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Modificazioni del peso e della
composizione corporea in menopausa
Infezione da Clostridium difficile:
chi, come, dove e quando?
Embolia
da liquido amniotico
Ultrasonografia nella patologia endometriale
ed endocavitaria uterina: quale metodica?
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Periodico
di aggiornamento
professionale
per il Ginecologo
Radiologia interventistica
ommario
Periodico di aggiornamento professionale
per il Ginecologo n. 6
Registrazione N. 125 del 28 febbraio 2007
presso il Tribunale di Milano
Editore
Ginecologia
Approccio non chirurgico al trattamento
dei fibromi uterini
Dallo screening del primo trimestre
al feto a rischio di IUGR
Neurologia
Malattie neuromuscolari croniche
in gravidanza
Oncologia
Terapia ormonale sostitutiva in pazienti
con pregresso ca della mammella
Scienza e società
di Luciano Sterpellone
Hippocrates Edizioni Medico Scientifiche srl
via Vittor Pisani 22 - 20124 Milano
telefono 02.67100800 fax 02.6704311
e-mail: [email protected]
sito: www.hippocrates.it
Clinica
Direttore editoriale
Manlio Neri
Endocrinologia
Direttore responsabile
Susan Redwood
Modificazioni del peso
e della composizione corporea in menopausa
Redazione scientifica
Lella Cusin, Simona Regondi,
Andrea Ridolfi, Rossella Traldi
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di Giuseppe Bifulco, Mariangela Massaro, Costantino Di Carlo,
Ilaria Morra, Carmine Nappi
Progettazione e impaginazione grafica
Giovanni Carella,
Daniela De Martin, Vittorio Resmi
Segreteria di redazione
Isabella Monza
Infettivologia
Coordinamento scientifico
Giovanni Scambia
Infezione da Clostridium difficile:
chi, come, dove e quando?
Hanno collaborato a questo numero
Giuseppe Bifulco, Costantino Di Carlo,
Vittorio Fineschi, Pantaleo Greco,
Francesco P.G. Leone, Carmelo Marciante,
Mariangela Massaro, Ilaria Morra, Carmine Nappi,
Margherita Neri, Annalisa Piazzese, Alessandra Spada,
Luciano Sterpellone, Tullia Todros, Emanuela Turillazzi.
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Pirovano Srl - San Giuliano Milanese (MI)
Embolia da liquido amniotico
Chiuso in tipografia
11 ottobre 2010
di Alessandra Spada, Pantaleo Greco, Margherita Neri,
Emanuela Turillazzi, Vittorio Fineschi
Referenze fotografiche
in copertina, iStockphoto.com
pagine interne (immagini astratte), Fotolia.com,
iStockphoto.com
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione
e di adattamento, totale o parziale con qualsiasi mezzo, compresi
i microfilm e le copie fotostatiche, sono riservati per tutti i Paesi.
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di Annalisa Piazzese, Tullia Todros
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Diagnostica
Ultrasonografia nella patologia endometriale
ed endocavitaria uterina: quale metodica?
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di Francesco P.G. Leone, Carmelo Marciante
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cienza e società
di Luciano Sterpellone - Roma
Unghie d’asino
per l’alopecia
Il problema della precoce caduta
dei capelli ha riguardato l’umanità sin dai tempi più remoti. Lo testimoniano non solo gli innumerevoli documenti scritti, le statue
e le pitture, ma direttamente i corpi di moltissime
mummie. Per esempio, quella di Ramsete II (XIII sec.
a.C.). Gli esami paleopatologici hanno dimostrato che,
nel tentativo di conservare i pochi capelli (rossi) che gli
restavano sul cranio, il faraone ricorreva a un miscuglio di grasso di leone, ippopotamo, coccodrillo, gatto e serpente. In alternativa, anche i suoi sudditi, preoccupati per la precoce alopecia, spalmavano sul cuoio capelluto un unguento preparato con zampe di cane, noccioli di datteri e zoccolo d’asino (una parte di
ciascuno), cotti in olio. Non era però tutta fantasia. Più
di duemila anni dopo lo zoccolo di animali verrà a lungo utilizzato proprio nel trattamento dell’alopecia per
apportare al cuoio capelluto cistina (le unghie ne sono particolarmente ricche), in base all’assunto che questo aminoacido è carente nei soggetti calvi.
Speziali all’opera
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Non è raro trovare nelle diverse arti riferimenti a speziali e farmacisti, anche se perlopiù in chiave burlesca, etichettati magari soltanto
come artefici e dispensatori di elisir e filtri d’amore.
Un esempio è dato dal personaggio di Sempronio, protagonista
dell’“opera gioiosa” Lo speziale
musicata nel 1766 da Joseph Haydn su libretto nientedimeno che di Carlo Goldoni. Nella famosa aria iniziale, il garzone Mengone racconta con scarso entusiasmo il proprio lavoro nella bottega: “Tutto il gior-
Aglio ai lavoratori!
Che l’aglio (Allium sativum) sia un ottimo vermifugo non è certo una scoperta di oggi: già ne erano a
conoscenza le popolazioni più antiche, in particolare gli Egizi, presso i quali le parassitosi intestinali erano alquanto frequenti. Riferisce il grande storico greco Erodoto che nei venti anni impiegati per la costruzione della piramide di Cheope (IV dinastia: 26002480 a.C.) furono spese somme enormi in argento
per acquistare oltre 1.500 tonnellate di aglio (più cipolle e rafani) per preservare i lavoratori da queste
infestazioni.
È addirittura documentata una delle prime rivolte di
lavoratori verificatasi in Egitto proprio per protestare contro le insufficienti razioni di
aglio e il seguente grave pericolo di
parassitosi, nell’anno in cui
l’esondazione del Nilo distrusse le coltivazioni.
Delle tante indicazioni riportate nel famoso papiro “medico” di Ebers,
databile al 1500 a.C., quelle relative all’impiego dell’aglio nelle infezioni intestinali e nelle malattie cardiovascolari hanno trovato un “razionale” nelle più
recenti acquisizioni di chimica farmaceutica: tra i numerosi princìpi attivi isolati dal simpatico bulbo figurano infatti l’allicina, l’allicetoina e l’acido nicotinico,
che interferiscono vantaggiosamente con la patogenesi di queste patologie.
no pista pista, oh che vita amara e trista!”. L’unica
sua aspirazione è sposare Grilletta, figlia dello speziale, verso il quale però non nutre grande stima: Sempronio non mostra infatti grande interesse per la sua
professione: “Il mio caro padrone è uno di quei speziali che non badano né a vasi né a ricette: altro studio non ha che le gazete. (Le gazete erano piccole monete veneziane).
Nel testo Goldoni non manca comunque di citare alcuni medicamenti di largo uso all’epoca. E fa cantare
a Mengone in una famosa aria: “Per quel che ha mal
di stomaco, vi vuol del reobarbaro; per quel che ha il
corpo stitico, la manna opererà...”.
Isidoro
e le pietre
preziose
Allucinazioni famose
Nel suo trattato Etymologie in 20 volumi, Isidoro di Siviglia - il famoso medico spagnolo vissuto nel VI secolo - sosteneva che il diamante (“che
si può trovare solo di notte e non di giorno in
quanto la sua luce guida nelle tenebre”) rappresenta sotto forma di polvere un rimedio ideale
contro la pazzia, e un ottimo antidoto contro la
debolezza sia fisica che psichica. Da parte sua lo
smeraldo - il quale (attenzione!) è così fragile che
“può rompersi durante il coito” - tutela la castità, ed è al tempo stesso un efficace antiveleno,
giova alla vista, favorisce la guarigione della lebbra, delle ferite e delle “febbri pestilenziali”. Dulcis in fundo: se una donna ha delle difficoltà durante il parto, basta apporlo su di una coscia o
sul ventre che tutto si risolve per il meglio.
Il rubino non è da meno. Anch’esso è un ottimo
antiveleno, guarisce dalla peste e dalla malinconia. E soprattutto “frena la libidine”. L’evidente
svantaggio dell’adozione di queste terapie era
che nessuna di esse veniva passata dalla mutua!
Furono proprio le allucinazioni acustiche a indurre
Nabuccodonosor, nell’anno 500 della nostra èra, a
ordinare la costruzione dei grandi templi e del canale dell’Eufrate. Le voci che udiva erano così decise e
imperiose da non lasciare adito ad esitazioni.
Di allucinazioni uditive soffrì anche Socrate, che anzi sfruttava le sue “voci di dentro” per prodigare senza risparmio “saggi” consigli (stranamente tutti a proprio favore) ai suoi famigliari. Un altro “allucinato
acustico” sarà, circa duemila anni dopo, Martin Lutero: “Sento Lucifero che rotola delle botti e che provoca in casa dei tremendi rumori”. Colpa forse dell’otite cronica di cui soffriva.
Alle allucinazioni acustiche va invece il merito (e la
gratitudine) del compositore e violinista settecentesco Giuseppe Tartini: fu infatti attraverso di esse che
Satana gli dettò in persona, nota per nota, senza
nemmeno omettere una battuta, uno dei suoi brani
più celebri, Il trillo del diavolo.
Nel caso di un altro musicista - Robert Schumann -,
non fu invece la voce di Satana, ma direttamente
quella di Franz Schubert e di Felix Mendelsohn a
suggerirgli alcune delle composizioni più note: le
udiva di notte, e si alzava per fissarle sul rigo. Ma
forse si trattava di segni premonitori: quattro anni
dopo (nel 1854) il grande compositore tedesco
piombava senza alcun rimedio in una irreversibile
forma di demenza.
Un medico scrittore e collaborazionista
Strana evoluzione di un
medico che si dà dapprima alla Storia della
Medicina, indi alla letteratura, poi al comunismo, poi ancora al nazifascismo, per collaborare infine con l’invasore tedesco alla campagna antiebraica. È Céline (Louis-Ferdinand Destouche), laureato in Medicina all’Università di Parigi, divenuto presto famoso per la sua
tesi di laurea sulla vita del medico ungherese Ignaz
Semmelweis che a metà dell’Ottocento aveva scoperto le cause della febbre puerperale. Oggi il nome di Céline lo si associa automaticamente a quello della sua opera più celebre: Viaggio al termine
della notte.
Dopo una lunga pratica come medico in Africa, e
dopo essere venuto a contatto - nei quartieri poveri di Parigi - con le tristi condizioni sanitarie del
sottoproletariato e con i problemi dell’alcol, della
droga e della mortalità infantile, il giovane medico cominciò a sostenere a spada tratta la necessità di una politica di “medicina sociale”, un termi-
ne allora pressoché sconosciuto. A questo punto
si sentì “un vero comunista” ed effettuò un viaggio in Unione Sovietica. Ma ben presto, resosi personalmente conto di che cosa era in pratica il cosiddetto “socialismo reale”, se ne tornò in Francia
deluso, virando verso la bandiera della difesa della libertà del singolo, del piccolo borghese, sventolata dal fascismo e dal nazionalsocialismo: a suo
avviso, la rovina della Francia era tutta dovuta ai
capitalisti e agli ebrei, per cui invocava una nuova
alleanza con il III Reich finalizzata allo scontro all’ultimo sangue contro “il bolscevismo e le democrazie occidentali giudaicizzate”.
Alla fine della guerra pagherà con il carcere e con
una condanna a morte (non eseguita) le farneticanti idee e la sua attività di collaborazionista. Verrà poi molto lentamente riabilitato - ma solo come
scrittore. Negli anni della pressoché totale emarginazione dei suoi scritti era solito difendersi con una
battuta: “Non tutti quelli che leggono Céline sono antisemiti. Così come non sempre chi, come
me, legge Proust è omosessuale”.
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ENDOCRINOLOGIA
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odificazioni del peso
e della composizione
corporea in menopausa
Nelle pazienti sintomatiche e prive di controindicazioni,
la terapia ormonale sostitutiva è in grado di contrastare le variazioni
metaboliche tipiche della perimenopausa e della postmenopausa:
l’importante è intervenire prima che il dismetabolismo riesca a far risentire
i suoi effetti a livello cardiovascolare.
di Giuseppe Bifulco, Mariangela Massaro, Costantino Di Carlo, Ilaria Morra, Carmine Nappi
Dipartimento di Scienze Ostetrico-Ginecologiche Urologiche e Medicina della Riproduzione,
Università di Napoli “Federico II” - Napoli
L’
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incremento ponderale e le variazioni della composizione corporea rilevabili nel periodo menopausale sollevano importanti questioni di salute, in quanto correlati a un’intensificazione della morbilità e della mortalità per malattie come il diabete, l’ipertensione,
le cardiovasculopatie, l’osteoporosi e le patologie tumorali.
L’ipoestrogenismo postmenopausale determina, inoltre, una serie
di alterazioni metaboliche associate a un aumento del rischio cardiovascolare che, in età perimenopausale, cresce fino a equipararsi a quello dell’uomo per superarlo addirittura nelle età più avanzate. È quindi evidente che la valutazione dei parametri metabolici deve essere parte integrante
dell’approccio clinico alla paziente in perimenopausa. Infatti, proprio in questa fase, è necessario
attuare programmi di prevenzione ed eventuali trattamenti farmacologici che consentano alla
donna di raggiungere gli anni della postmenopausa avanzata nelle migliori condizioni psico-fisiche.
Distribuzione
del tessuto adiposo:
un fattore critico
Le variazioni ormonali che si verificano nel passaggio dal periodo
fertile a quello peri- e postmenopausale sono associate a variazioni del peso corporeo, della composizione corporea e della distribuzione del tessuto adiposo. In
particolare, il problema percepito
con maggiore disagio dalla donna è rappresentato dall’incremento ponderale; tuttavia, mentre numerosi studi hanno dimostrato un
suo significativo aumento nel periodo postmenopausale, altri autori non hanno riscontrato un’associazione significativa tra indice
di massa corporea (IMC) e menopausa. È stato inoltre dimostrato
che l’ipoestrogenismo indotto dall’ovariectomia bilaterale non determina variazioni rilevanti dell’IMC a sei mesi dalla procedura
chirurgica.
Questa discordanza di dati può
essere spiegata considerando che
il peso corporeo è determinato e
influenzato da numerosi fattori e
quindi, di per sé, non rispecchia
adeguatamente le variazioni della composizione corporea osservabili nel corso della transizione
menopausale e negli anni della
postmenopausa. Diversi studi hanno infatti dimostrato che tali periodi sono contrassegnati da un
incremento della massa grassa to-
ENDOCRINOLOGIA
sione e il diabete; essa è inoltre
correlata positivamente con l’aumento dei livelli di colesterolo totale, LDL e di trigliceridi e negativamente con i livelli di HDL.
Alla ricerca delle cause:
ipotesi a confronto
tale e della percentuale di grasso
corporeo e da un decremento della massa magra; inoltre, nelle donne in postmenopausa, il rapporto vita-fianchi - indice indiretto
della distribuzione del grasso corporeo - risulta significativamente
superiore a quello osservabile in
premenopausa, anche dopo correzione per età. In effetti, negli
anni della perimenopausa si assiste al passaggio da una distribuzione del grasso di tipo ginoide,
soprattutto a livello di anche, natiche e cosce, a una di tipo androide, prevalentemente a carico
del tronco (figura 1).
L’adiposità centrale costituisce un
importante fattore di rischio per
la patologia coronarica, l’iperten-
Per spiegare i meccanismi coinvolti nelle modificazioni del peso e
della distribuzione del grasso corporeo tipiche della menopausa sono state formulate varie ipotesi.
• Ipoestrogenismo: sebbene il tessuto adiposo non sia considerato un tessuto-bersaglio della stimolazione estrogenica, studi in
vivo e in vitro hanno dimostrato
che il recettore degli estrogeni
(ER) è coinvolto nella modulazione e nella distribuzione della massa grassa; nello specifico, l’ER
espresso sul tessuto adiposo sembrerebbe mediare gli effetti lipolitici degli estrogeni. L’osservazione che i ratti ovariectomizzati e
trattati con estrogeni vanno incontro a una riduzione della dimensione degli adipociti, porta
Figura 1 Obesità e distribuzione del grasso corporeo:
a supporre che gli effetti di questi ormoni sulla massa grassa siano in gran parte mediati dalla loro attività sulle dimensioni adipocitarie. In definitiva, è ipotizzabile che l’ipoestrogenismo postmenopausale svolga un ruolo
determinante nelle modificazioni corporee rilevabili negli anni
peri- e postmenopausali.
