Teatro “Alfonso Rendano” Teatro di Tradizione Cosenza a 47 Stagione Lirica OTTOBRE - DICEMBRE 2005 La 47a Stagione Lirica è organizzata dal Comune di Cosenza con il contributo della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Generale dello Spettacolo in coproduzione con i Teatri “F. Cilea” di Reggio Calabria, “Politeama” di Catanzaro, con il sostegno della Regione Calabria. Sindaco Eva Catizone Dirigente Settore Cultura Maria Rosaria Mossuto Direttore Artistico Italo Nunziata La stagione lirica 2005 si apre all’insegna di una importante novità: l’accordo di cooperazione tra il nostro “Rendano”, il “Politeama” di Catanzaro ed il “Cilea” di Reggio Calabria. Si tratta di un accordo che ha consentito la realizzazione di un circuito comune che ha portato alla progettazione e realizzazione di un cartellone lirico unico che, distinguendosi per l’alta qualità delle produzioni, amplia lo standard dell’offerta dei singoli teatri per meglio rispondere alla forte domanda che viene dal pubblico della regione. Altro dettaglio non trascurabile è che per questo primo anno 1e spese sostenute per le opere prodotte dai tre teatri (“Madama Butterfly” il Politeama, “Elisir d’amore” il Rendano e “Un ballo in maschera” il Cilea) sono state suddivise in parti eguali. Anche le stagioni liriche che si succederanno e che saranno coprodotte dai tre teatri consentiranno un notevole abbattimento di costi. Ma le novità non si fermano qui perché il progetto culturale guarderà anche alla formazione delle maestranze che operano nei singoli teatri che avranno la possibilità di operare in una situazione di confronto e di interscambio dalle quali trarranno un sicuro arricchimento professionale. E’ la prima volta che una cosa del genere accade in Calabria. Abbiamo voluto lanciare un segnale forte e molto positivo che dimostra come nelle nostre municipalità, pur nelle giuste differenze ideologiche, è possibile far attecchire la cultura di sistema e fare rete, dando spazio alla logica della fruttuosa cooperazione istituzionale. Oggi inizia un percorso comune sul fronte della produzione lirica che rappresenta anche, per ciascuna delle nostre municipalità, un toccasana non trascurabile per l’abbattimento di quei costi proibitivi che i Comuni sono chiamati a sostenere per gli allestimenti, a causa anche dei tagli pesantissimi introdotti dalla Finanziaria e che ledono fortemente tutto il sistema delle autonomie locali. Per il momento la nostra sperimentazione sarà messa a frutto nel campo della lirica, ma non escludiamo che presto la collaborazione tra le nostre municipalità ed i nostri teatri venga estesa anche alle future programmazioni delle stagioni di prosa. I tempi sono particolarmente maturi per far sì che le rispettive politiche artistiche e con esse le attività teatrali diventino sempre di più una significativa occasione di crescita sociale e culturale in grado di promuovere efficacemente l’immagine della nostra regione. E’ con questo spirito che abbiamo dato luogo alla sinergia interistituzionale tra le municipalità di Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria e tra “Rendano”, “Politeama” e “Cilea”, convinti che, unendo le forze, i risultati non tarderanno ad arrivare, facendo sì che anche l’intera Calabria, messi al bando, una volta per tutte, gli ingiustificati campanilismi del passato, possa spiccare quel salto di qualità da tutti auspicato. Eva Catizone Sindaco di Cosenza a 47 Stagione Lirica Programma 5 (anteprima scuole) - 7 - 9 ottobre 2005 L’ELISIR D’AMORE di Gaetano Donizetti 5 - 6 novembre 2005 Ballet de Biarritz LO SCHIACCIANOCI Musica di P. I. Tchaikovsky 18 - 20 novembre 2005 UN BALLO IN MASCHERA di Giuseppe Verdi 9 - 11 dicembre 2005 MADAMA BUTTERFLY di Giacomo Puccini 23 dicembre 2005 (fuori abbonamento) CONCERTO DI NATALE Direttore d’Orchestra Daniel Oren Con Doyna Dimitriu e Marco Vratogna Maestri Concertatori e Direttori d’Orchestra Giuseppe Finzi, Giuseppe Grazioli, Daniel Oren, Carlo Palleschi, Guillaime Tourniaire Registi Davide Livermore, Italo Nunziata, Flavio Trevisan Maestro del Coro Gian Rosario Presutti Elenco artistico Cantanti Ekaterina Bakanova, Patrice Berger, Enzo Capuano, Francisco Casanova, Gabriella Corsaro, Alessandro Cosentino, Enzo Crucitti, Doyna Dimitriu, Massimiliano Donato, Valeria Esposito, Leonardo Galeazzi, Gabriella Grasso, Maria Pia Ionata, Antonio Mameli, Valerio Marchetti, Elena Marinova, Angelo Nardinocchi, Alfredo Portilla, Bruno Ribeiro, Olga Romanko, Anna Schiatti, Dario Solari, Piero Terranova, Marco Vratogna .Scenografi Santi Centineo, Luigi de’ Navasques, Alfredo Troisi Costumisti Luigi de’ Navasques, Santi Centineo, Eugenio Girardi Coreografo Thierry Malandain Danzatori Veronique Aniorte, Camílle Aublé, Giuseppe Chiavaro, Annalisa Cioffi, Frédérik Deberdt, Gael Domenger, Roberto Forleo, Cédrìc Godefroid, Mikel Irurzun del Castillo, Silvia Magalhaes, Amaud Mahouy, Christopher Marney, Miguel Pla Boluda, Magali Praud, Rosa Royo, Nathalie Verspecht Lighting Designers Jean Claude Asquié, Patrick Latronica, Stefano Pirandello, Giuseppe Ruggiero Registi Assistenti Roberta Cortese, Maura Ippoliti, Patrick Mailler 9 Assistente alle scene Gabriele Resmini Associazione Orchestrale della Provincia di Catanzaro “la Grecìa” Orchestra Philharmonia Mediterranea Orchestra Associazione Filarmonica “F. Cilea” Coro Lirico “F. Cilea” TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Direttore musicale di palcoscenico Giuseppe Finzi Direttore di produzione e di palcoscenico Emanuele Morfini Maestro collaboratore Giovanni Farina Maestro alle luci Innocenzo De Gaudio Coordinatore tecnico e Datore luci Pietro Carbone Responsabile allestimenti scenici Giampiero Olivito Stagisti Felicia Curatolo, Paola Greco, Anna Maria Spaccarotella Responsabile di sartoria Andrea Priori Responsabili reparto trucco e parrucche Marinella Giorni, Giuseppe Scaramuzzo, Marietta Vivacqua Capo Macchinisti Saverio Mianiti Macchinisti Antonio Asti, Andrea Bertola, Marco Lubrano Raffaele Paciola , Cristina Taddei Attrezzista Gennaro Dolce 10 Elettricisti Francesco Magliocco, Gianfranco Mastroianni, Pantaleo Riggio, Elio Traversa Fonico Angelo Gallo Tecnici Assistenti Gaetano Abbate, Vittorio Granata, Silvio Libero, Massimo Nardi, Francesco Pasqua, Gianluca Reda, Roberto Zardetto TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ufficio comunicazione Achille Greco Segreteria Generale Francesca De Aloe Ufficio Tecnico Franco Mancuso Economo Maria Bruno Uffici amministrativi Giacinto Iuele Servizio Biglietteria Gianfranco Lo Gullo, Giuseppina Mazzei Responsabile di sala Francesco Falcone Servizio Portineria Mario Blasi, Filippo Caruso, Giuseppe Crescibene, Francesco Infelise Fornitori ufficiali Scene Teatro Opera Giocosa, Savona Laboratorio Teatrale Politeama, CZ Allestimento Bottega Fantastica, CT Staff tecnico-organizzativo Assistente alla Direzione artistica Antonella Stramazzo Costumi Sartoria Pipi, Palermo Sartoria Teatro Politeama, CZ Arrigo, Milano Calzature Pompei, Roma - Epoca, Milano Attrezzeria Rancati, Milano - Teatro Politeama, Catanzaro Parrucche Paglialunga TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 11 Edizioni G. Ricordi & C., Milano Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Canobbiana, 12 maggio 1832 Personaggi e interpreti Adina Belcore Nemorino Dulcamara Giannetta Valeria Esposito Piero Terranova Bruno Ribeiro Enzo Capuano Gabriella Corsaro Direttore d’Orchestra Regia Maestro del Coro Scene e costumi Giuseppe Grazioli Davide Livermore Gian Rosario Presutti Santi Centineo L’elisir d’amore Melodramma giocoso in due atti Libretto Felice Romani (da Le Philtre di E. Scribe) Musica Gaetano Donizetti Orchestra Philharmonia Mediterranea Calabrese Coro “F. Cilea” Light designer Figuranti Giuseppe Ruggiero Ilaria Bellini Giacomo Bonofiglio Teresa Bruno Luigi Chiarella Yleana Illuminato Donato Martano Carla Monteforte Francesco Votano Coproduzione dei Teatri “A. Rendano” di Cosenza “Politeama” di Catanzaro e “F. Cilea” di Reggio Calabria Mercoledì 5 ottobre 2005 ore 16.00 - Anteprima Scuole Venerdì 7 ottobre 2005 ore 20.30 - Turno “A” Domenica 9 ottobre 2005 ore 17.00 - Turno “B” TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 13 14 Ritratto di G. Donizetti TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA di Ellen Taller L’elisir d’amore Se ne fa un gran consumo in questa età Un aspetto tonico, giovanile, radioso: questo promettono le settimane di benessere, i centri fìtness, la chirurgia estetica, in grado di far scomparire la pancia o di distendere i tratti del volto. Linee di prodotti cosmetici per la cura della pelle destinati alle donne - si sa - sono esistiti da sempre; che tali prodotti possano interessare anche gli uomini, da tempo non costituisce più un fatto sorprendente. Ma davvero ricorriamo a tutto ciò soltanto per sentirci meglio, o non piuttosto per piacere all’altra metà del cielo e soprattutto per conquistare la persona amata e desiderata? La pubblicità promette miracoli: un rimmel crea, per effetto di un incantesimo, “ciglia magiche”; grazie a una crema i vostri occhi possono ora guardare a “un brillante futuro”; un altro prodotto è in grado di restituire alla pelle “vitalità e nuova energia”, un altro ancora si propone senza mezzi termini come un “elisir di lunga vita”. Ma a questo proposito ancora più straordinarie sembrano le proprietà del ritrovato di un certo dottor Dulcamara: “Ei corregge ogni difetto / Ogni vizio di natura/Ei fornisce di belletto / La più brutta creatura...” Questo e altro promette il filtro magico decantato dal “Dottore enciclopedico” che costituisce il tema centrale dell’opera buffa di Gaetano Donizetti, L’Elisir d’amore. Questo capolavoro deve la sua genesi a una situazione di emergenza. Alessandro Lanari, impresario del Teatro della Canobbiana di Milano, aveva urgente bisogno di un’opera per le rappresentazioni già in programma, in quanto il compositore cui aveva previsto originariamente di rivolgersi, evidentemente, non aveva ottemperato agli obblighi contrattuali. Dati i tempi ristretti, Lanari propose a Donizetti di ricorrere a un’opera già esistente e di rimaneggiarla. Donizetti respinse la proposta con sdegno: “Che mi burli? Io non ho l’abitudine di rattopare ne del mio, ne di quello d’altri mai. Sta piuttosto a vedere, che mi basta l’animo di farti un’opera nuova di zecca in quattordici dì! Te ne do parola. Ora mandami qua Felice Romani1”. Il Donizetti aveva già collaborato più volte con Felice Romani, il librettista italiano più ricercato dell’epoca. Il brillante poeta era solito lasciare i compositori in attesa dei suoi versi per tempi lunghissimi, ma questa volta, data la scadenza impellente, Donizetti ebbe il testo molto rapidamente. Romani mise mano al libretto già esistente di Eugène Scribe, intitolato Le Philtre, che Daniel-François-Esprit Auber (1782-1871) aveva impiegato per la sua opera omonima. Quest’ultima era andata in scena per la prima volta all’Opera di Parigi il 20 giugno 1831 - appena un anno prima dell’Elisir di Donizetti - ed era stata molto apprezzata.2 Si cercò anche di cumulare i successi: a San Pietroburgo, nel 1836, l’opera di Aubert venne fusa insieme con quella di Donizetti in un Pasticcio e cantata in tedesco. Romani per lo più si attenne molto strettamente ai versi di Scribe, spesso limitandosi a tradurli soltanto, come nel caso seguente. “Je suis riche, vous êtes belle, j’ai des écus, vous des appas” divenne nel libretto italiano: “Io son ricco e tu sei bella, / io ducati, e vezzi hai tu”. Nel caratterizzare i personaggi e nel riprodurre con peculiare sensibilità i loro sentimenti, in particolare quelli di Nemorino e Adina, invece, Romani e Donizetti apportarono delle aggiunte significative. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 15 16 Una creatività e una produttività sorprendenti L’Elisir è una di quelle composizioni che fin dal principio venne citata quale esempio della straordinaria capacità di Donizetti di creare un’opera nel più breve tempo possibile, un’opera per giunta molto riuscita. Proprio riguardo L’Elisir esiste un aneddoto significativo riportato da Emilia Branca, futura moglie di Felice Romani: Donizetti, insieme ad altri amici di Bergamo, era stato invitato a pranzo a casa dei Branca. Il compositore però si fece attendere a lungo, e quando finalmente arrivò si precipitò in casa tutto eccitato, raccontando di ottimo umore: “Scusate, scusate, tutti miei cari! Ero arrivato qui fin da mezz’ora fa, ma passando dalla casa di Romani, vi entrai per vedere se mi dava qualche cosa; infatti il brav’amico mi porse un intiero duetto. Mentre io ne leggeva la poesia bellissima, come ei solo ne sa fare, mi sentivo si inspirato, che senza accorgermi la leggeva già in musica ... Volli subito tracciarne l’abbozzo, come ben capite... Stasera prima di coricarmi la istrumenterò, domattina la darò al copista per cavarne le parti, il quale le consegnerà poi ai cantanti, ecc., ecc. Tutto cammina a vapore! ... Ecco qua la mia discolpa - soggiunse - leggete e giudicate voi stessi se non ho diritto alla vostra indulgenza”. E lì cava di tasca il foglio originale della poesia di Romani e lo presenta al signor Branca, che ad alta voce lesse: Chiedi all’aura lusinghiera/Perché voli senza posa ...”3. Se il testo lo ispirava, allora la musica scaturiva spontaneamente dalla penna di Donizetti: “Quando il soggetto piace, il core parla, la testa vola, la mano scrive...”4. All’apice della carriera, quando ormai poteva volgere lo sguardo indietro a numerose composizioni, il musicista dichiarò che le sue opere più riuscite avevano visto la luce proprio grazie a questo suo modo di lavorare spontaneo: “Sai la mia divisa? Presto! Può essere biasimevole, ma ciò che feci di buono, è sempre stato fatto presto; e molte volte il rimprovero di trascuraggine cadde su ciò che più tempo aveami costato”5. Prudentemente, tuttavia, evitava di rivelare in giro i suoi tempi di lavoro sorprendenti: “Siete pregato di non raccontare i miei segreti, perché, già, il pubblico o non li crede, od immagina che sia musica buttata giù”6. I compositori della generazione di Donizetti erano obbligati a una produttività maggiore, in quanto all’epoca, in Italia, non esisteva il diritto d’autore. Pertanto il guadagno degli artisti era limitato alla prima e non interessava le repliche (salvo eventuali rimaneggiamenti o composizioni ex novo). Le rigide convenzioni che vigevano nel teatro, come la limitazione dei soggetti e la schematizzazione delle forme musicali, se da un lato limitavano la libertà degli artisti, dall’altro agevolavano molto questo intenso ritmo di lavoro. Il pubblico cercava la varietà, ma sempre nell’ambito di consuetudini di ascolto abituali. Inoltre, era assolutamente normale che singole parti di un’opera si rifacessero a composizioni già esistenti. Così Donizetti, per la marcia che accompagna l’ingresso in scena di Belcore (atto I), riutilizzò un tema tratto dall’Alahor in Granata; il coro che precede la prima entrata in scena di Dulcamara venne ripreso dall’ingresso di Elisabetta nell’Elisabetta al Castello di Kenilworth. La produttività di Donizetti irritava molti suoi colleghi. Bellini si abbandonò in più occasioni a frecciate mordaci. Hector Berlioz affermava semplicemente che Donizetti considerava Parigi terra di conquista e lì le sue opere facevano da padrone. Donizetti, dal canto suo, pretendeva non solo di avere successo in teatro, essendo le sue composizioni gradite al pubblico, ma ambiva TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA L’elisir d’amore anche a occupare un posto d’onore tra i suoi colleghi. Già precocemente, prima ancora del grande successo ottenuto con Anna Bolena nel 1830, nel suo epistolario si trova ripetutamente la parola “onore”. Così la frase rivolta successivamente a Simon Mayr va intesa senza dubbio come un complimento al venerato maestro ma, al tempo stesso, come una testimonianza dell’ambizione di Donizetti: “Io non vivo per l’interesse ma per l’onore, e l’accerto che se potessi fare una Medea [opera di Mayr] sarei contento a morir dopo”7. Questo risalto dato al concetto di onore si ritrova anche in una lettera di poco posteriore indirizzata al Duca Visconti: “... che per l’onore scrivo e non per l’interesse ...”8. Prima della svolta artistica segnata dall’Anna Bolena, le opere buffe risultano senza dubbio prevalenti nell’ambito della produzione di Donizetti. Il motivo di tale preminenza non risiede tanto in un peculiare interesse dell’artista per questo genere, quanto piuttosto nel fatto che un giovane compositore otteneva più facilmente “scritture” da quei piccoli teatri che coltivano il genere leggero. Tuttavia, il fatto che Donizetti si sia così intensamente dedicato all’opera buffa trova rispondenza anche nella natura dell’artista. Le sue lettere testimoniano in maniera eloquente come egli fosse un uomo straordinariamente spiritoso, spesso disponibile allo scherzo9. Non è forse per questo che pensò per l’Elisir una dedica piuttosto audace? Il 31 luglio del 1832 scriveva da Napoli al suo editore Giovanni Ricordi: “Giacché a me per tua gentilezza lasci la scelta della dedica dell’Elisir d’Amore, io te ne sono gratissimo, e questa sia Al bel sesso di Milano ... Chi più di quello sa distillarlo? Chi meglio di quello dispensarlo?”10 Donizetti rimase non poco deluso quando Ricordi non accettò la sua proposta: “La prego d’aver la compiacenza a far sapere al sig. Ricordi editore, che era inutile il domandarmi a chi volea dedicar L’Elisir se non ne faceva niente ...”11. Una dedica originale quella proposta dall’artista, che la intese come un scherzo serio, proprio come L’Elisir mescola insieme il serio e il faceto. Lo spirito scherzoso di Donizetti traspare non solo dalle lettere che per suo evidente diletto scriveva spesso in versi, ma anche dai suoi autografi musicali. In chiusura dell’Ugo Conte di Parigi, laddove Bianca giace spirante, si trova disegnato sulla notazione musicale della primadonna un piccolo teschio con le ossa incrociate, accompagnato dal commento breve e concreto di Donizetti: “convulsione e morte”. O, ancora, in un escerto autografo con note marginali dell’aria finale della Lucia di Lammermoor - “Fra poco a me ricovero” di Edgardo - alla fine della cabaletta, Donizetti si concesse con il suo personaggio un piccolo divertissement, integrando: “e cadi, e cadi solo: che se io cadrò, sarò di già caduto”. L’Elisir d’amore: verso un successo permanente L’Elisir d’amore andò in scena per la prima volta il 12 maggio del 1832 con la partecipazione di Sabine Heinefetter (Adina), Giambattista Genero (Nemorino), Henry-Bernard Dabadie (Belcore) e Giuseppe Frezzolini (dottore Dulcamara). Prima della rappresentazione Donizetti si era espresso in termini non molto positivi riguardo i solisti che avrebbero dovuto tenere a battesimo la sua opera: “... il solo tenore è discreto, la donna ha bella voce ma ciò che dice lo sa lei. Il buffo è canino”.12 La critica, invece, fu sostanzialmente concorde nel giudicare positivamente la prova degli interpreti. Ma fu soprattutto l’opera di Donizetti che venne ritenuta subito una creazione straordinariamente riuscita:13 “Arie, duetti, terzetti, pezzi d’insieme, tanto nel primo che nel second’atto, tutto è bello, bellissimo ed applaudito. Il dire qual pezzo sia migliore dell’altro, non è agevole faccenda ... il compositore venne applaudito a ogni pezzo; e, al calar della TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 17 tenda al fine degli atti, acclamato più e più volte sul proscenio in un coi cantanti, a riscuotere onorevole e meritato guiderdone. - Lo stile musicale di questo spartito è vivo, brillante, del vero genere buffo. Il passaggio dal buffo al serio, si scorge eseguito con una gradilazione sorprendente e l’affettuoso è trattato con quella musicale passione, ond’è famoso l’autore dell’Anna Bolena. Una strumentazione sempre ragionata e brillante, adatta sempre alle situazioni, una strumentazione che si scorge lavoro di gran maestro, accompagna un canto or vivo, or brillante, ora passionato. Profondere maggiori elogi al maestro, sarebbe un guastar l’opera; il suo lavoro non ha duopo d’iperbolici encomi”. Di fronte a tanta lode il compositore reagì con la sua abituale modestia; scrisse infatti a Simon Mayr: “La Gazzetta giudica dell’Elisir d’Amore e dice troppo bene, troppo, credete a me... troppo!” 14. Soltanto nella prima stagione L’Elisir venne replicato al Teatro della Canobbiana più di trenta volte. Questa è una di quelle opere di Donizetti che figurano sempre in cartellone. Ben cento anni dopo la sua composizione, L’Elisir conobbe anche delle versioni cinematografiche: la prima fu realizzata nel 1941, la seconda nel 1947. A Roma, tuttavia, l’opera ebbe bisogno di un periodo di rodaggio relativamente lungo. Rappresentato per la prima volta il 5 aprile 1835 al Teatro Valle, fu solo a partire dalla stagione di carnevale del1838/1839 che L’Elisir conseguì una vasta popolarità. Attualmente, 170 anni sono trascorsi dalla prima dell’Elisir: come è possibile che la storia di un giovane contadino, povero e ingenuo, che cerca disperatamente di conquistare una fanciulla chiaramente superiore a lui abbia incontrato sempre il favore di un vasto pubblico e perché ancora oggi continua a essere così popolare? Senza dubbio una delle ragioni risiede nell’uso magistrale che Donizetti fa del mezzo musicale. Il compositore, per esempio, lavorò con la strumentazione in maniera differenziata: i clarinetti che nel duetto tra Adina e Nemorino evocano l’immagine di un paesaggio naturale caratterizzato dal soffiare del vento e dallo scorrere del fiume; il corno che come un’eco capta la supplica implorante di Nemorino, “Adina, credimi”, e il fagotto che introduce la celebre romanza. Attraverso questi timbri Donizetti crea atmosfere che, simili ai colori di un dipinto, rendono la partitura tanto ricca e multiforme. 18 Caratterizzazioni musicali Il modo in cui i personaggi sono tratteggiati non rispecchia, per molti versi, la tipizzazione che ci si attenderebbe in un’opera buffa. La comicità e l’ironia, traboccanti anche in Nemorino sotto l’effetto della pozione magica di Dulcamara, accentuano il contrasto con quei momenti in cui domina una malinconia romantica che è tanto insolita per un’opera buffa quanto è invece peculiare de L’Elisir. Felice Romani premise alla prima stampa del suo libretto una breve osservazione: “Il soggetto è imitato dal Filtro di Scribe. Gli è uno scherzo; e come tale è presentato ai cortesi Lettori”. Se al lettore il testo può ben apparire come un semplice scherzo, diversamente all’ascoltatore sembrerà che L’Elisir vada ben al di là di una storia dominata dalla comicità. Donizetti, mettendo in musica il libretto, crea dei ritratti finemente cesellati, in primo luogo per quanto riguarda Adina e Nemorino. Ancora profondamente radicato nella tradizione dell’opera buffa è il personaggio di Dulcamara. Questi è un modesto ciarlatano che sfrutta a proprio vantaggio i guai del TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA L’elisir d’amore prossimo e ne approfitta dove può, per esempio del buon cibo di un banchetto di nozze. Dulcamara però è anche un conoscitore di uomini e si accorge subito di non essere all’altezza di Adina. Da scaltro commerciante tenta sì di rifilare anche alla ragazza la sua pozione magica, ma desiste subito non appena si rende conto che Adina stessa sa molto bene quali siano le sue armi e di cosa ella sia capace. Al momento del “lieto fine”, si assiste ancora una volta a un’entrata in scena in grande stile di Dulcamara. Qui Donizetti riprese la melodia della Barcarola, in cui Adina e Dulcamara, al principio del II atto, cantavano la storia della Gondoliera che respinge il ricco senatore e preferisce restare con il suo povero innamorato. Nella chiusa si trovano pertanto uniti insieme entrambi gli elementi propulsivi di questo “melodramma giocoso”: la forza dell’amore e lo “show” di Dulcamara che sa di poter contare sull’ingenuità del prossimo. L’amore trionfa, ma Dulcamara potrà ancora a lungo approfittare della vanità e della stupidità del mondo. Il personaggio di Belcore si colloca nella tradizione del “Miles gloriosus”, del soldato millantatore che già il poeta romano Plauto aveva fatto protagonista principale di una sua commedia. Questi si ritiene irresistibile, per lui una donna vale l’altra, se non può avere questa allora prende quella. Anche in amore egli si esprime con il linguaggio del militare: “Or se m’ami, come io t’amo / Che più tardi a render l’armi?