Anno XI - Numero 22 - 28 aprile 2005 L’Intervista Parla il Direttore Alain Lombard A Pag 2 La Storia dell’Opera La Turandot nata in un ristorante A Pag 6 I finali postumi Da Franco Alfano a Luciano Berio A Pag 8 –9 e 10 Gastronomia e Musica Il baccalà di Adami ed I fagioli di Puccini A pag. 14 e 15 TURANDOT di Giacomo Puccini Turandot 2 Parla il direttore d’orchestra Alain Lombard Una Turandot con il secondo finale di Alfano, ma senza i tagli tradizionali. A l solo nome della Turandot di Giacomo Puccini, la mente del maestro Alain Lombard, sul podio del Teatro dell’Opera per questa edizione, corre subito al passato: «E’ un’opera verso la quale ho sempre un grande affetto. L’ho diretta moltissime volte ed ho anche realizzato una incisione con Montserrat Caballe, Mirella Freni e Josè Carreras, che ha riscosso un grandissimo successo, che ha guadagnato moltissimi premi». «Turandot è un’opera molto, molto difficile. Si deve avere una orchestra grande e solida. Tante volte ho lavorato su questo pezzo e sempre ho pensato a ciò che Puccini diceva. Voleva fare un’opera importantissima, che rimanesse un capolavoro assoluto. Ma la cosa che mi stupisce è che essa arriva dopo il Trittico (1918), che a mio avviso è di per se un capolavoro assoluto. Puccini aveva già toccato il tema dell’orientalismo, tanto in voga all’epoca, con Madama Butterfly nel 1904 e quello d’ambientazione americana con La fanciulla del West (1910), ma egli voleva ritornare su ambientazioni “esotiche”». «E’ un’opera difficile da eseguire per l’orchestra – continua il Maestro Lombard perché è una partitura estremamente raffinata, con strumenti esotici, dal gong in poi. Come al solito Puccini ha realizzato una partitura molto precisa, con tutto appuntato, dai tempi ad alcune note esplicative. Come musica, in alcuni punti – come con le tre maschere di Ping, Pong e Pang - è vicinissima a Gianni Schicchi». Al Teatro dell’Opera di Roma Tutandot fu rappresentata per la prima volta il 29 aprile 1926, appena quattro giorni dopo la prima rappresentazione assoluta del Teatro alla Scala del 25 aprile, con un cast formato da Bianca Scacciati, Rosina Torri e Francesco Merli, diretti dal maestro Edoardo Vitale. Questa volta, al momento di mettere in scena all’Opera di Roma l’allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova con la regia di Giuliano Montaldo – allestimento che ha affrontato anche la famosa trasferta cinese per essere rappresentato ai piedi della Città Proibita - si è discusso su quale finale adottare. «Con il direttore artistico, Maestro Trombetta, abbiamo a ~~ lungo pensato se proporre l’opera con il primo od il secondo finale di Alfano», dice il direttore. «Poi siamo arrivati alla decisione di optare per la seconda versione, quella più snella. La prima sarebbe stata troppo lunga e meno bella. Io quella versione non l’ho mai eseguita, ma all’Opera di Roma non avrebbe funzionato. Questa seconda versione, invece, la presentiamo in versione integrale, senza alcun taglio, come ad esempio quello tradizionale delle maschere all’inizio del secondo atto». D. – A proposito di finali, cosa ne pensa di quello di Luciano Berio? «Il finale di Berio lo conosco bene, l’ho studiato perché ad un certo punto ho pensato di cimentarmici. E’ magnificamente fatto, ma è molto differente dal lavoro e dallo stile di Puccini. Con questa regia, molto classica, non sarebbe andato bene». Andrea Marini La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi, 28 aprile – 11 maggio 2005 TURANDOT Dramma lirico in tre atti e cinque quadri Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni Musica di Giacomo Puccini EDITORE: CASA RICORDI - MILANO Maestro concertatore e Direttore Alain Lombard ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA Allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova Maestro del coro Regia Ripresa da Scene Costumi Movimenti coreografici Disegno luci Turandot (S) Calaf (T) Liù (S) Timur (B) Ping (Bar) Pong (T) Pang (T) Altoum (T) Mandarino (Bar) Andrea Giorgi Giuliano Montaldo Marco Gandini Luciano Ricceri Elisabetta Montaldo Bocciardo Hal Yamanouchi Bruno Monopoli Personaggi / Interpreti Giovanna Casolla / Lucia Mazzaria (29/4;7, 11/5) Giuseppe Giacomini / Piero Giuliacci (29/4), 6/5 / Renzo Zulian (8, 11/5) Anna Laura Longo / Katia Pellegrino (29/4; 7, 8, 10/5) Michail Ryssov / Alfredo Zanazzo (29/4; 7, 8, 10/5) Damiano Salerno / Armando Ariostini (29/4; 7, 11/5) Mario Bolognesi / Cesare Ruta (29/4) Aldo Orsolini Fernando Cordeiro Opa / Aldo Bottion (6, 7, 8, 10, 11/5) Roberto Nencini / Stefano Meo (29/4; 6, 8, 11/5) Il Giornale dei Grandi Eventi I prossimi appuntamenti della Stagione 2005 17 - 25 giugno 2005 THAÏS di Jules Massenet Direttore: Pascal Rophè Amarilli Nizza, MarcoVinco, Claudio Di Segni Regia: Alberto Fassini ALLESTIMENTO DEL TEATRO DELL’OPERA Stagione estiva alle Terme di Caracalla (Due opere ed un balletto) 5 - 6 luglio ROMEO E GIULIETTA balletto su musica di Sergej Prokof’ev Coreografia: Jean-Cristophe Maillot Interpretato dalla Compagnia Les Ballet de Monte-Carlo Dal 9 luglio MADAMA BUTTERFLY di Giacomo Puccini Donato Renzetti Direttore: Dal 26 luglio AIDA di Giuseppe Verdi Placido Domingo Direttore: Dal 10 agosto IL LAGO DEI CIGNI balletto su musica di Pêter Ciaikovskij Coreografia: Galina Samosova ORCHESTRA E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA 22 – 29 settembre LE NOZZE DI FIGARO di Wolfgang Amadeus Mozart Direttore: Gianluigi Gelmetti Anna Rita Taliento, Laura Cherici, Marco Vinco, Laura Polverelli Regia e Scene: Quirino Conti NUOVO ALLESTIMENTO DAS RHEINGOLD (L’Oro del Reno) di Richard Wagner Direttore: Will Humburg Ralf Lukas, Kristian Frantz, Hartmunt Welker, Katia Litting, Hanna Schwarz, Eva Matos Regia, Scene e Costumi: Pier’ Alli ALLESTIMENTO TEATRO ALLA SCALA In lingua originale con sovratitoli 18 – 25 ottobre 23 Novembre – 1 Dicembre LA SONNAMBULA di Vincenzo Bellini Direttore: Bruno Campanella Stefania Bonfadelli, Nina Makarina Dimitri Korchak, Enzo Capuano Regia: Pier Francesco Maestrini Il G iornale dei G randi Eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Le fotografie sono realizzate in digitale con fotocamera Kodak DC290 Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot Trama Turandot L’azione si svolge a Pekino (così è riportato nel libretto originale, n.d.r.), al tempo delle favole 3 Le Repliche Venerdì Sabato Venerdì Sabato 29 aprile, 30 aprile, 6 maggio, 7 maggio, ore 20.30 ore 18.00 ore 20.30 ore 18.00 Domenica 8 maggio, ore 17.00 Martedì 10 maggio, ore 20.30 Mercoledì 11 maggio, ore 20.30 ATTO PRIMO Davanti alle mura e al palazzo imperiale di Pechino – Al tramonto, un Mandarino annuncia alla folla che il Principe di Persia, non avendo sciolto i tre enigmi proposti dalla bella principessa Turandot a tutti i principi che aspirano alla sua mano, sarà decapitato pubblicamente dal boia al sorgere della luna. La folla, eccitata, travolge un vecchio e la giovane Liù che per lui invoca subito soccorso. Un giovane accorre e riconosce nell’anziano il proprio padre Timur, Re tartaro spodestato. I due si abbracciano, ma il giovane Calaf lo prega di non pronunciare il suo nome, poiché ha paura dei regnanti cinesi, usurpatori del regno del padre. La schiava Liù è molto devota a Timur ed alla famiglia, in quanto un giorno Calaf nella reggia le sorrise. Intanto il boia Pu-Ti-Pao, affilando la lama, si prepara all’esecuzione del Principe di Persia. Ai primi chiarori lunari, su note lugubri, giunge il corteo che accompagna la vittima al supplizio. La folla, prima eccitata, si commuove per questo giovane ed invoca la grazia per il condannato. Nella pallida luce si presenta, glaciale, la principessa Turandot che impone di fare silenzio e con un gesto imperioso ordina al boia di giustiziare il Principe. Calaf è impressionato dalla magica bellezza della Principessa e decide di tentare la prova dei tre enigmi. Timur e Liù cercano di trattenerlo, ma lui si lancia verso il grande gong. Tre bizzarre figure lo fermano: si tratta dei ministri del Regno, Ping, Pong e Pang, i quali provano a dissuadere Calaf, descrivendo il rischio dell’impresa. Anche Timur, invocando la pietà filiale e la giovane Liù, disperata ed in lacrime per il proprio amore segreto, tentano di far ragionare Calaf, il quale, ormai in preda ad una sorta di delirio, percuote per tre volte il gong, invocando ogni volta Turandot, al cui nome Liù, Timur ed i tre ministri rispondono con «la morte!». ATTO SECONDO In un padiglione - E’ notte. Ping, Pong e Pang, chiusi nella loro tenda ripassano il protocollo nuziale e quello funebre per essere pronti ad ogni evenienza. Si lamentano che, come Ministri, devono accompagnare all’esecuzione troppe sfortunate vittime. Preferirebbero vivere tranquilli in campagna. Ma quando il sole sorge, si avviano ad assistere all’ ulteriore supplizio. Il piazzale della reggia con una grande scala dove è posto il trono imperiale - Tutto è pronto per il rito degli enigmi. L’imperatore Altoum invita il Principe ignoto a rinunciare, ma Calaf rifiuta tre volte. Il Mandarino (sulla stessa musica dissonante del primo atto, n.d.r.) bandisce la prova, mentre appare Turandot. La Principessa avanza guardando negli occhi il nuovo pretendente e spiega le ragioni del suo comportamento: molti anni prima il suo Regno fu invaso dai tartari ed una sua antenata cadde preda di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot ha giurato che mai si lascerà possedere da un uomo. La Principessa invita Calaf a rinunciare alla prova, ma egli non vuole desistere. Il primo enigma viene proposto e Calaf lo risolve senza tentennamenti: la speranza! Turandot scende la scala e si avvicina a lui per il secondo enigma. Calaf pensa a lungo, ma poi risponde: il sangue! La folla, sperando nel successo, esulta, ma Turandot la obbliga al silenzio e, minacciosa, presenta il terzo