• Disregolazione del bilancio tra
introito e spesa energetica: secondo alcuni autori, le donne in
postmenopausa avrebbero un
bilancio energetico positivo dovuto a una riduzione della spesa energetica in assenza di una
riduzione dell’introito energetico quotidiano. In particolare, le
variazioni della composizione
corporea sarebbero correlate a
una riduzione della spesa energetica a riposo, soprattutto nel
primo anno successivo alla menopausa.
• Alterazione del metabolismo ossidativo dei grassi: studi condotti in soggetti anziani hanno dimostrato che una riduzione dell’ossidazione dei grassi si accompagna a un incremento del tessuto adiposo.
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differenze tra i due sessi
OBESITÀ ANDROIDE
Torace, braccia
OBESITÀ GINOIDE
Anche, cosce,
natiche
Menopausa e
sindrome metabolica
L’incidenza della sindrome metabolica nella popolazione di mezza età degli Stati Uniti è stimata
intorno al 20-30% e la sua prevalenza fa registrare una continua
crescita a causa dell’aumentata
frequenza dell’obesità e di uno
stile di vita sedentario.
Dal 1956 a oggi, il complesso delle alterazioni metaboliche associate all’obesità viscerale in età
adulta è stato denominato in diversi modi. Già nel 1956, la tria-
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ENDOCRINOLOGIA
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de obesità addominale, diabete e
gotta venne definita da Vague
“sindrome dell’obesità androide”,
mentre dieci anni più tardi, Avogaro e Crepaldi utilizzarono il termine “sindrome plurimetabolica”
per descrivere una condizione patologica contrassegnata dalla presenza concomitante di obesità,
diabete, iperlipidemia e ipertensione. Nel 1998, la commissione
consultiva dell’OMS ha inserito un
paragrafo dedicato alla sindrome
metabolica (SM) nel documento
che codifica i nuovi criteri classificativi e diagnostici del diabete
mellito e ha stabilito che per SM
debba intendersi la presenza di
una ridotta tolleranza al glucosio
o di un diabete tipo 2 o di un’insulinoresistenza in associazione
con almeno due delle seguenti alterazioni: ipertensione arteriosa,
ipertrigliceridemia e/o ridotto colesterolo-HDL, obesità centrale e
microalbuminuria (tabella 1).
Nel 2001 il National Cholesterol
Education Program (NCEP) ha suggerito 5 criteri clinici e biochimici
per la diagnosi di SM nella donna:
• circonferenza vita ≥ 80 cm;
• livelli sierici di trigliceridi ≥ 150
mg/dl;
• livelli sierici di colesterolo-HDL ≤
40 mg/dl;
• pressione arteriosa ≥130/85
mmHg;
• glicemia a digiuno ≥ 100 mg/dl.
Il riscontro di tre o più di questi disordini nella stessa paziente è sufficiente per porre diagnosi di SM.
Le difficoltà incontrate nel trovare
una definizione condivisa di questa sindrome sono legate ai suoi
molteplici fenotipi clinici di presentazione e ai diversi quadri con cui
essa può manifestarsi nel tempo,
anche in relazione a fenomeni parafisiologici come, appunto, l’invecchiamento e la menopausa. Al
di là delle differenti definizioni e
dei diversi criteri classificativi, è attualmente assodato che i singoli
componenti della sindrome correlano con un aumentato rischio di
cardiopatia ischemica.
Una condizione
ad alto rischio
Secondo stime recenti, la metà di
tutti gli eventi cardiovascolari documentabili nel sesso femminile è
associata alla presenza di una SM.
Anche il diabete ha un impatto prognostico sfavorevole più spiccato:
esso risulta infatti correlato a una
mortalità che supera di 3-7 volte
quella delle donne non diabetiche,
mentre l’incremento del rischio nell’uomo diabetico è dell’ordine di 2-
Tabella 1 Definizione di sindrome metabolica secondo l’OMS
• Diabete di tipo II
oppure
• Insulinoresistenza
Con almeno due delle seguenti componenti:
• Ipertensione (≥140/90 mmHg)
• Ipertrigliceridemia (150 mg/dl) e/o bassi livelli
di colesterolo-HDL (<39 mg/dl)
• Obesità centrale
• Microalbuminuria
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3 volte. Questo effetto è legato all’interazione della malattia con il
metabolismo dei lipidi e con i valori della pressione arteriosa, due altri fattori di rischio molto importanti per lo sviluppo di cardiopatie.
La presenza della menopausa fa
aumentare del 60% il rischio di
SM, dato che si mantiene anche
dopo correzione per variabili di
confondimento come l’indice di
massa corporea (IMC), l’età e
l’inattività fisica. In effetti, già a
partire dalla menopausa, si osserva un progressivo incremento dell’incidenza della SM che risulta associato soprattutto a un aumento dell’obesità addominale. Questo dato epidemiologico trova il
suo razionale nei molteplici effetti esercitati dagli estrogeni sul metabolismo lipidico e glucidico, sulla coagulazione, sull’emodinamica e sulla fisiologia endoteliale.
Estrogeni e assetto lipidico
• LDL: gli estrogeni potenziano il
catabolismo delle LDL, nonché
il numero e l’attività dei loro recettori; l’effetto finale è una riduzione della concentrazione
di queste lipoproteine.
• HDL: a livello epatico, gli estrogeni incrementano la sintesi dell’apoliproteina A1 - che rappresenta la principale frazione proteica per la sintesi delle HDL - e
riducono l’attività della lipasi,
enzima deputato al catabolismo
delle HDL, con conseguente aumento della concentrazione di
queste lipoproteine.
• Trigliceridi: sempre a livello epatico, gli estrogeni favoriscono
la sintesi di trigliceridi e quindi
delle lipoproteine ricche di trigliceridi come le VLDL.
• Lipoproteina A: gli estrogeni
provocano una riduzione dei
suoi livelli.
ENDOCRINOLOGIA
L’ipoestrogenismo postmenopausale risulta, dunque, accompagnato da una modificazione del metabolismo lipoproteico in senso
aterogeno. La menopausa si associa infatti a un incremento del
colesterolo totale e, in particolare, delle LDL, a un innalzamento
dei livelli dei trigliceridi e a una riduzione delle HDL.
Le variazioni del profilo lipidico
sembrano iniziare già in premenopausa e determinarsi perlopiù
nel primo anno della postmenopausa. Infatti, i livelli di colesterolo totale e LDL nelle donne in premenopausa sono inferiori rispetto a quelli dell’uomo, mentre dopo la menopausa subiscono un
rapido incremento.
I riscontri epidemiologici evidenziano che, in Italia, il 38% delle
donne in menopausa ha colesterolemia totale uguale o superiore a 240 mg/dl o è sottoposto a
un trattamento farmacologico
specifico. Il 35% delle donne in
postmenopausa si trova, invece,
invece in una condizione borderline (colesterolemia compresa fra
200 e 239 mg/dl).
Studi prospettici hanno evidenziato l’esistenza di una stretta associazione tra livelli di colesterolo
totale e patologia coronarica nel
sesso femminile; in tale contesto,
il maggior fattore predittivo di patologia coronarica è, come noto,
un basso livello di colesterolo-HDL;
nello specifico, è stato calcolato
che un decremento dei valori di
HDL di 10 mg/dl è associato a un
aumento del rischio coronarico
del 40-50%.
Terapia ormonale
sostitutiva: quali
effetti sulla
composizione
corporea?
Numerosi lavori hanno dimostrato che la somministrazione della
terapia ormonale sostitutiva (TOS)
protegge dalle variazioni della
composizione corporea che si verificano nel periodo peri e postmenopausale. Infatti, nelle pazienti
che l’assumono non si osservano
variazioni significative del peso,
del contenuto e della distribuzione del grasso corporeo.
sottolineato, la terapia estrogenica - con o senza l’aggiunta di progestinico - diminuisce i livelli circolanti di lipoproteina A.
Le variazioni delle concentrazioni
di apolipoproteine rispecchiano
quelli delle lipoproteine: in risposta alla terapia estrogenica, infatti, si osserva una riduzione dei livelli di apolipoproteina B, maggiormente presente nelle LDL, e
un aumento dei livelli di apolipoproteina A1, la principale apolipoproteina delle HDL.
È stato inoltre documentato che la
terapia combinata con estrogeni e
statine determina un miglioramento del pattern lipidico superiore a
quello ottenibile utilizzando questi farmaci singolarmente. Tuttavia, accanto a queste azioni positive, gli estrogeni possono indurre
un aumento dei trigliceridi.
La necessità di aggiungere
alla TOS un progestinico,
contrasta, almeno parte,
l'attività benefica degli
estrogeni sul sistema cardiovascolare: i 17 nor-derivati incrementano infatti la
concentrazione del colesterolo-LDL e riducono quella
di HDL e di apolipoproteina A1; i derivati a 21 atomi di carbonio, come il medrossiprogesterone acetato, grazie al minor impatto su questi parametri, rappresentano, invece, la
scelta migliore.
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La TOS
è da utilizzare
secondo una “finestra
di opportunità”.
Il più importante effetto metabolico del trattamento estrogenico
nella donna in postmenopausa è
rappresentato dalla riduzione dei
livelli di colesterolo-LDL, mentre
aumentano quelli del colesteroloHDL. Gli estrogeni favoriscono infatti la conversione delle LDL in
particelle più piccole e dense che
vengono rapidamente rimosse dal
torrente circolatorio. L’incremento delle concentrazioni di HDL, in
particolare dell’HDL2, sembra invece correlato all’inibizione della
lipasi epatica. Inoltre, come già
TOS e prevenzione
cardiovascolare
In questi ultimi anni, il ruolo della TOS nella prevenzione primaria e secondaria delle patologie
cardiovascolari è stato ampiamente discusso. Il crescente entusiasmo suscitato dai suoi effetti benefici, emersi da studi osservazionali, è stato infatti frenato dai ri-
9
ENDOCRINOLOGIA
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sultati di una serie di trial prospettici, randomizzati, in doppio cieco e controllati con placebo: in particolare, il Women’s Health Initiative (WHI) per la prevenzione primaria e l’Heart and Estrogen/Progestin Replacement Study (HERS)
I e II per quella secondaria, hanno evidenziato che la TOS provoca un inatteso incremento del rischio di eventi cardiovascolari avversi, seppure modesto in termini assoluti.
• Prevenzione cardiovascolare primaria: anche se accreditato di
particolare autorevolezza, lo studio WHI possiede dei limiti che
rendono le sue conclusioni non
completamente applicabili alla
realtà italiana. Infatti, le donne
arruolate in questo trial avevano un’età media di 63 anni, erano perlopiù asintomatiche, in sovrappeso, in certi casi ipertese o
con patologie cardiovascolari
preesistenti e in trattamento con
statine, tutte condizioni che possono essere considerate, di per
sé, vere e proprie controindicazioni alla TOS.
• Prevenzione cardiovascolare secondaria: nello studio HERS, condotto in donne con un’età media di 67 anni, la TOS non si è
dimostrata efficace nel ridurre
l’incidenza di eventi cardiaci
maggiori e ha, al contrario, fatto registrare un aumento del rischio di eventi coronarici. Anche
in questo caso, tuttavia, le pazienti arruolate nello studio erano anziane e avevano iniziato
l’assunzione della TOS nella postmenopausa tardiva.
Una questione di timing
I risultati di questi studi suggeriscono il concetto di “finestra di
opportunità”, in base al quale la
TOS, se effettuata subito dopo la
menopausa può rivelarsi protettiva, in quanto va ad agire su vasi
ancora relativamente integri, mentre una terapia tardiva, specie se
dopo i 70 anni, può precipitare un
evento cardiovascolare negativo,
poiché esplica i suoi effetti su pareti vasali già gravemente aterosclerotiche, sulle quali l’estrogeno
può comportarsi da fattore precipitante, favorendo il distacco di
piccole placche e causando, così,
un evento tromboembolico.
Alla luce di queste brevi considerazioni, nelle pazienti sintomatiche
e prive di controindicazioni, appare di fondamentale importanza
prescrivere la TOS proprio nella perimenopausa, ossia in un periodo
nel quale il rapporto rischio-beneficio della terapia risulterebbe maggiormente favorevole.
Bibliografia
10
1. Lamberts SWJ, van del Beld AW, van der Lely AJ. The endocrinology of aging. Science 1997; 278: 419-24.
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INFETTIVOLOGIA
I
N
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G
nfezione da
Clostridium difficile: chi,
come, dove e quando?
Una revisione della letteratura più recente consente di fare il punto
della situazione e, soprattutto, di mettere a fuoco i problemi
che maggiormente interessano il contesto ostetrico.
di Annalisa Piazzese, Tullia Todros
Dipartimento di Ostetricia e Ginecologia, A.O. OIRM-Sant’Anna - Torino
I
n questi ultimi anni l’incidenza e
la severità dell’infezione da Clostridium difficile (C. difficile) hanno fatto registrare un incremento
significativo dovuto a svariati fattori, tra i quali vanno ricordati, in
primis, l’abuso di antibiotici e
l’emergenza di un ceppo ipervirulento. Prima appannaggio quasi esclusivo di pazienti immunodepressi o sottoposti a chirurgia
colo-rettale o a chemioterapia, la
malattia associata all’infezione da
C. difficile (CDAD) rappresenta
oggi un’entità clinica che interessa con frequenza crescente anche
categorie di pazienti prima considerate a basso rischio, come i giovani sani non ricoverati o non
esposti a terapie antibiotiche, le
donne nel periodo del periparto
e i bambini. Considerate queste
brevi premesse, è chiara la necessità di approfondire il problema
attraverso un’accorta revisione
della letteratura dedicando, ovviamente, una particolare attenzione al contesto ostetrico.
C. difficile: aspetti
microbiologici
• Tipo di microrganismo: bacillo
Gram-positivo, anaerobio, sporigeno1-5; fu descritto per la prima volta nel 1935 da Hall e
O’Toole come componente della flora batterica del meconio e
delle feci dei neonati; il C. difficile è rilevabile nella microflora del colon del 63% dei neonati sani3,6.
• Via di trasmissione: oro-fecale,
attraverso le spore rilasciate nell’ambiente.
• Patogenesi: i ceppi tossigeni producono due tossine proteiche A
e B che si legano a recettori presenti sugli enterociti, rompono
le giunzioni cellulari delle cellule epiteliali del colon e penetrano tra di esse innescando una
cascata di eventi flogistici che
danneggiano il tessuto attraverso il rilascio di citochine e leucotrieni. La tossina A, nello specifico, è in grado di stimolare una
maggiore secrezione di fluidi a
livello intestinale e di favorire l’infiltrazione neutrofila; nell’arco di
15 minuti dall’inizio dell’esposizione si verificano un esteso danno mitocondriale, una riduzione
della concentrazione di ATP e un
aumento dei radicali liberi dell’ossigeno che aggravano ulteriormente l’attività citotossica1,5.
Il 5-6% dei batteri produce anche una tossina binaria (CDT).
Epidemiologia
Il sintomo diarrea è presente nel
5-20% dei pazienti adulti che ricevono una terapia antibiotica;
nella maggior parte dei casi essa
si risolve spontaneamente con la
sospensione del trattamento. Nel
15-25% dei casi il disturbo è sostenuto da un’infezione da C. difficile, considerato uno dei maggiori patogeni nosocomiali. Nella
popolazione generale non ospedalizzata la crescita del microrganismo è inibita dalla presenza del-
11
INFETTIVOLOGIA
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la flora batterica intestinale ed è
identificabile solo nel 2-5% di portatori asintomatici6-8.
• Recidive/reinfezioni: nel 15-35%
dei casi si verificano recidive sintomatiche8.
• Colite fulminante: è riportata nel
3-8% dei casi, mentre il
3% dei pazienti necessita del ricovero in unità di
terapia intensiva.
• Tasso di mortalità: i decessi sono passati da 5,7
casi/milione di abitanti nel
1999 a 23,4 casi/milione
di abitanti nel 2004, con
un tasso di mortalità del
1-2,5%1,8,9.