/Idol mio, capitoliamo:/In qual dì vuoi tu sposarmi?” Una simile proposta di matrimonio manca ben di poesia! Fin dalla prima apparizione di Belcore sulla scena, l’elemento militare balza in primo piano: uno squillo di tromba lo annuncia e il suo ingresso è accompagnato da un ritmo di marcia puntato. Qui, come anche prima dell’atto finale, Belcore irrompe sulla scena in modo repentino. Se Donizetti modella la linea vocale in maniera differenziata, facendo in modo che singoli ritardi e duttili costruzioni di terzine evochino lo struggimento dell’innamorato, la presenza di brani puntati resta comunque dominante. Alla fine la melodia sfocia in colorature che evocano l’immagine di un pavone che tutto orgoglioso apre la sua ruota. In modo straordinariamente sottile la melodia dell’aria che accompagna l’ingresso sulla scena di Belcore evoca la figura del militare che non può dissimulare la propria origine, ma che tenta di ostentare un’eleganza adeguata alla situazione. Mentre Dulcamara e Belcore rispondono a un tipo fisso dell’opera buffa, Adina e soprattutto Nemorino vanno al di là di una tipizzazione codificata. Questi personaggi diventano persone che suscitano nello spettatore non solo il riso, ma anche un sentimento di empatia: essi agiscono in maniera autentica e reale ed esprimono una toccante umanità. “Sono capricciosa”: l’osservazione buttata là con civetteria sintetizza al meglio il carattere volubile di Adina. Questa è capricciosa, bella, cinica, narcisista, benestante, sicura di sé, dinamica, indipendente, intelligente, con un’istruzione superiore alla media: insomma una gemma ricca di sfaccettature. In generale Adina si comporta in maniera emancipata e moderna, soprattutto per la sicurezza di sé e la consapevolezza di non aver bisogno di nessun uomo. Fin dal suo primo ingresso sulla scena, prima ancora che ella abbia preso la parola, si capisce chiaramente come Adina si distingua dai suoi compaesani e come ella stessa ci tenga a mantenere le distanze. La ragazza è immersa nella lettura di un libro e senza dubbio la lettura le risulta più gradita delle chiacchiere con gli altri. Quel che più colpisce in fondo è che Adina sia in grado di leggere un libro. Le avance di Nemorino le danno ai nervi. Persino quando ella dice al suo spasimante che è libero di amare un’altra, traspare tutta la sua TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 19 20 vanità, in quanto è certa, ovviamente, che Nemorino non desidera altre che lei. Non a caso si irrita subito quando Nemorino cambia atteggiamento. Il suo esasperato narcisismo la spinge a promettere a Belcore che lo sposerà, proprio per vendicarsi del comportamento distaccato di Nemorino: “Vo’ vendicarmi, vo’ tormentarlo / Vo’ che pentito mi cada al piè”. La figura di Nemorino contribuisce più di ogni altra a far sì che la capacità espressiva de L’Elisir superi la dimensione caratteristica dell’opera buffa e che i limiti propri di questo genere vengano dissolti. Mentre durante la sua cavatina a dominare è il lato ingenuo di questo personaggio, nel successivo assolo fa la sua comparsa un tono malinconico, disperato, persino tragico. La simpatia dello spettatore che, in effetti potrebbe essere portato a sorridere di questo giovanotto assai ingenuo, scaturisce dalla consapevolezza dell’amore puro ed esclusivo di Nemorino per Adina. Nulla egli ha da offrirle se non il suo cuore, e vive soltanto per conquistare il suo amore. Non riesce a stare alla larga da lei, ne lo interessano le altre donne, anche quando queste d’improvviso se lo contendono. Non gli interessa neppure il fatto che potrebbe diventare l’erede di un suo ricco zio. La malinconia e anche lo stretto rapporto tra morte e coronamento del sogno d’amore che costituiscono i temi centrali dell’opera seria romantica e sorprendono invece in un’opera buffa, appaiono concentrati, come i raggi del sole su uno specchio ustorio, nel brano più celebre de L’Elisir la romanza di Nemorino “Una furtiva lagrima”. In nessun altro momento come in questo la sensibilità di Nemorino e la sua natura incondizionata vengono delineate con più chiarezza. Qui Donizetti riesce a coniugare in maniera ideale parole e musica. Questo brano non era stato previsto da Romani che, stando al racconto di Emilia Branca, compose i versi solo perché Donizetti glielo aveva chiesto e lo fece peraltro controvoglia.15 “...tutto procedette rapidamente e pienamente d’accordo fra Poeta e Maestro, fino alla scena ottava dell’atto secondo; ma qui il Donizetti volle introdurre una romanza per tenore, a fine di usufruire una musica da camera, che conservava nel portafogli, della quale era innamorato... Romani in sulle prime ricusò dicendo: “Credilo, una romanza in quel posto raffredda la situazione! Che c’entra quel semplicione villano, che viene lì a fare una piagnucolata patetica, quando tutto deve essere festività e gaiezza?” Ma tuttavia Donizetti insisté tanto finché ebbe la poesia: Una furtiva lagrima ...” Romani temeva in sostanza che un inserto lirico collocato in questo punto dell’azione avrebbe provocato un’interruzione eccessivamente brusca della concatenazione drammatica. In realtà, invece, Donizetti era in genere molto attento proprio alla consequenzialità dell’azione drammatica. Come si rileva dall’esame delle sue partiture autografe, il compositore operava spesso dei tagli per evitare cadute di tensione o per rendere la trama più compatta. Per questo tanto più significativa risulta la sua ostinazione nel voler comporre un assolo per il tenore. L’artista, infatti, non solo accettò di interrompere la coerenza, altrimenti così stringente, della trama de L’Elisir, ma lo fece scientemente, per fornire al protagonista una base per formulare la sua dichiarazione principale. Nel comporre il testo della romanza, Romani si servì degli elementi di cui già si è parlato in precedenza. Già nel primo duetto con Adina, Nemorino era pronto a morire per il suo amore. Mentre qui egli è stanco degli affanni della vita, nella romanza il contadino vuol morire quando si accorge di essere giunto alla realizzazione del suo sogno: “adesso si può morir”. Nella romanza si assiste alla concentrazione e al superamento di quanto è accaduto in TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA L’elisir d’amore precedenza. Essa spicca sì come un brano senza eguali, ma rimane intimamente legata, sia dal punto di vista testuale sia da quello musicale, al resto dell’opera. Una drammaturgia dalla coerenza stringente Come i personaggi non corrispondono in tutto e per tutto ai tipi caratteristici dell’opera buffa, così anche nella trama de L’Elisir mancano alcuni elementi che comunemente appartengono a questo genere. Non si ritrovano grandi intrighi e burle, non vi è nessun personaggio appositamente creato per fare da zimbello, la coppia di innamorati non deve affrontare ostacoli posti dall’esterno sul proprio cammino; manca, inoltre, l’elemento spesso così importante del travestimento. L’Elisir è un capolavoro per la sua drammaturgia stringente, le scene sono legate tra loro da una coerenza logica, l’una segue l’altra senza soluzione di continuità. Quando, per esempio, verso la fine del II atto, lo zio di Nemorino muore, non si tratta di un evento inatteso e la sua funzione è quella di legittimare l’interesse di tutte le donne per il giovane e ingenuo contadino. Il fatto che lo zio fosse gravemente malato era stato ampiamente ricordato da Adina nel suo primo dialogo con Nemorino. La trama fitta e consequenziale che caratterizza il libretto ha contribuito molto a far sì che ancora oggi L’Elisir figuri tra le opere sistematicamente in programma della stagione lirica. In questo caso Scribe fornì molto più di una valida base. Tuttavia, ciò che rese L’Elisir una partitura così toccante e tale da suscitare nell’ascoltatore il più profondo coinvolgimento, fu unicamente il frutto della collaborazione tra Romani e Donizetti. Per la disperata supplica di Nemorino, “Adina credimi” e per la sua romanza “Una furtiva lagrima”, come anche per il tenero “Prendi; per me sei libero” di Adina non vi erano modelli ne Le Philtre. L’Introduzione non risponde all’esigenza puramente formale di creare un collegamento tra il coro di apertura e le cavatine. Gli assolo hanno sempre una motivazione drammatica e risultano perfettamente inseriti nella trama; Donizetti riesce, inoltre, a coniugare brillantemente la caratterizzazione dei suoi personaggi con una rappresentazione serrata degli eventi. In apertura viene delineato lo scenario paesaggistico con le contadine e i contadini che si riposano dopo il lavoro (Coro d’ Introduzione). In questo scenario irrompe Nemorino (cavatina di Nemorino). Questi osserva Adina che legge, meravigliandosi della bellezza e delle doti della fanciulla e limitandosi con modestia a questa dichiarazione adorante: “io non so che sospirar”. In tale contesto la linea canora risulta tanto modellata in modo duttile attraverso brevi intervalli, quanto anche ritmicamente differenziata. Donizetti dà a intendere all’ascoltatore che l’oggetto della rappresentazione è qualcosa di più di un contadino ingenuo, degno soltanto di essere deriso. Se solo qualcuno potesse insegnargli come si fa a diventare desiderabili! Ecco subito si annuncia un rimedio. Adina erompe in una sonora risata, subito tutti sono curiosi di sapere cosa c’è dunque di tanto divertente. Prontamente la ragazza presenta il libro che sta leggendo (cavatina di Adina): è la storia di Tristano e Isotta. Grazie a questa citazione - in questo caso ovviamente nella versione a lieto fine - è introdotto per la prima volta nel racconto ciò che ne costituisce l’oggetto principale: il filtro d’amore. Nel contempo la protagonista viene rappresentata intenta a un’attività, come la lettura, piuttosto insolita in un contesto contadino. Qui il racconto anticipa lo svolgimento degli eventi, in quanto ne L’Elisir - come in Tristano e Isotta - la bella alla fine cederà al suo spasimante e all’amore. L’orchestra accompagna Adina con una melodia a mo’ di valzer che ha la funzione di TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 21 22 evocare l’atmosfera di un salone elegante. Questo contesto mette in risalto, per contrasto, la semplicità melodica del canto. La seconda parte dell’aria, quando il racconto ritorna al presente, grazie al massiccio ricorso al puntato, risulta molto legata al contesto contadino. Qui ci si trova di nuovo in mezzo alla gente del paese e a tutti piacerebbe un filtro simile capace di risvegliare l’amore a piacimento! Belcore irrompe in questa vivace assemblea, squilli di tromba e ritmo di marcia accompagnano degnamente il suo ingresso sulla scena. La Stretta dell’Introduzione unisce insieme coro e solisti, fungendo da salace commento agli assalti di Belcore, alla civetteria di Adina e alla disperazione di Nemorino. Anche la resa musicale dei diversi incontri di Adina e Nemorino costituisce una sorta di esplorazione su più piani della situazione psicologica e del graduale processo di avvicinamento di questi due personaggi così diversi. Donizetti sa armonizzare creazione musicale e situazione drammatica. Nel primo duetto le diverse emozioni e i caratteri, già delineati nell’Introduzione, vengono rappresentati più dettagliatamente e il brano non presenta sviluppi drammatici. Adina difende la propria natura capricciosa, paragonandosi al vento che soffia, naturalmente portato a vagare senza posa. Nemorino s’ispira invece all’immagine del fiume il cui naturale destino è quello di sfociare nel mare. Le parole da lui scelte per esprimersi aiutano a comprendere di quale dedizione incondizionata è capace: “e nel mar sen va a morir”. Nemorino è consapevole della sua situazione senza speranza, e per questo, dopo la successiva comparsa sulla scena di Dulcamara, chiede a quest’ultimo l’elisir d amore. In modo alquanto diverso - di fatto molto dinamico - si svolge il secondo incontro tra Adina e Nemorino. Qui, dal punto di vista drammatico, non si registra nulla se non il fatto che entrambi si ostinano nel loro atteggiamento: Nemorino attende contento, convinto che raggiungerà presto il suo obiettivo senza difficoltà; Adina è irritata nel vedere come il suo spasimante sia divenuto improvvisamente sicuro di sé e si ponga di fronte a lei su un piano di parità. La melodia del Larghetto cantabile, che si dilata per mezzo di ampi intervalli, esprime quanto entrambe le parti desiderino conquistare terreno. A livello musicale, il confronto tra i due trova la sua espressione più chiara nella cabaletta, dove le voci cantano alternate fin dal principio. La cabaletta risulta pertanto impostata come una sorta di schermaglia. Inoltre - come raramente accade- in questo duetto Donizetti mette in musica per il Larghetto cantabile e la cabaletta lo stesso testo; in altri termini le stesse parole vengono musicate in maniera molto variata: prima lenta ed esitante, poi dinamica. Solo con l’aria cantata da Adina nel II atto si avverte che qualcosa si è messo in moto per la nostra coppia. La ragazza fa ancora la smorfiosa per non dichiarare apertamente al giovane il suo amore e cela la sua confessione - in modo troppo criptico per l’ingenuo Nemorino - tra le parole: “Qui, dove tutti t’amano ...” Sembra come se ella volesse nascondere il proprio imbarazzo tra le colorature brillanti del Cantabile che quasi sovraccaricano la linea vocale: Adina, l’orgogliosa, che ora desidera dichiarare i propri sentimenti a un altro uomo. La parte centrale di quest’aria, per la sua impostazione drammatico-dinamica, è paragonabile al Tempo di mezzo di un duetto. A questo punto avviene un cambiamento importante e i due giovani sono intensamente coinvolti nella schermaglia, mentre in precedenza nei duetti della coppia non si era registrata alcuna svolta significativa. Nella cabaletta, la tensione accumulata si libera in colorature che scaturiscono esuberanti: la confessione è stata pronunciata. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA L’elisir d’amore Mentre Adina e Nemorino finiscono per stare insieme, opposto è stato il destino della partitura autografa de L’Elisir, essendo i due atti dell’opera conservati in luoghi diversi: il primo presso la Biblioteca del Conservatorio di San Pietro alla Maiella a Napoli, il secondo presso il Museo Donizettiano di Bergamo. Forse un giorno o l’altro ai due atti dell’autografo de L’Elisir toccherà la fortuna di ricongiungersi e di essere conservati sotto lo stesso tetto. La magia dei filtri d’amore Nemorino riesce a realizzare il suo sogno, grazie all’elisir il suo desiderio si compie: come spesso accade, qui tra causa ed effetto vi è una stretta interdipendenza. A quanti uomini - o donne - sarebbe piaciuta una pozione come quella che Nemorino desiderava? Ciò che nell’opera buffa può sembrare a prima vista comico, esagerato, fuori dalla realtà, fin dall’antichità fu molto diffuso e richiesto. Un filtro d’amore consentiva di conquistare l’amore di qualcuno, ma poteva essere anche un afrodisiaco. Il modo in cui simili preparati venivano confezionati ha spesso tutta l’aria di essere piuttosto avventuroso: nelle ricette si legge di ingredienti come pipistrelli, zampe di lupo, lucertole e penne di cornacchia. A tutti i livelli sociali si cercava di favorire l’amore e spesso con conseguenze fatali. Si dice che il re Luigi X morì a causa di un filtro d’amore - a base di rospi e polvere di serpenti - somministratogli da Matilde d’Artois. Presto, dunque, si sollevarono delle critiche contro questi preparati che furono sistematicamente messi al bando dalla Chiesa e dalle autorità. I libri penitenziali consideravano la preparazione di filtri d’amore come un peccato mortale. Quanto a noi, viviamo in un’epoca dominata dalla scienza; l’amore ha trovato da tempo posto nell’insegnamento universitario e la cosmesi lo ha seguito. Troppo grasso, troppo magro, troppo basso, troppo alto, troppo chiaro, troppo scuro, mai però troppo giovane. I centri fitness sono spuntati come funghi dal terreno, i prodotti di bellezza promettono ogni stagione un’efficacia maggiore, la chirurgia estetica è diventata un fatto di routine, così, assistendo impotenti a infinite variazioni su un tema eternamente attuale, non possiamo che dire con Dulcamara: “Se ne fa gran consumo in questa età”. Per gentile concessione dell’editore 1. F. Alborghetti e M. Galli: Gaetano Donizetti e G. Simone Mayr, Notizie e Documenti, Bergamo, 1875, pp. 77-78. 2. Anselm Gerhard confuta la tesi ampiamente diffusa secondo cui il libretto di Scribe si ispirava a un racconto di Silvio Malapena di cui Stendahl aveva pubblicato un adattamento in francese nel 1830. Anselm Gerhard, Ein mißverstandener Schabernack: Gaetano Donzettis eigenwilliger Umgang mit Felice Romanis L’Elisir d’amore, in “Una piacente estate di San Martino, Studi e ricerche per Marcello Conati”, a cura di Marco Capra, Quaderni di Musica/Realtà, Supplemento 1, Lucca 2000, pp. 117-126. Ibidem, pp. 119-121. 3. Emilia Branca, Felice Romani ed i più riputati maestri di musica del suo tempo. Cenni biografici ed aneddotici raccolti e pubblicati da sua moglie, Loescher, Torino-Firenze-Roma, 1882, pp. 218-219. 4. Ad Antonio Dolci, Parigi 17.11.[1842], in Guido Zavadini, Donizetti: vita, musiche, epistolario, Bergamo, 1948, nr. 455, p. 659. 5. A Giacomo Sacchero, il librettista di Caterina Cornaro (rappresentata per la prima volta a Napoli il 18 gennaio 1844) in Studi Donizettiani, 1, Lettere inedite o sparse raccolte da Guglielmo Barblan e Frank Walter, Bergamo, 1962, n. 99, p. 94. 6. Al cognato Antonio Vasselli, Parigi, 4 gennaio 1843, in Zavadini, n. 464, p. 647. 7. Genova 15 maggio 1828, in Zavadini, n. 40, p. 260. 8. Napoli 4 ottobre 1834, in Zavadini, nr 153, p. 365. 9. Proprio sul periodo in cui venne composto L’Elisir si hanno purtroppo pochissime lettere di Donizetti. In generale tuttavia ci è pervenuto un numero straordinariamente elevato di sue lettere che ci restituiscono un quadro esauriente dell’attività creativa e della vita di un compositore dell’epoca (riguardo trattative contrattuali, usanze teatrali, viaggi, censura, “aggiustamenti”, la collaborazione di Donizetti al libretto ecc...). 10 In Zavadini, n. 77, p. 292. 11 Donizetti al Conte Gaetano Melzi, Napoli, ottobre 1832, n. 85, p. 299. 12. Donizetti al padre Andrea, Milano, 24 aprile 1832. In Zavadini, n. 72, p.289. 13. Gian Jacopo Pezzi, critico della “Gazzetta Privilegiata di Milano”, lunedì 14 maggio 1832. In Annalisa Bini e Jeremy Commons, Le prime rappresentazioni delle opere di Donizetti nella stampa coeva, Milano 1997, p. 305. 14. In Zavadini, n. 74, p. 290. 15. Branca, p.225. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 23 Libretto pubblicato nel 1931 per una trasmissione radiofonica dell’opera di Donizetti L’elisir d’amore Il soggetto Atto primo L’ingresso d’una fattoria. I mietitori di un villaggio dei paesi baschi trovano riparo dalla calura estiva all’ombra di un grande albero. Nemorino, giovane contadino innamorato di Adina, bella e ricca fittavola, la osserva da lontano, mentre lei se ne sta in disparte leggendo un libro, e si dispera perché non sa come conquistare il suo cuore. Adina invitata dai contadini legge ad alta voce la storia di Tristano e Isotta, innamoratisi grazie alla virtù di un filtro magico. Tutti vorrebbero conoscere gli ingredienti del magico elisir. Al rullo di un tamburo arriva una guarnigione di soldati, guidata dal sergente Belcore che offre un mazzo di fiori ad Adina, le fa la corte e le chiede, sul momento, di sposarlo. Adina, si lascia corteggiare con civetteria, ma non accoglie le sue richieste. Allontanatosi Belcore, Nemorino, che ha assistito alla scena, disperato dichiara alla bella il suo amore; Adina lo respinge come sempre, dichiarandosi troppo capricciosa per impegnarsi seriamente, e tenta di dissuadere il giovane dall’amarla. Piazza nel villaggio. Arriva, al suono di una tromba e su una carrozza dorata il dottor Dulcamara, un abile imbonitore ambulante che offre agli abitanti del villaggio, richiamati dall’annuncio, un farmaco miracoloso, un elisir rimedio per tutti i mali. I convenuti si precipitano ad acquistare il prezioso liquore. Quando la folla si è dispersa, Nemorino trova il coraggio di chiedere al dottore se sia in possesso dell’elisir che fece innamorare, un tempo, Isotta e Tristano. Al prezzo di uno zecchino Dulcamara gli consegna una bottiglia di Bordeaux, spacciandola per l’elisir d’amore, precisando che l’effetto dell’elisir non è immediato, necessitano ventiquattr’ore: il tempo, per l’impostore, di prendere il largo. L’ingenuo Nemorino beve, speranzoso, l’elisir persuaso che presto Adina s’innamorerà di lui. La ragazza si avvicina, vede Nemorino in preda a una leggera ebbrezza e si stupisce per l’insolita indifferenza manifestata nei suoi riguardi: la vanità ferita la istiga a propositi di vendetta. Torna Belcore, per rinnovare alla bella Adina la sua proposta di matrimonio. Adina, indispettita dall’atteggiamento di Nemorino, trova il modo di vendicarsi: sposerà il sergente tra sei giorni. Nemorino non se ne preoccupa: alle ventiquattr’ore l’elisir produrrà il suo effetto. Quando giunge per Belcore l’ordine di lasciare il villaggio coi suoi soldati Adina decide di anticipare il matrimonio e di sposare lo stesso giorno il sergente. Nemorino tenta di convincerla ad attendere almeno l’indomani; il sergente, irritato per l’insistenza del contadino, minaccia il giovane, ma Adina pone prontamente fine alla pericolosa situazione invitando tutti a casa sua, per festeggiare con un banchetto le nozze imminenti. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 25 L’elisir d’amore Atto secondo Interno della fattoria d’Adina Fra gli invitati che festeggiano, Dulcamara intona con Adina una “barcarola” sul tema della bella Nina, gondoliera che rifiuta la corte di un ricco senatore perché innamorata del giovane Zanetto. Quando giunge il notaio per stendere il contratto di matrimonio, Adina, irritata per l’assenza di Nemorino che vorrebbe presente alla cerimonia per godere della vendetta, decide di rinviare le nozze alla sera. Nemorino, disperato per le nozze anticipate, raggiunge Dulcamara per chiedergli come accelerare l’effetto dell’elisir. Il dottore risponde che è necessario aumentarne la dose; ma se il giovane ne vorrà un’altra bottiglia, dovrà pagarla. Nemorino, rimasto senza denaro, accetta la proposta di Belcore e si arruola come soldato; con i venti scudi dell’ingaggio corre a comprare una nuova dose dell’elisir. Rustico cortile aperto nel fondo Giannetta informa le donne del villaggio che è appena morto un ricco zio di Nemorino, lasciandolo suo unico erede. Giunge Nemorino, ancora ignaro di tutto e che ha appena scolato la seconda bottiglia dell’elisir di Dulcamara. Quando le ragazze del villaggio lo circondano e gli fanno la corte il giovane lo crede effetto dell’elisir. Adina vorrebbe parlare a Nemorino e dissuaderlo dall’arruolamento, ma le altre giovani lo trascinano a ballare nel cortile. La ragazza apprende da Dulcamara le ragioni del comportamento di Nemorino e il motivo per cui ha deciso di partire soldato; Adina prova rimorso e, mentre avverte di aver perduto Nemorino con suo comportamento, sente di amarlo. Dulcamara le propone il suo elisir, ma Adina rifiuta, preferendo far affidamento sulle sue capacità per riconquistare Nemorino. Il giovane ritorna dal ballo, ma è triste ripensando alla lacrima che ha visto spuntare negli occhi di Adina quando lui accoglieva le attenzioni delle altre ragazze. Adina gli annuncia di aver riscattato la sua libertà, restituendo i venti scudi a Belcore, lo ha fatto per amore e lo confessa. I due si ritrovano nel comune amore, mentre Belcore si fa da parte. Il villaggio tutto circonda e acclama Dulcamara rendendo omaggio alla virtù, rivelatasi impareggiabile, del suo elisir. 