anno XX - Numero 24 - 28 marzo 2014 L’Intervista Parla il regista Pier Luigi Pizzi A Pag. 2 La Storia dell’Opera Un Maometto evoluto in tre differenti versioni A Pag. 6 L’Analisi Musicale Un titolo del Rossini serio tutto da riscoprire A Pag. 7 La figura storica Maometto II, settimo Sultano della antica dinastia Ottomana A Pag. 8e9 Giallo sulla fonte letteraria Da una tragedia di della Valle e non da un lavoro di Voltaire A Pag. 15 maometto II di Gioachino Rossini maometto II 2 Il Giornale dei Grandi eventi Parla il regista Pierluigi Pizzi «Un allestimento fortemente rivisto per adattarlo al finale tragico» N onostante i suoi 84 anni è dinamico ed inventivo Pierluigi Pizzi, regista ed autore di scene e costumi di questo allestimento del Maometto II di Rossini realizzato per Teatro La Fenice di Venezia dove andò in scena, per 5 repliche, dal 28 gennaio al 6 febbraio del 2005. « In realtà non è una vera “ripresa” – sottolinea il regista milanese – poiché se è vero che da quell’allestimento siamo partiti, questo spettacolo lo abbiamo molto ripensato, sia per adattalo allo spazio di Roma molto più grande de La Fenice e meno moderno, sia per adeguarlo al finale tragico, visto che a Venezia l’opera era stata presentata in quella versione “veneziana” del 1822 quando Rossini gli cambiò il finale, addolcendolo con il matrimonio tra Anna e Calbo al posto della morte di Anna ». Il Maometto II, infatti, fu composto per il Teatro San Carlo di Napoli dove debuttò il 3 dicembre 1820 senza grosso successo. L’opera, quindi, fu ripresa da Rossini e modificata in fretta e furia per una fulminea stagione d’autunno del Teatro la Fenice, al fine di presentarla a Venezia dal 26 dicembre 1822 al 1 gennaio 1823 in occasione della visita nella città lagunare dell’Imperatore d’Austria Francesco I, dello zar Alessandro I, con gli ambasciatori di Francia ed Inghilterra ed il principe Metternich, vero tessitore del nuovo ordine europeo dopo i moti del 1820-21, tutti di ritorno dal Con- gresso di Verona. Sarà questa la penultima opera italiana di Rossini prima di Semiramide e prima del trasferimento del “Pesarese” a Parigi, dove riproporrà, con ulteriori aggiustamenti, questo lavoro nel 1826 sotto il titolo di Le Siège de Corinthe, trasferendo appunto l’azione da Negroponte (dove sono ambientate le due versioni del Maometto, a Corinto). Pierluigi Pizzi è un vero esperto di questo titolo rossiniano, avendone curato la regia, prima di questa romana, di tutte le diverse versioni, in quattro allestimenti. «La prima volta fu a Pesaro per il Rossini Opera Festival nel 1985, dunque quasi 30 anni fa, quando in pratica era la prima volta che tale opera veni- Il G iornale dei G randi eventi Direttore responsabile Andrea Marini Direzione Redazione ed Amministrazione Via Courmayeur, 79 - 00135 Roma e-mail: [email protected] Editore A. M. Stampa: Tipografica Renzo Palozzi Via Vecchia di Grottaferrata, 4 - 00047 Marino (Roma) Registrazione al Tribunale di Roma n. 277 del 31-5-1995 © Tutto il contenuto del Giornale è coperto da diritto d’autore Visitate il nostro sito internet www.ilgiornalegrandieventi.it dove potrete leggere e scaricare i numeri del giornale va rappresentata in tempi recenti. Allora portammo in scena la versione napoletana. Nel 1993 curai, invece, la regia per il maggio Musicale Fiorentino dell’Assedio di Corinto, spettacolo che riproposi anche a Parigi qualche anno dopo e quindi arriviamo alla produzione fatta per la Fenice nel 2005 riprendendo, come detto la versione Veneziana de Maometto II». Pizzi, che nella regia d’opera debuttò nel 1952 con il Don Giovanni di Mozart a Genova, sostiene che non esiste un fil rouge tra questi suoi diversi allestimenti, ma che anzi lui concepisce il proprio lavoro come il trionfo dell’effimero, dove ogni volta rimette in discussione tutto, per non essere influenzato dal passato. «Questa la possiamo considerare una nuova produzione, visto che abbiamo cambiato molto, dai costumi, alle luci, ai giochi di colori, anche se effettivamente di colore non ce ne è volutamente molto, per dare la sensazione di disperazione di questa città che sta per arrendersi al nemico. Il sipario si alza e ci troviamo di fronte a delle rovine, una chiesa ridotta a macerie. Ho giocato pure sui piani verticali per aumentare la drammaticità della visione, che ho cercato di rendere “pesante” attraverso l’illuminazione ed il cromatismo. Infatti, nel secondo atto, che è quasi tutto stato cambiato, le tinte sono cupe: siamo nella cripta e l’atmosfera vuole preparare lo spettatore al sacrificio di Anna. Ricordiamo che qui presentiamo la prima versione integralmente, quella tragica, senza tagli. L’idea delle architetture classiche in rovina sono pure la metafora di un occidente che soccombe di fronte alla invasione turca, fenomeno e paura al tempo molto sentito. Maometto II lo considero un capolavoro che offre molti spunti di riflessione. Forse era un’opera troppo moderna per quando fu scritta e forse per questo non venne capita. Ma tante opere di Rossini sono rinate solo dopo la seconda Guerra Mondiale e prima erano quasi scomparse: la stessa Semiramide che presentai negli anni ’80 fu salutata come “grande scoperta”. Rossini compose sempre ad alti livelli e scrisse tutto quello che si poteva scrivere». andrea marini Stagione d’opera 2013 -2014 del teatro dell’opera di Roma 8 - 14 maggio L’eLISIR D’amoRe di Gaetano Donizetti Donato Renzetti Ruggero Cappuccio Direttore Regia 18 - 28 giugno CaRmeN Direttore Regia di Georges Bizet Emmanuel Villaume Emilio Sagi 4 luglio the PRoDIgaL SoN Direttore Regia di Benjamin Britten James Conlon Mario Martone 21 - 31 ottobre RIgoLetto di Giuseppe Verdi Renato Palumbo Leo Muscato Direttore Regia ~~ La Locandina ~ ~ Teatro Costanzi 28 marzo - 8 aprile 2014 maometto II Dramma in musica in due atti Libretto di Cesare della Valle, duca di Ventignano Prima Rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 3 dicembre 1820 (2° Vesione): Venezia, Teatro La Fenice, 26 dicembre 1822 Musica di Gioachino Rossini Direttore Roberto Abbado Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi Maestro del Coro Roberto Gabbiani Personaggi / Interpreti Paolo Erisso (T) Anna Erisso (S) Calbo (C) Condulmiero (T) Maometto II (B) Selimo (T) Juan Francisco Gatell / Giulio Pelligra (6) Marina Rebeka / Carmela Remigio (6, 8) Alisa Kolosova / Teresa Iervolino (6) Enrico Iviglia Roberto Tagliavini / Mirco Palazzi (6) Giorgio Trucco ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA Allestimento del Teatro La Fenice ~ ~ La Copertina ~ ~ gentile Bellini, Ritratto di Maometto II National Gallery, Londra Il maometto II Giornale dei Grandi eventi N on è mai andata in scena all’Opera di Roma il Maometto II di Gioacchino Rossini, sua nona e penultima opera napoletana, che debuttò al San Carlo il 3 dicembre 1820 con un finale tragico, per poi essere ripresentata a La Fenice di Venezia due anni dopo con il lieto fine del matrimonio tra Anna e Calbo. L’opera venne quindi rielaborata una terza volta, quattro anni dopo, per essere proposta a Parigi con il titolo Le siège de Corinthe (L’assedio di Corinto). In quest’ occasione a Roma viene portata in scena la prima versione, quella napoletana, nell’edizione critica di Philip Gosset, con un allestimento severo nato, per il Teatro la Fenice nel gennaio 2005, e firmato per regia, scene costumi da Pierluigi Pizzi, il quale già nel 1993 si era confrontato con questo titolo per il Rossini Opera Festival. In quell’occasione a Venezia, con quest’ allestimento, venne proposta la seconda versione dell’opera, proprio quella che debuttò nella città lagunare il 26 dicembre 1822. Il libretto di quest’opera è frutto del letterato Cesare della Valle, duca di Ventignano tratta da un proprio dramma scritto an- ch’esso in quel 1820 e pubblicato dopo il debutto dell’opera. Da notare la trama dell’opera si discosta dalla realtà storica, visto che nella realtà storica i turchi guidati da Maometto II sconfissero i veneziani il 12 luglio 1470, sterminando la popolazione e lo stesso bailo Erizzo fu segato a metà, prestando fede alla promessa fattagli dal Sultano di avere salvo il collo. 3 Le Repliche Domenica 30 marzo, h. 16,30 Martedì 1 aprile, h. 20,00 Giovedì 3 aprile, h. 20,00 Sabato 5 aprile, h. 18,00 Domenica 6 aprile, h. 16,30 Martedì 8 aprile, h. 18,00 Queste sette rappresentazioni vedranno sul podio il maestro Roberto Abbado, nipote di Claudio recentemente scomparso. Maometto II dopo 194 anni debutta a Roma La Trama atto I - Nella colonia veneziana di Negroponte, in Grecia, verso la metà del secolo XV - In una sala del suo palazzo, il governatore veneziano Paolo Erisso siede pensieroso circondato dai suoi generali per decidere il da farsi contro l’assedio delle truppe del sultano Maometto II. Mentre il generale Condulmiero suggerisce di accettare la resa proposta dai mussulmani, il giovane generale Calbo incita a resistere. E’ quest’ultima linea ad essere accolta da Erisso, il quale invita tutti ad estrarre la spada ed a giurare di combattere fino alla morte. Erisso è preoccupato per la sorte della figlia Anna e di questo si confida con Calbo, con il quale si reca nell’appartamento della donna, annunciandole di averla destinata in sposa a questo suo generale per assicurarle una maggiore protezione, ma Anna, titubante, rivela di essere innamorata di Uberto, re di Mitilene, conosciuto a Corinto mentre il padre era in viaggio per Venezia. Lo stupore di Paolo Erisso è grande: egli, infatti, ricorda di aver avuto Uberto al proprio fianco durante quel viaggio. Così, l’uomo conosciuto da Anna non poteva che essere un mentitore. Alcuni colpi di cannone interrompono il colloquio. Erisso nel lasciare la figlia, le consegna un pugnale. Anna si dirige nel tempio, dove le donne le rivelano che qualcuno nottetempo ha aperto le porte della città ai Turchi, ma per fortuna Maometto, temendo un’imboscata, ha deciso di attendere l’alba per entrare in città e dunque Erisso e Calbo hanno ancora speranza di contrastarlo. All’alba entrano i mussulmani pronti alla carneficina, ma Maometto li ferma dando al proprio confidente Selimo ordini precisi. Questo è stupito dalla puntuale conoscenza del luogo da parte del Sultano, il quale spiega di esserci stato in precedenza in incognito. Erisso e Calbo sono fatti prigionieri e condotti da Maometto, che riconosce nel nome del governatore il padre di Anna e gli propone salva la vita in cambio della resa. Allo sdegnato rifiuto di Erisso, Maometto