enigma. Calaf, sembra voler rinunciare, provocando lo scherno della Principessa, ma “La morte di Liù” in un figurino di Liebig finalmente intuisce la risposta e dice felice: Turandot! Conquistando la vittoria. Turandot, ormai vinta ma non doma, si getta ai piedi del padre e lo supplica di non consegnarla allo straniero, ma per l’Imperatore la parola data è sacra. Turandot inveisce contro il Principe, dicendogli che così egli conquista una donna riluttante e piena d’odio. Calaf spiega che cerca una donna che lo ami e quindi la libera dall’impegno, proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se lei riuscirà prima dell’alba ad indovinare il suo nome. Il nuovo patto è accettato, mentre risuona solenne l’inno imperiale. ATTO TERZO Nel giardino della reggia - E’ una notte gravida di attesa ed in lontananza gli araldi portano in giro l’ordine della Principessa: Questa notte nessun dorma in Pechino! Il nome del principe ignoto deve essere scoperto. Calaf è sveglio e pregusta il vittorioso bacio a Turandot, immaginandola liberata dal gelo dell’odio. Giungono i Ministri che, per paura delle ire di Turandot, offrono a Calaf donne bellissime, ricchezze e gloria in cambio del suo nome, ricevendone però un secco rifiuto. Intanto Timur e Liù, insanguinati e logori, vengono trascinati davanti ai tre Ministri: sono sospettati di conoscere il nome del principe, visto che sono stati notati parlare con lui. Giunge Turandot. Liù, per cercare di salvare Timur, dice che solo lei conosce il nome dello straniero, ma non lo rivelerà. Iniziano le torture, ma Liù resiste e continua a tacere. Turandot è incredula: cosa dà tanto coraggio e forza alla giovane schiava? Liù le risponde che è semplicemente l’amore. Turandot resta turbata, ma poi ordina ai Ministri di carpire il segreto ad ogni costo. Liù, conscia di non poter resistere, strappa il pugnale ad uno dei torturatori e si uccide, cadendo ai piedi dell’amato Calaf. Con Timur e Calaf che compiangono Liù morta, si avvia il mesto corteo funebre. (Fin qui l’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte, avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924) ———————————(Finale realizzato da Franco Alfano, sugli appunti pucciniani) Uscita la folla, Turandot e Calaf rimangono soli. Calaf, con l’impeto della passione, bacia la principessa. Questa dapprima lo respinge, ma poi gli confessa il “brivido fatale” e l’odio da cui fu colta la prima volta che lo vide ed anche di essere orami travolta dalla passione. Ma, orgogliosa, lo supplica di non umiliarla e di andarsene senza svelare il proprio nome. L’ignoto principe le dice, però, di essere Calaf, figlio del re Timur. “La risoluzione degli enigmi” in un figurino di Liebig Davanti al Palazzo Imperiale - E’ giorno. Tutti i dignitari ed una gran folla sono davanti al trono dell’Imperatore. Squillano le trombe per annunciare l’arrivo di Turandot, che annuncia di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è Amore! e, tra le grida di festa dei presenti, si abbandona nelle braccia di Calaf. Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 5 Giovanna Casella e Lucia Mazzaria Giuseppe Giacobini, Piero Giuliacci e Renzo Zulian L’impavido Principe Calaf La principessa del ghiaccio I l ruolo del principe Calaf è interpretato dal tenore Giuseppe Giacomini. Diplomato con il massimo dei voti all'Istituto Musicale Pollini di Padova, ha iniziato la sua esperienza artistica vincendo i concorsi internazionali di Adria, di Vercelli, della Scala di Milano e del S. Carlo di Napoli. Ha debuttato nel 1967 con Madama Butterfly e da allora ha cantato nei maggiori teatri d'opera dal Covent Garden di Londra al Metropolitan di New York, dalla Deutsche Oper di Berlino al Colon di Buenos Aires. L'artista vanta prestigiose registrazioni discografiche tra cui l'integrale di Cavalleria Rusticana realizzata nel 1990 per la Philips, in concomitanza con il Centenario della prima rappresentazione al Costanzi di Roma Giuseppe Giacomini (17 maggio 1890). Piero Giuliacci (29/4) ha compiuto gli studi di canto sotto la guida di Maria Negrelli. Vincitore assoluto del Puccini Foundation Competition di New York nel 1996, da allora è stato invitato a cantare nei principali teatri internazionali. Ha cantato Aida in Europa e nel Sud America, è stato in tournée con l'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in Sud Africa e a Lisbona. All'Arena di Verona ha cantato ne Il Trovatore di Zeffirelli, nell' Aida e in Turandot. Tra gli impegni futuri un Ballo in maschera, Adriana Lecouvreur e Il Trovatore a Tel Aviv. Renzo Zulian (30/4; 6, 8, 11/5), veneziano di nascita, ha debuttato nel 1992 al teatro dell'Opera di Timisoara (Romania) come Pinkerton nella Butterfly. A Salisburgo (Teatro Festival Hall) ha interpreato Rigoletto, e sempre con quest'opera ha compiuto una tournèe in Inghilterra (Teatri di Canterbury, Buxton, Oxford), in Germania (Teatri di Berlino, Mannheim) a Luzern, Strasbourg... Recentemente ha cantato Traviata in Giappone, Conchita di Zandonai al Festival di Wexford (Irlanda), Manrico nel Trovatore al Teatro Regio di Parma, Teatro Comunale di Modena e Reggio Emilia, Calaf nella Turandot a Mannheil in Germania. I l ruolo della gelida principessa cinese è affidato al soprano Giovanna Casolla. Diplomatasi in canto e pianoforte al Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, ha proseguito gli studi musicali con Michele Lauro e Walter Ferrari. L’esordio teatrale è avvenuto con La campana sommersa di Respighi al Teatro Verdi di Trieste a cui è seguito Il Castello del Principe Barbablù di Bartòk al Regio di Torino. Nel 1982 il suo ingresso alla Scala con il pucciniano Tabarro sotto la direzione di Gavazzeni che l’ha poi diretta anche nella Fedora di Giordano sempre nel teatro scaligero. Successivamente al Metropolitan di New York ha cantato il Don Carlo di Verdi e la Tosca di Puccini, quest’ultima con la direzione di Placido Domingo. E’ regolarmente ospite dei principali teatri e festival del mondo. Ricordiamo la sua ultima presenza, nel 2004, al teatro dell'Opera Giovanna Casella di Roma come interprete di Santuzza in Cavalleria Rusticana. Ad alternarsi con la Casolla sarà il soprano Lucia Mazzaria (29/4; 7, 11/5). Nata a Gorizia e, terminati gli studi di canto, si è aggiudicata un primo premio al Concorso Puccini di Lucca ed il secondo al Concorso Internazionale di Rio de Janeiro. Ha debuttato nel 1987 al Teatro La Fenice di Venezia e da allora si è esibita in teatri italiani e stranieri: dal Covent Garden di Londra, al Metropolitan di New York, ma anche in Norvegia e Giappone. A Roma ha cantato nel Macbeth di Verdi alle Terme di Caracalla. I suoi ultimi debutti la vedono nei ruoli di Abigail nel Nabucco a Fermo e Atene, nonché Turandot a Lisbona e Catania. Fra i suoi impegni futuri due nuovi attesissimi debutti in Gioconda di Ponchielli e in Ernani di Verdi. Katia Pellegrino e Anna Laura Longo Liù schiava siucida per amore A nna Laura Longo, nata a Milano, si è diplomata in pianoforte e tecnica vocale, perfezionandosi con Rodolfo Celletti. Nel 1996 ha vinto il concorso internazionale di Roma, e l'anno dopo si è esibita in Otello (Desdemona) al teatro Pergolesi di Iesi, a Mantova e al Cairo. Nel 1998 ha debuttato nelle Nozze di Figaro al Teatro dell'Opera di Roma, dove torna poco dopo per il Barbiere di Siviglia. Dal 2000 collabora anche con il Teatro Verdi di Trieste dove è stata Susanna nelle Nozze di Figaro, Dalinda in Ginevra di Scozia, e Rosina nel Barbiere di Siviglia di Paisiello. Al Festival di Torre del Lago è stata Mimì nella Bohème e Liù in Turandot. Al Teatro San Carlo è stata Euridice nell' Orfeo di Gluck. Tra gli impegni futuri da segnalare Le Nozze di Figaro in settembre al Teatro dell’Opera di Roma MacBeth al Teatro Comunale di Bologna. Don Giovanni (Donna Anna) al Bellini di Catania e Un segreto d'importanza di Rendine al Teatro Comunale di Bologna ed al Teatro dell’Opera di Roma. Katia Pellegrino (29/4; 7, 8, 10/5) è nata a Lecce ed ha studiato violino e canto presso il Conservatorio "B. Marcello"di Venezia. Nel 1991 ha frequentato l'"Accademia lirica mantovana" con corsi tenuti da Katia Ricciarelli e, nel 1997 ha debuttato in "La Bohème" presso il Teatro Marrucino di Chieti. Nell'ottobre 1998 ha debuttato come protagonista in "La Traviata" a Salerno, Como e Freiburg. Nell'ottobre 1999 ha poi cantato "Bohème" ad Adria, Lonigo, Legnago e Padova ed ha Anna laura Longo quindi debuttato a Bologna in "Petite Messe Solemnelle" di Rossini. Ha cantato "Norma" a Cremona, Como, Brescia, Pavia e Piacenza, "Il Trovatore" all'Opera di Roma, a Busseto, Sofia e Lisbona, "Luisa Miller" nel Circuito Lirico Lombardo, "La forza del Destino" a Lima, "Otello" e "Eugenio Onieghin" a Sassari, "Il Trovatore" al San Carlo di Napoli e a Sassari. E' stata diretta, tra gli altri, da Fabio Biondi, Paolo Carignani, Riccardo Chailly, Rafaeò Fruebeck de Burgos, Daniele Gatti. Tra i suoi prossimi impegni "I Lombardi alla Prima Crociata" a Firenze. Pagina a cura di Andrea Cionci Turandot 6 Il Giornale dei Grandi Eventi Storia dell’opera In un ristorante milanese la nascita di Turandot L a composizione della Turandot, ultima opera di Puccini, si svolse tra il 1920 e il 1924, in quegli ultimi quattro anni di vita del Compositore tristemente segnati dalla malattia che lo condurrà alla morte. Dopo il successo del Trittico nel gennaio 1919 al Costanzi di Roma, Puccini si pose nuovamente con l’aiuto del fedele amico Giuseppe Adami alla ricerca di un soggetto per un’opera. Determinante per la nascita della Turandot fu però l’incontro con il giornalista Renato Simoni nell’autunno del 1919 a Torre del Lago, residenza amatissima dal Maestro, dove si dedicava alla sua grande passione, la caccia. Simoni, commediografo e critico drammatico sensibilissimo e raffinato, sembrò a Puccini il più adatto da affiancare ad Adami. L’intesa tra i due librettisti fu subito cordiale e produttiva: la prima proposta fu un testo tratto dalla riduzione teatrale dell’Oliver Twist di Dickens. L’opera, il cui titolo avrebbe dovuto essere Fanny, non piacque però a Puccini: l’ambientazione nello squallido clima dei sobborghi londinesi avrebbe potuto offrire solamente tematiche e situazioni già ampiamente utilizzate dal compositore, che invece aveva l’intenzione di “tentare vie non battute”. sembrò più volte propendere per l’atto unico. Inoltre occorreva « lasciare un po’ da parte Gozzi e lavorare di logica e fantasia». Il primo rimaneggiamento operato Triste presagio Nata in un ristorante milanese I biografi raccontano che la nascita della Turandot – soggetto così “regale” - avvenne, invece, in circostanza meno “nobile”: a tavola! Nel febbraio del 1920 Puccini e Simoni erano in un ristorante milanese, per ingannare il tempo in attesa che il Maestro prendesse un treno per Roma. Simoni disse: «E Gozzi? … se ripensassimo a Gozzi?