27 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Musica P. I. Tchaikovsky Coreografia Scene e costumi Luci Maitre de Ballet Thierry Malandain Jorge Gallardo Jean Claude Asquié Richard Coudray Danzatori Veronique Aniorte Camílle Aublé Giuseppe Chiavaro Annalisa Cioffi Frédérik Deberdt Gael Domenger Roberto Forleo Cédrìc Godefroid Mikel Irurzun del Castillo Silvia Magalhaes Amaud Mahouy Christopher Marney Miguel Pla Boluda Magali Praud Rosa Royo Nathalie Verspecht Lo schiaccianoci CCN BALLET BIARRITZ Direzione Artistica Thierry Malandain Sabato 5 novembre 2005 ore 20.30 - Turno “A” Domenica 6 novembre 2005 ore 17.00 - Turno “B” 29 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Čajkovskij e la musica di danza «Non riesco a capire perché l’espressione “musica di balletto” susciti l’idea di qualcosa di riprovevole. Anche una bella musica di balletto è possibile, in fin dei conti». Questa affermazione di Pëtr Čajkovskij (1840-1893) tradisce la momentanea decadenza del teatro di danza (dalla fine degli anni Settanta all’arrivo delle ballerine italiane) alla cui ripresa avrebbe contribuito anche la riforma della musica di balletto, fino ad allora sinonimo di facile melodiosità e ripetitività nell’andamento ritmico; all’assenza di unità drammatica e stilistica supplivano le ballerine, vere protagoniste della scena al di là dell’accompagnamento di routine, perlopiù affidato a mestieranti del genere, che approfondivano lo iato tra i grandi compositori e il mondo della danza. Un’eccezione è rappresentata da Aleksandr Dargomvžskij che nel 1867 non ebbe successo con l’«opéraballet» Il trionfo di Bacco (da Puškin) e ancor più dalle musiche di danza di Glinka: la suite di danze polacche da Una vita per lo zar ( 1836) e le danze orientali in Ruslan e Ljudmila (1842) dal potenziale coreografico rimasto tale nell’allestimento di Titus. In Italia alla retorica dei «balli grandi» di Manzotti corrispondeva la povertà dei contenuti musicali; in Francia le composizioni di Delibes assumevano nuove responsabilità verso la coreografia: una smagliante tavolozza sonora caratterizzava le danze popolari in Coppelia ed una partitura dall’elegante orchestrazione delineava nettamente i personaggi promuovendo l’azione drammatica in Sylvia (1876). Quest’ultimo balletto incantò Čajkovskij che ne elogiò la ricchezza melodica, affermando con eccessiva modestia che il suo Lago de cigni (1877) non era degno «di lustrargli le scarpe”, e l’alterna fortuna di questo capolavoro rivela antipatie e contrasti di un pubblico immaturo e di una critica ostile in attesa della definitiva consacrazione avvenuta negli anni Novanta. La 30 foto Jose Usoz TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Lo schiaccianoci composizione del dissidio secolare tra musica e danza si realizza definitivamente nei tre balletti di Čajkovskij grazie ai quali la Russia, da fruitrice di un repertorio in gran parte d’importazione e da custode dei valori della danza classica, diviene autrice di una vera e propria rifondazione del teatro di danza europeo dando vita al «balletto sinfonico», termine coniato a posteriori per sottolineare l’importanza della musica come organizzazione e svolgimento nonostante la presenza di pezzi chiusi coreutici, eliminabili sostituibili o intercambiabili. Appassionato di danza sin dalla fanciullezza, Čajkovskij trova nel balletto un genere congeniale e riversa nelle forme a lui imposte da Petipa (il piano generale e le didascalie più particolareggiate, sino al computo esatto delle battute) il più spontaneo canto elegiaco, la più eloquente musica-gesto ed il senso intimo della danza. Nel 1890 con La bella addormentata si raggiunse una collaborazione esemplare tra il coreografo, il musicista e il direttore dei Teatri Imperiali, Vsevoložskij, creatore anche dei costumi, per i quali si ispirò alle illustrazioni di Gustavo Dorè, e fautore di un teatro che vedeva in Čajkovskij l’interprete commosso dell’elegia russa e nel francese Petipa un ligio e fertile maître de menus plaisirs, per raccontare ai nobili di Pietroburgo - la Versailles sulla Neva – le favole dorate degli ultimi anni del regno di Alessandro III. Alle féeries che assumevano in Europa apparenza avventurosa e pseudo-scientifica (o erano asservite all’idea di progresso come nel caso dell’Excelsior, il ballo «alla moda» stigmatizzato da Petipa e Čajkovskij) la Russia oppose nella sua versione del racconto di Perrault, con trucchi scenici e panorama, la vocazione poetica del ballet-féerie, ossia di un balletto che si tingeva di un’aura fiabesca e non era semplice pretesto per le più incredibili apparizioni «fatate». L’apparente fragilità della musica si adagia su un saldo arco drammatico e in forme regolate dalle convenzioni europee (minuetti e gavotte) placa le emozioni di un uomo profondamente turbato che in un Settecento di sogno, tra specchi e decorazioni rococò, trova il conforto interiore, nel recupero del candore infantile dei sentimenti e nel tentativo di liberare il corpo della sua gravità si abbandona al levare dei valzer. La veste esteriore della composizione, per certa critica sinonimo di effusione melodica e sentimentale, ha permesso di salvaguardare i valori chiaroscurali di una matura sofferenza, così come dietro la trama irreale traspare l’archetipo della bella dormiente (ad esempio Proserpina che riposa durante l’inverno ed è risvegliala dal bacio della primavera) in leggende e miti d’ogni tempo. Per questo motivo il balletto, che si affermò sin dal suo esordio (nel 1890-91 vi furono trentuno repliche su quarantacinque spettacoli di danza), ancora oggi si presta a diverse letture che sottolineano a seconda dei casi: Aurora, eterna adolescente tutta adorna di nastri e merletti, addormentata nell’attesa di qualcuno che trasformi la sua vita; il conflitto tra Bene e Male, tra Fata dei Lillà e Fata Carabosse; le peripezie del Principe che deve superare i rovi e le sterpaglie del bosco incantato che proteggono la metamorfosi della fanciulla in una vera donna. Libretto e coreografia prendono in prestito scene e movenze dalle feste galanti di Watteau e Lancret e cospirano nel delineare la principessa in boccio alla quale vengono offerte rose non ancora dischiuse dai quattro pretendenti (Adagio della rosa), e nel descrivere il suo regale incontro d’amore nella trasparenza del rituale del pas de deux. Se i primi due atti evocano attraverso la puntuale caratterizzazione TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 31 melodica, strumentale e coreogralica i personaggi principali o i momenti emergenti della narrazione (si pensi all’entrata delle sei Fate che raffigurano gli auspici al neonato secondo le tradizioni russe, suggerita dai diversi timbri e dall’uso espressivo, fonosimbolico degli strumenti), nell’atto III Čajkovskij ricorre alla formula più decorativa delle entrées barocche nel divertissement finale dedicato alle fiabe di Perrault, tra cui Cenerentola, Pollicino e Il gatto con gli stivali (questo brano fu reso mirabilmente dal danzatore di carattere Al’fred Bekefi). Interpreti della prima edizione furono: Enrico Cecchetti, il cui impegno di primo ballerino prevedeva anche ruoli grotteschi e di demi-caractère, che sostenne (e coreografò) la parte dell’Uccello Blu e quella en travesti di Carabosse; l’affascinante figlia di Marius Petipa, Marija (1857-1930), che risolse con mezzi mimici il personaggio della Fata dei Lillà (le attuali variazioni sulle punte si devono a Fedor Lopuchov) e Carlotta Brianza, una dolce e infantile Aurora. […] Non del tutto felice fu nel Natale 1892 il debutto dello Schiaccianoci, balletto fantastico in due atti ispirato a Nussknacker und Mäusekönig (Schiaccianoci e il re dei topi) di Hoffmann. Il racconto non era facilmente traducibile in termini coreografici e gli autori del libretto (Vsevoložskij in primis e Petipa) si rivolsero all’ossequiosa riduzione di Alexandre Dumas père: ma la storia di Maria e Fritz e della noce dura venne ulteriormente ridotta nel balletto. Anche Čajkovskij seppe delle opere di Hoffmann per via indiretta, sebbene aderisse inconsciamente alle idee e alle immagini fantasmatiche del letterato e musicista tedesco, il cui successo nei Paesi dell’Est costituisce un intero capitolo nella storia della cultura russa. Se a Petipa dobbiamo la scansione in danze e scene, fu Vsevolozskij dalla fervida immaginazione «di stampo impressionistico» a ideare una fiaba per i bambini della corte imperiale, resa da Čajkovskij un ingenuo e adamantino «poema dell’infanzia», patrimonio degli adulti nelle successive 32 foto Jose Usoz TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Lo schiaccianoci riletture. Con ambiguità di tratto fra realtà e fantasia la musica evoca, dapprima tra orologi, gufi e strumenti-giocattolo, l’interno di una casa biedermeier dove bambini si inseguono durante un galop, ospiti in costume da Merveilleuses e Incroyables si intrecciano al suono di un minuetto e gli ospiti si allontanano dalla festa sulle ultime note di un Grossvater; nell’atto II fa vivere in un clima di incantesimo i turbamenti di Maria nel primo sogno d’amore ed il suo viaggio verso il magico Castello dei dolci. Lo spettacolo piacque allo zar Alessandro III, ma lasciò insoddisfatti gli intenditori per l’esiguo spazio riservato ad Antonietta Dell’Era nella parte della Fata Confetto (Maria o Clara era interpretala da una bambina), mentre Čajkovskij incolpava la ballerina italiana, imbruttita e appesantita rispetto al suo debutto a Pietroburgo nel 1886, di aver «sciupato l’impressione del secondo atto». Dotata di grande salto e di sicuro aplomb, la Dell’Era era una technicienne alla pari della Limido e della Legnani, ma non seppe rendere l’iridescenza di una partitura dai suoni cristallini di arpa e celesta. Pareri discordi si manifestarono riguardo alla coreografia di Lev Ivanov (1834-1901) che risentì delle limitazioni a lui imposte dalla presenza dei piccoli allievi della scuola. Considerato l’autore della “scena della visione” ne La bella addormentata, in Schiaccianoci realizzò quel piccolo capolavoro di plasticità che è il Valzer dei fiocchi di neve, in origine eseguito da sessantaquattro ballerine in tutù bianco con in testa una raggiera di pompons. Ivanov, nella compagnia di Pietroburgo dal 1852 al ‘93, si era distinto dal ‘69 come primo interprete di ruoli mimici e di carattere, dividendo con il danseur noble Pavel Gerdt quelli classici; dal 1882 responsabile degli allestimenti con il compito di coreografare anche i balli nelle opere, Ivanov si rivelò inadatto a tale carica e nel 1885 fu nominato secondo coreografo debuttando con il balletto in un atto La foresta incantata (musica di Drigo, 1887). In questi anni Petipa si faceva sostituire durante le sue malattie, diplomatiche e non, dai maîtres en second, cui affidava il suo repertorio oppure i balletti che non voleva comporre; allo stesso tempo prendeva in prestito danze non sue o interi enchaînements dalle lezioni di Johansson, Cecchetti e Ivanov. Quest’ultimo (per eccessiva modestia e scarsa ambizione la sua fama di sommo coreografo-musicista fu solo postuma) studiò e visse vicino ai musicisti del tempo (fra l’altro, sposò la figlia di Anatolij Ljadov) e la sua leggendaria intelligenza musicale gli permise di comprendere la corporeità della partitura di Borodin nella sua versione delle Danze polovesiane (1890) nel Principe Igor, modello per quella successiva di Fokine. L’affermazione de La bella addormentata e de Lo schiaccianoci indusse l’amministrazione e Petipa a riconsiderare Il lago dei cigni, e l’improvvisa morte del compositore nel 1893 ne impose l’esecuzione come omaggio alla sua memoria: nel 1894 fu rappresentato il secondo atto nella coreografia di Ivanov mentre si progettava l’allestimento integrale del balletto, modificando l’impianto originario per introdurre un maggior numero di assoli. A Mosca nel 1877, nell’infelice versione di Reisinger dove il lago era realizzato da nastri di tulle tenuti in mano dalle ballerine le cui teste emergevano per figurare i cigni, la musica fu considerata troppo «wagneriana» e poco danzabile per la risonanza sinfonica che non permetteva alle danzatrici - Pelageja Karpakova (1845-1920), Odette-Odile, sostituita nelle repliche da Anna Sobeščanskaja - una facile individuazione delle scansioni ritmiche e delle connotazioni pantomimiche. Al contrario Čajkovskij TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 33 foto Jose Usoz 34 si confermerà (persino in campo operistico) attento all’identificazione del personaggio, alla sua presenza corporea ed emotiva, pervenendo a una postuma riconciliazione tra la musica sinfonica e il balletto; i Leitmotive di personaggi e situazioni (il cigno, le onde del lago) sono radicati nella sua sensibilità tant’è vero che il tema di Odette deriva forse da una breve composizione ideata per i suoi nipoti, e l’Andante tra Odette e Siegfried dalla sua opera giovanile Ondine. Il progetto della revisione della partitura risale al 1892 quando il compositore vi apportò alcune modifiche aggiungendo nuove variazioni per la protagonista; dopo il 1893 Riccardo Drigo rivide la musica e diede più spazio secondo le attese del pubblico al divertissement, abolì il finale tragico (al fratello di Čajkovskij, Modest, si richiese di sostituirlo con un’apoteosi in cui Odette e Siegfried si allontanavano su una navicella verso terre sconosciute) e utilizzò sia altri brani dell’autore che sue interpolazioni. Drigo, ex-direttore dell’opera italiana divenuto dal 1886 direttore dei balli al Teatro Mariinskij, garantì un alto livello musicale all’orchestra, non inferiore a quello raggiunto da Eduard Náprávnik nelle opere, e tradusse le idee di Čajkovskij, che lo considerava amico e patrono della sua opera, nel linguaggio di Petipa. Nella sua quarantennale attività in Russia, oltre alle musiche per i già citati balletti, compose alcuni lavori ad usum Delphini come il divertissement mitologico Il risveglio di Flora (1894) e il ballo fantastico La perla (1896) per l’incoronazione di Nicola II, ponendo le basi per la scuola interpretativa della musica di balletto, nella convinzione che la riuscita di un brano dipendesse dalla musicalità della coreografia e dell’interprete e poi dalla direzione orchestrale. Alla stesura del libretto del Lago dei cigni, parteciparono il ballerino Vasilij Gel’cer e il sovrintendente dei Teatri Imperiali di Mosca Vladimir Begičev col quale Čajkovskij aveva compiuto nel 1868 un viaggio sul Reno, momento ispiratore per la rielaborazione fiabesca del mito della donna-cigno in una silloge delle situazioni più tipiche: il cacciatore-principe che matura attraverso la sofferenza, il lago formato dalle lacrime versate non dalla madre di Cicno come racconta Ovidio (Metamorfosi, VII) ma dal nonno di Odette, e il cigno bianco che assomma i caratteri di melanconiche leggende germaniche e di luminose fiabe russe (La fiaba dello zar Saltan, del suo glorioso e potente figlio l’eroe Principe Gvidon Saltanovič e della bellissima Principessa cigno di Puškin). Odette e Odile, al di là della comune origine che rimanda ad un concetto di totalità, simboleggiano il negativo e il TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Lo schiaccianoci positivo, l’aspirazione alla luce e l’attrazione per l’Ombra, ricordando a Siegfried come i confini tra il Bene e il Male non siano nettamente definiti; nonostante il doppio nome germanico la protagonista conserva qualcosa di profondamente russo, consacrato nei due atti «bianchi» di Ivanov, mentre Petipa dette vita ai divertimenti di corte (atto I, III) e all’immagine trionfante di Odile dai rapidi tours fouettés, ai quali si contrapponevano i romantici developpées e promenades di Odette. Per Ivanov la danza era il contenuto emotivo della musica e la coreografia una partitura dei gesti dell’animo, «sovrano amalgama, eminentemente fin de siècle, di struggimento sentimentale e di aerea eleganza (Fedele d’Amico) ». A lui si deve la creazione dei cigni, le villi russe, i cui temi coreografici nascono dall’osservazione della natura: evoluzioni del corpo di ballo orchestrate in molteplici linee, arabesques e ports de bras richiamano rispettivamente le tipiche formazioni a cuneo di uno stormo, l’ultimo istante prima di spiccare il volo e l’incresparsi delle onde del lago. Allo stesso modo stilizza il fremito delle ali e lo sfregarsi col capo attraverso flessuosi movimenti delle braccia ronds en l’air (oggi a 135 gradi) e battements battus, non isolandosi in pura imitazione ma nel continuo fluire di forme inevitabili. La nuova versione fu rappresentata nel 1895 nella duttile interpretazione di Pierina Legnani (1863-1923) che nel ruolo di Odette-Odile consacrò la sua fama in Russia ottenendo il titolo di balerina, «prima ballerina assoluta», che si aggiungeva ad altri termini (fiasco, bravo) importati a seguito del successo degli artisti italiani in vari ambiti teatrali. Negli otto anni della sua permanenza la Legnani smussò le angolosità dello stile italiano e acquisì la morbidezza della scuola russa dai maestri del Mariinskij, non isolandosi come altre sue colleghe, ma mettendo le giovani allieve a parte dei suoi segreti (ad esempio i trentadue tours fouettés già mostrati al suo debutto nella Cenerentola di Ivanov-Petipa nel 1893). Superiore tecnicamente alle sue connazionali per l’irreprensibile impostazione del busto, per lo sviluppo dell’en dehors e della definizione muscolare, pur non essendo particolarmente espressiva ridusse al silenzio i nemici della scuola italiana; eccetto i sostenitori delle stelle emergenti prima tra tutte la Kschesinska. Protagonista di molti balletti di Petipa e aristocratico Siegfried fu Pavel Gerdt (1844-1917), premier danseur dalla nobile espressione ed eccellente mimo in fine di carriera (nel 1916 fu Gamache in Don Chisciotte); ormai cinquantunenne nell’atto II del Lago non poteva sorreggere la Legnani ma l’accompagnava in un pas de trois che vedeva un altro ballerino in suo soccorso. […] Da”Musica in scena”, Vol V, Torino, UTET, 1995. 35 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Note per la coreografia dello Schiaccianoci di Thierry Malandain E’ stato ascoltando Tchaikovsky, avvertendo l’angoscia e il desiderio nascosto nella partitura, che ho deciso di coinvolgere i danzatori in questa avventura. Riguardo alla storia, ho scelto di mantenere fede alla versione originale di E.T.A. Hoffman pubblicata nel 1816. Bisognerebbe sapere che quando il balletto è stato creato nel 1833, Marius Petipa ignorò il racconto “La noce dura” che includeva il testo di Hoffman. Tchaikovsky sembra fosse contrariato da questa omissione. “La noce dura” è un racconto nel racconto ed è la storia fantastica che Drosselmeyer narra a Marie. Il movimento drammatico è enfatizzato da questo racconto che permette allo spettatore di capire che Schiaccianoci è in effetti il nipote di Drosselmeyer. E’ possibile che questo dettaglio abbia attratto Tchaikovsky, che avrebbe privato la composizione di un secondo atto senza azione drammatica. Nello “Schiaccianoci”, l’ombra del compositore incombe su Drosselmeyer, laddove l’immaginazione delirante di Hoffman da’ forma al racconto di fantasia. Tre uomini appaiono nel mondo di Marie attraverso una lanterna magica che esprime una richiesta di amore e di spiritualità. L’amore di Marie per Schiaccianoci, personaggio inizialmente poco attraente, lo rende il messaggero della felicità che ognuno di noi prima o poi aspetta dalla vita. 36 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Lo schiaccianoci Il soggetto Atto primo E’ Natale e Marie ha ricevuto dal suo padrino, Drosselmeyer, uno schiaccianoci di legno, ma suo fratello Frederic rompe dopo poco il suo giocattolo. Drosselmeyer riesce a ripararlo e la festa continua. Scende la notte e Marie assiste a cose molto strane: l’albero di Natale diventa più grande e inizia una battaglia tra i topi e il suo protetto. Marie lo salva dalla morte tramortendo il re dei topi, e poi sviene. Una tempesta di neve cancella ogni traccia della battaglia. Atto secondo Quando si sveglia Marie è a letto. Drosselmayer la va a trovare e le racconta la storia della “Noce dura”. “Un re e una regina avevano una figlia. Un giorno, il re cacciò la Signora Topo dal suo regno. Per paura della sua vendetta, mise un gatto a vegliare sulla culla della bambina. Tuttavia il topo riuscì a fare un sortilegio sulla piccola principessa Pirlipat, che diventò bruttissima. Drosselmeyer, mago di corte, annunciò che solo una noce “Craracuc” avrebbe potuto salvare la principessa. Viaggiò allora attorno al mondo nella speranza di trovare la famosa noce fino a quando non la trovò a casa di una cugina di Norimberga. La cugina aveva un figlio, nipote di Drosselmeyer: era lui a dover rompere la noce per la principessa. Dopo averla rotta,Pirlipat ritrovò infatti la sua bellezza ma il giovane, per errore, masticò la coda della Signora Topo, trasformandosi in uno schiaccianoci. La predizione di Drosselmeyer fu che sarebbe diventato di nuovo umano dopo aver sconfitto il re dei topi e grazie all’amore vero della fanciulla che gli avrebbe donato il suo cuore nonostante le sue fattezze. Il re dei topi morì. Marie amò lo Schiaccianoci e così il giovane riguadagnò le sue fattezze normali accompagnando Marie nel Valzer dei fiori.” Ma la storia svanisce e Marie si ritrova all’improvviso da sola, con accanto il suo giocattolo di legno. Drosselmeyer arriva con suo nipote e Marie riconosce il giovane dei suoi sogni. 