anno XX - Numero 24 - 28 marzo 2014
L’Intervista
Parla il regista Pier Luigi Pizzi
A Pag.
2
La Storia dell’Opera
Un Maometto evoluto
in tre differenti versioni
A Pag.
6
L’Analisi Musicale
Un titolo del Rossini serio
tutto da riscoprire
A Pag. 7
La figura storica
Maometto II, settimo
Sultano della antica
dinastia Ottomana
A Pag.
8e9
Giallo sulla
fonte letteraria
Da una tragedia di della Valle
e non da un lavoro
di Voltaire
A Pag.
15
maometto II
di Gioachino Rossini
maometto II
2
Il
Giornale dei Grandi eventi
Parla il regista Pierluigi Pizzi
«Un allestimento fortemente rivisto
per adattarlo al finale tragico»
N
onostante i suoi 84
anni è dinamico
ed inventivo Pierluigi Pizzi, regista ed autore di scene e costumi di
questo allestimento del
Maometto II di Rossini
realizzato per Teatro
La Fenice di Venezia
dove andò in scena, per
5 repliche, dal 28 gennaio al 6 febbraio del
2005. « In realtà non è
una vera “ripresa” – sottolinea il regista milanese – poiché se è vero
che da quell’allestimento
siamo partiti, questo spettacolo lo abbiamo molto
ripensato, sia per adattalo
allo spazio di Roma molto
più grande de La Fenice e
meno moderno, sia per
adeguarlo al finale tragico,
visto che a Venezia l’opera
era stata presentata in quella
versione “veneziana” del
1822 quando Rossini gli
cambiò il finale, addolcendolo
con il matrimonio tra Anna e
Calbo al posto della morte di
Anna ».
Il Maometto II, infatti, fu
composto per il Teatro
San Carlo di Napoli dove
debuttò il 3 dicembre 1820
senza grosso successo.
L’opera, quindi, fu ripresa
da Rossini e modificata in
fretta e furia per una fulminea stagione d’autunno
del Teatro la Fenice, al fine
di presentarla a Venezia
dal 26 dicembre 1822 al 1
gennaio 1823 in occasione
della visita nella città lagunare dell’Imperatore
d’Austria Francesco I, dello zar Alessandro I, con gli
ambasciatori di Francia ed
Inghilterra ed il principe
Metternich, vero tessitore
del nuovo ordine europeo
dopo i moti del 1820-21,
tutti di ritorno dal Con-
gresso di Verona. Sarà
questa la penultima opera
italiana di Rossini prima
di Semiramide e prima del
trasferimento del “Pesarese” a Parigi, dove riproporrà, con ulteriori aggiustamenti, questo lavoro
nel 1826 sotto il titolo di Le
Siège de Corinthe, trasferendo appunto l’azione da
Negroponte (dove sono
ambientate le due versioni
del Maometto, a Corinto).
Pierluigi Pizzi è un vero
esperto di questo titolo
rossiniano, avendone curato la regia, prima di questa romana, di tutte le diverse versioni, in quattro
allestimenti. «La prima volta fu a Pesaro per il Rossini
Opera Festival nel 1985,
dunque quasi 30 anni fa,
quando in pratica era la prima volta che tale opera veni-
Il G iornale dei G randi eventi
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va rappresentata in tempi recenti. Allora portammo in
scena la versione napoletana.
Nel 1993 curai, invece, la regia per il maggio Musicale
Fiorentino dell’Assedio di
Corinto, spettacolo che riproposi anche a Parigi
qualche anno dopo e quindi arriviamo alla produzione fatta per la Fenice
nel 2005 riprendendo, come detto la versione Veneziana de Maometto II».
Pizzi, che nella regia
d’opera debuttò nel
1952 con il Don Giovanni di Mozart a Genova,
sostiene che non esiste
un fil rouge tra questi
suoi diversi allestimenti, ma che anzi lui concepisce il proprio lavoro come il trionfo dell’effimero, dove ogni volta rimette in discussione tutto,
per non essere influenzato
dal passato.
«Questa la possiamo considerare una nuova produzione, visto che abbiamo cambiato molto, dai costumi, alle
luci, ai giochi di colori, anche
se effettivamente di colore
non ce ne è volutamente molto, per dare la sensazione di
disperazione di questa città
che sta per arrendersi al nemico. Il sipario si alza e ci
troviamo di fronte a delle rovine, una chiesa ridotta a
macerie. Ho giocato pure sui
piani verticali per aumentare
la drammaticità della visione, che ho cercato di rendere
“pesante” attraverso l’illuminazione ed il cromatismo.
Infatti, nel secondo atto, che
è quasi tutto stato cambiato,
le tinte sono cupe: siamo nella cripta e l’atmosfera vuole
preparare lo spettatore al sacrificio di Anna. Ricordiamo
che qui presentiamo la prima
versione integralmente, quella tragica, senza tagli. L’idea
delle architetture classiche in
rovina sono pure la metafora
di un occidente che soccombe
di fronte alla invasione turca,
fenomeno e paura al tempo
molto sentito. Maometto II
lo considero un capolavoro
che offre molti spunti di riflessione. Forse era un’opera
troppo moderna per quando
fu scritta e forse per questo
non venne capita. Ma tante
opere di Rossini sono rinate
solo dopo la seconda Guerra
Mondiale e prima erano quasi scomparse: la stessa Semiramide che presentai negli
anni ’80 fu salutata come
“grande scoperta”. Rossini
compose sempre ad alti livelli e scrisse tutto quello che si
poteva scrivere».
andrea marini
Stagione d’opera 2013 -2014
del teatro dell’opera di Roma
8 - 14 maggio
L’eLISIR D’amoRe
di Gaetano Donizetti
Donato Renzetti
Ruggero Cappuccio
Direttore
Regia
18 - 28 giugno
CaRmeN
Direttore
Regia
di Georges Bizet
Emmanuel Villaume
Emilio Sagi
4 luglio
the PRoDIgaL SoN
Direttore
Regia
di Benjamin Britten
James Conlon
Mario Martone
21 - 31 ottobre
RIgoLetto
di Giuseppe Verdi
Renato Palumbo
Leo Muscato
Direttore
Regia
~~
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi 28 marzo - 8 aprile 2014
maometto II
Dramma in musica in due atti
Libretto di Cesare della Valle, duca di Ventignano
Prima Rappresentazione: Napoli, Teatro San Carlo, 3 dicembre 1820
(2° Vesione): Venezia, Teatro La Fenice, 26 dicembre 1822
Musica di Gioachino Rossini
Direttore Roberto Abbado
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Personaggi / Interpreti
Paolo Erisso (T)
Anna Erisso (S)
Calbo (C)
Condulmiero (T)
Maometto II (B)
Selimo (T)
Juan Francisco Gatell /
Giulio Pelligra (6)
Marina Rebeka /
Carmela Remigio (6, 8)
Alisa Kolosova / Teresa Iervolino (6)
Enrico Iviglia
Roberto Tagliavini /
Mirco Palazzi (6)
Giorgio Trucco
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA
Allestimento del Teatro La Fenice
~ ~ La Copertina ~ ~
gentile Bellini, Ritratto di Maometto II
National Gallery, Londra
Il
maometto II
Giornale dei Grandi eventi
N
on è mai andata in
scena all’Opera di
Roma il Maometto II di
Gioacchino Rossini, sua
nona e penultima opera
napoletana, che debuttò al
San Carlo il 3 dicembre
1820 con un finale tragico,
per poi essere ripresentata
a La Fenice di Venezia
due anni dopo con il lieto
fine del matrimonio tra
Anna e Calbo. L’opera
venne quindi rielaborata
una terza volta, quattro
anni dopo, per essere proposta a Parigi con il titolo
Le siège de Corinthe (L’assedio di Corinto).
In quest’ occasione a Roma viene portata in scena
la prima versione, quella
napoletana, nell’edizione
critica di Philip Gosset,
con un allestimento severo nato, per il Teatro la Fenice nel gennaio 2005, e
firmato per regia, scene
costumi da Pierluigi Pizzi,
il quale già nel 1993 si era
confrontato con questo titolo per il Rossini Opera
Festival. In quell’occasione a Venezia, con quest’
allestimento, venne proposta la seconda versione
dell’opera, proprio quella
che debuttò nella città lagunare il 26 dicembre
1822.
Il libretto di quest’opera è
frutto del letterato Cesare
della Valle, duca di Ventignano tratta da un proprio dramma scritto an-
ch’esso in quel 1820 e pubblicato dopo il debutto
dell’opera. Da notare la
trama dell’opera si discosta dalla realtà storica, visto che nella realtà storica
i turchi guidati da Maometto II sconfissero i veneziani il 12 luglio 1470,
sterminando la popolazione e lo stesso bailo Erizzo
fu segato a metà, prestando fede alla promessa fattagli dal Sultano di avere
salvo il collo.
3
Le Repliche
Domenica 30 marzo, h. 16,30
Martedì 1 aprile, h. 20,00
Giovedì 3 aprile, h. 20,00
Sabato 5 aprile, h. 18,00
Domenica 6 aprile, h. 16,30
Martedì 8 aprile, h. 18,00
Queste sette rappresentazioni vedranno sul podio
il maestro Roberto Abbado, nipote di Claudio recentemente scomparso.
Maometto II dopo 194 anni debutta a Roma
La Trama
atto I - Nella colonia veneziana di Negroponte,
in Grecia, verso la metà del secolo XV - In una sala
del suo palazzo, il governatore veneziano Paolo
Erisso siede pensieroso circondato dai suoi generali per decidere il da
farsi contro l’assedio delle truppe del sultano Maometto II. Mentre il
generale Condulmiero suggerisce di accettare la resa proposta dai
mussulmani, il giovane generale Calbo incita a resistere. E’ quest’ultima linea ad essere accolta da Erisso, il quale invita tutti ad estrarre la
spada ed a giurare di combattere fino alla morte. Erisso è preoccupato per la sorte della figlia Anna e di questo si confida con Calbo, con
il quale si reca nell’appartamento della donna, annunciandole di averla destinata in sposa a questo suo generale per assicurarle una maggiore protezione, ma Anna, titubante, rivela di essere innamorata di
Uberto, re di Mitilene, conosciuto a Corinto mentre il padre era in
viaggio per Venezia. Lo stupore di Paolo Erisso è grande: egli, infatti,
ricorda di aver avuto Uberto al proprio fianco durante quel viaggio.
Così, l’uomo conosciuto da Anna non poteva che essere un mentitore.
Alcuni colpi di cannone interrompono il colloquio. Erisso nel lasciare
la figlia, le consegna un pugnale. Anna si dirige nel tempio, dove le
donne le rivelano che qualcuno nottetempo ha aperto le porte della
città ai Turchi, ma per fortuna Maometto, temendo un’imboscata, ha
deciso di attendere l’alba per entrare in città e dunque Erisso e Calbo
hanno ancora speranza di contrastarlo. All’alba entrano i mussulmani
pronti alla carneficina, ma Maometto li ferma dando al proprio confidente Selimo ordini precisi. Questo è stupito dalla puntuale conoscenza del luogo da parte del Sultano, il quale spiega di esserci stato
in precedenza in incognito. Erisso e Calbo sono fatti prigionieri e condotti da Maometto, che riconosce nel nome del governatore il padre di
Anna e gli propone salva la vita in cambio della resa. Allo sdegnato rifiuto di Erisso, Maometto ordina che siano sottoposti a tortura. Mentre le guardie li trascinano via, giunge Anna che si getta ai piedi di
Maometto e subito riconosce in lui l’uomo amato a Corinto. Minacciando di trafiggersi, la giovane supplica il Sultano di liberare il padre
e Calbo che lei chiama “fratello” per non suscitare la gelosia di Mao-
metto. Il condottiero turco scioglie lui stesso le
catene e, prima di allontanarsi per riprendere il
combattimento, chiede ad Anna di tornare con lui.
