Il paradiso perduto Scritto il aprile 8, 2015 by artenatura FACEBOOK GOOGLE + Henri Rousseau, soprannominato “il doganiere”, fu il pittore dei giardini dell’Eden e della natura selvaggia. Certamente non fu il suo unico soggetto ma quello che ha colpito maggiormente il nostro sguardo ed è rimasto, indelebile, nella memoria. Tanto che, mentre leggevamo le storie di cui si parla nel bel libro pubblicato di recente da Federico Battistutta, Storie dell’Eden. Prospettive di ecoteologia, quelle rappresentazioni di terre lussureggianti e selvagge continuavano a venire evocate. Il libro in questione indaga, riflettendo in maniera approfondita, il rapporto che intercorre tra noi e il resto del mondo naturale utilizzando il racconto dell’inizio, quello in cui tutto ebbe origine, la Genesi e il giardino dell’Eden. O meglio, quello è il punto di partenza – per l’autore e per noi popoli occidentali – da cui il testo prende avvio per poi allargare la prospettiva su altri miti dell’inizio e arrivare a dirci che presso diversi popoli e culture – nel passato ma ancora oggi – troviamo narrazioni dove si parla di un tempo in cui, come per incanto, fu (è) possibile un’intesa condivisa tra uomini e donne, giovani e vecchi, tra esseri umani e mondo vegetale, minerale, animale. Si è trattato solo di miti, leggende su un passato forse mai esistito, si interroga il libro, o invece questi racconti custodiscono qualcosa di assai prezioso - ancora oggi e anche per noi, schiacciati dall’incombere di un tempo assai difficile - qualcosa simile alla profezia e alla speranza, alla nostalgia piena di futuro per una possibile nuova innocenza che i migliori tra noi da sempre tengono segretamente custodita nel cuore? Alfred Jarry sosteneva che Rousseau avesse “le radici in sé stesso”, come dire custodite nel cuore, anelito verso una dimensione futura e arcaica che – accomunandolo in forme diverse ad altri artisti dell’inizio del ‘900 – lo portò ad attingere ad una memoria interiore del mondo e raccontarla nella maniera sfolgorante che tutti ben conosciamo. Egli iniziò a dipingere passati i quarant’anni dopo aver conseguito una piccola pensione frutto del suo lavoro impiegatizio presso un procuratore legale; tanto che si potrebbe dire – usando il linguaggio di qualche decennio fa – fosse un “piccolo borghese”, colui che accetta l’ordine costituito delle cose. Nonostante ciò dal suo pennello uscì tutt’altro, quei dipinti che sostengono il nostro parallelismo col libro di Battistutta: come c’è stato un tempo e ci sono popoli, ci sono anche radici interiori che ri-legano a quella condizione edenica e che una nostalgia futura può spingere a vivificare, cercandone la possibilità attuale. Come già detto il libro parte dalle immagini proposte dal testo biblico, ma poi va oltre e cerca sostegno alla sua tesi nei classici greci e latini, nella letteratura popolare e anche nelle testimonianze della ricerca archeologica e antropologica, spingendosi fino all’origine della presenza dell’uomo sulla terra per poi arrivare a confrontarsi con alcune delle tesi più interessanti del pensiero moderno e contemporaneo. Un percorso lungo e intenso raccontato col chiaro desiderio di farsi intendere, per poter condividere il proprio pensiero e farne strumento adeguato alla vita vera, quella di cui siamo un breve – e vorremmo utile – anello di passaggio. Secondo noi Rousseau fu, forse suo malgrado, testimone di questo sentire umano che trova in se stesso l’alfabeto in quanto cielo e terra, come tutte le sostanze, compreso Dio, stanno dentro l’uomo. Dentro noi esseri umani e, aggiunge Battistutta, dentro la natura, in un perenne intreccio di microcosmo e macrocosmo. Ci è piaciuto trovare in un libro, che con l’arte ha (in verità solo apparentemente) così poco a che fare, tante affinità con la necessità che costituisce il substrato di ogni tensione artistica, quella condizione di presa diretta con la vita che scatena domanda e ricerca inesauribili e che così tante forme d’espressione ha assunto durante il tempo enorme che ha visto e continua a vedere la nostra presenza sulla terra. Perché quaggiù vogliamo fare la nostra parte insieme a tutti coloro che – con Rousseau – l’Eden hanno provato a reinventarlo. In appendice suggeriamo a chi volesse vedere le opere originali di Henri Rousseau che può farlo facilmente andando entro il 5 luglio a Venezia, presso il Palazzo Ducale (www.palazzo-ducalevenezia.it/Prenotare). Chi invece voglia leggere il bel libro di Federico Battistutta può richiederlo direttamente alla casa editrice (http://www.ipocpress.it/Storie-dell-Eden-libro-ebook-Federico-Battistutta-antropologiafilosofia.shtml) o presso le maggiori librerie on line. Confronti.net 18/06/2015 di Valerio