Rimini, Museo della città, Andrea de’ Bruni da Bologna, Crocefisso, ca 1370. [email protected] Collaboratori del 1° numero, anno 2012-2013 Mario Alvisi - Rita Maria Astolfi Oliva - Onelio Banchetti Giorgio Betti - Manuele Bravi - Laura Carboni Prelati Angelo Chiaretti - Francesco Covarelli - Franca Fabbri Marani Roberto Giannini - Anna Mariotti Biondi Fernando Santucci - Gianfranco Simonetti Progetto grafico e impaginazione Anna Mariotti Biondi Fotografie Mario Alvisi Paolo Marani Vita di Club Anno lionistico 2012 – 2013 Numero 1 Rivista del Lions Club Rimini - Malatesta SOMMARIO: Incontri Conferenze Conviviali Servizi Viaggi Curiosità Novità Ricordi Arte Musica Poesia Amicizia Solidarietà Mostre Musei Gastronomia Posta Attualità Chiacchiere Pensieri Brevi Lionismo Anniversari Ospiti Atmosfere Nostalgie Progetti 4 La pagina del Presidente Saluto del Presidente 5 Mondo Lions Notizie dal mondo 7 Estate Lions Niente di nuovo sotto il cielo… 9 Salute & Attualità Alcol e giovani un binomio infernale 11 Salute & Felicità Ho il Parkinson 13 Mondo Lions Incontro tra “vecchi leoni” 14 L’intervista Nel paesaggio scolpito dall’uomo 17 Gastronomia Monumento al gusto 19 Meeting Una serata di sport 21 Arte & Attualità Un altro tesoro mondainese 23 L’angolo della poesia Fiori d’autunno e d’inverno 24 Meeting Festa della Bandiera Tricolore 27 Religione in Arte e Musica L’annuncio a Maria Inserto 34 Viaggiando viaggiando Capolavori d’arte riprodotti in quadri viventi Luoghi della memoria Luoghi della memoria 32 Curiosità preziose Gioielli che hanno fatto storia 40 Service Una luce per Manuele 41 L’angolo della poesia Parole nel buio 43 Mondo Lions Latinus Ludus 44 Curiosità dantesche Dante Alighieri questo sconosciuto 45 Meeting Metti una sera a cena con Dante Alighieri 49 News dall’entroterra Il ritorno degli angeli 50 Curiosità linguistiche Guida semiseria al parlare macianese 51 Curiosità venatorie Una passione antica 53 Curiosità alvisiane Quando nacque Gesù 55 Arte in Mostra Carte del cielo e della terra 58 Pro Service Jazz solidale 60 Service Service internazionale – Restauro – Progetto Martina: Lezioni contro il silenzio LA PAGINA DEL PRESIDENTE SALUTO DEL PRESIDENTE Novembre 2012. I l nostro sodalizio prevede che ogni componente per essere veramente al servizio del Club debba ricoprire nel tempo tutte le cariche previste nello statuto. Ciò è valso anche per me; dopo esser stato consigliere, addetto stampa e cerimoniere, ora mi spetta il ruolo di Presidente con l’opportunità di avvalermi di un efficiente e disponibile gruppo di consiglieri. Il mio mandato, oltre a seguire il solco della tradizione, è stato fin qui caratterizzato da una maggiore frequentazione con altri club Lions. Il service stesso del Presidente sarà condiviso con il Presidente del Lions Rimini-Riccione Host, Maurizio Della Marchina. Service che consiste nel finanziare il restauro del Crocefisso ligneo attribuito ad Andrea da Bologna e risalente al 1370 ca., un importante documento artistico del nostro passato conservato al Museo della Città per il quale ci adoperiamo affinché giunga ai posteri nelle migliori condizioni possibili. Parlando di futuro, noi viviamo questo periodo con una certa inquietudine a causa delle scarse opportunità che non ci permettono di inserire le nuove generazioni nel mondo del lavoro. Nonostante l’avanzare di una crisi epocale, vogliamo esser fiduciosi che si possano ugualmente trovare le forze per una rinascita economica, sociale e morale. Il nostro paese possiede una grande risorsa di creatività, un patrimonio artistico-culturale unico al mondo, risorse ambientali straordinarie e non da ultimo una cultura enogastronomica e una filiera alimentare di altissima qualità. La nostra città possiede tutti gli elementi sopra citati, occorre però che se ne prenda piena coscienza da parte delle istituzioni e di tutti i cittadini. Una unione di intenti è indispensabile per poter realizzare investimenti necessari per la salvaguardia e la diffusione della conoscenza del nostro patrimonio e si tradurrebbe in una importante risorsa economica ed occupazionale per tutto il territorio. Occuparsi di tali argomenti è compito anche del nostro club; quindi, a proposito dei soci Lions, rilevo che, se fino a poco tempo fa appartenere ad un sodalizio come il nostro significava possedere uno status particolare, economico-sociale-morale, oggi la realtà dei fatti ci impone di superare in parte quella concezione a favore di una maggiore possibilità di accesso per coloro che sentono la necessità di sentirsi utili e attivi attraverso il proprio contributo per meglio soccorrere il nostro prossimo. Sempre consapevoli però di fare parte del club di servizio più grande al mondo che possiede anche un seggio all’ONU, che si fonda sull’amicizia e l’amore per il prossimo dedicando le proprie risorse per un mondo sempre più giusto e migliore. L’esempio più tangibile delle mie parole ci viene dato proprio da coloro che si adoperano con brillanti risultati per realizzare questa rivista, la quale dà puntualmente conto di tutte le nostre attività sociali e delle singole esperienze dei soci. Tramite “Vita di Club” vi giunga il mio più sentito ringraziamento per il contributo che state dando a tutti i componenti del Consiglio che mi supportano passo passo, grazie a tutti gli amici Lions che mi dimostrano affetto, simpatia e fiducia. Uniti siamo in grado di realizzare un considerevole aiuto alla nostra comunità attraverso i service che realizziamo, tra i quali vorrei ricordare il Progetto Martina, un service nazionale che ha l’obiettivo di “educare alla cultura della salute” oltre 400.000 studenti ogni anno in Italia, il concorso Un poster per la pace, rivolto agli studenti della Scuola Media, la raccolta fondi per il Centro Lions cani guida di Limbiate (MI). 4 Vita di Club n. 1 MONDO LIONS Lotta contro il morbillo Lo scorso anno, i Lions di tutto il mondo si sono uniti per sostenere Un vaccino, una vita: l'iniziativa Lions per la lotta al morbillo, offrendo l'incredibile contributo di 10 milioni di dollari per aiutare a porre fine ai decessi e alle malattie provocate dal morbillo. Poiché la Fondazione Bill & Melinda Gates aveva promesso un contributo integrativo di US$1 per ogni US$2 raccolti da noi, se fossero riusciti a raccogliere US$10 milioni, avendo raggiunto tale obiettivo, i Lions saranno in grado di offrire, quest'anno, un totale di US$15 milioni per contribuire a proteggere i bambini di tutto il mondo dalle conseguenze del morbillo, quali danni cerebrali, perdita dell'udito, cecità e morte. La dedizione dei Lions a combattere questa malattia mortale è una chiara dimostrazione del profondo impegno a favore della protezione della salute e del benessere dei bambini più vulnerabili. Non solamente i Cavalieri dei non vedenti, ma anche i protettori dei bambini. L'aver vinto la sfida Gates è stato possibile grazie agli sforzi di tutti i Lions; tuttavia, i soci di tre paesi hanno contribuito quasi 6 dei 10 milioni di dollari raccolti, e meritano, pertanto, dei ringraziamenti speciali. I Lions del Distretto Multiplo 300 - Taiwan hanno contribuito US$2,9 milioni, i Lions del Giappone hanno mobilitato US$2 milioni e quelli della Corea hanno offerto quasi 1 milione! Borse di studio La SO.SAN., il Lions Club Ancona Host e il Lions Club Civitanova Marche Cluana hanno bandito il 2° concorso per l'assegnazione di n.3 Borse di Studio, intitolate a Patrizia Baroni, dell'importo di € 1.500 (millecinquecento euro) cadauna, a favore di studenti universitari meritevoli, residenti nel territorio del Distretto Lions 108 A (Romagna, Marche, Abruzzo e Molise). Service Wolisso In assolvimento del service distrettuale "Adottiamo il villaggio di Wolisso - Aiutiamoli ad aiutarsi", il Distretto ha organizzato un viaggio in Etiopia, perché i soci Lions, oltre a visitare importanti siti e monumenti locali, possano prendere visione diretta della realtà in cui operiamo e vedere di persona la