Erisso in preda alla vergogna respinge la figlia.
atto II - Anna è condotta nella lussuosa tenda di Maometto, dove
una schiera di ancelle mussulmane cerca invano di distoglierla dai suoi
tormenti, mentre lei medita di fuggire. Sopraggiunge Maometto, il
quale, comprendendo il dilemma tra amore e dovere, le rinnova il proprio sentimento, proponendole di sposarla e farla regina. Anna rifiuta,
ma non sa trattenere le lacrime, che Maometto capisce essere lacrime
d’amore e per questo tenta di stringerla a se, ma lei lo scosta. Improvvisamente giunge la notizia che l’attacco alla rocca è stato respinto e
che gli invasori indietreggiano incalzati dai veneziani. Maometto vuole tornare a combattere. Mentre esce, Anna lo ferma, sentendosi insicura. Maometto, allora, le dona l’anello con il sigillo imperiale che le
assicurerà l’obbedienza ed il rispetto dei turchi, avvertendola che se al
suo ritorno non sarà sua docile sposa, lui tornerà ad essere per lei solo
il terribile sultano.
Erisso e Calbo nei sotterranei studiano un piano d’azione. Erisso per
placare la propria furia verso la figlia, si ferma a pregare sulla tomba
della moglie defunta. Giunge Anna con un servo che porta due turbanti e due mantelli turchi: i due veneziani così travestiti e con l’anello di Maometto come salvacondotto, potranno raggiungere la rocca ed
unirsi ai combattenti. Ma prima che i due si allontanino, Anna chiede
al padre di unirla in matrimonio con Calbo davanti alla tomba della
madre. Dopo il rito Anna rimane a pregare sulla tomba. Non passa
molto, che arriva un gruppo di donne per avvertirla di mettersi in salvo, poiché i mussulmani la stanno cercando ritenendola responsabile
della disfatta. I turchi entrano e si lanciano verso Anna, la quale si presenta loro pronta a morire. Il suo coraggio li frena, mentre giunge Maometto che pregusta la vendetta, ma Anna, dopo avergli rivelato che
Calbo non era suo fratello ma ormai suo marito, si pugnala davanti ai
suoi occhi, cadendo ai piedi del sepolcro della madre.
Il
Giornale dei Grandi eventi
maometto II
5
Marina Rebeka e Carmela Remigio
Juan Francisco Gatell e Giulio Pelligra
Anna Erisso, divisa fra
amore e spirito di Patria
Paolo Erisso, eroico
governatore veneziano
S
ono i soprano marina Rebeka (28,30,/3- 1,3,5/4) e Carmela
Remigio (6,8/4) ad alternarsi nel ruolo di Anna, figlia del
governatore veneziano.
marina Rebeka, Riga (Lettonia) nel 1980, nel 2007 si è diplomata
al Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e nello stesso anno ha
vinto il primo premio al Concorso Internazionale “Neue
Stimmen”. Nel 2009 ha debuttato al Festival di Salisburgo, con la
direzione di Muti, e da allora viene
invitata regolarmente dai più
importanti teatri del mondo. scorsa
estate ha interpretato Mathilde
(Guillaume Tell) al Rossini Opera
Festival.In luglio alla Bauerische
Staatsoper ne La traviata Verdi e in
aprile è tornata alla Scala per un
concerto su musiche di Händel e
Mozart con l’Orchestra Filarmonica
della Scala. Il suo vasto repertorio
operistico include le principali opere di
Mozart, Verdi, Donizetti, Rossini,
Puccini, Messenet, Bizet, Gounod e Marina Rebeka
Handel.
Carmela Remigio, nata a Pescara nel 1973, ha intrapreso lo studio
del canto con il baritono Aldo Protti, e successivamente si è
perfezionata con Leone Magiera. Nel 1992 ha vinto il primo premio
del concorso vocale Luciano Pavarotti International Voice Competition
di Philadelphia, e dal 1997 è stata spalla di Luciano Pavarotti in oltre
70 concerti in giro per il mondo. La Remigio, dopo un primo inizio
nel repertorio barocco, ha dedicato particolare attenzione alle opere
di Mozart, cantando tutti i ruoli da protagonista delle sue opere
maggiori. i recenti e prossimi impegni: Simon Boccanegra, La
clemenza di Tito e La carriera del libertino.
A
cantare nel ruolo di Paolo Erisso sono
i tenori Juan Francisco gatell
(28,30,/3- 1,3,5,8/4) e giulio Pelligra
(6/4). Juan Francisco gatell, nato a La Plata
(Argentina) nel 1978, dal 2005 ad oggi ha
cantato nei più importanti teatri italiani ed
internazionali; nel 2006 ha vinto il
riconoscimento dell’associazione Lirica
concertistica italiana (ASLICO). Nella
stagione 2011/12 si è esibito nel Don Pasquale,
i Capuleti e i Montecchi, Pulcinella, Il barbiere di
Siviglia, e ha debuttato nel ruolo di Oronte in Juan Francisco Gatell
Alcina. Nella stagione 2013/2014 ha debuttato
ancora nel Il barbiere di Siviglia e in Falstaff. Tra i suoi impegni futuri
Lucia di Lammermoor al Teatro alla Scala di Milano, Cosi fan tutte a
Vienna, e sarà al Teatro Petruzzelli di Bari per il Requiem di Mozart.
giulio Pelligra, nato a Catania nel 1986, ha cominciato gli studi
musicali come pianista, successivamente ha frequentato diversi master
di stile e tecnica vocale. Numerosi sono stati i concerti come solista, che
il tenore ha tenuto per enti pubblici siciliani ed eseguiti in luoghi
prestigiosi. Nel 2006 ha debuttato con il ruolo di Almaviva nel Barbiere
di Siviglia, per il B.O.V. Opera Festival di Malta, e nel 2007 ha vinto una
menzione d’onore al Concorso Internazionale per Cantanti Lirici a
Pescara, il I° Concorso “Salvatore Cicero” della Fondazione Orchesta
Sinfonica Siciliana, e ha vinto il 3° premio del Concorso Internazionale
“Voci del Mediterraneo”. Nel 2013 È stato finalista presso il Concorso
As.Li.Co di Como. Ha eseguito la Petite messe di Rossini presso la
cattedrale di Caltanisetta. Rcentemente ha debuttato nello Stabat
Mater di Luigi Boccherini diretto da Manlio Benzi. Tra i suoi prossimi
impegni, c’è il Guillaume Tell a Bruxelles, e il Don Giovanni al teatro
Massimo di Palermo.
Roberto Tagliavini e Mirco Palazzi
Alisa Kolosova e Teresa Iervolino
Maometto II, sultano
feroce ma innamorato
Calbo, generale decisionista
e sposo designato
N
el ruolo di Maometto II a cantare sono Roberto
tagliavini (28,30,/3- 1,3,5,8/4) e mirco Palazzi
(6/4).
Roberto tagliavini, nato a Parma, ha intrapreso lo studio del
canto con il baritono Romano Franceschetto. Nel 2005 ha
debuttato nell’Alceste di Gluck e successivamente si è esibito nei
principali Teatri italiani ed Europei. Nel 2009 è stato votato come
miglior interprete nella Stagione del Teatro Verdi di Trieste e nel
2010 ha vinto il premio come miglior giovane cantante al Verdi
Festival di Parma per le esecuzioni di Loredano in i due Foscari e
per la Messa da Requiem di Verdi. In seguito ha partecipato a
numerose registrazioni discografiche, tra cui Benvenuto Cellini, i
Capuleti e Montecchi e l’Aida.
mirco Palazzi è nato a Rimini. Ha iniziato giovanissimo lo studio
del pianoforte per poi dedicarsi al canto, diplomandosi con lode e
menzione d’onore al Conservatorio Rossini di Pesaro. Ha
debuttato nel ruolo titolo del Don Giovanni di Mozart a Riva del
Garda. Si è poi esibito a Bologna, Napoli, Scala di Milano (Stabat
Mater diretto da Chailly e Don Giovanni), Regio di Parma,
Ravenna,Catania, Montecarlo, Trieste, Genova (Lucia di
Lammermoor), Festival di Edimburgo (Zelmira ed Adelaide di
Borgogna). In concerti ha cantato il Requiem di Mozart a Torino e
Genova, Stabat Mater di Rossinia Catania, Bolzano e Pesaro, la
Messa dell’Incoronazione di Mozart a Bologna, la Messa da Requiem di
Verdi in Messico, a Liverpool ed in Giappone e la Messa di gloria di
Puccini con la Regionale Toscana. La sua discografia comprende:
Petite Messe Sollennelle, Stabat Mater, Demetrio e Polibio, Zelmira, L’esule
di Granata, Sofonisba, Adelaide di Borgogna e Il Diluvio Universale, Lucia
di Lammermoor, Jakobin di Dvorak ed un Recital.
E’
un ruolo dal contralto quello del generale Calbo, dove a
cantare sono alisa Kolosova (28,30,/3- 1,3,5,8/4) e teresa
Iervolino (6/4).
alisa Kolosova, nata nel 1987 a Mosca, si è perfezionata presso il
Teatro Accademia Russa e al Conservatorio di Mosca. Ha vinto
numerosi premi, partecipando al progetto Young Singers. Nel 2010
sotto la guida di Muti ha debuttato nel ruolo di Giuditta nella
Betulia Liberata e quindi ha cantato altri importati ruoli, quali Olga
(Eugen Onegin) e Orpheus (Orfeo ed Euridice) al Teatro dell'Opera di
Parigi . Inoltre , si è esibita nel Messia di Handel al Norske Opera di
Oslo e al Kennedy Center di Washington , cosÏ come in Rusalka al
Festival di Glyndebourne. Fra i suoi prossimi impegni c’è l’Opera
National de Paris, la Bayerische Staatsoper di Monaco e la Chicago
Symphony Orchestra.
teresa Iervolino, nata a Bracciano (Roma) nel 1989, ha iniziato a
studiare canto fin da bambina, diplomandosi nel 2011 al
Conservatorio Cimarosa di Avellino con il massimo dei voti. Nel
2010 ha partecipato alla serie dei 10 concerti dell’opera inedita
Passio Christi, ed è stata finalista ad una serie di concorsi di canto,
aggiudicandosi il Primo premio al Gigliola Frazzoni e il premio
speciale Anselmo Colzani al 6° concorso lirico internazionale Città
di Bologna 2012. debuttato al Filarmonico di Verona a maggio 2012
con Pulcinella Stravinskij. Poi è stata Maddalena nel Rigoletto Chieti,
Isabella ne L’Italiana in Algeri Como e Ravenna, Miss Bagott ne Il
piccolo spazzacamino Regio di Torino e Fidalma ne Il matrimonio
segreto Spoleto. Tra i suoi impegni futuri i debutti come Cenerentola
Savona e Rovigo e Cornelia in Giulio Cesare ’Opera de Toulon.