… una fiaba che fosse magari la sintesi di altre fiabe più tipiche?… Non so… qualche cosa di fantastico e di remoto, interpretato con sentimento di umanità e presentato con colori moderni?». Puccini fece il nome di Turandot e Simoni mandò immediatamente a prendere il volume nella sua biblioteca, in modo che Puccini potesse portarlo con se in treno. La Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1761 al teatro di San Samuele con la compagnia di Antonio Sacchi, affascinò subito il compositore per il carattere orientaleggiante che avrebbe potuto aprire più ampi e sfaccettati orizzonti. Puccini iniziò immediatamente a documentarsi, leggendo la versione in italiano del poeta Andrea Maffei - noto come librettista di Verdi - basata sulla traduzione in tedesco di Schiller. Puccini visionò anche riproduzioni sceniche e figurini di Max Reinhardt, il quale poco prima aveva curato la messa in scena della fiaba in Germania. Sull’argomento Puccini scrisse con entusiasmo a Simoni: «…in Reinhardt, Turandot era una donnina piccola piccola; attorniata da uomini di donnina viperina e con un cuore strano di isterica. Insomma io ritengo che Turandot sia il pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni di Gozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo, d’Adami e il mio». Difficoltà dietro l’angolo L’entusiasmo però era destinato ad essere frenato dall’effettiva difficoltà di ridurre la fiaba. L’epistolario pucciniano è il testimone delle difficoltà incontrate durante i quattro anni dedicati alla Principessa cinese. Puccini fu a lungo indeciso se costruire l’opera in uno, due o tre atti. La versione che né risultò fu quella in tre atti, ma il musicista ancora notizia ad Adami: «Penso ora per ora, minuto per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad ora mi pare una burletta e non mi piace più». in quest’ottica dai librettisti, fu la trasformazione delle quattro maschere della commedia italiana presenti nella fiaba - Tartaglia, Pantalone Truffaldino e Brighella - nei tre ministri cinesi Ping, Pang e Pong. L’altro cambiamento fondamentale fu l’introduzione della figura di Liù, non presente nella favola di Gozzi, con la funzione di umanizzare attraverso il suo sacrificio la figura della Principessa. Nella primavera del 1920 Puccini manifestava il suo sconforto ad Adami: «metto le mani al piano e mi si sporcano di polvere! La scrivania mia è una marea di lettere, non c’è traccia di musica. La musica? Cosa inutile. Non avendo il libretto come faccio con la musica? Ho quel gran difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena…». Nel Natale dello stesso anno i librettisti sottoposero il primo atto a Puccini, ma l’iniziale giudizio fu negativo. Dopo alcune modifiche, in cui si diminuirono molte cineserie, Puccini lo approvò ed iniziò a strumentarlo. Nel 1921, a distanza di un anno, il primo atto fu completato. Ben più faticosi, invece, furono gli altri due atti per i quali il Maestro fu spesso sul punto di abbandonare la composizione. L’11 dicembre 1922 amaramente scriveva ad Adami: «di Turandot niente di buono. Comincio a impensierirmi della mia pigrizia! Che io sia saturo di Cina per aver fatto il primo e quasi il 2° atto? Il fatto sta che non riesco ad attecchire niente di buono. Sono anche vecchio! Questo è sicuro…. A Milano deciderò qualcosa. Forse restituisco i soldi a Ricordi e mi liberi». I primi mesi del 1923 furono ancora molto difficili, ma in primavera il compositore, rinfrancato nello spirito e con nuovo entusiasmo, si dedicò a strutturare e musicare il secondo atto. Nel gennaio 1924 Puccini annunciò ad Adami l’inizio dell’orchestrazione del terzo atto. In aprile finalmente la composizione della Turandot era a buon punto ed il compositore né diede L’autunno di quello stesso anno - 1924 - fu caratterizzato dall’incontro a Salsomaggiore e dalla riappacificazione con Arturo Toscanini, dopo lo screzio sorto a causa di una incomprensione, quando in aprile il direttore diede l’ordine di non ammetterlo alla prova generale della prima esecuzione postuma del Nerone di Boito al Teatro Alla Scala. Pochi giorni dopo i due si incontrano a Milano e Puccini fece ascoltare all’amico ritrovato il terzo atto di Turandot, fino al punto in cui Liù sacrifica la propria vita. Ad esecuzione terminata Puccini disse a Toscanini la frase che egli avrebbe dovuto pronunziare davanti al pubblico se lui fosse stato nell’impossibilità di concludere l’opera: «E qui, signori, il maestro è morto». Presagio sinistro. Il male alla gola, manifestatosi già da parecchi mesi, iniziò ad aumentare ed in ottobre Puccini si era recato a Firenze per essere visitato. La diagnosi atroce fu cancro alla gola. Come ultimo tentativo fu consigliata una cura presso una clinica specializzata in Belgio e Puccini si recò a Bruxelles per essere ricoverato. La sera del 28 novembre sopraggiunse una crisi cardiaca. Puccini lottò per la vita l’intera notte e il mattino successivo. Il 29 novembre 1924 verso mezzogiorno il cuore del maestro cessò di battere. Turandot, come il suo stesso creatore aveva funestamente previsto, era rimasta incompleta. Un finale postumo Gli editori di casa Ricordi, Clausetti e Valcarenghi, decisero allora di farla terminare dal musicista Franco Alfano. Questi pensò di utilizzare le trentasei pagine di abbozzi lasciati dal Maestro per il duetto e, nelle parti in cui gli schizzi non erano di aiuto, i temi precedentemente usati dal compositore all’interno dell’opera. Il lavoro, così completato, era pronto per andare in scena. Alla vigilia la recita rischiò, però, di essere annullata per un increscioso incidente diplomatico. Mussolini, in quei giorni a Milano, fu invitato alla “prima” dalla direzione della Scala. Il Duce impose come condizione che durante la serata fosse eseguito l’inno fascista in suo onore, dal momento che Toscanini nel 1923 si era rifiutato di eseguirlo davanti ad un gruppo di Camicie Nere. Ancora una volta Toscanini si oppose ed il Duce non prese parte alla “prima”. Il 25 aprile del 1926, dinanzi al commosso pubblico della Scala, la Turandot andò in scena. Il cast composto da Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Maria Bamboli in quello di Liù e Miguel Fleta in quello di Calaf, utilizzo le scene di Galileo Chini. Dopo la morte di Liù, Toscanini – come è noto - seguì la volontà di Puccini: interrompendo la musica e voltandosi verso il pubblico, con voce velata, disse: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». e poi: “viva Puccini!”. Subito scrosciarono gli applausi, mentre il sipario calava. Dalla sera successiva le recite proseguirono con il finale realizzato da Alfano. C.C. Giornale dei Grandi Eventi Il Turandot 7 Le invettive del Maestro sulle speculazioni milanesi E Mascagni disse: «Lasciate Turandot com’è!» “P iango la perdita del caro Giacomo, che amai con affetto di fratello, con ammirazione di discepolo. Accolgano il conforto del rimpianto universale per l’uomo dalla sua opera fatto immortale”. Così il 29 novembre 1924 da Vienna, dove si trovava per una serie di concerti, Mascagni scriveva ad Elvira Puccini. Poche ore prima a Bruxelles l’amico Giacomo si era spento, distrutto dal tumore alla gola. La morte del grande collega e amico con il quale aveva in gioventù condiviso sogni e sofferenze, scosse profondamente il compositore livornese, il quale nelle lettere di quel periodo si espresse con forti accenti polemici. Vale la pena leggere ad esempio quella inviata il 4 dicembre alla figlia Emy: «…non so dirti quale colpo sia stato per me l’annunzio improvviso della morte di Puccini. Avevo notizie abbastanza buone: ero tranquillo il giorno; prima avevo avuto tali notizie favorevoli, che con vera commozione avevo telegrafato all’Ambasciatore d’Italia a Bruxelles pregandolo di portare all’amico carissimo il mio saluto ed augurio. E invece..... E quale morte terribile, povero Giacomo! Io sono ancora molto impressionato e non riesco a rimettermi. Non posso crederci ancora. E sono anche molto addolorato ed avvilito che quei bottegaî dei Milanesi hanno già iniziato una speculazione su Puccini. Mentre la famiglia voleva che la salma andasse a Lucca, i bravi (?) milanesi l’hanno voluta a Milano.... e Toscanini ha messo a disposizione la tomba della propria famiglia.... Sono cose che fanno male.... Ed intanto si sta già preparando la speculazione sull’opera postuma. Prima con Boito, ora con Puccini!... Ho avuto molto dispiacere nell’apprendere, da un telegramma dell’Avv. Belli, che lo stesso Belli, unitamente a Gasco, abbiano affacciato l’idea di far terminare a me la Turandot. Meno male che, in una intervista che ebbi qui col corrispondente della “Tribuna”, espressi già il mio pensiero in proposito. Peccato che la “Tribuna” non l’abbia riportato esattamente, ma in ogni modo si capisce che io ho detto che l’opera deve essere eseguita così come si trova, anche