Nel periodo 2003-2006 le infezioni da C. difficile registrate in ambito statunitense, canadese ed europeo sono diventate più frequenti e
severe, maggiormente refrattarie
alle terapie standard e più inclini a
dare ricadute. La responsabilità di
questa situazione è attribuibile all’emergenza del nuovo ceppo ipervirulento NAP1/BI/027 (tossinotipo
III), già identificato nel 1984, ma
solo di recente associato a un impatto clinico rilevante. Questo cep-
Sospettare
la CDAD anche
in pazienti considerati
a basso rischio.
po ipervirulento è in grado di produrre, in vitro, una quantità di tossina A e B rispettivamente 16 volte e 23 volte superiore rispetto agli
altri ceppi; in aggiunta esso sintetizza anche la tossina binaria il cui
Tabella 1 Infezione da C. difficile: principali fattori di rischio
Fattori legati all’ospite
• Età superiore ai 65 anni
• Sesso femminile
• Presenza di gravi comorbidità
• Chirurgia gastrointestinale
• Ipoalbuminemia (< 3 g/dL)
• Immunodepressione
• Periodo peripartum
Fattori iatrogeni
• Antibiotici
• Inibitori di pompa protonica/antiacidi
• Sondino naso-gastrico
• Chemioterapia
Fattori ambientali
• Ricovero ospedaliero
• Ricovero in RSA
• Contaminazione ambientale
• Pregressa infezione da C. difficile
Modificato da: Bignardi GE, J Hosp Infect 1998; Vaishnavi C,
Indian J Med Microbiol 2009; Hookman P, World J Gastroenterol 2009.
12
ruolo è ancora ignoto1. Tuttavia la
maggior virulenza, da sola, non
spiega come un ceppo fino a poco tempo fa poco comune sia diventato epidemico: probabilmente uno dei fattori in causa è l’aumentata resistenza acquisita nei
confronti dei fluorochinoloni. Questo ceppo è in grado di infettare
categorie di persone un tempo considerate a basso rischio1,6.
Valutazione del rischio
I fattori di rischio classicamente
associati allo sviluppo di un’infezione da C. difficile sono schematizzati nella tabella 1.
Farmaci
La terapia antibiotica è considerata un elemento critico per lo sviluppo della CDAD, in quanto capace di alterare la flora batterica
intestinale facilitando la colonizzazione da parte del C. difficile. Gli
antibatterici più frequentemente
implicati sono la clindamicina, la
penicillina, le cefalosporine e i fluorochinoloni1,2,5,7. Nel quinquennio
successivo alla prima descrizione
della CDAD, ossia nel periodo che
va dal 1978 al 1983, il determinante principale della malattia era considerato il pregresso impiego di clindamicina, mentre nel periodo
1983-2003, sono state chiamate
in causa soprattutto le cefalosporine; oggi, infine, si attribuisce maggiore importanza ai fluorochinoloni e alle cefalosporine, soprattutto se di terza generazione.
Il rischio di CDAD nei pazienti ospedalizzati può essere aumentato dalla concomitante terapia con antiacidi e, in particolare, con inibitori
di pompa protonica (PPI) che, bloccando la secrezione gastrica di HCl,
eliminano un’importante barriera
difensiva. È stato inoltre osservato
che i pazienti trattati con PPI hanno una probabilità di sviluppare
INFETTIVOLOGIA
una reinfezione 4,17 volte superiore a quella osservabile nei soggetti che non li ricevono1,10. Infine sembra che anche gli antiperistaltici possano favorire l’instaurarsi dell’infezione6.
Peripartum
L’aumentato rischio di CDAD nel
periodo peripartum è influenzato
da svariati fattori tra i quali quelli
di natura immunitaria sembrano
svolgere un ruolo determinante.
Come noto, infatti, la tolleranza
del sistema immunitario materno
nei confronti del feto è associata
a una riduzione dell’immunità cellulo-mediata; di conseguenza, il
pattern secretorio delle cellule Th1
è rimpiazzato da quello delle cellule Th2, con la creazione di un
contesto presumibilmente in grado di aumentare il rischio d’infezione. A tutto questo si aggiunge
la presenza di un ceppo ipervirulento (aumentata produzione di
tossina A e B e sintesi di una tossina binaria) che rappresenta un
ulteriore elemento di rischio per
lo sviluppo dell’infezione nella popolazione sana e quindi anche in
gravidanza.
Una ricerca effettuata in PubMed
relativamente al periodo giugno
1966 - agosto 2007 ha consentito di identificare 24 casi d’infezione da C. difficile, di cui 10 privi di
dettagli specifici. Nei 14 casi ben
documentati l’età media era 29,2
± 4,8 anni; 9 pazienti (64%) erano state sottoposte a taglio cesareo e 3 (21%) avevano avuto un
parto spontaneo prima di contrarre l’infezione, mentre 2 (14%) si
erano infettate prima del parto;
in 11 casi su 12 (92%) era stata
effettuata una profilassi antibio-
tica durante il parto, in 7 casi su
14 (50%) gli antibiotici erano stati utilizzati nel mese precedente
all’infezione e in 1 caso non era
stata effettuata una precedente
terapia antibiotica. L’infezione si
è manifestata clinicamente con
diarrea in tutte le pazienti; 4 su 8
(50%) hanno avuto febbre superiore a 37,8 °C; 8 su 11 (73%)
hanno riportato dolore addominale; 4 su 7 (57%) avevano una
conta leucocitaria superiore a
12.000; 2 su 12 (17%) hanno richiesto una colostomia o una ileostomia.
In definitiva, di fronte a pazienti
affette da diarrea durante la gravidanza o nel peripartum è necessario considerare la possibilità di
un’infezione da C. difficile, anche
in assenza dei tradizionali fattori
di rischio, come una terapia antibiotica o un recente ricovero4,11.
Comorbidità
La presenza di comorbidità, come patologie cardiovascolari, immunosoppressione, insufficienza
respiratoria, chirurgia intestinale,
insufficienza renale, convalescenza postoperatoria, è associata a
una maggiore severità dell’infezione. Nel periodo 2003-2005, il
rischio di infezione da C. difficile
è stato pari a 14,9 casi ogni 1.000
interventi chirurgici nei pazienti
che avevano ricevuto una profilassi antibiotica preoperatoria, con
un significativo aumento rispetto agli 0,7 casi/1.000 del 199920021,5,12.
Portatori sani: trattare
o non trattare?
Circa il 3% degli adulti sani e il
20-40% dei soggetti ospedalizzati sono colonizzati dal C. difficile, presente nel tratto intestinale sotto forma di spora e, quindi,
metabolicamente inattivo; in que-
ste condizioni, l’esposizione agli
antibiotici che alterano la normale flora batterica intestinale rappresenta il principale fattore di rischio per lo sviluppo di una
CDAD1,7. Ci si è quindi chiesti se
valesse la pena di trattare questi
pazienti allo scopo di arginare la
diffusione del microrganismo. Uno
studio13 randomizzato e controllato, condotto su 30 pazienti portatori asintomatici di C. difficile,
assegnati a un trattamento orale
di 10 giorni con 125 mg di vancomicina qid (N= 10) o 500 mg di
metronidazolo bid (N= 10) o placebo (N= 10), ha evidenziato una
negativizzazione delle coproculture durante o al termine della terapia in 9 pazienti del gruppo vancomicina, in 3 del gruppo metronidazolo e in 2 del gruppo placebo. In ogni caso, la decolonizzazione è stata solo transitoria poiché la maggior parte della casistica è andata incontro a una ricolonizzazione nel giro di poche settimane; di conseguenza il trattamento dei portatori di C. difficile
non è raccomandato.
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Manifestazioni
cliniche
Lo spettro delle presentazioni cliniche va dallo stato di portatore
asintomatico (senza evidenza della tossina) alla severa colite pseudomembranosa con megacolon
tossico che può portare anche al
decesso.
L’infezione da C. difficile provoca
una diarrea continua o intermittente, spesso acquosa e raramente emorragica, che esordisce a circa 48-72 ore di distanza dall’infezione. La febbre è presente in
2/3 dei casi e può precedere l’insorgenza del disturbo intestinale.
I pazienti riportano nausea, anoressia, malessere generale e mostrano distensione addominale e
13
INFETTIVOLOGIA
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14
segni di disidratazione. La sintomatologia si manifesta generalmente dopo 5-10 giorni di terapia antibiotica consecutiva, ma
può presentarsi già dopo un giorno e fino a 8 settimane di distanza dalla sospensione degli antibiotici1,6.
Il sospetto diagnostico d’infezione deve essere posto con grande
tempestività, ricordando, per
esempio, che anche una leucocitosi inspiegabile in un paziente
ospedalizzato potrebbe essere indicativa di un’infezione da clostridi, anche in assenza di diarrea.
Tutti i soggetti che hanno contratto l’infezione risultano positivi alla ricerca delle tossine; il 3% dei
casi di CDAD richiede la terapia
intensiva1,2,6,14.
• Colite pseudomembranosa: si
osserva approssimativamente nel
5-10% dei casi. Le pseudomembrane possono essere visualizzate mediante l’esame endoscopico, anche se si preferisce non
eseguirlo per l’aumentato rischio
di perforazione intestinale1,6,14.
• Colite fulminante: si osserva nel
3-8% dei casi ed è caratterizzata da dolore addominale severo
localizzato ai quadranti inferiori
o diffuso, diarrea, distensione
addominale, febbre, ipovolemia,
acidosi lattica e marcata leucocitosi (>40.000 GB). Il trattamento si basa, in genere, sulla colectomia subtotale con ileostomia.
Nei casi più severi, la colite può
esordire con febbre, letargia, tachicardia e addome acuto; paradossalmente, la diarrea può
anche mancare a causa della distensione colica e ileale, specie
se sono stati somministrati farmaci antiperistaltici. Questa condizione è considerata molto pericolosa perché può portare a un
mancato o tardivo trattamento
e quindi a una rapida progressione verso gravi complicazioni
come il megacolon tossico, la
perforazione intestinale e la peritonite batterica.
• Megacolon tossico: viene diagnosticato in base alla presenza di una dilatazione del colon
(>7 cm come diametro maggiore) accompagnata da tossicità
sistemica. La radiografia diretta dell’addome può mostrare
anche solo una dilatazione minima dell’intestino, livelli idroaerei (mimando il quadro dell’occlusione intestinale) e segni
di edema della sottomucosa. I
pazienti con megacolon tossico devono essere valutati chirurgicamente per un’eventuale
resezione intestinale.
Diagnosi di laboratorio
La ricerca del C. difficile e delle sue
tossine su coltura cellulare rappresenta il gold standard diagnostico per l’elevata sensibilità e specificità dell’esame che, tuttavia,
non viene, in genere, utilizzato in
quanto costoso in termini di tempo (48 ore per avere la risposta)
e denaro. I test più attendibili sono quelli immunoenzimatici come l’ELISA (enzyme-lynked immunoabsorbent assay) e l’EIA (enzyme immunoassay) che evidenziano la presenza delle tossine A e B
in modo rapido e poco dispendioso. Poiché questi esami hanno una
specificità molto elevata (99100%), ma una sensibilità nettamente più bassa (69-87%), dovrebbero essere impiegati solo in
presenza di un sospetto di CDAD,
ricordando che un test negativo
non comporta automaticamente
l’esclusione della malattia, specie
di fronte a un sospetto clinico molto forte. Altra metodica diagnostica è la PCR (polymerase chain
reaction) che, tramite l’amplificazione del materiale genico del C.
difficile, è in grado di identificare
i geni (tcdA e tcdB) responsabili
della produzione delle tossine A
e B e, nel ceppo ipervirulento, la
presenza del gene per la tossina
binaria (cdtA-cdtB). È stata messa a punto anche una Real-time
PCR che permette di avere risultati in <4h; essendo più rapida e
sensibile di EIA non si esclude che
in futuro ne possa prendere il posto1,5-7,15.
Opzioni terapeutiche
Il primo passo nella gestione della diarrea e della colite associate
all’infezione da C. difficile, confermata o sospetta, è interrompere
la terapia antibiotica in atto o, se
questo non fosse possibile, cambiare il tipo di antibiotico. La somministrazione di farmaci antiperistaltici dovrebbe essere evitata,
mentre risulta essenziale la correzione tempestiva delle perdite
idrosaline. È possibile anche somministrare resine sequestranti come la colestiramina e, in casi selezionati, ricorrere alla somministrazione di immunoglobuline ev;
più raramente è richiesta la terapia chirurgica. I pazienti vanno,
ovviamente, posti in isolamento
da contatto2,5.
Terapia antibatterica:
quale e quando?
Gli antibiotici utilizzati per il trattamento della CDAD possono essere somministrati per via orale,
rettale o endovenosa.
• Metronidazolo orale: in caso di
forte sospetto diagnostico, può
essere utilizzato per effettuare
una terapia empirica in attesa
della conferma diagnostica. Il
metronidazolo è raccomandato come terapia di prima linea
con uno schema di 500 mg 3
volte al dì o 250 mg 4 volte al
dì per 10 giorni. Dopo somministrazione orale, la maggior
INFETTIVOLOGIA
parte del farmaco viene eliminata con le urine e una quota
del 6-15% con le feci.
• Vancomicina orale: è raccomandata per 10 giorni nelle forme
di CDAD più severe, in caso di
fallimento della terapia con metronidazolo o quando quest’ultimo non può essere utilizzato.
Dopo somministrazione orale il
farmaco non viene assorbito ed
è eliminato in forma immodificata con le feci5. Uno studio prospettico, randomizzato e controllato, ha messo a confronto
una terapia di 10 giorni con 250
mg di metronidazolo per os 4
volte/die e 500 mg di vancomicina per os 4 volte/die16; la vancomicina è risultata associata ad
alcuni fallimenti terapeutici, ma
non in misura significativa e si è
dimostrata più rapida del metronidazolo nell’alleviare i sintomi
(3 vs 4,6 giorni); la percentuale di recidive è stata simile nei
due gruppi. Un altro studio ha
confrontato l’efficacia di vancomicina somministrata per 10
giorni a due differenti dosaggi:
125 mg 4 volte/die o 500 mg 4
volte/die17; poiché la risposta al
trattamento e la percentuale di
recidive è stata simile nei due
gruppi, sembra ragionevole iniziare con un regime a basso dosaggio, modulando poi la dose
in base alla gravità del quadro
clinico.
In genere, il 10-25% dei pazienti sviluppa una recidiva e i sogget-
ti che vanno incontro a una o più
ricadute hanno il 65% di possibilità di sviluppare nuovamente la
CDAD. Una volta risolta la malattia, è consigliabile evitare, se possibile, l’uso di antibatterici per almeno due mesi. In caso di recidiva è possibile somministrare lo
stesso farmaco utilizzato nel precedente trattamento5.
Una review della Cochrane Collaboration18 ha analizzato 12 studi
randomizzati e controllati per un
totale di 1.157 pazienti
affetti da CDAD e trattati con 8 diversi antibiotici allo scopo di valutare l’effetto della terapia
su vari outcome, come
l’inizio della risoluzione
della diarrea, la negativizzazione del C. difficile o della sua tossina, i
decessi correlati alla malattia e i costi dei differenti regimi
terapeutici.
• Rapidità d’azione sulla sintomatologia: il metronidazolo, la bacitracina, la rifaximina e l’acido
fusidico hanno dimostrato un effetto sovrapponibile a quello della vancomicina, mentre la teicoplanina è risultata leggermente
più efficace della vancomicina
(RR 1,21).
• Negativizzazione coprocolture:
teicoplanina è risultata superiore a vancomicina (RR 1,82), il metronidazolo equiparabile a vancomicina e l’acido fusidico meno efficace.
• Sepsi, morte: sono risultati infrequenti; tra tutti gli studi che hanno considerato come outcome
l’evento morte (N=582) sono stati rilevati solo 9 decessi.
• Valutazioni farmacoeconomiche:
solo uno studio ha considerato
il costo dei diversi trattamenti,
ossia 7.358$ per 10 giorni di terapia con vancomicina 500 mg
4 volte/die; 765$ per 10 giorni
di terapia con metronidazolo
500 mg 3 volte/die; 200$ per 10
giorni di terapia con bacitracina
25.000 U 4 volte/die; 1.374$ per
10 giorni di terapia con teicoplanina 400 mg 2 volte/die e 706$
per 10 giorni di terapia con acido fusidico 500 mg 3 volte/die.