Pagina a cura di Mariachiara Onori
6
maometto II
Il
Giornale dei Grandi eventi
La Storia dell’Opera
Un Maometto in tre differenti versioni
I
l debutto del Maometto II, il 3
dicembre 1820 al Teatro San
Carlo di Napoli, non fu certamente un successo, quanto piuttosto un fiasco clamoroso. E dire che il cast non era certo dei
peggiori. Accanto al basso Filippo Galli (Maometto) ed al tenore Andrea Nozzari (Calbo), figurava Isabella Colbran (Anna),
cantante affermatissima, che
due anni più tardi diverrà la
prima moglie di Rossini.
Ma l’opera era troppo “avanti”
per il pubblico dell’epoca, anche per quello napoletano, tra i
più culturalmente vivaci: Rossini aveva azzardato, evidentemente esagerando. Superare gli
schemi formali codificati (numeri chiusi) in nome della “verità” drammatica, cercare la
forte aderenza al testo, optare
per ampie strutture compositive utilizzando una strumentazione funzionale alla situazione drammaturgica erano lodevoli ambizioni, ma novità ancora troppo pesanti da digerire.
Per questo Rossini rimaneggiò
lo spartito in occasione della
rappresentazione veneziana, al
Teatro della Fenice nel dicembre di due anni più tardi, cambiando in maniera importante
la fisionomia dell’opera: «Onde
togliere l’orrore della storica catastrofe venne condotto il melodramma a lieto fine, appoggiandosi a’
primi luminosi successi de’ Veneti», fu scritto. Aggiunta pure
una Sinfonia d’apertura, rielaborato e suddiviso lo sterminato Terzettone del primo atto,
cancellata la scena del massacro: e dato spazio, esclusivamente, ai pezzi pensati in funzione drammatica, il tutto ricondotto in una configurazione
più convenzionale, meno marcatamente innovativa. Poi, appunto, in omaggio all’uso corrente nei teatri del Nord Italia,
un bel lieto fine, con Anna che
convola a nozze con Calbo.Risultato: analogo insuccesso.
Nemmeno a Venezia l’opera fu
apprezzata, anzi, il pubblico
era visibilmente ostile, tanto
più che aveva ritenuto offensivo il dover assistere ad un’opera ”riciclata” e non appositamente composta per la Serenissima.
Ma Facciamo un piccolo passo
indietro. Maometto II è considerata opera “di svolta” di Rossini. E’ con questo titolo, infatti,
che si apre una nuova fase creativa del compositore, più medi-
tata e meno turbolenta dei precedenti dieci “anni di galera” prendendo in prestito la dicitura verdiana – in cui nacquero
ben trenta titoli operistici, relativi rimaneggiamenti e varie
cantate sceniche. A partire dal
1820, dopo le quattro opera
dell’anno precedente (Ermione,
Eduardo e Cristina, La donna del
lago, Bianca e Falliero), i lavori si
creando in un batter di ciglia
proprio La donna del lago. Poi si
aggiunsero, appunto, - e qui
possiamo serenamente discolpare il povero Rossini – le grane di un periodo storico alquanto movimentato, con varie
sommosse di stampo liberale
(anche a Napoli, allora sotto i
Borboni). Tra le innumerevoli,
intuibili, conseguenze sul pia-
stava usando nella sua opera,
ambientata invece che in Messico durante la conquista spagnola, nella città greca di Negroponte (occupata dai Veneziani già dal XIII secolo), assediata nel 1470 dai turchi guidati da Maometto II. Un legame
“di sinossi” evidente, ma anche
elementi contrapposti di facile
spettacolarizzazione.
Il libretto
Il Teatro San Carlo di Napoli, dove debuttò il Maometto II
diradano e si arriverà all’ ultima opera, il Guillaume Tell del
1829, con un solo titolo all’anno.
Una genesi travagliata
E’ proprio il Maometto ad avere,
per primo, genesi lunga e piuttosto travagliata: vuoi per impegni imprevisti, vuoi per lavori già avviati (noto il tira e
molla con Maria Luisa di Borbone, allora reggente del ducato di Lucca, cui aveva promesso un’opera in realtà mai nata),
vuoi ancora per una situazione
socio politica sinceramente
complessa. Fatto è che l’opera
ci mise un po’ a presentarsi in
pubblico. L’attività di Rossini
era quasi interamente legata al
palcoscenico napoletano, tra i
più prestigiosi all’epoca, in una
città che a ragione si poteva definire una vera e propria capitale musicale europea, ma di
quel teatro godeva anche dei
dolori, tra cui innumerevoli intoppi dell’ultima ora e conseguenti rallentamenti. Alla fine
del 1819, tanto per fare un
esempio, si era trovato a dover
tamponare l’emergenza dettata
dal forfait di Gaspare Spontini
no politico, economico e sociale
ne cogliamo una, curiosa, che
fu deleteria per il Nostro: venne soppresso il gioco d’azzardo
che aveva sede al San Carlo,
fonte di lucro per potenti impresari del luogo – primo fra
tutti il Barbaja - ma da cui ricavava qualcosa anche lui. Impaurito, terrorizzato dal futuro
– i timori «gli avevano bucato interamente l’estro» - si fece cogliere da una certa depressione
creativa, rallentando enormemente proprio il lavoro sul
Maometto, che arrivò, come si è
detto, solo in coda all’anno
1820.
L’idea del soggetto
Il 4 febbraio di quello stesso
1820 era andata in scena, sempre a Napoli, Fernand Cortez, ou
La conquête du Mexique, opera
parigina di straordinario successo proprio di Gaspare Spontini, alla cui realizzazione, peraltro, Rossini aveva collaborato in prima persona: dovere patriottico contrapposto all’amore per il nemico, richiami storici, scene ampie ed effetti peculiari in orchestra. Insomma, gli
stessi ingredienti che Rossini
Il libretto in realtà manca di
una paternità dichiarata. Il
bandolo dell’aggrovigliata matassa è stato trovato dal musicologo Bruno Cagli, che dopo
assidue ricerche, sfatò la derivazione Volterriana (la tragedia Mahomet, ou Le fanatisme)
indicando il modello letterario
del Maometto II nella tragedia
Anna Erizo di Cesare Della Valle, duca di Ventignano, tragediografo napoletano di stampo
classicista attivo a Napoli proprio in quegli anni. Questi conosceva personalmente Rossini e, un po’ per stima grandissima nei suoi confronti, un po’
per amicizia, acconsentì a trasformare il proprio lavoro – in
realtà ancora in fase di elaborazione – in libretto d’opera.
Il risultato fu che Anna Erizo vide la luce prima come libretto
che come tragedia; e di questo
il suo autore si lagnò non poco.
Ma onestamente il lavoro di
Della Valle ha raggiunto la fama più abbinato alla musica di
Rossini che come tragedia di
per sé E lo stesso il titolo del
dramma, focalizzato sul personaggio femminile piuttosto che
sull’eroe musulmano, è forse
un tentativo a posteriori di distinguersi, ma con ben scarso
risultato.
Nel 1826 Rossini rielaborò una
terza volta il Maometto, componendo per Parigi Le siège de Corinthe - reinserendo, tra l’altro,
il finale tragico – su libretto di
Balocchi/Soumet. Il successo
fu, finalmente, grandissimo. In
realtà, va detto, che l’opera è
da considerarsi lavoro a sé e
non tanto una versione francese di quelle già andate in scena:
la lingua, la distribuzione dei
ruoli vocali, ma soprattutto la
concezione drammaturgica tipicamente parigina ne fanno
un prodotto autonomo, con
una propria, precisa e nuova
identità.
Barbara Catellani
Il
maometto II
Giornale dei Grandi eventi
7
Analisi Musicale
Maometto II, il Rossini serio da riscoprire
N
ell’immaginario
comune, Rossini è il geniale
esponente dell’ultima
grande stagione comica
del nostro teatro. Se si
pensa al “Pesarese”, il
primo titolo che viene
in mente, di solito, è Il
barbiere di Siviglia. Tuttavia Rossini scrisse
molte più opere serie
che comiche e proprio
nel settore tragico svolse un ruolo fondamentale, proiettando il nostro teatro verso conquiste formali e climi
“romantici” (si pensi al
Guglielmo Tell) che
avrebbero
costituito
una preziosa eredità
per Donizetti e, attraverso lui, per Verdi.
La fondamentale stagione “seria” di Rossini si
consumò negli anni di
permanenza a Napoli,
al San Carlo, sotto la gestione dell’abile impresario Barbaja. Lì, Rossini, avendo a disposizione ogni stagione un cast
di assoluto valore, sperimentò e innovò, preparandosi alla successiva esperienza francese.
Nacque a Napoli, fra gli
altri, Maometto II, titolo
al quale non arrise immediata fortuna, ma che
incise profondamente
nella
drammaturgia
rossiniana.
Il librettista Cesare della
Valle duca di Ventignano, trasse spunto dalla
tragedia Anna Erizo da
lui stesso scritta sempre
in quel 1820 ed incentrata sulla caduta della
colonia veneta di Negroponte del 12 luglio
1470, durante la guerra
tra i Turchi ed i Veneziani, quando la popolazione venne sterminata
e il bailo Marco Erizzo
segato a metà, per prestar fede alla promessa
fattagli dal Sultano di
avere salvo il collo.
Rossini proveniva da
un periodo di turbinosa
creatività con sette opere composte nel biennio
precedente. Maometto II
aprì invece una fase più
calma nella quale il musicista limitò la propria
produzione a un titolo
l’anno.
In questo contesto, dunque, nacque la nuova
opera che si presenta
con un obiettivo interessante, il superamento di
quegli schemi formali
rigidi che avevano caratterizzato il nostro
teatro in precedenza e
che Rossini stava ormai
aggredendo da tempo,
alla ricerca di una maggiore fluidità narrativa.
L’opera si apre senza
una Sinfonia, ma con
una breve Introduzione
strumentale che confluisce direttamente sull’intervento del coro maschile. Già l’avvio merita una sottolineatura.
Rossini concatena più
elementi (coro, recitativo, brano d’insieme, ancora coro e recitativo) e
la scena assume un respiro ampio e di forte
tensione drammaturgica. Da notare che il tema
del coro - cantabile e
nervoso insieme - si genera dalla cellula iniziale della Introduzione, a
conferma del totale controllo che Rossini esercita qui sulla materia musicale, elaborata secondo un piano di simmetrie e rimandi molto
preciso. Da segnalare,
infine, il ricorso ad un
recitativo non secco, ma
accompagnato,
con
un’intensa partecipazione dello strumentale
che amplifica il “gesto”
drammatico del racconto di Erisso. L’entrata
del generale Calbo con
un tema ampio, dai toni
decisi (anche qui, come
nella Introduzione e nel
coro, ricorrono ritmi
puntati che assicurano
un tono marziale) costituisce la svolta nella vicenda con l’assunzione
di responsabilità da
parte dei generali che si
uniscono per la battaglia.
Al cambio di scena, entra il personaggio femminile, Anna, cui Rossini riserva una cavatina
(“Ah che invan sul mesto
ciglio”) che nella sua eleganza conferma le at-
mosfere cupe e fosche
respirate nella precedente parte. All’aria di
Anna segue un articolato recitativo e, subito
dopo, il cosiddetto
“Terzettone”, un numero musicale di quasi
quarantacinque minuti,
in seguito ridotto, che
costituiva davvero un
terribile Maometto cui è
riservata, naturalmente
una cavatina, ovvero
un’aria per presentare il
personaggio. Il carattere
virtuosistico dell’inizio
riflette il carattere del
dominatore così come la
scelta della voce grave è
in linea con una tradizione (che perdurerà
Gioachino Rossini nel 1820
elemento di novità. Il
blocco era ripartito in
varie parti fra loro saldate: un primo terzetto
(Anna, Calbo e Erisso)
interrotto da un colpo
di cannone, segnale dell’assalto finale di Maometto; cambio scena e
dopo un coro femminile
interno, lirica preghiera
di Anna per le sorti del
proprio popolo; rientro
in scena di Erisso e Calbo e nuovo terzetto con
la donna, cui si unisce il
coro.