37 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Edizioni G. Ricordi & C., Milano Prima rappresentazione: Roma, Teatro Apollo, 17 febbraio 1859 Personaggi e interpreti Riccardo Renato Amelia Ulrica Oscar Silvano Samuel Tom Servo Giudice Francisco Casanova Patrice Berger Olga Romanko Elena Marinova Ekaterina Bakanova Paolo M. Orecchia Massimiliano Donato Valerio Marchetti Enzo Crucitti Alessandro Cosentino Direttore d’Orchestra Regia Maestro del Coro Scene Costumi Carlo Palleschi Flavio Trevisan Bruno Tirotta Alfredo Troisi Eugenio Girardi Ballo in maschera Melodramma in tre atti Libretto Antonio Somma (da Le bal masqué di E. Scribe) Musica Giuseppe Verdi Orchestra Associazione Filarmonica “F. Cilea” Coro “F. Cilea” Light designer Stefano Pirandello Coproduzione dei Teatri “F. Cilea” di Reggio Calabria “Politeama” di Catanzaro e “A. Rendano” di Cosenza Venerdì 18 novembre 2005 ore 20.30 - Turno “A” Domenica 20 novembre 2005 ore 17.00 - Turno “B” 41 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Libretto della prima rappresentazione al Teatro Apollo di Roma (Fondazione G. Cini, Venezia) di Gustavo Marchesi Ballo in maschera «E scherzo od è follia?» Da Stoccolma a Boston Verdi, da Busseto, il 19 settembre 1857: «Sono nella desolazione! In questi ultimi mesi ho percorso un’infinità di drammi (fra i quali alcuni bellissimi), ma nessuno facente al caso mio!... Ora sto riducendo un dramma francese, Gustavo III di Svezia, libretto di Scribe, e fatto all’Opéra or son più di vent’anni. È grandioso, è vasto; è bello; ma anche questo ha i modi convenzionali di tutte le opere in musica, cosa che mi è sempre spiaciuta, ma che ora trovo insoffribile». La lettera è a Vincenzo Torelli, segretario del Teatro di San Carlo di Napoli, che aspettava dal maestro una prima esclusiva per le scene napoletane. È probabile che, in quel momento, lo scetticismo del compositore verso «i modi convenzionali di tutte le opere in musica», non derivasse tanto dalla convinzione di avere per le mani un cattivo soggetto, quanto da una delusione recente: il Simon Boccanegra di Venezia, dove era andato in scena nel marzo, suscitando una fredda reazione di pubblico e critica. La «Gazzetta privilegiata di Venezia» aveva messo a punto l’esito sfortunato con questo commento: «La musica del Boccanegra è di quelle che non fanno subito colpo. Ella è assai elaborata, condotta col più squisito artifizio e si vuole studiarla nei suoi particolari. Da ciò nacque che la prima sera ella non fu in tutti compresa, e se ne precipitò da alcuni il giudizio; giudizio aspro, nemico, che, nella forma con cui si è manifestato, e rispetto a un uomo che chiamasi Verdi, uno dei pochi, che rappresenti di fuori le glorie dell’arte italiana, che compose il Nabucco, i Lombardi e tanti altri capolavori, i quali fecero e fanno il giro del mondo, ben sapeva parere, per non dire altro, strano e singolare. Ciò che può in qualche modo spiegare quella prima e sinistra impressione è il genere della musica forse troppo grave e severa, quella tinta lugubre che domina lo spartito e il prologo in ispecie». Da un punto di vista più attento al contenuto e alla «tinta» del dramma (che fosse «lugubre» o meno), Simon Boccanegra usciva dall’esperienza del «grand-opéra», ma significava anche un ritorno a drammi più intimi, come Verdi aveva preferito prima dei Vespri del ‘55. E infatti già negli ultimi mesi del ‘57 egli finirà per dedicarsi a quel capolavoro di genere misto, in cui la trama politica si intreccia alle vicende private, lasciando però a queste ultime un dominio prevalente, molto adatto a descrivere l’autentica forza delle passioni, che è un dono di Verdi e di tutto il melodramma italiano: Un ballo in maschera. È indubbio del resto che il mestiere acquisito con le opere dal ‘54 in avanti, portò il musicista alla magia dei suoni, a un linguaggio piacevole e «saggio» anche nell’urto delle opposizioni, sensibile quindi all’atmosfera, al clima del dramma, oltre che alla trama. Un risultato che arriva puntuale in quest’opera su libretto di Antonio Somma, tratto da Gustave III ou Le bal masqué di Scribe, rappresentato all’Opera di Parigi nel 1833 con le musiche di Daniel Auber (nel 1843 Cammarano ne ricavava un libretto per Mercadante, Il reggente). L’avvocatoTEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 43 Ballo in maschera poeta Antonio Somma era ormai sessantenne; Verdi lo aveva conosciuto a Venezia e collaborava da tempo con lui al progetto, mai realizzato, di un Re Lear. Il 13 ottobre del ’57, Somma scriveva al maestro che accettava di verseggiare il Gustavo di Scribe. La trama riguardava appunto il re di Svezia, Gustavo III (1746-1792), e la sua uccisione da parte del conte Ankarstroem, la moglie del quale passava per l’amante del sovrano. Nella realtà Gustavo era salito al trono con un colpo di stato nel 1772, seguendo il nobile intento di favorire la ripresa del proprio paese, angariato dalle fazioni aristocratiche - i «Berretti» e i «Cappelli» - al soldo di potenze straniere. II suo governo, saggio e liberale, acquisì alcuni meriti, passati giustamente alla storia: abolizione della tortura, incremento dell’istruzione primaria e del commercio dei grani, fondazione dell’Accademia letteraria e dell’Opera Reale di Stoccolma, impulso al teatro drammatico (il re stesso divenne applauditissimo autore). Ma Gustavo non riuscì a convincere sulla bontà della causa, di derivazione illuminista francese, quelle fazioni nobiliari che imputavano alla politica del sovrano una componente oppressiva nei loro confronti. Egli fu assassinato quindi per motivi politici, seppure il sospetto di una vendetta personale continui ad impensierire la mente degli storici. La notizia del regicidio rimbalzò con qualche ritardo (20 aprile 1792) sui giornali italiani (anche sulla «Gazzetta di Parma», che pubblicarono un dispaccio da Amburgo del 27 marzo: «Oggi dopo pranzo sono qui arrivati due corrieri da Stockholm, uno de’ quali ha proseguito il suo viaggio per Madrid e l’altro per Varsavia. I medesimi sono portatori della terribile nuova, che Sua Maestà il Re di Svezia è stato la notte del 16 venendo al 17 del corrente, in tempo di un ballo mascherato al Teatro, assalito coll’esserglisi tirato contro un colpo di pistola carica con due palle, essendone una quadrata, e con chiodi, ed altre piccole palle. Il delinquente, che è già stato arrestato è un Nobile, che chiamasi Ankarstroem, stato Alfiere della Guardia, uomo di cattiva condotta, cui il Sovrano aveva poco prima fatto la grazia di richiamarlo dal suo esilio della Gothia…Due ore avanti che il re si portasse al Teatro, fu avvertito con una lettera di non recarvisi; ma egli punto non vi badò». Straziante fu l’agonia del sovrano: durò tredici giorni, conseguenza della cancrena che gli procurarono i chiodi arrugginiti, introdotti allo scopo dall’implacabile omicida. Morendo, Gustavo concesse il perdono ai cospiratori; ma Ankarstroem (che eroicamente non denunciò i complici) venne decapitato, dopo il taglio della mano, e il suo corpo squartato ed esposto al pubblico. Altri, che avevano preso parte alla congiura, furono esiliati. Quanto all’ipotesi che, fra le cause del delitto, potesse esservi una componente di omosessualità, non siamo in grado di confermarla. La notizia di un Gustavo III omosessuale (come, si dice, lo zio Federico il Grande di Prussia)*, è avvolta ancora da troppe incertezze. Nei confronti dell’opera verdiana si tratterebbe comunque di un dettaglio non rilevante. A meno di non vedere nel paggio Oscar un ambiguo personaggio che, tradito negli affetti dal suo signore, lo porta sorridendo in braccio alla donna-morte. Date le premesse, non si poteva sperare che la censura napoletana avrebbe * Tra l’altro, la madre di Gustavo, sorella di Federico, chiamava Luisa Ulrica: vedi la magia dei secondi nomi, nascosti dietro i primi... TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 45 46 permesso un lavoro in cui si dava in pasto al pubblico un regicidio, e la propria implicita spiegazione. È vero che un atto del genere appariva molto più infamante per il sicario e tornava a onore del sovrano magnanimo ingiustamente aggredito. Ma si può essere altrettanto certi che la censura borbonica conosceva come queste sottigliezze a sfondo morale non fossero sufficienti ad illudere il sanguigno pubblico meridionale. Bisogna anche tener presente che il re delle Due Sicilie, il «re Bomba» Ferdinando II, era stato ferito in città durante una rivista militare e che il ricordo era piuttosto fresco. Inoltre, si potrebbe anche supporre che i censori napoletani non vedessero di buon occhio la figura di Gustavo III e le sue idee riformiste, in seguito alle quali il regicidio sarebbe apparso come una rivincita dell’assolutismo più retrogrado. Ma anche questa sarebbe stata una `sottigliezza, seppure d’altro genere della precedente, e non poteva interessare il cosiddetto mondo dello spettacolo. D’altronde poi Gustavo era tutt’altro che sospettabile di congiurare ai danni delle grandi potenze europee e dei loro sistemi tradizionali, politici e sociali. Era, per esempio, amico della Francia, ma controrivoluzionario e quando morì stava per intraprendere una spedizione militare, sembra, contro la repubblica del Terrore. Le brighe con la censura napoletana furono infatti aggrovigliate, tra le peggiori esperienze del genere attraversate da Verdi nella sua vita di operista. Pur costretto a modificare l’ambiente, a ridurlo di proporzioni, per non fare apparire in scena un monarca, né vivo né morto, non rinunciò tuttavia all’intreccio. Nel Ballo in maschera, la vicenda che portava il pugnale al cuore di un signore - grande o piccolo che fosse - premeva troppo all’autore, soprattutto in quel momento politico in cui molti patrioti italiani, pur di sentimenti repubblicani, andavano gradualmente avvicinandosi a Casa Savoia. Non dobbiamo dimenticare che anche nel Boccanegra Verdi aveva esaltato il doge pacifista, il re buono di Genova. Ora gli serve un uomo di potere figlio dell’illuminismo, e se questi erano i suoi calcoli, bisogna riconoscere che aveva azzeccato le previsioni. L’opera andrà in scena a Roma (dopo il veto napoletano) nel febbraio ‘59; nell’aprile l’Austria manda un ultimatum al Regno di Sardegna, provocando l’intervento francese; nel settembre Verdi è già a Torino per deporre nelle mani di Vittorio Emanuele di Savoia i voti del plebiscito di annessione delle province parmensi. Il soggetto venne trasportato a Boston alla fine del secolo XVII. Resta tuttavia un punto oscuro: perché Verdi non abbia provveduto, una volta libero dai vincoli della censura, a ripristinare il soggetto originario, dove tanto gli piacevano «i caratteri tagliati alla francese», in tutto degni della reggia di Stoccolma ai tempi di Gustavo III. Ma forse la risposta non è difficile da trovare. Come per Rigoletto, Verdi ha preferito ancora una volta un ambiente piccolo, una provincia. I personaggi perdono così quei caratteri generici che la vita mondana dei grossi centri incolla addosso alle persone, fino a renderle anonime, tutte uguali, senza cuore e senza fantasia, senza odi e senza gioie. Un ambiente meno vasto e persone più alla mano non diminuiscono la tensione del dramma, anzi la possono aumentare. Lo spettatore «sottoposto» al dramma, ne viene soggiogato. Tra le nostre pareti domestiche, anche un dignitario di modesta importanza è assai più autorevole di TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera uno zar sprofondato nella magnificenza di luoghi che non ci appartengono. In tale dimensione anche gli affetti privati dell’uomo pubblico procurano a lui, e alla sua posizione ufficiale, più vaste simpatie popolari. Era questo in fondo l’ascendente personale dello stesso re Vittorio: oltre ad essere considerato politicamente un «galant’uomo», per aver difeso lo statuto albertino, il Savoia aveva certamente dalla sua il tacito quanto benevolo consenso dei ceti modesti, che vedevano il loro sovrano liberarsi volentieri dall’etichetta aristocratica e dalle rigide restrizioni imposte dall’alto incarico, per diventare ben altrimenti «galanti» con ogni sorta di gonnella. Gustavo, preso il nome di Riccardo conte di Warwick, diventa governatore di Boston, Massachusetts, alla fine del Seicento, come dicevamo. Il nostro governatore è insidiato da un.partito avverso, di cui sono esponenti Samuel e Tom; nello stesso tempo nasce un’altra complicazione: Riccardo (tenore) è innamorato, sinceramente e dolorosamente, di Amelia (soprano), la moglie di Renato (baritono), che è il segretario e il più fido amico del governatore. Nel primo atto Riccardo, sempre generoso e altruista, va a conoscere una maga, Ulrica (contralto), una negra che la giustizia vorrebbe espellere perché accusata di stregoneria (ci troviamo in uno stato e in un tempo ideali per la caccia alle streghe). Riccardo però non vuole prendere decisioni troppo drastiche contro Ulrica, dietro consiglio del suo paggio Oscar (soprano in travesti), che difende la maga e così, diciamo noi, spinge Riccardo verso una terribile fatalità. Oscar agisce inconsciamente, ma le fila del destino di Riccardo cominciano ad annodarsi proprio da questa decisione di andare nell’antro della maga. Riccardo ci va travestito da pescatore, con tutti gli amici. La maga profetizza che egli morirà per mano di uno dei suoi migliori amici, colui che lì, subito dopo la profezia, gli stringerà la mano a sua volta. Riccardo le ride, secondo il suo costume di personaggio brillante e leale. Ma la profezia pesa su tutti, getta un’ombra cupa: infatti l’unico amico che tende la destra a Riccardo è proprio Renato. Tuttavia la scena si scioglie in una perfetta illusione di euforia nei confronti di Riccardo e del suo governo. Dalla maga si è recata anche Amelia, per curare il suo mal d’amore. La maga ha mandato la donna a raccogliere un’erba magica nel campo dei supplizi, dove vengono giustiziati i condannati a morte. Riccardo, che ha spiato la donna, la raggiunge là, nel campo malfamato e si fa confessare da lei il suo amore, come lui le confessa il proprio. I due si perdono, cioè si beano di queste accese parole, senza idillio diciamo, senza dar corpo alla passione, ma soltanto sognando di morire avvolti nel loro quasi infantile affetto. Il dramma prende fuoco però. I due vengono sorpresi da Renato: egli giunge ad avvisare Riccardo che i congiurati stanno per arrivare e vogliono assassinarlo. Renato non riconosce subito la moglie, che si è prontamente velata. Riccardo gliela affida e si appresta ad andarsene, persuaso di agire per il meglio anche dalle parole di Amelia, terrorizzata da ciò che sta avvenendo. I passi dei congiurati si avvicinano precipitosi, inesorabili. Riccardo si fa promettere da Renato che porterà via la donna così come si trova, col velo sul volto, senza cercare di riconoscerla. L’amico si dichiara TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 47 disposto a tutto, anche perché è abituato alle scappatelle del superiore e naturalmente ignora l’identità di Amelia. Riccardo fugge. Arrivano i congiurati, attaccano briga con Renato che sta per essere sopraffatto: sua moglie si mette in mezzo e scopre involontariamente il viso. Renato è allibito, i congiurati sghignazzano per quei due coniugi che, tornati colombi, vanno a tubare di notte nientemeno che in quel luogo sinistro. Renato, sconvolto dalla slealtà dell’amico e signore, si allea con i congiurati per assassinarlo. Giuseppe Verdi Sarà Amelia, ignara del complotto, ad estrarre a sorte il nome del marito, prescelto così anche dal destino a sopprimere il rivale durante un ballo mascherato. Il magnanimo Riccardo intanto, per interrompere il nascente rapporto con Amelia, e per impedire che la loro passione li travolga, pensa di rimandare i coniugi in Inghilterra, lontano da lui. Egli vuole soltanto rivedere la donna durante la festa mascherata a palazzo. Amelia, che tutto ha saputo nel frattempo, cerca invano di avvertirlo del pericolo che correrà qualora si recasse al ballo. Infatti Renato riesce a sapere da Oscar quale costume indossa Riccardo. Mentre il governatore saluta Amelia per l’ultima volta, Renato lo pugnala. Riccardo muore perdonando, tra il compianto generale, e giura a Renato che, pur amandola, ha rispettato la sua consorte. 48 La vita è un ballo Quando si arriva al Ballo in maschera non si può che citare D’Annunzio. Come spesso gli accadeva, anche in questo caso seppe coniare uno slogan di successo: «il più melodrammatico dei melodrammi». Senza dubbio era rimasto sbalordito anche dal linguaggio del libretto, dove Somma ha superato in arditezze anche gli altri librettisti verdiani che, quanto a coraggio, non scherzano (basta pensare a Cammarano). Primitivismo e preziosismo, che rasentano l’assurdo, sensualità e gusto per il macabro, lo splendore e la rovina in una sintesi fisica, evanescenze e voluttà sanguinaria, frivolezze TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera e alta tensione tragica. Basta citare anche un mazzetto di versi per farci apprezzare la fantasia del poeta teatrale. Ecco il vaneggiamento amoroso di Riccardo: «La rivedrà nell’estasi / raggiante di pallore», «Pur ch’io respiri, Amelia, / l’aura dei tuoi sospiri», «E qui sonar d’amore / la sua parola udrà», «Oh qual soave brivido / l’acceso petto irrora», «Astro di queste tenebre / irradiami d’amore». A contrasto, il lamento, la disperazione e l’ira di Renato: «Quando Amelia, sì bella, sì candida / sul mio seno brillava d’amor», «Sbranato il core per sempre m’ha!», «È finita: / non siede che l’odio, / che l’odio e la morte nel vedovo cor!». E anche per lui, futuro vendicatore, un fremito visionario, farneticante, nella visione ormai delittuosa: «Là, fra le danze esanime / la mente mia sel pinge, / ove del proprio sangue / il pavimento tinge», rinforzato dal commento sinistro dei congiurati Samuel e Tom: «Sarà una danza funebre / con pallide beltà». O la sequenza di formule stregonesche nell’antro di Ulrica, qualcosa che torna alla primitiva magia nera di Macbeth, là dove tutto «riluce di tetro»: «La salamandra ignivora / tre volte sibilò, «Precipita per l’etra, / senza libar la folgore», e dove anche l’immaginazione di Riccardo tenta la corda dell’avventura sull’onda poetica di una ballata marinaresca: «Con lacere vele / e l’alma in tempesta, / i solchi so franger / dell’onda funesta». Una volta nel campo dei supplizi, la forza immaginativa diventa ossessiva, pulsante, ansimante: «Una testa / di sotterra si leva, e sospira! / Ha negli occhi il baleno dell’ira», «Odi tu come fremono cupi / per quest’aura gli accenti di morte?», «Fuggi, fuggi: per l’orrida via / sento l’orma de’ passi spietati». Dunque un linguaggio melodrammatico molto caratteristico con tutti i pregi e i difetti del caso. Anche il titolo dell’opera suggerisce lo spirito del melodramma, non soltanto verdiano e neppure soltanto romantico. Un ballo che finisce tragicamente, con personaggi mascherati (quanti sotterfugi, travestimenti, segreti, macchinazioni!) come se volessero annullare la loro identità, un meccanismo teatrale che ci riporta all’arcaico, alla nascita del teatro, in piena tragedia greca, dove gli avvenimenti più tristi vengono presentati come fossero, di natura, fatali. Pensate che non mancano neppure le arti divinatorie, la magia e l’esorcismo. In questo senso esiste una certa parentela col Trovatore, soprattutto per la somiglianza tra Azucena e Ulrica. Ma dato il carattere più festaiolo del Ballo non incontriamo qui, come nel Trovatore, un tipo di allucinazione collettiva, e neppure quella critica sociale, a sfondo umanitario, del Rigoletto, al quale anche può somigliare per varie situazioni, specie nel personaggio-chiave di Riccardo. Ed è proprio da lui che dobbiamo cominciare, entrando nella vicenda. Bisogna riconoscere che Riccardo condiziona la vita degli altri, prima quando è potente, poi quando si riduce a vittima. Insieme a lui occorre considerare la presenza del paggio Oscar, quel discusso farfallone che, derivando dal Cherubino delle Nozze di Figaro di Mozart, prepara il terreno alla Preziosilla della Forza del destino. Oscar non è mai piaciuto troppo ai critici verdiani, e qualcuno anzi lo condanna decisamente. Il suo tono da saputello, da cocco del padrone, la TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 49 50 petulanza che gli deriva da una simile posizione, sembrano posticce, innaturali. In realtà egli rappresenta la proiezione dell’affascinante signore che illumina uno stato dove non c’è posto per l’ingiustizia, ne per l’umiliazione. Perfino Ulrica, pur appartenendo ad una classe emarginata, viene protetta dalla magnanimità di Riccardo, un governante buono, leale. D’altra parte Oscar sottolinea anche l’altra faccia del personaggio Riccardo, quella del libertino, anche se squisito e cortese, che ama senza paura, perché gli sembra di non commettere nulla che possa offendere la vita. Un modo di comportarsi molto scoperto, anche ingenuo, incredulo di fronte alle minacce di un cattivo destino, come dimostra il suo disprezzo per le profezie della maga. Anche gli altri personaggi ricadono sotto l’influenza del signore («il re incantatore», lo chiamavano, Gustavo III). Se osserviamo bene, finché lui vive, anche gli altri hanno la possibilità di agire, magari anche a danno di lui. Quando il padrone di casa, il governatore muore, sembra che il più grave dei lutti si abbatta sull’intera comunità. Sembra che l’insieme dei fatti sia condotto per iniziativa di Riccardo. Lui seduce Amelia, lui favorisce la congiura dei nemici recandosi nell’antro di Ulrica, che soltanto per merito del governatore ottiene fama, evitando peraltro di finire sul rogo. Lui sfida la morte nel campo dei supplizi gridando un inno alla vita; lui arma la mano, contro se stesso, al suo migliore amico, lui organizza la fatale danza e vi interviene con un’ultima sfida alle stelle. Amelia, che dovrebbe essere il personaggio maggiore dopo Riccardo, esiste per lui, per la sua ardente passione, si brucia alla stessa fiamma, anche se la sua onestà rimane integra. Incapace di sentimenti propri, incantata da Riccardo, anche se fedele al marito, si libera dall’incantesimo, ritrovando una personalità, soltanto quando avrà da riflettere sulla propria umiliazione di madre. Accanto a lei, Renato: egli rappresenta la difesa della famiglia ed esce in un’invettiva accorata, disperata e insieme pugnace, «Eri tu che macchiavi quell’anima», una ripetizione in chiave più intima del «Cortigiani, vil razza dannata» del Rigoletto. Riccardo è direttamente sotto accusa, minacciato direttamente e senza scampo; ma la cosa non lo tocca. Egli è dentro il grembo del sogno, immerso nel delirio che lo ha finalmente appagato. Nessuno può svegliarlo, e si pronuncia così in favore della propria condanna nella scena quinta dell’atto terzo: «Ah, l’ho segnato il sacrifizio mio!», simbolico annuncio di un presagio inequivocabile. La salvezza potrebbe consistere nella somiglianza al suo predecessore Don Giovanni; ma la sua sostanziale purezza glielo impedisce: egli non ha agito per spavalderia, ma per totale dedizione all’oggetto d’amore. Ed infatti per tutta l’opera affronta, seppure dolcemente, un rischio continuo, che la vocalità verdiana esalta oltre misura. E non dobbiamo davvero meravigliarci che qualcuno trovi una situazione del genere addirittura grottesca. Pensate soltanto a quell’appuntamento e a quella dichiarazione d’amore in mezzo a resti di scheletri umani e forche minacciose che grandeggiano contro il cielo. Una scena da Grand-GuignoI, dove appunto arriva impietosa la sghignazzata dei congiurati, di coloro cioè che non sono tanto sovvertitori, selvaggi quanto l’autorità costituita tende a TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera spacciarli, ma rappresentano piuttosto la categoria migliore di cittadini, i benpensanti, i conformisti, le persone serie che vorrebbero togliere dal mondo la macchia del peccato. Difesi dalla loro saggezza, divenuti moralisti, sbeffeggiano coloro che si espongono incautamente. Fanno della satira. La satira è un’accezione indispensabile del comico, e a guardar bene anche nel Ballo in maschera l’elemento comico è ben sfruttato, attraverso l’uso di mezzi sorrisi che procedono in accordo col movimento dei piedini nella danza. Scanditi da un tempo inesorabile, seppure delicato (e come suona bene quell’emblematico «Fuggi, fuggi: per l’orrida via...», mentre scendono i passi felpati di persecutori ancora invisibili, ma inarrestabili), i mezzi sorrisi si prendono gioco dell’urto, della lotta psicologica e sociale. Abbiamo già accennato all’ironia beffarda dei congiurati nel campo dei supplizi. Vediamo ora più da vicino un altro campione, la «Scena e quintetto» del terzo atto, con Amelia, Oscar, Renato, Samuel e Tom: in pratica i personaggi principali, compresi i due congiurati (ovviamente in sottordine), senza il protagonista Riccardo (che si tiene come in disparte), e