ordina che siano sottoposti a tortura. Mentre le guardie li trascinano via, giunge Anna che si getta ai piedi di Maometto e subito riconosce in lui l’uomo amato a Corinto. Minacciando di trafiggersi, la giovane supplica il Sultano di liberare il padre e Calbo che lei chiama “fratello” per non suscitare la gelosia di Mao- metto. Il condottiero turco scioglie lui stesso le catene e, prima di allontanarsi per riprendere il combattimento, chiede ad Anna di tornare con lui. Erisso in preda alla vergogna respinge la figlia. atto II - Anna è condotta nella lussuosa tenda di Maometto, dove una schiera di ancelle mussulmane cerca invano di distoglierla dai suoi tormenti, mentre lei medita di fuggire. Sopraggiunge Maometto, il quale, comprendendo il dilemma tra amore e dovere, le rinnova il proprio sentimento, proponendole di sposarla e farla regina. Anna rifiuta, ma non sa trattenere le lacrime, che Maometto capisce essere lacrime d’amore e per questo tenta di stringerla a se, ma lei lo scosta. Improvvisamente giunge la notizia che l’attacco alla rocca è stato respinto e che gli invasori indietreggiano incalzati dai veneziani. Maometto vuole tornare a combattere. Mentre esce, Anna lo ferma, sentendosi insicura. Maometto, allora, le dona l’anello con il sigillo imperiale che le assicurerà l’obbedienza ed il rispetto dei turchi, avvertendola che se al suo ritorno non sarà sua docile sposa, lui tornerà ad essere per lei solo il terribile sultano. Erisso e Calbo nei sotterranei studiano un piano d’azione. Erisso per placare la propria furia verso la figlia, si ferma a pregare sulla tomba della moglie defunta. Giunge Anna con un servo che porta due turbanti e due mantelli turchi: i due veneziani così travestiti e con l’anello di Maometto come salvacondotto, potranno raggiungere la rocca ed unirsi ai combattenti. Ma prima che i due si allontanino, Anna chiede al padre di unirla in matrimonio con Calbo davanti alla tomba della madre. Dopo il rito Anna rimane a pregare sulla tomba. Non passa molto, che arriva un gruppo di donne per avvertirla di mettersi in salvo, poiché i mussulmani la stanno cercando ritenendola responsabile della disfatta. I turchi entrano e si lanciano verso Anna, la quale si presenta loro pronta a morire. Il suo coraggio li frena, mentre giunge Maometto che pregusta la vendetta, ma Anna, dopo avergli rivelato che Calbo non era suo fratello ma ormai suo marito, si pugnala davanti ai suoi occhi, cadendo ai piedi del sepolcro della madre. Il Giornale dei Grandi eventi maometto II 5 Marina Rebeka e Carmela Remigio Juan Francisco Gatell e Giulio Pelligra Anna Erisso, divisa fra amore e spirito di Patria Paolo Erisso, eroico governatore veneziano S ono i soprano marina Rebeka (28,30,/3- 1,3,5/4) e Carmela Remigio (6,8/4) ad alternarsi nel ruolo di Anna, figlia del governatore veneziano. marina Rebeka, Riga (Lettonia) nel 1980, nel 2007 si è diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e nello stesso anno ha vinto il primo premio al Concorso Internazionale “Neue Stimmen”. Nel 2009 ha debuttato al Festival di Salisburgo, con la direzione di Muti, e da allora viene invitata regolarmente dai più importanti teatri del mondo. scorsa estate ha interpretato Mathilde (Guillaume Tell) al Rossini Opera Festival.In luglio alla Bauerische Staatsoper ne La traviata Verdi e in aprile è tornata alla Scala per un concerto su musiche di Händel e Mozart con l’Orchestra Filarmonica della Scala. Il suo vasto repertorio operistico include le principali opere di Mozart, Verdi, Donizetti, Rossini, Puccini, Messenet, Bizet, Gounod e Marina Rebeka Handel. Carmela Remigio, nata a Pescara nel 1973, ha intrapreso lo studio del canto con il baritono Aldo Protti, e successivamente si è perfezionata con Leone Magiera. Nel 1992 ha vinto il primo premio del concorso vocale Luciano Pavarotti International Voice Competition di Philadelphia, e dal 1997 è stata spalla di Luciano Pavarotti in oltre 70 concerti in giro per il mondo. La Remigio, dopo un primo inizio nel repertorio barocco, ha dedicato particolare attenzione alle opere di Mozart, cantando tutti i ruoli da protagonista delle sue opere maggiori. i recenti e prossimi impegni: Simon Boccanegra, La clemenza di Tito e La carriera del libertino. A cantare nel ruolo di Paolo Erisso sono i tenori Juan Francisco gatell (28,30,/3- 1,3,5,8/4) e giulio Pelligra (6/4). Juan Francisco gatell, nato a La Plata (Argentina) nel 1978, dal 2005 ad oggi ha cantato nei più importanti teatri italiani ed internazionali; nel 2006 ha vinto il riconoscimento dell’associazione Lirica concertistica italiana (ASLICO). Nella stagione 2011/12 si è esibito nel Don Pasquale, i Capuleti e i Montecchi, Pulcinella, Il barbiere di Siviglia, e ha debuttato nel ruolo di Oronte in Juan Francisco Gatell Alcina. Nella stagione 2013/2014 ha debuttato ancora nel Il barbiere di Siviglia e in Falstaff. Tra i suoi impegni futuri Lucia di Lammermoor al Teatro alla Scala di Milano, Cosi fan tutte a Vienna, e sarà al Teatro Petruzzelli di Bari per il Requiem di Mozart. giulio Pelligra, nato a Catania nel 1986, ha cominciato gli studi musicali come pianista, successivamente ha frequentato diversi master di stile e tecnica vocale. Numerosi sono stati i concerti come solista, che il tenore ha tenuto per enti pubblici siciliani ed eseguiti in luoghi prestigiosi. Nel 2006 ha debuttato con il ruolo di Almaviva nel Barbiere di Siviglia, per il B.O.V. Opera Festival di Malta, e nel 2007 ha vinto una menzione d’onore al Concorso Internazionale per Cantanti Lirici a Pescara, il I° Concorso “Salvatore Cicero” della Fondazione Orchesta Sinfonica Siciliana, e ha vinto il 3° premio del Concorso Internazionale “Voci del Mediterraneo”. Nel 2013 È stato finalista presso il Concorso As.Li.Co di Como. Ha eseguito la Petite messe di Rossini presso la cattedrale di Caltanisetta. Rcentemente ha debuttato nello Stabat Mater di Luigi Boccherini diretto da Manlio Benzi. Tra i suoi prossimi impegni, c’è il Guillaume Tell a Bruxelles, e il Don Giovanni al teatro Massimo di Palermo. Roberto Tagliavini e Mirco Palazzi Alisa Kolosova e Teresa Iervolino Maometto II, sultano feroce ma innamorato Calbo, generale decisionista e sposo designato N el ruolo di Maometto II a cantare sono Roberto tagliavini (28,30,/3- 1,3,5,8/4) e mirco Palazzi (6/4). Roberto tagliavini, nato a Parma, ha intrapreso lo studio del canto con il baritono Romano Franceschetto. Nel 2005 ha debuttato nell’Alceste di Gluck e successivamente si è esibito nei principali Teatri italiani ed Europei. Nel 2009 è stato votato come miglior interprete nella Stagione del Teatro Verdi di Trieste e nel 2010 ha vinto il premio come miglior giovane cantante al Verdi Festival di Parma per le esecuzioni di Loredano in i due Foscari e per la Messa da Requiem di Verdi. In seguito ha partecipato a numerose registrazioni discografiche, tra cui Benvenuto Cellini, i Capuleti e Montecchi e l’Aida. mirco Palazzi è nato a Rimini. Ha iniziato giovanissimo lo studio del pianoforte per poi dedicarsi al canto, diplomandosi con lode e menzione d’onore al Conservatorio Rossini di Pesaro. Ha debuttato nel ruolo titolo del Don Giovanni di Mozart a Riva del Garda. Si è poi esibito a Bologna, Napoli, Scala di Milano (Stabat Mater diretto da Chailly e Don Giovanni), Regio di Parma, Ravenna,Catania, Montecarlo, Trieste, Genova (Lucia di Lammermoor), Festival di Edimburgo (Zelmira ed Adelaide di Borgogna). In concerti ha cantato il Requiem di Mozart a Torino e Genova, Stabat Mater di Rossinia Catania, Bolzano e Pesaro, la Messa dell’Incoronazione di Mozart a Bologna, la Messa da Requiem di Verdi in Messico, a Liverpool ed in Giappone e la Messa di gloria di Puccini con la Regionale Toscana. La sua discografia comprende: Petite Messe Sollennelle, Stabat Mater, Demetrio e Polibio, Zelmira, L’esule di Granata, Sofonisba, Adelaide di Borgogna e Il Diluvio Universale, Lucia di Lammermoor, Jakobin di Dvorak ed un Recital. E’ un ruolo dal contralto quello del generale Calbo, dove a cantare sono alisa Kolosova (28,30,/3- 1,3,5,8/4) e teresa Iervolino (6/4). alisa Kolosova, nata nel 1987 a Mosca, si è perfezionata presso il Teatro Accademia Russa e al Conservatorio di Mosca. Ha vinto numerosi premi, partecipando al progetto Young Singers. Nel 2010 sotto la guida di Muti ha debuttato nel ruolo di Giuditta nella Betulia Liberata e quindi ha cantato altri importati ruoli, quali Olga (Eugen Onegin) e Orpheus (Orfeo ed Euridice) al Teatro dell'Opera di Parigi . Inoltre , si è esibita nel Messia di Handel al Norske Opera di Oslo e al Kennedy Center di Washington , cosÏ come in Rusalka al Festival di Glyndebourne. Fra i suoi prossimi impegni c’è l’Opera National de Paris, la Bayerische Staatsoper di Monaco e la Chicago Symphony Orchestra. teresa Iervolino, nata a Bracciano (Roma) nel 1989, ha iniziato a studiare canto fin da bambina, diplomandosi nel 2011 al Conservatorio Cimarosa di Avellino con il massimo dei voti. Nel 2010 ha partecipato alla serie dei 10 concerti dell’opera inedita Passio Christi, ed è stata finalista ad una serie di concorsi di canto, aggiudicandosi il Primo premio al Gigliola Frazzoni e il premio speciale Anselmo Colzani al 6° concorso lirico internazionale Città di Bologna 2012. debuttato al Filarmonico di Verona a maggio 2012 con Pulcinella Stravinskij. Poi è stata Maddalena nel Rigoletto Chieti, Isabella ne L’Italiana in Algeri Como e Ravenna, Miss Bagott ne Il piccolo spazzacamino Regio di Torino e Fidalma ne Il matrimonio segreto Spoleto. Tra i suoi impegni futuri i debutti come Cenerentola Savona e Rovigo e Cornelia in Giulio Cesare ’Opera de Toulon. Pagina a cura di Mariachiara Onori 6 maometto II Il Giornale dei Grandi eventi La Storia dell’Opera Un Maometto in tre differenti versioni I l debutto del Maometto II, il 3 dicembre 1820 al Teatro San Carlo di Napoli, non fu certamente un successo, quanto piuttosto un fiasco clamoroso. E dire che il cast non era certo dei peggiori. Accanto al basso Filippo Galli (Maometto) ed al tenore Andrea Nozzari (Calbo), figurava Isabella Colbran (Anna), cantante affermatissima, che due anni più tardi diverrà la prima moglie di Rossini. Ma l’opera era troppo “avanti” per il pubblico dell’epoca, anche per quello napoletano, tra i più culturalmente vivaci: Rossini aveva azzardato, evidentemente esagerando. Superare gli schemi formali codificati (numeri chiusi) in nome della “verità” drammatica, cercare la forte aderenza al testo, optare per