realizzazione del nostro centro della solidarietà. Ridurre la cecità infantile tramite la Pediatric Cataract Initiative Bausch + Lomb e Lions Clubs International Foundation continuano la loro opera per la riduzione della cecità infantile tramite la Pediatric Cataract Initiative (PCI). Grazie alla PCI, al Siliguri Greater Lions Eye Hospital in India è stato recentemente assegnato un sussidio di 150.000 USD per un programma dedicato alla diagnosi precoce e alla cura della cataratta pediatrica, oltre che alla salute della vista dei bambini Oltre a formare oftalmologi e fornire educazione sulla salute degli occhi in età pediatrica, l'ospedale ha in programma di condurre screening della vista per 130.000 bambini bisognosi e di effettuare interventi chirurgici alla cataratta su bambini di comunità designate. Ulteriori informazioni su questo sussidio sono disponibili sul sito Web di LCIF. Convention ad Amburgo Partecipate con i Lions di tutto il mondo alla 96esima Convention Internazionale di Amburgo (Germania), che si terrà da venerdì 5 luglio a martedì 9 luglio 2013. Registratevi entro il 31 dicembre per riservare il posto alla tariffa più bassa e assicurarvi la prenotazione alberghiera alle speciali tariffe Lions. Amburgo offre numerose attrattive che vi divertiranno per alcune ore o per giornate intere. Fate una crociera in battello sul meraviglioso lago Alster, passeggiate all'interno del Museo dell'Emigrazione e non perdetevi il Magical History Tour in autobus nei famosi luoghi dei Beatles! Ulteriori informazioni sui tour locali sul sito Web di LCI. Disponete di alcuni giorni extra per rilassarvi? Visitate la pagina dei tour pre/post Convention per trovare tour Lions a tariffe scontate in Germania e in altre famose destinazioni europee. 5 Vita di Club n. 1 Il 5 dicembre si festeggiano i Leo La Giornata Internazionale Leo, che si celebra ogni anno il 5 dicembre, è il momento ideale per richiamare l'attenzione su coloro che ci auguriamo un giorno guideranno l'associazione. Considerate l'idea di sponsorizzare un nuovo Alpha Leo club presso il centro sociale locale o utilizzate questa giornata per promuovere il dialogo con gli attuali soci Leo, creando così l'ambiente ideale per incoraggiarli a continuare il loro servizio come Lions. Attraverso i Leo club, avrete un'influenza positiva sui ragazzi e sui giovani adulti di oggi, aiutandoli a diventare cittadini migliori e leader per tutta la vita. Per saperne di più sui Leo, guardate il video Leader per la vita. I Champions Lions club attraggono l'interesse dei potenziali soci Un Champions Lions club supporta gli Special Olympics e aiuta le persone con disabilità mentali tramite diverse attività che spaziano dalla raccolta fondi alla collaborazione nel corso degli eventi Opening Eyes, l'inziativa di LCI e Special Olympics che fornisce esami della vista e occhiali agli atleti. Un Champions club fornisca ai Lions ulteriori opportunità di servire persone e organizzazioni meritevoli all'interno della propria comunità. Per informazioni o per avviare la fondazione di un Champions Lions club, contattare il dipartimento Sviluppo soci e nuovi club. Giornata Mondiale per la Vista Lions La Giornata Mondiale per la Vista Lions è stata celebrata ad Istanbul, in Turchia, l'11 ottobre. È un evento internazionale che si svolge ogni anno per riconoscere l'importanza di debellare la cecità prevenibile. Incoraggiamo i Lions a partecipare e ad unirsi alla Campagna di service globale Condividere la Visione, organizzando un evento legato alla vista. L'evento può essere finalizzato ad esami della vista, a programmi di istruzione sugli occhi o a qualsiasi altra attività legata alla vista. Quest'anno, l'evento affronterà la retinopatia diabetica e il suo rapporto con la cecità. Ad Istanbul, i Lions organizzeranno screening oculistici pubblici che si incentreranno sulle malattie oculistiche legate al diabete. SightFirst e Lions Quest si espandono Durante la riunione di agosto del Comitato Consulente di SightFirst, sono stati approvati ventidue sussidi, per un totale di US$4.748.351. Grazie ai sussidi concessi, SightFirst si espanderà verso nuovi settori della prevenzione della cecità con l'aggiunga di progetti di ricerca, incentrati sulle cause della cecità e dell'ipovisione, in Indonesia e in Bolivia, nonché sul tracoma e sugli interventi chirurgici per la trichiasi, in Etiopia e in Tanzania. Anche il Comitato Consulente Lions Quest si è incontrato lo scorso mese e ha concesso 13 sussidi per un totale di US$699.750. Grazie a questi sussidi, i programmi Lions Quest potranno avere un impatto positivo su più di 50.000 studenti in Bulgaria, India, Polonia e altri paesi. L’uragano Sandy I Caraibi e la costa orientale degli Stati Uniti sono stati colpiti dall'uragano Sandy. I Lions non sono solamente presenti sul luogo, aiutandosi a vicenda e sostenendo le comunità colpite, ma stanno offrendo da tutto il mondo generose donazioni a favore del fondo per i soccorsi in caso di calamità della Fondazione Lions Clubs International. È stato grazie al fondo per i soccorsi in caso di calamità che la LCIF ha potuto reagire prontamente all'uragano Sandy, mobilitando sussidi per US$220.000 a favore dei bisognosi. I Lions sono stati immediatamente in grado di utilizzare i fondi offerti, e, pertanto, di fornire cibo, acqua, coperte e lampadine portatili alle popolazioni colpite. Le donazioni al fondo per i soccorsi in caso di calamità sono valide ai fini dei riconoscimenti MJF, e andranno a sostenere, nelle prossime settimane, le vittime dell'uragano Sandy, a meno che non si verifichi una calamità di entità simile che richieda un'immediata risposta da parte dei Lions. 6 Vita di Club n. 1 ESTATE LIONS NIENTE DI NUOVO SOTTO IL CIELO … «Se nel mondo tornassimo i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni che noi non ci trovassimo un'altra volta insieme, a fare le medesime cose che ora.» (Machiavelli, Clizia, Prologo) di ANNA MARIOTTI BIONDI T ra acquazzoni da diluvio universale e cieli stellati da opera d’arte è andata in onda l’estate Lions: due soli incontri, ma significativi per sentire che il club esiste anche se l’età media dei suoi componenti risente di acciacchi vari, vuoi per la salute, vuoi per crisi di motivazione. La festa di mezza estate si è svolta in un clima invernale il 21 luglio: un temporale inclemente sembrava aver unito cielo e mare e dalle finestre del ristorante “La prua” si aveva la sensazione di essere su una nave in balia delle onde, mentre il movimento della ruota panoramica che girava sul porto contribuiva all’idea di oscillazione. Raccolti attorno ad un bravissimo musicista e cantante, Vanni Sebastiani, che ha proposto un repertorio coinvolgente, i presenti hanno applaudito al discorso programmatico del nuovo presidente Gianfranco Simonetti. Come tradizione vuole, la distribuzione del terzo numero della nostra Rivista ha concluso la piacevole serata. Tutt’altro clima per l’appuntamento del 28 luglio all’Arena Plautina di Sarsina per lo spettacolo più esilarante della stagione teatrale: sotto un luminoso cielo, perfetto fondale della scena, ci siamo gustati, dopo una prelibata cenetta al palazzo “Al Piano”, una machiavellica “Clizia” superbamente interpretata dalla Compagnia di Giuseppe Pambieri e Lia Tanzi con Barbara Bovoli, Geremia Longobardo, Lorenzo Alessandri, Fabrizio Apolloni e Gianna Coletti, per la regia di Giacomo Zito. Pambieri nei panni di Nicomaco, Lia Tanzi in quelli di Sofronia hanno riportato alla contemporaneità la macchina comica che è la commedia del Machiavelli, irresistibili nelle gag inscenate per rappresentare i vizi di una società in decadenza che, sì, è indubbiamente quella cinquecentesca, ma come somiglia alla nostra per pulsioni, finzioni, travestimenti, tentativi di sottrarsi alle regole …!!! Una zattera di folli naufraghi sperduti, alla deriva in una nebbiosa palude – come suggerisce la suggestiva scenografia - se non fosse che il tutto è condito con un’ironia sottile che smaschera l’intrigo e suscita risate irrefrenabili, a cui si aggiunge anche il ritmo parossistico della musica capace di avvalersi persino di danze made in Bollywood. La coppia Tanzi-Pambieri, affiatata e inossidabile nella vita, sul palcoscenico sprizza l’energia di due eterni ventenni, animata da una passione per il teatro comunicativa e trascinante. 