma, come a Parigi, erano ancora ignote le quinte mobili che già Francesco Guitti aveva usato nei celebri Intermedi fiorentini del 1626 e di nuovo nel 1828 per l’inaugurazione del Teatro Farnese di Parma. Non è un caso, quindi, che proprio Guitti fosse chiamato per il Carnevale successivo ad allestire in quella stessa sala l’Erminia sul Giordano – libretto, al solito, di Giulio Rospigliosi, scene di Andrea Camassei, musica di Michelangelo Rossi.60 Per la prima volta Roma godette della meraviglia delle quinte a scomparsa.61 La lettera introduttiva della partitura a stampa pubblicata nel 1637 si sofferma proprio sui piacevoli inganni delle macchine e delle volubili scene che impercettibilmente fecero apparire, ora annichilarsi un gran rupe e comparirne una grotta e un fiume dal quale si vede sorger prima il Giordano e poi le Naiadi; ora venirsene Amore a volo et appresso nascondersi fra le nuvole; ora per i sentieri dell’aria in un carro tirato da draghi portarsi Armida et in un baleno sparire; ora cangiarsi l’ordinaria scena in campo di guerra, le selve in padiglioni e le prospettive del teatro in muraglie dell’assediata Gerusalemme; ora da non so qual voragine di Averno far sortita piacevolmente orribile i demonii in compagnia di furie, le quali insieme danzando et assise poscia in carri infernali per l’aria se ne sparissero … Certo tanto impegno scenotecnico, testimoniato dalle riproduzioni di cinque mutazioni incise da François Collignon e inserite nella partitura,62 obbliga a supporre un teatro pur provvisorio ma nient’affatto improvvisato. La stanza era piuttosto ampia e – ovunque fosse sistemato il palco – poteva godere di uscite posteriori e laterali. Spazio pertanto più che degno ma non immenso. Eppure le scene mostrano da due a quattro paia di quinte, oltre al fondale e alla macchina per nuvole e amorini. Venezia, i cui teatri erano privi di sottopalco (per motivi ‘lagunari’), aveva insegnato a usare la 538. Carlo Santarelli, Sala dei marmi di Palazzo Barberini (1867), olio su tela, Roma, Museo di Roma. 59. Per un approfondimento anche bibliografico sulla rappresentazione v. Hammond 1994, p. 202 e segg.; da integrare con Tamburini 1997, p. 240 nota 175. 60. Hammond 1994, p. 205 segg. 61. Bjurström 1961, p. 27. Rossi 1637, «Lo stampatore a chi legge». 62. Le cinque scene e frontespizio compaiono anche in d’Afflitto–Romei 2000, pp. 21, 43-45. 32 davide daolmi parte superiore della scena per collocare carrucole e tiranti, e si comprende quanto il soffitto a volta sia stato qui sfruttato alla scopo. 63. Pubblicate in Landi 1634; le incisioni sono riprodotte anche in D’Afflitto–Romei 2000, pp. 38-41, con la curiosa didascalia: «Prospettive delle sciene della famossissima rappresentazione di S. Alessio fatta dall’E.mo Sig. Card. Barberino nel Palazzo della Cancelleria in Roma»; non ho idea dove si tragga la frase (né è detto nel volume) ma soprattuto non so che c’entri la Cancelleria quando le altre fonti note in nessun caso collocano il Sant’Alessio in quel palazzo. 539a-b. Le ipotesi d’ingombro della sala sulla base delle incisioni delle scene di Erminia e Sant’Alessio. L’impressione, sulla base della dimensione dei personaggi è che nel secondo caso sia stato ammpliato decisamente il boccascena. A fidarmi delle incisioni del ’37 potrei dire, sulla scorta delle dimensioni dei personaggi raffigurati e dello spazio della della sala, che il boccascena poteva misurare circa 8 metri per 5 e mezzo lasciando due-tre metri ai lati e, con un palco non troppo elevato (non oltre un metro), due metri in alto, più la volta. Siamo veramente al limite per contenere eventuali macchine sceniche: eppure, a quanto pare, l’opera fu rappresentata con successo, e il Carnevale seguente adottò una soluzione scenica addirittura più ardita. Nel 1634 – l’anno della «Giostra del Saracino» di piazza Navona – fu