ampie strutture compositive utilizzando una strumentazione funzionale alla situazione drammaturgica erano lodevoli ambizioni, ma novità ancora troppo pesanti da digerire. Per questo Rossini rimaneggiò lo spartito in occasione della rappresentazione veneziana, al Teatro della Fenice nel dicembre di due anni più tardi, cambiando in maniera importante la fisionomia dell’opera: «Onde togliere l’orrore della storica catastrofe venne condotto il melodramma a lieto fine, appoggiandosi a’ primi luminosi successi de’ Veneti», fu scritto. Aggiunta pure una Sinfonia d’apertura, rielaborato e suddiviso lo sterminato Terzettone del primo atto, cancellata la scena del massacro: e dato spazio, esclusivamente, ai pezzi pensati in funzione drammatica, il tutto ricondotto in una configurazione più convenzionale, meno marcatamente innovativa. Poi, appunto, in omaggio all’uso corrente nei teatri del Nord Italia, un bel lieto fine, con Anna che convola a nozze con Calbo.Risultato: analogo insuccesso. Nemmeno a Venezia l’opera fu apprezzata, anzi, il pubblico era visibilmente ostile, tanto più che aveva ritenuto offensivo il dover assistere ad un’opera ”riciclata” e non appositamente composta per la Serenissima. Ma Facciamo un piccolo passo indietro. Maometto II è considerata opera “di svolta” di Rossini. E’ con questo titolo, infatti, che si apre una nuova fase creativa del compositore, più medi- tata e meno turbolenta dei precedenti dieci “anni di galera” prendendo in prestito la dicitura verdiana – in cui nacquero ben trenta titoli operistici, relativi rimaneggiamenti e varie cantate sceniche. A partire dal 1820, dopo le quattro opera dell’anno precedente (Ermione, Eduardo e Cristina, La donna del lago, Bianca e Falliero), i lavori si creando in un batter di ciglia proprio La donna del lago. Poi si aggiunsero, appunto, - e qui possiamo serenamente discolpare il povero Rossini – le grane di un periodo storico alquanto movimentato, con varie sommosse di stampo liberale (anche a Napoli, allora sotto i Borboni). Tra le innumerevoli, intuibili, conseguenze sul pia- stava usando nella sua opera, ambientata invece che in Messico durante la conquista spagnola, nella città greca di Negroponte (occupata dai Veneziani già dal XIII secolo), assediata nel 1470 dai turchi guidati da Maometto II. Un legame “di sinossi” evidente, ma anche elementi contrapposti di facile spettacolarizzazione. Il libretto Il Teatro San Carlo di Napoli, dove debuttò il Maometto II diradano e si arriverà all’ ultima opera, il Guillaume Tell del 1829, con un solo titolo all’anno. Una genesi travagliata E’ proprio il Maometto ad avere, per primo, genesi lunga e piuttosto travagliata: vuoi per impegni imprevisti, vuoi per lavori già avviati (noto il tira e molla con Maria Luisa di Borbone, allora reggente del ducato di Lucca, cui aveva promesso un’opera in realtà mai nata), vuoi ancora per una situazione socio politica sinceramente complessa. Fatto è che l’opera ci mise un po’ a presentarsi in pubblico. L’attività di Rossini era quasi interamente legata al palcoscenico napoletano, tra i più prestigiosi all’epoca, in una città che a ragione si poteva definire una vera e propria capitale musicale europea, ma di quel teatro godeva anche dei dolori, tra cui innumerevoli intoppi dell’ultima ora e conseguenti rallentamenti. Alla fine del 1819, tanto per fare un esempio, si era trovato a dover tamponare l’emergenza dettata dal forfait di Gaspare Spontini no politico, economico e sociale ne cogliamo una, curiosa, che fu deleteria per il Nostro: venne soppresso il gioco d’azzardo che aveva sede al San Carlo, fonte di lucro per potenti impresari del luogo – primo fra tutti il Barbaja - ma da cui ricavava qualcosa anche lui. Impaurito, terrorizzato dal futuro – i timori «gli avevano bucato interamente l’estro» - si fece cogliere da una certa depressione creativa, rallentando enormemente proprio il lavoro sul Maometto, che arrivò, come si è detto, solo in coda all’anno 1820. L’idea del soggetto Il 4 febbraio di quello stesso 1820 era andata in scena, sempre a Napoli, Fernand Cortez, ou La conquête du Mexique, opera parigina di straordinario successo proprio di Gaspare Spontini, alla cui realizzazione, peraltro, Rossini aveva collaborato in prima persona: dovere patriottico contrapposto all’amore per il nemico, richiami storici, scene ampie ed effetti peculiari in orchestra. Insomma, gli stessi ingredienti che Rossini Il libretto in realtà manca di una paternità dichiarata. Il bandolo dell’aggrovigliata matassa è stato trovato dal musicologo Bruno Cagli, che dopo assidue ricerche, sfatò la derivazione Volterriana (la tragedia Mahomet, ou Le fanatisme) indicando il modello letterario del Maometto II nella tragedia Anna Erizo di Cesare Della Valle, duca di Ventignano, tragediografo napoletano di stampo classicista attivo a Napoli proprio in quegli anni. Questi conosceva personalmente Rossini e, un po’ per stima grandissima nei suoi confronti, un po’ per amicizia, acconsentì a trasformare il proprio lavoro – in realtà ancora in fase di elaborazione – in libretto d’opera. Il risultato fu che Anna Erizo vide la luce prima come libretto che come tragedia; e di questo il suo autore si lagnò non poco. Ma onestamente il lavoro di Della Valle ha raggiunto la fama più abbinato alla musica di Rossini che come tragedia di per sé E lo stesso il titolo del dramma, focalizzato sul personaggio femminile piuttosto che sull’eroe musulmano, è forse un tentativo a posteriori di distinguersi, ma con ben scarso risultato. Nel 1826 Rossini rielaborò una terza volta il Maometto, componendo per Parigi Le siège de Corinthe - reinserendo, tra l’altro, il finale tragico – su libretto di Balocchi/Soumet. Il successo fu, finalmente, grandissimo. In realtà, va detto, che l’opera è da considerarsi lavoro a sé e non tanto una versione francese di quelle già andate in scena: la lingua, la distribuzione dei ruoli vocali, ma soprattutto la concezione drammaturgica tipicamente parigina ne fanno un prodotto autonomo, con una propria, precisa e nuova identità. Barbara Catellani Il maometto II Giornale dei Grandi eventi 7 Analisi Musicale Maometto II, il Rossini serio da riscoprire N ell’immaginario comune, Rossini è il geniale esponente dell’ultima grande stagione comica del nostro teatro. Se si pensa al “Pesarese”, il primo titolo che viene in mente, di solito, è Il barbiere di Siviglia. Tuttavia Rossini scrisse molte più opere serie che comiche e proprio nel settore tragico svolse un ruolo fondamentale, proiettando il nostro teatro verso conquiste formali e climi “romantici” (si pensi al Guglielmo Tell) che avrebbero costituito una preziosa eredità per Donizetti e, attraverso lui, per Verdi. La fondamentale stagione “seria” di Rossini si consumò negli anni di permanenza a Napoli, al San Carlo, sotto la gestione dell’abile impresario Barbaja. Lì, Rossini, avendo a disposizione ogni stagione un cast di assoluto valore, sperimentò e innovò, preparandosi alla successiva esperienza francese. Nacque a Napoli, fra gli altri, Maometto II, titolo al quale non arrise immediata fortuna, ma che incise profondamente nella drammaturgia rossiniana. Il librettista Cesare della Valle duca di Ventignano, trasse spunto dalla tragedia Anna Erizo da lui stesso scritta sempre in quel 1820 ed incentrata sulla caduta della colonia veneta di Negroponte del 12 luglio 1470, durante la guerra tra i Turchi ed i Veneziani, quando la popolazione venne sterminata e il bailo Marco Erizzo segato a metà, per prestar fede alla promessa fattagli dal Sultano di avere salvo il collo. Rossini proveniva da un periodo di turbinosa creatività con sette opere composte nel biennio precedente. Maometto II aprì invece una fase più calma nella quale il musicista limitò la propria produzione a un titolo l’anno. In questo contesto, dunque, nacque la nuova opera che si presenta con un obiettivo interessante, il superamento di quegli schemi formali rigidi che avevano caratterizzato il nostro teatro in precedenza e che Rossini stava ormai aggredendo da tempo, alla ricerca di una maggiore fluidità narrativa. L’opera si apre senza una Sinfonia, ma con una breve Introduzione strumentale che confluisce direttamente sull’intervento del coro maschile. Già l’avvio merita una sottolineatura. Rossini concatena più elementi (coro, recitativo, brano d’insieme, ancora coro e recitativo) e la scena assume un respiro ampio e di forte tensione drammaturgica. Da notare che il tema del coro - cantabile e nervoso insieme - si genera dalla cellula iniziale della Introduzione, a conferma del totale controllo che Rossini esercita qui sulla materia musicale, elaborata secondo un piano di simmetrie e rimandi molto preciso. Da segnalare, infine, il ricorso ad un recitativo non secco, ma accompagnato, con un’intensa partecipazione dello strumentale che amplifica il “gesto” drammatico del racconto di Erisso. L’entrata del generale Calbo con un tema ampio, dai toni decisi (anche qui, come nella Introduzione e nel coro, ricorrono ritmi puntati che assicurano un tono marziale) costituisce la svolta nella vicenda con l’assunzione di responsabilità da parte dei generali che si uniscono per la battaglia. Al cambio di scena, entra il personaggio femminile, Anna, cui Rossini riserva una cavatina (“Ah che invan sul mesto ciglio”) che nella sua eleganza conferma le at- mosfere cupe e fosche respirate nella precedente parte. All’aria di Anna segue un articolato recitativo e, subito dopo, il cosiddetto “Terzettone”, un numero musicale di quasi quarantacinque minuti, in seguito ridotto, che costituiva davvero un terribile Maometto cui è riservata, naturalmente una cavatina, ovvero un’aria per presentare il personaggio. Il carattere virtuosistico dell’inizio riflette il carattere del dominatore così come la scelta della voce grave è in linea con una tradizione (che perdurerà Gioachino Rossini nel 1820 elemento di novità. Il blocco era ripartito in varie parti fra loro saldate: un primo terzetto (Anna, Calbo e Erisso) interrotto da un colpo di cannone, segnale dell’assalto finale di Maometto; cambio scena e dopo un coro femminile interno, lirica preghiera di Anna per le sorti del proprio popolo; rientro in scena di Erisso e Calbo e nuovo terzetto con la donna, cui si unisce il coro. Un Terzettone di ampie proporzioni, dunque, ma soprattutto, generatore di forti tensioni drammatiche che sfociano poi nell’arrivo dei turchi: un coro baldanzoso che prelude l’ingresso del