In definitiva, come trattamento di
prima linea viene raccomandato
l’impiego del metronidazolo (tabella 2), caratterizzato da un’efficacia sovrapponibile a quella del-
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Armi contro CDAD:
rapida diagnosi,
giusta terapia,
isolamento da contatto.
la vancomicina e da un costo inferiore7; inoltre, così facendo, si
evita la conseguenza negativa dello sviluppo di resistenza alla vancomicina da parte di alcuni enterococchi (VRE=vancomycin-resistant enterococcus).
Le linee guida dell’American College of Gastroenterology19 suggeriscono l’utilizzo della vancomicina come terapia di prima linea
solo in situazioni ben codificate,
come la mancata risposta o intolleranza al metronidazolo o in casi particolarmenti severi.
Risultati contrastanti
per i probiotici
Una review di Pillai et al20 ha esaminato gli studi prospettici randomizzati che hanno valutato il
ruolo dei probiotici - utilizzati da
soli o in associazione alla terapia
antibiotica convenzionale - nel periodo 1966-2007. Dei quattro trial
inclusi nella revisione, solo uno ha
mostrato un beneficio significativo per la combinazione probioti-
15
INFETTIVOLOGIA
N
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Tabella 2 Schemi di antibioticoterapia
Metronidazolo
• Come trattamento di prima linea, 500 mg per os 3 volte/die o 250 mg
per os 4 volte/die per 10 giorni; nei pazienti che non tollerano la terapia
per via orale può essere utilizzata la formulazione ev.
Vancomicina
• Riservata ai pazienti che non rispondono al metronidazolo, alle donne
gravide o ai bambini di età inferiore ai 10 anni, ai casi di colite fulminante
e ai soggetti immunocompromessi.
• La dose raccomandata è di 125 mg per os 4 volte/die per 10 gioni; in
base alla gravità del quadro clinico, il dosaggio può essere aumentato
fino a 500 mg 4 volte/die per 10 giorni.
Antibiotico-resistenza
• Il fallimento della terapia con metronidazolo è stato associato a bassi
livelli di albumina (<2,5 g/l) e alla degenza in terapia intensiva al momento
della diagnosi o prima.
• Nel 2002 la percentuale di resistenza al metronidazolo era del 6,3%,
mentre il 3,1% dei ceppi di C. difficile isolati mostrava una ridotta sensibilità
alla vancomicina.
16
ci-antibiotici. Di conseguenza, gli
autori hanno concluso che le evidenze disponibili non sono sufficienti per raccomandare l’impiego dei probiotici in aggiunta alla
terapia convenzionale. E, del resto, non sussistono neppure evidenze a sostegno dell’utilizzo dei
soli probiotici nella colite da Clostridium1,20.
Sempre in tema di probiotici, uno
studio condotto nel 1994 da
McFarland et al aveva evidenziato
che i pazienti affetti da CDAD trattati con l’antibioticoterapia convenzionale associata al Saccharomyces boulardii mostravano una
minore propensione a sviluppare
recidive di CDAD rispetto ai controlli in terapia con i soli antibiotici. Più recentemente, una metanalisi effettuata sempre da McFarland
et al su 25 studi randomizzati condotti nell’ambito della diarrea associata all’uso di antibiotici (AAD)
ha dimostrato che i probiotici ridu-
cono il rischio relativo di questo disturbo (RR 0,43; IC 95% 0,31-0,58;
p <0,001), mentre altri 6 studi randomizzati hanno evidenziato un’efficacia significativa dei probiotici nei
confronti CDAD (RR 0,59; IC 95%
0,41-0,85; p=0,005)22.
Resine sequestranti
La colestiramina e il colestipolo, resine spesso utilizzate per trattare
l’ipercolesterolemia, sono in grado di legare la tossina B e pertanto possono essere utilizzate come
terapia aggiuntiva della CDAD, tenendo però conto dello loro interazioni, incluso un possibile legame con la vancomicina e quindi
la sua inattivazione; proprio per
questo motivo, le resine sequestranti dovrebbero essere somministrate a distanza di 2-3 ore da
questo antibatterico. Gli schemi
terapeutici consigliati sono colestipolo (5 g ogni 12 ore) o colestiramina (4 g, 3 o 4 volte al gior-
no), per 1 o 2 settimane, in genere in associazione a vancomicina.
Un altro approccio ancora in fase
di studio è quello con tolevamer,
un principio attivo ad alto peso
molecolare in grado di legare sia
la tossina A che la B1,5,7.
Vaccino
Diverse proteine del C. difficile sono state proposte come target per
lo sviluppo di un vaccino, per
esempio quelle della parete cellulare o le tossine A e B.
Uno studio recente ha documentato l’esistenza di un’associazione tra resistenza allo sviluppo della CDAD e un significativo aumento delle IgG anti-tossina A,
mentre il ruolo delle IgG anti-tossina B è ancora sconosciuto; tuttavia, poiché alcuni ceppi di C.
difficile producono solo la tossina B, si sta cercando di creare comunque un vaccino che colpisca
entrambe.
Le prime somministrazioni del vaccino, sono state condotte in via
sperimentale in tre pazienti con
CDAD ricorrente (non rispondente ad altre terapie in modo definitivo): in 2 casi su 3 si è registrato un aumento significativo delle
IgG anti-tossine A e B e ha permesso loro di sospendere il trattamento con vancomicina orale
senza avere più recidive23. In ogni
caso però la realizzazione di un
vaccino è ancora in fase di studio.
Trattamento chirurgico
In presenza di una mancata risposta alla terapia nell’arco di 48-72
ore oppure di segni d’insufficienza d’organo o di peritonite, è necessario prendere in considerazione l’approccio chirurgico, più precisamente una colectomia subtotale con ileostomia.
La mortalità correlata alla chirurgia della CDAD è pari al 35-80%,
un dato che rispecchia le scaden-
INFETTIVOLOGIA
ti condizioni cliniche dei pazienti
deputati a questo trattamento effettuato in urgenza2.
L’infezione
da C. difficile in
ambito ostetrico
Le linee guida per la diagnosi e il
trattamento della malattia in gravidanza e nell’allattamento non
differiscono da quelle valide per
la popolazione adulta, anche se
per il contesto ostetrico è necessario fare alcune considerazioni
aggiuntive, soprattutto per quanto riguarda il maggior rischio di
disidratazione e di squilibrio elettrolitico correlato allo spiccato fabbisogno idrico delle donne gravide o che allattano.
Metronidazolo:
in gravidanza…
Il metronidazolo è ampiamente
utilizzato in ambito ostetrico per
la terapia delle vaginiti sostenute
dal Trichomonas o di origine batterica. Il suo impiego ha vissuto
momenti controversi a causa dell’azione cancerogena osservata in
alcuni roditori trattati, però, con
dosaggi notevolmente superiori a
quelli utilizzati nell’uomo. Tali effetti possono essere riconducibili
al suo meccanismo d’azione che
culmina in un’attività citotossica
mediata dall’alterazione del DNA
batterico. In ogni caso, nessuno
degli studi condotti sull’uomo, tra
i quali il più recente ha un followup di 20 anni, ha dimostrato l’esistenza di problemi di questo tipo24.25.
Il metronidazolo rientra nei farmaci di categoria B per la gravidanza; in altre parole, non sono
stati evidenziati rischi nell’animale, ma non esistono studi controllati sulle donne gravide.
Il farmaco attraversa la placenta
e diversi lavori condotti sull’animale non hanno dimostrato l’esistenza di teratogenicità; solo alcuni piccoli studi sull’uomo hanno suggerito un possibile effetto
teratogeno nel primo trimestre di
gravidanza, ma una metanalisi
condotta su un totale di 2.700
esposti nel periodo prenatale, non
ha evidenziato un aumento dell’incidenza di anomalie congenite o la presenza di basso peso alla nascita26,27. Nonostante questi
dati siano rassicuranti, si preferisce non utilizzare il metronidazo-
Tabella 3 Infezione da C. difficile: strategie profilattiche
• Collocare i pazienti infetti in camera singola o in camera con altri pazienti
colpiti dallo stesso patogeno.
• Lavarsi le mani con acqua e sapone: i gel disinfettanti non sono in grado
di rimuovere le spore del C. difficile.
• Adottare un isolamento da contatto utilizzando mezzi di barriera (guanti,
mascherine, camici monouso).
• Utilizzare esclusivamente materiale dedicato (fonendoscopio, sfigmomanometro, termometro).
• Educare alle procedure di isolamento anche parenti e le persone in visita;
limitare il numero di soggetti in visita.
• Utilizzare prodotti contenenti ipoclorito di sodio per la disinfezione della
stanza e dei suoi arredi.
lo nel primo trimestre di gravidanza, mentre il suo impiego è accettato nel secondo e nel terzo trimestre per il trattamento delle vaginiti batteriche, a causa della loro associazione al parto pretermine28,29.
N
O
G
… e nell’allattamento
Il metronidazolo e il suo metabolita idrossimetronidazolo sono
escreti nel latte materno. Due studi hanno riscontrato nel plasma
dei neonati livelli di metronidazolo pari al 10-19% di quelli osservabili nelle madri che assumevano il farmaco a un dosaggio di
1.200 mg/die ripartito in più somministrazioni30,31; va tuttavia rilevato che nei neonati esposti al
principio attivo non sono stati segnalati eventi avversi e che, quando necessario, il metronidazolo
viene utilizzato in ambito pediatrico a dosaggi ben superiori a
quelli assunti attraverso il latte materno.
Nel 1994, l’American Academy of
Pediatrics suggeriva alle donne di
sospendere l’allattamento nelle
12-24 ore successive all’assunzione di una dose elevata di metronidazolo, senza peraltro fornire
indicazioni circa il comportamento da tenere dopo l’assunzione di
un basso dosaggio o in corso di
trattamenti prolungati. Pertanto,
la raccomandazione ultima da seguire è quella di soppesare caso
per caso i benefici dell’allattamento materno (seppur con latte contaminato da una bassa percentuale di farmaco) e i rischi connessi
alla sua rinuncia6.
Vancomicina orale
La vancomicina somministrata per
os è completamente sicura in gravidanza e durante l’allattamento
perché non viene assorbita a livello sistemico; comunque a causa
della sua tendenza a favorire la
17
INFETTIVOLOGIA
N
O
G
selezione di ceppi resistenti deve
essere utilizzata con cautela6,11.
Conclusioni
Alla luce di quanto descritto, si
pone dunque la necessità di una
maggiore attenzione nei confron-
ti dell’infezione da Clostridium
difficile, sia tenendo conto dei
classici e ben conosciuti fattori di
rischio, sia considerando la nuova epidemiologia di questa infezione.
Il sospetto diagnostico va pertanto posto anche in classi di popo-
lazione un tempo considerate non
a rischio (per esempio, donne nel
periodo peripartum) e deve portare a procedere a una rapida diagnosi, in modo da avviare tempestivamente il trattamento più
adatto per il paziente ed evitare
l’insorgenza di complicanze.
Bibliografia
18
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RICERCA
E
N
O
G
mbolia da
liquido amniotico
Lo studio approfondito di otto casi di embolia polmonare
da liquido amniotico offre uno spunto di riflessione
sui fattori di rischio, sulle manifestazioni cliniche
e sulle difficoltà diagnostiche insite in questo tipo di eventi.
di Alessandra Spada, Pantaleo Greco
Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Divisione di Ostetricia e Ginecologia, Università degli Studi di Foggia,
Ospedali Riuniti - Foggia
Margherita Neri, Emanuela Turillazzi, Vittorio Fineschi
Dipartimento di Patologia Forense, Università degli Studi di Foggia, Ospedale “Colonnello D’Avanzo” - Foggia
L’
embolia da liquido amniotico
(Amniotic Fluid Embolism o
AFE) è un’emergenza ostetrica osservabile in circa 1/120.000 gravidanze. Nei Paesi sviluppati questo evento avverso è responsabile del 10% delle morti materne1.
Sebbene la sua fisiopatologia sia
ancora poco chiara, è stato ipotizzato che l’embolizzazione di
componenti del liquido amniotico e di frammenti di tessuto di origine fetale nella circolazione materna provochi un’embolia polmonare (EP) e un collasso cardiorespiratorio.
La sindrome fu riconosciuta per
la prima volta nel 1926, ma non
venne rigorosamente descritta fino al 1941, quando le autopsie
di otto donne, decedute per shock
improvviso durante il travaglio,
documentarono la presenza di cellule squamose e mucina di apparente origine fetale nella circolazione polmonare materna2.
Le difficoltà da fronteggiare nel
porre una diagnosi clinica di AFE
sono state evidenti fin dalla sua
prima descrizione. Essa si manifesta acutamente, durante o subito dopo il travaglio, con segni
e sintomi caratteristici dell’EP e
dell’anafilassi. Le manifestazioni
cliniche sono rapidamente ingravescenti, con distress respiratorio,
cianosi, aritmie cardiache, collasso cardiovascolare, coagulopatia
intravascolare disseminata e correlata emorragia, fino al coma.
Nei casi fatali, la diagnosi di certezza è successiva all’esame autoptico, che rileva la presenza di
cellule squamose di origine feta-
le nella circolazione polmonare,
mentre in quelli non fatali occorre affrontare un iter diagnosticodifferenziale al fine di escludere
ogni altra possibile causa3.
Materiali e metodi
Sono stati valutati retrospettivamente i dati clinici e i registri di
2.843 autopsie eseguite presso il
Dipartimento di Patologia Forense dell’Università di Foggia tra il
1998 e il 2006; dal database sono stati selezionati otto casi
(0,28%) in cui l’AFE era citata
quale possibile causa di responsabilità professionale. Abbiamo
dunque analizzato l’età materna,
l’anamnesi patologica, i fattori di
rischio per AFE, le precedenti gra-
19
RICERCA
N
O
G
vidanze e il loro esito, le cure prenatali, l’età gestazionale, l’outcome fetale o neonatale, le modalità di parto, la sintomatologia clinica della madre, i tempi d’insorgenza dei segni clinici, i dati emersi dall’autopsia, la tossicologia, le
cause e le circostanze di
morte.
Tutte le donne presentavano anamnesi negative,
erano gravide a termine,
ed erano state ricoverate
presso strutture ospedaliere di terzo livello nelle regioni meridionali d’Italia (800.000 abitanti, 3.500
parti/anno) al termine di gravidanze singole e fisiologiche. In tutti i
casi il decorso clinico del travaglio
risultava complicato dall’insorgenza acuta di segni clinici svariati e
non caratteristici dell’AFE. Nonostante la pronta rianimazione e
l’appropriato trattamento multidisciplinare non vi erano stati esiti
positivi. Le autopsie, eseguite 3648 ore dopo la morte, avevano previsto la raccolta di campioni bilaterali di tessuto polmonare, secondo i criteri standard3.
Una volta sospettata retrospettivamente un’AFE, erano state utilizzate tecniche istochimiche e immunoistochimiche - come l’alcian
blu e la citocheratina3 - allo scopo
di rilevare la presenza di elementi
di liquido amniotico nella circolazione polmonare.
Tre donne presentavano un’anamnesi positiva per diatesi allergica;
due avevano un body mass index
(BMI) superiore a 25 kg/m2. Le note cliniche periparto includevano
la tachicardia e lo shock quali sintomi più frequenti (62,5%), mentre la bradicardia e il
coma erano presenti
nel 37,5%.
L’intervallo
di tempo
tra l’inizio
del travaglio e l’inizio della
sintomatologia era compreso tra
0,4 e 7,5 ore (media 3,8). Tutte le
donne erano decedute entro sette ore dall’inizio dei sintomi. L’ispezione esterna dei corpi risultava negativa, fatta eccezione per le cicatrici laparotomiche da taglio cesareo che si riscontravano sui corpi
di tre pazienti.
Evento raro,
l’AFE non può essere
né prevista
né prevenuta.
Risultati
20
Nella tabella 1 sono riportati sinteticamente gli aspetti clinici-chiave di tutta la casistica considerata.
Esame autoptico
• Quadro macroscopico: in tutti i
casi erano presenti edema polmonare, congestione e atelettasia focale. In sei donne erano documentabili stravasi ematici cardiaci e sub-pleurici, nonché tessuto ematico intorno al punto
d’inserzione del catetere intravascolare. Tre pazienti mostravano cicatrici isterotomiche da taglio cesareo. Gli altri organi apparivano normali all’esame macroscopico, fatta eccezione per
l’intensa stasi multiorgano e per
l’edema cerebrale.