infatti riproposto il Sant’Alessio, ma questa volta con cambi di scena a vista, come erano stati sperimentati per l’Erminia. Se ne pubblicò la partitura quell’anno stesso con ben otto incisioni sempre di Collignon.63 Questa volta il rapporto fra la prospettiva e i personaggi fa supporre un netto ingrandimento del boccascena ma, elemento singolare, la proporzione del boccascena, presente nell’incisione, coincide perfettamente con le dimensioni del salone precedentemente calcolate: ovvero di 8 metri e mezzo di altezza e 13 metri di larghezza (parete corta). Supponendo che l’arco scenico aderisse ai muri, si viene a confermare l’allargamento del boccascena. Non ho difficoltà ad ammettere che si tratta di correlazioni forse del tutto artificiali, potendo le immagini non essere così fedeli. L’arcoscenico in effetti – inciso su calco separato perché non fosse ridisegnato ogni volta – potrebbe essere una semplice cornice decorativa, diversa dalla disposizione praticata. D’altra parte le proporzioni fanno supporre una certa attenzione alla verosimiglianza. Ma allora, se l’incisione riproponesse fedelmente l’impianto teatrale originale si deve ammettere un duplice artificio scenotecnico: lo stupore offerto al pubblico e la soluzione meccanica capace di operare in uno spazio tanto angusto. A malapena sembra infatti ci sia modo di muovere le quinte ma, soprattutto, è la discesa della nuvola con trionfo di angeli musicanti dell’ultima scena che – apparentemente irrealizzabile – lascia senza parole. Apparenza, questa della nuvola, tipica del teatro barocco, che in questa circostanza – una sala di palazzo priva di torre e graticciata – obbliga ad artifici meccanici infinitamente più ingegnosi. capitolo i. Luoghi 33 340. Scena finale del Sant’Alessio (non riprodotta nell’anastatica di Forni), in cui cala la nuvola con angeli musicanti che tanto impressionò i cronisti. A meno che non si sia fatto un buco nel soffitto, per far scendere tanto apparato bisogna infatti ammettere che la nuvola sia composta di due parti con un elemento che cala fra il secondo e il terzo paio di case e l’altro fra queste ultime e il fondo. In tal modo non solo si dimezza l’altezza complessiva della macchina ma, completamente alzata, la si confonde con i teli di cielo. Credo poi che il meccanismo a quinte mobili non fosse ancora quello «torelliano», dove il rientro di un telaio provocava l’uscita dell’altro, permettendo quindi un continuo e sempre vario cambio di scene. Qui l’impianto della città, ancora di reminiscenza serliana, è probabilmente fisso e quasi certamente tridimensionale. 641. La probabile organizza- zione scenica del Sant’Alessio: tre paia di elementi fissi per la città, altrettante quinte piatte e mobili riproducenti il giardino (e, in altra occasione, la grotta d’Averno), i due piani di fondo (viola e giallo) e la macchina della nuvola distribuita su due livelli (rosso e blu). 34 davide daolmi Non si spiegherebbe altrimenti perché ad ogni quinta debba corrispondere una casa separata, obbligando a improbabili strade traverse, e non venga realizzato l’inganno prospettico dell’edificio continuo. Fra un elemento fisso e l’altro della città passavano probabilmente le quinte piatte a forma di roccia o di albero che, sovrapponenedosi alle case mutavano completamente scena. Si tratta di un procedimento ancora ibrido, di scena solo parzialmente a scomparsa – dove a una scena fissa tridimensionale, se ne alterna una sempre mutevole su quinte piatte – che condizionerà anche l’impianto drammaturgico di Armi e amori, tanto da indurmi a pensare che la tecnica scenografica romana degli anni Cinquanta non si fosse tenuta aggiornata rispetto alla pratica ormai in uso nell’Italia del Nord. 64. Murata 1975 [1981], p. 2831, 253-257; Hammond 1994, pp. 224-226. Sul riciclaggio delle scene v. Povoledo 1998. Il nuovo teatro 65. Murata 1975 [1981], p. 3234, 258-262; Hammond 1994, pp. 226-227 e ad indicem. 