7 Vita di Club n.1 La commedia del Machiavelli affronta il tema dell’amore senile, ispirandosi liberamente alla «Casina» di Plauto e proiettandovi aspetti autobiografici: il cinquantaseienne Niccolò si era indecorosamente innamorato di una giovane famosa cantante, Barbara Raffacani Salutati, e le pulsioni di Nicomaco sono certamente le sue, per cui comprendiamo perché accanto ai toni ironici e beffardi ci siano anche quelli malinconici e patetici. La bellissima Clizia, che fin da bambina vive presso una famiglia accolta come figlia adottiva, è diventata, ormai cresciuta, oggetto delle attenzioni del maturo padrone di casa che per lei ha perso la testa; la fanciulla, pur sempre evocata nei discorsi di tutti i personaggi, non compare mai in scena, perché in fondo rappresenta un sogno, una chimera, è la metafora di un inappagabile desiderio. Il libidinoso Nicomaco progetta di farla sposare a un servo compiacente per poi godersela a piacimento, salvando la forma. Ma la sua … saggia moglie tramerà per fargli trovare nel letto approntato per dar corpo alle sue fantasie, invece della ragazza, un giovane servitore, il quale non avrà difficoltà a spaventarlo con le sue «robuste doti». Il vecchio, maltrattato e picchiato, quindi rinsavito («Sì che, oh vecchi amorosi, el meglio fora / lasciar la impresa a giovinetti ardenti, / ch'a più fort'opra intenti, / far ponno al suo signor più largo onore» (Canzona che chiude il secondo atto), non potrà che chiedere scusa all’astuta Sofronia e acconsentire alle nozze della giovane, riconosciuta come rampolla di nobili natali, con il proprio figlio Cleandro, di cui, non volendo rivali, cinicamente diceva: «Tu se' uno di quelli uomini che non sai far nulla e non mi pari né morto né vivo». (Atto III, Scena I) 8 Vita di Club n.1 SALUTE&ATTUALITÀ ALCOL E GIOVANI UN BINOMIO INFERNALE Il consumo e l’abuso di alcol fra i giovani e gli adolescenti è un fenomeno preoccupante se si considera che chi inizia a bere prima dei 16 anni ha un rischio 4 volte maggiore di sviluppare alcoldipendenza in età adulta rispetto a chi inizia non prima dei 21 anni. di FERNANDO SANTUCCI S ono sempre più frequenti le notizie relative a giovani ricoverati in pronto soccorso per coma alcolemico, oppure ai tragici fatti del sabato sera, episodi drammatici legati ad incidenti stradali, o anche più semplicemente a liti banali che grazie all’eccesso di alcol degenerano in episodi gravi con conseguenze drammatiche. A mio avviso molte di queste incresciose situazioni potrebbero essere evitate, basterebbe solo informare i giovani sulle conseguenze che l’abuso di sostanze alcoliche produce sui nostri organi ed in particolare sul sistema nervoso e sul fegato. Le bevande alcoliche sono di tre categorie: bevande alcoliche fermentate (vino, birra, sidro); bevande alcoliche distillate (grappa, whisky, cognac, rhum, vodka); bevande alcoliche liquorose (amari, digestivi, liquori dolci come la sambuca, o secchi); La componente basilare è quella alcolica che risulta essere più elevata nei distillati e nei liquorosi e più bassa nel vino e nella birra. Concetto fondamentale che giovani e meno giovani dovrebbero tenere fisso nella mente è che gli effetti delle sostanze alcoliche sull’organismo sono dose-dipendenti. Un consumo moderato di sostanze alcoliche (sarebbero comunque sempre da evitare i distillati e gli amari) aiuta a stare meglio ed anzi conserva la salute. La quantità consigliata è di 7-10 bicchieri la settimana per i maschi, 4-7 bicchieri la settimana per le donne; è assolutamente sconsigliato bere alcolici o superalcolici alle giovani fino a 16 anni e ai maschi fino a 14 anni. Le ragioni di queste limitazioni nelle donne ad ogni età e nei giovani è legata al fatto che manca un enzima che provvede alla metabolizzazione a livello epatico, ed allora gli effetti tossici si manifestano più rapidamente, compresa una minor tenuta anche per piccole quantità; L’ abuso di sostanze alcoliche provoca effetti dannosi sia in acuto che in cronico. Prima di entrare nei dettagli riguardanti i sintomi provocati in acuto dall’uso eccessivo di alcol voglio fare alcune considerazioni preliminari: Qualsiasi tipo di alcol, sia esso vino o birra o distillato, viene assorbito rapidamente in percentuali diverse dalla bocca all’intestino e lo si ritrova nel sangue già 5 minuti dopo l’ingestione, per essere completamente assorbito dopo 40 minuti; l’assorbimento è tanto più elevato quanto più alta è la gradazione alcolica; La velocità di assorbimento è anche legata al fatto che lo stomaco sia pieno o vuoto (se è vuoto l’assorbimento è molto più rapido); La rapidità di assorbimento varia da individuo a individuo; Una volta ingerito e assorbito, l’alcol viene eliminato in quantità variabile tra il 5% e il 10% attraverso le urine e il respiro; È opportuno che i giovani sappiano che c’è un rapporto preciso tra la quantità di alcol espirata e quella presente nel sangue e che questo rapporto è alla base della prova del palloncino; Il tasso alcolemico non deve superare i 0,5 grammi per litro di aria; Bere acqua dopo aver bevuto alcol non riduce l’alcolemia, un bicchiere con circa 10 gr. di 9 Vita di Club n. 1 alcool aumenta di 0,2-0,3 gr. l’alcolemia, infine il caffè lascia le cose come stanno. Sintomi della intossicazione acuta da alcol: Rallentamento del tempo di coordinazione e azione; Incapacità a misurare la velocità, la distanza e la posizione dell’auto; Riduzione del campo visivo ed allungamento del tempo di recupero della vista; Ottundimento dei riflessi di fronte ad un ostacolo che compare improvvisamente; Aumento dell’aggressività con reazioni incontrollabili ed anormali; È importante ricordare che l’intensità di queste reazioni è direttamente proporzionale al tasso alcol emico; con un tasso alcolemico superiore a 1,5 la possibilità di fare un incidente aumenta di 25 volte. È importante ricordare che la risposta all’ingestione di alcol varia da persona a persona e a questo proposito, onde evitare spiacevoli conseguenze, consiglio ad ognuno di testare la quantità di alcol necessaria a superare individualmente la fatidica soglia di 0,5 gr. Il raggiungimento di questo tasso è infatti legato a più fattori, quali il peso, il sesso, lo stato di salute, la corporatura, il rapporto tra massa grassa e massa magra; sarebbe utile che ogni ragazza o ragazzo (ma questo vale anche per gli adulti) facesse personalmente a casa una prova con l’etilometro per vedere quanto alcol è necessario a non superare la quantità limite dello 0,5 Gr.% (in questa maniera ognuno sa come fare per autolimitarsi e non superare la fatidica soglia). Le donne devono tenere a mente che il loro tasso alcolemico sale più rapidamente che negli uomini perché: sono più basse di statura; perché, a causa della loro costellazione ormonale, hanno più tessuto adiposo per chilo di tessuto corporeo; inoltre, da ultimo, ma non per importanza, mancano di enzimi gastrici ed epatici in grado di metabolizzare l’alcol; quanto spiegato per le donne vale anche per i giovani, ricordando che fino ai 14-17 anni mancano di un enzima che metabolizza l’alcol per cui, oltre al danno legato ad un rapido aumento dell’alcolemia, si aggiunge una grave compromissione dello stato di salute; CONCLUSIONI L’alcol e il vino in particolare sono un grande dono che il BUON DIO e la NATURA ci hanno regalato per rendere la nostra vita più piacevole e per difendere il nostro benessere, chi lo usa in maniera moderata ne trae un’immensità di vantaggi ed ha l’opportunità di assaporare uno dei tanti piaceri della vita; al contrario chi ne abusa sia in acuto che in cronico conoscerà l’altra faccia di questa sostanza ed invece di gustare la prelibatezza di quello che viene chiamato nettare degli dei ne conoscerà tutti gli effetti devastanti precipitando dall’Olimpo agli Inferi. Riflettete dunque, e, se vi volete bene, datemi retta: bevete con moderazione sempre a stomaco pieno, bevete lentamente a sorsi (20 sorsi per ogni bicchiere), cercate di acculturarvi e di abbinare in un matrimonio felice cibo e vino; solo così facendo allungherete la vostra vita e potrete godere dei piaceri della buona tavola e della convivialità e da veri gourmet potrete brindare cantando: Un pasto senza vino è come un giorno senza sole, una notte senza amore, un bimbo senza sorriso! Mi auguro che qualcuno legga e faccia tesoro di questi consigli che vi invia il vostro cardiologo gourmet. 