se incompiuta: non si deve ripetere lo sconcio commesso col Nerone (l’opera che Boito lasciò incompiuta e che fu portata a termine da Tommasini e Smareglia sotto la supervisione di Toscanini, n.d.r.), tanto più che, per Puccini, sarebbe ancora una profanazione, perché Puccini è stato un vero e grandissimo musicista e non uno stitico che aspettava sempre l’aiuto e l’elemosina di qualcuno, e che in vita non la trovò.... e l’ha trovata dopo morto....». La morte di Liù è già un finale Mascagni, dunque, riteneva che Turandot dovesse rimanere come l’aveva lasciata Puccini. Una scelta dettata in lui dal Puccini e Mascagni ai funerali di Ruggero Leoncavallo rispetto nei confronti dell’amico, ma suggerita anche da considerazioni di tipo drammaturgico: la morte di Liù è già di per sé un “finale”, lascia la storia fra Calaf e Turandot sospesa, ma chiude coerentemente l’opera. Ma a proposito di Mascagni, può essere interessante riportare ancora la seguente lettera inviata il 22 dicembre alla figlia: «…io sono veramente sorpreso di tutta la speculazione che in Italia si fa sopra la sventura: la morte di Puccini ha svegliato nuove cupidigie e nuovissime ambizioni: la città di Milano vuole avere il monopolio delle salme degli uomini illustri. Hai letto il discorso del Sindaco Mangiagalli sul feretro di Puccini?... Non si può andare più in là in materia di speculazione e di réclame: ha detto che Verdi morì e fu sepolto in Milano; e, dopo Verdi, Boito morì e fu sepolto in Milano; ed oggi, per quanto Puccini sia morto all’estero, Milano ha la gloria di avere la sua salma.... Alla larga di questi necrofori jettatori! Mi aspettavo che continuasse, con l’augurio (?) di avere in Milano tutti i morti illustri, anche se la loro morte avviene lontana dalla..... necropoli lombarda..... Da Roma, il Marchese Monaldi mi perseguita con lettere e telegrammi per avere da me una prefazione al libro che egli scrisse sopra Puccini, e del quale sta preparando la seconda edizione, in occasione della morte del Maestro. Insomma, si specula in modo indegno; e non si capisce che io non intendo di prestarmi a questo basso giuoco. E non rispondo neppure: sono nauseato! [...]». Roberto Iovino Nella casa natale di Puccini a Lucca Tra i cimeli, il pianoforte su cui fu composta Turandot I l 22 dicembre 1858, nelle prime ore della notte, Giacomo Puccini nasceva a Lucca, nella casa di corte S.Lorenzo, a Lucca. Fu battezzato il giorno successivo, al fonte battesimale dei SS. Giovanni e Reparata, con i nomi di Giacomo Antonio Domenico Michele Secondo Maria. Era infatti l’ultimo musicista di una singolare dinastia che in un arco temporale di un secolo e mezzo aveva dominato la vita musicale lucchese.Al momento della sua nascita abitavano la casa i genitori, Michele e Albina Magi, la nonna Angela Cerù, le sorelle Otilia, Tomaide (la terza nata, Temi, era vissuta meno di un anno), Maria Nitteti e Iginia, e una serva. Un anno dopo nascerà l’altra sorella Ramelde, sarà assunta un’altra serva, e più avanti nasceranno ancora Macrina e infine, dopo la morte del padre, Domenico Michele (Lucca, 1864 - Rio de Janeiro, 1891) anch’egli musicista. Giacomo, rimasto presto orfano di padre, visse in questa casa gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, prima del trasferimento a Milano per proseguire gli studi. Restò sempre legato ai ricordi che lo legavano alla sua casa natale e si adoperò, quando le condizioni economiche glielo consentirono, affinché rimanesse di proprietà della famiglia. La famiglia Puccini, che nella prima metà del XVIII secolo si era stabilita a Lucca in un’abitazione posta in via Pozzotorelli, l’odierna via Vittorio Veneto, si era trasferita in corte S. Lorenzo intorno al 1815, poco dopo la morte improvvisa e prematura di Domenico, nonno di Giacomo e pregevole operista. Aveva voluto così la giovane vedova, Angela Cerù, per riavvicinarsi alla sua famiglia d’origine, che abitava nello stesso stabile. La famiglia Cerù - in particolare Nicolao, cugino del padre Michele - svolgerà un ruolo importante nella formazione di Giacomo. L’appartamento, piuttosto grande ma appena sufficiente per una famiglia numerosa come quella di Giacomo (in cui tutti, almeno il padre e i figli, facevano musica) aveva, come oggi, due ingressi sul medesimo pianerottolo, come testimonia una lettera del 1817 di Antonio, bisnonno di Giacomo. Oggi museo Oggi la casa natale di Giacomo Puccini custodisce oggetti a lui appartenuti: mobili di famiglia, un cappotto, preziose onorificenze che testimoniano gli straordinari successi ottenuti dal compositore in tutto il mondo. Sono anche esposti: autografi di importanti composizioni giovanili, la Messa a 4 voci (1880) e il Capriccio sinfonico (1883), una ricca collezione di lettere scritte e ricevute dal compositore tra il 1889 e il 1915 (destinatari e mittenti: la moglie Elvira, il figlio Antonio, Giulio Ricordi), e una serie di emozionanti testimonianze degli ultimi momenti di vita del compositore, che - a causa dell’operazione subita per l’asportazione del tumore alla gola - comunicava solo tramite brevi messaggi scritti. L’ultima opera, Turandot - la cui composizione fu interrotta appunto dalla morte dell’autore a Bruxelles, il 29 novembre 1924 - è evocata dalla presenza del pianoforte Steinway su cui l’opera fu composta, nella villa di Viareggio (una fotografia ritrae Puccini proprio davanti a questo strumento, con il figlio Antonio), e dallo splendido costume di scena per il II atto, donato alla Fondazione Puccini dalla celebre cantante Maria Jeritza, a ricordo del primo allestimento dell’opera al Metropolitan Opera House di New York, nel 1926. Il costume realizza il disegno studiato da Brunelleschi per la prima assoluta, poi sostituito da quello di Caramba. Si possono infine ammirare alcuni bei quadri, come i pregevoli ritratti di Giacomo Puccini senior e di sua moglie Angela Piccinini, eseguiti da un importante pittore lucchese, Giovanni Domenico Lombardi detto “L’omino”, in occasione delle loro nozze; come il ritratto di Antonio Puccini, probabilmente una copia d’epoca dell’originale custodito presso il Civico Museo Bibliografico Musicale di Bologna; od anche lo Stemma della famiglia, che il compositore non era disposto a lasciare in casa di altri parenti. E’ esposto, infine, lo stupendo ritratto di Giacomo Puccini, opera di Leonetto Cappiello, con dedica “A Giacomo Puccini con grande ammirazione e vera amicizia” e data “Paris, 11 gennaio 1899”. Mi. Mar. Turandot 8 Il Giornale dei Grandi Eventi Le due versioni del finale postumo dell’opera L’ingrato compito di Franco Alfano: L a sera del 25 aprile 1926 va in scena al Teatro alla Scala di Milano la prima rappresentazione assoluta di Turandot di Giacomo Puccini. Appena conclusa la scena dello straziante corteo funebre per Liù, la musica si interrompe e Arturo Toscanini, dal podio, con una voce resa incerta dall’emozione, si rivolge al pubblico trepidante: «Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». Dopo qualche istante di stupore, gli spettatori prorompono in fragorosi applausi, gridando «Viva Puccini!». Toscanini aveva deciso per la “prima”- come volontà espressagli da Puccini - di onorare in questo modo la memoria del compositore, terminando l’esecuzione Giacomo Puccini nel 1924 Franco Alfano nel punto esatto in cui la mano del “Lucchese” si era fermata. (Il compositore era morto in seguito a complicazioni post-operatorie nel 1924 a Bruxelles, dove si era recato per curare un cancro all’esofago). Peraltro, lo stesso Toscanini era stato, insieme ai parenti del musicista e alla Casa Ricordi, fra coloro che avevano fortemente voluto che Turandot venisse completata da un altro compositore. Infatti, sebbene nella musica strumentale un lavoro incompiuto possa esercitare un indiscutibile fascino e mantenere comunque inalterato il suo impatto comunicativo, nel teatro musicale, soprattutto a partire da quello tardo ottocentesco, una grave mutilazione come la mancanza del finale poteva mettere in seria discussione la fruibilità di un’intera opera. Lasciare in sospeso il corso dell’azione di Turandot, avrebbe, però, fatto traballare le colonne portanti dell’intera struttura musicale e drammatica dell’opera. I primi compositori che vennero contattati furono Riccardo Zandonai e Pietro Mascagni, i quali però declinarono l’offerta. cando. I committenti del lavoro pensarono che l’indiana Sakuntala sarebbe potuta efficacemente diventare sorella della cinese Turandot. punto un intermezzo orchestrale, che avrebbe rievocato la magica atmosfera dell’opera wagneriana nel momento del bacio di Calaf. La scelta cadde su Alfano Fu invece il compositore napoletano Franco Alfano, allora cinquantenne, che, seppure dopo molte perplessità, accettò il gravoso compito, che pure gli avrebbe dato quella duratura fama che le sue altre opere, come Resurrezione (1904) o La leggenda di Sakuntala (1921), non sarebbero riuscite a procurargli. Compositore di rilievo, artista esuberante ed entusiasta, Alfano si era formato sulle orme di Puccini, del quale era anche divenuto amico personale. Era anch’egli un compositore legato alla Casa Ricordi e si era affermato con discreto successo qualche anno prima con l’opera La Leggenda di Sakuntala, anch’essa di ambientazione orientale, che tuttavia il pubblico stava già dimenti- Figurino prima di Turandot Puccini aveva portato con sé, nella clinica di Bruxelles dove si doveva operare, 36 fogli pentagrammati contenenti gli appunti per il finale di Turandot, a cui contava di lavorare durante la convalescenza. Quando Alfano li prese in esame, si trovò di fronte un materiale confuso, pieno di cancellature, tagli e sommarie, quasi incomprensibili, annotazioni come «qui trovare la melodia tipica vaga insolita» oppure «Poi Tristano…». Quest’ultima frase è stata variamente interpretata: secondo Mosco Carner, grande biografo di Puccini, egli avrebbe voluto inserire in quel Secondo Teodoro Celli, invece, il compositore avrebbe voluto ritornare al tema inserito nel concertato finale del primo atto, che sembra già ispirato al tema del mare nel Tristano. Delle 375 battute scritte da Alfano, appena 97 sono quelle originali di Puccini, desunte dalla sua bozza, e precisamente: l’inizio del duetto Principessa di gelo fino all’aria Del primo pianto, di cui il materiale tematico era solo accennato. Gli stessi cenni sommari riguardavano il tema degli ottoni che introducono il secondo quadro e la ripresa del tema del Nessun dorma nel coro finale. Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 9 finire Turandot Le due versioni Il lavoro di Alfano fu completato e consegnato nel gennaio 1926 e Ricordi ne stampò uno spartito per canto e pianoforte. Questa edizione rappresenta una vera rarità, di cui esistono solo 12 copie in tutto il mondo. Infatti venne ben presto ritirata dal mercato: Toscanini la rifiutò con la motivazione che in essa vi fosse «troppo Alfano e poco Puccini». Le discussioni e i malumori non mancarono, ma alla fine la volontà dello scorbutico ed inflessibile direttore d’orchestra prevalse e 107 battute di Alfano vennero tagliate impietosamente, conducendo alla stesura di una seconda versione della partitura. Le parti tagliate non erano state scritte a caso da Alfano ed erano funzionali a rendere La prima edizione di Turandot con gradualità e penetranza psicologica il progressivo mutamento interiore di Turandot, come per i fondamentali momenti successivi al bacio di Calaf o alla rivelazione del nome del principe. Toscanini, tuttavia, da grande conoscitore della vocalità, era anche consapevole che l’impegno richiesto ai cantanti nell’esecuzione della prima versione sarebbe stato eccessivo. Fu questa, probabilmente, la motivazione della sua impuntatura. La prima versione di Alfano fu riesumata solo nel 1982, in forma d’oratorio, alla Barbican Hall di Londra, dopo il ritrovamento della partitura negli archivi Ricordi e da allora è stata ripresa in diverse occasioni, l’ultima delle quali al Teatro Bozzetto del secondo atto per la prima rappresentazione di Turandot del Giglio di Lucca, nel 2003. Alfano ebbe la sfortuna di nascere in un momento di crisi del melodramma, dove, per giunta, giganteggiava la figura di Puccini. Il suo caratte- re sanguigno e indipendente non gli consentiva di inseguire i gusti del pubblico ed egli cercò pertanto di imporre una sua idea di teatro musicale. Morì quasi dimenticato dalla critica, ricor- dato solo per il suo lavoro di completamento di Turandot, che, pur essendo stato compiuto con scrupolo e sensibilità, venne bistrattato da direttori d’orchestra e critici musicali. Andrea Cionci Proposta per un finale Uccidete Calaf! C i ha provato subito dopo la morte di Puccini, Franco Alfano, ci ha provato recentemente Luciano Berio. Ma nell’opera degli enigmi, l’enigma centrale, quello dell’epilogo a lieto fine con la gelida Turandot che si scioglie per Calaf, rimane a tutt’oggi irrisolto. Il trionfo dell’amore, il mutamento della principessa di ghiaccio, per quanto lo si rallenti (e Berio ha inserito un breve interludio strumentale, quasi a voler concedere qualche minuto in più alla donna per la metamorfosi) rimane improvviso e inaspettato. Certo, la trasformazione repentina di Turandot era già in Gozzi, ma lì l’atmosfera fiabesca la giustificava. In Puccini la dimensione favolistica è appena evocata da Ping,Pong e Pang; nel resto si è in un dramma alquanto forte e vibrante che sfocia in commedia a lieto fine con qualche difficoltà. E così, dopo l’interruzione di Toscanini all’esecuzione dell’opera alla “prima assoluta” del 1926 al momento della morte di Liù dove l’aveva lasciata Puccini (così diversa dalla gozziana Adelma), dopo il finale (anzi il doppio finale: quello tagliato e quello intero) di Alfano, dopo l’ultima fatica di Berio, si potrebbe suggerire un ulteriore finale a sorpresa: la morte di Calaf. Calaf, in effetti, merita di morire. Egli, infatti, è - si badi bene - molto più crudele di Turandot. La Principessa fa decapitare i suoi spasimanti, ma non li conosce neppure. Ella mantiene un atteggiamento distaccato, li invita anche a desistere prima di leggere i fatidici tre enigmi. Se poi, volontariamente ed incoscientemente, quelli si lanciano nel “quiz”, la responsabilità è anche e soprattutto loro. Calaf, invece, getta allo sbaraglio il povero padre e la deliziosa Liù per un semplice capriccio. Guarda Liù che si suicida per salvarlo e non muove un dito. Manda in giro il padre cieco per il mondo senza alcuna pietà. Di quale umanità, dunque, è capace? Dalla morte di Calaf, Turandot avrebbe tutto da guadagnare. Manterrebbe la propria coerenza, dimostrando fino in fondo la propria crudeltà, giocando uno splendido tranello al suo spasimante e battendolo dopo averlo blandito e sedotto. Una gran donna. «O Padre Augusto… ora conosco il nome dello straniero. Il suo nome… è Calaf!» Uccidete Calaf. Avanti un altro! Roberto Iovino Turandot 10 Il Giornale dei Grandi Eventi Intervista a Luciano Berio, autore dell’ultimo finale Ancora un altro finale per Turandot A lcuni anni orsono Casa Ricordi incaricò il compositore Luciano Berio, scomparso a Roma il 27 maggio 2003, di mettere mano agli appunti lasciati da Puccini al momento della morte avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924, e di rifare un finale per la Turandot più ragionato di quello steso all’epoca da Franco Alfano. La “prima” mondiale della rinnovata Turandot è andata in scena all’opera di Los Angeles il 25 maggio 2002, seguita da quella europea allo Het Muziektheater di Amsterdam (1° giugno 2002), e dalle recite al Festival di Salisburgo (7 agosto 2002). L’intero atto terzo, col nuovo finale, era tuttavia già stato eseguito in forma di concerto al Festival delle Canarie il 24 gennaio 2002 Pubblichiamo un’intervista rilasciata da Luciano Berio a Sandro Cappelletto pubblicata sul quotidiano “La Stampa” il 12 Gennaio battute dell’opera con le terze e quarte aumentate, che mi portano a segnalare una presenza virtuale in questa partitura della Settima di Mahler, dei Gurrelieder di Schönberg. Diciamo che questo materiale l’ho commentato, non l’ho mai lasciato solo, c’è da parte mia un elemento non di disturbo, ma di esemplificazione, di commento appunto. 2002 in cui il Maestro spiega le motivazioni e le finalità del suo lavoro. D. - Com’è nato questo progetto? Da parecchie parti, da parecchi anni, mi chiedevano di farlo. Finora mi ero sempre sganciato da questa possibilità, però poi, approfondendo il lavoro sugli schizzi, mi sono convinto. Ho sempre amato Turandot, la conosco benissimo, il primo atto è davvero mirabile, e poi alle Canarie c’è questo bellissimo festival di orchestre internazionali, che amo molto. D. - Riassumendo, un Puccini che guarda avanti ma è impossibilitato a procedere dalle forzature della materiatrattata? D. - Come ha orientato il Suo lavoro? Turandot è un’opera speciale nel panorama pucciniano. Credo che non l’abbia finita non perché è morto, ma perché è stato tradito da un libretto intrattabile: questo racconto orientale che finisce con l’happy end è di una volgarità indicibile, era con questo che Puccini aveva problemi, non con altro, lo si vede dagli schizzi che ha lasciato, materiale estremamente interessante da cui si capisce che stava avviandosi su vie musicalmente nuove. Ho ripensato il finale in modo totale, non più un happy en, ma una conclusione più sospesa e reticente, come si addice ad una visione orientale delle cose, meno deterministica, meno ovvia. D. - Dunque è intervenuto anche sul libretto. Ho semplificato, sottratto, eliminato le cose più volgari, sempre in rapporto al progetto musicale concepito esaminando gli schizzi, che mettono in luce le questioni musicali che preoccupavano Puccini in Turandot. Puccini è stato un musicista italiano di cultura europea, viaggiava, ascoltava tutto, andava spesso a Bayreuth, aveva conosciuto Schönberg che nutriva per lui un’enorme ammirazione. Gli sviluppi armonici additati in Turandot sono in un certo senso nuovi, solo Stravinskij nella Sagra della primavera dieci anni prima aveva fatto qualcosa del genere, con il tessuto armonico concepito non solo come sviluppo di funzioni, che è la cosa normale, ma anche come produzione di accordi-oggetto, di entità armoniche isolabili ad esempio accordi politonali - che hanno significato di per sé. Ma ci sono tantissime cose, ad esempio un ripensamento di Wagner (in questi schizzi e altro materiale pucciniano relativo a Turandot troviamo notazioni come «e poi Tristano» e «San Graal chinese»), come nei cromatismi sotto «Tu che di gel sei cinta». D. - Ha enfatizzato questi aspetti? Diciamo che ho solo spinto le cose più in là, evidenziato un tessuto nascosto, ad esempio, negli schizzi pucciniani, un ambiente di “la minore” che mi suggerisce l’«accordo del Tristano», oppure le prime quattro Sì, mi interessava tirar fuori, mettere in evidenza, non in maniera plateale e ovvia, quello che questa partitura contiene e le difficoltà che l’autore ha incontrato. Certo Puccini era un compositore di successo e questo ha determinato la sua opera, dietro di lui c’era la paurosa macchina finanziaria di Casa Ricordi: doveva avere successo e l’ha avuto, del resto questa è la vicenda di tutti gli operisti italiani, con l’eccezione parziale di Verdi, che si muoveva su un’altra dimensione, etica se vogliamo: il successo era una condizione “sine qua non”, che determinava l’opera, imponeva delle strategie. Ma Turandot pose dei problemi, a Puccini: la concezione del racconto, della favola, la traiettoria narrativa, non era così semplice come nelle altre opere, doveva andarci piano. D. - Come reagirà il pubblico? Ah, non so. A me il successo non interessa! Sandro Cappelletto Il Turandot Giornale dei Grandi Eventi 