66. Vedasi qui Marazzoliana p. 208. 67. Lettera di Giulio Ropigliosi (Roma) al fratello Camillo (Pistoia) del 1° gennaio 1638 (I-Rvat, Vat. lat. 13363, c. 1) cit. in Murata 1981, p. 290. In occasione del Carnevale del 1635 la sala delle Quattro Fontane accolse I santi Didimo e Teodora di Rospigliosi. L’allestimento, a quanto riferiscono i dispacci romani, non fu meno impegnativo dei precedenti, ma non sopravvivono le incisioni delle scene che certamente riprendevano l’apparato e le macchine già usate in Erminia e Alessio.64 La musica, forse di Stefano Landi o Virgilio Mazzocchi, è perduta. Ormai il «dramma in musica» dei Barberini era il vero momento clou del Carnevale romano e si rese evidente quanto era scomodo allestire uno spettacolo tanto complesso all’interno di una sala di rappresentanza. Francesco, Antonio e Taddeo Barberini pensarono così di erigere un teatro che permettesse di svolgere anche una funzione propagandistica, estendendo il prestigio familiare non solo ai nobili invitati ma anche a un più vasto pubblico di borghesi, artigiani e curiosi. Lo spazio scelto fu il giardino a nord, separato dal bel muro disegnato da Cortona (431). Il costruirvi lì una palazzina avrebbe inoltre occultato i «grottoni» romani sottostanti al vecchio Palazzo Sforza (435) che facevano forse ‘vestigia antiche’ ma che ormai a fianco del nuovo modernissimo Palazzo Barberini rischiavano di sfigurare. L’edificazione del teatro durò circa tre anni. Durante i Carnevali che precedettero l’inaugurazione fu sempre il salone interno ad accogliere gli spettacoli più impegnativi. Nel ’36 furono replicati I santi Didimo e Teodora; mentre nel ’37 si vide uno spettacolo del tutto nuovo, L’Egisto. Immancabilmente su libretto di Rospigliosi, ebbe la musica di Domenico Mazzocchi – l’autore della Catena d’Adone rappresentata a Parma nel ’26 – e Marco Marazzoli, musico dei Barberini già dalla fine degli anni Venti.65 Nell’anno successivo, il 1638, la solita sala del palazzo accoglie a quanto pare un solo ballo pantomimico, La pazzia d’Orlando, su soggetto sempre di Rospigliosi e musica, forse, di Marazzoli.66 La nuova opera di Rospigliosi, Il san Bonifacio, va in scena invece al palazzo della Cancelleria, ma «sarà cosa ordinaria senza nessuna mutazione di scena o apparenza».67 Forse le spese per il nuovo teatro quasi completato obbligano a ristrettezze; di altri motivi non è dato sapere. Per il carnevale del 1639 il teatro è pronto. Possiamo ipotizzarne una visione prospettica dell’esterno, secondo quanto osservato nelle pagine precedenti, assai diversa da come ce lo raffigurerà Specchi alla fine del secolo (423b). Ma se come pare di capire, il perimetro dell’edificio teatrale capitolo i. Luoghi 35 rimaneva confinato nella zona corrispondente al giardino si deve supporre che le successive alterazioni architettoniche non furono legate a esigenze dello spazio teatrale. Se ne può ipotizzare pianta e alzato. 342. Ipotesi di pianta originaria del Teatro Barberini (mia ricostruzione). Che la platea fosse sul modello del Teatro Farnese è solo una supposizione, ma sembra improbabile che adottasse eventuali soluzioni più complesse (ad esempio palchetti o ballatoi) essendo, almeno fino al 1642, una struttura provvisoria presente solo nel tempo del Carnevale. In questa prima fase, come detto, l’allestimento di scena e platea è ancora provvisorio, dismettendosi probabilmente a fine Carnevale e destinando lo stanzone ad altri scopi. Ma certamente gli allestimenti qui collocati saranno stati più spettacolari di quanto non avessero fatto precedentemente gli stessi Barberini. Il teatro fu inaugurato con una ripresa dell’Egisto ovvero Chi soffre speri. Allestimento celeberrimo e studiatissimo,68 ricordato soprattutto per La fiera di Farfa, l’intermezzo composto