10 Vita di Club n. 1 SALUTE&FELICITÀ HO IL PARKINSON “Le persone assennate si sono accorte da tempo che la felicità è come la salute: quando ce l’hai, non ci fai caso. Ma quando passano gli anni, allora sì che te la ricordi la felicità, eccome se te la ricordi! Quanto a me, me ne sono appena accorto, sono stato felice nell’inverno del 1917. Un anno indimenticabile, clamoroso, tumultuoso!” (da Morfina di Michail A. Bulgakov). di MARIO ALVISI L a prima volta in cui corsi il rischio di perdere la felicità fu nel 1961. Allora avevo 27 anni. Beata gioventù. A causa di una forte emorragia intestinale, non diagnosticata con immediatezza e trascurata per un rimpallo fra l’ospedale di Rimini, che non mi ricoverò perché ero un mutuato sammarinese, e l’ospedale di San Marino, dal quale fui respinto perché cittadino riminese, per diversi giorni fui tenuto fra la vita e la morte per mezzo di tantissime trasfusioni di sangue. Costai un patrimonio, ma mi salvai. Da allora ho creduto di poter essere felice per sempre. Di poter vivere la mia vita senza il pensiero del domani. Con tanti progetti da realizzare: le “morose”, la vita matrimoniale, il lavoro, la carriera mia e dei figli, la casa (tanto cara a Graziella), il divertimento, la passione per i viaggi e per lo sport, i concerti, i musei, il mangiare, i miei tantissimi hobby, gli amici personali e quelli Lions e, non ultimi, gli amatissimi nipoti. Insomma una vita frenetica che avrebbe dovuto avere una durata infinita di tempo. C’era spazio per tutto senza preoccupazioni del futuro, una miriade di occasioni con le quali ho potuto vivere una vita felice. Questa intatta felicità fu improvvisamente frantumata da un grande e drammatico avvenimento che ha reso infelice me e mia moglie Graziella, facendoci sentire persi per tutta la vita: fu quando ci giunse la tragica notizia che nostro figlio Enrico, appena venticinquenne, era deceduto in un bruttissimo incidente stradale. Ma poi, come succede sempre, si ritorna a vivere, anche se non compiutamente. E così non la felicità intatta, ma una serena gioia e il gusto per la vita sono ritornate a riempire i miei giorni. Tanto che sovente ripeto, a chi me lo chiede, che, se mi fosse concesso di rivivere, vorrei rifare le stesse cose che ho fatto e vissuto per oltre settant’anni! Ma, purtroppo, non succederà! Infatti oggi anche questa serenità sta prendendo una brutta piega. Negli ultimi mesi dell’anno scorso ho cominciato a notare un certo tremore delle mani. Mi dicevano: “Sai, è la vecchiaia, non preoccuparti”. Però ormai il guaio era fatto, il pensiero tornava insistentemente nel cervello. In questo rovello mi sono ricordo che il compagno di mia sorella soffre da tempo di Parkinson. Molti dei miei sintomi potevano considerarsi identici. Il mondo mi è caduto rovinosamente addosso. Con tanti dubbi dapprima vado dal medico di famiglia che, conoscendomi da anni, esclude ogni possibilità al riguardo. Ma non mi tranquillizzo. Su suggerimento di mia sorella mi reco all’associazione degli ammalati di Parkinson che si trova nei locali dell’Ausl, al Colosseo. Faccio due lunghe chiacchierate consultive che in parte mi tranquillizzano. Però … “Però è meglio che si faccia vedere dal neurologo”. Io ne conosco uno, vecchio amico di pallacanestro. Ma loro me ne indicano un altro. Detto fatto. Prendo appuntamento. Il dottore, gentilissimo, mi fa camminare, mi fa scrivere, mi fa fare disegni, mi interroga sul passato e così via con tanta e umana puntigliosità. A me sembra tutto a posto. Quando si mette alla scrivania per scrivere il referto non lo vedo preoccupato. Mi sento tranquillo, Allora, dico fra me e me: è la vecchiaia, ha ragione mia moglie. Mario anche questa volta l’hai scampata bella. Invece … Invece, alla fine del referto, la diagnosi traditrice: “sfumata emisindrome parkinsoniana dx, richiedo TC cerebrale, terapia consigliata una pillola di Jumex”. Il tono leggero della diagnosi diventa poi più pesante: “Controllo fra sei mesi”. Forse con l’augurio che il mio fisico reagisca! Chissà! Con lo stato d’animo sotto i piedi (per giunta sono anche un fifone) gli faccio un sacco di domande alle quali il dottore dà sempre una risposta tranquillizzante. “Non si preoccupi; è una malattia a lungo decorso; lei è già avanti con gli anni (grazie) e con cure adeguate potrà vivere 11 Vita di Club n.1 bene tanti e tanti anni ancora”. Insomma perché preoccuparsi più di tanto? Me ne torno a casa a rimuginare su questa nuova malattia, su come potrà diventare il prossimo futuro, sul perché improvvisamente finisca la mia serenità. E ancora perché sia capitato proprio a me che in famiglia non ho casi del genere. Insomma un tormento che diventa ossessione ad ogni piccolo segno di tremore. Con questo pessimo stato d’animo mi viene alla mente un racconto di Dino Buzzati “Il reggimento parte all’alba” (edizione Il Sole 24 Ore), che avevo letto durante le vacanze. Il racconto si addice proprio al caso mio. “L’annuncio della partenza (da questo mondo) ha sempre un pretesto. E nella gran maggioranza dei casi questo pretesto si riferisce alle condizioni di salute. Perciò a comunicarcelo sono i medici. I quali, a differenza degli altri messaggeri, non lo fanno direttamente in forma esplicita, ma cercano di camuffarlo con i più ingegnosi eufemismi, trasformandolo addirittura in una felice notizia (vivrà tanti anni ancora!). Ma Stefano Caberlot (il personaggio del racconto) non si è certo fatto ingannare quando il medico curante gli ha fatto capire che la sua <forma> non è per nulla grave, anzi potrebbe considerarsi trascurabile (sfumata sindrome), però non si può negare una sua certa ostinazione, e quindi può darsi che le cure debbano protrarsi per un certo periodo e sia magari opportuno ricorrere, per un eccesso di prudenza, intendiamoci, proprio una esagerazione, a qualche applicazione di raggi (per fortuna non è il mio caso) e, chissà - la scienza ultramoderna ha i suoi assurdi snobismi – a ulteriori brevi sedute di cobaltoterapia.” …“Via via che le udiva, sentendosi sconvolgere dentro, Stefano traduceva mentalmente, parola per parola, le tranquillizzanti parole nella irrimediabile verità. E quando il medico sembrava aver concluso il discorso, lui lo riattizzava con opportune domande. ‘Ma, professore, se non ci fossero miglioramenti?’. ‘Ci saranno, non abbia paura, con le cure che le ho dato ci saranno’. ‘Ma se non ci fossero?’. ‘Beh, in questo caso, che io escludo, vorrebbe dire che la nostra ipotesi è inesatta’. ‘Inesatta?’. ‘Dico ipotesi perché gli elementi in possesso non ci consentono, gliel’ho già detto, il formulare una diagnosi sicura al cento per cento’. ‘E allora?’. ‘Beh, tutti i possibili esami clinici sono stati fatti. Chiaro che non si potrebbe andare avanti ancora così alla cieca … l’unica sarebbe andare a vedere’. ‘Andare a vedere come?’. ‘Aprire, dare un’occhiata, richiudere. Una cosa da niente’. ‘Aprire la pancia?’. ‘Beh, un taglietto, Questione di un paio di minuti’. ‘E se si trovasse qualcosa di brutto?’