11 Le origini dell’opera Turandot, dalla favola di Gozzi all’opera di Puccini L a prima della Turandot pucciniana risale al 25 aprile 1926. Siamo a Milano, al Teatro alla Scala, l’autore è morto da quasi due anni senza riuscire a terminare l’opera; altri porteranno a compimento la sua ultima fatica. Ma come è arrivata in Europa la storia della gelida principessa di Cina che ha affascinato Puccini? I suoi natali sul continente risalgono al veneziano Carlo Gozzi (1720-1806). Figlio di un’aristocratica famiglia in gravi difficoltà economiche fu il fondatore, insieme con il fratello Gasparo, di una delle istituzioni più conservatrici del Settecento italiano: l’Accademia dei Granelleschi di Venezia. Le sue posizioni conservatrici lo videro contrapporsi al pensiero illuminista e alle scelte artistiche dei contemporanei Goldoni e Chiari, innovatori importanti della Commedia dell’Arte e spesso portatori sulla scena anche di argomenti realistici d’ambientazione popolare e borghese. Nel 1762 Gozzi scrisse la favola teatrale di Turandot traendone l’argomento fiabesco dal ciclo persiano delle Mille e una notte e più precisamente da La storia del principe Calaf e della principessa di Cina. In questa prima trasposizione occidentale, coerentemente all’epoca storica in cui essa è prodotta, troviamo accanto ai personaggi principali anche la presenza delle più importanti maschere italiane: Tartaglia, Pantalone e Truffaldino. Il lavoro gozziano è un continuo alternarsi di passione e gioco sospesi fra realtà e irrealtà, atmosfera quotidiana e fantasia esotica. Probabilmente le maschere avevano il compito di creare un legame tra il pubblico veneziano e l’Oriente fittizio rappresentato sulla scena. Saranno proprio quelle atmosfere esotiche, evocatrici di mondi lontani, ad affascinare Puccini. Nel passaggio dalla favola all’opera il compositore fu però chiamato a risolvere più di un problema. Ad esempio, la presenza delle Figurino di Umberto Brenellechi per la prima rappresentazione di Turandot maschere, nel momento storico in cui compone Puccini, ha perso la sua valenza. Vanno quindi trasformate nel contrario di ciò che rappresentavano per Gozzi: non un ponte tra Occidente e Oriente ma un elemento propriamente cinese. Nascono così i tre dignitari di corte, dal nome un po’ faceto Ping, Pong, Pang, modellati sul genere dei fools shakesperiani, che assolvono alla funzione di commento ironico e disincantato, a volte cinico, della realtà che li circonda. Inoltre perché l’intera struttura reggesse, Puccini fu costretto a concentrarsi sulle linee essenziali della vicenda e a trascurare gli intrecci secondari della fiaba. La crudeltà di Turandot dovette quindi essere spiegata e riequilibrata. Fu necessario trasformare la Principessa da esecutrice tragica di un destino di vendetta, (quello che si rifà alla violenza subita dalla sua antenata Lo-u-ling), in un personaggio capace di esprimere un sentimento psicologicamente più sfaccettato, come quello della paura del maschio dominatore. Turandot non è infatti la vittima di un trauma ancestrale, da lei usato come pretesto, bensì una donna che vuole fare di se stessa un monumento di virtù. Fuggire l’uomo vuol dire conservare la purezza. Ignorare il sesso, la cui conoscenza porta alla perdita dell’innocenza, è certamente un metodo tra i più efficaci per evitare il confronto con l’umanità maschile. In virtù di una simile necessità Puccini e i suoi libret- Carlo Gozzi tisti introdussero il personaggio della sciava Liù che funziona da elemento patetico e permette, con il suo suicidio d’amore, lo “sgelamento” di Turandot. La soluzione degli enigmi da parte di Calaf e la morte della schiava fanno così convergere l’apparato simbolico della vicenda verso l’inevitabile discesa dell’algida principessa al livello degli uomini e verso il consueto lieto fine, per quanto amaro, delle favole. L’umanizzazione di Turandot è compiuta. E’ pur vero che Puccini morì subito dopo aver scritto il suicidio di Liù e che il trionfante finale con la principessa innamorata è opera di Alfano. In sordina possiamo legittimamente domandarci se il Maestro, avendone avuta la possibilità, avrebbe scelto lo stesso epilogo. Maria Elena Latini Le Opere di Giacomo Puccini e le loro prime esecuzioni Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano) Le Villi [rev] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino) Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano) Edgar [rev] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara) Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino) La bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino) Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma) Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano) Madama Butterfly [rev] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia) Edgar [rev 2] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires) Madama Butterfly [rev 2] (10.7.1905 Covent Garden, Londra) Madama Butterfly [rev 3] (28.12.1905 Opéra Comique, Parigi) La fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera, New York) La rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo) Il trittico: (Il tabarro - Suor Angelica - Gianni Schicchi) (14.12.1918 Metropolitan Opera, New York) Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano) Turandot 12 Il Giornale dei Grandi Eventi Franco Alfano, autore del finale postumo Storia di un compositore minore F ranco Alfano visse in un momento storico dominato dalla confusione - si pensi ai due conflitti mondiali - che non lasciò molto spazio alle sue aspirazioni di operista, ostacolate dalla difficoltà di trovare libretti corposi, con intrecci affascinanti e coinvolgenti. Il compositore nasce a Napoli l’ 8 Marzo 1875. Studia al Conservatorio S. Pietro a Maiella e si perfeziona poi in composizione a Lipsia. Nel 1896, alla ricerca di un ambiente culturalmente più stimolante, si trasferisce a Berlino dove la vita musicale si nutre di interessanti scoperte stilistiche. Nel 1899 è a Parigi per mettere in scena due balletti presso le «Folies Bergères» e dove comincia a scrivere l’opera Resurrezione, portata poi a termine tra Mosca e Napoli. Gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dopo la morte di Wagner nel 1883, musicalmente erano stati espressione di un forte scossone stilistico di cui Alfano è testimone. Egli, insieme con la sua generazione, sentì la necessità di un rinnovamento nel campo del teatro lirico ormai da tempo sclerotizzato, nonché l’esigenza di spaziare anche nel mondo della musica sinfonico-strumentale. Resurrezione, il suo più valido successo, è un lavoro che rivela una grande vena teatrale oltre ad una naturale forza di linguaggio, entrambe preferite all’uso di melodie facilmente memorizzabili. Le pagine della sua musica risultano quindi molto dense sinfonicamente e spesso di difficile comprensione. Il principe Zilah, sua seconda opera, è un esempio di tale difficoltà d’ascolto. Si tratta di un lavoro interessante dal punto di vista musicale, affiancato però da un libretto mediocre. Nonostante gli insuccessi, Alfano continuò a lavorare freneticamente fra le due guerre. Franco Alfano Ragguardevole la sua produzione di musica da camera: sonate per violino e per violoncello e il Quartetto n° 2, ricco di contenuti poetici e di sonorità dolci e mediterranee. La sua opera maggiore è La Leggenda di Sakùntala, di cui scrive personalmente il libretto, in prosa e non in versi, tratta dal dramma di Kalidasa: Abhijnanasakuntala risalente al 400 a.C. circa. . L’azione, ambientata nell’India primordiale. Testo e musica sono nell’opera fortemente compenetrati e l’orchestrazione raggiunge uno sfarzo lussureggiante. La prima rappresentazione è al Teatro Comunale di Bologna, il 10 dicembre del 1921, ma la partitura originale andò distrutta durante la seconda Guerra mondiale. Sarà Alfano stesso a strumentarla nuovamente, sulla base della riduzione per canto e pianoforte, riproponendola nel 1952 al Teatro dell’Opera di Roma. Intraprende anche la carriera di insegnante: docente di composizione e direttore del Conservatorio di Bologna tra il 1916 e il 1923, diventerà poi direttore del Liceo Musicale di Torino, carica che manterrà fino al 1939. Tra le tappe più importanti della sua vita c’è, paradossalmente, proprio l’incontro con un grande libretto di cui è chiamato a musicare il finale. Nel 1925 infatti, su richiesta di Toscanini, la famiglia Puccini e l’editore Ricordi lo invitano a terminare la Turandot, capolavoro incompiuto di Puccini, morto l’anno precedente. Si tratta di un lavoro delicato: musicologi e musicisti hanno gli occhi puntati sul risultato. A questa parentesi seguono, tra il 1940 e il 1942, la Sovrintendenza al Teatro Massimo di Palermo e la cattedra di Studi per il teatro lirico al Conservatorio di Roma. Ultimo incarico della carriera didattica è la direzione del Liceo Musicale di Pesaro dal 1947 al 1950. Il suo ultimo lavoro è il Cyrano de Bergerac del 1936. Critica e pubblico ne apprezzano la ritrovata sobrietà dell’orchestra. Franco Alfano muore a San Remo, quasi dimenticato, il 27 Ottobre 1957. Ma. E. La. Carlo Gozzi, autore della fiaba Turandot Un aristocratico sedotto dal fiabesco Tradizionalista e antilluminista in filosofia ed in politica, purista e classicista in estetica, questa la sintesi del carattere aristocratico e conservatore, a tratti sprezzante, di Carlo Gozzi. Amante del fantastico, nelle sue Fiabe scritte tra il 1761 e il 1765, Gozzi risuscita nelle sue opere teatrali le maschere della commedia dell’arte, trasportandole nell’atmosfera dei racconti per bambini. Vissuto a Venezia tra il 1720 e il 1806, proveniva da una nobile famiglia decaduta e per tutta la vita dovette combattere con le difficoltà economiche. Nonostante l’intensa e produttiva attività di letterato, Gozzi si rifiutò sempre di trarne guadagno per una sorta di