vincitore, il per tutto l’Ottocento) che vuole il grande condottiero basso o baritono. Un articolato recitativo (con inframmezzato un coro) porta al finale del primo atto, un concertato che coinvolge Anna, Calbo, Erisso, Maometto e il coro. Il Secondo atto Dopo le fosche atmosfere che hanno caratterizzato l’intero primo atto, il secondo, ambientato nel «ricchissimo padiglione di Maometto nel quale si veggono riuniti tutti gli oggetti del lusso orientale» (come recita la didascalia) si apre con un coro femminile che prepara l’ingresso di Anna e poi il gran duetto fra la donna ed il capo mussulmano. Maometto, però, più che oppressore è un innamorato e la scrittura, agile, fluente, ricca di flessuosità, ne evidenzia i sentimenti con fresca inventiva. Freschezza che contrassegna anche il larghetto successivo all’entrata dell’uomo, in cui Anna ricorda nostalgicamente e teneramente i tempi trascorsi accanto al padre e il suo innamoramento per Maometto conosciuto sotto le mentite spoglie di Uberto. E’ una pagina chiave nell’economia dell’opera, sia sul piano musicale, sia sotto il profilo drammaturgico e non a caso anche qui Rossini ne dilata l’arco compositivo offrendoci un grande quadro emotivo dei due personaggi. Il duetto è interrotto dall’arrivo di Selim che annuncia una controffensiva da parte dei nemici; Maometto, dopo aver consegnato un sigillo ad Anna (che se ne servirà per salvare i suoi) parte per la battaglia. Va ancora segnalata la cavatina di Calbio cui Rossini regala una pagina di elegante fattura. Dopo un terzetto (Anna, Calbo ed Erisso) e una Preghiera corale, si giunge al finale precipitato con la morte di Anna che si uccide davanti a Maometto. Una grande scena che ancora una volta mostra la capacità ormai pienamente consolidata da parte di Rossini nel fondere insieme le ragioni della musica e quelle del teatro, ponendo la prima al servizio del secondo. Roberto Iovino PER RICEVERE PREVENTIVAMENTE IL GIORNALE, ISCRIVETEVI ALLA NOSTRA MAILING SCRIVENDO A: [email protected] LO POTRETE COSÌ LEGGERE PRIMA DI VENIRE IN TEATRO 8 maometto II Il Giornale dei Grandi eventi Maometto II “il Conquistatore” Un sultano feroce, ma anche colto ed M aometto II nacque ad Adrianopoli, città della Tracia storicamente aperta alle influenze greco-ortodosse, nella notte tra il 29 e 30 marzo del 1432. Maometto, uno degli otto figli del Sultano Murad II, ricevette un’educazione poliedrica e cosmopolita che lo rese un raffinato amante delle arti e delle scienze anche se la pubblicistica ottomana ne ha esaltato solo le doti militari e quella cristiana dell’epoca lo ha quasi sempre rappresentato come un “terribile sanguinario”. Nel 1444 il padre, alle prese con minacce militari esterne e una latente guerra civile, decise di abdicare in favore del figlio prediletto e così Maometto II, a soli 12 anni, divenne il settimo sultano della dinastia Ottomana. Ovviamente il giovane Maometto non fu in grado di gestire ed affrontare i numerosi pericoli e problemi che in quel momento affliggevano l’impero. Così Murad II, dopo aver sconfitto gli eserciti cristiani nella sanguinosa crociata di Varna e stabilizzata la situazione interna, nel 1446 si riprese il trono. Solo nel 1451, non ancora ventenne, Maometto II divenne finalmente sultano a pieno titolo di un impero che governò, guada- gnandosi il titolo di Fatih (il Conquistatore), fino alla sua morte (1481). La presa di Costantinopoli Nel 1453, ad appena 21 anni, Maometto II realizzò il sogno (per lui quasi un’ossessione) della dinastia Ottomana: conquistare Costantinopoli e porre così fine al millenario impero di Bisanzio. La Costantinopoli che cadde in mano turca era in realtà solo una triste allegoria di ciò che era stata. Ridotta ormai ad una piccola città-stato, la mitica Bisanzio era stata già colpita a morte secoli prima, come scrisse Braudel, dai cristiani d’occidente: dai normanni (1185) e poi, soprattutto, dalla quarta crociata dei latini nel 1204. Maometto II non fece altro che assestare il colpo finale. L’assedio ottomano alle mura ancora solide della città iniziò nel 1394 e andò avanti per 60 anni. Dopo aver costruito un forte sul Bosforo (RumeliHisari) per impedire il passaggio di navi “amiche” dei bizantini, Maometto II lanciò l’attacco finale il 6 aprile 1453: decisivo fu l’uso di nuovi cannoni pesanti e molto precisi. Le forze in campo erano fortemente squilibrate: poche migliaia (5-8mila) i difensori, circa il triplo, se non di più, gli Ottomani. Dopo un’ultima strenua resistenza guidata da Costantino XI e dai genovesi, Costantinopoli cadde il 29 maggio 1453. La città, ormai svuotata dei suoi 50.000 abitanti, conobbe tre giorni di spietato saccheggio. Subito dopo Maometto II vi trasferì la capitale dell’Impero ottomano. L’espansione dell’Impero In 30 anni di regno Maometto II guidò personalmente 25 campagne militari trasformando l’Impero Ottomano da potenza regionale a superpotenza mondiale. Le sue conquiste territoriali furono impressionanti. Dapprima sottomise le colonie genovesi sul Mar Nero, poi il principato dei Comneni di Trebisonda, parte della Crimea e tutta l’Anatolia, fino ad arrivare alla Siria. Successivamente si dedicò all’espansione verso ovest. Nel 1460 occupò l’Albania e da quel momento iniziò l’emigrazione degli ortodossi albanesi verso l’Italia meridionale, sacche etniche che ancora continuano a mantenere la propria identità. Fra il 1460 e il 1470 annesse all’impero il Peloponneso, la Morea e l’isola di Eubea (la Negroponte veneziana, cui poi fa riferimento quest’opera). Nel 1478 le sue avanguardie militari arrivarono in Friuli. Nel 1480 conquistò la fortezza di Otranto in Puglia sognando di farne la testa di ponte per la conquista della penisola, allora attraversata da questo incontenibile timore (dando luogo all’adagio «mamma li turchi!»). Ma l’anno seguente Maometto II morì e suo figlio, il nuovo sultano Bayezid II, decise una volta per sempre di abbandonare l’idea di conquistare l’Italia. Le innovazioni Maometto II non fu solo un genio militare, quanto anche un abile legislatore e politico. Emanò un Codice delle Leggi (Kanunname) che regolò a lungo l’assetto organizzativo del nuovo stato ottomano, ormai divenuto un dominio mondiale. Ma il maggiore impegno lo dedicò alla sua “magnifica ossessione”: Costantinopoli. In primo luogo si occupò del suo ripopolamento favorendo un’immigrazione turca dal- Il maometto II Giornale dei Grandi eventi 9 Lo sterminato Impero Ottomano illuminato l’Anatolia (con la promessa di una casa per tutti) ed, al contempo, riaccogliendo le comunità che la avevano resa grande nei secoli: greci, armeni, ebrei, veneziani e genovesi. Un secolo dopo la caduta, Costantinopoli aveva quasi mezzo milione di abitanti e stupiva viaggiatori e diplomatici per il suo splendore e la sua vivacità. Trasformò Aghia Sofia in una moschea monumentale, aggiunse nuovi palazzi al Topkapi e iniziò la costruzione del Grande Bazar con l’intento di fare concorrenza ai mercanti genovesi di Galata. Per celebrarsi costruì la Moschea di Fatih, poi distrutta da un terremoto nel 1766, accanto alla quale sorse anche la sua tomba (Fatih Turbesi). Attirò nella capitale ottomana artisti, scrittori, architetti provenienti tanto dall’occidente che dall’oriente. Celebre ancora oggi è il ritratto del Conquistatore che Gentile Bellini disegnò nel 1480. Il quadro è esposto alla National Gallery di Londra e ancora recentemente ha ispirato un godibile giallo storico ambientato tra Venezia e Costantinopoli (Il ritratto Bellini di Jason Goodwin). Roberto gritti Professore di Sociologia delle Relazioni Internazionali Universita' "La Sapienza" di Roma Dominatore di mezza Europa, dal XIII secolo fino ad Atatürk Q uello Ottomano è stato uno dei più vasti e duraturi imperi della storia. Per oltre seicento anni, tra il 1299 e il 1922, ha rappresentato una superpotenza mondiale. Nel periodo di massima espansione (XVI-XVII secolo) controllava un territorio di circa 5 milioni di kmq che toccava tre continenti: l’Europa sud orientale, l’Asia occidentale e l’Africa settentrionale. L’Impero ebbe origine alla fine del XIII secolo nell’Anatolia occidentale quando Osman, il fondatore della dinastia turca e musulmana degli Ottomani, rafforzò in poco tempo il suo piccolo principato a spese dell’Impero bizantino e di quello selgiuchide. Dal XIV a tutto il XVI secolo gli Ottomani, attraverso una serie di guerre e di alleanze strategiche e commerciali, espansero costantemente il loro impero. A segnare questo poderoso processo furono soprattutto due sultani, Maometto II il Conquistatore (1430-1481), che nel 1453 espugnò Costantinopoli e dilagò nei Balcani, e Solimano il Magnifico (1495-1566), il quale sconfisse il regno di Ungheria, conquistò Belgrado e Baghdad ed arrivò ad assediare Vienna per la prima volta. Si formò così un vasto impero multietnico e multireligioso. Come dimostrato dalla storiografia più recente, che ha superato i vecchi pregiudizi nazionalistici, il dominio ottomano si basò sull’inclusione, sia pure in posizione subordinata, dei popoli conquistati attraverso un modello politico e amministrativo (quello dei millet) fondato sulla tolleranza e la relativa autonomia delle diverse comunità. Impero con cui le potenze europee di allora non fecero solo guerre ma anche buoni affari (si pensi a Venezia). La decadenza Due date, invece, segnarono l’inizio del lento e progressivo declino politico e militare ottomano: 1571 quando la marina imperiale ottomana venne sconfitta a Lepanto e perse così il dominio dei mari; 1683 quando fallì il secondo assedio a Vienna, piegati dai reggimenti del principe Eugenio di Savoia. Nel XVIII secolo e, soprattutto, nell’Ottocento, l’Impero ottomano smise di essere il “terrore” dell’Europa cristiana e diventò «l’uomo malato» dell’Europa, secondo la definizione coniata dallo zar russo Nicola I alla vigilia della guerra di Crimea (1853). Nell’Ottocento quella incredibile miscela eterogenea di popoli che era stato e continuava ad essere l’Impero ottomano deflagrò sotto la spinta di due processi convergenti. Da un lato emersero una miriade di movimenti nazionalisti (quasi sempre appoggiati dalle potenze europee) che si proponevano di fondare nuovi stati indipendenti e sovrani. Dall’altro, approfittando della decadenza di questo Impero, le grandi potenze occidentali (gli Asbur- go e la Russia innanzitutto, ma anche l’Inghilterra e la Francia) sottrassero al dominio ottomano territori sempre più vasti. In altri termini, il morente