senza Ulrica che però, malgrado la magnifica parte, non ha necessità di riapparire dopo il suo breve intervento. È chiaro che il discorso del «Quintetto» non può avviarsi se non teniamo conto della scena precedente, «Congiura-tenzettoquartetto», dove tuona l’oratoria della vendetta assumendo tinte provocanti. Verdi ha voluto giocare su atmosfere di contrasto, prima di passare ad un’inquadratura con mescolanze chiaroscurali. La congiura segue infatti l’ormai celebrato «Eri tu» e umilia ferocemente la povera Amelia, che ha avuto il torto di rimanere fedele al marito. È un saggio di letteratura nera, che a sua volta deriva dal duetto precedente Renato-Amelia, dove la tempesta è attenuata soltanto dalla berceuse funebre di lei, «Morrò, ma prima in grazia». Nella congiura, il clima si fa impressionante alle parole «solo / qui la sorte decider de’», con un passaggio dal maggiore al minore, in cui il si minore giunge tanto improvviso da rendere opprimente la sortita delle trombe nella progressione misteriosa che poi prepara l’entrata di Amelia. La donna è subito stretta nella morsa della congiura. Il comportamento di lei ha un’impronta caratteristica in Verdi: si alternano ansietà, affetto angosciato ed ira improvvisa subito repressa, una piccola sintesi di quelli che saranno, fra l’altro, personaggi come Aida e Amneris. Ed ecco l’ordine di Renato: «V’ha tre nomi in quell’urna», un declamato che potrebbe far pensare (anche se con diversa partecipazione d’orchestra) al doge Simone, nel finale della scena del gran consiglio, quando accusa Paolo: suspense, una diffusa tensione, mentre la voce scandisce «a piacere sottovoce e con accento terribile... senza misura»; a metà della parola «l’urna», si scatena la prima terzina di semicrome, una raffica in fortissimo conclusa con accento alla fine della parola; una seconda gragnuola termina stavolta in pianissimo, prima delle ironiche parole di Renato: «un ne tragga l’innocente tua mano». Altrettanto singolare la gioia di lui, quando sente di essere eletto: «II mio nome» precede un accordo di settima diminuita (fiati e percussioni), duro come una pietrata, una scarica dissoTEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 51 Ballo in maschera nante che ricorda da vicino l’Otello, finale terzo, alle parole del coro interno «Gloria al leon di Venezia». Dopo tanto livore proclamato, l’entrata di Oscar volta pagina e dà principio alla «Scena e quintetto». Il paggio entra in pianissimo (tre p) «con eleganza» (orchestra con trilli staccati), a passettini in tempo di ballo galante, quasi infantile. Viene da un mondo molto diverso. L’ingenuità e il candore sono profusi a piene mani, e seppure manchi di gioia autentica, l’ingresso del messaggero avvia un «Allegro brillante», con frequente uso di trilli, che mette in luce per intero lo stile d’etichetta del nostro Mercurio, molto compreso del proprio ruolo, addirittura infatuato, ma altrettanto capice di self-control. Al momento in cui entrano in campo le voci di Amelia e Renato, la tonalità si sposta bruscamente al modo minore, l’orchestra ha un maggior sommovimento negli archi, ma si mantiene a galla facendo sobbalzare la melodia sullo schema immobile di una danza felice. Di conseguenza, anche il testo librettistico cerca di rifugiarsi tra le pieghe del tessuto musicale e nascondere così le espressioni più violente, visionarie e ossessive, sacrificate al fondo della materia sonora. Una formale cortesia domina le menti e gli atti dei personaggi, malgrado i versi di Somma facciano vacillare quanti si trovano in quella adunata, escluso Oscar s’intende, che guida la compagnia con fare spensierato verso il ballo della morte. La sua figura davvero è un «insieme di angelico e demoniaco che lo imparenta a certi personaggi shakespeariani come il Puck del Sogno di una notte di mezza estate», scriveva Gabriele Baldini. E in effetti è lui il portatore del più sottile sarcasmo che permea il Ballo, il senso di quest’opera, che sempre lievitando su ritmi agili, nervosi, esprime il fallimento di coloro che non sanno distinguere, per cieca passione, i valori individuali, la saggezza e la bellezza dovunque siano. Per questo Un ballo in maschera è certamente l’opera più ambigua di Verdi, anzi enimmatica, per dirla a modo suo. Napoli: trambusti e affetti Per seguirne l’allestimento, il compositore sbarcava a Napoli nel gennaio del 1858. Il foglio locale più pettegolo, l’Omnibus, impaginava per l’occasione un articolo pomposo che dava notizia anche del trionfo ottenuto, al Teatro di San Carlo, dai Vespri siciliani, col titolo Batilde di Turenna. Riferiamo soltanto alcuni passi eloquenti del servizio preparato da Vincenzo Torelli: «La mattina del 14 giunse il Cav. Verdi a Napoli, desideratissimo, dopo lungo e disastroso viaggio, per le gravi nevi dei suoi luoghi sino a Genova; di là, mancando opportuni vapori, ritardò ancora qualche altro giorno... La sera stessa dell’arrivo, il celebre Maestro pregato dagli amici venne in Teatro. Nel giungere nel suo palchetto, fu un sussurro generale nell’amplissimo S. Carlo e tutti gli sguardi e gli occhialetti si voltarono a lui». L’orchestra volle fargli l’omaggio di ripetere la Sinfonia e, dopo l’esecuzione, l’autore venne sul palcoscenico a prendere gli applausi. «Così il genio italiano fu salutato grande e sublime, qui nella sede dell’armonia e del canto, dove fioriva Rossini, ove s’incoronava Donizetti, Bellini riempiva il mondo di meste melodie, e Mercadante e Pacini sostenevano il nome italiaTEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 53 54 no, quando il Pesarese già taceva, e il cignale di Busseto non era ancora l’autore del Macbeth, del Trovatore e della Traviata», concludeva Torelli. Egli era sincero, senza dubbio, ma nella sua doppia funzione di giornalista e segretario del San Carlo, tendeva probabilmente a dimostrare che l’organizzazione teatrale funzionava. Ben diverso lo stato d’animo del «cignale» di Busseto che, dalla sua stanza n. 18 all’Hótel de Rome, dove abitava con la Giuseppina e il cagnolino Lulù, scrive all’amico romano Luccardi il 3 febbraio: «Io sono in un vero inferno! La censura proibirà (è quasi certo) il libro. Eppure in questo libretto non vi era nulla che intaccasse religione, politica, morale. Si proibisce... e perché? Non so... Cosa succederà? Non so. Maledetto il momento in cui ho segnato questo contratto. Non mi so dar pace perché non arrivo a comprendere il motivo della proibizione di questo libretto, che è assolutamente la cosa più innocente della terra». Le modifiche richieste erano in pratica sei: «Cambiare il protagonista in signore, allontanando affatto l’idea del sovrano; cambiare la moglie in sorella; modificare la scena della Strega trasportandola in epoca in cui vi si credeva; non ballo; l’uccisione dentro le scene; eliminare la scena dei nomi tirati a sorte». Il libretto sarebbe poi uscito senza il nome del poeta. Il cambiamento più importante, o comunque il primo ed essenziale, riguardava il protagonista, che doveva essere un «signore», non un «sovrano». Le richieste censorie dunque sconvolgevano l’intero piano dell’opera. Oltre ai guai che ne sarebbero derivati all’intreccio, Verdi giudicava molto discutibile arretrare l’epoca di «cinque o sei secoli», privandosi della possibilità di trovare un’ambientazione conveniente al soggetto. Per favorire un’intesa, accettò di togliere la corte di Gustavo, barattandola con altro ambiente signorile, quello di altro Gustavo, duca di Pomerania, di peso storico minore, un secolo «addietro», ma con le stesse qualità di eleganza, charme eccetera. Presentò così un nuovo libretto dal titolo Una vendetta in domino. La censura non fu soddisfatta e l’impresa del San Carlo si vide costretta a far compilare un secondo, anzi un terzo libretto, Adelia degli Adimari con vari e offensivi «accomodi», rispetto alla Vendetta, dettati probabilmente dall’ingegno di Domenico Bolognese poeta ufficiale del teatro. Verdi rifiutò in blocco gli «accomodi» e cercò di sciogliersi dal contratto. L’impresa del teatro lo citò per danni e ne uscì una causa, discussa davanti al competente tribunale di commercio di Napoli il 13 marzo di quel ‘58. La difesa, prodotta dall’avvocato di Verdi, Ferdinando Arpino, ricalcava le chiose appuntate dal compositore sul libretto dell’Adelia, messo a confronto con la Vendetta: fascicolo che Verdi regalò al fedelissimo Cesarino De Sanctis e sul quale si possono ancora leggere le frecciate molto salaci del maestro, indubbiamente guidato dall’umorismo di Giuseppina, che non era seconda a nessuno in fatto di spirito. Prima che con tutti gli altri, il maestro se la prese con Vincenzo Torelli che faceva da tramite nel penoso accordo: «Trasportare quest’azione a cinque o sei secoli indietro?! Quale anacronismo! Togliere la scena quando si trae a sorte il nome dell’uccisore?!... ma questa è la più potente e la più nuova situazione del dramma, e si vuole che io vi rinunzi?!... In fatto d’arte TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera ho le mie idee, le mie convinzioni ben nette, ben precise, alle quali non posso, ne devo rinunciare... Io sono forestiero: i miei affari sono qui; sono venuto in Napoli per adempiere gli obblighi di un contratto; se ostacoli impossibili a prevedersi, dirò di più, a comprendersi lo impediscono, la colpa non è mia. Garantite i vostri diritti, se ne avete e se lo volete, ma lasciatemi libero». Ma ecco alcune delle repliche contenute nel fascicolo consegnato alla difesa, dove in modo pungente cerca, e con molto successo, di smontare le macchinazioni censorie, con riferimenti diretti ai versi del libretto rifatto, alle situazioni mutate e travisate che la censura aveva messo di lato ai versi originali di Somma, e che Verdi commenta da par suo. Sono ben novanta pagine, dalle quali non possiamo che pizzicare qua e là. Intanto diciamo che la dimora del duca Gustavo di Pomerania (seconda metà del secolo XVII) è diventata nella Adelia degli Adimari la casa di tale Armando degli Armandi, affollata di guelfi, con un gruppetto di malcelati, intrusi ghibellini, nella Firenze del 1385. Oscar non è più paggio e ha cambiato nome, si chiama Arpini (così sembra scritto) e sarebbe un «giovane seguace di Armando», sicché ogni frase di lui, in origine giustificata dalla funzione che svolgeva il paggio, quale cerimoniere del duca, diventa ora goffa: «Ecco uno degli inconvenienti, che nascono dall’aver tolto il paggio. Questo giovine, che pure è detto seguace di parte, e perciò guerriero ardito e feroce egli stesso, viene a fare atto da cameriere», peraltro invitando non già ad un ballo in maschera, bensì ad un «banchetto», ragion per cui, ribatte Verdi, «se le danze divengono banchetto le musiche interne che suonano Valtz, Galop, Cracoviennes (Cracoviennes perché la scena doveva essere nel Nord) diventano senza carattere ed inutili. Poi il movimento scenico d’una danza è ben diverso da quello di un banchetto... E veggasi se il cambiamento del ballo in banchetto poteva logicamente effettuarsi. Tolte le maschere» (il ballo mascherato era infatti soppresso, figuriamoci!) «tutta l’azione resta distrutta. Più non avrebbe avuto luogo il dialogo rapido, misterioso fra i nemici del Duca: non più la scena graziosissima nella quale Renato fa cader la maschera al paggio; non più il movimento di chi va in traccia, di chi evita, di chi corteggia e di chi persegue. S’immagini il lettore tutto questo spettacolo: la scena di quei tre: gli scherzi e la canzone del paggio: la disperazione dei due amanti: quel certo non so che di strano e di bizzarro che va sempre prodotto sulla scena dal dominò e dalla maschera: l’orchestra che ora manda note allegre, ora freme, in quella che le musiche interne sul palcoscenico suonano valtz, galop, ecc. e si comprenderà facilmente il grande effetto che poteva esser prodotto da scena così vasta e così varia. Cambiate o togliete qualche tratto e l’azione e la musica scapiteranno di carattere e significato». Anche le massime pronunciate dal nuovo signore risultano stonate: «Bello è il potere. Queste parole che riuscivano chiare e nobili in bocca d’un Duca, tornano enimmatiche e insolenti in bocca d’un capo di parte». La sua figura poi doveva essere strettamente connessa con la gaia (o perlomeno brillante) atmosfera di palazzo; ora invece: «Veggano anche i ciechi quanto male arrechi all’azione il mutamento del carattere di Gustavo: tutto diviene falso, senza interesse, ed TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 55 Ballo in maschera è sparito quel certo non so che di brillante e caratteristico, quella cert’aura di gaiezza che correva per tutta l’azione, e faceva bel contrasto ed era come la luce fra le tenebre dei punti tragici del dramma. Con un capo di partito di parte Guelfa, ed in un’epoca di ferro e di sangue, tutto diviene fosco, nero, pesante, noioso». Veggano dunque anche i ciechi quanto gli premesse dare all’intero dramma un respiro e uno scintillio che mitigasse l’oppressione tragica. D’altronde anche i nodi drammatici venivano neutralizzati da soppressioni sciocche, come quella riguardante il sorteggio. «Si osservi nel primo libretto la terribile situazione di questa donna nel punto che è costretta ad estrarre dall’urna il nome dell’uomo (quest’uomo è il consorte), il quale deve uccidere il suo amante. Si osservi l’istante che precede la lettura del nome, l’ansia affannosa di ognuno dei tre che vorrebbe essere l’eletto, il terrore della donna, la gioia fremente di Renato, quando estratto dall’urna grida: son io! io l’eletto! e si dica se questa non era una delle situazioni più potenti del teatro drammatico! Quale squarcio sinfonico pel maestro nel ritrarre il momento in cui va compito il tremendo sorteggio!! E si pretendeva che vi si rinunziasse? Si diceva: purché si ami o si odii nell’Adelia come si odia nella Vendetta suona lo stesso! !... Ma non è d’odio o d’amore che qui si tratta! Si tratta d’una grande situazione, che è completamente distrutta nell’Adelia!». Basta così, è sufficiente per saggiare quanto avvenuto nel dibattimento napoletano. Abbiamo citato, qui, non soltanto per curiosità storica, ma per verificare seppur brevemente la mentalità drammaturgica del compositore, dal momento che le annotazioni sul Ballo possono costituire un ottimo test al riguardo. Per quanto attiene al processo, l’onestà professionale di Verdi venne riconosciuta senza riserve. Prosciolto da ogni accusa, libero di decidere secondo la propria volontà, fece fagotto con la moglie e il cagnolino Lulù, e insieme rientrarono a Sant’Agata alla fine di aprile. «Or eccomi qui» scriveva il maestro all’amica Clarina Maffei «e, dopo i trambusti di Napoli, questa profonda quiete mi è sempre più cara. È impossibile trovare località più brutta di questa, ma d’altra parte è impossibile ch’io trovi ove vivere con maggior libertà; poi questo silenzio che lascia tempo a pensare, e quel non veder mai uniformi di nissun colore è pur la buona cosa!». Era la prima volta che ammetteva (calcando sull’aspetto peggiorativo) di abitare in un «brutto posto», un posto di lavoro, di fatica, dove era più riconoscibile il peso di un’esistenza quotidiana degli abitanti, il loro sforzo di vivere. Si teneva lontano dalle zone residenziali del parmense, da quei boschetti, da quei prati mondi e sereni, dove scendeva la cipria impalpabile di un polline aristocratico in elegante decadenza. «Voi siete riparato alla campagna» scriveva il mese dopo a Torelli, «ed io sono in un vero deserto. Da un mese non vedo alcuno: corro tutto il giorno da casa ai campi, dai campi a casa, finché, arrivata la sera, morto di stanchezza, mi caccio in letto per tornare da capo l’indomani. La Peppina legge, scrive, lavora: io non faccio nulla nulla. Vero bruto!». La rude semplicità della campagna di Busseto (dove è così facile che Verdi consideri il tempo trascorso come «anni di galera») si accentua nel contrasto con la TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 57 magnificenza panoramica del napoletano, splendido angolo di mondo che egli ha imparato ad apprezzare, grazie anche alla complicità dei cari amici di laggiù (come il poeta Nicola Sole, spentosi giovanissimo). «Pareva tutto il mondo dormisse e solo le stelle e noi vegliassimo. Sole improvvisava e voi ripetevate i suoi versi cantando e una guardia ci pedinava. Era pur bello sentirsi commossi, eccitati dalla fantasia, sentirsi artisti e italiani», come gli ricordava più tardi Domenico Morelli. Anche dalle lettere di Verdi e della Peppina ad altri amici napoletani, i carissimi De Sanctis, si legge un’affettuosa disposizione d’animo, così distesa e cordiale, da non lasciare dubbi sulla natura della simpatia che era sorta fra i Verdi e quel gruppo di ammiratori: un inverno a Napoli, fra tante facce ridenti, valeva bene un processo e lo strapazzo della censura. Dei «trambusti» di laggiù, come il maestro li chiamava, rimanevano le caricature composte con acume e perizia uniche da Melchiorre Delfico, dove la società partenopea, interessata alla musica, si muove importuna, o affettuosa, intorno al corrucciato compositore. Rimanevano i bei ricordi di un soggiorno scaldato dai raggi del sud, e i maccheroni che si erano portati appresso, e quelli in arrivo, con la speranza di avere ospiti gli amici napoletani. Peccato non aver visto almeno un’eruzione del Vesuvio: «Dev’essere un magnifico spettacolo. Io non ho mai visto quel signore in furia e pagherei... una sinfonia a vederlo...», scrive a De Sanctis. 58 II destino dell’opera Già nell’ottobre di quello stesso ‘58, i Verdi tornarono in territorio partenopeo. Il giudice nella causa col San Carlo aveva invitato le parti a una pacifica composizione della vertenza e il 30 novembre Simon Boccanegra andava in scena al gran teatro con caldo successo. Il gennaio seguente i due, con cagnolino Lulù, ripartivano da Napoli per Roma, in quanto il Ballo in maschera, malgrado alcuni contrasti con la censura pontificia, andava finalmente in rete. Il viaggio di trasferimento avvenne, per i Verdi, in condizioni disastrose. Il 12 gennaio sbarcavano a Civitavecchia: «Abbiamo passata una notte d’inferno e siamo arrivati stamattina in porto alle dieci e mezzo, vale a dire quasi diciannove ore di mare! La Peppina è stata malissimo; il gran Lulù pure ha sofferto; io solo non ho dato nulla al mare, ma quel malessere, e poi sedici ore coricato senza potersi muovere!... Vento furioso e freddo, ed acqua da tutte le parti», scriveva all’amico scultore Luccardi. Comunque il 17 febbraio l’opera andò in scena al Teatro Apollo ed ebbe successo: il tenore Gaetano Fraschini e il baritono Leone Giraldoni cantarono in maniera eccellente. Ma Verdi ebbe lo stesso i suoi crucci. L’impresario, il notissimo Vincenzo Jacovacci, aveva lesinato sulla messa in scena, sulle voci femminili e su altro. Il maestro ne riferirà a Torelli in termini esilaranti (almeno per noi): «Quando andai in scena col Trovatore... non potei ottenere che due buoni cantanti, scarsissimi cori; cattiva orchestra, scenari e vestiari meschinissimi. Quando andai col Ballo... ebbi soltanto gli uomini buoni, il resto come nel Trovatore. Malgrado il successo io non potei a meno di non dirgli dopo la 3a recita: “Vedi! cane d’un Impresario se avessi avuto TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera un insieme buono quale successo”. Sapete voi cosa mi rispose? “Eh, Eh! ma cosa volete di più! Il teatro è pieno tutte le sere. L‘anno venturo troverò le donne buone, così l’opera sarà ancora nuova pel pubblico. Quest’anno una metà: l’altra metà più tardi!”». Per la prevista e non realizzata prima di Napoli, Verdi aveva consigliato una compagnia di canto che comprendeva tre nomi (come «in quell’urna...») senz’altro importanti: il soprano Rosina Penco nel ruolo di Amelia, il tenore Fraschini in quello di Riccardo, e il baritono Filippo Coletti come Renato. La Penco (35 anni) aveva cantato in modo meraviglioso nella prima del Trovatore a Roma (l’edizione Jacovacci!) il 19 gennaio 1853. Aveva una voce ricca, timbro soave e una tale facilità di emissione e tenuta che le permetteva di passare dal genere leggero a quello di forza, quest’ultimo proprio della parte di Amelia. Inoltre si investiva del personaggio con «sentimento, fuoco, abbandono», come diceva Verdi. Eppure, dopo essersi affermata cantante di taglio drammatico, già nel 1858 si dedicò in prevalenza al belcanto mozartiano-rossiniano, pur restando interprete molto acclamata nel repertorio della prima metà dell’Ottocento italiano. Amelia mancata a Napoli, la Penco avrà la sua rivalsa trionfale nel Ballo in maschera a Parigi, nel gennaio 1861, quando però, secondo Verdi, non era più la donna di prima: «ora vorrebbe cantare come si cantava trent’anni indietro ed io vorrei che ella potesse cantare come si canterà da qui a trent’anni». Queste parole, scritte nell’ottobre del 1858, lascerebbero supporre che il maestro, dopo averla proposta a Napoli, non era più entusiasta della Penco in quella parte. Gaetano Fraschini (42 anni) fu tenore prediletto da Verdi fra il 1845 e il 1860; prediletto per le eccellenti doti vocali e la serietà professionale, più che per il talento drammatico e interpretativo. Cantante di estrazione belliniana e donizettiana, Verdi ne sfrutterà in special modo il registro medioacuto più che le alte tessiture. Poteva inoltre affidargli sia una vocalità stentorea, smagliante, esplosiva, sia il gioco lieve, ricamato e scintillante: come richiede la parte di Riccardo, che appunto interpretò magnificamente a Roma. Quanto al baritono Coletti, 47 anni, figura imponente del teatro donizettiano, temperamento forte, intenso, dalle accensioni prodigiose, tonanti, fu soprattutto nell’Attila alla Fenice di Venezia del 1846 che rivelò la propria disposizione al canto verdiano. Cantò nel Ballo a Roma, al Teatro Apollo, nella stagione di carnevale 1860, ma apparve già in declino. Il suo collega, che lo precedette a Roma, come sappiamo, nella prima, fu appunto Giraldoni, 34 anni, reduce, nel repertorio verdiano, da una prima sfortunata del Simon Boccanegra alla Fenice veneziana nel 1857, dove si ammalò. A Roma nel Ballo fece un’ottima impressione, ma anche là purtroppo cadde ammalato e compromise le repliche. Nella storia dell’interpretazione egli occupò tuttavia un posto di alto rilievo e infatti si stabilì negli ultimi anni come professore di canto al Conservatorio di Mosca, lasciando anche un paio di trattati molto apprezzabili. La critica gli attribuisce una grande versatilità, una voce morbidissima e pastosa, un suggestivo fraseggio, una TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 59 Ballo in maschera capacità di scolpire e graduare gli stati d’animo (come scrive Eugenio Gara), che lo indicano come un Maurel avanti lettera. Sulle donne della prima romana, Eugenia Julienne-Dejean (Amelia), Zelinda Sbriscia (Ulrica) e Pamela Scotti (Oscar), non c’è molto da riferire, cioè non ebbero risalto, anche se i pareri sulla Julienne-Dejean non furono concordi. La «Gazzetta dei teatri» mette le cose su questo piano: «La Julienne-Dejean non fu minore della sua fama, e tutto sarebbe andato a gonfie vele, se il diavolo non ci avesse messa la sua coda: e stavolta le voci del diavolo le fecero due vezzose e gentili donnine, la Scotti Pamela e la Sbriscia...». Per colpa loro, precisa l’articolista, «non fu dato al pubblico romano di apprezzare nel suo giusto valore parte dell’opera di Verdi, e il pubblico romano tiene perciò loro il broncio, ne farà pace con esse se non quando il caso porgerà loro il destro di una onorevole riabilitazione». Secondo il foglio milanese Verdi aveva incontrato il gusto del pubblico con la sua musica, ma il libretto (che non portava il nome dell’autore, in quanto forse costui «fu certo preso da pudore, imperocché più abominevole impasto di scene di quel che si trova in cotesto libretto non può darsi»), il testo letterario dunque era «una vera profanazione in versi, che se il tempo ce lo avesse permesso, avremmo voluto analizzare per disteso, onde offrire al lettore un’idea del punto cui può giungere la stoltezza letteraria in fatto di libretti d’opera». Ampia recensione troviamo anche nel «Filodrammatico», settimanale romano «scientifico letterario artistico teatrale». Il critico Nicola Cecchi riporta anche giudizi altrui che, per un lettore di oggi, sono davvero spassosi, anche se non privi di un certo comprendonio, in quanto segnalano (con un po’ di fantasia, s’intende), l’evoluzione stilistica del maestro italiano. «Lasciamo da parte la sentenza di quelli che dissero assolutamente un capolavoro questa nuova partitura, e restino come un documento d’iperbole quelle esagerate corrispondenze che annunziarono il primo successo di Un ballo in maschera clamoroso ed entusiastico. Veniamo speditamente a considerare se è di positivo che Verdi in quest’ultima creazione artistica siasi intedescato, ed abbia tolto le sue ispirazioni dai geli del nord, come taluni ritengon per fermo, ovvero siasi mantenuto italiano artista, inspirato dal suo genio immortale, e commosso da passioni che ha sentito agitare dentro il suo cuore. Quelli che dicono esser lo stile di quest’opera stile tedesco, appoggiano la loro sentenza, al difetto di melodie, al non trovarsi qui decise e distinte le arie, le romanze, i duetti, i terzetti, ecc., l’essere amalgamate le tessiture de’ pezzi ai soverchi recitativi, e questi procedere per frasi trite, per idee incomplete, di poco rilievo e niente belle. Ma egli è poi vero che sia precisamente questo ciò che costituisce la caratteristica dello stile tedesco a differenza dello stile italiano? E l’uomo d’arte potrebbe sì di leggieri far violenza alla propria natura e cangiarsi di essenza? Chi appartiene alla razza greco latina potrà sì agevolmente adattarsi ad immaginare e sentire alla roggia dello slavo e del fiammingo?». Il lettore moderno ci scusi se gli abbiamo propinato questa costruzione un po’ datata e certe locuzioni che appartengono al buon tempo antico. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 61 62 L’abbiamo fatto con la più buona intenzione del mondo, appunto per mostrare un documento d’epoca, in cui peraltro il Cecchi, andando avanti nel suo ragionamento, viene a confutare quanti denigravano il lavoro con simili miopie. Certo che il linguaggio di Verdi era avanzato, e non poco, se già lo paragonavano a quello dei maestri tedeschi. Lo stesso discorso, badate, si era sentito anche prima, coi maestri della prima metà dell’Ottocento: quando si avvertiva nella musica un fare più sapiente, un qualcosa di manierato (e anche di pedante, se volete, o di noioso, ma sempre segno di grande savoir faire), oh allora tirava aria dal Nord, o dal Nord-Ovest (dalla Francia), aria di gente che la sapeva lunga al confronto dei nostri poveri operisti nazionali, dotati di intuito ma poveri di mestiere, poveri di erudizione, di conoscenza, di capacità meditativa, di informazione, in una parola poveri di cultura... Sono miserie, lo so, ma vanno tollerate, perché si sentono anche oggi: l’Italia, un paese di cultura vastissima e antichissima, è sempre stata una grande provincia. Dopo la morte di Verdi, la sua opera fu ancora più umiliata da queste idee esterofile, di «livello internazionale», come si dice a tutt’oggi nei salotti dei superinformati, i turisti della cultura. Verdi sarebbe stato tanto ingenuo da provarci ad aggiornare ed elevare il suo stile, ma non ci sarebbe riuscito: di qui lo smacco del contadino rifatto, con gravi lacune all’interno. Quindi per qualche tempo anche Un ballo in maschera mantenne quota grazie ai suoi pezzi più popolari, che naturalmente facevano la gioia, ed il successo, dei cantanti. Citiamo un paio di reperti storici che segnano (di vario segno) il cammino di Un ballo verso la sua lenta, ma infine completa riabilitazione, come opera nel suo complesso. Il primo vede in campo Arturo Toscanini, che mise in cartellone al Teatro alla Scala Un ballo in maschera nel marzo 1903, dopo molti anni di assenza (non veniva ripreso dall’ottobre del 1875). In una replica, il 14 aprile, alla fine del quintetto «E scherzo od è follia», si levarono dal pubblico richieste di bis: l’esecuzione era certamente degna del grande direttore e i fanatici del tenore Giovanni Zenatello ne approfittarono per valorizzare il loro beniamino. Toscanini però era contrario ai bis, che riteneva una moda deteriore da teatro-stadio, preoccupato soltanto di applaudire l’atletismo canoro, senza considerare minimamente il valore unitario dell’opera rappresentata. L’episodio di fanatismo indispettì il maestro Toscanini: già irritato per conto suo con la Scala, colse quel pretesto per abbandonare la recita, che fu continuata da altro direttore, e cancellare tutti gli altri impegni con il teatro milanese, dove rimetterà piede soltanto diciotto anni dopo. A parte la tempesta, che si addensò ed esplose per varie cause, l’episodio si deve rimarcare perché costituisce un esempio di correttezza professionale raro a quei tempi e raro anche oggi: come si deve considerare un’opera di teatro, come la si impone al di là di tutte le prevenzioni che ne limitano la portata del messaggio. Dobbiamo ricordare, per chi l’avesse dimenticato, o non lo sapesse per ovvi motivi di età, che senza alcun dubbio Un ballo in maschera è tornato sul piedistallo dell’alta qualità allorché gli appassionati, gli studiosi, i critici, i musicologi, anche gli addetti ai lavori voglio dire, poterono ascoltare, molti anni dopo quel 1903, l’edizione discografica che Toscanini aveva realizTEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera zato (o insomma permesso) negli Stati Uniti, un prodigio di esattezza, eleganza, destrezza e potenza melodrammatica. L’altro aneddoto ci porta al 30 novembre 1914, sempre alla Scala, allorquando venne eseguito soltanto il secondo atto dell’opera in uno spettacolo promosso dai giornalisti lombardi a beneficio dei profughi di guerra del Belgio. La serata comprendeva vari pezzi, tra cui l’atto del Ballo, protagonista maschile il tenore Alessandro Bonci, che nel già citato «E scherzo od è follia» inventò la celeberrima «risata», «un contrappunto vocale umoresco» per dirla con Gara, «quasi un gorgoglìo, una cascatella di minuscole risate e di ironici accenti, in cui l’indifferenza voluta del principe mascherava fino a un certo punto (ma non più di questo) l’interiore interrogativo dell’uomo. Uno straordinario e barocchetto pezzo di bravura che giovò - a suo modo - a riportare l’opera nella corrente viva del repertorio italiano. La risata di Bonci divenne infatti, per qualche anno, un pezzo assolutamente da sentire», conclude Gara con straordinario buon senso, e buon gusto: perché di questo si trattava, di buon gusto, in quanto la licenza di Bonci, seppure fosse una licenza, non tradiva gli intenti rigoristi di un Toscanini, per riportarci all’esempio precedente. Non li tradiva perché non tradiva il personaggio, il suo destino di uomo, anzi lo illuminava di quella grazia «enimmatica» che fiorisce dal Ballo. Nota a margine. Il re Gustavo III, durante un viaggio compiuto sul continente europeo tra il settembre 1783 e il luglio 1784, visitò anche Parma, dal 25 aprile al 1 maggio 1784. La sua passione per il teatro e per spettacoli d’ogni genere, fu ampiamente soddisfatta. Ogni giorno potè assistere a commedie, opere e concerti, oltre che a balli (magari non mascherati...), parate, esercitazioni, e perfino il lancio di un pallone aerostatico a Colorno. Il grande tipografo Bodoni stampò un bellissimo volume in omaggio, dove si esaltavano i meriti politici del monarca. Per gentile concessione del Teatro Regio, Città di Parma 63 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera Il soggetto Atto Primo Sala nella casa del governatore a Boston. Mentre si acclama l’operato di Riccardo, governatore del Massachusetts, Samuel e Tom, capi di un partito avverso, mormorano il loro dissenso e meditano di ucciderlo. Il paggio Oscar reca la lista degli invitati al ballo in maschera che il governatore ha deciso di dare. Nella lista si legge il nome di Amelia moglie del segretario e amico di Riccardo, di lei è innamorato il governatore, che non potendo manifestare i propri sentimenti, si abbandona al suo sogno d’amore. Allontanatisi tutti, Renato si accorge del turbamento di Riccardo, questi teme che l’amico gli abbia letto nell’animo il sentimento che lo tormenta, ma Renato si preoccupa solo per la vita del governatore: ha scoperto la congiura di Samuel e Tom contro di lui e crede che il turbamento di Riccardo sia dovuto a questo. Il governatore, rinfrancato dalla reale preoccupazione di Renato, non vuole conoscere il nome dei suoi nemici e si mostra sprezzante del pericolo. Renato lo ammonisce per tale generosità. Li raggiunge un giudice per sottoporre al governatore un bando contro la strega Ulrica, un’indovina «dell’immondo sangue dei negri». In difesa della donna interviene Oscar che ne esalta le doti divinatorie per chiederne l’assoluzione. Riccardo decide di invitare tutti i presenti a recarsi, sotto mentite spoglie, nell’antro della maga per osservare da vicino le sue arti. L’idea è bizzarra e divertente per tutti tranne che per Renato, preoccupato del pericolo a cui potrebbe esporsi il governatore. L’abituro dell’indovina. Ulrica, circondata dal popolo impaurito e affascinato, evoca lo spirito degli abissi. Giunge Riccardo, travestito da pescatore, che assiste, in disparte, all’arrivo del marinaio Silvano, a cui l’indovina predice una promozione e un premio in denaro per il suo valore e la sua fedeltà. Riccardo, divertito e per burla, lascia scivolare nella tasca del marinaio un foglio di promozione avverando la profezia di Ulrica. Annunciata da un servo entra Amelia, agitatissima chiede all’indovina di essere liberata da una passione amorosa che la tormenta. Ulrica le consiglia un’erba magica da raccogliere a mezzanotte nel campo dove si giustiziano i condannati a morte. Amelia, seppur terrorizzata, decide di recarsi nel luogo sinistro; ma Riccardo ora che ha saputo di essere amato,è pronto a seguirla. Irrompono, nell’antro dell’indovina Oscar, Samuel, Tom travestiti, insieme a tutto il seguito del governatore. Riccardo si decide a chiedere alla maga una predizione per il futuro, il responso è funesto: presto morrà per mano di un amico e l’uccisore sarà colui che per primo gli stringerà la mano. Il governatore cerca di esorcizzare l’atroce profezia, con ilarità e sarcasmo. Quando sopraggiunge il devotissimo Renato, che gli stringe calorosamente la mano tutti si rassicurano: l’oracolo ha mentito. Riccardo svela allora la sua vera identità e revoca il bando contro la strega mentre il popolo lo acclama. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 65 Atto secondo Campo solitario nei dintorni di Boston. Amelia è sconvolta: non sa decidersi a cogliere l’erba guaritrice che le cancellerà dal cuore ogni tormento e sentimento verso Riccardo, che sopraggiunge improvvisamente cercando di calmarla; i due innamorati si confidano il reciproco sentimento, ma anche il rimorso che avvertono per un sentimento colpevole. Sopraggiunge, inatteso, Renato che cerca l’amico governatore per salvarlo dai congiurati. La donna, che ha coperto il volto con un velo, esorta Riccardo a fuggire, mentre il governatore esita, rifiutandosi di andarsene senza di lei. Quando si determina ad allontanarsi affida la donna velata a Renato, con l’impegno che l’avrebbe condotta in città senza mai rivolgerle la parola o lo sguardo. Entrano i congiurati e trovano Renato al posto del governatore. Samuel dichiara di voler almeno vedere il viso della beltà che è riuscita a trascinare Renato fuori città e in un luogo così particolare. Renato si oppone e Amelia, vedendo il marito soccombere sotto i colpi dei congiurati, si getta in sua difesa ma perde il velo. Renato è stravolto. Amelia disperata. I congiurati sono divertiti dalla comicità dell’episodio. Il segretario del governatore decide di vendicarsi e invita Samuel e Tom a casa sua per l’indomani. 66 Alessandro Focosi, frontespizio dello spartito di Un ballo in maschera (National Library, Londra) TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Ballo in maschera Atto terzo Studio nell’abitazione di Renato. Renato annuncia ad Amelia ch’ella deve morire per lavare l’onta infamante, la donna chiede di poter riabbracciare ancora una volta il loro figlioletto. Renato comprende quindi che non deve colpire la donna, ma chi ha rotto un’antica e leale amicizia. Nell’incontro con i congiurati Renato si schiera dalla loro parte. Bisogna solo decidere chi assassinerà Riccardo: gettati i tre nomi di Samuel, Tom e Renato in un vaso, si dovrà tirare a sorte. Proprio Amelia viene incaricata dell’ingrato compito. La mano della donna estrae proprio il nome del marito che esulta dalla gioia perché la vendetta è prossima. In quel mentre giunge Oscar con gli inviti al ballo in maschera: la festa si rivela occasione ideale per compiere l’assassinio. Studio del governatore. Riccardo ha firmato un decreto di trasferimento per Renato, nell’intento che la sua sposa lo seguirà in quanto ha preso la dolorosa decisione di non rivedere più Amelia. Ma il ricordo dell’amata non lo abbandona. Risuona la musica della festa da ballo già cominciata; entra quindi Oscar per consegnare un biglietto in cui si avverte Riccardo di non andare alla festa: qualcuno attenterà alla sua vita. Per non mostrarsi vile di fronte al pericolo, ma ancora di più per rivedere per l’ultima volta Amelia, il governatore decide di recarsi alla festa. Sala da ballo nella casa del governatore. In una moltitudine di invitati la festa è in pieno svolgimento fra musiche e danze, Renato cerca di farsi dire da Oscar il costume del governatore, il paggio rivela a Renato l’identità di Riccardo. Frattanto Amelia che ha riconosciuto Riccardo lo supplica di salvarsi. Egli la informa che ha disposto per lei e il marito il trasferimento in Inghilterra e che questo è il loro addio. Ma sopraggiunge Renato che pugnala Riccardo tra lo sgomento dei presenti. Prima di morire, il governatore discolpa Amelia e perdona tutti. 67 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Edizioni G. Ricordi & C., Milano Prima rappresentazione: Milano, Teatro alla Scala, 17 febbraio 1904 Personaggi e interpreti Cio-Cio-San Suzuki Kate F. B. Pinkerton Goro Sharpless Principe Yamadori Zio Bonzo Commissario Imperiale Direttore d’Orchestra Regia Maestro del Coro Scene e Costumi Maria Pia Ionata Anna Schiatti Gabriella Grasso Alfredo Portilla Alessandro Cosentino Dario Solari Leonardo Galeazzi Antonio Mameli Angelo Nardinocchi Guillaume Tourniaire Giuseppe Finzi (11 dicembre) Italo Nunziata Bruno Tirotta Luigi de’Navasques Madama Butterfly Tragedia giapponese in tre atti Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica (dal dramma di D. Belasco tratto da un racconto di J. L. Long) Musica di Giacomo Puccini Associazione Orchestra della Provincia di Catanzaro “la Grecìa” Coro “F. Cilea” Light designer Patrick Latronica Nuovo allestimento del Teatro “Politeama” di Catanzaro in coproduzione con i Teatri “F. Cilea” di Reggio Calabria e “A. Rendano” di Cosenza Venerdì 9 dicembre 2005 ore 20.30 - Turno “A” Domenica 11 dicembre 2005 ore 17.00 - Turno “B” 69 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 70 Frontespizio libretto Madama Butterfly TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA di Arthur Groos* Madama Butterfly Madama Butterfly fra commedia e tragedia II problema posto dalle celebrazioni di un centenario è che chiunque abbia qualcosa da dire sull’argomento lo fa, così come chiunque altro. Il risultato è che spesso tali occasioni segnano l’inizio di una nuova fase della ricerca, fase la cui direzione e significato ci apparirà chiaramente solo dopo che la retorica celebrativa si è calmata e gli atti delle conferenze sono finalmente dati alle stampe. Nessun’opera di Puccini potrebbe sembrare più adatta di Madama Butterfly, a cogliere questa possibilità in occasione del suo centenario. In verità la ricerca pucciniana in generale è enormemente cambiata già dopo la recente pubblicazione delle monografie di Girardi e Budden e del catalogo critico di Schickiling,(1) e nuove fonti primarie continuano ad emergere con frequenza sorprendente,(2) anche se purtroppo fonti importantissime conservate a Torre del Lago rimangono tuttora inaccessibili alla ricerca scientifica. Una sintesi della ricerca contemporanea sarà possibile solo dopo che avremo avuto il tempo di riflettere su questa abbondanza di materiale nuovo e di assimilare gli spunti che emergeranno da questo centenario. Di conseguenza sfrutterò l’occasione offertami in questa sede per proporre una lettura diversa di quest’opera così familiare: una lettura provocatoria che vuole indurre i lettori ad ascoltarla in maniera che spero sia inaspettata e sorprendente. Vorrei proporre di leggere il soggetto orientaleggiante di Madama Butterfly, cioè il conflitto culturale fra Est e Ovest, alla luce del suo potenziale come commedia, un registro di genere che ebbe un ruolo fondamentale nel corso di tutta la genesi dell’opera, a partire dalla prima ideazione fino alla disastrosa prima scaligera. Ma con un argomento simile bisogna cominciare dall’inizio. I Il 21 giugno del 1900,(3) al Duke of York’s Theatre di Londra, Puccini scoprì Madame Butterfly, un dramma in un atto di David Belasco rappresentato come postludio a Miss Hobbs, una commedia in quattro atti di Jerome K. Jerome. Belasco, invece di accettare l’offerta eccezionale di £100 per cedere i diritti d’autore del dramma, avanzò richieste sui proventi della futura opera, bloccando le trattative e costringendo Puccini ad esplorare altre possibilità.(4) Il 20 novembre 1900 il compositore scrisse al suo editore Giulio Ricordi che stava pensando di usare la storia originale di John Luther Long invece del dramma, con l’intento di espandere l’opera da uno a due atti, uno ambientato in America e l’altro in Giappone:(5) Io dispero e mi torturo l’anima... almeno arrivasse la risposta da New York! Quanto più penso alla Butterfly, sempre più mi ci appassiono. Ah! l’avessi qui con me per lavorarmela! Penso che invece di un atto se ne potrebbero fare due e belli lunghi. Il primo nel Nord America - e il secondo al Giappone. Illica dal romanzo poi troverebbe certamente quanto occorre. Questa lettera dunque rivela due fatti importanti sugli inizi di Madama TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 71 72 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Giacomo Puccini Madama Butterfly Butterfly: Puccini non aveva letto il racconto di Long, completamente ambientato in Giappone, e originariamente concepì l’opera in termini di ambientazioni contrastanti - America e Giappone, Ovest ed Est. Naturalmente tale concezione del materiale in termini di opposizione orientaleggiante non è inusuale in un contesto come quello dell’Europa tardo-coloniale, né è insolito che Puccini volesse varietà di ambientazione e quindi anche musicale.(6) Ciò che è invece davvero sorprendente, e che l’entusiasmo per il dramma di Belasco manifestato dal compositore nel corso di questa iniziale corrispondenza con Illica non fosse basato tanto sul potenziale tragico del dramma - nonostante il sottotitolo «a Japanese tragedy» - quanto piuttosto sul suo impatto come «commedia»:(7) Però ritengo sia necessario avere il copione della commedia - là ci sono delle cose che vanno bene - Per Es: II Signore Giapponese [Yamadori] che tenta Cio-Cio-San è cambiato in miliardajo debosciato americano. Questo cambiamento è tutto a vantaggio dell’elemento così detto europeo, di cui abbiamo così bisogno. Ovviamente il termine «commedia» può significare semplicemente «dramma», oltre che commedia. Però il contesto di questa lettera rivela l’importanza di un tema comico sin dalle prime fasi della genesi dell’opera: l’incontro di Occidente e Oriente assume veste comica nel contesto dell’ansietà di fine secolo riguardo mescolanze di culture e razze diverse, e, più precisamente, riguardo la premessa che culture e razze inferiori siano incapaci di assimilare usi e costumi occidentali, e quindi non possano che imitarli, di solito in maniera scorretta e quindi comica. Teorie tardo-ottocentesche del comico includono questi temi nella categoria del bizzarro.(8) Nella versione iniziale del libretto di Luigi Illica, lo stesso Pinkerton descrive il matrimonio come bizzarro, definendo se stesso uno Yankee e riducendo Butterfly alla veste che indossa, quasi fosse solo una componente del colore locale:(9) Ah! La più strana è questa di mie giornate! Vivo... nell’altro mondo! Che bizzarra pariglia un yankee ed... una vesta! Sebbene il comportamento maleducato di Pinkerton venga poi smorzato durante la genesi dell’opera, le didascalie sceniche del libretto a stampa confermano che l’entrata in scena dei parenti Giapponesi era vista come un bizzarro incontro di culture:(10) «Pinkerton ha preso sottobraccio Sharpless e, condottalo da un lato, gli fa osservare il bizzarro gruppo dei parenti». In questo contesto è particolarmente significativo che, scrivendo a Illica e a Giacosa, Puccini si riferisca al testo di Belasco chiamandolo sempre una «commedia», ad eccezione di quando vuole distinguerlo, come «dramma», dal «prologo» di Illica basato sul «racconto» originale di John Luther Long.(11) Ma l’esempio più lampante di questa attenzione per l’aspetto comico e orientaleggiante è costituito dalla caratterizzazione di Yamadori, il personaggio non menzionato direttamente per nome nella lettera a Illica TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 73 Madama Butterfly citata sopra: egli è un depravato non solo in quanto bigamo recidivo, ma soprattutto a causa della sua degenerata imitazione del comportamento Europeo. Nel primo schizzo del libretto, scritto da Illica nel 1901, entra in scena vestito in abiti occidentali, in contrasto con il «vestito nazionale» della sua servitù, e si comporta in maniera comicamente esagerata, con una stretta di mano fin troppo energica e l’ammiccante esibizione all’occidentale di sintomi patetici amorosi, che indurranno poi Butterfly a definirlo «spasimante»: (12) Yamadori entra con grande imponenza, vestito all’europea e con modi e maniere del gran mondo; dà una poderosa stretta di mano a Sharpless, da persone che si conoscono, e un graziosissirno inchino a Butterfly pieno di sottintesi negli occhi «patiti» e la mano sul cuore. I servi suoi, giapponesi, in vestito nazionale, depongono i fiori con inchini uno più terra terra dell’altro e si mirano nel fondo. Nella prima versione del libretto ci sono altri due personaggi che sono ugualmente marcati da questo elemento comico: il primo è Goro, il cui ruolo di mezzano del turismo sessuale occidentale è reso visivamente dal costume, con la strana combinazione di cilindro e abito giapponese. Il secondo personaggio, molto più complesso nella sua patologia, è la stessa Cio-Clo-San, la cui tragedia verrà definita anche in termini comici, a partire dall’incrollabile illusione di essere sposata a Pinkerton, fino ai goffi tentativi di comportarsi come una moglie occidentale. Ovviamente Madama Butterfly come ci è pervenuta oggi non è suddivisa in atti secondo l’alternanza Est-Ovest originariamente proposta da Puccini, ne, come suggerisce il sottotitolo «tragedia giapponese» ereditato da Belasco, è principalmente una commedia, Illica però, non avendo sufficiente materiale per un atto autonomo ambientato in America, realizzò entrambi i temi nella prima versione del libretto in maniera meno ovvia: usò la storia per costruire un «prologo» ambientato in Giappone, presentando gli Americani e poi i Giapponesi in entrate successive. In questa prima versione Sharpless e Pinkerton sono ritratti da Illica in maniera assai più gioviale e comica che nella revisione finale di Giacosa.