orgoglio aristocratico. Nel 1747 fondò con il fratello Gasparo l’Accademia dei Granelleschi, tra le istituzioni letterarie più conservatrici della sua epoca. Fu aspro critico di Goldoni, al quale rimproverava un difetto profondo di sensibilità morale: conte- stava nelle opere del suo avversario “virtù e vizi mal collocati, sovente il vizio trionfatore”, la mancanza di idealità poetica e l’insufficiente disciplina stilistica. Considerava Goldoni come “uno scrittore, levatolo dal dialetto veneto del volgo, nel quale era dottissimo, da porre nel catalogo dei più goffi, bassi e scorretti scrittori del nostro idioma”. La vena poetica che anima le Fiabe, rievoca nostalgicamente un mondo rarefatto di semplice grazia e gentilezza, infantile e popolare, cui l’occhio di Gozzi si rivolgeva con sguardo benevolo e ironico e con il senso di rimpianto tipico del “laudator temporis acti”. Questi sentimenti resero l’opera di Gozzi particolarmente gradita all’Europa dell’età romantica e le Fiabe incontrarono l’apprezzamento di Goethe, Schiller, Schlegel e Madame de Staël, fino a Wagner e ai De Goncourt. In Italia, tuttavia, il suo successo fu immediato quanto effimero. Tardiva, seppur fortunata, fu la ripresa di alcune delle sue Fiabe più riuscite da parte del teatro musicale: pensiamo a L’amore delle tre melarance, rielaborata da Mejerchol’d per l’omonima opera di Profi’ev nel 1921, Turandot, ripresa da Busoni (1917) e Puccini (1926) . Le ambientazioni magiche ed esotiche popolate di maghi e principesse offrivano, comprensibilmente, uno spazio ricco di possibilità per il melodramma. E’ pur vero che gli argomenti fiabeschi delle opere di Gozzi, tratti dalle Mille e una notte e dal Pentamerone del Basile, si appesantiscono a volte di ragioni satiriche e di spunti polemici, che fanno decadere sovente la fiaba dal poetico mondo irreale e fantastico in un pedantesco allegorismo. Un cospicuo gruppo di carte in gran parte inedite, appartenenti a Gasparo e Carlo Gozzi, individuato di recente da Fabio Soldini, noto studioso gozziano, è stato acquistato di recente dalla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Il materiale è in corso di riordino ed inventario e sarà quindi disponibile per la consultazione solo tra alcuni mesi. A. C. Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 13 I librettisti Renato Simoni Giuseppe Adami C G ommediografo, librettista, sceneggiatore, critico teatrale e regista iornalista, critico teatrale, commediografo, regista di teatro e cinema, cinematografico, Giuseppe Adami è nato a Verona il 4 febbraio 1878. Renato Simoni finito il liceo, rimasto orfano di padre, deve lavorare Fin da giovanissimo si dedica al giornalismo, collaborando con il anche per provvedere alla famiglia e comincia così quella che sarà la quotidiano veronese L’Arena e, dal 1913 come critico musicale a La Sera di sua brillante carriera di giornalista. Milano, città nella quale si è in quegli anni trasferito. Nato il 5 settembre 1875 a Verona, entra nel 1894 nel giornale veronese L’Adige Scrive circa una quarantina di commedie comico-sentimentali, delle quali dove assume anche l’incarico di cronista teatrale. Cinque anni dopo diventa crialcune in dialetto veneto: I fioi de Goldoni (1905), El paese de l’amor (1907) con tico drammatico e letterario del quotidiano L’Arena e collabora a periodici umoArnaldo Fraccaroli, Bezzi e basi (1915) in veneziano, mentre in italiano La ristici firmandosi con lo pseudonimo di “Turno”. sorella lontana (1909), La capanna e il tuo cuore (1913), Pierrot innamorato (1914), Nel 1899 si trasferisce a Milano come critico drammatico del Tempo, testata Capelli bianchi (1915), quest’ultima che lascerà nel 1903 per passare al forse la migliore delle sue commeCorriere della Sera dove inizialmendie. te si mette in luce con una serie di I suoi lavori sono quasi tutti ben brillanti corrispondenze accolti dal pubblico per l’ottimidall’Oriente, articoli vari ed elzesmo borghese che le anima. Le viri di terza pagina, finché nel commedie sono, infatti, di un 1914 sostituisce Giovanni Pozza tenue sentimentalismo, graziose e nell’incarico di critico drammatico piacevoli per compostezza di che eserciterà con equilibrio e sotespressioni e vaghezza colorita di tigliezza di gusto, fino alla morte. stile. Di esse, in buona parte recitaSimoni tiene, inoltre, la rubrica di te da Dina Galli, particolare fortufondo dell’Illustrazione italiana e la na ebbero Felicita Colombo (1935) direzione della Lettura, ed è collaboda cui fu tratto anche un film nel ratore dell’umoristico Guerin 1937 e Nonna Felicita (1936) in cui è Meschino, della Domenica del Corriere rappresentata la conquista della e del Corriere dei piccoli. buona società milanese da parte di Durante la prima guerra mondiale una Madame Sans-Gêne meneghiorganizza al fronte il “Teatro del soldana, l’arricchita salumaia Felicita. to”(1917) e fonda e dirige La Tradotta, Giuseppe Adami, Giacomo Puccini e Renato Simoni Giuseppe Adami ha scritto anche giornale di trincea della terza armata. diversi libretti per opere, dei quali i più conosciuti sono La via della finestra Notevoli i suoi scritti come critico su Shakespeare, sulla commedia italiana del (1919) per Riccardo Zandonai e quelli per Giacomo Puccini: La rondine Cinquecento, sulla commedia dell’Arte, sul prediletto Goldoni e certi suoi (1917), Il tabarro (1918), Suor Angelica ed, in collaborazione con Renato ritratti di commediografi, di attori, di critici come Gli assenti (1920), Ritratti Simoni, Turandot (1926). (1923), Teatro di ieri (1938) e Uomini e cose di ieri (1952). Stretto amico di Puccini, cura nel 1928 il primo epistolario pucciniano e scri- Tra il 1902 e il 1910 scrive per la scena quattro commedie in dialetto veneto che ve due biografie del musicista, delle quali la maggiore è Il romanzo della vita vengono tutte interpretate dal sensibilissimo Ferruccio Benini: La vedova (1902), di Giacomo Puccini (1932). E’ anche autore di soggetti cinematografici e di Carlo Gozzi (1903) , Tramonto (1906) e Congedo (1910). un’azione coreografica Vecchia Milano per la musica di Franco Vittadini La sua prima commedia fu La vedova che riscosse discreto successo, come (1928). Congedo. Successo che invece non ottennero i lavori Carlo Gozzi e Tramonto, Muore a Milano il 12 ottobre 1946. mentre con indifferenza fu accolta il Matrimonio di Casanova (1910), la commeA. C. dia scritta da Simoni in collaborazione con Ugo Ojetti. Opere per lo più originali, intimiste, ricche di psicologia, talora anticipatrici di una drammaturgia moderna. Del 1908 è la rivista Turlupineide, una piccante satira di personaggi della vita politica e letteraria, prima del genere in Italia e subito imitatissima. Dalle commedie ai libretti Nel 1910 scrive il libretto per l’operetta La secchia rapita, prima esperienza in campo librettistico proseguita poi con collaborazioni più impegnative. E’ anche regista di memorabili spettacoli goldoniani e di classici come Shakespeare, Pirandello, Tasso, nonché autore di vari libretti d’opera: Madame Sans-Gêne (1915) per Umberto Giordano, Turandot (1926) realizzato in collaborazione con Giuseppe Adami per Giacomo Puccini e il Dibuck per Lodovico Rocca. La sua pungente visione critica appare nelle recensioni del Corriere della Sera, raccolte postume in 5 volumi sotto il titolo di Trent’anni di cronaca drammatica 1911-52 (1951-60), nelle Cronache della ribalta (1927) e nei commenti del giorno Le fantasie del nobiluomo Vidal (1953). Nel 1939 è nominato accademico d’Italia e nel 1951 presidente del Circolo della Stampa di Milano. Lascia al museo della Scala la sua cospicua raccolta teatrale composta da 40.000 volumi, collezioni di riviste, costumi, maschere, manifesti e altri oggetti di interesse teatrale. Muore a Milano il 5 luglio 1952 e nello stesso anno è commemorato al Festival di Venezia con La vedova. Alice Calabresi Renato Simoni Turandot 14 Il Giornale dei Grandi Eventi Consigli gastronomici del librettista Giuseppe Adami Una ricetta d’autore: Il Baccalà alla goldoniana G iuseppe Adami, veronese di nascita (4 febbraio 1878), ma milanese di adozione, è noto per aver legato il suo nome a quello di grandi compositori, tra i quali Giacomo Puccini per il quale oltre ad altri lavori (La Rondine, Il Tabarro), con Renato Simoni adattò il testo di una fiaba di Carlo Gozzi come libretto della Turandot, messa in scena la prima volta alla Scala di Milano il 25 aprile del 1926. Molto apprezzato dalla borghesia meneghina, sulla quale scriveva brillanti commedie, recitate in gran parte dall’attrice più famosa in quei tempi: Dina Galli, inizia la sua produzione drammatica nel 1910. Critico musicale e teatrale per il quotidiano veronese “L’Arena”, sceneggiatore cinematografico e commediografo, il mondano, ma anche schivo, Adami è autore di una ricetta gastronomica realizzata per l’Istituto Editoriale Italiano nel 1932, pubblicata in un delizioso volumetto dal titolo La Tavola della Celebrità. Tra i “celebri” partecipanti c’è anche Sibilla Aleramo, Filippo Tommaso Martinetti, fondatore del movimento futurista, Riccardo Bacchelli e altri famosissimi personaggi del mondo letterario, teatrale, artistico e giornalistico dell’epoca. Nel testo, il librettista si cimenta con il “Baccalà alla Goldoniana”. Un “piatto” non certo facile per i nostri tempi frettolosi, ma per un buon “gusto” letterario Giuseppe Adami e per quel positivo desiderio “mondano” di riscoprire i sapori “antichi”, merita di essere presentato. Adami scrive testualmente: «Come è da tempo stabilito che per fare la lepre in salmì occorre prima di ogni altra cosa la lepre, resta assodato che per raggiungere la perfezione nel piatto che ora prepareremo, è necessario procurarsi il miglior baccalà, da non confondersi, Dio ci scampi e liberi, col comunissimo merluzzo. Consiglio senz’altro di rivolgervi a qualche amico del Veneto perché, o