Un Terzettone di ampie
proporzioni, dunque,
ma soprattutto, generatore di forti tensioni
drammatiche che sfociano poi nell’arrivo dei
turchi: un coro baldanzoso che prelude l’ingresso del vincitore, il
per tutto l’Ottocento)
che vuole il grande condottiero basso o baritono. Un articolato recitativo (con inframmezzato un coro) porta al finale del primo atto, un
concertato che coinvolge Anna, Calbo, Erisso,
Maometto e il coro.
Il Secondo atto
Dopo le fosche atmosfere che hanno caratterizzato l’intero primo
atto, il secondo, ambientato nel «ricchissimo
padiglione di Maometto
nel quale si veggono riuniti tutti gli oggetti del
lusso orientale» (come
recita la didascalia) si
apre con un coro femminile che prepara l’ingresso di Anna e poi il
gran duetto fra la donna ed il capo mussulmano. Maometto, però,
più che oppressore è un
innamorato e la scrittura, agile, fluente, ricca
di flessuosità, ne evidenzia i sentimenti con
fresca inventiva. Freschezza che contrassegna anche il larghetto
successivo all’entrata
dell’uomo, in cui Anna
ricorda nostalgicamente e teneramente i tempi trascorsi accanto al
padre e il suo innamoramento per Maometto
conosciuto sotto le
mentite spoglie di
Uberto. E’ una pagina
chiave nell’economia
dell’opera, sia sul piano
musicale, sia sotto il
profilo drammaturgico
e non a caso anche qui
Rossini ne dilata l’arco
compositivo offrendoci
un grande quadro emotivo dei due personaggi.
Il duetto è interrotto dall’arrivo di Selim che annuncia una controffensiva da parte dei nemici;
Maometto, dopo aver
consegnato un sigillo ad
Anna (che se ne servirà
per salvare i suoi) parte
per la battaglia.
Va ancora segnalata la
cavatina di Calbio cui
Rossini regala una pagina di elegante fattura.
Dopo un terzetto (Anna, Calbo ed Erisso) e
una Preghiera corale, si
giunge al finale precipitato con la morte di Anna che si uccide davanti a Maometto. Una
grande scena che ancora una volta mostra la
capacità ormai pienamente consolidata da
parte di Rossini nel fondere insieme le ragioni
della musica e quelle
del teatro, ponendo la
prima al servizio del secondo.
Roberto Iovino
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8
maometto II
Il
Giornale dei Grandi eventi
Maometto II “il Conquistatore”
Un sultano feroce, ma anche colto ed
M
aometto II nacque ad
Adrianopoli, città della Tracia storicamente
aperta alle influenze greco-ortodosse, nella notte tra il 29 e
30 marzo del 1432. Maometto,
uno degli otto figli del Sultano
Murad II, ricevette un’educazione poliedrica e cosmopolita
che lo rese un raffinato amante
delle arti e delle scienze anche
se la pubblicistica ottomana ne
ha esaltato solo le doti militari
e quella cristiana dell’epoca lo
ha quasi sempre rappresentato
come un “terribile sanguinario”. Nel 1444 il padre, alle
prese con minacce militari
esterne e una latente guerra civile, decise di abdicare in favore del figlio prediletto e così
Maometto II, a soli 12 anni, divenne il settimo sultano della
dinastia Ottomana. Ovviamente il giovane Maometto non fu
in grado di gestire ed affrontare i numerosi pericoli e problemi che in quel momento affliggevano l’impero. Così Murad
II, dopo aver sconfitto gli eserciti cristiani nella sanguinosa
crociata di Varna e stabilizzata
la situazione interna, nel 1446
si riprese il trono. Solo nel
1451, non ancora ventenne,
Maometto II divenne finalmente sultano a pieno titolo di un
impero che governò, guada-
gnandosi il titolo di Fatih (il
Conquistatore), fino alla sua
morte (1481).
La presa di Costantinopoli
Nel 1453, ad appena 21 anni,
Maometto II realizzò il sogno
(per lui quasi un’ossessione)
della dinastia Ottomana: conquistare Costantinopoli e porre
così fine al millenario impero
di Bisanzio. La Costantinopoli
che cadde in mano turca era in
realtà solo una triste allegoria
di ciò che era stata. Ridotta ormai ad una piccola città-stato,
la mitica Bisanzio era stata già
colpita a morte secoli prima,
come scrisse Braudel, dai cristiani d’occidente: dai normanni (1185) e poi, soprattutto, dalla quarta crociata dei latini nel
1204. Maometto II non fece altro che assestare il colpo finale.
L’assedio ottomano alle mura
ancora solide della città iniziò
nel 1394 e andò avanti per 60
anni. Dopo aver costruito un
forte sul Bosforo (RumeliHisari) per impedire il passaggio di
navi “amiche” dei bizantini,
Maometto II lanciò l’attacco finale il 6 aprile 1453: decisivo fu
l’uso di nuovi cannoni pesanti
e molto precisi. Le forze in
campo erano fortemente squilibrate: poche migliaia (5-8mila)
i difensori, circa il
triplo, se non di più,
gli Ottomani. Dopo
un’ultima strenua resistenza guidata da
Costantino XI e dai
genovesi, Costantinopoli cadde il 29
maggio 1453. La città, ormai svuotata
dei suoi 50.000 abitanti, conobbe tre
giorni di spietato saccheggio. Subito dopo
Maometto II vi trasferì la capitale dell’Impero ottomano.
L’espansione
dell’Impero
In 30 anni di regno
Maometto II guidò
personalmente 25
campagne militari
trasformando l’Impero Ottomano da
potenza regionale a
superpotenza mondiale. Le sue conquiste territoriali furono
impressionanti.
Dapprima sottomise le colonie
genovesi sul Mar Nero, poi il
principato dei Comneni di Trebisonda, parte della Crimea e
tutta l’Anatolia, fino ad arrivare alla Siria. Successivamente si
dedicò all’espansione verso
ovest. Nel 1460 occupò l’Albania e da quel momento iniziò
l’emigrazione degli ortodossi
albanesi verso l’Italia meridionale, sacche etniche che ancora
continuano a mantenere la propria identità. Fra il 1460 e il
1470 annesse all’impero il Peloponneso, la Morea e l’isola di
Eubea (la Negroponte veneziana, cui poi fa riferimento quest’opera). Nel 1478 le sue
avanguardie militari arrivarono in Friuli. Nel 1480 conquistò
la fortezza di Otranto in Puglia
sognando di farne la testa di
ponte per la conquista della penisola, allora attraversata da
questo incontenibile timore
(dando luogo all’adagio «mamma li turchi!»). Ma l’anno seguente Maometto II morì e suo
figlio, il nuovo sultano Bayezid
II, decise una volta per sempre
di abbandonare l’idea di conquistare l’Italia.
Le innovazioni
Maometto II non fu solo un genio militare, quanto anche un
abile legislatore e politico.
Emanò un Codice delle Leggi
(Kanunname) che regolò a lungo l’assetto organizzativo del
nuovo stato ottomano, ormai
divenuto un dominio mondiale. Ma il maggiore impegno lo
dedicò alla sua “magnifica ossessione”: Costantinopoli. In
primo luogo si occupò del suo
ripopolamento
favorendo
un’immigrazione turca dal-
Il
maometto II
Giornale dei Grandi eventi
9
Lo sterminato Impero Ottomano
illuminato
l’Anatolia (con la promessa di
una casa per tutti) ed, al contempo, riaccogliendo le comunità che la avevano resa grande
nei secoli: greci, armeni, ebrei,
veneziani e genovesi. Un secolo dopo la caduta, Costantinopoli aveva quasi mezzo milione di abitanti e stupiva viaggiatori e diplomatici per il suo
splendore e la sua vivacità.
Trasformò Aghia Sofia in una
moschea monumentale, aggiunse nuovi palazzi al Topkapi e iniziò la costruzione del
Grande Bazar con l’intento di
fare concorrenza ai mercanti
genovesi di Galata. Per celebrarsi costruì la Moschea di
Fatih, poi distrutta da un terremoto nel 1766, accanto alla
quale sorse anche la sua tomba
(Fatih Turbesi). Attirò nella capitale ottomana artisti, scrittori, architetti provenienti tanto
dall’occidente che dall’oriente.
Celebre ancora oggi è il ritratto del Conquistatore che Gentile Bellini disegnò nel 1480. Il
quadro è esposto alla National
Gallery di Londra e ancora recentemente ha ispirato un godibile giallo storico ambientato tra Venezia e Costantinopoli (Il ritratto Bellini di Jason Goodwin).
Roberto gritti
Professore di Sociologia delle
Relazioni Internazionali Universita' "La Sapienza"
di Roma
Dominatore di mezza Europa,
dal XIII secolo fino ad Atatürk
Q
uello Ottomano è
stato uno dei più vasti e duraturi imperi
della storia. Per oltre seicento anni, tra il 1299 e il
1922, ha rappresentato una
superpotenza mondiale.
Nel periodo di massima
espansione (XVI-XVII secolo) controllava un territorio
di circa 5 milioni di kmq
che toccava tre continenti:
l’Europa sud orientale,
l’Asia occidentale e l’Africa
settentrionale.
L’Impero ebbe origine alla
fine del XIII secolo nell’Anatolia
occidentale
quando Osman, il fondatore della dinastia turca e musulmana degli Ottomani, rafforzò in poco tempo il suo piccolo principato a spese dell’Impero bizantino e di quello
selgiuchide. Dal XIV a tutto il XVI secolo gli Ottomani, attraverso una serie di guerre e di alleanze strategiche e commerciali, espansero costantemente il loro impero. A segnare questo poderoso processo furono soprattutto due sultani,
Maometto II il Conquistatore (1430-1481), che nel
1453 espugnò Costantinopoli e dilagò nei Balcani, e Solimano il Magnifico (1495-1566), il quale
sconfisse il regno di Ungheria, conquistò Belgrado e Baghdad ed arrivò ad assediare Vienna per
la prima volta. Si formò così un vasto impero
multietnico e multireligioso. Come dimostrato
dalla storiografia più recente, che ha superato i
vecchi pregiudizi nazionalistici, il dominio ottomano si basò sull’inclusione, sia pure in posizione subordinata, dei popoli conquistati attraverso
un modello politico e amministrativo (quello dei
millet) fondato sulla tolleranza e la relativa autonomia delle diverse comunità. Impero con cui le
potenze europee di allora non fecero solo guerre
ma anche buoni affari (si pensi a Venezia).