da Marazzoli che riproduceva, con animali veri in scena, il trambusto di un mercato il giorno di festa: idea di Bernini (unico caso fra tutti gli allestimenti barberiniani in cui il suo nome compaia esplicitamente nei conti di spesa).69 Si intuisce subito come il nuovo spazio abbia stimolato ad apparizioni particolarmente spettacolari. Purtroppo non si hanno immagini dello spettacolo, né del nuovo teatro. L’unica raffigurazione dell’interno del teatro è quella della Vita umana di 17 anni dopo; troppo lontano per un teatro che veniva rifatto ogni anno, che ebbe forma definitiva solo nel 1642 e fu di nuovo restaurato nel 1654, dopo quasi dieci anni di inattività. Eppure un particolare po- 68. Oltre Murata e Hammond segnalati precedentemente (e relativa bibliografia) v. soprattutto Bianconi– Walker 1985. 69. Hammond 1994, p. 237; v. inoltre Tamburini 1997, p. 245 nota 192. 36 70. Bianconi–Walker 1985 [1993, p. 224]. davide daolmi trebbe indicare una continuità: le quattro colonne di proscenio della Vita umana (1656) sono pressoché identiche a quelle del Sant’Alessio (1634). Una nota di spesa dell’Egisto precisa che si recuperarono le quattro colonne usate l’anno prima nel Palazzo della Cancelleria, ovvero dove si era allestito il Bonifacio.70 443a-b. Confronto fra i capitelli delle colonne di proscenio raffigurate nelle incisioni per il Sant’Alessio (1634, Sala dei marmi) e per la Vita umana (1656, Teatro Barberini). Che siano sempre le stesse quattro colonne che, di volta in volta restaurate e magari ridipinte, continuarono a ricomparire per quasi un quarto di secolo (1634-1656)? È un elemento interessante che potrà servirci poi. 71. Bianconi–Walker 1985 [1993, p. 224]. 72. Cit. in Tamburini 1997, p. 242 nota 180. Sappiamo inoltre che furono realizzate guide per le scene mobili sia sopra che sotto il palco;71 e che tali scene erano «grandi doi terzi più degli altri anni».72 Informazione che trova piena conferma nel confronto fra le dimensioni della sala interna al palazzo e quelle del nuovo teatro, più alto esattamente di due terzi (senza contare il tetto). 444. Sezione della Sala dei marmi (lato corto, parallelo all’arcoscenico) a confronto con il Teatro Barberini: lo spazio della scena aumenta in altezza di due terzi rispetto alla sala più piccola (rapporto di 3 a 5). 73. Tamburini 1997, p. 243. 74. Cit in Ademollo 1888, p. 30. Si sa inoltre che l’orchestra era disposta ai piedi del palco separata da una struttura in ferro battuto e che il sipario veniva sollevato.73 Non moltissimo in verità per farci un’idea più precisa dell’interno. E soprattutto nulla si sa sulla disposizione del pubblico. Nel noto dispaccio di Montecuccoli si accenna alla difficoltà di sistemare la gran quantità di persone accorse e si precisa che il cardinale Antonio Barberini aveva chiesto al residente estense di attendere in un cortiletto fin tanto che fosse stata sistemata «la gente di minor conto per poter poi dare luogo migliore a me e a chi era meco».74 Da questa affermazione non sembra potersi riconoscere spazi differenziati per nobili e borghesi. Inoltre la precisazione sempre di Montecuccoli che Francesco Barberini «andando banco per banco con modi umanissimi e di somma cortesia, fece per quanto possibile stringer ognuno» mi fa credere una volta di più che il pubblico fosse sistemato su semplici gradoni («banchi»), forse a ferro di cavallo, sul modello del Teatro Farnese. Ciò non esclude la possibilità che vi fosse capitolo i. Luoghi 37 anche un limitato numero di palchetti destinato forse alle dame o ai nobili di maggior rango, tuttavia tale soluzione ibrida, senz’altro adottata nella sistemazione del 1642 (v. oltre), sembra troppo complessa per un teatro da smontare a fine Carnevale. Quello stesso Carnevale il nuovo teatro ospitò anche una ripresa del San Bonifacio.75 Poi più nulla. Non ci sono notizie