• Quadro istopatologico: l’esame
dei campioni polmonari documentava la presenza di lanugine e frammenti fetali nei vasi polmonari materni, enfisema acuto ed edema polmonare. La la-
nugine e le cellule squamose risultavano chiaramente evidenti
dopo colorazione con mucina.
Nei sei casi con sintomi clinici
suggestivi di CID erano riscontrabili emorragie subpleuriche e
subepicardiche e formazioni microtrombotiche in capillari settali polmonari. I campioni di tessuto uterino non risultavano patologici. Gli altri organi presentavano modificazioni riconducibili a un’ipotensione prolungata e anossia e, nei casi di CID, i
piccoli vasi renali e cerebrali mostravano microformazioni trombotiche.
Questi rilievi hanno consentito di
confermare l’AFE come causa di
morte in tutta la casistica. Le analisi tossicologiche per abuso di droghe sono risultate sempre negative: in 4 donne erano presenti sostanze anestetiche, analgesiche
e/o farmaci utilizzati durante la
rianimazione.
Discussione
Attualmente l’AFE non è ritenuta,
in linea di massima, prevedibile,
poiché non sono stati ancora codificati fattori di rischio costantemente presenti. In almeno metà
dei casi riportati non è stato rilevato alcun elemento di rischio e le
RICERCA
manifestazioni cliniche sono risultate significativamente differenti.
Questo conferma che l’AFE non
può essere né prevista, né prevenuta. Del resto, si tratta di un evento raro che, come già ricordato,
può estrinsecarsi con un largo spet-
tro di quadri clinici. È quindi facile
non riuscire a porre tempestivamente la diagnosi corretta. I dati
dei registri nazionali e regionali possono essere utili per quantificare
l’incidenza, la mortalità materna e
fetale, la morbidità a lungo termi-
ne della malattia e per individuarne i fattori di rischio.
N
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G
Inquadramento clinico
Le manifestazioni cliniche più frequenti e immediate dell’AFE sono rappresentate dall’ipossia, dal-
Tabella 1 Riscontri clinici in otto casi di AFE fatale confermati dallo studio autoptico
Parametro
• Età materna, anni
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Multiparità
BMI >25 kg/m2
Anamnesi positiva per diatesi allergica
Parti a termine
Polidramnios
Abruptio placentae
Emorragia durante o dopo il travaglio
CTG* anormale prima dell’inizio dei sintomi
CTG* anormale dopo l’inizio dei sintomi
Profilo coagulativo anormale prima dell’inizio dei sintomi
Profilo coagulativo anormale dopo l’inizio dei sintomi
Induzione del travaglio
Parto operativo vaginale
Taglio cesareo
Acidosi fatale/neonatale
Necessità di rianimazione neonatale
Nascite pretermine
Isterectomia d’emergenza
Media
Range
3,5
22-39
N
%
5
2
3
8
2
1
6
1
3
0
6
1
3
3
2
2
2
2
62,5
25,0
37,5
100
25,0
12,5
75,0
12,5
37,5
0,0
75,0
12,5
37,5
37,5
25,0
25,0
25,0
25,0
5
3
0
5
1
3
3
2
6
62,5
37,5
0,0
62,5
12,5
37,5
37,5
25,0
75,0
Sintomi
- Tachicardia
- Bradicardia
- Convulsioni
- Ipotensione severa
- Segni di anafilassi
- Coma
Miglioramento temporaneo della clinica
Decessi durante la prima ora dall’inizio dei sintomi
Decessi durante le prime sette ore dall’inizio dei sintomi
Intervallo tra l’inizio del travaglio e l’inizio della sintomatologia, ore
Intervallo tra l’inizio della sintomatologia e il decesso, ore
Mediana
Range
3,75
4,75
0,4-7,5
0,25-36
21
RICERCA
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G
l’ipotensione con shock, da un’alterazione dello stato mentale e
dalla coagulazione intravascolare
disseminata: queste sono riscontrabili con un’incidenza dell’80100%3. Altri sintomi comuni sono le convulsioni, l’agitazione,
l’evidenza di sofferenza fetale, la
febbre, i brividi, la nausea, il vomito e la cefalea4. Fino a quando
essi non sono tutti presenti, la diagnosi differenziale dell’AFE copre
un ampio spettro di patologie che
include lo shock anafilattico ed
emorragico, l’eclampsia, gli accidenti cerebrovascolari, la tromboembolia e la sepsi3,6. Secondo uno
studio di coorte retrospettivo condotto da Kramer et al5, le gravidanze multiple, l’età materna
avanzata, il parto operativo per
via vaginale o il taglio cesareo, la
placenta praevia, l’abruptio placentae, le lacerazioni cervicali, le
rotture d’utero e la sofferenza fetale sembrano correlati a un maggior rischio di AFE, come, del resto, l’induzione medica del travaglio di parto7. In ogni caso, come
affermano Moore et al4, gli studi
di coorte sono gravati da errori sistematici che portano a sovrastimare o a sottostimare la frequenza dell’evento. A questo proposito, va sottolineato come i casi non
fatali potrebbero essere sopravvalutati perché la diagnosi di AFE
è improbabile e poco verosimile:
il decorso clinico della malattia è
infatti caratterizzato da un dete-
rioramento rapido e catastrofico
delle condizioni materne; inoltre,
la diagnosi di certezza può essere posta solo mediante lo studio
anatomopatologico di campioni
di tessuto polmonare8,9. I casi fatali, invece, hanno meno probabilità di sfuggire alla diagnosi perché i segni e i sintomi dell’AFE e
il suo andamento fulminante e rapidamente progressivo consentono di distinguerla da altre cause
di morte materna4.
In definitiva, considerata l’assenza di un test diagnostico per l’AFE,
sarebbe utile stabilire uno score
di rischio, sulla base di criteri epidemiologici e clinici, con lo scopo di guidare il comportamento
clinico10.
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DIAGNOSTICA
U
N
O
G
ltrasonografia nella patologia
endometriale ed endocavitaria
uterina: quale metodica?
Un approccio diagnostico accurato e riproducibile che, se utilizzato
correttamente, permette di effettuare valutazioni efficaci ed efficienti
delle diverse patologie che coinvolgono l’endometrio e la cavità uterina.
di Francesco P.G. Leone, Carmelo Marciante
Clinica Ostetrica e Ginecologica, Dipartimento di Scienze Cliniche “L. Sacco”, Università degli Studi - Milano
L
a moderna diagnostica per immagini della patologia endometriale ed endocavitaria uterina
si basa sull’utilizzo dell’ecografia
transvaginale bidimensionale e tridimensionale, tecnica di imaging
indiretta eseguita mediante sonde endovaginali multifrequenza
(3-9 MHz).
• Ecografia transvaginale bidimensionale: è una metodica estremamente accurata e riproducibile per lo studio dell’endometrio e della cavità uterina, in particolare dopo la menopausa.
• Ecografia transvaginale tridimensionale: costituisce una delle prime applicazioni della telemedicina in ginecologia e offre la possibilità di acquisire volumi da ridiscutere nell’ambito dell’équipe o con una consulenza esterna, la cosiddetta second opinion.
• Ecografia pelvica con sonda transaddominale: è attualmente considerata una metodica ancillare
impiegabile in casi selezionati
(presenza di voluminose neoformazioni addomino-pelviche, studio della morfologia uterina per
valutare correttamente il profilo
esterno del fondo uterino) e di
limitata utilità nella valutazione
della patologia endometriale.
• Ecografia transrettale: in particolari circostanze, come le pazienti virgo o con severa atrofia
senile nelle quali la semeiotica
transvaginale con sonda endocavitaria risulta controindicata,
la valutazione endometriale condotta per via transrettale fornisce risultati altrettanto conclusivi e diagnostici.
• Isteroscopia: eseguibile con l’ausilio di mini-ottiche da 2 mm, è
una metodica accurata, riproducibile e caratterizzata da un’ottima compliance; la disponibilità di isteroscopi operativi office
consente di associare al tempo
diagnostico l’esecuzione di biopsie mirate e/o l’eventuale trattamento ambulatoriale di lesioni
endocavitarie; in ogni caso, questo tipo di approccio va considerato di secondo livello nella valutazione della patologia endometriale.
• Sonoisterografia: nell’ultimo decennio ha assunto un ruolo di rilievo nello studio della patologia
endocavitaria e malformativa
uterina; questa tecnica di imaging indiretta si avvale di una
sonda ecografica transvaginale
che, dopo l’infusione transcervicale di una soluzione salina o di
gel sterile, consente di discriminare eventuali lesioni focali da
quelle diffuse. La fattibilità
(>90%), la durata, la compliance e la riproducibilità della procedura sono sovrapponibili a
quelle dell’isteroscopia.
Quelle appena descritte sono considerate le procedure di scelta nella valutazione delle pazienti affette da sanguinamento uterino anomalo, da infertilità e sospetta patologia endocavitaria e/o malfor-
23
DIAGNOSTICA
N
O
G
mativa uterina oppure in terapia
ormonale (terapia estroprogestinica, terapia sostitutiva, tamoxifene, inibitori dell’aromatasi) e dovrebbero pertanto essere considerate lo standard di questi percorsi diagnostici.
Gli attuali limiti delle metodiche
ecografiche transvaginali sono costituiti dal difficile confronto dei
risultati reperibili in letteratura in
presenza di riscontri anomali. Recentemente, il gruppo di studio
internazionale IETA (International
Endometrial Tumor Analysis) ha
pubblicato un glossario dei possibili riscontri endometriali ed endocavitari, con l’obiettivo di condividere una comune terminologia da testare in studi prospettici.
Alcune figure pubblicate nel presente articolo sono commentate
utilizzando questa terminologia.
Metodologia
24
L’ecografia transvaginale dovrebbe essere eseguita a vescica vuota, preferibilmente:
• tra il 4° e il 9° giorno del ciclo, ossia nella fase proliferativa precoce, nella paziente in età fertile;
• in qualsiasi fase nella paziente in
postmenopausa non in terapia
sostitutiva o in terapia sostitutiva combinata continua o con tibolone;
• tra il 5° e il 10° giorno dopo l’assunzione dell’ultimo progestinico nella paziente in postmenopausa in terapia sostitutiva
ciclica.
Dopo aver valutato l’utero e le
ovaie bilateralmente, lo studio dell’endometrio dovrebbe essere eseguito con uno zoom adeguato
(utero ed endometrio che occupano il 75% dello schermo), con
un esatto posizionamento del fuo-
co, con un angolo di insonazione
di 90° (endometrio perpendicolare agli ultrasuoni) e su scansioni
sagittali, traverse e coronali (se
viene impiegato il 3D). La corretta valutazione della rima endometriale deriva dalla misura dello
spessore bi-endometriale su un
piano longitudinale, nel punto più
spesso, dopo avere analizzato tutto l’endometrio su scansioni sagittali da angolo ad angolo tubarico (figura 1).
In presenza di una rima endometriale aumentata di spessore e/o
disomogenea, il color-power Doppler rappresenta un utile test di
secondo livello. In questo caso, è
fondamentale eseguire un settaggio adeguato (PRF 0,3-0,9 kHz,
filtri di parete 30-50 Hz, gain ridotti per ridurre gli artefatti) e verificare, con un tracciato Doppler,
l’effettiva presenza di un peduncolo vascolare (pedicle sign).
La sonoisterografia, metodo di visualizzazione della cavità uterina
in real-time con sonda ecografica
transvaginale e infusione transcervicale di soluzione salina o gel ste-
rile, è considerata dalle linee guida SIEOG la tecnica elettiva per la
valutazione di neoformazioni endocavitarie mediante scansioni
organ oriented e con descrizione
biometrica e qualitativa. Per quanto riguarda la procedura, sono disponibili diversi cateteri endouterini che differiscono per calibro
(French o mm; 1 Fr=0,3 mm), tipo (rigido, flessibile, per biopsia)
e costo.
Ultrasonografia
nei sanguinamenti
uterini anomali
I sanguinamenti uterini anomali
costituiscono uno dei più frequenti motivi di consulto ginecologico
(30-40%) in età peri-postmenopausale. Tra le cause che possono sostenerli, in perimenopausa
spiccano le condizioni disfunzionali e organiche benigne, come i
polipi endometriali, l’iperplasia endometriale, i leiomiomi e l’adenomiosi, mentre il carcinoma endometriale fa registrare una bassa
Figura 1
Ecografia transvaginale: utero e rima endometriale
in fase proliferativa precoce su scansione sagittale.
DIAGNOSTICA
prevalenza (~1); nella postmenopausa, invece, la prevalenza delle condizioni organiche maligne
aumenta sensibilmente (~10%),
anche se in circa il 60-70% dei casi il sanguinamento uterino anomalo è provocato da un’atrofia
endometriale e in circa il 20-40%
da lesioni organiche benigne (polipi, miomi, iperplasia).
N
O
G
Figura 2
Iter diagnostico:
key-message
Il percorso diagnostico del sanguinamento uterino anomalo deve
necessariamente tener conto di
alcune importanti considerazioni
preliminari:
• età della paziente;
• tipo di lesione endouterina, ossia focale (interessante un’area
delimitata della cavità endometriale: polipo, mioma) o diffusa
(disfunzionale o organica, istologicamente estesa a tutta la cavità endometriale);
• elevata prevalenza di condizioni
organiche benigne;
• attuale modello dualistico del
carcinoma endometriale: tipo I
(pazienti in peri-postmenopausa, obese-ipertese, con progressione dall’iperplasia endometriale atipica, istotipo endometrioide); tipo II (pazienti in postmenopausa sopra i 60-65 anni, con
insorgenza focale su endometrio atrofico, istotipi più aggressivi: sieroso papillifero, cellule
chiare, endometrioide G3);
Ecografia transvaginale: rima endometriale ≤4 mm.
Criteri descrittivi IETA: rima endometriale misurata
a livello del massimo spessore, uniforme iperecogena,
con giunzione endo-miometriale regolare.
• intervallo tra la comparsa del segno-sintomo sanguinamento e
la diagnosi come fattore prognostico di sopravvivenza per carcinoma endometriale.
Le procedure oggi disponibili sono rappresentate da metodiche
bioptiche alla “cieca” o da tecniche d’immagine, diretta o indiretta, della cavità uterina.
• Metodiche alla “cieca”: includono la revisione strumentale
della cavità uterina (D&C), l’aspirazione Vabra, il sistema Pipelle e altre tecniche, tutte considerate, da qualche decennio,
indagini di primo livello discutibili, a causa dell’elevata prevalenza di falsi negativi per patologia neoplastica (3-11%) e
per lesioni benigne focali endouterine (~60%).
• Ecografia transvaginale e isteroscopia: sostenute dai rilevanti
progressi tecnologici realizzati
negli ultimi decenni, sono attualmente le metodiche di scelta nella valutazione delle pazienti affette da sanguinamento uterino
anomalo e dovrebbero, pertanto, essere considerate lo standard del percorso diagnostico.
Procedure: nel periodo
postmenopausale…
Numerosi e ampi studi hanno dimostrato che l’ecografia transvaginale rappresenta l’approccio diagnostico più efficace ed efficiente per studiare i sanguinamenti
uterini in postmenopausa.
Il cut-off standard dello spessore
endometriale è ≤ 4 mm (figura 2);
utilizzando questo valore di riferimento è possibile predire l’atrofia endometriale in modo estremamente accurato, con un’elevata capacità di esclusione malattia
(VPN ~99%), anche in pazienti
sottoposte a terapia ormonale sostitutiva.
Questa tecnica consente quindi
una completa, corretta, definitiva e non-invasiva valutazione di
circa il 70% delle pazienti in postmenopausa con sanguinamento uterino anomalo. L’accuratezza dell’indagine è confermata an-
25
DIAGNOSTICA
N
O
G
26
che da studi longitudinali che ne
hanno valutato l’esito a distanza
di 10 anni dal primo controllo negativo. Va tuttavia ricordato che
l’applicazione del cut-off prima ricordato ha un’utilità limitata nel
carcinoma endometriale di tipo 2,
che per le sue caratteristiche biologiche (insorgenza su endometrio atrofico, sintomatologia talora precoce) può fornire un esito
falsamente normale. Recentemente una interessante revisione di lavori originali ha proposto di considerare il cut-off ≤3mm per ridurre i rari falsi negativi.