La decadenza
Due date, invece, segnarono l’inizio del lento e
progressivo declino politico e militare ottomano:
1571 quando la marina imperiale ottomana venne sconfitta a Lepanto e perse così il dominio dei
mari; 1683 quando fallì il secondo assedio a
Vienna, piegati dai reggimenti del principe Eugenio di Savoia. Nel XVIII secolo e, soprattutto,
nell’Ottocento, l’Impero ottomano smise di essere il “terrore” dell’Europa cristiana e diventò
«l’uomo malato» dell’Europa, secondo la definizione coniata dallo zar russo Nicola I alla vigilia
della guerra di Crimea (1853). Nell’Ottocento
quella incredibile miscela eterogenea di popoli
che era stato e continuava ad essere l’Impero ottomano deflagrò sotto la spinta di due processi
convergenti. Da un lato emersero una miriade di
movimenti nazionalisti (quasi sempre appoggiati dalle potenze europee) che si proponevano di
fondare nuovi stati indipendenti e sovrani. Dall’altro, approfittando della decadenza di questo
Impero, le grandi potenze occidentali (gli Asbur-
go e la Russia innanzitutto,
ma anche l’Inghilterra e la
Francia) sottrassero al dominio ottomano territori sempre più vasti. In altri termini, il morente Impero ottomano diventò, secondo una
definizione caricaturale in
voga nelle cancellerie europee, il «Grande Tacchino»
(non a caso “turkey” in inglese), da spolpare e suddividersi. Dalla metà del XIX
secolo le potenze occidentali, non senza qualche sporadica resistenza, misero di
fatto sotto tutela quel che rimaneva dell’Impero ottomano e imposero una vasta
serie di riforme (tanzimat) amministrative, sociali, politiche e culturali mirate a modernizzare ed
“occidentalizzare” lo stato e la società. Riforme
che riuscirono solo in parte. Nel periodo che va
dal trattato di Berlino (1878) alla I Guerra Mondiale (1914) le potenze europee alimentarono il
conflitto etnico-nazionalista contro il governo
centrale ottomano e si moltiplicarono le spartizioni: perfino l’Italia sottrasse agli Ottomani la
Tripolitania (1911). In questo contesto pure parte
dell’élite turca (in particolare i militari) scelse la
via del nazionalismo e si formò così il movimento dei Giovani Turchi. La sconfitta nella I Guerra
Mondiale, le durissime condizioni del trattato di
pace di Sèvres (1920) e i conflitti con Grecia, Armenia e Francia (1919-22) diedero forza al nazionalismo turco che si batté per liberare l’Anatolia
dalle mire e dalle influenze straniere. In tal modo, nel 1922 il plurisecolare Impero ottomano
cessò di esistere e nel 1923 MustafàKemāl, detto
Atatürk (“padre dei turchi”), proclamò la nascita
della Repubblica (laica) di Turchia.
Ro. gr.
maometto II
10
Il
Giornale dei Grandi eventi
Le tre versioni dell’opera
Due finali tragici ed uno con il matrimonio di Anna
D
ue anni dopo la sfortunata rappresentazione
napoletana (al S. Carlo il
3 dicembre 1820), Maometto II
approdò - dal 26 dicembre 1822
al 1° gennaio 1823 - alla Fenice
di Venezia, teatro assai caro a
Rossini, il quale lì aveva colto
significative affermazioni, a
partire da quel Tancredi che nell’ormai lontano 1813 ne aveva
rivelato la verve drammatica.
Per la nuova messa in scena, il
musicista rivide l’opera apportando alcune significative modifiche, tagliando due delle cinque arie presenti nel manoscritto napoletano e dando quindi
ancor più spazio ai concertati.
Antepose all’opera una Sinfonia, riprendendo lo schema
consueto delle altre sinfonie da
lui scritte in precedenza, con introduzione lenta, parti più agili
e crescendo. Aggiunse poi un
coro femminile introduttivo alla scena di Anna e, soprattutto,
modificò il “Terzettone”, sostituendo la parte iniziale con un
Quartetto (Anna, Erisso, Calbo
e Condulmiero), la cui musica è
tratta dal quartetto di Bianca e
Falliero, all’epoca il brano più
fortunato di quell’opera.
Altri cambiamenti importanti
nel secondo atto. L’aria di Calbo viene inglobata in una scena
diversa, concepita come un’introduzione drammatica all’inserimento del lieto fine: il duello fra Maometto e Calbo toglie
spazio alla scena del sotterraneo, ma prepara l’intervento
del coro che interrompe le cupe
riflessioni di Anna annunciando la vittoria di Calbo, la liberazione della città e la salvezza di
tutti. Finale gioioso, dunque,
con Anna che intona il rondò
tratto dalla Donna del lago a differenza della prima versione
napoletana che si chiude con il
suicidio di Anna di fronte agli
occhi di Maometto.
Da Negroponte a Corinto
Poco più di un mese dopo, il 3
febbraio 1823, come è noto,
Rossini chiuse la propria carriera italiana mettendo in scena,
ancora alla Fenice, Semiramide.
L’anno successivo avviò la fase
francese del suo teatro che, a
parte la Cantata scenica Il viaggio a Reims (19. 6.1825), si aprì
con due rifacimenti di altrettante opere italiane precedenti. La
prima fu, appunto, Maometto II
che divenne Le siége de Corinthe
e dopo ci sarà il Moïse et Pharaon
(26.3.1827). La trama de Le siége
(affidata ai librettisti Alexandre
Soumet e Luigi Balocchi) rimase
analoga a quella del Maometto,
ma l’assedio di Negroponte
(1470) fu sostituito da quello a
Corinto (1459). Scelta non casuale. A Corinto gli assediati
non erano veneziani ma greci e
questo rendeva il tema attuale:
non va dimenticato che dal
1821 la Grecia, la quale godeva
delle simpatie francesi, lottava
contro la minaccia musulmana.
Rossini, dunque, poneva all’attenzione generale, il tema della
libertà di un popolo che sarebbe stato poi elemento fondamentale nell’avvio della carriera verdiana. Erisso, Anna, Calbo e Condulmiero divennero
Cleomene, Pamira, Neocle, Jero. Se quasi tutti i personaggi
mantennero caratteri simili,
Pamira appare, rispetto ad An-
na più indulgente nei confronti
dell’amante, tanto da lasciarsi
coinvolgere nei preparativi del
rito nuziale, salvo ricredersi di
fronte ai rimproveri del padre.
Nell’insieme Le siége mantiene
la struttura italiana (al contrario del successivo Moïse et Pharaon dal Mosè che virerà verso
il Grand-opéra francese) con
qualche inserimento di carattere più legato al gusto parigino
(si veda la ballade con coro di
Ismaele).
La struttura si amplia a tre atti
e Rossini operò un attento riutilizzo delle sezioni musicali, in
taluni casi modificandone l’ordine per adeguarli alle nuove
esigenze drammaturgiche.
Fra le pagine nuove più interessanti - a parte il breve racconto di Maometto in cui è
evocato l’incontro con una sconosciuta ad Atene che poi si rivela essere Pamira (un elegan-
te declamato-arioso su un fluire di archi che sembra preludere la celebre aria di Tell, “Sois
immobile” al momento del leggendario tiro all’arco) - si può
ricordare la grande aria di
Neocle “E fia ver” concepita in
uno stile prevalentemente sillabato in una struttura aperta diversa dalla consuetudine italiana. In altri casi, invece, Rossini
mantenne la morfologia delle
arie italiane adattando la ricca
ornamentazione del Maometto
II alle diverse esigenze vocali
dello stile francese.
Da notare che l’epilogo - in questo caso tragico - riprese quello
della prima edizione napoletana della versione italiana. Qui
Pamira muore e Corinto s’inabissa divorata nelle fiamme: un
finale di grande spettacolarità
degno del nascente Grand-opéra.
Roberto Iovino
Sull’autografo conservato a Pesaro
Un sovrapporsi di versioni
nella partitura originale del Maometto II
E
’ un manoscritto stratificato di momenti
compositivi diversi, quello del Maometto
II gelosamente archiviato presso la Fondazione Rossini di Pesaro. Stratificato perché
in molte pagine l’autografo riporta una accanto all’altra le modifiche, talvolta profonde, che
Rossini apportò al Maometto II presentato a
Napoli nel 1820 per metterlo in scena a Venezia nel dicembre 1822 e, in qualche parte, quelle ancora successive per Le siège de Corinthe,
terza ed ultima versione portata in scena nel
1826 all’Opéra di Parigi.
Rossini, difatti, lavorò sullo stesso spartito napoletano per le successive versioni, inserendovi le nuove parti composte, tagliando quelle
non più utili, arrangiando i collegamenti necessari per le mutate situazioni.
Per questo, il manoscritto conservato a Pesaro,
fra i più curati di Rossini e ricco di grandi soluzioni strumentali, è di straordinaria importanza, offrendo esso una rara e preziosa documentazione sul metodo di lavoro rossiniano e
sul processo rielaborativo, particolarmente comune nei musicisti del tempo. Certo, l’accavallarsi ed il sovrapporsi di tanti segni, note e
variazioni, lo rendono di difficile lettura. E qui
sono di grande ausilio le copie originali predisposte per ogni singola versione.
Così, dalla partitura emerge di come Rossini
abbia conseguito con quest’opera la definizione più alta del suo discorso drammatico, ma si
evidenziano anche elementi compositivi importanti, come il netto prevalere dei pezzi concertati sulle arie, l’entrare subito nel vivo del
discorso: segni esteriori del rinnovamento avvenuto in quel contesto culturalmente elevato
come la Napoli d’inizio ‘800. Ma quando
l’opera fu richiesta a Venezia per La Fenice,
Rossini dovette ripensarla in termini assai meno innovativi, ad iniziare da una conclusione a
lieto fine per non ridestare nei veneziani il ricordo di una delle più dure sconfitte della loro storia, come proprio quella di Negroponte
nel 1470 ad opera di Maometto II. Dovrà anche adeguarlo al gusto di un pubblico amante
dell’alta teatralità, come farà pure meno di
due mesi più tardi con il poderoso meccanismo della Semiramide, composta sempre per il
teatro veneziano dove debuttò il 3 febbraio
1823. In questa versione ricompare, dunque, la
Sinfonia, risuonano altri cori e bande a lui tanto care anche fuori scena, aggiunge cambiamenti per allentare la tensione e condurre al
lieto fine del matrimonio. Un lavoro di cesello
questo, che certo inciderà molto anche nella
successiva rielaborazione parigina de Le siège
de Corinthe, la quale dovrà guardare a sua volta al gusto del Grand Opera.
Questo autografo, purtroppo non è completo,
anche se grande merito va riconosciuto al professore Philip Gosset, il quale per la sua edizione critica alla prima versione, è riuscito a
scovare altre parti disperse, così da ricomporlo quasi completamente: alcuni pezzi mancanti della versione napoletana (1820) sono stati,
infatti, individuati in biblioteche pubbliche od
in collezioni private, Pochissimo, invece, rimane purtroppo del materiale elaborato per Le
Siège de Corinthe (1826), molto, invece del Maometto II rielaborato per Venezia (1822).
mi. ma.
Il
maometto II
Giornale dei Grandi eventi
11
Il ruolo delle voci nel Maometto II
Un inconsueto triangolo vocale
A
per il quale spesso Rossini aveva scritto parti da “cattivo”, le quali pespetto da non tralasciare del Maometto II è la particolare e comrò possedevano una rilevanza psicologica maggiore rispetto agli altri
plessa forma del classico triangolo vocale, alla base della defipersonaggi (su di lui modellò, ad esempio, il personaggio di Otello).
nizione drammatica dei personaggi e del loro ruolo nella viCosì questo ruolo di Erisso, benché privo di arie, possiede una profoncenda. Tale triangolo, nelle opere dell’epoca, era solitamente costituito
dità che va al di la dello stereotipo del governatore che vede solo la Pada una prima donna (generalmente soprano), dal suo amante corritria: egli è un uomo combattuto dai dubbi sulle scelte da adottare e poi
sposto (definito all’epoca “musico”, tipicamente un contralto en travedall’amore forte per la figlia. Tale ruolo a Venezia ha avuto come insti, ovvero una donna che aveva sostituito il castrato nei panni di un
terprete John Sinclair, che non ebbe una carriera brillante, nonostante,
giovane) e da un personaggio antagonista, come un padre severo o ridue mesi dopo, nella successiva prima rappresentavale amoroso che cerca di inserirsi nella storia
zione di Semiramide interpretò la parte non facile di
d’amore, solitamente interpretato da un tenore.