Pignatta La sofferenza, come ha fatto notare il Buddha, è condizione determinante dell’esistenza umana ed esserne consapevoli è condizione prioritaria per uscirne. Ma negli ultimi decenni anche il patimento delle altre forme viventi dovuto all’attività antropica è sempre più evidente e sicuramente ancor più devastante e a rischio di innescare situazioni senza ritorno a livello globale. La consapevolezza di questa situazione di dolore del pianeta che ci ospita tarda a diffondersi nella società umana o perlomeno tardano reazioni collettive e individuali significative e tese al cambiamento. Tuttavia, in questo paradiso perduto l’essere umano non è che se la passi meglio. Non è che la sua chiusura rispetto al vivente e alla sofferenza altrui o alle ingiustizie gli permettano performance di esistenza migliore. Anzi. L’Organizzazione mondiale della sanità ha preannunciato in un suo studio prospettico che la depressione entro il 2020 diventerà la patologia più diffusa a livello mondiale per tutte le età ed entrambi i sessi. Attualmente, nel mondo, 450 milioni di persone soffrono di disturbi mentali. Il Rapporto Osservasalute del 2009 (Università Cattolica di Roma) ha calcolato che l’aumento del consumo di antidepressivi che si è avuto tra il 2000 e il 2008 (non collegato direttamente alla recessione economica) è del 310%. La società capitalistica, o cosiddetta dei consumi, che sta espandendo in tutto il mondo il suo ammaliante richiamo, attira alle illusorie delizie degli ipermercati, moderni templi del consumo, miliardi di persone che cercano nella realizzazione materiale la propria identità e collocazione nel mondo. Il consumo di risorse naturali che si riflette sulle altre creature (e sui paesi più poveri) è impressionante. Ma, come possiamo testimoniare noi cittadini ricchi ed «evoluti» dei paesi industrializzati, le disillusioni che attendono milioni di persone saranno atroci. Se l’uomo medio non è in grado di vivere una vita degna di essere vissuta con slancio ideale e con gioia condivisa con chi gli sta attorno non è forse da attribuirsi proprio alla scala di valori che la società tutta si è data? Non è forse l’assenza ormai disperata di una visione, di un sol dell’avvenire, di un mondo di giustizia e armonia la causa ultima dello scoraggiamento vitale? Per dirla con Raoul Vaneigem, non è forse a causa del «Verbo incarnato della moneta» che regola tutti gli aspetti anche spirituali delle società umane sino al sacrificio planetario odierno della quotazione borsista, nuovo carattere del sacro e del divino? Cosa abbiamo perso delle proposte ideali/reali di società organica della passata umanità e come le possiamo rilanciare/ricostruire nel nostro presente e futuro? Sono queste le problematiche su cui si interroga un intelligente libretto di Federico Battistutta, uscito da poco per le edizioni IPOC con il titolo Storie dell’Eden. Prospettive di ecoteologia, che ripercorre le storie dei vari paradisi terrestri che l’essere umano nelle varie culture ha tramandato per generazioni ai propri discendenti come testimonianza che un altro modo/mondo è possibile e probabilmente lo è anche già stato. Rispetto alla crisi attuale, in apertura viene subito chiarito che essa «è innanzitutto spirituale, vale a dire riguarda l’antropologia e la cosmologia implicite nei comportamenti che l’uomo mette in pratica nella sua vita, nella tecnologia, nell’economia e nella politica» (p. 11). La separazione avvenuta tra l’essere umano e la natura in seguito all’utilizzo della ragione per l’esclusivo dominio del non-umano ha avuto come conseguenza anche la separazione interiore dell’uomo dalla sua propria naturalità. Teologi contemporanei attenti a questi aspetti come Leonardo Boff e José Maria Vigil hanno sottolineato questa deriva che proverrebbe da implicazioni anti-ecologiche presenti nella teologia ebraico-cristiana. È anche vero tuttavia, come ci ricorda l’autore, che proprio in una delle fonti primarie di tale tradizione, Genesi, troviamo che con la discendenza di Caino nasce proprio quella civiltà urbana che secondo il teologo radicale mennonita Ched Myers rappresenta «come una forma di regressione patologica piuttosto che un progresso della coscienza e della storia» (p. 47). E guardandoci attorno noi oggi possiamo benissimo comprendere quanto ciò sia vero e denso di conseguenze e di sofferenza. Ma già Rousseau, ci fa notare ancora una volta l’autore, aveva individuato il decadimento dall’armonia nel distacco dalla natura, al cui ritorno è unicamente associabile il concetto di progresso. Da qui parte la lecita domanda su cosa abbiamo perso e come possiamo «ricollocarci nuovamente all’interno del “sogno di Dio”» (p. 48). Il racconto, o meglio i racconti