La presenza di fattori di rischio
(età >65 anni, BMI >27 kg/m2)
suggerisce di effettuare, nelle pazienti successivamente asintomatiche, un ulteriore controllo ecografico a distanza di 6-12 mesi,
mentre l’eventuale ricomparsapersistenza del sanguinamento
dovrebbe richiedere un approfondimento di secondo livello con
isteroscopia e biopsia mirata.
Il riscontro ecografico di una rima
endometriale ispessita (>4 mm) in
pazienti sintomatiche in postmenopausa aumenta il rischio neoplastico (età e spessore-relato),
Figura 3
Sonoisterografia eseguita con sondino naso-gastrico pediatrico e
soluzione salina sterile. Criteri descrittivi IETA: lesione endometriale
focale non uniforme, omogenea con aree cistiche regolari, con profilo
regolare liscio, con giunzione endo-miometriale regolare. Esame istologico: polipo endometriale glandulocistico.
ta comparabilità di queste due
metodiche nella valutazione di pazienti con sanguinamento uterino anomalo. L’integrazione con il
color-power-Doppler migliora significativamente l’accuratezza diagnostica dell’esame ecografico
transvaginale basale (B-mode), anche se solo in parte delle pazienti in postmenopausa.
La sonoisterografia consente
di individuare le lesioni endouterine focali o diffuse. Il ricoL’ecografia transvaginale noscimento di una lesione difdovrebbe essere
fusa in pazienti sintomatiche
in postmenopausa con rima
il primo test
endometriale superiore a 4
per la valutazione della
mm, e la ridotta distensibilità
patologia endouterina.
della cavità uterina, aumentano significativamente il rischio di neoplasia. La patolocon una prevalenza di carcinoma
gia di più frequente riscontro in
endometriale superiore al 20%.
questo gruppo selezionato di paIn questi casi, è necessario un apzienti è, comunque, il polipo endoprofondimento con indagini di semetriale, i cui caratteri ecografici
condo livello, come la sonoisteropossono fornire un orientamento
grafia o l’isteroscopia. Numerosi
accurato circa la benignità o malistudi hanno evidenziato l’assolugnità della lesione (figura 3).
La sonoisterografia offre inoltre
l’opportunità di integrare l’imaging con un esame bioptico effettuato con l’ausilio di specifici
cateteri endouterini (Nelaton 8 Fr14 Fr) che consentono di ottenere un campione endometriale adeguato per l’esame istologico in oltre il 90% dei casi.
… e in peri-menopausa
L’ecografia transvaginale costituisce l’indagine di primo livello nelle donne in perimenopausa in
quanto consente di studiare l’endometrio, il miometrio e la funzionalità ovarica.
L’esame, che va sempre effettuato in fase proliferativa precoce, è
in grado di evidenziare le formazioni endocavitarie contenute tra
le due emirime riferibili alla presenza di un polipo endometriale
(figura 4). L’utilizzo del color-power-Doppler, con l’identificazione del pedicle sign, permette di
diagnosticare il polipo endometriale e di differenziarlo dall’iper-
DIAGNOSTICA
Figura 4
Ecografia transvaginale eseguita in fase proliferativa.
Criteri descrittivi IETA: rima endometriale non uniforme, con lesione
omogenea iperecogena, con bright edge, con giunzione
endo-miometriale regolare. Esame istologico: polipo endometriale.
plasia endometriale o dal mioma
sottomucoso (figura 5).
La sonoisterografia offre la possibilità di distinguere le lesioni diffuse, di frequente riscontro in perimenopausa e riferibili, prevalentemente, a iperplasia endometriale (figura 6), da lesioni focali, riferibili a polipi o a miomi sottomucosi (figura 7).
Sonoisterografia
e valutazione
preoperatoria dei
miomi sottomucosi
La miomectomia isteroscopica costituisce la metodica standard per
il trattamento dei miomi sottomucosi sintomatici (sanguinamenti
uterini anomali, infertilità).
Uno step critico per lo studio preoperatorio è rappresentato dal
corretto grading (G), ossia dalla
valutazione del grado di estensione intramurale del mioma. Questo parametro rappresenta uno
dei principali fattori prognostici di
esito intraoperatorio (perforazione uterina, intravasazione, rimozione completa) e postoperatorio
della miomectomia isteroscopica.
La classificazione adottata dalla
Società Europea di Endoscopia definisce i seguenti gradi:
• G0 - mioma peduncolato a completo sviluppo intracavitario;
• G1 - mioma a parziale estensione intramurale, con prevalente
sviluppo intracavitario (>50%);
• G2 - mioma a prevalente estensione intramurale, con parziale
sviluppo intracavitario (<50%).
L’ecografia transvaginale consente di identificare i miomi sottomucosi, di definirne il numero, la sede, le dimensioni e il margine libero miometriale (distanza tra
margine esterno del mioma sottomucoso e perimetrio) e di rilevare ulteriori miomi intramurali
e/o sottosierosi, ma, talvolta, risulta di utilità limitata nella valutazione del grading.
Diversi studi hanno evidenziato
l’importante ruolo della sonoisterografia nella diagnostica delle lesioni intrauterine e, in particolare, dei miomi sottomucosi, per i
quali è possibile una corretta valutazione del grading utilizzando
una metodologia rigorosa che prevede due momenti critici:
• identificazione del piano di scansione, ossia esatta localizzazio-
N
O
G
Figura 5
Ecografia
transvaginale
eseguita in fase
proliferativa con
power-Doppler.
Criteri descrittivi
IETA: rima
endometriale
non uniforme,
con lesione
omogenea
iperecogena,
con bright edge,
con giunzione
endo-miometriale
regolare, con color-score 2 e peduncolo vascolare.
Esame istologico: polipo endometriale.
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DIAGNOSTICA
N
O
G
Figura 6
Sonoisterografia eseguita con catetere Nelaton 14 Fr e soluzione salina
sterile. Criteri descrittivi IETA: rima endometriale uniforme omogenea
isoecogena, con profilo polipoide liscio, con giunzione endo-miometriale
regolare. Esame istologico: iperplasia endometriale semplice senza atipie.
Figura 7
Mioma sottomucoso G2 laterale destro. Criteri descrittivi per l’identificazione
del corretto grading: identificazione del piano di scansione trasversale
(sede del mioma: laterale destro); identificazione del corretto grading del
mioma (G2 - componente intramurale >50%); valutazione dello spessore
endometriale, del margine libero miometriale e del miometrio circostante.
28
ne del mioma sottomucoso (parete anteriore, posteriore, fundica, laterali) con valutazione a livello della sezione comprendente il maggior diametro del mioma su scansioni sagittali se il mioma è anteriore, posteriore o fun-
dico, su scansioni trasversali se
il mioma è laterale;
• identificazione del grado di protrusione, ossia definizione dei
due margini mioma-giunzione
endo-miometriale e posizionamento della linea congiungen-
te i due punti, con valutazione
della proporzione tra porzione
protrudente in cavità e porzione intramurale del mioma quantitativa (rapporto A/B della emicirconferenza e/o dell’emi-altezza) e/o qualitativa.
La sonoisterografia deve essere
eseguita iniettando lentamente
nella cavità endometriale la soluzione fisiologica sterile, in modo
da ottenere una buona distensione della cavità evitando le pressioni eccessive, in grado di sospingere il mioma nel miometrio. Nei
casi dubbi, è possibile aspirare la
soluzione per ridurre la pressione endocavitaria e valutare la protrusione (budding) del mioma in
cavità. La corretta applicazione
dei due criteri sopra ricordati evita sia l’undergrading (per esempio, in presenza di mioma laterale valutato su scansioni sagittali),
sia l’overgrading (per esempio, in
presenza di rima endometriale
ispessita).
Nel corso della sonoisterografia è
necessario valutare il margine libero miometriale, definito come la
distanza minima tra il margine
esterno del mioma e la sierosa uterina (perimetrio). Nella nostra esperienza, il risultato di questa misurazione è apparso maggiormente
comparabile all’effettivo spessore
miometriale riscontrato nel corso
della procedura chirurgica.
L’accuratezza della sonoisterografia bidimensionale presenta tre limiti, ossia la presenza di tre o più
miomi sottomucosi e i miomi in
sede periostale o di diametro superiore a 4 cm. Questi ostacoli
possono essere superati dalla tecnologia tridimensionale che, attraverso l’analisi del volume acquisito, permette di raggiungere
un grading corretto praticamente nella totalità dei casi, a patto
DIAGNOSTICA
che siano rispettati rigidi criteri
metodologici:
• identificazione del piano di scansione, ossia dell’esatta localizzazione del punto di riferimento
(fulcro) al centro del mioma sottomucoso a livello della sezione
comprendente il maggior diametro del mioma stesso;
• rotazione del mioma sull’asse Z,
ossia rotazione del mioma sul
suo centro ideale (fulcro) sull’asse Z fino ad individuare l’asse ortogonale determinato dalla linea
passante tra il fulcro e la tangente al perimetrio a livello del minor margine libero miometriale;
• rotazione del mioma sull’asse Y;
se gli step precedenti sono stati
ben eseguiti la rotazione del mioma sull’asse Y non determina
modificazioni del grading, che
sarà valutato secondo i criteri
precedentemente esposti.
Conclusioni
Nella valutazione della patologia
endometriale, l’indagine diagnostica di primo livello è rappresentata dall’ecografia transvaginale,
eventualmente integrata dal color-power-Doppler e dalla sonoisterografia come esami di secondo livello. L’isteroscopia è mandatoria nei casi inconclusivi all’iter
diagnostico ecografico.
Il triage diagnostico dei sanguinamenti uterini anomali basato
sull’ecografia è efficace ed efficiente sia in età peri- che postme-
nopausale. La sonoisterografia è
accurata, ben tollerata ed economica nella valutazione preoperatoria dei miomi sottomucosi, eseguibile in un tempo unico con rilevazione di tutti i parametri necessari prima della procedura chirurgica isteroscopica (numero, sede, dimensione e grading dei
miomi sottomucosi, spessore ed
eventuale concomitanza di patologia endometriale, margine libero miometriale, presenza di ulteriori miomi intramurali e/o sottosierosi).
L’introduzione delle sonde tridimensionali sta contribuendo a implementare l’accuratezza diagnostica delle tecniche di imaging ultrasonografico nella patologia endometriale.
N
O
G
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29
POLIMAG
integratore alimentare di magnesio e melissa
Azione distensiva e rilassante
per essere donna
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e
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GESTODIOL 20/30
RIASSUNTO DELLE CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO
1. DENOMINAZIONE DELLA SPECIALITÀ MEDICINALE.
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite
2. COMPOSIZIONE QUALITATIVA E QUANTITATIVA.
Principi attivi: GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite:
ogni compressa contiene 20 microgrammi di Etinilestradiolo e 75 microgrammi di
Gestodene. GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite:
ogni compressa contiene 30 microgrammi di Etinilestradiolo e 75 microgrammi di
Gestodene. Eccipienti: GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse
rivestite contiene 38 mg di lattosio monoidrato e 20 mg di saccarosio. GESTODIOL
30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite contiene 38 mg di lattosio
monoidrato e 20 mg di saccarosio. Per l’elenco completo degli eccipienti, vedere
paragrafo 6.1.
3. FORMA FARMACEUTICA. Compressa rivestita: compresse rivestite di zucchero, di colore bianco, arrotondate, biconvesse senza impressioni su entrambi i lati.
4. INFORMAZIONI CLINICHE. 4.1. Indicazioni terapeutiche. Contraccezione orale. 4.2. Posologia e modo di somministrazione. Come assumere GESTODIOL.
Le compresse devono essere assunte nell’ordine indicato sulla confezione ogni giorno approssimativamente alla stessa ora. Una compressa al giorno per 21 giorni.
Ogni confezione successiva deve essere iniziata dopo un intervallo di 7 giorni in cui
non verrà assunta alcuna compressa: durante questo lasso di tempo si verificherà
un’emorragia da sospensione. Quest’emorragia inizia solitamente il secondo o terzo giorno dopo aver assunto l’ultima compressa e potrebbe continuare anche dopo l’inizio della confezione successiva. Come cominciare ad assumere GESTODIOL. Nel caso in cui non ci sia stato alcun trattamento contraccettivo ormonale nel mese precedente. È necessario assumere la prima compressa il primo
giorno del ciclo naturale della donna (vale a dire il primo giorno del suo ciclo mestruale). È possibile cominciare ad assumere le pillole dal secondo al quinto giorno
ma in questi casi si raccomanda di usare anche un metodo contraccettivo di barriera per i primi sette giorni d’assunzione delle compresse durante il primo ciclo. In
caso di passaggio da un’altra pillola contraccettiva orale di tipo combinato.
La donna deve cominciare ad assumere GESTODIOL il giorno dopo l’ultima compressa attiva del suo precedente contraccettivo - ma non più tardi del giorno successivo al completamento dell’usuale periodo in cui non assume alcuna pillola oppure assume placebo come previsto dal farmaco contraccettivo precedente. Quando si passa da un contraccettivo solo progestinico (pillola solo al progesterone (mini-pillola, iniezione, impianto) oppure da un sistema intrauterino a
rilascio di ormone progestinico (IUS). La donna può effettuare il passaggio dalla pillola solo al progesterone (POP) in qualsiasi momento del ciclo. La prima compressa deve essere assunta il giorno dopo aver assunto una qualsiasi delle compresse nella confezione di POP. Nel caso di un impianto o di una IUS l’assunzione
di GESTODIOL deve cominciare lo stesso giorno nel quale l’impianto viene rimosso. Nel caso di un iniettabile, GESTODIOL deve essere iniziato nel giorno in cui dovrebbe essere praticata la successiva iniezione. In tutti questi casi si raccomanda
alla donna di usare anche un metodo contraccettivo di barriera per i primi sette giorni di assunzione delle pillole. Dopo un aborto al primo trimestre. La donna può
iniziare immediatamente a prendere le pillole. Se si attiene a queste istruzioni non
sono necessarie ulteriori misure contraccettive. Dopo un parto o un aborto al secondo trimestre. Per l’uso in donne che allattano si veda il paragrafo 4.6. Si raccomanda alla donna di iniziare a prendere le compresse al 21°-28° giorno dopo il
parto, se non allatta al seno, o dopo un aborto al secondo trimestre. Se inizia più
tardi, la donna deve essere avvertita di usare anche un metodo contraccettivo di
barriera per i primi sette giorni di assunzione delle pillole. Se nel frattempo si fossero avuti rapporti sessuali, prima di iniziare effettivamente l’assunzione delle pillole si deve escludere una gravidanza oppure la donna deve attendere la comparsa della sua prima mestruazione. Mancata assunzione di compresse. La mancata assunzione di una compressa entro 12 ore dall’ora consueta non pregiudica
la protezione contraccettiva. La donna deve prendere la compressa appena se ne
ricorda e continuare ad assumere il resto delle compresse come al solito. La man-
cata assunzione di una compressa per più di 12 ore dall’ora consueta può diminuire la protezione contraccettiva. Le due regole seguenti possono essere utili nella
gestione della mancata assunzione di compresse. 1. L’assunzione delle compresse non deve mai essere sospesa per periodi superiori ai 7 giorni. 2. Servono 7 giorni di ingestione ininterrotta di compresse per ottenere una sufficiente soppressione dell’asse ipotalamo-pituitario-gonadale. Pertanto il consiglio che segue può essere dato nella pratica giornaliera: Settimana 1. La donna deve prendere l’ultima
compressa dimenticata non appena se ne ricorda, anche se questo significa che
deve assumere 2 compresse contemporaneamente. Dopodiché deve continuare ad
assumere le compresse alla solita ora. Contemporaneamente deve usare un metodo di barriera, ad es. un preservativo, per i successivi 7 giorni. Se nei 7 giorni precedenti si sono avuti rapporti sessuali la donna deve tenere in considerazione la
possibilità di poter essere incinta. Tante più compresse sono state dimenticate e
tanto più ciò è avvenuto in prossimità del periodo del mese in cui le compresse non
vengono assunte, tanto maggiore è il rischio che si instauri una gravidanza. Settimana 2. La donna deve prendere l’ultima compressa dimenticata non appena se
ne ricorda, anche se questo significa che deve assumere 2 compresse contemporaneamente. Dopodiché deve continuare ad assumere le compresse alla solita ora.