Impero ottomano diventò, secondo una definizione caricaturale in voga nelle cancellerie europee, il «Grande Tacchino» (non a caso “turkey” in inglese), da spolpare e suddividersi. Dalla metà del XIX secolo le potenze occidentali, non senza qualche sporadica resistenza, misero di fatto sotto tutela quel che rimaneva dell’Impero ottomano e imposero una vasta serie di riforme (tanzimat) amministrative, sociali, politiche e culturali mirate a modernizzare ed “occidentalizzare” lo stato e la società. Riforme che riuscirono solo in parte. Nel periodo che va dal trattato di Berlino (1878) alla I Guerra Mondiale (1914) le potenze europee alimentarono il conflitto etnico-nazionalista contro il governo centrale ottomano e si moltiplicarono le spartizioni: perfino l’Italia sottrasse agli Ottomani la Tripolitania (1911). In questo contesto pure parte dell’élite turca (in particolare i militari) scelse la via del nazionalismo e si formò così il movimento dei Giovani Turchi. La sconfitta nella I Guerra Mondiale, le durissime condizioni del trattato di pace di Sèvres (1920) e i conflitti con Grecia, Armenia e Francia (1919-22) diedero forza al nazionalismo turco che si batté per liberare l’Anatolia dalle mire e dalle influenze straniere. In tal modo, nel 1922 il plurisecolare Impero ottomano cessò di esistere e nel 1923 MustafàKemāl, detto Atatürk (“padre dei turchi”), proclamò la nascita della Repubblica (laica) di Turchia. Ro. gr. maometto II 10 Il Giornale dei Grandi eventi Le tre versioni dell’opera Due finali tragici ed uno con il matrimonio di Anna D ue anni dopo la sfortunata rappresentazione napoletana (al S. Carlo il 3 dicembre 1820), Maometto II approdò - dal 26 dicembre 1822 al 1° gennaio 1823 - alla Fenice di Venezia, teatro assai caro a Rossini, il quale lì aveva colto significative affermazioni, a partire da quel Tancredi che nell’ormai lontano 1813 ne aveva rivelato la verve drammatica. Per la nuova messa in scena, il musicista rivide l’opera apportando alcune significative modifiche, tagliando due delle cinque arie presenti nel manoscritto napoletano e dando quindi ancor più spazio ai concertati. Antepose all’opera una Sinfonia, riprendendo lo schema consueto delle altre sinfonie da lui scritte in precedenza, con introduzione lenta, parti più agili e crescendo. Aggiunse poi un coro femminile introduttivo alla scena di Anna e, soprattutto, modificò il “Terzettone”, sostituendo la parte iniziale con un Quartetto (Anna, Erisso, Calbo e Condulmiero), la cui musica è tratta dal quartetto di Bianca e Falliero, all’epoca il brano più fortunato di quell’opera. Altri cambiamenti importanti nel secondo atto. L’aria di Calbo viene inglobata in una scena diversa, concepita come un’introduzione drammatica all’inserimento del lieto fine: il duello fra Maometto e Calbo toglie spazio alla scena del sotterraneo, ma prepara l’intervento del coro che interrompe le cupe riflessioni di Anna annunciando la vittoria di Calbo, la liberazione della città e la salvezza di tutti. Finale gioioso, dunque, con Anna che intona il rondò tratto dalla Donna del lago a differenza della prima versione napoletana che si chiude con il suicidio di Anna di fronte agli occhi di Maometto. Da Negroponte a Corinto Poco più di un mese dopo, il 3 febbraio 1823, come è noto, Rossini chiuse la propria carriera italiana mettendo in scena, ancora alla Fenice, Semiramide. L’anno successivo avviò la fase francese del suo teatro che, a parte la Cantata scenica Il viaggio a Reims (19. 6.1825), si aprì con due rifacimenti di altrettante opere italiane precedenti. La prima fu, appunto, Maometto II che divenne Le siége de Corinthe e dopo ci sarà il Moïse et Pharaon (26.3.1827). La trama de Le siége (affidata ai librettisti Alexandre Soumet e Luigi Balocchi) rimase analoga a quella del Maometto, ma l’assedio di Negroponte (1470) fu sostituito da quello a Corinto (1459). Scelta non casuale. A Corinto gli assediati non erano veneziani ma greci e questo rendeva il tema attuale: non va dimenticato che dal 1821 la Grecia, la quale godeva delle simpatie francesi, lottava contro la minaccia musulmana. Rossini, dunque, poneva all’attenzione generale, il tema della libertà di un popolo che sarebbe stato poi elemento fondamentale nell’avvio della carriera verdiana. Erisso, Anna, Calbo e Condulmiero divennero Cleomene, Pamira, Neocle, Jero. Se quasi tutti i personaggi mantennero caratteri simili, Pamira appare, rispetto ad An- na più indulgente nei confronti dell’amante, tanto da lasciarsi coinvolgere nei preparativi del rito nuziale, salvo ricredersi di fronte ai rimproveri del padre. Nell’insieme Le siége mantiene la struttura italiana (al contrario del successivo Moïse et Pharaon dal Mosè che virerà verso il Grand-opéra francese) con qualche inserimento di carattere più legato al gusto parigino (si veda la ballade con coro di Ismaele). La struttura si amplia a tre atti e Rossini operò un attento riutilizzo delle sezioni musicali, in taluni casi modificandone l’ordine per adeguarli alle nuove esigenze drammaturgiche. Fra le pagine nuove più interessanti - a parte il breve racconto di Maometto in cui è evocato l’incontro con una sconosciuta ad Atene che poi si rivela essere Pamira (un elegan- te declamato-arioso su un fluire di archi che sembra preludere la celebre aria di Tell, “Sois immobile” al momento del leggendario tiro all’arco) - si può ricordare la grande aria di Neocle “E fia ver” concepita in uno stile prevalentemente sillabato in una struttura aperta diversa dalla consuetudine italiana. In altri casi, invece, Rossini mantenne la morfologia delle arie italiane adattando la ricca ornamentazione del Maometto II alle diverse esigenze vocali dello stile francese. Da notare che l’epilogo - in questo caso tragico - riprese quello della prima edizione napoletana della versione italiana. Qui Pamira muore e Corinto s’inabissa divorata nelle fiamme: un finale di grande spettacolarità degno del nascente Grand-opéra. Roberto Iovino Sull’autografo conservato a Pesaro Un sovrapporsi di versioni nella partitura originale del Maometto II E ’ un manoscritto stratificato di momenti compositivi diversi, quello del Maometto II gelosamente archiviato presso la Fondazione Rossini di Pesaro. Stratificato perché in molte pagine l’autografo riporta una accanto all’altra le modifiche, talvolta profonde, che Rossini apportò al Maometto II presentato a Napoli nel 1820 per metterlo in scena a Venezia nel dicembre 1822 e, in qualche parte, quelle ancora successive per Le siège de Corinthe, terza ed ultima versione portata in scena nel 1826 all’Opéra di Parigi. Rossini, difatti, lavorò sullo stesso spartito napoletano per le successive versioni, inserendovi le nuove parti composte, tagliando quelle non più utili, arrangiando i collegamenti necessari per le mutate situazioni. Per questo, il manoscritto conservato a Pesaro, fra i più curati di Rossini e ricco di grandi soluzioni strumentali, è di straordinaria importanza, offrendo esso una rara e preziosa documentazione sul metodo di lavoro rossiniano e sul processo rielaborativo, particolarmente comune nei musicisti del tempo. Certo, l’accavallarsi ed il sovrapporsi di tanti segni, note e variazioni, lo rendono di difficile lettura. E qui sono di grande ausilio le copie originali predisposte per ogni singola versione. Così, dalla partitura emerge di come Rossini abbia conseguito con quest’opera la definizione più alta del suo discorso drammatico, ma si evidenziano anche elementi compositivi importanti, come il netto prevalere dei pezzi concertati sulle arie, l’entrare subito nel vivo del discorso: segni esteriori del rinnovamento avvenuto in quel contesto culturalmente elevato come la Napoli d’inizio ‘800. Ma quando l’opera fu richiesta a Venezia per La Fenice, Rossini dovette ripensarla in termini assai meno innovativi, ad iniziare da una conclusione a lieto fine per non ridestare nei veneziani il ricordo di una delle più dure sconfitte della loro storia, come proprio quella di Negroponte nel 1470 ad opera di Maometto II. Dovrà anche adeguarlo al gusto di un pubblico amante dell’alta teatralità, come farà pure meno di due mesi più tardi con il poderoso meccanismo della Semiramide, composta sempre per il teatro veneziano dove debuttò il 3 febbraio 1823. In questa versione ricompare, dunque, la Sinfonia, risuonano altri cori e bande a lui tanto care anche fuori scena, aggiunge cambiamenti per allentare la tensione e condurre al lieto fine del matrimonio. Un lavoro di cesello questo, che certo inciderà molto anche nella successiva rielaborazione parigina de Le siège de Corinthe, la quale dovrà guardare a sua volta al gusto del Grand Opera. Questo autografo, purtroppo non è completo, anche se grande merito va riconosciuto al professore Philip Gosset, il quale per la sua edizione critica alla prima versione, è riuscito a scovare altre parti disperse, così da ricomporlo quasi completamente: alcuni pezzi mancanti della versione napoletana (1820) sono stati, infatti, individuati in biblioteche pubbliche od in collezioni private, Pochissimo, invece, rimane purtroppo del materiale elaborato per Le Siège de Corinthe (1826), molto, invece del Maometto II rielaborato per Venezia (1822). mi. ma. Il maometto II Giornale dei Grandi eventi 11 Il ruolo delle voci nel Maometto II Un inconsueto triangolo vocale A per il quale spesso Rossini aveva scritto parti da “cattivo”, le quali pespetto da non tralasciare del Maometto II è la particolare e comrò possedevano una rilevanza psicologica maggiore rispetto agli altri plessa forma del classico triangolo vocale, alla base della defipersonaggi (su di lui modellò, ad esempio, il personaggio di Otello). nizione drammatica dei personaggi e del loro ruolo nella viCosì questo ruolo di Erisso, benché privo di arie, possiede una profoncenda. Tale triangolo, nelle opere dell’epoca, era solitamente costituito dità che va al di la dello stereotipo del governatore che vede solo la Pada una prima donna (generalmente soprano), dal suo amante corritria: egli è un uomo combattuto dai dubbi sulle scelte da adottare e poi sposto (definito all’epoca “musico”, tipicamente un contralto en travedall’amore forte per la figlia. Tale ruolo a Venezia ha avuto come insti, ovvero una donna che aveva sostituito il castrato nei panni di un terprete John Sinclair, che non ebbe una carriera brillante, nonostante, giovane) e da un personaggio antagonista, come un padre severo o ridue mesi dopo, nella successiva