circa gli allestimenti del Teatro Barberini per il Carnevale 1640 e per l’anno successivo ci si deve accontentare della laconica nota del residente veneto che accenna a «commedie et rappresentazioni ben sontuose reiterate più d’una volta in casa de’ Cardinali Barberino e Antonio con musiche di concerto di voci oltre l’ordinario …».76 Non è realmente certo che ci si riferisca a opere vere e proprie, e stupisce in effetti come, inaugurato il nuovo teatro, i drammi barberiniani di cui Roma parla vengano rappresentate altrove. È possibile forse che, in una drammaturgia tutta barocca della propria immagine, i Barberini abbiano voluto porre un tempo d’attesa prima dell’anno 1642; non è da escludere però che l’assunzione della direzione della famiglia da parte di Antonio Barberini possa aver avuto gioco nell’enfasi celebrativa dell’occasione, data in cui forse si segna la conclusione ufficiale dei lavori del Palazzo alle Quattro Fontane. Quest’anno Girolamo Teti pubblica infatti le Aedes Barberinae, dedicate a Mazzarino, dove il panegirico alla famiglia del papa è filtrato dalla celebrazione del nuovo palazzo. Il frontespizio che riproduce la residenza completata mostra, a lato, anche il nuovo teatro da poco realizzato. Si tratta a mia conoscenza della raffigurazione più antica del teatro. Ma c’è dell’altro. Come già aveva rilevato Pietrangeli (poi reso noto da Tamburini), il Teatro Barberini fu completamente ristrutturato proprio in occasione del Carnevale del 1642, venendo ad accogliere un impianto architettonico finalmente stabile e destinato esclusivamente alle rappresentazioni.77 Il teatro sembra così assumere un suo specifico ruolo politico, non solo come sede mediatica ma anche come struttura architettonica capace, nel decoro e nella magnificenza, di essere di per sé emblema di potenza. L’opera con cui s’inaugura la rinnovata sede s’intitola, non ce ne stupiamo, Il palazzo d’Atlante, riferimento chiaramente destinato a usare l’edilizia come specchio della monumentale grandezza del suo proprietario. Non bisogna farsi ingannare dai significati che propone l’Allegoria et argomento pubblicato per l’occasione:78 qui si spiega come il palazzo altro non sia che la vanità di ciò che si desidera («una immagine della vita umana») ovvero il piacere procurato dai beni materiali; mentre il mago Atlante è il mondo personificato, artefice e creatore di questi beni-apparenza. Questo significa che in Atlante/Barberini si dovrebbe 75. Hammond 1994, p. 234235. 76. Cit. in Hammond 1994, p. 241 e nota 127. 345. Antiporta figurata delle Aedes Barberinae (Teti 1642). In alto il particolare del Teatro Barberini individuato dal rettangolo. 77. Tamburini 1997, pp. 243244. 78. Rospigliosi 1642 (pubblicato con la data erronea 1662; cfr. Franchi 1988, pp. 96-97). 38 davide daolmi forse riconosce l’Ercole-demiurgo che erige altari (o palazzi del piacere) alla gloria di se stesso? Se il soggetto sembra incensare il committente, la metafora ne svela la vanità dell’azione: strana allegoria davvero. Autore del libretto e della spiegazione del soggetto è, come sempre, Giulio Rospigliosi che, attraverso questo gioco di significati contrastanti, rivela tutta la sua abilità diplomatica nel riuscire a far prevalere, pur con qualche sofisma, una severa rettitudine morale anche in occasione delle più esplicite manifestazioni di omaggio cortigiano. 79. Hammond 1994, pp. 243253; v. anche Murata 1981, pp. 42-44, 301-306. 