(13) I due scherzano a proposito del Giappone e del ‘matrimonio giapponese’ di Pinkerton con un’ilarità prescritta dalle frequenti didascalie sceniche, quali ‹‹ridendo›› e ‹‹comicamente››. Le numerose scene giapponesi che seguono tendono a trasformarsi in commedia di maniera: il battibecco dei parenti di Butterfly sulle sorti del matrimonio, la madre ghiotta e il giovane delinquente Riso, lo zio ubriacone. La didascalia riguardante la genuflessione di Butterfly e delle sue amiche appena entrano in scena intende chiaramente generare effetti coreografici ispirati all’operetta: «Gli ombrelli d’incanto si chiudono e Butterfly e le amiche eseguiscono una grande reverenza composta ed esatta come un esercizio militare».(14) Sembra quasi che sia Pinkerton ad aver architettato quest’elaborata sceneggiata giapponese - come ha fatto con il finto matrimonio - per puro intrattenimento personale; e infatti, non appena arrivano gli invitati alle nozze, si siede «comodamente sulla sua sedia americana come persona che assiste ad uno spettacolo».(15) Una volta ultimato il prologo, Illica abbozzò un secondo atto contenente scene che alternavano ambientazioni occidentali e orientali: la scena centrale era ambientata presso il Consolato americano nel quartiere TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 75 europeo di Nagasaki, mettendo in evidenza soprattutto il potenziale per la messinscena di quella che può ritenersi la commedia più importante di tutte: l’incapacità di Butterfly di interpretare e reagire ai segni estranei del codice culturale occidentale:(16) E debbo dirle (cosa che mi pare buonissima nella seconda parte) che il Console abita una villa europea nel terreno detto «Concessione europea». Così i tre quadri della seconda parte vengono ad acquistare gran varietà. 1) La casetta di Butterfly - 2) La villa del Console - 3) La casetta di Butterfly. Noti che si può cavar profitto appunto dalla villa arredata all’europea per alcuni piccoli dettagli all’imbarazzo di Farfalla, ecc... ecc... Il quadro presso la villa del Console concepito da Illica alla fine acquisì una funzione diversa, con l’aggiunta di un gruppo di geishe che siedono a gambe incrociate sui sofà o fraintendono il significato dell’aquila americana e della statua della libertà, a dimostrare piuttosto un’ignoranza collettiva della cultura occidentale.(17) Questo parallelismo con l’eroina fu forse introdotto perché Illica aveva già fatto ampio uso di numerosi «piccoli dettagli all’imbarazzo di Farfalla» nel corso delle scene precedenti con Sharpless e Yamadori. Prima di passare a queste scene, può essere utile considerare il significato di questo tipo di commedia nell’ambito di un’opera concepita come «tragedia giapponese». 76 II A causa della doppia paternità - lo schizzo di Illica e la revisione di Giacosa - il libretto offre due possibili interpretazioni. Possiamo illustrare queste due possibilità tramite due immagini associate ai nomi Butterfly e CioCio-San («Chô» significa «farfalla» in Giapponese), ognuno dei quali fa riferimento all’infelice destino della protagonista. Nella prima immagine, Butterfly ansiosamente interrompe il suo duetto d’amore con Pinkerton chiedendo se è vero «che oltre mare/ se cade in man dell’uom, / ogni farfalla da uno spillo è trafitta / ed in tavola infitta!». Nella seconda, quando l’eroina poco prima di morire cade a terra svenuta, Suzuki entra frettolosamente per aiutarla, e commenta che le ali del suo cuore battono «come una mosca prigioniera». L’immagine di una farfalla fissata da uno spillo su una tavoletta, che proviene dalla versione di Illica, suggerisce che CioCio-San è la vittima di una forza estranea (d’«oltre mare») che distrugge un’intera categoria di esseri viventi («ogni farfalla»). D’altra parte invece la similitudine della mosca prigioniera proveniente dalla revisione di Giacosa, per quanto possa sembrare sgradevole nel declassare un lepidottero a fastidioso insetto casalingo, almeno garantisce alla mosca un minimo di autonomia, anche se non può scappare. E infatti la questione se Butterfy sia una vittima passiva o un’eroina attiva pervade l’intera opera. Come ho suggerito prima, nella prima versione del libretto Illica mette in primo piano i «piccoli dettagli all’imbarazzo di Farfalla», e la rappresenta come vittima dell’inganno di Pinkerton, enfatizzando la sua incapacità di comportarsi come una moglie occidentale. Ma fu Giacosa ad occuparsi della versificazionedellesezionipiùimportanti,che,inquanto‘pezziforti’,tradizionalmente TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Madama Butterfly costituivano gli apici emotivi di un’opera, presupponendo una certa profondità di sentimenti, e cioè proprio quella concezione eminentemente occidentale del personaggio che Illica aveva generalmente negato a Cio-Cio-San. In breve: la versione di Illica limitava drasticamente il personaggio di CioCio-San in quanto giapponese, creando l’opportunità per un trattamento comico della parte, mentre invece la revisione di Giacosa richiedeva alla protagonista l’intensità e complessità Giuseppe Giacosa emotiva tipica di un’eroina dell’opera o c c i d e n t a l e . In questo senso, dunque, la compresenza nell’opera di commedia e tragedia riflette la concezione dei due librettisti come i due lati di una medaglia. Invece che puntare alla fusione dei due registri, l’opera li articola in un irresolubile conflitto. Questa concezione binaria del dramma creò problemi di ordine musicale per l’entrata e prima aria dell’eroina, e perciò non c’è da stupirsi se l’entrata di Cio-Cio-San è accompagnata da una successione di tre distinti tipi di musica. Quando Pinkerton chiude la conversazione con Sharpless con un brindisi alle «vere nozze» future con una «vera sposa americana», la musica passa bruscamente al metro 2/4 tipico di trascrizioni occidentali di musica giapponese, mentre Coro argutamente annuncia l’arrivo di un «femmineo sciame» sulla melodia di «Echigo jishi», uno dei più famosi brani del repertorio koto (I 37).(18) La seconda parte si concentra sulla voce fuori scena di Cio-Cio-San, una manifestazione dell’interiorità dell’eroina che commuove profondamente Sharpless («Di sua voce il mistero l’anima mi colpì»), accompagnata da una serie di triadi aumentate che investono il personaggio di una intensità emotiva degna di Debussy (I 39). Poi, quando il corteo arriva e Butterfly conclude con l’evocazione del «richiamo d’amore», fiati, campane e arpa annunciano l’eroina con una terza TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 77 78 melodia (I 41/1-5), derivata da una melodia giapponese che pervenì a Puccini tramite una fonte francese nel 1902.(19) Questa presentazione di Butterfly in tre fasi - come genericamente giapponese, poi come voce fuoriscena provvista di un’interiorità tipica di un personaggio occidentale, e infine come corpo visibile accompagnato da una sua melodia «giapponese» orchestrata all’orientale - non conduce tuttavia ad un’aria. Butterfly viene invece caratterizzata semplicemente da come risponde alle domande del console americano e poi di Pinkerton. Questa limitazione delle possibilità espressive del personaggio sembra emanare proprio dalla cultura giapponese e dall’enfasi che questa pone sull’identità di gruppo. Quando il console le chiede del padre, Butterfly stupita risponde «(secco, secco)» con un «Morto!», seguito da un silenzio imbarazzato accompagnato solo da alcune battute dell’orchestra che introduce in piano un’altra melodia giapponese (I 49/3-8). Questa melodia (erroneamente identificata come «Ume no haru», un brano koto del primo Ottocento) è particolarmente significativa, poiché mette in rilievo l’importanza del patriarcato e della religione. Inoltre questo momento suggerisce l’enorme difficoltà sottesa all’intenzione della protagonista di trasformarsi da Madama Butterfly in Signora Pinkerton. È proprio la religione, l’ultimo argomento trattato durante il dialogo con Pinkerton, che costituisce il punto di partenza per quello che Butterfly chiama la sua «nuova vita». Dalla maniera in cui l’eroina racconta della sua visita alla Missione traspare la convinzione che solo la conversione potrebbe fornirle le basi per acquisire una nuova identità etnica. Il desiderio di costruirsi un’identità occidentale culmina nel suo primo tentativo di esprimersi nella forma di un’aria vera e propria (I 80/1 e seguenti): Io seguo il mio destino e piena d’umiltà al Dio del signor Pinkerton m’inchino. È mio destino. Nella stessa chiesetta in ginocchio con voi Pregherò lo stesso Dio. E per farvi contento potrò forse obliar la gente mia... Amore mio! La musica dell’aria inizia in La maggiore, e, recuperando la melodia giapponese che era stata associata a Butterfly alla fine della sua entrata in scena, mette in evidenza il tentativo della protagonista di costruirsi un’identità, mentre, allo stesso tempo, suggerisce la presenza sotterranea di forti emozioni con i rapidi arpeggi di arpa e fiati accompagnati dagli archi in dolcissimo. Non appena Butterfly risponde finalmente all’invito di Pinkerton («Vieni, amor mio!») con un «Amore mio!» che si muove verso una cadenza su un La acuto, la musica si oscura scivolando in La minore, quando subito l’altra melodia giapponese, la pseudo-«Ume no haru», esplode in fortissimo, mentre Butterfly ‹‹si arresta come se avesse paura d’essere stata udita dai parenti›. Che l’aspirazione di Butterfly di trasformarsi in una moglie americana TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Madama Butterfly si traduca in un’aria mancata e interrotta illustra non solo come l’opera sia implicitamente imbastita sul conflitto Ovest-Est, ma soprattutto come tale conflitto sia combattuto prima di tutto nella mente della stessa CioCio-San. La ricorrenza della melodia pseudo-«Ume no haru» suggerisce che il suo essere essenzialmente una donna giapponese, soggetta a norme patriarcali e religiose, interferirà, o addirittura le precluderà la possibilità di diventare la moglie americana di Pinkerton. Nonostante il bruciante desiderio di liberarsi della sua etnicità e di costruirsi una nuova esistenza come Signora Pinkerton, Cio-Cio-San è destinata a rimanere ineluttabilmente la figlia di suo padre, ineluttabilmente giapponese, ineluttabilmente Butterfly. Questa è la tragedia di Cio-Cio-San. Ma c’è l’altro lato della medaglia. In uno dei più importanti riferimenti prettamente musicali al pathos comico di una simile situazione, Puccini sembra non voler prendere sul serio la convinzione di Cio-Cio-San di essersi trasformata in una moglie americana dopo la cerimonia di nozze. Subito dopo il matrimonio, infatti, lei corregge le amiche che si congratulano chiarendo che devono rivolgersi a lei non più come «Madama Butterfly» ma come «Madama F. B. Pinkerton». Ma proprio a questo punto l’orchestra introduce le felicitazioni delle amiche con una melodia giapponese («O Edo Nihon bashi»), e poi contraddice l’insistere di lei che ora è americana ripetendo la stessa melodia giapponese, che quindi suggerisce che lo «pseudo sposalizio» non l’ha affatto cambiata (I 87/1 e seguenti). Cio-Cio-San esiste in una terra di nessuno, letteralmente in uno spazio inter-nazionale fra Est e Ovest: è definita come essenzialmente giapponese, ma è anche privata di un’identità etnica dall’ostracismo dei parenti; figura insieme comica e patetica, Cio-Cio-San desidera costruirsi un’identità americana come Signora Pinkerton, ma resta in fondo incapace di conseguire tale meta illusoria. III Gli episodi iniziali del secondo atto confermano e sviluppano le premesse stabilite dal primo atto, poiché mettono in rilievo l’incapacità della protagonista di tramutarsi in una signora occidentale ben integrata, con una serie di quei «piccoli dettagli all’imbarazzo di Farfalla» che Illica aveva promesso all’inizio della genesi dell’opera. L’atto comincia in media res con un’umoristica parodia della religione giapponese: mentre Suzuki insiste a chiedere l’aiuto di divinità giapponesi con un pregare così incessante che le dà il mal di testa, Butterfly prende le distanze da quello che ritiene uno sforzo inutile. Pur non essendosi convertita, si pone sin dall’inizio in posizione intermedia rispetto alle divinità orientali e occidentali, così che da una parte dichiara che «pigri e obesi / son gli dei giapponesi», mentre dall’altra accusa la più efficiente controparte americana di aver trascurato di prender nota del suo nuovo indirizzo: «ma temo ch’egli ignori / che noi stiam qui di casa». Puccini invece dà a questa opposizione un taglio leggermente diverso, passando dall’ostinato che accompagna la preghiera di Suzuki, col suo accordo pentatonico orientaleggiante, alle settime diminuite tristaneggianti, che TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 79 Madama Butterfly suggeriscono il marcato desiderio occidentale di Butterfly. Sfortunatamente, comportarsi da brava casalinga americana sembra essere ben al di là delle capacità di Cio-Cio-San, come viene impietosamente rivelato dai dettagli imbarazzanti durante la conversazione con Sharpless. Dopo aver corretto anche il console - non «Madama Butterfly» ma «Madama Pinkerton» -, di nuovo preceduta dalla melodia giapponese «O edo nihon bashi», lo accoglie in quella che definisce una «casa americana», ma la finzione viene subito svelata come tale quando Sharpless si lascia cadere «grottescamente» su un cuscino, visto che non ci sono mobili occidentali su cui può sedersi. Poi inizia la conversazione chiedendogli, alla maniera giapponese, «Avi - antenati / tutti bene?», e dopo aver acceso una pipa che lui rifiuta, si ricorda delle vecchie sigarette americane lasciate da Pinkerton. La pipa è definita, sia dallo spartito per la versione della Scala che da quello per Brescia, come «pipa dell’oppio», descrizione che, pur non invitandoci necessariamente a considerare Cio-Cio-San una drogata, mette in rilievo la sua ignoranza culturale. Nonostante il tono leggero di questa scena, lo scambio con Sharpless ribadisce sia l’immutata etnicità della protagonista, che il pregiudizio occidentale con cui viene descritta l’interiorità razziale ed etnica già accennata nel primo atto. L’acculturazione di Cio-Cio-San non farà alcun progresso al di là di una comica mescolanza di costumi giapponesi e americani. Puccini sottolinea la qualità essenzialmente «orientale» della conversazione di Cio-Cio-San con la citazione di «Miya-sama», forse la melodia giapponese più nota grazie alla sua inclusione nel Mikado di Gilbert e Sullivan (1885). Un simile riferimento, accentuato dalla natura di per sé ripetitiva della melodia, conferisce a «Miya-sama» un sottofondo comico che ne fa il perfetto accompagnamento prima al faux pas della pipa (II 20/6 e seguenti), e poi alla scena in cui, mentre Suzuki prepara il tè, l’eroina inaspettatamente si informa sulle abitudini nidificatorie dei pettirossi (II 22). Vedendo che Sharpless è visibilmente «stupito» alla domanda inaspettata, spiega che: Mio marito m’ha promesso di ritornar nella stagion beata che il pettirosso rifà la nidiata. Qui l’ha rifatta per ben tre volte, ma può darsi che di là usi nidiar men spesso. Nel frattempo Goro compare e «fa una risata» (II 24/9): un gesto sarcastico di un maschio parzialmente occidentalizzato che crudelmente sottolinea come la donna-bambina giapponese sia incapace di fare generalizzazioni riguardo il mondo esterno o di concepire concetti astratti. Il tatto che anche Yamadori sia fatto entrare ed uscire di scena al suono di «Miya-sama» (II 28 e 39) implica una qualche somiglianza o legame fra i due personaggi. Ho proposto prima la possibilità che il fascino che Yamadori - quel «miliardajo debosciato americano» nella lettera a Illica dell’11 marzo 1901- esercita su Puccini, abbia a che fare con un’attrazione TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 81 orientaleggiante per questioni di assimilazione e degenerazione. Secondo le didascalie sceniche del libretto per la prima alla Scala, che qui seguono la bozza iniziale di Illica, il personaggio rende questa sua ibridità con una mescolanza di esagerate maniere occidentali e abitudini giapponesi. «Miya-sama» perciò mette in relazione Butterfly e Yamadori in quanto sono entrambi parzialmente occidentalizzati e imitano scorrettamente costumi occidentali. In questo senso i due sono una bizzarra coppia ideale, e la penosa comicità di questa scena deriva in parte dal fatto che Butterfly rifiuta un pretendente che è l’immagine speculare della sua distorta imitazione della fedeltà coniugale occidentale. Yamadori, che ha sposato molte mogli ed è divorziato da tutte, secondo la moda giapponese, corteggia Cio-Cio-San con la promessa di esserle fedele (cioè di sposarla secondo precetti occidentali), e ciò non solo accentua l’aspetto di commedia di maniera, ma soprattutto solleva una questione fondamentale. La scena è incorniciata da musica languorosamente tristanesca, a partire dal saluto di Butterfly (II 29) fino all’uscita di scena di Yamadori (II 40), e il dialogo è presentato come un’imitazione giapponese di un tipico discorso amoroso occidentale. I ripetuti sospiri languidi di Yamadori fondono passione romantica con matrimonio, una mescolanza resa ancora più comica dalla messinscena giapponese, la cui involontaria imitazione di un salotto europeo è sottolineata a sua volta dalla musica, che accompagna Suzuki che versa il tè con un valzer (Molto moderato quasi Valzer lentissimo - II 36/5 e seguenti). Inoltre la profferta di «fede costante» di Yamadori finisce per costituire una sorta di parodia prolettica della fine dell’opera: la finzione amorosa un po’ svenevole e la minaccia di suicidio di Yamadori si riflettono nella fede cieca di Butterfly, e ironicamente ne anticipano la morte con sentimentali ottonari a rima alternata: Yamadori, ancor... le pene dell’amor non v’han deluso? Vi tagliate ancor le vene se il mio bacio vi ricuso? 82 IV La commedia all’inizio dell’atto secondo sembra quindi preannunciare la triste sorte della vita come Signora Pinkerton sognata dall’eroina nell’atto primo. Ovviamente il pessimismo sotteso a questioni di religione, istituzioni legali (il «bravo giudice») ed etnicità è solo un aspetto del dramma. E infatti quello stesso determinismo su cui si fondano queste scene, e che culmina nelle implicazioni razziali niente affatto comiche associate al figlio Dolore, va poi a costituire il contesto in cui Cio-Cio-San lotta per sfuggire alla prigione dell’orientalismo. Gli episodi più significativi dall’atto secondo in poi — «Un bel dì», «Che tua madre», e la scena del suicidio - sembrano organizzati in una concatenazione di momenti culminanti, che passano dal registro comico di Illica, quello della impossibile assimilazione, alla vigorosa tragedia domestica di Giacosa, che dovrebbe essere inclusa in un resoconto completo della versione pucciniana. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Madama Butterfly Nonostante la maggior parte delle interpretazioni dell’opera comunemente privilegino proprio questi momenti, penso sia più interessante a questo punto chiedersi se gli stessi Illica, Giacosa e Puccini siano riusciti a sfuggire la prigione dell’orientalismo in cui hanno rinchiuso la loro eroina, trovandosi quindi anch’essi intrappolati fra commedia e tragedia, o se invece l’opera Madama Butterfly riesca piuttosto a creare un dialogo in senso bakhtiniano fra i due generi, diventando cioè una vera e propria tragicommedia. Sembrano esserci due modi per realizzare questo dialogo: o con l’alternanza di commedia e tragedia, o con la progressione dall’una all’altra. Ed infatti gli autori tennero in considerazione entrambe le opzioni fino quasi alla fine del processo di gestazione dell’opera. La penultima versione del libretto, preparata da Giacosa ed ora conservata presso l’Archivio Giacosa di Colleretto, alla fine dell’opera assegnava a Butterfly un tono di tagliente ironia, che funziona come un finale recupero comico dell’ordine morale, come è ben illustrato dal commento di lei in punto di morte: «tardi sei giunto!» (proprio una battuta da sitcom: «You’re late!››. Però poi Giacosa eliminò la battuta, e assegnò l’ultima parola dell’opera a Pinkerton, le cui grida cariche di rimorso - «Butterfly! Butterfly! Butterfly!» - collegano retrospettivamente la tragedia di Cio-Cio-San, e la teleologia della colpa, alla commedia del suo iniziale inganno. Inoltre il parallelismo accuratamente costruito dalla partitura per la Scala mette senz’alcun dubbio in relazione la commedia dell’atto primo con la tragedia del secondo. Entrambi gli atti, infatti, iniziano con un fugato e conversazione fra personaggi dello stesso sesso, a cui segue un’aria nella stessa tonalità e metro (Sol bemolle maggiore in 3/4). Se in «Dovunque al mondo» Pinkerton si presenta come uno sbadato avventuriero, capacissimo di cimentarsi in uno ‘pseudo sposalizio’, in «Un bel dì» Butterfly pagherà le conseguenze dell’inganno di lui. Il risultato naturalmente è che questa commedia spesso penosa si trasforma alla fine in tragedia; per parafrasare la fine del secondo atto del Ballo in maschera: «ve’: la commedia mutò in tragedia». Non c’è da sorprendersi, dunque, se le recensioni della prima assoluta esaminano anche il problema dei generi nel tentativo di spiegare il fiasco alla Scala. Solo «Il tempo», però, si avventura a tracciare una connessione tra il fiasco e la mescolanza di comico e tragico della partitura di Puccini: Puccini si è innamorato del dramma intimo e doloroso dell’ingenua giapponesina fidente nella sua incoscienza in una commedia matrimoniale e ha accarezzato quella figurina femminile, semplice fiore esotico, colla grazia elegante dei suoni e ci si è soffermato... troppo, confondendola nel lavoro di concezione colle sue sorelle di sventura e di morte. (18 febbraio) Altre recensioni invece rivelano con chiarezza che il pubblico era stato colto di sorpresa dalla sequenza di scene esotiche del primo atto, sequenza che sembrava presa di peso «dalla coreografia e dall’operetta» («Il tempo»). Alcune recensioni, come per esempio quella di Achille Tedeschi sulla «Rivista teatrale», arrivano persino a notare che il personaggio di Butterfly «si smarrisce troppo nel frastuono di una sfilata da operetta, a cui il musicista non sa trovare un espressione comica abbastanza comunicativa» (28 febbraio). Giovanni TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 83 Pozzi scrive un lungo resoconto sul «Corriere della Sera» soffermandosi in particolare sul fin troppo dettagliato atto primo, che a suo parere presenta una ricchezza di episodi pari alla commedia del teatro di prosa: Ma è pur anche necessario che al maestro si sia fatta palese la necessità di molte e coraggiose abbreviature. Lo sviluppo dell’azione indugia in troppi minuti particolari, più adatti all’indole della commedia recitata, che a quella di una commedia lirica; ed è reso anche più lento che veramente non sia dal modo col quale il maestro lo ha accompagnato colla musica. A una azione episodica non può corrispondere che una forma musicale aderente alla parola, come è quella di Falstaff. La forma sintetica della melodia completa non poteva rendere in alcun modo il rapido succedersi e mutarsi delle sensazioni e dei sentimenti nell’anima infantile di Butterfly. Così, nonostante l’ingegnoso ripetere di certi temi espressivi e l’uso sapiente dei timbri istrumentali, la musica del primo atto, non sostenuta dalla rapidità e dalla violenza di una azione drammatica, riuscì in qualche punto inutilmente ripetuta e prolissa. Alcuni episodi dell’atto possono essere tolti e abbreviati senza recar danno alla chiarezza e alla continuità della commedia. Perché non si dovrebbe sacrificarli all’effetto generale, alle giuste proporzioni dell’atto? 84 Generalmente, però, la stampa sembra occuparsi più di altri elementi, e specialmente dell’ostinata resistenza del pubblico a quello che a molti sembrava una semplice ripetizione di successi pucciniani precedenti.