prima rappresentavale amoroso che cerca di inserirsi nella storia zione di Semiramide interpretò la parte non facile di d’amore, solitamente interpretato da un tenore. Idreno. Il ruolo di Calbo, invece, pur non avendo Nelle opere napoletane di Rossini, a dimostrazione una forte valenza drammatica, è caratterizzato da della particolare sperimentazione portata avanti in una vivace scrittura vocale, dove l’ampia estensione quegli anni dal “pesarese”, questi caratteri dramviene sfruttata per intero nella difficilissima aria che matici vengono spostati e “disegnati” sugli interspazia da affondi più gravi fino a vertici come nei preti che il compositore aveva a disposizione. Così quattro Si4 conclusivi, i quali sono addirittura un seper il Maometto II ciò avviene con Isabella Colbran mitono al di sopra al limite acuto di Anna. A Napoli come prima donna, Giovanni David tenore acuto la parte fu scritta per il contralto Adelaide Comelli, che canta al posto del contralto nel ruolo delmentre a Venezia a cantarla fu Rosa Mariani, che sal’amante corrisposto ed Andrea Nozzari, un baritorà l’Arsace nella successiva Semiramide. no-tenore, ovvero un baritono con tessitura grave, Il personaggio di maometto, da parte sua, si trova che interpreta l’antagonista. anche lui combattuto tra l’amore verso Anna e la reLa configurazione del triangolo, dunque, assume altà che lei è figlia del suo nemico. Così, dal punto di una veste insolita. Al vertice c’è sempre la prima vista musicale, le fioriture belcantistiche che carattedonna, anna, interpretata a Napoli come a Venezia rizzano il ruolo, ben descrivono da una parte, nel prida Isabella Colbran, soprano con predilezione per il Gioachino Rossini in una caricatura mo atto, il condottiero vincitore e dall’altro l’amore e registro centrale che non ha bisogno di arrivare ad la compassione che lo spingono verso Anna. Ad interpretarlo, sia a Naacuti particolari visto che in quest’opera si sale solo al Si ß4, ma caratpoli che a Venezia, fu in grande basso Filippo Galli, che già aveva teterizzata da una particolare agilità vocale che si può apprezzare nel nuto a battesimo diverse opere rossiniane. rondò finale mutuato da La donna del lago, opera anch’essa composta Curioso, invece, il ruolo di Condulmiero che a Napoli fu interpretato sulle caratteristiche della Colbran. Ma è da notare che Rossini, nella rida un Tenore (Giuseppe Ciccimarra) ed a Venezia da un Basso (Luciapresa veneziana del 1822 – come fece per la ripresa viennese di Elisano Mariani, primo interprete di Oroe nella successiva Semiramide). Nel betta – graziò la Colbran, a quell’epoca a fine carriera, dall’aria di sortimanoscritto veneziano tutte le parti nuove sono scritte in chiave di basta, sostituita da un coro di donne. so, mentre la parte dell’introduzione continua, come nell’originale naAnna è dunque attratta da due poli contrapposti: da una parte il padre poletano, ad essere per tenore ed in una tessitura effettivamente diffiErisso (tenore) ed il promesso sposo Calbo (contralto) e dall’altra Maocile per qualsiasi basso. Così nella generalità delle rappresentazioni, la metto, amante corrisposto ma anche nemico del suo popolo. Quindi, scelta più usata è quella di impiegare un tenore. questa volta da una parte vi sono tenore e contralto alleati (che solitaDavvero marginale è, infine, il ruolo tenorile di Selimo, che partecipa mente, invece, giocavano ruoli contrapposti) e dall’altra il basso “cattia soli due recitativi e, da comprimario, al finale primo. vo” e nemico, di cui però la protagonista è innamorata. mi. ma. A Napoli la parte di erisso fu interpretata dal tenore Andrea Nozzari, Composte per l’elezione di Pio IX Anche un pezzo dell’Assedio di Corinto nell’assemblaggio di brani per due Cantate L a dimostrazione che Rossini riutilizzasse suoi pezzi diversi per creare nuove composizioni, è anche nella storia di due Cantate in onore di Pio IX. Sebbene, infatti, il Pesarese avesse abbandonato la composizione già dal 1829, la sua 'rinuncia alla musica' non lo proteggeva da insistenti richieste da parte di teatri e privati. Così nel corso dei moti risorgimentali, Rossini venne assillato da domande e, nonostante il cattivo stato di salute, fu costretto a riprendere la penna in mano, per non essere tacciato di scarso amor patrio. «Marciare fischiettando un motivo rossiniano era già una mezza vittoria», diceva padre Ugo Bassi, noto patriota bolognese. Le pressioni, il momento storico, e fors'anche il desiderio inconscio di non rimanere completamente muto, spinsero Rossini ad accettare alcuni di questi incarichi 'risorgimentali', senza però partecipazione politica diretta. Se in questi anni Rossini nutrì una speranza politica, fu quella di una soluzione pacifica e moderata della questione italiana. Perciò, particolare importanza assunse l’elezione di Pio IX, ossia Giovanni Mastai Ferretti (Senigallia 1792- Roma 1878), avvenuta il 16 giugno 1846. Molte erano le speranze nei movimenti moderati e neo-guelfi, che propugnavano una federazione di stati italiani sotto la presidenza onoraria del papa. Al contrario del suo predecessore Gregorio XVI, Mastai aveva mostrato simpatia per il movimento riformista: il nuovo pontefice, dunque, sembrò incarnare quella figura di Papa-Re, illuminato e liberale indicato da Gioberti come chiave per giungere, senza sangue, all'unione degli stati italiani. Quando il 16 luglio, a un mese dalla propria elezione, Pio IX concesse l'amnistia ai prigionieri politici, conquistandosi un enorme consenso in tutta la penisola, anche Bologna volle festeggiare in Piazza Maggiore: si tentò subito di convincere Rossini, il quale stranamente non oppose troppe resistenze ed in pochi giorni approntò un coro su versi del canonico Golfieri. L'inno, chiamato Grido di esultazione riconoscente alla patema clemenza di Pio, fu eseguito da 500 persone e diretto dallo stesso autore sulle gradinate di San Petronio la sera del 23 luglio 1846. In realtà il Grido, come molti altri lavori di questi anni, era un rifacimento del "Coro dei Bardi" dalla Donna del lago. Proprio il 23 luglio, pure lo storico romano Giuseppe Spada inviò a Rossini un invito a comporre una nuova cantata in onore di Pio IX da eseguirsi a Roma. Accettando, Rossini riutilizzò brani provenienti da quattro opere quasi scomparse dal repertorio: Armida (1817), Ricciardo e Zoraide (1818), Ermione (1819) e L’assedio di Corinto (1826). Terminato l’assemblaggio, il compositore intervenne aggiustando l’orchestrazione ed aggiungendo anche una delle sue amate bande nel finale. Quindi il nome: Cantata in onore del sommo pontefice Pio IX. Cl. Lan. maometto II 12 Il Giornale dei Grandi eventi Riflessi metallici sulle tavole dei sultani islamici Lozas doradas: L’arte segreta che tramutò la terracotta in oro «C osì ciò che è stato riluce come oro rosso e brilla come la luce del sole»: con queste parole il grande medico araboispanico Abul l Qasim (Cordoba 936-1013), descriveva il mirabile procedimento tecnico della ceramica a lustro, vera alchimia che consentiva agli antichi ceramisti arabi di metallizzare perfettamente piatti e vasellame di terracotta smaltata. Queste mense dai bagliori aurei, rossastri e bruniti erano dette “Lozas doradas”, in italiano, “ceramiche a lustro”. Del resto, almeno fino alla metà del Cinquecento, anche il nome majolica – derivante da Majorca, porto in cui attraccavano le navi cariche Lozas doradas – era sinonimo di questo tipo di vasellame pregiato. La sofisticata tecnica del lustro nacque in Mesopotamia, nel IX secolo, per aggirare il divieto coranico che proibiva l’utilizzo di oggetti e vasellame di metallo prezioso per la mensa. Gli artigiani aguzzarono così l’ingegno e misero a punto l’arte segreta di tramuta- re le terre povere in piatti e brocche dalle superfici rutilanti d’oro e iridescenti di madreperla, senza utilizzare alcun materiale pregiato. Così il lustro si diffuse in tutti i paesi islamici, appagando il gusto di danarosi committenti e serbando intatta, al tempo stesso, l’ortodossia islamica. I vasai mediorientali erano già riusciti a ottenere ceramiche di un biancore simile alla porcellana cinese di epoca Tang, (ricavata questa dal caolino) grazie al procedimento della smaltatura. Tuttavia, per ottenere le patine metallizzate e colorate del lustro, fu indispensabile scoprire l’utilizzo degli ossidi metallici. Nel Settecento erano anche chiamati “calci”; in realtà sono composti chimici di metallo e ossigeno, ampiamente diffusi in natura. Queste sostanze venivano macinate a lungo, anche per un giorno intero, fino ad ottenere una sottilissima polvere che era quindi amalgamata con aceto e terra d’ocra. Il vasellame già smaltato di bianco, veniva così decorato con tali misture e sottoposto poi a una terza cottura, di 15-18 ore, “a piccolo fuoco”. Si trattava di un passaggio delicatissimo alla temperatura di soli 650°, rispetto ai 900° richiesti per i primi due passaggi in forno. La camera di cottura doveva essere privata dell’ossigeno grazie alla produzione di fumi ad alta densità, ottenuti dal legno di salice o di ginestra; l’atmosfera riducente così creata permetteva che gli ossidi rilasciassero un sottilissimo velo di metallo che rimaneva incorporato per sempre nell’invetriatura. L’artigiano doveva calibrare attentamente i tempi le temperature, soprattutto nell’ultima fase. Un minuto in più o in meno avrebbe significato la bruciatura del metallo o la sua irrecuperabile opacizzazione. Una volta raffreddati, i pezzi dovevano essere lavati, poi lucidati con un panno di lana e cenere. Solo dopo questa rifinitura era, infatti, possibile controllare se la loza dorada fosse riuscita in modo perfetto. La preziosità di tali ceramiche derivava, oltre che dalla raffinatezza del procedimento tecnico, anche dall’elevatissima “mortalità” dei pezzi durante la cottura a piccolo fuoco. Si salvavano, infatti, dalla rottura, mediamente solo sei pezzi su cento. Negli esemplari sopravvissuti, tuttavia, i motivi geometrici e vegetali dipinti col pennello apparivano come intarsi metallici sfolgoranti di rosso ramato, giallo oro, bruno violaceo e madreperla, colori ottenuti rispettivamente dagli ossidi di cadmio, ferro e manganese. Questa tecnica subito così apprezzata, fu esportata nel XIII secolo nella Spagna moresca e solo nel ‘500 giunse in Italia dove si sviluppò e raggiunse livelli insuperati nella bottega di Mastro Giorgio a Gubbio. andrea Cionci PER RICEVERE PREVENTIVAMENTE IL GIORNALE, ISCRIVETEVI ALLA NOSTRA