80. Tamburini 1997, pp. 244 nota 191. La musica dello spettacolo che durò più di sette ore fu di Luigi Rossi, la cui raffinatezza melodica può forse aver compromesso la tenuta drammatica lamentata da qualche spettatore.79 Il bilancio conclusivo fu però un successo, malgrado i numerosi problemi che precedettero l’allestimento legati ai malori di Rossi e a certa inesperienza dello scenografo Andrea Sacchi.80 La forma assunta dal teatro a questa altezza cronologica è, seppur completamente rinnovata, con tutta probabilità molto vicina a quella provvisoria del ’39 ma quasi nulla si sa di preciso. Rospigliosi dice il teatro capace di 3500 persone, cifra sorprendente se si pensa che oggi la Scala non accoglie più di 2500 persone (e gode di una platea profonda 20 metri, 4 ordini di palchi e due gallerie). Se tuttavia forse tal numero appare eccessivo, certo non dubito che ogni spazio fosse sfruttato al suo meglio: gradoni a ferro di cavallo tutt’attorno, panche parallele in platea (improbabile vi fosse gente in piedi visto la durata degli spettacoli), gallerie e palchetti addossati ai muri senza divisori. Anche in questo caso, come dopo l’inaugurazione del ’39, per gli anni successivi non ci sono notizie di presunti altri allestimenti nel teatro. Improbabile però che dopo tanto sforzo lo spazio fosse lasciato chiuso, credo invece che il suo utilizzo più o meno sistematico, accompagnato da allestimenti di non particolare preminenza – balli, commedie, accademie, cantate – abbia indotto i cronisti a trascurare il luogo e gli spettacoli. Almeno per i primi due anni. 81. Chiomenti Vassalli 1979, cap. xx. 82. Murata 1975 [1981], pp. 52 e segg., 348-351; Ciliberti 1986, pp. 263-330. Dopo la morte di Urbano viii (1644) e la caduta in disgrazia con fuga a Parigi dei Barberini, non solo il teatro, ma il palazzo stesso fu chiuso e lasciato alla cura di pochi camerieri. La crisi della famiglia si protrasse fino al 1653 quando il famoso matrimonio di Maffeo e Olimpia sancì la riconciliazione. Ma le vere feste di nozze si ebbero solo con il Carnevale successivo, perché la dodicenne giovane sposa, maritata a forza dalla famiglia, s’era rinchiusa nelle sue stanze di Piazza Navona e – sembra riconoscersi il piglio caparbio della nonna Maidalchini – s’era rifiutata per oltre sei mesi di mettere piede alle Quattro Fontane.81 Il Carnevale del ’54 vide a Palazzo Barberini banchetti e balli, una giostra in cui trionfava il ventenne Maffeo sul Carro del Sole e, nel teatro per l’occasione liberato da nove anni di polvere, una commedia di Pompeo Colonna con intermedi in musica e l’opera Dal male il bene (ancora un titolo emblematico).82 Per i capricci di Olimpia fu il Carnevale la vera festa di nozze e si spiega così perché Allacci leghi Dal male al bene al matrimonio principesco, facendo cadere in errore chi ha voluto anticipare la prima dell’opera al 1653. capitolo i. Luoghi Come già accennato il Carnevale del ’55 passò sotto silenzio a seguito del conclave e il 1656 segna la data ultima della vita del teatro, almeno di quella documentata. Dopo il «Carnevale della regina» sembra che il teatro abbia chiuso i battenti. Sarà stato proprio così? Forse, come per i ‘buchi’ degli anni precedenti, le rappresentazioni ivi allestite saranno parse troppo ordinarie per meritar menzione. Certo è che con gli anni Sessanta del secolo il prestigio teatrale romano, a parte le occasionali esuberanze di Cristina, si rivolge decisamente alle iniziative di Lorenzo Onofrio Colonna.83 39 83. Tamburini 1997. Tuttavia la partitura a stampa della Vita umana offre alcuni incisioni della scena e una di queste propone l’arco scenico con il sipario calato. La villa raffigurata sul telo sembra voler essere un omaggio alla celebre villa di Caprarola costruita dal Vignola per il duca di Parma: chissà, forse si può azzardare che si volesse suggerire un riferimento a Palazzo Farnese, residenza romana della regina Cristina, anch’essa proprietà del duca. 346. La prima delle cinque incisioni che ornano la partitura della Vita umana (Marazzoli 1658); disegno di Giovanni Francesco Grimaldi, incisione di Giovanni Battista Galestruzzi. 