. ‘Che cosa vuole che sia? È una cosa di tutti i giorni. Ma non è il caso neppure di pensarci. Una supposizione gratuita, cervellotica. Assolutamente prematura. Adesso lei si curi. Continui la sua vita, il suo lavoro (per sfortuna sono in pensione, con tutto il tempo per pensare). Niente paura. Stia tranquillo. Ce la farà’.” Passati sei mesi dalla visita iniziale, faccio quella di controllo. Io, dentro di me, già sento di essere leggermente peggiorato. Le mani mi tremano un po’ più spesso dopo che si sono appoggiate su un bracciolo o sul tavolo. I libri e i giornali cominciano a tremare davanti agli occhi. Quando sono stanco il corpo sembra avere un movimento tellurico. Però il medico, ancora una volta, dopo avermi guardato da cima a fondo, mi rassicura. Addirittura, alla mia domanda se in futuro la “testa” non avrà ripercussioni intellettuali, mi risponde che “sono giovane” e non mi devo preoccupare più di tanto. Ringrazio per il complimento sulla gioventù. Ma subito dopo mi raggela con “Sa, i suoi settantotto anni sono ben poca cosa rispetto ai tanti casi di senilità che curiamo, anche se lei li porta bene”!!! Che gioia, saperlo! Poi la sorpresa. Così, come nel caso di Stefano Caberlot di Buzzati, “non si può negare una certa ostinazione”. Arriva la diagnosi: malattia di Parkinson (Prima era una sfumatura). Consiglio: una compressa giornaliera di Resquip in aggiunta alla compressa di Jumex. Un crescendo farmacologico! Allora ripenso a Buzzati. “Ma professore, se non ci fossero miglioramenti?” “Ci saranno, non abbia paura”. “Ma se non ci fossero?”. “Beh, in questo caso, che per il momento io escludo, vorrebbe dire che …”. Per il mio dottore vorrebbe dire: le prescriverò la Levodopa, che aiuta a ristabilire gli equilibri di dopamina 1 nel cervello. Mentre leggo, penso che se fosse veramente così sarebbe un piacere, un ritorno alla vita, riprendere la felicità. Ma allora perché il Parkinson è una malattia inguaribile? È vero, tutto ciò è scritto su internet, ma non sarà la 1 “La Dopamina è un neurotrasportatore che ha molte funzioni nel cervello; uno di queste è stimolare nuove motivazioni fisiologiche quali il sesso, il gusto di un buon cibo e l’utilità dell’acqua; e nuove motivazioni artificiali come gli stupefacenti e l’ascolto della musica” (Wikipedia). 12 Vita di Club n.1 brutta notizia camuffata, ancora una volta, per non preannunciare “l’annuncio della partenza”? Tuttavia questa volta non ci casco. Nonostante tutto ciò e di fronte all’annuncio “fatale”, mi accorgo di non essere sorpreso più di tanto, di non essere a terra, di non precipitare nella depressione, pur sapendo di essere condannato a morte, e che la mia “partenza” sarà preceduta da un lungo calvario sostenuto da pillole, ancora pillole, forse da badanti e … Però non vi so ancora dire se a causa della salute avrò perso definitivamente la felicità. Dipenderà, forse, dal prossimo controllo fissato per marzo del 2013. MONDO LIONS INCONTRO TRA “VECCHI LEONI” Un caro saluto a e da Elio Bianchi. di MARIO ALVISI C on Elio ogni tanto mi sento telefonicamente. Ma, dopo l’assemblea dei soci che ha aperto il nuovo anno lionistico, sapendo quanto gli sia sempre stato e gli stia a cuore il Club, ho pensato che sarebbe stato bello andarlo a trovare personalmente, per riferirgli quanto era stato deciso in quella sede. La decisione scaturiva da un senso di profonda amicizia che da tanti anni condividiamo. Mi ha accolto con entusiasmo, chiamandomi col nomignolo di Mariolino che da sempre mi ha dato. Si è interessato subito con grande vivacità a quanto gli raccontavo e i suoi occhi, pur nel viso un po’ stanco, esprimevano viva partecipazione e contentezza per questa visita che gli faceva mantenere i contatti col Club. Abbiamo parlato delle prossime attività sociali, delle capacità operative del presidente, della validità gestionale del nuovo Consiglio Direttivo che affianca a soci fondatori giovani capaci ed entusiasti. Abbiamo parlato della rivista, del cui Consiglio di Redazione Elio fa parte fin dalla sua nascita, dei numerosi riscontri di apprezzamento che giungono da ogni parte e che ci confortano nel portare avanti questa iniziativa. Abbiamo parlato delle varie motivazioni che hanno portato alle dimissioni di alcuni soci e delle difficoltà per alcuni di partecipare alla vita del Club. Abbiamo ricordato i vecchi soci, quelli che tanto si sono adoperati per il Club, delle tante iniziative e dell’impegno profuso nello scorso anno dal presidente Morbidi. Gli ho comunicato l’ingresso dei quattro nuovi soci ed egli è rimasto sorpreso (per il numero) e contento (per la qualità). Alcuni di loro li conosceva personalmente come Alessandro Gasparri e Onelio Banchetti e conosceva per fama Michele Marcantonio, avendo fatto parte della più importante azienda riminese. Mi ha assicurato che saranno un plus per il Club. Gli ho fornito alcuni cenni biografici su Stefano Bizzocchi, che ancora conosciamo poco, ma per cui la presentazione da parte di Lily Serpa è garanzia di valenza partecipativa. Mentre l’inesauribile e sempre sorridente Adriana, cuoca eccezionale, ci serviva un tè con ottimi biscottini, abbiamo allargato il discorso alla vita sociale della nostra organizzazione distrettuale, in cui Elio è stato da sempre il nostro mentore. Sorridendo mi ha simpaticamente ricordato che per questa sua fattiva partecipazione lo definivo “il carrierista”! La sua provvisoria assenza è per noi una grossa perdita in termini di qualità e di guida, poiché il suo “essere lions” è sempre scaturito dalla profonda convinzione dell’importanza dell’apporto dei Lions nella vita sociale. Purtroppo il tempo scandito dalle medicine e ritmato dall’Adriana, sempre con il sorriso, ci costringe, malvolentieri, a salutarci. Lo lascio con una certa riluttanza, consapevole di quanto un confronto con lui sia proficuo, di quanto sia rimasto inalterato l’interesse partecipativo che sempre lo ha contraddistinto e di come la mia presenza gli abbia dato la gioia di sentirsi più tangibilmente ancora uno di noi e con noi. Mi ha salutato senza malinconia, raccomandandomi di salutare tutti gli amici Soci. Cosa che faccio molto volentieri. Caro Elio, aspettiamo tutti che tu riprenda il cammino tra noi! 13 Vita di Club n.1 L’INTERVISTA NEL PAESAGGIO SCOLPITO DALL’UOMO … … una storia vecchia di millenni. Cava di Fantiscritti: il marmo bianco più famoso al mondo. Il “Museo”all’aperto di Walter Danesi per ricordare il lavoro nelle cave. di LAURA CARBONI PRELATI M illenni or sono, nel cuore delle grandi montagne Apuane, era custodita un’enorme vena di marmo bianco; era pura, intatta, perfetta. Molti secoli dopo, quella grande e splendida pietra, priva di forme, venne estratta, tagliata, squadrata, incisa e scolpita dalle mani di un grande Maestro per diventare un’opera di incommensurabile bellezza: la Pietà, l’unica scultura firmata da Michelangelo. A Carrara, tra Ravaccione e Fantiscritti, Michelangelo pare abbia trascorso tre anni per scegliere i blocchi di marmo che gli erano congeniali; con essi avrebbe creato i suoi capolavori: statue magnifiche, armoniose e talmente belle e affini alla realtà da sembrare vive. Altri grandi maestri attinsero da quella cava: Leon Battista Alberti, Canova, Donatello, Bernini, eppure mai nessuno di loro elogiò a sufficienza il durissimo lavoro di coloro che offrirono anche la vita per estrarre quei pesantissimi blocchi di marmo. Dai monti delle Apuane, tanti sconosciuti operai tagliarono e levigarono i marmi per le sculture più celebri della storia, così noi oggi, anche per onorare la memoria di tanti che hanno speso la loro vita in quel duro lavoro, ci siamo recati alle cave di marmo di Carrara, luogo che da oltre 2000 anni possiede la vena dei marmi bianchi più preziosi al mondo e qui, a Fantiscritti, abbiamo raccolto la testimonianza del signor Walter Danesi, figlio di un cavatore, che ci ha raccontato alcuni episodi della sua infanzia, trascorsa alla casa natale, situata vicino alle cave di marmo. “Nacqui tra queste bianche montagne, quinto di nove fratelli; la nostra, come tante, era una famiglia