Idreno. Il ruolo di Calbo, invece, pur non avendo
Nelle opere napoletane di Rossini, a dimostrazione
una forte valenza drammatica, è caratterizzato da
della particolare sperimentazione portata avanti in
una vivace scrittura vocale, dove l’ampia estensione
quegli anni dal “pesarese”, questi caratteri dramviene sfruttata per intero nella difficilissima aria che
matici vengono spostati e “disegnati” sugli interspazia da affondi più gravi fino a vertici come nei
preti che il compositore aveva a disposizione. Così
quattro Si4 conclusivi, i quali sono addirittura un seper il Maometto II ciò avviene con Isabella Colbran
mitono al di sopra al limite acuto di Anna. A Napoli
come prima donna, Giovanni David tenore acuto
la parte fu scritta per il contralto Adelaide Comelli,
che canta al posto del contralto nel ruolo delmentre a Venezia a cantarla fu Rosa Mariani, che sal’amante corrisposto ed Andrea Nozzari, un baritorà l’Arsace nella successiva Semiramide.
no-tenore, ovvero un baritono con tessitura grave,
Il personaggio di maometto, da parte sua, si trova
che interpreta l’antagonista.
anche lui combattuto tra l’amore verso Anna e la reLa configurazione del triangolo, dunque, assume
altà che lei è figlia del suo nemico. Così, dal punto di
una veste insolita. Al vertice c’è sempre la prima
vista musicale, le fioriture belcantistiche che carattedonna, anna, interpretata a Napoli come a Venezia
rizzano il ruolo, ben descrivono da una parte, nel prida Isabella Colbran, soprano con predilezione per il Gioachino Rossini in una caricatura
mo atto, il condottiero vincitore e dall’altro l’amore e
registro centrale che non ha bisogno di arrivare ad
la compassione che lo spingono verso Anna. Ad interpretarlo, sia a Naacuti particolari visto che in quest’opera si sale solo al Si ß4, ma caratpoli che a Venezia, fu in grande basso Filippo Galli, che già aveva teterizzata da una particolare agilità vocale che si può apprezzare nel
nuto a battesimo diverse opere rossiniane.
rondò finale mutuato da La donna del lago, opera anch’essa composta
Curioso, invece, il ruolo di Condulmiero che a Napoli fu interpretato
sulle caratteristiche della Colbran. Ma è da notare che Rossini, nella rida un Tenore (Giuseppe Ciccimarra) ed a Venezia da un Basso (Luciapresa veneziana del 1822 – come fece per la ripresa viennese di Elisano Mariani, primo interprete di Oroe nella successiva Semiramide). Nel
betta – graziò la Colbran, a quell’epoca a fine carriera, dall’aria di sortimanoscritto veneziano tutte le parti nuove sono scritte in chiave di basta, sostituita da un coro di donne.
so, mentre la parte dell’introduzione continua, come nell’originale naAnna è dunque attratta da due poli contrapposti: da una parte il padre
poletano, ad essere per tenore ed in una tessitura effettivamente diffiErisso (tenore) ed il promesso sposo Calbo (contralto) e dall’altra Maocile per qualsiasi basso. Così nella generalità delle rappresentazioni, la
metto, amante corrisposto ma anche nemico del suo popolo. Quindi,
scelta più usata è quella di impiegare un tenore.
questa volta da una parte vi sono tenore e contralto alleati (che solitaDavvero marginale è, infine, il ruolo tenorile di Selimo, che partecipa
mente, invece, giocavano ruoli contrapposti) e dall’altra il basso “cattia soli due recitativi e, da comprimario, al finale primo.
vo” e nemico, di cui però la protagonista è innamorata.
mi. ma.
A Napoli la parte di erisso fu interpretata dal tenore Andrea Nozzari,
Composte per l’elezione di Pio IX
Anche un pezzo dell’Assedio di Corinto
nell’assemblaggio di brani per due Cantate
L
a
dimostrazione
che
Rossini
riutilizzasse suoi pezzi diversi per
creare nuove composizioni, è anche
nella storia di due Cantate in onore di Pio IX.
Sebbene, infatti, il Pesarese avesse
abbandonato la composizione già dal 1829, la
sua 'rinuncia alla musica' non lo proteggeva
da insistenti richieste da parte di teatri e
privati. Così nel corso dei moti
risorgimentali, Rossini venne assillato da
domande e, nonostante il cattivo stato di
salute, fu costretto a riprendere la penna in
mano, per non essere tacciato di scarso amor
patrio.
«Marciare fischiettando un motivo rossiniano era
già una mezza vittoria», diceva padre Ugo
Bassi, noto patriota bolognese. Le pressioni, il
momento storico, e fors'anche il desiderio
inconscio di non rimanere completamente
muto, spinsero Rossini ad accettare alcuni di
questi incarichi 'risorgimentali', senza però
partecipazione politica diretta.
Se in questi anni Rossini nutrì una speranza
politica, fu quella di una soluzione pacifica e
moderata della questione italiana. Perciò,
particolare importanza assunse l’elezione di
Pio IX, ossia Giovanni Mastai Ferretti
(Senigallia 1792- Roma 1878), avvenuta il 16
giugno 1846. Molte erano le speranze nei
movimenti moderati e neo-guelfi, che
propugnavano una federazione di stati
italiani sotto la presidenza onoraria del papa.
Al contrario del suo predecessore Gregorio
XVI, Mastai aveva mostrato simpatia per il
movimento riformista: il nuovo pontefice,
dunque, sembrò incarnare quella figura di
Papa-Re, illuminato e liberale indicato da
Gioberti come chiave per giungere, senza
sangue, all'unione degli stati italiani. Quando
il 16 luglio, a un mese dalla propria elezione,
Pio IX concesse l'amnistia ai prigionieri
politici, conquistandosi un enorme consenso
in tutta la penisola, anche Bologna volle
festeggiare in Piazza Maggiore: si tentò
subito di convincere Rossini, il quale
stranamente non oppose troppe resistenze ed
in pochi giorni approntò un coro su versi del
canonico Golfieri. L'inno, chiamato Grido di
esultazione riconoscente alla patema clemenza di
Pio, fu eseguito da 500 persone e diretto dallo
stesso autore sulle gradinate di San Petronio
la sera del 23 luglio 1846. In realtà il Grido,
come molti altri lavori di questi anni, era un
rifacimento del "Coro dei Bardi" dalla Donna
del lago.
Proprio il 23 luglio, pure lo storico romano
Giuseppe Spada inviò a Rossini un invito a
comporre una nuova cantata in onore di Pio
IX da eseguirsi a Roma. Accettando, Rossini
riutilizzò brani provenienti da quattro opere
quasi scomparse dal repertorio: Armida
(1817), Ricciardo e Zoraide (1818), Ermione
(1819) e L’assedio di Corinto (1826). Terminato
l’assemblaggio, il compositore intervenne
aggiustando
l’orchestrazione
ed
aggiungendo anche una delle sue amate
bande nel finale. Quindi il nome: Cantata in
onore del sommo pontefice Pio IX.
Cl. Lan.
maometto II
12
Il
Giornale dei Grandi eventi
Riflessi metallici sulle tavole dei sultani islamici
Lozas doradas: L’arte segreta
che tramutò la terracotta in oro
«C
osì ciò che è
stato riluce come oro rosso e
brilla come la luce del sole»: con queste parole il
grande medico araboispanico Abul l Qasim
(Cordoba 936-1013), descriveva il mirabile procedimento tecnico della
ceramica a lustro, vera
alchimia che consentiva
agli antichi ceramisti
arabi di metallizzare
perfettamente piatti e
vasellame di terracotta
smaltata. Queste mense
dai bagliori aurei, rossastri e bruniti erano dette
“Lozas doradas”, in italiano, “ceramiche a lustro”.
Del resto, almeno fino
alla metà del Cinquecento, anche il nome majolica – derivante da Majorca, porto in cui attraccavano le navi cariche Lozas doradas – era sinonimo di questo tipo di vasellame pregiato. La sofisticata tecnica del lustro nacque in Mesopotamia, nel IX secolo, per
aggirare il divieto coranico che proibiva l’utilizzo di oggetti e vasellame di metallo prezioso
per la mensa. Gli artigiani aguzzarono così l’ingegno e misero a punto
l’arte segreta di tramuta-
re le terre povere in piatti e brocche dalle superfici rutilanti d’oro e iridescenti di madreperla,
senza utilizzare alcun
materiale pregiato. Così
il lustro si diffuse in tutti
i paesi islamici, appagando il gusto di danarosi committenti e serbando intatta, al tempo
stesso, l’ortodossia islamica. I vasai mediorientali erano già riusciti a
ottenere ceramiche di un
biancore simile alla porcellana cinese di epoca
Tang, (ricavata questa
dal caolino) grazie al
procedimento
della
smaltatura. Tuttavia, per
ottenere le patine metallizzate e colorate del lustro, fu indispensabile
scoprire l’utilizzo degli
ossidi metallici. Nel Settecento erano anche
chiamati “calci”; in realtà
sono composti chimici
di metallo e ossigeno,
ampiamente diffusi in
natura. Queste sostanze
venivano macinate a
lungo, anche per un
giorno intero, fino ad ottenere una sottilissima
polvere che era quindi
amalgamata con aceto e
terra d’ocra. Il vasellame
già smaltato di bianco,
veniva così decorato con
tali misture e sottoposto
poi a una terza cottura,
di 15-18 ore, “a piccolo
fuoco”. Si trattava di un
passaggio delicatissimo
alla temperatura di soli
650°, rispetto ai 900° richiesti per i primi due
passaggi in forno. La camera di cottura doveva
essere privata dell’ossigeno grazie alla produzione di fumi ad alta
densità, ottenuti dal legno di salice o di ginestra; l’atmosfera riducente così creata permetteva che gli ossidi rilasciassero un sottilissimo
velo di metallo che rimaneva incorporato per
sempre nell’invetriatura.
L’artigiano doveva calibrare attentamente i
tempi le temperature,
soprattutto nell’ultima
fase. Un minuto in più o
in meno avrebbe significato la bruciatura del
metallo o la sua irrecuperabile opacizzazione.
Una volta raffreddati, i
pezzi dovevano essere
lavati, poi lucidati con
un panno di lana e cenere. Solo dopo questa rifinitura era, infatti, possibile controllare se la loza
dorada fosse riuscita in
modo perfetto. La preziosità di tali ceramiche
derivava, oltre che dalla
raffinatezza del procedimento tecnico, anche
dall’elevatissima “mortalità” dei pezzi durante
la cottura a piccolo fuoco. Si salvavano, infatti,
dalla rottura, mediamente solo sei pezzi su
cento. Negli esemplari
sopravvissuti, tuttavia, i
motivi geometrici e vegetali dipinti col pennello apparivano come intarsi metallici sfolgoranti di rosso ramato, giallo
oro, bruno violaceo e
madreperla, colori ottenuti rispettivamente dagli ossidi di cadmio, ferro e manganese. Questa
tecnica subito così apprezzata, fu esportata
nel XIII secolo nella Spagna moresca e solo nel
‘500 giunse in Italia dove
si sviluppò e raggiunse
livelli insuperati nella
bottega di Mastro Giorgio a Gubbio.
andrea Cionci
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Giornale dei Grandi eventi
maometto II
13
L’Orientalismo nelle arti dell’800
Prima della pittura l’Oriente
affascinò la musica
A
ll’inizio dell’Ottocento, l’attenzione
all’Oriente già da quasi due secoli
aveva permeato vari ambiti culturali dell’Europa, dopo che il “pericolo turco”
era stato definitivamente allontanato e
scambi commerciali, missioni diplomatiche
e viaggi avevano sostituito le imprese belliche. Le turcherie settecentesche raffigurate
da Liotard e musicate da Mozart si trasformano nel corso del XIX secolo in un genere
diffuso per tutta la cultura europea, dalla
letteratura alla musica, dalla pittura all’architettura, dal teatro all’artigianato. «Nel secolo di Luigi XIV eravamo ellenisti, oggi siamo
orientalisti», diceva Victor Hugo.