da Verona o da Padova, da Vicenza o da Venezia vi spedisca questa materia prima che già all’epoca della Repubblica si importava dai mari del nord per la delizia dei Dogi, delle Dogaresse e del popolo. Bisogna subito confessare che il primo gesto per la preparazione del baccalà alla goldoniana, è un gesto brutale e violento: il baccalà va battuto. Molto battuto. Senza remissione. Senza Scrupoli. Senza pietà. Ma compiuta questa prima operazione, quasi a sanare i lividi delle percosse, si depone in un placido bagno d’acqua fresca e là si abbandona per otto o dieci ore. E’ con quella stessa acqua che, successivamente, si mette sul fuoco. Ma appena levato il bollore, lo si toglie, e si incomincia la delicata operazione della ripulitura. Bisogna assolutamente che non rimanga la più piccola lisca. I bei pezzi morbidi e bianchi che se ne traggono, più o meno interi o sbriciolati, si infarinano e si mettono quindi nel sof- fritto che avrete preparato in apposita casseruola. In questo soffritto ricordatelo - consiste gran parte della riuscita del piatto. E mettetevi bene in testa questa massima fondamentale: il baccalà va molto condito. Perciò, per un chilo di materia prima, occorre non meno di un etto di burro e altrettanto di olio finissimo. Un po’ di cipolla profumerà inizialmente l’atmosfera. Ma il vero, il sano, l’irresistibile profumo si sprigionerà più tardi, indimenticabile. Procediamo nella preparazione. Rimestando, dunque, il baccalà nel soffritto, vi si aggiunge un po’ di quell’acqua nella quale ha levato il bollore, e si chiude ermeticamente la casseruola. Fate bollire il più lento possibile, per quattro ore. Il segreto è questo: bollitura lunga e sommessa. A metà bollitura aggiungerete cinque o sei acciughe, prezzemolo finemente trattato, un po’ di pepe. Richiudete la casseruola. Di tanto in tanto, sorvegliate, rimestate, sbriciolate i pezzi più grossi, in modo che la bagna riesca nello stesso tempo morbida e densa, e baccalà ed intingolo fraternizzino pienamente. All’ultima mezz’ora di bollitura, preparate la polenta. Non dimenticatevi, a cottura compiuta, di lasciar riposare senza fuoco il baccalà nel tegame, per una decina di minuti. Quel riposo darà la fusione classica all’intingolo. Sedete a tavola. Servite. Polenta e baccalà vi riconciliano con la crisi del Teatro italiano». A cura di Michela Marini Il Giornale dei Grandi Eventi Turandot 15 Nei primi, goliardici, anni di studi del compositore lucchese Fagioli e minestrone per Puccini A lla fine dell’ottobre 1880, Puccini lasciò la sua casa toscana per andare a studiare al Conservatorio di Milano. Sostenne l’esame e scrisse alla madre: «Cara mamma per ora non ho ancora saputo niente della mia ammissione al Conservatorio, perché sabato si aduna il Consiglio per deliberare circa gli esaminati e vedere quali possono ammettere; i posti sono molto pochi. Io ho buone speranze avendo riportato più punti. Dica al mio caro maestro Angeloni che l’esame fu una sciocchezza, perché mi fecero accompagnare un basso scritto di una riga, senza numeri è facilissimo, e poi mi fecero svolgere una melodia in re maggiore, che mi riuscì felicemente. Basta, è andata anche troppo bene! ...Vado spesso dal Catalani che è gentilissimo...La sera quando ho palanche vado al caffè, ma passano moltissime sere che non ci vado perché un ponce [sic] costa 40 centesimi. Però vado a letto presto, mi stufo a girare su e giù per la galleria. Ho una cameretta bellina, tutta ripulita con un bel banco di noce a lustro che è una magnificenza. Insomma ci sto volentieri. La fame non la pato. Mangio maletto, ma mi riempio di minestroni brodo lungo e...seguitate! La pancia è soddisfatta....». In una successiva lettera ancora alla madre, il giovane artista raccontava la sua giornata: «Ieri ho avuto la seconda lezione di Bazzini e va benissimo...Mi sono fatto un orario così disposto. La mattina mi alzo alle otto e mezza, quando ci ho lezione, vado. In caso diverso studio un po’ di pianoforte...Seguito: alle dieci e 1/2 faccio colazione, poi esco. All’una vado a casa e studio per Bazzini un paio d’ore; poi dalle tre alle cinque via daccapo col pianoforte, un po’ di lettura di musica classica...Alle cin- della cucina lucchese, si bevevano e nessuno, Dio ci rivolgeva alla madre: liberi, si dava il pensiero di «Avrei bisogno di una cosa, pagare....A nessuno saltava ma ho paura a dirgliela, per- mai in mente di tirar fuori ché capisco anch’io Lei non un centesimo; e Gigi, il può spendere. Mi stia a sen- padrone, onorato da tanta tire, è roba da poco. Siccome fiducia dimostrava la sua ho una gran voglia di fagio- gratitudine in due maniere: li (anzi un giorno me segnava a libro e teneva a li fecero, ma non li mente. Quando per caso potei mangiare a capitava qualche novizio il cagione dell’olio che quale per ignoranza o per qui è di sezamo di inavvertenza pagava subito, lino!) dunque dice- la “Laringe Etrusca” - il vo...avrei bisogno di bollettino manoscritto dei un po’ d’olio, ma di clienti dell’Excelsior - usciquello nuovo. La pre- va fuori il giorno dopo con gherei di mandarmene queste poche ma significanti righe della cronaca artistica un popoino....». A Milano si era crea- teatrale: “Ieri all’Excelsior è ta una «colonia» avvenuto un putiferio. Una toscana. Artisti persona forse affatto ignara buontemponi dalla degli usi e dei costumi di battuta facile e dal quel ritrovo, dopo aver manAlbina Magi Puccini , madre di Giacomo sorriso sempre pron- giato una bistecca alla fiomezzo litro di vino. Dopo to. Luogo di riunione, rentina, ha osato imprudenaccendo un sigaro e me ne l’Excelsior, una modesta temente di volerla pagare. vado in Galleria a fare una trattoria toscana: «Da Questo incidente spiacevole, passeggiata in su e in giù, Puccini a Mascagni fino ai senza precedenti, per buona secondo il solito. Sto lì fino più ignoti maestri paesani fortuna non ha avuto lutalle nove e torno a casa spie- sparsi oggi giorno per tuose conseguenze”». dato morto. Arrivato a casa l’Italia e all’estero...o faccio un po’ di contrappun- quali maestri di capto, non suono perché la pella in qualche ignoto notte non si può suonare. villaggio, tutti i giovaDopo infilo il letto e leggo notti etruschi che stual sette o otto pagine di un diavano romanzo. Ecco la mia Conservatorio non mancavano mai. Vi vita!...». La vita di Puccini studen- faceva signorilmente te assomiglia a quella di qualche rara apparitanti suoi colleghi, dalla zione in cerca di un provincia arrivati nella amico o di un concitgrande città, armati solo tadino, oppure una del talento e della deter- pietanza casalinga, minazione. In tasca pochi Alfredo Catalani, semsoldi. Stomaco costante- pre pallido, elegante, mente vuoto, o quasi. modesto e melanconico, Giacomo Puccini ai tempi del soggiorno milanese Sembra di rivivere nella sobrio di parole e di gesto, Le difficoltà per Puccini realtà le storie di Rodolfo, freddo, ma garbato e signo- si protrassero per diversi anni. Ancora il 30 aprile Marcello, Schaunard e rile... Colline i quattro sfortu- Quando c’era bisogno di 1890 scriveva al fratello: una voce schietta, di un «...Qui c’è un gran fermennati artisti di Bohème. Casa e scuola, combattuti vocabolo nuovo, di una fra- to per il primo maggio. Tutti fra una realtà certamente settina viva che non facesse gli operai fanno sciopero. difficile e il sogno di una una grinza, si andava Io... vado in campagna. carriera ancora tutta da all’Excelsior dove il puzzo Stanotte ho lavorato fino conquistare e da vivere. di cucina, quello che la alle tre e dopo ho cenato con Puccini, come Mascagni, buona anima di Raffaellino un mazzo di cipolle..». Poi, come Leoncavallo si Fornaciari, già insegnante finalmente, nel 1893, accontentava, limitava i d’italiano al Liceo Lucca, Manon Lescaut diede bisogni a quelli stretta- sua città nativa, avrebbe notorietà, fama e benesmente necessari. Quando chiamato leppo, tappava il sere al Lucchese che potè era tentato dai ricordi naso. Tutti mangiavano e rientrare da vincitore que vado al pasto frugale (ma molto di quel frugale!) e mangio minestrone alla milanese, che per dire la verità è assai buono. Ne mangio tre scodelle, poi qualche altro empiastro; un pezzetto di cacio coi bei e un nelle sue terre dove praticò tutta la vita, ogni volta che la musica glielo consentiva, la caccia e la pesca. Il tono nelle sue lettere cambia. Si legga la seguente indirizzata da Torre del Lago al librettista Luigi Illica, il 4 agosto appunto del 1893: «...Pomè mi ha scritto che tu forse verrai a Lucca. In casa mia, qui, esistono letti soffici, polli, oche, anitre, agnelli, pulci, tavoli, sedie, fucili, quadri, statue, scarpe, velocipedi, cembali, macchine da cucire, orologi, una pianta di Parigi, olio buono, pesci, vino di tre qualità (acqua non se ne beve), sigari, amache, moglie, figli, cani, gatti, rhum, caffè, minestre di varie forme, una scatola di sardine andate a male, pesche, fichi, due latrine, un eucaliptus, pozzo in casa, una scopa, tutto a vostra disposizione (eccetto la moglie)...». In quegli anni si fecero stretti i rapporti fra Puccini, Illica, Giacosa (suoi collaboratori per Bohème, Madama Butterfly e Tosca) e naturalmente Giulio Ricordi, il suo grande editore. Proprio a Ricordi nell’ottobre 1895, Puccini inviò una certa quantità di fagioli con la ricetta per cucinarli: «Carissimo sig. Giulio, riceverà un poco di fagiuoli... sono di quelli straordinari e si cuociono così: si mettono al fuoco in acqua fredda (l’acqua deve essere una dose giusta, nè troppa nè poca) devono bollire due ore a fuoco lento e quando sono cotti non deve restarci che 3 o 4 cucchiai di brodo. Ergo, attenzione alla dose dell’acqua. N.B. Quando si mettono al fuoco bisogna aggiungere 4 o 5 foglie di salvia, 2 o 3 teste d’aglio intere, sale e pepe e quando sono (i fagiuoli) a mezza cottura metterci un poco d’olio a bollire insieme...». Ro. Io.