647. Un foto della villa di Ca- prarola del duca di Parma; progetto di Giacomo Vignola (1507-1573). L’altro aspetto interessante è la notizia di fontanelle e giochi d’acqua che ornavano il proscenio del 1639, gli stessi, apparentemente, che ricompaiono nell’incisione della Vita umana.84 Se è quindi vero che il teatro ebbe numerosi rifacimenti, è ragionevole supporre – anche in considerazione del probabile riutilizzo delle colonne – che questi non siano stati così radicali e che la fisionomia della scena proposta dall’incisione del 1656 non debba essere molto diversa dalla prima impostazione del teatro. Altre osservazioni si possono fare sulle dimensioni. Se anche in questo caso la struttura venisse a coincidere con le pareti com’era per il Sant’Alessio dovremmo ammettere un boccascena enorme, e un limitatissimo spazio per le macchine. Se invece si supponesse un boccascena più piccolo (proporzionato cioè alle colonne) non solo vi sarebbe l’altezza necessaria sopra la scena (nell’incisione si nota chiaramente il proseguimento del muro sopra l’arco scenico), ma anche sufficiente spazio ai lati 84. Tamburini 1997, p. 243. 40 85. «Sarà cosa molto buona, quando si possa e si abbia comodo, fare le dette entrate e scale con li corridori che portano sopra ai gradi o palchetti per di fuori del recinto del teatro, cioè de’ muri di quello … così l’auditorio non resterà impedito d’udire li recitanti dal rumore che possa far la gente nel camminare», dall’ed. mod. di Craig 1972, p. 6. davide daolmi della scena che renderebbe più agevole la disposizione di scalinate e palchetti laterali e offrirebbe eventualmente la possibilità di un’intercapedine muraria percorribile per raggiungere i propri posti ai ballatoi o palchetti laterali, di cui Carini Motta, nel suo trattato sulla costruzione dei teatri, sottolineerà l’importanza.85 448. L’arcoscenico della Sala dei marmi rapportato a quello del Teatro Barberini supponendo le colonne di proscenio quale elemento di continuità. Si tratta evidentemente di ipotesi che avrebbero bisogno di ulteriori conferme, ma anche un’ipotesi può essere utile a dare identità a un importante teatro la cui scarsa fortuna storiografica in gran parte è legata alla mancanza di fonti, anche visive. Alla fine del secolo l’incisione di Specchi (427) indica ancora l’edificio come «teatro da comedia» ma è possibile che quello fosse solo l’uso solito di chiamare il casolare, ormai svincolato dal reale utilizzo. Qui, in ogni caso, si nota chiaramente come lo spazio retrostante il palco sia stato buttato giù, conservando solo la porzione del porticato, nuovamente ribassata, a cui sembra addossarsi una piccola tettoia spiovente. 86. Blunt 1958, p. 282. Della destinazione settecentesca dell’edificio non si sa nulla. L’ipotesi che fosse adibito a scuderia rimane tale, perché il contratto di Thorvaldsen, che parla di un «locale che ha sempre servito ad uso di scuderia» non può riferirsi all’ex teatro (e l’aggettivo «sempre» ne è ulteriore conferma). Ma prima o poi in quei locali i cavalli furono certamente sistemati. È probabile che la creazione dei due livelli, di cui parlava il Barbarini, sia stata contemporanea alla trasformazione in scuderia del pian terreno, collocando il granaio nel vano superiore (detto infatti «granarone» ancora nel Novecento). Nel 1910 fu aggiunto un ulteriore piano ribassato, quasi un sottotetto che è mantenuto nel rifacimento odierno.86 Il Barberini c’informa che dal 1913 il locale divenne la rimessa per le auto di famiglia. La foto di quegli anni (422) mostra come a destra del portale cortoniano fosse stato aperto un ulteriore ingresso, forse per agevolare il movimento di più automobili. L’edificio attuale, a parte la destinazione bancaria, sembrerebbe forse richiamare i fasti di un vecchio teatrino, magari del secolo scorso, magari d’avanspettacolo, peccato che a ricordarlo sia solo la nuova fronte di via Barberini (con tanto d’insegne nobiliari) che giammai appartenne al vecchio teatro.