numerosa, umile ma molto unita”. Danesi inizia il suo affascinante racconto, ricco di aneddoti ed episodi significativi. “Ora siamo a pochi passi dal tunnel scavato nella roccia che porta ad una delle vene di marmo più famose al mondo. Un tempo si arrivava qui alla cava di Fantiscritti lungo la Via dei Carri, una strada di detriti, che passava sotto i Ponti di Vara, e saliva verso la vetta costeggiata da viottoli; proprio lungo questi sentieri i cavatori, in fila indiana, raggiungevano l’entrata della cava alle prime luci dell’alba. Erano uomini giovani e forti che il lavoro aveva imbruttiti, lasciando sui volti i segni della fatica, grossi solchi, proprio come quelli che incidevano sul marmo. Giunti a Fantiscritti, si riposavano per una manciata di minuti e, dopo una frugale colazione, al suono della sirena, ogni squadra saliva al monte per raggiungere le cave. In uno scenario quasi irreale si potevano vedere i cavatori salire, mentre i lizzatori, al lavoro già da ore, lungo la via di lizza, scendevano con le cariche di marmo e, urlando e imprecando, si contendevano la via centrale, sinonimo di orgoglio per un buon capolizza”. La maniera antica di trasportare i grandi blocchi di marmo era la “lizzatura”, metodo usato fino al 1966. La carica, ovvero il grande blocco di marmo, che pesava circa 25/30 tonnellate, veniva fatta scendere lungo le vie di lizza che avevano una pendenza del 70-80%. La discesa di questi giganteschi blocchi avveniva mediante una specie di slitta che scorreva sopra travi di legno, 14 Vita di Club n.1 unte e intrise di sapone, dette “parati”. Durante la discesa i blocchi erano trattenuti da funi, prima di canapa, poi d’acciaio, a loro volta avvolte a pali corti e robusti, detti “piri”, posti ai lati delle vie di lizza. Le compagnie dei lizzatori erano formate da 14 operai ciascuna; c’era il capo ed il sottocapo e tutto il materiale che occorreva era portato a mano dagli operai. Comprendeva funi dal peso di 200Kg. l’una, le braghe, i parati, le lizze. Tutt’attorno dominava immobile il monte, che li sovrastava e, come una madre, sembrava abbracciarli; in realtà quell’abbraccio poteva essere mortale. “Il rumore ritmico del mazzuolo sulla subbia dei quadratori- prosegue Danesi - sembrava musica; si udivano le grida dei bovari, mentre passavano sotto il ponte, pungolando le povere bestie; lo sforzo di quegli animali, mentre trainavano i carri carichi di marmo, era immane. Provavo pena per loro e nello stesso tempo ero percorso da brividi di paura. Di tanto in tanto nell’aria echeggiava il boato della mina e il fischio del treno a vapore annunciava che tutto, qui a Fantiscritti, si stava animando: la vita, dopo il silenzio della notte, riprendeva in un mondo fatto di fatica e dolore. Con mio fratello Urzio, più grande di me di due anni, mi alzavo presto dal letto e subito entrambi guardavamo fuori della finestra. L’aria fresca e frizzante del mattino entrava nelle stanze, e gli occhi andavano alla ricerca della nostra veduta preferita: i Ponti di Vara”. Una vera cartolina, la visione dei Ponti di Vara, il classico stereotipo visivo delle cave carraresi; un insieme di notevole effetto sia nell’assolato mezzogiorno che nella magica atmosfera notturna, quando la luna rende profonde le ombre e soffuso il chiarore delle rocce. Qui si incontrano i due storici ponti ottocenteschi (1890) della Ferrovia Marmifera, una tra le più ammirate realizzazioni dell’ingegneria ferroviaria del secolo scorso, con il ponte della rotabile ultimato negli anni ’30. La ferrovia marmifera per il trasporto a valle dei marmi, collegava i tre bacini di Torano, Miseglia e Colonnata attraverso un’ardita serie di viadotti, ponti e gallerie. “Dalla nostra casa, che era situata su un piccolo colle, si vedeva la cima del monte Maggiore e Canal Grande, che si ergevano imponenti verso il cielo, mentre di fronte c’era la stazione per il carico dei marmi; intorno i depositi di sabbia detti “renari” e, a pochi metri, il ponte che collegava Fantiscritti con Ravaccione. Sotto questo ponte, attivo fino al 1929, passavano i carri trainati dai buoi. Una delle ultime cariche che vi passò sotto fu il “monolite”, il più grosso blocco di marmo mai estratto dalle viscere della montagna, fiore all’occhiello dell’escavazione apuana. Sul monolite si intrecciarono storie e leggende, come le 42 coppie di buoi che lo fecero scendere centimetro per centimetro dal cuore della montagna, ma il suo viaggio verso Roma ebbe dello straordinario, soprattutto quando si trattò di caricarlo su di una nave al porto di Livorno per scaricarlo a Civitavecchia, dopo di che venne scolpito per farne un obelisco, a ornare una bella piazza di Roma. Abitavano qui a Fantiscritti non più di quattro famiglie, più i “capannari”(guardiani delle cave); eravamo una piccola comunità di gente semplice. Qui alle cave, la vita non era certo facile, ma bastava poco per essere felici. Noi bambini costruivamo giochi con materiale trovato all’aperto: il cerchio ricavato col filo“elicoidale”, i “rutolon”(pezzi di marmo legati con lo spago) che noi facevamo rotolare. Ma sognavamo anche di possedere dei muli; le bestie alle cave servivano per il trasporto della sabbia con cui si segava il marmo e per noi possederli era segno di ricchezza. Anche qui a Fantiscritti, con un po’ di 15 Vita di Club n.1 coraggio mentre saliva per i viottoli. fantasia, si potevano avere mille cose, perfino Tornando a casa le raccontavamo cos’era era l’acqua calda. Ricordo che mia sorella e altre successo durante la sua assenza, ma un giorno donne attingevano l’acqua calda dalla la trovammo diversa. Il suo passo lento, stanco, locomotiva mentre faceva rifornimento. voleva ritardare l’incontro. Ci venne vicino con Facevamo sempre attenzione che il battere un’espressione di dolore sul viso e gli occhi ritmico del mazzuolo non cambiasse, perché chiari colmi di lacrime. Giunti a casa aprì il questo stava a significare il procedere regolare grembiule sul tavolo e noi restammo ammutoliti: del lavoro. Ricordo un giorno, con mio fratello c’erano solo bacche; le aveva raccolte lungo il Urzio, eravamo a farci una scorpacciata di fichi, cammino perché non aveva trovato panni da quando improvvisamente il rumore cessò. lavare. Le bacche quella sera avevano il sapore Capimmo subito che era accaduta una disgrazia: delle lacrime della mamma; ce le dividemmo e agli Scaloni due uomini stavano lavorando ma poi andammo a letto. Dopo alcuni anni ci uno di loro rimase schiacciato sotto un blocco. trasferimmo vicino a Carrara, cosicché noi Tutti gli uomini accorsero per cercare di salvare ragazzi iniziammo a lavorare per darle un aiuto. il malcapitato, ma i soccorsi furono inutili. Fu Feci diversi mestieri, poi diventai una scena agghiacciante, e qui artigiano di oggettistica in alle cave, di scene così, ne marmo, ed è qui, a Fantiscritti, vedevamo spesso. Su tutta O BUE! che ho voluto aprire la mia l’intera vallata, dopo il suono Quando ero bambino attività, in questi luoghi cui sono del “mugnon”, calò un e passavo davanti a te legato da un amore profondo. lugubre silenzio; le grida dello avevo paura, Per me il marmo è vita. Col sventurato le udii nelle O Bue dagli occhi stanchi, passare del tempo ho deciso di orecchie per giorni. ti guardavo col carro che allestire un museo che parlasse Rimasi orfano di padre nel tiravi del lavoro delle cave, per 1932, così mia madre dovette carico di marmi. trasmettere a tutti quello che è provvedere a noi fratelli. A Il sudore e la fatica stato il sacrificio umano, a quel tempo per una famiglia era tanta testimonianza delle nostre perdere il padre significava ma camminavi e ubbidivi. origini, perché col tempo nulla anche fame, con la lettera Venivi ricompensato vada perduto!” maiuscola. Non c’era con una manciata di fieno assicurazione per l’operaio; Una “Cava -Museo”per e un secchio di acqua fresca, con la perdita del capofamiglia ricordare il lavoro dei cavatori scendevi fino in fondo alla Dopo aver