dei vari giardini di Eden che ci sono stati tramandati a partire dalla tradizione biblica ai classici greci e latini e sino alla letteratura popolare (i vari paesi di Cuccagna e di Bengodi) o a quelli più esotici e lontani (come Shangri-la) di cui l’autore ci informa, «costituiscono un invito a rinnovare alle radici il rapporto che l’uomo intrattiene con i suoi simili, con gli animali e, più in generale, nella relazione con tutto il mondo naturale, nel quadro di una profonda trasformazione cosmica che non può lasciare nulla invariato» (p. 48). Una rivoluzione rispetto alla quale quella di socialistica memoria sembra sparire ridotta al microscopio. È la spinta alla realizzazione di quel sogno verso la nuova innocenza a cui nel segreto più intimo del suo cuore, da sempre, con passione e intelligenza, l’essere umano aspira. Ma attenzione: non si tratta del suggerimento di ritornare a un culto della tradizione o di un tentativo di ritorno al passato ma, al contrario, di un ridare possibilità di attuazione odierna a un qualcosa che forse si è perso strada facendo, di un completare un’opera incompiuta con l’aggiunta delle nostre capacità contemporanee. Non quindi un romantico ritorno a un idillio che era tale solo proprio perché pensato e ricordato nella nebbia delle millenarie esperienze umane, ma una concreta rivalutazione di un passato che gli studi antropologici e archeologici (Jean Chavaillon, Marija Gimbutas ecc.) sempre più ci dimostrano come realistica possibilità di convivenza umana e tra umani e mondo naturale, già avvenuta e sicuramente riaffermabile e riadattabile nel prosieguo della storia umana. Dunque «Non invochiamo – precisa Battistutta – impossibili regressioni verso un passato primordiale» (p. 93) ma per ripescare quanto di inesplorato e gravido di futuro c’è ancora nel passato dobbiamo «liberarci da un’idea dominante, dalla nozione di un tempo lineare e progressivo come unico modo di percepire e fruire quella dimensione nella quale concepiamo il trascorrere degli eventi. A tale visione si può opporre quella di un pluralismo temporale» (p. 93). Ci sono eventi del passato dormienti e in attesa di essere risvegliati; sono portatori di avvenire che nel momento in cui erano sorti non hanno potuto dispiegare tutte le loro potenzialità. Questi eventi possono essere riscattati e riconosciuti nonché portati a maturazione nel tempo attuale o futuro. Una società senza guerre, senza discriminazioni sociali, sessuali, etniche e di specie può essere lo sbocco di questo recupero. Benissimo. A questo punto sorgerà spontanea la domanda: quindi, il programma qual è? No, afferma Battistutta, non facciamo il solito errore di pontificare sugli innumerevoli «che fare» della storia. Manteniamoci, come ci ricorda Raimon Panikkar, razionalmente scettici nei confronti della ragione, che abbiamo visto dove ci ha portato. Ciò di cui abbiamo bisogno prima di tutto è «un profondo rivolgimento interiore» (p. 98). Un rivolgimento che può riportarci a «una religione prima delle religioni, prima dell’istituzionalizzazione del sentire religioso e della crisi in cui versa oggi tale sentire [...] Un sentire religioso che viene prima del costituirsi di una qualche gerarchia religiosa, prima della nozione di Dio, di Chiesa e di ogni altra codificazione possibile» (pp. 100-101). Ma un sentire spirituale che mette in relazione l’essere umano con la natura, e che lo mette in condizioni di saperne riconoscere la valenza e l’importanza. Quella consapevolezza che ci potrebbe far invertire il consumo del pianeta e di tutte le sue forme viventi perché come recita lo Zohar, il libro più importante della tradizione cabalistica, «Non esiste una singola erba nata dalla terra che non porti con sé una saggezza immensa e una forza divina». Una visione spirituale centrata dunque sul cosmo e sulla possibilità co-creatrice dell’essere umano di quella «coincidenza degli opposti» che filosofi come Nicolò Cusano o Jakob Böhme hanno chiamato «Dio». Un «Dio» che è dentro l’uomo insieme a cielo e terra, natura e sostanze tutte. Ed è lo stesso Ernst Bloch, studioso anche di Böhme, a ricordarci che tale immagine qualitativa della natura si colloca al polo opposto della sua visione invece meccanicistica, propria di Galilei e Newton, quella scienza «naturale» che l’ha fatta da padrone sino a oggi. Ricaliamoci dunque nel cosmologico del quotidiano. Reinventiamoci l’Eden, perché «non possiamo più accontentarci (e quando mai si è potuto?) di un futuro che non ci appartiene; al contrario, si tratta di sentire emergere il flusso della vita che scorre, dentro e fuori di noi, e collaborare con il processo in atto» (p. 106). E allora «vedremo vivi l’affermazione della vita» (p. 106). !