MAILING SCRIVENDO A: [email protected] LO POTRETE COSÌ LEGGERE PRIMA DI VENIRE IN TEATRO Il Giornale dei Grandi eventi maometto II 13 L’Orientalismo nelle arti dell’800 Prima della pittura l’Oriente affascinò la musica A ll’inizio dell’Ottocento, l’attenzione all’Oriente già da quasi due secoli aveva permeato vari ambiti culturali dell’Europa, dopo che il “pericolo turco” era stato definitivamente allontanato e scambi commerciali, missioni diplomatiche e viaggi avevano sostituito le imprese belliche. Le turcherie settecentesche raffigurate da Liotard e musicate da Mozart si trasformano nel corso del XIX secolo in un genere diffuso per tutta la cultura europea, dalla letteratura alla musica, dalla pittura all’architettura, dal teatro all’artigianato. «Nel secolo di Luigi XIV eravamo ellenisti, oggi siamo orientalisti», diceva Victor Hugo. Una fascinazione che solo verso l’inizio del ‘900 cederà ad esotismi più nuovi e più lontani, guardando all’estremo Oriente, con India, Cina e Giappone. Prima ancora che gli artisti italiani avviassero il loro personale Gran Tour esotico tra Egitto, Marocco e Costantinopoli, riportando immagini capaci di colpire l’immaginario occidentale, è il teatro musicale a rievocare atmosfere e suggestioni. L’esempio di Mozart con Il ratto dal serraglio ed Il flauto magico dove l’Oriente è legato a messaggi massonici, sembra ispirare a Rossini un decennio “orientalista” in tutti Stefano Ussi, Donna Araba (1880) i generi melodrammatici, dalla commedia alla tragedia, dall’opera buffa al dramma religioso: Ciro in Babilonia (1812), L’italiana in Algeri (1813), Il turco in Italia (1814), Armida ( 1817), Mosé in Egitto (1818), Adina e il califfo di Bagdad (1818), Maometto II (1820), Semiramide (1823). È certamente allineandosi ad un tale gusto, apprezzato anche in Francia, che il compositore giunto a Parigi si presentò con due opere come Le siège de Corinthe (1826) e Moise et Pharaon ou le passage de la Mer Rouge (1827), rifacimenti del Maometto II e Mosé in Egitto composte a Napoli. Massimo Mila osserva: « se L’italiana in Algeri … iniziò la celebrità europea dì Rossini… la fortuna internazionale della Semiramide fu maggiore dì qualunque altra opera seria di Rossini». Così quando Francesco Hayez dipinge la tela I profughi di Parga che abbandonano la loro patria (1826), Rossini con Le siège de Corinthe, affronta l’Oriente ellenico, legandosi all’attualità del filoellenismo così presente in Francia per inneggiare alla lotta dei greci contro i turchi. L’esplosione dell’orientalismo pittorico avverrà, dunque, qualche decennio più tardi, in piena temperie verista, sotto la spinta del pittore napoletano Domenico Morelli (1826 - 1901) e di Alberto Pasini. Oltre la lunga lista rossiniana, altri esempi musicali come Gli arabi nelle Gallie (1827) di Giovanni Pacini, Maometto II di Pietro de Winter (1817) e anche diversi balletti quali Sesostri, Cesare in Egitto, Tìppi Saeb e Gli adoratori del fuoco che nel 1828 inaugurò il teatro Carlo Felice di Genova, testimoniano quanto l’orientalismo si impose in ambito musicale, grazie anche al nuovo gusto del pubblico, dove l’attenzione non era più per i costumi, ma per le scenografie divenute non un semplice telo di sfondo riutilizzabile, ma ricco elemento dominante per localizzare e ricreare l’ambiente, mirando a proporre agli spettatori le suggestioni di luoghi lontani, dai templi di Tebe, alla reggia babilonese. Anteriori alle immagini realizzate in loco da artisti-viaggiatori come Raffaele Carelli, Ippolito Caffi, Carlo Bossoli, Alberto Pasini, Enrico Guastalla, sono le scenografie come quelle di Alessandro Sanquirico che ricreano in teatro l’Oriente, non solo quello remoto e di fantasia, ma anche il paesaggio urbano storico, come il porto di Damietta per Il Crociato in Egitto di Gustave Meyerbeer. Infatti, gli inizi della sua attività di scenografo all’inizio del XIX secolo, coincidono non casualmente con la pubblicazione dei monumentali reportages archeologici di Dominique Vivant Denon al seguito di Napoleone in Egitto, che furono veri successi editoriali con molte ristampe e traduzioni. Così nella scena per il Luogo di delizie nell’atto II di Ottaviano in Egitto di Giuseppe Calzerani (1829), fanno bella mostra di se due elementi tipici dell’architettura egizia: l’obelisco e il capitello lotiforme. Non occorreva certo andare in Egitto per ammirare obelischi che già in età romana erano stati portati a Roma, ma questo tipo particolare di capitello è lo stesso del portico del tempio di Esma, come si vede nella Description de l’Egypte del Denon. Di gusto perfettamente egiziano sono anche le scenografie di Gaspare Galliari per la rappresentazione scaligera del Flauto magico mozartiano del 1816, dove però appaiono un Egitto ed un Oriente più evocati che studiati. Il gusto orientale di Sanquirico, tra citazione Giulio Viotti, Idillio a Tebe e rielaborazione, è quindi la prima tappa di un percorso che culmina con la celebrazione “filologica” che caratterizzerà mezzo secolo più tardi tutta l’impresa dell’Aida di Verdi, nelle due “prime” storiche al Cairo e alla Scala di Milano. Il critico Filippo Filippi nella recensione esaltò l’accuratezza filologica dell’opera nella sua presentazione al Cairo, definendola un «vero miracolo di resurrezione archeologica». Del resto autore del soggetto e delle scenografie fu Augùste Mariette, il più famoso egittologo dell’epoca, scopritore del serapeo di Menfi e fondatore del Museo Egizio del Cairo. Ma se era scontata da parte di Mariette la cura all’esatta ricostruzione, l’attenzione di Verdi e di Girolamo Magnani (autore di scene e costumi per la rappresentazione scaligera del 1872) sono invece un segnale preciso di quella febbre “orientale”. Magnani studiava, infatti, le tavole del Denon, mentre il compositore tormentava Giulio Ricordi per maggiori informazioni sulle usanze della civiltà dei faraoni, come nella lettera del 7 novembre 1870: «Avevo dimenticato i timpani che quelli che avete sono impossibili. Poi ci vogliono buone arpe, siamo in Egitto e le arpe lavorano molto [...]. Penso di far vedere Amneris, di farla inginocchiare sulla pietra del sotterraneo, e cantare un Requiem, un De Profundis Egiziano. Ho bisogno però di sapere quali erano le loro preghiere da morto. Fatemi il piacere di consultare quel vostro amico che mi diede altre nozioni sulle cose d’Egitto». Negli anni Settanta almeno un’altra testimonianza di grande successo e diffusione affiancano l’impresa verdiana: sono i reportages di Edmondo De Amicis in Marocco e a Costantinopoli, pubblicati a Milano da Treves nel 1876 e ‘78. Affiancati da un minuzioso lavoro d’illustrazione curato da Cesare Biseo e Stefano Ussi per Marocco e da Biseo per Costantinopoli, i resoconti di De Amicis si offrono come descrizioni di precisione fotografica. Cl. La. maometto II 14 Il Giornale dei Grandi eventi Il più grande soprano del suo tempo, prima interprete di Anna Isabella Colbran, la Musa amante e poi moglie di Rossini P roprio per lei, che tre anni dopo sarebbe diventata sua moglie, Gioacchino Rossini scrisse il ruolo di Anna Erisso nel Maometto II. Isabella Colbran, (Madrid, 2 febbraio 1785 – Castenaso, 7 ottobre 1845) fu il soprano più famoso ed apprezzato del suo tempo. Era figlia del violinista Giovanni Colbran, già maestro di cappella e da camera del Re di Spagna. Un collega del padre, il compositore e primo violoncellista madrileno Francesco Pareja le impartì le prime nozioni musicali. La giovane studiò quindi con il maestro napoletano Gaetano Marinelli e, successivamente, con il celebre sopranista (ed eccellente maestro di canto) Girolamo Crescentini. Grazie ad una borsa di studio assegnatale dalla regina Maria Luisa di Spagna, ebbe la possibilità di proseguire gli studi musicali all’estero. Suo padre, in un modo che ricorda quello di Leopold Mozart, fu il suo principale sostenitore, portandola in giro per la Francia e l’Italia in modo da far conoscere ed apprezzare le sue straordinarie qualità vocali. «Il 7 aprile giunse tra noi – si legge ne Il Redattore del Reno di Bologna, dell’aprile 1807 - Donna Isabella Colbran, celebratissima giovane Signora Spagnola, all’attual servizio di S. M. Cattolica... Possiede essa la celeste arte del canto in così sublime grado, che per lei nella Reggia dei maggiori Monarchi d’Europa i segni dell’ammirazione più viva e del diletto più puro si resero chiari e manifesti... L’organo della sua voce è veramente un incanto per soavità, robustezza e per prodigiosa estensione di corde, poiché dal sol basso al mi sopracuto, cioè per quasi tre ottave, si fa sentire con una progressione sempre uguale in morbidezza ed energia... Perfetto è il metodo e lo stile del suo cantare...». La Colbran aveva, difatti, tenuto tre concerti nella città delle due torri, accolti con grande entusiasmo. Era anche una donna estremamente piacente: «Una bellezza di “genere imponente”», come ammetteva lo Stendhal, che pure non le avrebbe risparmiato impietose stoccate. «Possiede lineamenti grandi che, sulla ribalta, sembrano fatali, una figura magnifica, un occhio di fuoco, alla circassa, una foresta di capelli del più bel nero di giada, e finalmente, l’istinto della tragedia. Questa donna... non appena appare in pubblico colla fronte adorna del diadema, incute in tutti un rispetto involontario...» E’ di questo periodo il celebre ritratto ad olio della cantante conservato al Museo Bibliografico Musicale di Bologna. Nel 1808 esordì con grande successo alla Scala nel ruolo di Volunnia, in occasione della prima del Coriolano di Giuseppe Nicolini. Da quel momento, calcherà i palcoscenici dei principali teatri italiani. Dopo varie esibizioni a Bologna, Venezia e Roma, la Colbran divenne, dall’aprile 1813, la prima donna del Teatro San Car- lo di Napoli: la fama della sua voce eccezionale e della sua superba bellezza era giunta, infatti, a Domenico Barbaja, “il principe degli impresari” che controllava tutti i reali teatri napoletani. Per circa un decennio (fino al 1822) la cantante poté mantenere, a Napoli, il ruolo di protagonista assoluta, grazie pure alla relazione intima che ben presto intrecciò con il Barbaja ed alla protezione Isabella Colbran nella villa di Castenaso nel 1830 circa incondizionata della Corte (che in breve tempo però le alienò gran parte delle simpatie dei Napoletani e dei sostenitori del partito costituzionale). Proprio a Napoli la Colbran conobbe Gioachino Rossini, con cui iniziò una collaborazione artistica, che