percorso un dedalo di si perdeva ogni fonte di discesa strade polverose, trafficate da sostentamento, e mia madre per la via della Carriona; camion carichi di blocchi di iniziò a fare i lavori più umili. il giogo spingeva il tuo collo marmo, si arriva sul piazzale Scendeva in città al mattino forte. delle cave di Fantiscritti e qui presto, dove poteva trovare Tutti quelli che passavano viene spontanea una domanda. I panni da lavare e rimediare si interessavano a te cavatori, nel passato, quali mezzi così quei pochi soldi per e al tuo carro usavano per lavorare? Walter comprare un pezzo di pane. Io che ha dato il nome a Danesi, figlio orfano di un invece andavo lungo le vie di Carrara. cavatore, che da bambino visse in “lizza” a raccogliere i pezzi di Caro mio Bue…! questi luoghi, ha voluto “parati” scartati dai lizzatori Quante frustate raccogliere i pezzi originali, il per farne legna da ardere. e pungolate che prendevi; materiale, gli attrezzi, gli oggetti, Quando il sole calava dietro la per fortuna ora riposi per ricostruire tutte le varie fasi e montagna mi sedevo ai in questo museo la storia dell’escavazione e per margini della discarica che dove sei accarezzato dai raccontare la vita di coloro che sovrastava la via dei carri, ad bambini nelle cave hanno speso la propria aspettare mia madre. Ricordo e ammirato dai turisti. esistenza. In un piccolo Parcola sua figura esile, vestita di Stai tranquillo Museo all’aperto sono stati nero, salire la strada erta a in mezzo a questi monti amici raccolti i pezzi originali che testa china, ed io ed Urzio che dove hai dato il meglio di te. Danesi ha acquisito in anni di la chiamavamo per nome, per Walter Danesi paziente ricerca, validi strumenti farle compagnia e infonderle 16 Vita di Club n.1 per ricostruire varie fasi e metodologie di scavo. Un lavoro faticoso e pericoloso come quello del lizzatore, colui che faceva calare dalle cave, poste in alto, su una slitta, la lizza, i blocchi di marmo, fino al punto in cui potevano essere caricati sui carri, trainati dai buoi, per il trasporto a valle. Singolare la scultura, a grandezza naturale, di Boutros Romhein; una coppia di buoi che trainano un carro, col difficile compito di trasportare il pesante marmo bianco dalle cave fino al mare. GASTRONOMIA MONUMENTO AL GUSTO Anche Michelangelo era ghiotto del Lardo di Colonnata, il buon cibo dei cavatori. Il condimento con sale, spezie ed erbe aromatiche è un segreto che si tramanda da secoli di LAURA CARBONI PRELATI C olonnata, un piccolo borgo montano che sorge arroccato su uno sperone di roccia. Tra i viottoli e le erte strade del paese si coglie il fascino irresistibile delle cose semplici e schiette, quelle che ti comunicano da subito calore e umanità. Il borgo antico nacque e si sviluppò nel cuore delle cave Carraresi, tra le alte creste delle Apuane, attorniato da boschi di cerri, querce e castagni secolari. Il paese, un tempo impraticabile per via dei suoi sentieri impervi, era però un luogo sicuro, protetto da cinta muraria, e quasi tutti i suoi abitanti, i colonnatesi, dividevano le proprie energie fra il lavoro alle cave, la cura dei magri terreni e l’allevamento di animali da corte e maiali. Dalle vicine città di Carrara, Massa, Sarzana e Aulla perveniva frequente richiesta, ai contadini colonnatesi, di buona carne di maiale nutrito al pascolo; inoltre, essendo esperti norcini e ghiotti estimatori, i macellai acquistavano solo tagli scelti: lombata, coscio, braciole e magro che, a punta di coltello, andava insaccato nella preparazione di ottime salsicce e gustosi salumi. Purtroppo grandi quantità di cotenna e lardo rimanevano invendute; una parte veniva usata in cucina (strutto) ma ai colonnatesi, che erano abituati da un’economia atavica a non sciupare nulla, venne un’idea geniale: quella di conservare il lardo. Fu individuato nel massiccio dei Canaloni l'agro marmifero da cui scegliere il tipo di marmo più adatto per la fabbricazione delle vasche, chiamate “conche”, che potevano servire per la stagionatura del lardo e fu scelto il “vetrino”, un marmo poroso, a grana fine e altissima resistenza. Il lardo, ben squadrato, venne disposto, a strati, nelle conche collocate nelle grotte del paese, condito con sale marino ed una ricca miscela di erbe aromatiche e spezie. Le condizioni naturali di temperature fresche ed elevata umidità dei locali, ottenuti scavando la pietra viva in sotterranei e grotte, permisero la formazione spontanea della salamoia, indispensabile alla buona maturazione del lardo (da sei mesi ad un anno). È questo il periodo minimo che consente al grasso di acquisire le peculiari caratteristiche organolettiche che hanno fatto scoprire alla civiltà del benessere come un taglio povero si possa trasformare in salume “unico”. I locali di stagionatura a temperatura ambiente e la lavorazione manuale che avviene solo da settembre a maggio, legano da secoli il prodotto ai ritmi naturali del paese di Colonnata. Ancora oggi lo stesso procedimento di allora, insieme all’arte di dosare spezie e sale per una lunga stagionatura, rendono un semplice strato di grasso, la parte meno nobile dell’animale, una vera delizia. È stato definito un “monumento” al gusto ed oggi è un prodotto molto rinomato, ma la storia del Lardo di Colonnata affonda le sue radici nella tradizione legata al mondo dei lavoratori delle Alpi Apuane e si mescola a leggende, come quella di Michelangelo, che, quando saliva a Colonnata per scegliere di persona i blocchi di marmo statuario, faceva incetta di lardo, di cui era ghiotto, e, da toscano verace, non si faceva certo mancare un cibo sopraffino come questo, prima di affrontare l’impegno fisico che comporta una scultura. 17 Vita di Club n.1 La dura vita dei cavatori richiedeva cibi economici e nutrienti per compensare il notevole sforzo fisico che dovevano sostenere. Era il companatico “povero”, affettato sottile e accompagnato al pomodoro per condire le pagnotte rustiche. Un cibo preparato al mattino presto e destinato a sostenere per tutta la giornata i cavatori, impegnati abitualmente a quasi 2000 metri di quota. Il fagottino, insieme all’indispensabile fiasco di vino, doveva assicurare le energie necessarie per affrontare le ripide salite e la fatica degli scavi. Le innegabili proprietà del lardo e cioè quelle di essere un cibo di resistenza si devono alla sua ricchezza in vitamine e acidi grassi essenziali, ad elevato valore nutritivo. Al momento dell’estrazione dalla conca, il lardo si presenta di colore bianco-rosato, qualche volta con la particolare “striscia” rosa che ne aumenta la bellezza e ne rende più intenso il gusto. I pezzi variano dai 4 agli 8 centimetri di spessore, per un peso da 0,5 a 1 kg. Il Lardo viene prodotto rispettando l’antica ricetta ovvero strofinando le pareti delle conche con aglio e aromi, poi si ricopre il fondo della vasca con sale grosso, erbe, pepe nero, rosmarino, salvia e aglio fresco spezzettato. Se questi sono gli ingredienti tassativi, largo spazio è lasciato alla ricetta che si tramanda di generazione in generazione in ciascuna famiglia di produttori, che viene conservata gelosamente. Tra le spezie e le erbe aromatiche che possono conferire al Lardo di Colonnata il suo particolare sapore anche cannella, coriandolo, noce moscata, chiodi di garofano, anice stellato, origano e salvia. Il profumo è fragrante e ricco di aromi, il gusto è delicato, quasi dolce, finemente sapido, se proviene dalla zona delle natiche. Si consuma ripulito dalla cotenna e dagli eventuali residui di sale, tagliato in fettine sottilissime adagiate su pane fresco, scaldato o appena abbrustolito. Ideale accompagnamento sono, come per i cavatori di un tempo, il pomodoro e la cipolla crudi, senza alcun ulteriore condimento. 