Se le compresse sono state assunte correttamente per 7 giorni prima della dimenticanza non è necessario prendere ulteriori precauzioni contraccettive. In caso contrario o se sono state dimenticate più compresse la donna deve comunque usare
un metodo di barriera, ad es. un preservativo, per i successivi 7 giorni. Settimana
3. Dato l’avvicinarsi del periodo di sospensione il rischio di una ridotta protezione
anticoncezionale è maggiore. È comunque possibile prevenire la riduzione della protezione anticoncezionale regolando l’assunzione delle compresse. Attenendosi a
una qualunque delle due opzioni seguenti non è pertanto necessario prendere alcuna precauzione contraccettiva supplementare, fatto salvo che le compresse siano state assunte correttamente per 7 giorni prima della dimenticanza. In caso contrario è opportuno consigliare alla donna di seguire la prima delle due opzioni e di
usare allo stesso tempo un metodo di barriera, ad es. un preservativo, per i 7 giorni successivi. 1. La donna deve prendere l’ultima compressa dimenticata al più presto, anche se questo significa che deve assumere 2 compresse contemporaneamente. Dopodiché deve continuare ad assumere le compresse alla solita ora. Incomincerà la nuova confezione immediatamente dopo aver assunto l’ultima compressa della confezione in uso; in questo caso non vi sarà il periodo di sospensione tra
le confezioni. È improbabile che si verifichino le mestruazioni fino al termine della
seconda confezione di compresse, tuttavia si potrebbe notare emorragia intermestruale o metrorragia durante l’assunzione delle compresse. 2. È possibile che alla donna venga suggerito di sospendere l’assunzione delle compresse dalla confezione in uso. In qual caso si avrà un periodo di sospensione della durata massima
di 7 giorni, inclusi i giorni in cui la compressa è stata dimenticata, dopodiché la donna inizierà una nuova confezione. Se, dopo che la donna ha dimenticato di assumere delle compresse, non si presentano le mestruazioni nel primo usuale intervallo libero da pillola, si deve considerare la possibilità che la donna sia incinta. Cosa fare in caso di vomito/diarrea. Se si manifesta vomito entro 3-4 ore dall’assunzione di una compressa, quest’ultima potrebbe non venire completamente assorbita. In questo caso ci si attenga alle istruzioni sopra indicate inerenti le compresse dimenticate. A meno che la diarrea non sia estremamente grave, essa non
influisce sull’assorbimento dei contraccettivi orali combinati, per cui non è necessario ricorrere a metodi contraccettivi supplementari. Se la diarrea grave perdura
per 2 o più giorni ci si attenga alle procedure previste per le pillole dimenticate. Se
la donna non desidera variare la consueta assunzione di compresse, deve prendere una compressa (o compresse) extra da un’altra confezione. Come spostare o
ritardare il mestruo. Per ritardare il mestruo, la donna dovrà continuare l’assunzione di GESTODIOL passando da una confezione blister ad un’altra, senza periodo di sospensione. Il mestruo può essere ritardato per quanto si desidera ma non
oltre la fine della seconda confezione. Quando si ritarda il mestruo è possibile che
si verifichino episodi di sanguinamento da sospensione o emorragia intermestruale. L’assunzione di GESTODIOL dovrà essere ripresa regolarmente al termine del
consueto intervallo in cui non viene assunta alcuna compressa. Per spostare il mestruo ad un giorno nella settimana diverso rispetto a quello previsto con le attuali
compresse, si può consigliare alla donna di abbreviare il successivo intervallo libero da pillola di quanti giorni lei desidera. Più breve è questo intervallo e maggiore
sarà il rischio di non avere sanguinamento mestruale ma metrorragia e emorragia
intermestruale durante l’assunzione delle compresse della confezione successiva
(questo si verifica anche quando si ritarda il mestruo). 4.3. Controindicazioni. I
contraccettivi orali combinati (COC) non devono essere usati se una delle condizioni sotto indicate è presente. Se una tale condizione si dovesse manifestare per la
prima volta durante l’impiego dei COC il loro uso deve essere immediatamente sospeso. • Patologia tromboembolica venosa in fase attiva o in anamnesi (trombosi
venosa profonda, embolia polmonare). • Tromboembolia arteriosa in fase attiva o
in anamnesi (infarto del miocardio, patologie cerebrovascolari) oppure sintomi prodromici (angina pectoris e attacco ischemico transitorio) (vedi paragrafo 4.4). • Predisposizione ereditaria o acquisita alla trombosi venosa o arteriosa come carenza
di antitrombina, carenza di proteina C, carenza di proteina S, resistenza alla proteina C attivata (APC), anticorpi antifosfolipidi (anticorpi anticardiolipina, lupus anticoagulante), iperomocisteinemia. • Fattori di rischio multipli o considerevoli per la trombosi arteriosa (vedi paragrafo 4.4). • Grave ipertensione. • Diabete complicato da
micro- o macroangiopatia. • Grave dislipoproteinemia. • Noti o sospetti tumori maligni ormono-dipendenti (ad es. a carico degli organi genitali o della mammella). •
Grave patologia epatica concomitante o in anamnesi fintanto che i valori di funzionalità epatica non sono rientrati nella normalità. • Tumori epatici benigni o maligni
concomitanti o in anamnesi. • Sanguinamento vaginale di natura non accertata. •
Emicrania con sintomatologia neurologica focale. • Ipersensibilità ai principi attivi
o ad uno qualsiasi degli eccipienti. 4.4. Avvertenze speciali e precauzioni d’impiego. Valutazione ed esame prima di iniziare l’assunzione dei contraccettivi orali
combinati. Prima dell’inizio o della ripresa del trattamento con contraccettivi orali
combinati è necessario che il medico analizzi l’anamnesi personale e familiare della paziente e che venga esclusa una gravidanza. Sulla base delle controindicazioni
(vedi paragrafo 4.3) e delle avvertenze (vedi “Avvertenze” in questa sezione) è necessario misurare la pressione sanguigna e sottoporre la paziente ad un esame fisico, se clinicamente indicato. Alla donna viene richiesto di leggere attentamente il
foglio illustrativo e di attenersi alle istruzioni fornite. La frequenza e la natura di ulteriori controlli periodici devono basarsi su linee guida di pratica stabilita ed essere adattate alla singola donna. Avvertenze. In generale. Informare le donne che i
contraccettivi ormonali non proteggono dall’HIV (AIDS) o da altre infezioni sessualmente trasmissibili. Se uno qualunque dei fattori di rischio sotto menzionati è presente, valutare caso per caso i benefici connessi all’uso del COC con i possibili rischi per ogni singola donna e discuterne con la donna prima di cominciare l’assunzione del contraccettivo orale combinato. In caso di aggravamento, esacerbazione
o insorgenza di una qualsiasi di queste condizioni o fattori di rischio è opportuno
che la donna prenda contatto con il suo medico. Il medico deciderà se interrompere l’assunzione del COC. 1. Disturbi della circolazione. L’uso di qualsiasi COC aumenta il rischio di tromboembolia venosa (TEV) rispetto al non uso. L’eccesso di rischio di TEV è massimo durante il primo anno in cui una donna fa uso di un COC
per la prima volta. L’aumento di rischio è inferiore rispetto al rischio di TEV associato alla gravidanza, che è stimato in 60 casi ogni 100.000 gravidanze. La TEV risulta fatale nell’1-2% dei casi. In diversi studi epidemiologici è stato riscontrato che
nelle donne che usano contraccettivi orali combinati contenenti etinilestradiolo, per
lo più alla dose di 30 µg, e un progestinico come gestodene il rischio di TEV è aumentato rispetto alle donne che usano contraccettivi orali combinati contenenti meno di 50 µg di etinilestradiolo ed il progestinico levonorgestrel. Relativamente ai contraccettivi orali combinati contenenti 30 µg di etinilestradiolo in combinazione con
desogestrel o gestodene in confronto a quelli contenenti meno di 50 µg di etinilestradiolo e levonorgestrel, è stato stimato che il rischio relativo complessivo di TEV
è compreso tra 1,5 e 2,0. Nel caso di contraccettivi orali combinati contenenti levonorgestrel con meno di 50 µg di etinilestradiolo l’incidenza di TEV è di circa 20
casi su ogni 100.000 anni-donna di utilizzo. Per quanto riguarda GESTODIOL l’incidenza varia da 30 a 40 casi per 100.000 anni-donna di utilizzo, vale a dire 1020 casi aggiuntivi ogni 100.000 anni-donna di utilizzo. L’impatto del rischio relativo sul numero di casi addizionali sarebbe massimo in donne durante il primo anno
di utilizzo del contraccettivo orale combinato quando il rischio di TEV con tutti i contraccettivi orali combinati è massimo. Molto raramente è stata segnalata trombosi
in altri vasi sanguigni, vale a dire di tipo epatico, mesenterico, renale oppure a carico delle vene e delle arterie della retina in utilizzatrici di contraccettivi orali. Non vi
è consenso circa la possibilità che l’insorgenza di questi casi sia correlata all’uso
di COC. Il rischio che si sviluppi tromboembolia venosa aumenta: • con l’avanzamento dell’età; • in caso di anamnesi familiare positiva (ad es. tromboembolia venosa che ha riguardato un parente o un consanguineo più soggetti di età relativamente giovane). In caso di sospetta predisposizione ereditaria, la donna deve essere indirizzata da uno specialista prima che le sia prescritto un contraccettivo orale; • in caso di obesità (indice di massa corporea superiore a 30 Kg/m2); • immobilizzazione prolungata, chirurgia maggiore, intervento chirurgico alle gambe o trauma maggiore. In questi casi è raccomandata la sospensione del trattamento con i
contraccettivi orali (nel caso di un’operazione chirurgica programmata almeno 4
settimane prima) e non deve essere assunto fino a 2 settimane dopo la completa
deambulazione; • non vi è consenso sul possibile ruolo di vene varicose e tromboflebiti superficiali nella tromboembolia venosa. In generale l’uso di COC è stato associato ad un aumento del rischio di infarto acuto del miocardio (AMI) o di ictus, rischio questo fortemente influenzato dalla presenza di altri fattori di rischio (ad es.
fumo, pressione sanguigna alta ed età) (vedi anche sotto). Questi eventi si verificano raramente. Il rischio di eventi tromboembolici aumenta con: • l’avanzamento
dell’età; • fumo (con forti fumatrici e con l’avanzare dell’età il rischio aumenta ulteriormente, soprattutto se si tratta di donne con più di 35 anni di età); • dislipoproteinemia; • obesità (indice di massa corporea superiore a 30 Kg/m2); • ipertensione; • valvulopatia cardiaca; • fibrillazione atriale; • anamnesi familiare positiva
(ad es. trombosi arteriosa che ha riguardato un parente o un consanguineo di età
relativamente giovane). Se si sospetta una predisposizione ereditaria la donna deve essere indirizzata da uno specialista prima che le sia prescritto un contraccettivo orale. Sintomi di trombosi venosa ed arteriosa possono includere: • dolore e/o
gonfiore unilaterale ad una gamba; • improvviso grave dolore toracico, che può o
meno estendersi al braccio sinistro; • fiato corto improvviso; • tosse improvvisa; •
cefalea insolita, grave, prolungata; • improvvisa perdita parziale o completa della
vista; • diplopia; • difficoltà nel parlare o afasia; • vertigini; • collasso accompagnato o meno da crisi epilettiche focali; • debolezza o improvviso intorpidimento
molto marcato di un lato o una parte del corpo; • disturbi motori; • addome “acuto”. Si deve tenere in considerazione l’aumento del rischio di tromboembolia venosa durante il puerperio. Altre condizioni mediche correlate ai disturbi vascolari sono: diabete mellito, lupus eritematoso sistemico, sindrome emolitico-uremica, malattia infiammatoria cronica intestinale (morbo di Crohn oppure colite ulcerosa) e
anemia a cellule falciformi. Un aumento della frequenza e della gravità dell’emicrania (che può essere prodromica in caso di malattia cerebrovascolare) durante l’impiego di contraccettivi orali deve far prendere in considerazione l’immediata sospensione dei contraccettivi orali. Fra i parametri biochimici indicativi della predisposizione ereditaria o acquisita alla trombosi venosa o arteriosa vi sono: resistenza alla proteina C attivata (APC), mutazione del fattore V di Leiden, iperomocisteinemia, carenza di antitrombina-III, carenza di proteina C, carenza di proteina S, anticorpi antifosfolipidi (anticorpi anticardiolipina, lupus anticoagulante). Mentre valuta il rapporto rischio/beneficio il medico deve tenere presente che il trattamento
adeguato di una condizione può ridurre il rischio associato di trombosi e che il rischio associato alla gravidanza è maggiore rispetto a quello connesso all’uso di
COC. 2. Tumori: Cancro della cervice. In alcuni studi epidemiologici si è riferito
un rischio maggiore di cancro cervicale nelle utilizzatrici a lungo termine dei COC
ma non è ancora chiaro fino a che punto questo rilievo possa essere influenzato
dagli effetti aggravanti del comportamento sessuale e di altri fattori quali il papilloma virus umano (HPV). Carcinoma della mammella. Una meta-analisi di 54 studi epidemiologici ha riferito un rischio relativo leggermente superiore (RR=1,24) di
diagnosi di cancro della mammella fra le donne che attualmente usano COC. L’eccedenza di rischio scompare gradualmente nel corso dei 10 anni seguenti all’interruzione dell’uso dei COC. Poiché il cancro della mammella è raro nelle donne di
meno di 40 anni, il numero superiore di diagnosi di tumore alla mammella fra le
utilizzatrici attuali e recenti di COC è limitato in rapporto al rischio globale di cancro
della mammella. Questi studi non forniscono evidenza di causalità. L’andamento
superiore del rischio osservato potrebbe essere dovuto ad una diagnosi precoce del
cancro della mammella nelle utilizzatrici di COC, agli effetti biologici dei COC o a
una combinazione di entrambi i fattori. Il cancro alla mammella diagnosticato nelle donne che hanno usato COC tende ad essere meno avanzato dal punto di vista
clinico rispetto alle forme tumorali riscontrate fra le donne che non hanno mai assunto COC. Tumori epatici. Tra le utilizzatrici di COC si sono riferiti tumori epatici
benigni e maligni. In casi isolati questi tumori hanno portato ad emorragie intra-addominali ad esito potenzialmente fatale. Pertanto, considerare la possibilità di tumore epatico nella diagnosi differenziale, quando un’utilizzatrice di COC presenti
severo dolore all’addome superiore, ingrossamento del fegato (epatomegalia) oppure segni di emorragia intra-addominale. 3. Altre condizioni. Le donne affette da
ipertrigliceridemia, o anamnesi familiare della stessa, possono essere a rischio maggiore di pancreatite mentre usano COC. In caso di disturbi acuti o cronici della funzionalità epatica potrà essere necessaria l’interruzione di GESTODIOL, fino al ripristino ai valori normali dei marker della funzionalità epatica. Gli ormoni steroidei potrebbero essere scarsamente metabolizzati in pazienti con funzionalità epatica compromessa. Malgrado si siano riferiti piccoli innalzamenti della pressione arteriosa in
molte donne che assumono contraccettivi orali combinati, gli innalzamenti clinicamente significativi sono rari. Se, durante l’assunzione di un contraccettivo ormonale combinato si sviluppa un’ipertensione clinica persistente bisogna sospendere
l’assunzione del contraccettivo ormonale combinato e trattare l’ipertensione. L’assunzione del contraccettivo orale combinato potrà riprendere se risulta possibile ottenere valori normotensivi mediante la terapia. Se il medico lo ritiene opportuno,
l’uso della pillola può essere ripreso quando i valori della pressione rientreranno
nella norma in seguito a terapia antiipertensiva. Sia con la gravidanza che con l’uso
di COC possono comparire o peggiorare delle condizioni qui di seguito riportate.