Una fascinazione che solo verso l’inizio del
‘900 cederà ad esotismi più nuovi e più lontani, guardando all’estremo Oriente, con India, Cina e Giappone. Prima ancora che gli
artisti italiani avviassero il loro personale
Gran Tour esotico tra Egitto, Marocco e Costantinopoli, riportando immagini capaci di
colpire l’immaginario occidentale, è il teatro
musicale a rievocare atmosfere e suggestioni. L’esempio di Mozart con Il ratto dal serraglio ed Il flauto magico dove l’Oriente è legato a messaggi massonici, sembra ispirare
a Rossini un decennio “orientalista” in tutti
Stefano Ussi, Donna Araba (1880)
i generi melodrammatici, dalla commedia
alla tragedia, dall’opera buffa al dramma
religioso: Ciro in Babilonia (1812), L’italiana in
Algeri (1813), Il turco in Italia (1814), Armida
( 1817), Mosé in Egitto (1818), Adina e il califfo di Bagdad (1818), Maometto II (1820), Semiramide (1823). È certamente allineandosi ad
un tale gusto, apprezzato anche in Francia,
che il compositore giunto a Parigi si presentò con due opere come Le siège de Corinthe
(1826) e Moise et Pharaon ou le passage de la
Mer Rouge (1827), rifacimenti del Maometto
II e Mosé in Egitto composte a Napoli. Massimo Mila osserva: « se L’italiana in Algeri
… iniziò la celebrità europea dì Rossini… la fortuna internazionale della Semiramide fu maggiore dì qualunque altra opera seria di Rossini».
Così quando Francesco Hayez dipinge la tela I profughi di Parga che abbandonano la loro
patria (1826), Rossini con Le siège de Corinthe, affronta l’Oriente ellenico, legandosi
all’attualità del filoellenismo così presente
in Francia per inneggiare alla lotta dei greci contro i turchi. L’esplosione dell’orientalismo pittorico avverrà, dunque, qualche
decennio più tardi, in piena temperie verista, sotto la spinta del pittore napoletano
Domenico Morelli (1826 - 1901) e di Alberto Pasini.
Oltre la lunga lista rossiniana, altri esempi
musicali come Gli arabi nelle Gallie (1827) di
Giovanni Pacini, Maometto II di Pietro de
Winter (1817) e anche diversi balletti quali
Sesostri, Cesare in Egitto, Tìppi Saeb e Gli adoratori del fuoco che nel 1828 inaugurò il teatro Carlo Felice di Genova, testimoniano
quanto l’orientalismo si impose in ambito
musicale, grazie anche al nuovo gusto del
pubblico, dove l’attenzione non era più per
i costumi, ma per le scenografie divenute
non un semplice telo di sfondo riutilizzabile, ma ricco elemento dominante per localizzare e ricreare l’ambiente, mirando a proporre agli spettatori le suggestioni di luoghi
lontani, dai templi di Tebe, alla reggia babilonese. Anteriori alle immagini realizzate in
loco da artisti-viaggiatori come Raffaele Carelli, Ippolito Caffi, Carlo Bossoli, Alberto
Pasini, Enrico Guastalla, sono le scenografie
come quelle di Alessandro Sanquirico che
ricreano in teatro l’Oriente, non solo quello
remoto e di fantasia, ma anche il paesaggio
urbano storico, come il porto di Damietta
per Il Crociato in Egitto di Gustave Meyerbeer. Infatti, gli inizi della sua attività di scenografo all’inizio del XIX secolo, coincidono
non casualmente con la pubblicazione dei
monumentali reportages archeologici di
Dominique Vivant Denon al seguito di Napoleone in Egitto, che furono veri successi
editoriali con molte ristampe e traduzioni.
Così nella scena per il Luogo di delizie nell’atto II di Ottaviano in Egitto di Giuseppe
Calzerani (1829), fanno bella mostra di se
due elementi tipici dell’architettura egizia:
l’obelisco e il capitello lotiforme. Non occorreva certo andare in Egitto per ammirare
obelischi che già in età romana erano stati
portati a Roma, ma questo tipo particolare
di capitello è lo stesso del portico del tempio di Esma, come si vede nella Description
de l’Egypte del Denon.
Di gusto perfettamente egiziano sono anche le scenografie di Gaspare Galliari per
la rappresentazione scaligera del Flauto
magico mozartiano del 1816, dove però appaiono un Egitto ed un Oriente più evocati che studiati.
Il gusto orientale di Sanquirico, tra citazione
Giulio Viotti, Idillio a Tebe
e rielaborazione, è quindi la prima tappa di
un percorso che culmina con la celebrazione
“filologica” che caratterizzerà mezzo secolo
più tardi tutta l’impresa dell’Aida di Verdi,
nelle due “prime” storiche al Cairo e alla
Scala di Milano. Il critico Filippo Filippi nella recensione esaltò l’accuratezza filologica
dell’opera nella sua presentazione al Cairo,
definendola un «vero miracolo di resurrezione
archeologica». Del resto autore del soggetto e
delle scenografie fu Augùste Mariette, il più
famoso egittologo dell’epoca, scopritore del
serapeo di Menfi e fondatore del Museo
Egizio del Cairo. Ma se era scontata da parte di Mariette la cura all’esatta ricostruzione, l’attenzione di Verdi e di Girolamo Magnani (autore di scene e costumi per la rappresentazione scaligera del 1872) sono invece un segnale preciso di quella febbre
“orientale”. Magnani studiava, infatti, le tavole del Denon, mentre il compositore tormentava Giulio Ricordi per maggiori informazioni sulle usanze della civiltà dei faraoni, come nella lettera del 7 novembre 1870:
«Avevo dimenticato i timpani che quelli che avete sono impossibili. Poi ci vogliono buone arpe,
siamo in Egitto e le arpe lavorano molto [...].
Penso di far vedere Amneris, di farla inginocchiare sulla pietra del sotterraneo, e cantare un
Requiem, un De Profundis Egiziano. Ho bisogno però di sapere quali erano le loro preghiere
da morto. Fatemi il piacere di consultare quel vostro amico che mi diede altre nozioni sulle cose
d’Egitto».
Negli anni Settanta almeno un’altra testimonianza di grande successo e diffusione
affiancano l’impresa verdiana: sono i reportages di Edmondo De Amicis in Marocco e
a Costantinopoli, pubblicati a Milano da
Treves nel 1876 e ‘78. Affiancati da un minuzioso lavoro d’illustrazione curato da Cesare Biseo e Stefano Ussi per Marocco e da
Biseo per Costantinopoli, i resoconti di De
Amicis si offrono come descrizioni di precisione fotografica.
Cl. La.
maometto II
14
Il
Giornale dei Grandi eventi
Il più grande soprano del suo tempo, prima interprete di Anna
Isabella Colbran,
la Musa amante e poi moglie di Rossini
P
roprio per lei, che tre anni dopo sarebbe diventata sua moglie, Gioacchino Rossini scrisse il ruolo di Anna Erisso nel Maometto II. Isabella Colbran, (Madrid, 2 febbraio 1785 – Castenaso, 7 ottobre 1845) fu il soprano più famoso ed apprezzato del suo tempo. Era
figlia del violinista Giovanni Colbran, già
maestro di cappella e da camera del Re di
Spagna. Un collega del padre, il compositore e primo violoncellista madrileno
Francesco Pareja le impartì le prime nozioni musicali. La giovane studiò quindi
con il maestro napoletano Gaetano Marinelli e, successivamente, con il celebre sopranista (ed eccellente maestro di canto)
Girolamo Crescentini. Grazie ad una borsa di studio assegnatale dalla regina Maria Luisa di Spagna, ebbe la possibilità di
proseguire gli studi musicali all’estero.
Suo padre, in un modo che ricorda quello
di Leopold Mozart, fu il suo principale
sostenitore, portandola in giro per la
Francia e l’Italia in modo da far conoscere ed apprezzare le sue straordinarie qualità vocali.
«Il 7 aprile giunse tra noi – si legge ne Il Redattore del Reno di Bologna, dell’aprile
1807 - Donna Isabella Colbran, celebratissima giovane Signora Spagnola, all’attual servizio di S. M. Cattolica... Possiede essa la celeste arte del canto in così sublime grado, che
per lei nella Reggia dei maggiori Monarchi
d’Europa i segni dell’ammirazione più viva e
del diletto più puro si resero chiari e manifesti... L’organo della sua voce è veramente un
incanto per soavità, robustezza e per prodigiosa estensione di corde, poiché dal sol basso
al mi sopracuto, cioè per quasi tre ottave, si fa
sentire con una progressione sempre uguale
in morbidezza ed energia... Perfetto è il metodo e lo stile del suo cantare...». La Colbran
aveva, difatti, tenuto tre concerti nella città delle due torri, accolti con grande entusiasmo. Era anche una donna estremamente piacente: «Una bellezza di “genere
imponente”», come ammetteva lo Stendhal, che pure non le avrebbe risparmiato impietose stoccate. «Possiede lineamenti grandi che, sulla ribalta, sembrano fatali,
una figura magnifica, un occhio di fuoco, alla
circassa, una foresta di capelli del più bel nero di giada, e finalmente, l’istinto della tragedia. Questa donna... non appena appare in
pubblico colla fronte adorna del diadema, incute in tutti un rispetto involontario...» E’ di
questo periodo il celebre ritratto ad olio della
cantante conservato al Museo Bibliografico
Musicale di Bologna.
Nel 1808 esordì con grande successo alla
Scala nel ruolo di Volunnia, in occasione
della prima del Coriolano di Giuseppe Nicolini. Da quel momento, calcherà i palcoscenici dei principali teatri italiani. Dopo varie esibizioni a Bologna, Venezia e
Roma, la Colbran divenne, dall’aprile
1813, la prima donna del Teatro San Car-
lo di Napoli: la fama della sua voce eccezionale e della sua superba bellezza era
giunta, infatti, a Domenico Barbaja, “il
principe degli impresari” che controllava
tutti i reali teatri napoletani.
Per circa un decennio (fino al 1822) la
cantante poté mantenere, a Napoli, il ruolo di protagonista assoluta, grazie pure
alla relazione intima che ben presto intrecciò con il Barbaja ed alla protezione
Isabella Colbran nella villa di Castenaso nel 1830 circa
incondizionata della Corte (che in breve
tempo però le alienò gran parte delle simpatie dei Napoletani e dei sostenitori del
partito costituzionale).