portò il compositore pesarese a scrivere per lei le parti protagonistiche più importanti delle sue opere: Elisabetta, Regina d’Inghilterra (1815), Otello (1816), Armida (1817), Mosè in Egitto (1818), Ricciardo e Zoraide (1818), Ermione (1819), La donna del lago (1819), Maometto II, (1820), Zelmira (1822) e Semiramide (1823), nonché riadattamenti di diverse opere. E’ difficile, ad esempio, pensare che nella scelta di un soggetto così insolito come Armida non avesse avuto peso una sorta d’identificazione fra la maga e la cantante, testimoniata tra l’altro dalla firma di Isabella accanto a quella di Rossini sulla partitura autografa. Per lei, ancora, il compositore nel dicembre 1822, quando Isabella era ormai a fine carriera, alleggerì le parti vocali di Anna nella seconda versione del Maometto II presentata a Venezia La Colbran fu accusata di avere inconsapevolmente danneggiato la carriera di Rossini, avendolo indotto ad abbandonare il campo dell’opera buffa per la quale come Beethoven disse, ed egli stesso ammise - Rossini era nato. E’indubbio che, con quel suo temperamento e registro vocale adatti ai grandi ruoli tragici, la cantante madrilena condizionò le scelte compositive del pesarese: il quale, peraltro, a queste scelte drammatiche aderì di buon grado anche perché alle situazioni nobili e ai sentimenti possenti ben si confacevano le melodie fiorite e ricche di colorature che caratterizzavano il suo stile. La collaborazione esclusivamente artistica tra il soprano e Rossini, a un certo punto si tinse di toni sentimentali, tanto che la Colbran chiuse la relazione con Barbaja ed i due nuovi amanti andarono a convivere. Si sposarono il 16 marzo 1822 a Castenaso, dove la Colbran, decisamente facoltosa, possedeva una villa che fu distrutta durante la seconda guerra mondiale e di cui oggi rimangono solo le colonne d’entrata e il pozzo. Il compositore, dopo sette anni di frequentazione, volle regolarizzare l’unione anche per tranquillizzare gli scrupoli religiosi degli amatissimi genitori. Benché ormai in pieno declino vocale, la Colbran proseguì per qualche tempo ancora le sue esibizioni all’estero, profittando in gran parte della fama e delle scritture del marito. Nel 1824, con la voce ormai usurata, fu costretta a ritirarsi dalle scene. La cosa influì negativamente sulla sua personalità, tanto che per colmare il vuoto lasciato dal teatro, si mise a giocare ed a spendere senza ritegno, fino ad imbarazzare gravemente Rossini che, nel 1824, lasciò la moglie a Milano e tornò, da solo, a Parigi. La Colbran rimase ad angustiare il padre di Rossini, Giuseppe, detto Vivazza, il quale, come risulta da colorite lettere da lui inviate al figlio, mal sopportava i capricci, i dispetti e le manie di grandezza della nuora. «Voi conoscete abbastanza più di me il naturale della vostra Signora», si legge in una lettera di Giuseppe del 18 aprile 1833. «Essa è tutta grandezza nel suo pensare, e io sono piccolissimo nel mio. Ad essa piace scialacquare e far godere li suoi adolatori, e a me piace godere la tranquillità e la pace...». Gli incontri di Rossini con la Colbran divennero rarissimi e sempre in occasioni pubbliche. Solo il 7 settembre 1845 - avuta notizia della grave malattia della moglie - Rossini si recò con la sua nuova compagna Olympe Pélissier a Castenaso dove - come riportano tutti i suoi biografi - rimase a lungo a colloquio con Isabella, uscendo profondamente turbato dalla stanza: un mese dopo, il 7 ottobre 1845, Isabella Colbran si spegneva nella sua villa di Castenaso. a. C. Il maometto II Giornale dei Grandi eventi 15 Il giallo della fonte letteraria del Maometto II Da una tragedia dello stesso della Valle, no da un lavoro di Voltaire C ’è voluto, negli anni ’90 del ‘900, lo studio di Bruno Cagli per sfatare la falsa attribuzione della fonte del libretto del Maometto II. Il musicologo Giuseppe Radiciotti (Iesi 1858 – Tivoli 1931) nei tre volumi di biografia di Rossini, editi tra nel 19271929, sosteneva, infatti, che il drammaturgo napoletano Cesare della Valle duca di Ventignano avesse «tratto il soggetto da Voltaire, riducendolo di due terzi e snaturandolo per adattarlo alle esigenze melodrammatiche» di quest’opera di Rossini, nata per il San Carlo di Napoli, e continuava: «Io non conosco gli altri lavori drammatici de duca di Ventignano, ma, se avesse a giudicare del suo valore da questo libretto, direi che la sua fama è scroccata...». Cagli, invece, sottolinea che «Se il Radiciotti avesse conosciuto gli altri lavori del Duca di Ventignano, o se avesse conosciuto almeno quelli di Voltaire, la bibliografia rossiniana sarebbe stata risparmiata dalla ripetizione di un errore grossolano e quasi incredibile». Infatti, il Maometto II del Della Valle non è tratto da Voltaire, poiché Voltaire non ha mai scritto alcuna tragedia con protagonista Maometto II. Dopo Radiciotti tutti indistintamente biografi e i critici rossiniani, salvo i pochi che hanno sorvolato sulla fonte, hanno ripetuto il suo errore. I più zelanti, consultato l’elenco delle opere di Voltaire, sono giunti ad indicare il titolo della tragedia Mahometh, ou le Fanatisme. Concepita nel 1739, scritta nell’anno seguente, questa tragedia fu rappresentata per la prima volta a Lilla nel 1741 e stampata come Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète. Protagonista, come dice il titolo, è Maometto il Profeta, no Maometto II il conquistatore vissuto parecchi secoli dopo. Luogo dell’azione è la Mecca, no Negroponte. Nulla dunque, nemmeno lontanamente, in comune con l’opera del Della Valle. Come poi sia stato possibile al Radiciotti valutare che il Della Valle avesse ridotto ai due terzi la tragedia di Voltaire rimane un mistero. L’errore di superficialità è stato poi ripetuto non soltanto nelle biografie rossiniane, ma perfino in alcune voci di enciclopedia dedicate al Della Valle. Per tutte quella dello Spettacolo: «Per Rossini, D. scrisse il libr. Maometto II dall’omonima tragedia di Voltaire». Se si pensa che il Maometto di Voltaire ebbe larga risonanza e che l’autore mostrò di considerarlo il suo capolavoro, non ci si può non stupire che nessun conoscitore del teatro francese abbia rilevato l’errore. se ne denunciano gli errori delle copie manoscritte. L’Anna Erizo fu nuovamente stampata a Roma nel 1826 in una nuova edizione delle tragedie del Della Valle. Nel 1830 il Della Valle poté curare da vicino una nuova edizione completa delle sue trage- Sempre nella prefazione, il Della Valle fornisce notizie storiche a fondamento della tragedia e parla degli accorgimenti usati per realizzarla in ossequio alle leggi aristoteliche: «La favola da me intessuta assai poco ne dissomiglia (dalla realtà storica in cui Paolo Erisso fu die, stampata a Napoli «dai Torchi del Tramater». Nella prefazione il Della Valle parla di ciascuno dei lavori contenuti. Per l’Anna Erizo rifiuta l’edizione torinese: «Di Anna Erizo venne fatta una prima edizione dalla tipografia Pompa in Torino, la quale riuscì monca ed incorretta al segno che in luogo dell’atto terzo vi rinvenni omessi otto o dieci versi. E perciò mi veggo nella necessità di ricusarla». Nulla è detto dell’opera di Rossini sia perché, da letterato, il Della Valle non dava molta importanza alla riduzione librettistica, sia perché l’opera di Rossini non ebbe vita molto fortunata prima del rifacimento francese. tagliato in due dai mussulmani, n.d.r.), tranne una sola circostanza. Maometto non conobbe Anna se non quando Erizo fu costretto ad arrendersi; quindi non prima di allora quel feroce Sultano poté concepire per lei il suo sfrenato affetto. Ad evitare tal bivio posi a profitto una circostanza istorica [..]Amurat, padre di Maometto, meditando anch’esso il conquisto di Grecia, avea spiccato colà alcuni avveduti esploratori, che gliene riferissero accuratamente lo stato. Supposi dunque che l’audace suo figliuolo, per giovanile vaghezza, seguisse costoro con mentito nome, e non ancor pienamente dissoluto, s’invaghisse colà della veneta fanciulla, sic- Da una propria tragedia In realtà il Della Valle, che era tragediografo e non librettista, trasse il libretto per Rossini da un suo lavoro teatrale, la tragedia Anna Erizo, scritta lo stesso anno in cui fu data l’opera di Rossini (a Napoli il 3 dicembre 1820). E’ comprensibile che se si adattò a scrivere un libretto, lo fece perché gli si offrì l’opportunità di ridurre uno dei suoi lavori. L ‘Anna Erizo fu la prima tragedia di argomento non classico del Della Valle. Circolò manoscritta nei teatri d’Italia e fu stampata nel 1824 prima a Torino e poi a Genova nel Nuovo Teatro (quarto tomo), ossia Raccolta di Tragedie, Commedie, Drammi e Farse che riscuotono presentemente l’applauso generale nei Teatri Italiani. La tragedia è seguita da alcune interessanti osservazioni, dalle quali si desume che il testo era tratto dalla precedente edizione torinese e ché per la sua stessa audacia la ritraesse a salvamento da gravissimo pericolo». Da Erizo in Erisso Per quanto riguarda il cambiamento del nome da Erizo in Erisso, la tragedia reca la seguente precisazione: «Nel corso della Tragedia, per servire alla dolcezza del verso, ha il celebre autore giudicato di porre Erisso». Identica l’indicazione del luogo dell’azione, che è Negroponte, nome usato dai veneziani per indicare la capitale dell’Eubea, assediata e caduta nel 1470 ad opera del sultano Maometto II. E’ poi noto che nel rifacimento francese dell’opera, Rossini spostò l’azione a Corinto, conquistata nel 1453. Rispetto alla tragedia originale il libretto vanta una migliore riuscita drammatica. Sebbene, infatti, l’Anna Erizo sia opera di transizione tra fase classica e quella romantica del Della Valle, le strutture della tragedia gli sono ancora di notevole impaccio, con l’atto terzo che rallenta notevolmente l’azione. Nel complesso tuttavia la rilettura dell’Anna Erizo non giustifica gli scherni del Radiciotti, ripresi sic et simpliciter da tutti gli altri studiosi. Al contrario, il rifacimento francese dell’opera non aggiunge nulla al libretto originale. La sfortuna del Maometto II sulle scene, condivisa da tanti altri lavori del periodo napoletano, non sono correlati col libretto e col valore della musica. Tutto anzi lascia credere che il Maometto sia stato scritto da Rossini con grande impegno, come dimostrato dalla cura per la musica e dai suoi interventi sul testo, visto che le poche differenze tra tragedia originale e libretto, furono volute o almeno discusse con il musicista. L. Di D.