Tuttavia, le prove di un’associazione con l’uso dei COC non sono decisive: ittero e/o
prurito associato a colestasi; sviluppo di calcoli biliari; porfiria; lupus eritematoso sistemico; sindrome emoliticouremica; corea di Sydenham; herpes gestationis; perdita di udito dovuta a otosclerosi. I contraccettivi orali combinati possono avere un
effetto sulla resistenza periferica all’insulina e sulla tolleranza al glucosio. È pertanto necessario che le pazienti diabetiche vengano attentamente monitorate durante
l’impiego dei COC. GESTODIOL contiene lattosio e saccarosio. Le pazienti con rari
problemi ereditari di intolleranza al galattosio, deficit di Lapp-lattasi o malassorbimento di glucosio-galattosio oppure con rari problemi di intolleranza al fruttosio non
devono assumere questo medicinale. Durante l’uso dei COC si è riferito l’aggravamento della depressione endogena, dell’epilessia (vedi paragrafo 4.5 Interazioni),
del morbo di Crohn e della colite ulcerosa. È possibile che si manifesti cloasma,
specialmente nelle utilizzatrici con anamnesi di cloasma gravidarum. Le donne con
tendenza al cloasma devono evitare l’esposizione al sole o alla radiazione ultravioletta mentre assumono i COC. Le preparazioni erboristiche contenenti Iperico o erba di San Giovanni (Hypericum perforatum) non devono essere assunte contemporaneamente a GESTODIOL a causa del rischio di diminuzione delle concentrazioni
plasmatiche e degli effetti clinici di GESTODIOL (vedi paragrafo 4.5). Efficacia ridotta. L’efficacia dei contraccettivi orali può essere ridotta nel caso in cui ci si dimentichi di assumere delle compresse, in presenza di diarrea grave o vomito (vedi
paragrafo 4.2) oppure in caso di uso concomitante di altri medicinali (vedi paragrafo 4.5). Ciclo irregolare. Come con tutti i contraccettivi ormonali combinati, potrà
verificarsi la perdita irregolare di sangue (emorragia intermestruale o metrorragia),
particolarmente nei primi mesi di assunzione. Per questo motivo, un’opinione medica circa la perdita irregolare di sangue avrà utilità solo dopo un periodo di adattamento di tre cicli circa. Se la metrorragia persiste sarà necessario considerare la
possibilità di usare COC con un contenuto ormonale più alto. Se la metrorragia si
verifica dopo precedenti cicli regolari occorre considerare cause non di natura ormonale e prendere adeguate misure diagnostiche per escludere la presenza di una
patologia maligna o di una gravidanza. Occasionalmente potrebbe non esservi alcuna emorragia da sospensione nell’intervallo in cui non vengono assunte le compresse. Se le compresse sono state assunte secondo le istruzioni di cui al paragrafo 4.2, è improbabile che la donna sia incinta. Tuttavia, se le compresse non sono
state assunte in base a dette istruzioni precedentemente alla prima emorragia da
sospensione saltata, oppure se la donna salta consecutivamente due emorragie da
sospensione, è necessario escludere la gravidanza prima di proseguire l’assunzione del COC. 4.5. Interazioni con altri medicinali ed altre forme di interazione.
Le interazioni con medicinali in grado di portare ad una elevata clearance degli ormoni sessuali possono comportare metrorragia ed insuccesso della contraccezione orale. Questo effetto è stato stabilito nel caso di idantoine, barbiturici, primidone, carbamazepina e rifampicina, ed è risultato sospetto nel caso di oxcarbazepina, topiramato, griseofulvina, felbamato e ritonavir. Il meccanismo di queste interazioni sembra essere basato sulle proprietà di induzione degli enzimi epatici di questi medicinali. In generale la massima induzione enzimatica non si ha nelle prime
2-3 settimane dopo l’inizio del trattamento, ma l’effetto può essere sostenuto per
almeno 4 settimane dopo l’interruzione della terapia. Si sono riferiti anche casi di
insuccesso della contraccezione con antibiotici quali ampicillina e tetracicline. Il
meccanismo di questo effetto non è stato chiarito. Le donne in trattamento a breClassificazione
sistemica organica
Comune (da=1/100
a <1/10)
Patologie del sistema nervoso
Cefalea
Nervosismo
Irritazione oculare quando
si portano lenti a contatto
Disturbi della vista
Patologie dell’occhio
Patologie dell’orecchio e del labirinto
Patologie gastrointestinali
Patologie della cute
e del tessuto sottocutaneo
Disordini del metabolismo
e della nutrizione
Patologie vascolari
Patologie sistemiche e condizioni
relative alla sede di somministrazione
Disturbi del sistema immunitario
Patologie dell’apparato riproduttivo
e della mammella
Disturbi psichiatrici
Nausea
Acne
Emicrania
ve termine con uno qualsiasi dei gruppi di farmaci sopra citati o con singoli medicinali, devono usare temporaneamente un metodo di barriera oltre alla pillola anticoncezionale, ciò deve avvenire per tutto il tempo in cui questo medicinale viene
assunto contemporaneamente alla pillola come pure nei sette giorni successivi alla sua sospensione. Le donne in trattamento con rifampicina devono usare un metodo di barriera contemporaneamente al contraccettivo orale durante tutto il periodo in cui assumono la rifampicina come pure nei 28 giorni successivi alla sua sospensione. Se la somministrazione concomitante del medicinale continua oltre il
numero di compresse anticoncezionali nella confezione, la donna deve iniziare la
confezione successiva, senza osservare il consueto intervallo di sospensione. Per
le donne in terapia a lungo termine con induttori degli enzimi epatici, è necessario
considerare un altro metodo contraccettivo. Le pazienti che assumono GESTODIOL
non devono usare contemporaneamente preparazioni/prodotti medicinali alternativi contenenti Hypericum perforatum (Iperico o erba di San Giovanni) poiché essi potrebbero causare una perdita dell’effetto contraccettivo. Si sono riferite metrorragia
e gravidanze indesiderate. L’Hypericum perforatum (Iperico o erba di San Giovanni) aumenta, mediante induzione enzimatica, la quantità di enzimi che metabolizzano i prodotti medicinali. L’effetto di induzione enzimatica potrebbe persistere per
almeno 1-2 settimane dalla cessazione del trattamento con Hypericum. Effetti dei
contraccettivi orali combinati su altri farmaci: i contraccettivi orali possono interferire con il metabolismo di altri farmaci. Ne può conseguire un aumento (ad es. ciclosporina) o una diminuzione (lamotrigina) delle concentrazioni plasmatiche e tissutali. Test di laboratorio. L’impiego di steroidi contraccettivi può influenzare i risultati di alcuni esami di laboratorio tra cui i parametri biochimici della funzionalità
epatica, tiroidea, corticosurrenalica e renale, i livelli plasmatici delle proteine (di trasporto), per esempio della globulina legante i corticosteroidi e delle frazioni lipido/lipoproteiche, i parametri del metabolismo dei carboidrati ed i parametri della coagulazione e della fibrinolisi. Le variazioni rientrano, in genere, nei limiti dei valori normali di laboratorio. 4.6. Gravidanza ed allattamento. GESTODIOL è controindicato durante la gravidanza. In caso di gravidanza durante l’assunzione di GESTODIOL
sospendere immediatamente il trattamento. Estesi studi epidemiologici non hanno
evidenziato né un aumento del rischio di difetti congeniti in bambini nati da donne
che hanno assunto contraccettivi orali combinati prima della gravidanza, né effetti
teratogeni a seguito di involontaria assunzione di contraccettivi orali combinati durante la gravidanza. L’allattamento può essere influenzato dagli steroidi contraccettivi in quanto essi possono ridurre il volume ed alterare la composizione del latte
materno. Piccole quantità di steroidi contraccettivi e/o di loro metaboliti possono
essere escreti nel latte materno. Pertanto, l’uso di steroidi contraccettivi non è in
genere raccomandato in madri che allattano fino al termine del completo svezzamento. 4.7. Effetti sulla capacità di guidare veicoli e sull’uso di macchinari.
GESTODIOL non ha effetti, se non minimi, sulla capacità di guidare veicoli e di usare macchinari. 4.8. Effetti indesiderati. Gli eventi avversi riferiti con maggior frequenza (>1/10) sono sanguinamento irregolare, nausea, aumento ponderale, tensione mammaria e cefalea. Essi si manifestano solitamente all’inizio della tera-
Non comune (da=1/1000
a <1/100)
Raro (da=1/10000
a <1000)
Corea
Vomito
Iperlipidemia
Ipertensione
Otosclerosi
Colelitiasi
Cloasma
Tromboembolia venosa
Eventi tromboembolici arteriosi
Aumento ponderale
Ritenzione idrica
Sanguinamento irregolare
Amenorrea
Ipomenorrea
Tensione mammaria
Alterazioni della libido
Depressione
Irritabilità
Molto raro
(<1/10000)
Lupus eritematoso
Alterata secrezione vaginale
Pancreatite
pia e sono transitori. I seguenti gravi effetti indesiderati sono stati riportati in
donne che assumono COC, vedi paragrafi 4.3 e 4.4. • Tromboembolia venosa,
vale a dire trombosi venosa profonda in una gamba o alle pelvi ed embolia polmonare. • Eventi tromboembolici arteriosi. • Tumori epatici. • Patologia della
cute e del tessuto sottocutaneo: cloasma. La frequenza di diagnosi di cancro
della mammella fra le donne che assumono COC è leggermente maggiore. Poiché il cancro della mammella è raro nelle donne con meno di 40 anni, il numero superiore è limitato in rapporto al rischio globale di cancro alla mammella.
Non è noto il rapporto di causalità con i COC. Per ulteriori informazioni vedere i
paragrafi 4.3 e 4.4. 4.9. Sovradosaggio. Non sono stati riferiti effetti indesiderati seri in seguito a sovradosaggio. I sintomi che possono manifestarsi in seguito ad un sovradosaggio sono: nausea, vomito e sanguinamento vaginale. Non
c’è antidoto, e il trattamento deve essere sintomatico.
5. PROPRIETÀ FARMACOLOGICHE. 5.1. Proprietà farmacodinamiche. Categoria farmacoterapeutica: Contraccettivi ormonali per uso sistemico. Codice
ATC: G03AA10. L’effetto contraccettivo delle pillole anticoncezionali si basa sull’interazione di vari fattori, i più importanti dei quali sono l’inibizione dell’ovulazione e le modifiche dell’endometrio. Oltre a prevenire il concepimento i COC
possiedono diverse caratteristiche positive che, accanto alle proprietà negative
(illustrate al paragrafo 4.8 Avvertenze, Effetti indesiderati), possono aiutare nella scelta del metodo da adottare per il controllo delle nascite. Il ciclo mestruale è più regolare e le mestruazioni stesse sono spesso meno dolorose ed il sanguinamento più leggero. Quest’ultimo aspetto può determinare una diminuzione dei casi di carenza di ferro. 5.2. Proprietà farmacocinetiche. Gestodene.
Assorbimento. Dopo somministrazione orale il gestodene viene rapidamente
e completamente assorbito. Dopo somministrazione di una dose singola la massima concentrazione sierica di 4 ng/ml viene raggiunta dopo circa un’ora. La
biodisponibilità è intorno al 99%. Distribuzione. Gestodene è legato all’albumina sierica ed alle globuline leganti gli ormoni sessuali (SHBG). Solo l’1-2%
del gestodene totale in siero viene ritrovato come steroide libero, mentre il 5070% è specificamente legato alle SHBG. L’aumento delle SHBG indotto dall’etinilestradiolo influenza la distribuzione delle proteine sieriche con conseguente
aumento della frazione legata alle SHBG e diminuzione della frazione legata all’albumina. Il volume di distribuzione apparente del gestodene è di 0,7 l/kg. Metabolismo. Il gestodene viene completamente metabolizzato tramite i noti canali del metabolismo degli steroidi. L’entità della clearance metabolica dal siero è pari a 0,8 ml/min/kg. Non si manifestano interazioni quando il gestodene
viene assunto insieme all’etinilestradiolo. Eliminazione. I livelli sierici del gestodene diminuiscono in modo bifasico. La fase di eliminazione terminale è caratterizzata da un’emivita di 12-15 ore. Il gestodene non viene escreto immodificato. I suoi metaboliti vengono escreti nelle urine e nella bile in un rapporto
di 6:4. L’emivita di escrezione dei metaboliti è pari a circa 1 giorno. Steadystate. La farmacocinetica del gestodene è influenzata dai livelli sierici di SHBG
che aumentano di tre volte con l’etinilestradiolo. In seguito all’assunzione giornaliera i livelli sierici di gestodene aumentano di circa quattro volte il valore della dose singola e raggiungono lo steady-state entro la seconda metà del ciclo
di trattamento. Etinilestradiolo. Assorbimento. Dopo somministrazione orale
l’etinilestradiolo viene rapidamente e completamente assorbito. Il picco dei livelli plasmatici, pari a circa 80 pg/ml, viene raggiunto in 1-2 ore. La biodisponibilità assoluta, dopo coniugazione presistemica e metabolismo di primo passaggio, è all’incirca del 60%. Distribuzione. Durante l’allattamento lo 0,02%
della dose giornaliera della madre passa nel latte. L’etinilestradiolo è largamen-
te, ma non specificamente, legato all’albumina (approssimativamente per il
98,5%) e induce un aumento nelle concentrazioni sieriche dell’SHBG. È stato
determinato un volume di distribuzione apparente di circa 5 l/kg. Metabolismo.
L’etinilestradiolo è soggetto a coniugazione presistemica a livello sia della mucosa dell’intestino tenue sia del fegato. La principale via metabolica dell’etinilestradiolo è l’idrossilazione aromatica ma si forma anche una ampia varietà di
metaboliti idrossilati e metilati, presenti come metaboliti liberi e coniugati con
glucuronidi e solfati. L’entità della clearance metabolica è pari a circa 5 ml/min/kg.
Eliminazione. I livelli sierici dell’etinilestradiolo diminuiscono in modo bifasico,
con una fase di eliminazione terminale con un’emivita di circa 24 ore. L’etinilestradiolo immodificato non viene escreto, ma i suoi metaboliti sono escreti in
un rapporto urina:bile pari a 4:6. L’emivita dell’escrezione dei metaboliti è di circa 1 giorno. Steady-state. Le concentrazioni allo steady-state vengono raggiunte dopo 3-4 giorni ed i livelli sierici dell’etinilestradiolo sono più elevati del
30-40% rispetto alla singola assunzione. 5.3. Dati preclinici di sicurezza. Etinilestradiolo e gestodene non sono genotossici. Gli studi di carcinogenicità con
etinilestradiolo da solo o in associazione con vari progestinici non mostrano alcun pericolo carcinogenico in donne che usano il farmaco come contraccettivo
come indicato. È tuttavia necessario tenere presente che gli ormoni sessuali
possono promuovere la crescita di alcuni tessuti e tumori ormono-dipendenti.
Studi di tossicità riproduttiva su fertilità, sviluppo fetale o performance riproduttiva condotti con etinilestradiolo da solo o in associazione con progestinici non
hanno fornito indicazioni di un rischio di effetti avversi nell’uomo conseguenti
all’impiego del preparato secondo quanto raccomandato.
6. INFORMAZIONI FARMACEUTICHE. 6.1. Elenco degli eccipienti. Nucleo
della compressa: Magnesio stearato, Povidone K-25, Amido di mais, Lattosio
monoidrato. Rivestimento della compressa: Povidone K-90, Macrogol 6000, Talco, Calcio carbonato, Saccarosio, Cera di lignite. 6.2. Incompatibilità. Non pertinente. 6.3. Periodo di validità. Tre anni. 6.4. Speciali precauzioni per la
conservazione. Non conservare a temperatura superiore a 30 °C. 6.5. Natura e contenuto del contenitore. Blister: PVC/Alluminio. Confezioni: 1 X 21
compresse; 3 X 21 compresse; 6 X 21 compresse. È possibile che non tutte le
confezioni siano commercializzate. 6.6. Precauzioni particolari per lo smaltimento e la manipolazione. Nessuna istruzione particolare.
7. TITOLARE DELL’AUTORIZZAZIONE PER L’IMMISSIONE IN COMMERCIO.
EG SpA via D. Scarlatti, 31 - 20124 Milano.
8. NUMERI DELLE AUTORIZZAZIONI ALL’IMMISSIONE IN COMMERCIO.
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
1X21 cpr A.I.C. n. 037684014/M
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
3X21 cpr A.I.C. n. 037684026/M
GESTODIOL 20 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
6X21 cpr A.I.C. n. 037684038/M
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
1X21 cpr A.I.C. n. 037684040/M
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
3X21 cpr A.I.C. n. 037684053/M
GESTODIOL 30 microgrammi/75 microgrammi compresse rivestite,
6X21 cpr A.I.C. n. 037684065/M
9. DATA DI PRIMA AUTORIZZAZIONE/RINNOVO DELL’AUTORIZZAZIONE.
2 ottobre 2007
10. DATA DI REVISIONE DEL TESTO. Settembre 2007
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