(20) Vista l’iniziale disapprovazione dell’ambiguità di genere di Madama Butterfly, non c’è da stupirsi se nel rivedere l’opera per la seconda rappresentazione a Brescia Puccini apportò anche tagli sostanziali proprio a quei passi del primo atto che potevano essere definiti ‘comici’ (all’incirca un centinaio delle 130 battute complessive), come lo scambio di inchini fra Pinkerton e i funzionari Giapponesi (I 65-68 [spartito della versione per la Scala]) e la canzone di Yakusidé (I 103/6-109).(21) Questi tagli eliminarono gli elementi più clamorosamente orientaleggianti della commedia, ma mancarono però di risolvere il problema di genere e di conseguenza anche le implicite connotazioni culturali. Nonostante gli infausti riferimenti prolettici alla fine tragica, la comica interazione di culture del primo atto potenzialmente stabilisce un preciso orizzonte di aspettative per il pubblico, aspettative soprattutto di genere che il finale slittamento nella tragedia sembra violare, originando un certo sconforto negli spettatori che assistono all’autodistruzione di un’eroina inizialmente presentata come comicamente naïve. Durante il secolo di vita teatrale dell’opera questo problema è stato spesso risolto con la de-orientalizzazione della messa in scena, o anche con il virtuosismo interpretativo di attrici/cantanti capaci di negoziare lo spostamento di registro da comico a tragico dell’eroina, di difficoltà pari almeno alla trasformazione di Violetta nel corso della Traviata. Quest’attenzione alla rilevanza dei generi è tutt’altro che comune fra le interpretazioni del teatro musicale pucciniano. Ancora oggi siamo abituati a considerare Puccini come l’erede di Verdi, come l’ultimo compositore della grande tradizione operistica italiana, e di rado lo vediamo come uno sperimentatore nel campo della drammaturgia musicale, mentre invece le cattive abitudini dell’analisi musicologica ci incoraggiano a concentrare l’attenzione TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Madama Butterfly principalmente sulla sua gamma stilistica. Data la difficoltà di un’analisi delle sue opere che si limiti a tradizioni formali, potrebbe invece essere più produttivo riconsiderare la sua reiterata ricerca di varietà non solo in termini di ambientazione scenica, ma anche, in ambito più ampio, in termini di varietà di generi. Come si sa fin troppo bene, ci sono rinomati precedenti di fusione dei generi fra le opere verdiane, come per esempio Luisa Miller e Rigoletto.(22) Ma la visita di Puccini ad un teatro londinese per vedere il dramma in un atto Madame Butterfly, Luigi Illica rappresentato dopo la commedia in quattro atti Miss Hobbs e in una lingua che capiva a malapena, sembra invece un indizio che il compositore era interessato a scoprire altre opzioni fra quelle offerte dal dramma di parola di fine secolo. Nel caso di Madama Butterfly forse pochi saranno d’accordo con Schaunard nel dire che «la commedia è stupenda», ma spero di aver suggerito che il dialogo instaurato da Puccini, Illica e Giacosa fra tragedia e commedia conferisce all’opera una ricchezza e complessità che ancora dopo un secolo stiamo appena iniziando ad immaginare. Traduzione di Alessandra Campana Tratto dal programma di sala “Madama Butterfly”, edizione del Centenario, Stagione Lirica 2004-2005, Teatro del Giglio di Lucca. Si ringrazia l’autore e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca per aver concesso il permesso di riproduzione. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 85 Note * Questo saggio è la versione riveduta della prelusione letta al Convegno organizzato dal Centro studi Giacomo Puccini a Lucca e Torre del Lago in occasione del centenario di Madama Butterfly, il 28-30 maggio 2004 (<<Madama Butterfly>>: l’orientalismo di fine secolo l’approccio pucciniano, la ricezione). 1. Michele Girardi, Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia, Marsilio, 1995; versione inglese, Puccini: His international Art, Chicago, Chicago University Press, 2000; Dieter Schickling, Giacomo Puccini. Catalogue of the Works, Kassel, Barenreiter, 2003. 2. Nel volume Madama Butterfly (1904- 2004). Fonti e documenti, a cura di Arthur Groos, che il Centro studi Giacomo Puccini pubblicherà abbiamo raccolto la testimonianza oculare dell’evento storico a cui si ispira la storia, le traduzioni in italiano del racconto di John Luther Long e del dramma di David Belasco che vennero usate da Illica e Giocosa, un intero librettoquadro ambientato al Consolato americano che fu poi scartato alla fine del 1902, l’intero corpus di lettere scritte da Puccini a Illica e Giocosa dal 1900 al 1904 (più della metà del quale non è mai stato pubblicato), e i primi schizzi che risalgono al 1902. 3. Vedi la lettera del 22 giugno 1900 a Elvira, in Cesare Garbali, Sembra una figura da paravento: Madama Butterfly, <<Quaderni pucciniani>>, p. 98. 4. Vedi A. Groos, Luigi Illica’s Libretto for Madama Butterfly (1901), in <<Studi pucciniani>> II (2000), pp. 92 e seguenti. 5. Giacomo Puccini, Epistolario, a cura di Giuseppe Adami, Milano, Mondadori, 1928, p. 143. 6. L’importanza di questo elemento è ben illustrata dalla lettera di Puccini a Illica del 9 giugno 1900, scritta poco prima della partenza per Londra, e riguardante la possibilità di adattare Tartarin di Daudet: <<Io però vorrei che il primo quadro fosse in casa di Tartarin, col giardino nel fondo… L’Algeria due quadri, ma la scena della donna deve essere nella metà della scena, il resto strade strette di Algeri. Deserto-Mighi. Ma non vedo il secondo quadro delle Alpi…Una foresta non andrebbe male per verità scenica…L’ultimo quadro, poi, il trionfo di Tartarin lo vedo bene. Gran piazza fiorita d’alberi, oleandri a diversi colori, terreno bianco uso Palermo-Malta, cielo di cobalto scuro, sole sole sole…>> Carteggi pucciniani, a cura di Eugenio Gara, Milano, Ricordi, 1958, n. 232, p.200. 7. Lettera dell’11 marzo 1901, 1901.03.11.c secondo l’edizione critica di Dieter Schickling e Gabrielle Biagi Rivenni, inclusa nel volume Madama Butterfly (1904-2004). 8. La relazione di Guido Padano al Convegno per il centenario suggeriva che tale categoria ebbe un ruolo fondamentale nella teoria comica di Bergson. 9. A. Groos, Luigi Illica’s Libretto, p. 122. 10. Milano, Ricordi, 1904, p. 18. 11. In Schckling e Biagi Ravenna a proposito di <<commedia>> vedi lettere, 1901.05.20.a, 1901.12.04, 1903.01.16.a, 1903.02.05.a, 1903.02.16.a; a proposito di <<dramma>> vedi 1902.11.16.b, 1902.11.19b, entrambe scritte a Illica a difesa dell’idea di omettere l’atto del Consolato e riportare il secondo atto al profilo del dramma originale. 12. A. Groos, Luigi Illica’s Libretto, p. 158. 13. Vedi A. Groos, Il luogotenente F. B. Pinkerton: problemi nella genesi e nella rappresentazione della <<Madama Butterfly>>, in Puccini, a cura di Virgilio Bernardoni, Bologna, il Mulino, 1996, pp. 160 e seguenti. 14. A. Groos, Luigi Illica’s Libretto, p. 121. 15. Ivi, p. 122. 16. Lettera del marzo 1901 a Giulio Ricordi, in Carteggi pucciniani, n. 249, p. 209. 17. A. Groos, Luigi Illica’s Libretto, pp. 172-90. 18. Leggi: I (Atto) 37 (cifra di richiamo di partitura); in certi casi compare anche il numero delle battute, preceduto da /. 19. Per una trascrizione vedi A. Groos, Cio-Cio-San and Sadayacco: Japanese Music-Theatre in <<Madama Butterfly>> in <<Monumenta Nipponica>> LIV/1 (1999), p. 46: (vivace). 20. Per uno studio recente vedi Alexandra Wilson, The Puccini Problem: Nationalism. Gender, and Decadence in Italian Puccini Reception, 1896-1912, Ph.D. dissertation, Royal Holloway, University of London, 2002, in particolare il cap. 6: <<Madama Butterfly>>: Stasis or Metamorphosis?, pp. 190-220. 21. Schickling, pp. 269 e seguenti. Vedi Piero Weiss, Verdi and the Fusion of Genres, in <<Journal of the American Musicological Society>>, XXXV (1982), pp. 138-56. 86 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 88 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Madama Butterfly Il soggetto Atto Primo Casa con giardino sulla collina di Nagasaki. Accompagnato da Goro, sensale di matrimoni, Benjamin Franklin Pinkerton, tenente della marina degli Stati Uniti visita la casa che ha appena acquistato per sposare una giovanissima geisha, Cio-Cio-San. Sharpless, Console americano, raggiunge Pinkerton il quale conversando davanti a un bicchiere di whisky, discorre della sua filosofia di vita: godersela oltre i rischi e i sentimentalismi. Ama la ingenua bellezza di Cio-Cio-San e intende sposarla secondo la tradizione giapponese, per novecentonovantanove anni, salvo prosciogliersi ogni mese. Sharpless lo rimprovera, lo invita a riflettere, e brinda augurandogli nozze con una donna americana. Giunge Cio-Cio-San col corteo nuziale, al Console Cio-Cio-San dice di essere nata a Nagasaki da famiglia agiata, poi decaduta, motivo per cui è stata costretta a fare la geisha. Vive con la mamma e del padre dice soltanto che è morto, dichiara non senza malizia i suoi 15 anni. Per Sharpless è l’età dei giochi e rimprovera Pinkerton, invitandolo a riflettere su tale matrimonio. Butterfly presenta i parenti e mostra in disparte a Pinkerton gli oggetti che ha portato in dote: dei fazzoletti, una pipa, una cintura, uno specchio, un ventaglio, un vaso di tintura per il trucco, un astuccio lungo e stretto che ripone in tutta fretta senza mostrare il contenuto. Goro spiega a Pinkerton sottovoce che contiene la lama con cui il padre si è suicidato perché chiestogli dall’Imperatore. Cio-Cio-San confessa a Pinkerton di essersi recata il giorno prima alla Missione per rinnegare la sua fede e farsi cristiana. Ha inizio la cerimonia, si celebrano le nozze, il Console e i funzionari se ne vanno, rimangono i parenti per festeggiare. Pinkerton cerca di affrettare i convenevoli impaziente di trovarsi solo con Butterfly. Sopraggiunge il terribile Zio Bonzo furibondo perché Cio-CioSan ha rinnegato la fede degli avi ma viene cacciato da Pinkerton. Bonzo maledice Cio-Cio-San e s’allontana seguito dai parenti. Lo sconforto e il pianto di Butterfly sono placati dalle parole appassionate di Pinkerton, dal suo desiderio. La fanciulla accoglie teneramente la passione del marito che la lega in un abbraccio e la conduce in casa. Atto Secondo 89 La casa di Butterfly Suzuki prega perché Cio-Cio-San non pianga e non soffra più: aspetta il ritorno di Pinkerton, da tre anni, da quando è partito per gli Stati Uniti con la promessa di ritornare a primavera. Butterfly spera ancora di vedere un bel giorno spuntare all’orizzonte la nave di Pinkerton e che il suo sposo l’abbracci colmandola di affettuosi vezzeggiativi. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA La raggiungono Goro e Sharpless, il quale ha ricevuto una lettera di Pinkerton da consegnare a Cio-Cio-San; il Console non trova il modo di comunicarle che Pinkerton si è risposato in America e che giungerà a Nagasaki con la sua nuova sposa. Mentre Butterfly ritarda la lettura della lettera Goro commenta con sarcasmo. Il sensale vuole trovare un nuovo marito a Cio-Cio-San, ha già come pretendente il ricco Yamadori, che sopraggiunge accompagnato dai suoi servi ma viene accolto da Butterfly con scherno, non vuole saperne di matrimoni orgogliosa di essere ancora sposata con Pinkerton, anche secondo la legge americana. Sharpless, dopo l’uscita di Yamadori, si appresta a leggere la lettera di Pinkerton, Butterfly lo interrompe sovente per interpretare ogni parola in favore della sua illusione. Finché giunge la frase «A voi mi raccomando, perché vogliate con circospezione prepararla... », Butterfly allora crede si alluda al ritorno del marito. Al Console non resta che riporre in tasca la lettera per farle capire la verità: «Che fareste [ ...] s’ei non dovesse ritornar più mai?» Cio-Cio-San impietrita risponde con due alternative: tornare a fare la geisha o morire. Sharpless, commosso, con tenerezza, cerca di smantellare l’ultima illusione, la invita a pensare al futuro, sposando il ricco Yamadori. Butterfly si offende per il consiglio e chiede a Suzuki di accompagnare alla porta il Console. Improvvisamente corre nella stanza accanto per tornare con un bambino in braccio: Pinkerton non potrà scordare suo figlio! Il Console, ancora più turbato, prima di uscire promette di informare Pinkerton dell’esistenza del bambino. 90 Giacomo Puccini in divisa da ufficiale della marina, il cappello della piccola porta il nome (Cio.Cio-San) dello yacht del compositore. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Madama Butterfly Sopraggiunge furente Suzuki che trascina Goro: il maledetto va in giro a raccontare che non si sa chi sia il padre del bambino. Butterfly, furibonda prende il coltello e minaccia di uccidere Goro, ma in quel momento un colpo di cannone annuncia l’entrata in porto di una nave. Cio-Cio-San si precipita fuori e, con un cannocchiale, cerca di individuare la bandiera della nave, quando legge il nome «Abramo Lincoln!» esulta nella certezza che l’amore trionfa, sempre. Ordina a Suzuki di adornare la casa degnamente per ricevere lo sposo. Le due donne cospargono fiori, poi, Cio-Cio-San indossato l’abito da sposa, con Suzuki e il bambino resta in attesa dell’arrivo di Pinkerton. Butterfly ha vegliato inutilmente tutta la notte, Suzuki la convince a riposare un poco, col bambino, con la promessa di svegliarla all’arrivo del marito. Pinkerton giunge subito dopo, in compagnia di Sharpless e della moglie americana, Kate, che resta in giardino. Pinkerton informato dal Console è salito alla casa per convincere Butterfly ad affidargli il loro bambino. Quando Suzuki lo informa di come Butterfly lo abbia atteso in quei tre anni Pinkerton si allontana per il rimorso, mentre il Console e la sposa americana attendono nel giardino il risveglio di CioCio-San perché Suzuki la prepari alla tragica verità. Butterfly si desta, chiama Suzuki, entra sollecita nella stanza, vede il Console e pensa in grande agitazione di trovare anche Pinkerton, magari nascosto per farle una sorpresa: scorge invece Kate, sulla terrazza, ed è colta da un brutto presentimento. Interroga Suzuki su Pinkerton mentre fissa Kate, quasi affascinata e finalmente comprende chi è. Kate allora si avvicina e, chiedendole perdono per il male che inconsapevolmente le ha fatto, si mostra amorevolmente disposta ad avere cura del bambino e a provvedere al suo avvenire. Butterfly risponde che consegnerà il piccolo soltanto a «lui», se avrà il coraggio di presentarsi mezz’ora dopo. Poi li congeda. Rimasta sola crolla a terra. Ordina a Suzuki di chiudere le imposte e di ritirarsi nell’altra stanza con il bambino, la donna che intuisce le intenzioni della padrona, vorrebbe restare, ma Cio Cio-San, risolutamente, la spinge fuori. Poi toglie da uno stipo un gran velo bianco che s’avvolge intorno al collo, estrae dall’astuccio di lacca il coltello di suo padre e legge con solennità le parole incise sulla lama: « Con onor muore chi non può serbar vita con onore». Sta per compiere harakiri, quando all’improvviso Suzuki spinge nella stanza il bambino. Butterfly lascia cadere il coltello, si precipita verso il piccolo, lo abbraccia soffocandolo di baci e, dopo avergli rivolto uno straziante addio, gli benda gli occhi e lo fa sedere, mettendogli in mano una bandierina americana. Quindi raccoglie il coltello, si ritira dietro il paravento e si uccide. Nello stesso istante, invocandola da lontano, accorre nella stanza Pinkerton, che s’inginocchia singhiozzante sul suo corpo. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 91 Direttore d’Orchestra Maestro del Coro Soprano Baritono Daniel Oren Bruno Tirotta Doyna Dimitriu Marco Vratogna Orchestra Associazione Filarmonica “F. Cilea” Coro Lirico “F. Cilea” Venerdì 23 dicembre 2005 ore 20.30 Fuori abbonamento Concerto di Natale Musiche Giuseppe Verdi Giacomo Puccini 93 TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Abbonamenti Diritto di prelazione Gli abbonati della Stagione Lirica 2004 che vogliono rinnovare l’abbonamento per la Stagione Lirica 2005 (stesso turno, settore fila e numero) potranno usufruire del diritto di prelazione. La prelazione potrà essere esercitata alla Biglietteria del Teatro da lunedì 12 settembre a domenica 18 settembre 2005 dalle ore 9.30 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 19.30. Il diritto di prelazione è strettamente personale e non cedibile. L’abbonamento dovrà essere rinnovato dall’intestatario. Nel caso l’intestatario non possa farlo personalmente, saranno accettate deleghe per il rinnovo, regolarmente firmate e con fotocopia del documento d’identità dell’intestatario. Vendita abbonamenti Gli abbonamenti alla Stagione Lirica 2005, compresi quelli non riconfermati, saranno posti in vendita da martedì 20 settembre a domenica 2 ottobre 2005 dalle ore 9.30 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 19.30 presso la Biglietteria del Teatro. Riduzioni Possono usufruire dell’abbonamento ridotto le seguenti categorie: giovani fino al compimento del 25° anno di età, militari di leva, pensionati oltre i 65 anni, circoli ricreativi aziendali e associazioni (per un minimo di 16 persone);fondazioni, enti, società, testate giornalistiche che hanno stipulato apposita convenzione con l’amministrazione comunale. Per poter accedere alla riduzione sul costo dell’abbonamento è necessario produrre un documento che attesti l’appartenenza ad una delle categorie sopra indicate. Tale documento potrà essere richiesto anche all’ingresso di ogni spettacolo. Gli abbonati alla Stagione Lirica 2005 potranno esercitare, al momento del rinnovo o dell’acquisto di nuovo abbonamento, il diritto di prelazione sulla vendita dei biglietti del “Concerto” del 23 dicembre 2005. 94 Smarrimento dell’abbonamento Lo smarrimento dell’abbonamento va segnalato per iscritto, con allegata copia della denuncia alla autorità competente, agli uffici amministrativi del Teatro. Al titolare sarà rilasciato un ingresso sostitutivo per ogni spettacolo, previo pagamento degli oneri gravanti sullo stesso. TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA Informanioni Biglietti singoli spettacoli I posti rimasti liberi dagli abbonamenti della Stagione Lirica 2005 saranno posti in vendita presso la biglietteria del Teatro da martedì 4 ottobre 2005. La biglietteria osserverà il seguente orario: dalle ore 9.30 alle ore 13.00 e dalle ore 16.00 alle ore 19.30 da lunedì a sabato, nei giorni di spettacolo fino ad orario spettacolo. Ogni spettatore potrà acquistare un massimo di tre biglietti. Riduzioni Possono usufruire del biglietto ridotto le seguenti categorie: giovani fino al 25° anno di età, militari di leva, pensionati oltre i 65 anni, circoli ricreativi aziendali e associazioni (per un minimo di 16 persone); fondazioni, enti, società, testate giornalistiche che hanno stipulato apposita convenzione con l’amministrazione comunale. Per poter accedere alle riduzioni sul costo del biglietto è necessario produrre un documento che attesti l’appartenenza ad una delle categorie sopra indicate. Tale documento potrà essere richiesto anche all’ingresso dello spettacolo. Prenotazione postale e via fax Le richieste di prenotazione a mezzo posta o fax per le singole rappresentazioni devono pervenire a partire da lunedì 12 settembre 2005. Tanto nella richiesta a mezzo posta (indirizzo:Teatro “A.Rendano”, P.zza XV Marzo, Cosenza) quanto in quella a mezzo fax (0984813220) dovranno essere specificati: nome e cognome, indirizzo, recapito telefonico, titolo e data della rappresentazione prescelta, numero dei posti, settore desiderato, eventuale diritto alla riduzione debitamente documentato (v. paragrafo “riduzioni”). Alle prenotazioni che perverranno entro le date sopra indicate sarà riservato il 20% dei posti disponibili per ogni recita, suddivisi nei vari settori. L’assegnazione sarà effettuata dalla Biglietteria fino ad esaurimento della quota riservata. In caso di mancata disponibilità dei posti richiesti, la Biglietteria provvederà allo spostamento della prenotazione, previa comunicazione telefonica al richiedente, ad altro settore o recita dello spettacolo prescelto. Le richieste che perverranno a vendita dei biglietti già iniziata (4 ottobre 2005) saranno soddisfatte, previa verifica della disponibilità dei posti, soltanto al momento di chiusura del botteghino, nel giorno di arrivo della richiesta stessa. Il Teatro non risponde di eventuali disguidi o ritardi del servizio postale. A conferma avvenuta dei posti prenotati, i richiedenti dovranno versare l’importo a mezzo C.C. Postale n.301895 intestato a Comune di Cosenza – Teatro “A. Rendano” – oppure bonifico bancario (Banca Carime Ag. 1 Cosenza CC n.0000 6000000 1 Abi 03067 Cab 16202 Cin S) e inviare a mezzo fax relativa ricevuta. I biglietti dovranno essere ritirati alla Biglietteria, se nel giorno dello spettacolo almeno mezz’ora prima della rappresentazione dietro presentazione della ricevuta dell’avvenuto pagamento. Il mancato ritiro non dà luogo ad alcun rimborso. Non si accettano prenotazioni telefoniche TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 95 Informanioni Spettatori diversamente abili L’accompagnatore assistente per spettatori diversamente abili, su preventiva segnalazione al servizio biglietteria, può usufruire dell’ingresso gratuito agli spettacoli. Variazioni di programma Il Teatro si riserva la facoltà di apportare alla programmazione annunciata quelle variazioni di date, orari e/o spettacoli che si rendessero necessarie per ragioni tecniche o causa forza maggiore. La comunicazione ufficiale, alla quale si dovrà fare riferimento, avverrà in ogni caso a mezzo stampa. Varie Gli spettacoli iniziano regolarmente all’ora stabilita. A spettacolo iniziato è vietato l’ingresso in sala fino al primo intervallo. Per assicurarsi l’arrivo puntuale al posto, si consiglia di accedere in sala almeno dieci minuti prima dell’orario di inizio. Ai sensi della vigente legislazione, in tutti i locali del Teatro è vietato fumare. E’ tassativamente proibito scattare foto ed effettuare registrazioni in audio e in video durante lo spettacolo. E’ vietato introdurre in sala telefoni portatili in uso. E’ altresì vietato appoggiare soprabiti sullo schienale delle poltrone, sulle poltrone eventualmente libere, sulle ringhiere dei palchi. L’acquisto dell’abbonamento o del biglietto presuppone la conoscenza e l’accettazione integrale delle condizioni sopraesposte. Comunicazioni Teatro “A.Rendano” 0984.813227 - 0984.813220 Biglietteria 0984.22835 Internet Informazioni generali sul Teatro “A. Rendano” e in particolare sulla Stagione in corso sono presenti nella rete Internet al seguente indirizzo: www.comune.cosenza.it/rendano E-mail: [email protected] TEATRO ALFONSO RENDANO - 47A STAGIONE LIRICA 97 Redazione a cura di Achille Greco Progetto grafico Dino Grazioso Stampa Grafica Pollino Pubblicità RCB Pubblicità foto di copertina Jose Usoz Per tutti i materiali di cui non è risultato possibile identificare la fonte si resta a disposizione degli eventuali aventi diritti.