18 Libri&Musica Domenica 20 Gennaio 2013 Corriere del Mezzogiorno BA Il libro Esce per Stilo «La penna in fondo all’occhio» Su etichetta Digressione Music Gli esercizi di scrittura critica di Lino Angiuli Un gelato a tanti gusti Il debutto di Ironique, cantautrice atipica di FABRIZIO VERSIENTI L Se il poeta recensisce i suoi colleghi La copertina di SALVATORE F. LATTARULO Lino ANGIULI «La penna in fondo all’occhio. Esercizi di lettura/scrittura» Stilo Editrice Bari 2012 pp. 266, euro 18 e opere d’arte sono frutto di una solitudine infinita e niente può avvicinarsi ad esse meno della critica». Questa citazione di Rainer Maria Rilke infilata da Lino Angiuli nel suo La penna in fondo all’occhio pare un po’ il cavallo di Troia del libro appena approdato in libreria per Stilo. Nel senso che rischia di essere l’elemento che scardina dall’interno l’impianto dell’opera, un carnet di interventi critici intorno perlopiù alla poesia, attività cui il valenzanese si dedica ormai da lunga pezza con consensi autorevoli e ubiqui, come sta anche a dire il numero di gennaio della rivista internazionale Kamen’, diretta da Amedeo Anelli, che gli ha dedicato un’intera sezione. E tuttavia, con buona pace del firmatario delle Elegie duinesi, questi «esercizi di lettura/scrittura», pubblicati qua e là nell’arco di un quarantennio e ora riuniti in volume, sono la prova che tra poeta e critico c’è come una porta girevole. Che, insomma, il mestiere del comporre in proprio («penna») è tutt’uno con la pratica del leggere («occhio»), alias interpretare, i testi altrui. Al punto che chiedersi se venga prima l’artista o il recensore si riduce a un rompicapo ozioso, né più né meno della trita storiella sulla controversa primogenitura tra l’uovo e la gallina. D’altra parte, uno scrittore autentico equivale «L a una coscienza critica del proprio tempo, a un testimone pensoso e pensante dell’epoca in cui gli tocca vivere. Di certo, ad Angiuli non si addice il ruolo del critico-inquisitore. Lui preferisce semmai dare confidenza agli autori che prende in esame. Vedi quando si mette «a colloquio» con quel Guido Gozzano su cui nel 1972 si laureò sotto la guida di Arcangelo Leone De Castris. Allora il professore barese-salentino lo dissuadeva dal fare versi spingendolo piuttosto sulla strada della ricerca. Salvo poi scrivere lui liriche in segreto, magari per influsso del suo allievo. Fatto sta che la vena ironica della musa angiuliana è un lascito dello studio «giovenile» di Gozzano. Con cui ha da spartire anche la de-sublimazione lillipuziana del carattere «maiuscolo» del po- Lino Angiuli unisce alla scrittura poetica l’impegno dell’operatore eta. All’Angiuli lettore, come del resto al rimatore, sta a cuore non il letterato ma l’uomo. Di Bodini, altro maestro spirituale, sbalza un profilo da «uomo-poeta». Di Leopardi lumeggia «la sua grandezza d’uomo prima che di poeta e/o pensatore». Di Carlo Francavilla porta in superficie l’«uomo buono», la stessa formula La biografia Premio «Alda Merini» nel 2011 Ancora Angiuli Nato a Valenzano (Bari) nel 1946, Lino Angiuli vive a Monopoli. Poeta e scrittore prolifico, animatore infaticato di riviste, tra cui Incroci, fondata con Raffaele Nigro. Nel 2006 è uscita da Manni una monografia a più voci su di lui (Dal basso verso l’alto) a cura di Daniele Maria Pegorari. Nel 2010 la testata Atelier gli ha dedicato uno speciale. Con L’appello della mano (Aragno, Torino) ha vinto il premio «Alda Merini» (2011). che il politico-poeta di Castellana Grotte coniò per Gramsci. Ne viene perciò fuori una nozione di letteratura sotto forma di umanesimo integrale. Che è poi sinonimo di parole chiave come impegno e cultura militante. Care ad Angiuli, uomo di penna e azione. Genio creativo quanto attivo e caparbio operatore intellettuale sul territorio. Apostata del «meridionalismo», rappresentazione stilizzata di un Sud lagnoso e moscio, e crociato della «meridionalità», visuale aggiornata di un Sud dinamico e progettuale, diluito nelle diverse periferie del pianeta in stretta e feconda contaminazione tra loro. Uno sconfinamento di prospettiva che immunizza l’autore dal «complesso edipico» proprio dei poeti nati nella parte bassa dello Stivale: la sindrome dell’amore incestuoso per la madre-lingua, il dialetto d’origine, e per la madre-terra, spesso rinnegata e rimpianta. Angiuli, benché «strafiglio» di Puglia, si sente figlio carnale di «questo mondo». © RIPRODUZIONE RISERVATA Esce per Poiesis il romanzo di Maria Negroni, scrittrice argentina che racconta una (finta) epopea celtica La ferocia del maschio e il martirio delle donne C upe atmosfere celtiche fanno da sfondo a questo romanzo che corre sul filo ininterrotto di un’ipertesa e allucinata narrazione onirica, perspicua già nel titolo. Ursula è un’eroina sanguigna, modellata sulle figure femminili dell’epica nordica. Per preservare verginità e libertà fugge dalla regione natale, la Cornovaglia, intraprendendo un viaggio rituale nelle acque del Reno. Un irrequieto vagabondare dell’anima. In caccia di una terra di sogno da abitare nello spazio del proprio turbinoso immaginario. Il clima culturale più prossimo al libro, pubblicato per la prima volta nel 1998 e ora tradotto in italiano, sembra essere quella mitologia norrena che ha dato concime ai capolavori di Richard Wagner, di cui quest’anno si celebra il bicentenario della nascita. Una scelta che può apparire stravagante alla luce delle origini argentine dell’autrice. Ma l’odinismo che Maria Negroni, poetessa e scrittrice permea il flusso affabulatorio è solo il pretesto per far detonare un tema esplosivo, al centro anche della cronaca più recente: nelle moderne società di diritto la donna è ancora esposta alla ferocia del maschio. Sicché Ursula è una novella Sant’Orsola, che pur di sottrarsi a uno stupro opta per il martirio. S. F. Lat. © RIPRODUZIONE RISERVATA Maria NEGRONI, «Il sogno di Ursula», traduzione a cura di Laura Cervini, Poiesis editore, Alberobello 2012, pp. 204, euro 16 a scorsa settimana parlavamo di un retrogusto anni Ottanta che emerge a tratti nel nuovo disco di Fabio Accardi, batterista e band-leader jazz. La stessa cosa potremmo dire oggi, a proposito del primo album di canzoni di Luigia Altamura, in arte Ironique. La cantautrice molfettese, ovviamente, ha altri riferimenti. E la similitudine finisce qui. Non vogliamo neanche ipotizzare che si tratti di una tendenza, ci limitiamo a cogliere delle affinità trasversali. E non potrebbero che essere tali, visto che Ironique è un personaggio del tutto fuori dagli schemi: non per nulla pubblica il cd con la Digressione Music, etichetta coltissima e di gusti spiritualmente orientati, qui al suo primo disco «pop». Capelli corti e dritti come la giovane Laurie Anderson, un gusto della teatralità che la accomuna a certe chanteuse d’epoca punk, ritmi sintetici che affiorano qui e là che la potrebbero far credere un’emula di Giuni Russo o di Rettore, Ironique ricorda tanti frammenti di Sopra, la copertina dell’album modernariato «Mio padre vendeva i gelati» musicale, ma li Sotto, un ritratto di Luigia vivifica con un tocco Altamura, in arte Ironique surreale tutto suo e con notevoli raffinatezze. Al suo fianco, nel disco, troviamo la violinista Adriana Ester Gallo, il chitarrista Giulio Ricotti e il bassista di Caparezza, Giovanni Astorino, impegnato più al violoncello (strumento sul quale si è diplomato in conservatorio) che al basso elettrico, e soprattutto come produttore esecutivo dell’intero lavoro. Così, capita di sentire ritmi sintetici che s’interrompono, canzoni con strani bridge dove il violoncello è archettato, la chitarra arpeggiata e il violino pizzicato, episodi che sfumano in una nebbia tintinnante di suoni ovattati. La scelta di uno pseudonimo in francese non è casuale. Luigia Altamura è infatti cresciuta in Belgio, è perfettamente bilingue e la cosa si riflette nel cd: il passaggio dall’italiano al francese è fluido e naturale, episodi come Seulement tes yeux e Chaque soir sur le toit j’attends sono assolutamente credibili. D’altronde, Mio padre vendeva i gelati non è solo il titolo del disco, ma un’affermazione sincera: quello era il mestiere paterno, in Belgio, e Ironique ne fa una filosofia di vita. Per ognuna delle nove canzoni, nel libretto del cd, c’è un cono gelato diverso: tanti gusti, tanti colori, metafora («ironica») del valore della diversità. E la famiglia non finisce qui: il fratello, Sergio Altamura, è anch’egli musicista, partito con il rock e diventato un virtuoso della chitarra acustica. Qui firma l’arrangiamento di Voglio andare a Pompidou, uno dei brani che meglio sintetizzano la nascita di un nuovo, «ironico» talento. © RIPRODUZIONE RISERVATA