Proprio a Napoli la Colbran conobbe
Gioachino Rossini, con cui iniziò una collaborazione artistica, che portò il compositore pesarese a scrivere per lei le parti protagonistiche più importanti delle sue opere: Elisabetta, Regina d’Inghilterra (1815),
Otello (1816), Armida (1817), Mosè in Egitto
(1818), Ricciardo e Zoraide (1818), Ermione
(1819), La donna del lago (1819), Maometto
II, (1820), Zelmira (1822) e Semiramide
(1823), nonché riadattamenti di diverse
opere. E’ difficile, ad esempio, pensare che
nella scelta di un soggetto così insolito come Armida non avesse avuto peso una sorta d’identificazione fra la maga e la cantante, testimoniata tra l’altro dalla firma di
Isabella accanto a quella di Rossini sulla
partitura autografa. Per lei, ancora, il compositore nel dicembre 1822, quando Isabella era ormai a fine carriera, alleggerì le
parti vocali di Anna nella seconda versione del Maometto II presentata a Venezia
La Colbran fu accusata di avere inconsapevolmente danneggiato la carriera di
Rossini, avendolo indotto ad abbandonare il campo dell’opera buffa per la quale come Beethoven disse, ed egli stesso ammise - Rossini era nato. E’indubbio che,
con quel suo temperamento e registro vocale adatti ai grandi ruoli tragici, la cantante madrilena condizionò le scelte compositive del pesarese: il quale, peraltro, a
queste scelte drammatiche aderì di buon
grado anche perché alle situazioni nobili
e ai sentimenti possenti ben si confacevano le melodie fiorite e ricche di colorature che caratterizzavano il suo stile.
La collaborazione esclusivamente artistica tra il soprano e Rossini, a un certo punto si tinse di toni sentimentali, tanto che
la Colbran chiuse la relazione con Barbaja ed i due nuovi amanti andarono a convivere. Si sposarono il 16 marzo 1822 a
Castenaso, dove la Colbran, decisamente
facoltosa, possedeva una villa che fu distrutta durante la seconda guerra mondiale e di cui oggi rimangono solo le colonne d’entrata e il pozzo. Il compositore,
dopo sette anni di frequentazione, volle
regolarizzare l’unione anche per tranquillizzare gli scrupoli religiosi degli amatissimi genitori. Benché ormai in pieno declino vocale, la Colbran proseguì per
qualche tempo ancora le sue esibizioni all’estero, profittando in gran parte della
fama e delle scritture del marito. Nel
1824, con la voce ormai usurata, fu costretta a ritirarsi dalle scene. La cosa influì negativamente sulla sua personalità,
tanto che per colmare il vuoto lasciato dal
teatro, si mise a giocare ed a spendere
senza ritegno, fino ad imbarazzare gravemente Rossini che, nel 1824, lasciò la moglie a Milano e tornò, da solo, a Parigi. La
Colbran rimase ad angustiare il padre di
Rossini, Giuseppe, detto Vivazza, il quale, come risulta da colorite lettere da lui
inviate al figlio, mal sopportava i capricci, i dispetti e le manie di grandezza della nuora. «Voi conoscete abbastanza più di
me il naturale della vostra Signora», si legge
in una lettera di Giuseppe del 18 aprile
1833. «Essa è tutta grandezza nel suo pensare, e io sono piccolissimo nel mio. Ad essa piace scialacquare e far godere li suoi adolatori, e
a me piace godere la tranquillità e la pace...».
Gli incontri di Rossini con la Colbran divennero rarissimi e sempre in occasioni
pubbliche. Solo il 7 settembre 1845 - avuta notizia della grave malattia della moglie - Rossini si recò con la sua nuova
compagna Olympe Pélissier a Castenaso
dove - come riportano tutti i suoi biografi - rimase a lungo a colloquio con Isabella, uscendo profondamente turbato dalla
stanza: un mese dopo, il 7 ottobre 1845,
Isabella Colbran si spegneva nella sua
villa di Castenaso.
a. C.
Il
maometto II
Giornale dei Grandi eventi
15
Il giallo della fonte letteraria del Maometto II
Da una tragedia dello stesso della Valle,
no da un lavoro di Voltaire
C
’è voluto, negli
anni ’90 del ‘900,
lo studio di Bruno
Cagli per sfatare la falsa
attribuzione della fonte
del libretto del Maometto
II. Il musicologo Giuseppe Radiciotti (Iesi 1858 –
Tivoli 1931) nei tre volumi di biografia di Rossini, editi tra nel 19271929, sosteneva, infatti,
che il drammaturgo napoletano Cesare della
Valle duca di Ventignano avesse «tratto il soggetto da Voltaire, riducendolo
di due terzi e snaturandolo
per adattarlo alle esigenze
melodrammatiche» di quest’opera di Rossini, nata
per il San Carlo di Napoli, e continuava: «Io non
conosco gli altri lavori
drammatici de duca di
Ventignano, ma, se avesse
a giudicare del suo valore
da questo libretto, direi che
la sua fama è scroccata...».
Cagli, invece, sottolinea
che «Se il Radiciotti avesse
conosciuto gli altri lavori
del Duca di Ventignano, o
se avesse conosciuto almeno
quelli di Voltaire, la bibliografia rossiniana sarebbe
stata risparmiata dalla ripetizione di un errore grossolano e quasi incredibile».
Infatti, il Maometto II del
Della Valle non è tratto
da Voltaire, poiché Voltaire non ha mai scritto
alcuna tragedia con protagonista Maometto II.
Dopo Radiciotti tutti indistintamente biografi e i
critici rossiniani, salvo i
pochi che hanno sorvolato sulla fonte, hanno ripetuto il suo errore. I più
zelanti, consultato l’elenco delle opere di Voltaire, sono giunti ad indicare il titolo della tragedia
Mahometh, ou le Fanatisme. Concepita nel 1739,
scritta nell’anno seguente, questa tragedia fu
rappresentata per la prima volta a Lilla nel 1741
e stampata come Le Fanatisme ou Mahomet le Prophète. Protagonista, come
dice il titolo, è Maometto
il Profeta, no Maometto
II il conquistatore vissuto parecchi secoli dopo.
Luogo dell’azione è la
Mecca, no Negroponte.
Nulla dunque, nemmeno lontanamente, in comune con l’opera del
Della Valle. Come poi sia
stato possibile al Radiciotti valutare che il Della Valle avesse ridotto ai
due terzi la tragedia di
Voltaire rimane un mistero. L’errore di superficialità è stato poi ripetuto non soltanto nelle biografie rossiniane, ma
perfino in alcune voci di
enciclopedia dedicate al
Della Valle. Per tutte
quella dello Spettacolo:
«Per Rossini, D. scrisse il
libr. Maometto II dall’omonima tragedia di Voltaire».
Se si pensa che il Maometto di Voltaire ebbe
larga risonanza e che
l’autore mostrò di considerarlo il suo capolavoro, non ci si può non stupire che nessun conoscitore del teatro francese
abbia rilevato l’errore.
se ne denunciano gli errori delle copie manoscritte. L’Anna Erizo fu
nuovamente stampata a
Roma nel 1826 in una
nuova edizione delle tragedie del Della Valle.
Nel 1830 il Della Valle
poté curare da vicino
una nuova edizione
completa delle sue trage-
Sempre nella prefazione,
il Della Valle fornisce notizie storiche a fondamento della tragedia e
parla degli accorgimenti
usati per realizzarla in
ossequio alle leggi aristoteliche: «La favola da me
intessuta assai poco ne dissomiglia (dalla realtà storica in cui Paolo Erisso fu
die, stampata a Napoli
«dai Torchi del Tramater».
Nella prefazione il Della
Valle parla di ciascuno
dei lavori contenuti. Per
l’Anna Erizo rifiuta l’edizione torinese: «Di Anna
Erizo venne fatta una prima edizione dalla tipografia
Pompa in Torino, la quale
riuscì monca ed incorretta
al segno che in luogo dell’atto terzo vi rinvenni
omessi otto o dieci versi. E
perciò mi veggo nella necessità di ricusarla». Nulla è
detto dell’opera di Rossini sia perché, da letterato, il Della Valle non dava molta importanza alla
riduzione librettistica,
sia perché l’opera di Rossini non ebbe vita molto
fortunata prima del rifacimento francese.
tagliato in due dai mussulmani, n.d.r.), tranne
una sola circostanza. Maometto non conobbe Anna se
non quando Erizo fu costretto ad arrendersi; quindi non prima di allora quel
feroce Sultano poté concepire per lei il suo sfrenato
affetto. Ad evitare tal bivio
posi a profitto una circostanza istorica [..]Amurat,
padre di Maometto, meditando anch’esso il conquisto di Grecia, avea spiccato
colà alcuni avveduti esploratori, che gliene riferissero
accuratamente lo stato.
Supposi dunque che l’audace suo figliuolo, per giovanile vaghezza, seguisse costoro con mentito nome, e
non ancor pienamente dissoluto, s’invaghisse colà
della veneta fanciulla, sic-
Da una propria tragedia
In realtà il Della Valle,
che era tragediografo e
non librettista, trasse il libretto per Rossini da un
suo lavoro teatrale, la
tragedia Anna Erizo,
scritta lo stesso anno in
cui fu data l’opera di
Rossini (a Napoli il 3 dicembre 1820). E’ comprensibile che se si adattò a scrivere un libretto,
lo fece perché gli si offrì
l’opportunità di ridurre
uno dei suoi lavori. L
‘Anna Erizo fu la prima
tragedia di argomento
non classico del Della
Valle. Circolò manoscritta nei teatri d’Italia e fu
stampata nel 1824 prima
a Torino e poi a Genova
nel Nuovo Teatro (quarto tomo), ossia Raccolta di
Tragedie,
Commedie,
Drammi e Farse che riscuotono presentemente l’applauso generale nei Teatri
Italiani. La tragedia è seguita da alcune interessanti osservazioni, dalle
quali si desume che il testo era tratto dalla precedente edizione torinese e
ché per la sua stessa audacia la ritraesse a salvamento da gravissimo pericolo».
Da Erizo in Erisso
Per quanto riguarda il
cambiamento del nome
da Erizo in Erisso, la tragedia reca la seguente
precisazione: «Nel corso
della Tragedia, per servire
alla dolcezza del verso, ha il
celebre autore giudicato di
porre Erisso». Identica
l’indicazione del luogo
dell’azione, che è Negroponte, nome usato dai
veneziani per indicare la
capitale dell’Eubea, assediata e caduta nel 1470
ad opera del sultano
Maometto II. E’ poi noto
che nel rifacimento francese dell’opera, Rossini
spostò l’azione a Corinto, conquistata nel 1453.
Rispetto alla tragedia
originale il libretto vanta
una migliore riuscita
drammatica. Sebbene,
infatti, l’Anna Erizo sia
opera di transizione tra
fase classica e quella romantica del Della Valle,
le strutture della tragedia gli sono ancora di notevole impaccio, con l’atto terzo che rallenta notevolmente l’azione. Nel
complesso tuttavia la rilettura dell’Anna Erizo
non giustifica gli scherni
del Radiciotti, ripresi sic
et simpliciter da tutti gli
altri studiosi. Al contrario, il rifacimento francese dell’opera non aggiunge nulla al libretto
originale. La sfortuna del
Maometto II sulle scene,
condivisa da tanti altri
lavori del periodo napoletano, non sono correlati col libretto e col valore
della musica. Tutto anzi
lascia credere che il Maometto sia stato scritto da
Rossini con grande impegno, come dimostrato
dalla cura per la musica
e dai suoi interventi sul
testo, visto che le poche
differenze tra tragedia
originale e libretto, furono volute o almeno discusse con il musicista.
L. Di D.
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