18 Vita di Club n.1 MEETING UNA SERATA DI SPORT 19 ottobre 2012: Intermeeting dei Lions Club Rubicone, Rimini-Riccione Host, Rimini Malatesta, Santarcangelo e Montefeltro alle “Antiche Macine” di Montalbano. di GIORGIO BETTI M etti una sera a cena a parlare di sport un “marchignolo” autentico fuoriclasse del giornalismo italiano come Italo Cucci, e cinque service-club del Lions International Distretto 108 A (140 soci lions accompagnati da tante belle ed eleganti signore, ndr) che si esercitano da sempre ad aprire alla gente le porte di casa e dei propri sentimenti, e il gioco è fatto. Il successo garantito. Metti poi che fra gli ospiti in sala ci sia un sammaurese doc come Gino Stacchini, uno dei grandi campioni della Juventus e della nazionale italiana degli anni Sessanta a sollecitare nella mente di chi allora c’era i ricordi e le immagini in bianco e nero e poi a colori delle sue giocate in tivù, per fare diventare la serata uno showevent. Un revival di vittorie (tante) e di sconfitte (poche) dalle forti connotazioni emotive, quelle di Stacchini, autore di un intrigante libretto, “Lo scatto dell’ala”, in cui c’è il racconto poetico della sua vita e di quella dei suoi compagni di campo in bianconero. Una festa, quella promossa e organizzata dal Lions Club Rubicone (un bravo va rivolto al presidente Stefano Berlini che ha riportato lo sport al centro dell’attenzione generale) cui hanno con entusiasmo aderito il L.C. RiminiRiccione Host (presidente Maurizio Della Marchina), il L.C. Rimini Malatesta (presidente Gianfranco Simonetti), il L.C. Montefeltro (presidente Vincenzo Vannoni) e il L.C. Santarcangelo (presidente Sira Sartini rappresentata nell’occasione dal cerimoniere Sandra Sacchetti) intrisa dei sentimenti più autenticamente legati all’amicizia più schietta e generosa, come solo sanno dimostrarlo i romagnoli quando ci si ritrova a tavola con del buon cibo a parlare di vino, di donne e … di sport. Di politica no. La politica, anche quella più nobile e con la P maiuscola, è sconsigliata, o meglio, non figura fra gli scopi del Lions International che invita i soci lions a “… stabilire una sede per la libera ed aperta discussione su tutti gli argomenti di interesse pubblico, con la sola eccezione della politica di parte e del settarismo religioso”. Così, per una sera, grazie anche e soprattutto all’elegante introduzione del cerimoniere Carlo Sancisi e alla verve dialettica di Italo Cucci, un eloquio estremamente sobrio e accattivante il suo, che ha rallegrato l’autorevole uditorio con una ricca sequela di aneddoti (“Ho frequentato Enzo Ferrari e “Gioanfucarlo” Brera dei quali sono poi diventato amico. Due grandi personaggi che mi mancano tanto. Così come mi mancano le battute fulminanti dell’Avvocato Agnelli e la simpatia del conte Alberto Rognoni, che ho avuto come editore al Guerin Sportivo. Rognoni, fondatore del Cesena Calcio, era insieme genio e sregolatezza come solo i grandi sanno esserlo”), di riferimenti al vetriolo contro il falso moralismo di certi personaggi (“come sempre vado controcorrente facendomi così un nemico al giorno – è il titolo di un suo libro di successo -, ma devo fare l’elogio ai bad boys, ai cattivi ragazzi: dal cabezon Omar Sivori e a Diego Armando Maradona, i più grandi di sempre, fino a Cassano e Balotelli”), di neologismi (“mi considero un marchignolo essendo io nato a Sassocorvaro e poi cresciuto a Rimini in perenne equilibrio fra le Marche e la 19 Vita di Club n.1 Romagna”), lo sport e il calcio in particolare l’hanno fatta da padroni. Molto interessante – e non poteva essere altrimenti - anche la sua interpretazione della responsabilità oggettiva delle società di calcio e dei giornalisti (ogni riferimento a calciopoli, al calcioscommesse e al caso di quel direttore condannato per omesso controllo di un articolo ritenuto diffamatorio e scritto da un suo collaboratore, è del tutto casuale, ndr), così come particolarmente apprezzate sono state le notazioni sul ciclismo (Marco Pantani e Fiorenzo Magni), sul motociclismo (Simoncelli) e sull’attività sportiva svolta nella vicina Repubblica di San Marino patrimonio dell’Unesco e dell’umanità. “Di San Marino – ha detto Cucci – ho sempre guardato con ammirazione l’imponenza del Monte Titano. Sia da Sassocorvaro dove sono nato, sia da Rimini dove s’era trasferita la mia famiglia, e anche da Novafeltria dove tuttora ho molti parenti, dovunque andassi mi si parava davanti la dolce vision di San Marino. Seguo con molto interesse l’attività svolta dalla Federcalcio sammarinese e, di recente, mi ha fatto piacere sapere che contro l’Inghilterra, nel mitico Wembley, i ragazzi del presidente Crescentini hanno fatto bella figura. Con il prof. Crescentini ricordo di aver intrattenuto dei buoni rapporti professionali quando dirigevo Stadio. A metà degli anni Ottanta la Federcalcio sammarinese chiese l’affiliazione alla Uefa e noi di Stadio, io ed i miei collaboratori di allora, Piccioli e Gabellini, sostenemmo il progetto con tutta una serie di servizi giornalistici che, oltre all’Uefa, aprirono anche le porte della Fifa. Inoltre, per il Comitato Olimpico Nazionale Sammarinese, alcuni anni fa ho curato la stesura di un libro sullo sport del Titano. Insomma: San Marino e lo sport sono parti integranti della mia esistenza”. Fin qui Italo Cucci. Per il resto, beh, per tutto quel che riguarda lo sport - inteso in senso lato – questo può e deve diventare sempre più strumento di amicizia e di collaborazione fra le varie anime che popolano il variegato e per certi versi multietnico panorama sportivo italiano e quello, del tutto autoctono, dei nostri vicini di casa della Repubblica di San Marino con cui abbiamo affinità elettive (il Lions Club San Marino Undistricted e il Rimini-Riccione Host sono gemellati, ndr) anche per ciò che attiene molti altri aspetti della vita civile e sociale che riguarda i nostri due paesi. E di questi sentimenti d’amicizia e di collaborazione si sono resi interpreti il presidente della Seconda Circoscrizione, Diego Dell’Anna, unitamente al presidente di Zona B Graziano Lunghi, fino ai presidenti Stefano Berlini, Maurizio Della Marchina, Gianfranco Simonetti e Vincenzo Vannoni, che hanno ringraziato Italo Cucci per la bella e indimenticabile serata. Un momento d’incontro conviviale ch’è servito a chiarire alcuni aspetti dello sport poco noti al grande pubblico e, soprattutto, a far conoscere e a valorizzare l’alta funzione etica svolta dal Lions International attraverso la proficua opera svolta dai suoi 1.350.000 (un milione trecentocinquantamila) soci presenti in 196 paesi del mondo. 20 Vita di Club n.1 ARTE&ATTUALITÀ UN ALTRO TESORO MONDAINESE? Se fosse dell’ebanista Tommaso Branchia di Mondaino anche lo splendido coro ligneo, che da oltre 40 anni (sic !) giace abbandonato all’azione inclemente del tempo, dell’incuria e dei ladri nell’ex convento francescano di S. Bernardino e Santa Chiara a Mondaino? di ANGELO CHIARETTI L a notizia è di quelle che fanno clamore: il 13 ottobre 2012, la celebre casa d’aste Sotheby’s di New York ha venduto per la considerevole cifra di 158.500 dollari un favoloso refettorio in legno massiccio realizzato nel 1567 dall’ebanista TOMMASO BRANCHIA di MONDAINO! Il mobile, ora acquistato dal Museo Bellini di Firenze, è stato messo all’asta addirittura dal Metropolitan Museum of Art di New York, che ne era venuto in possesso dopo vari passaggi: nel 1930 lo aveva acquistato a Venezia il famoso antiquario Adolfo Loewi, che poi lo aveva venduto al collezionista svizzero Werner Abegg. Il prezzo di partenza era di 50.000 dollari, ma l’attesa dei collezionisti specializzati è stata tanta che il valore finale è stato addirittura triplicato!! L’opera, firmata dall’artista a grandi lettere scolpite nel legno di una credenza, è bellissima e veramente grandiosa, quasi mozzafiato: disposta su tre lati per un totale di 82 metri (sic!!) ed un’altezza di circa 2 metri e trenta, comprende due lunghissimi schienali con seduta, due tavoli ad uso refettorio e due monumentali armadicredenza tipo sacrestia. Secondo quanto informa il Metropolitan Museum, il sontuoso arredo proviene dal Monastero dei Padri Agostiniani di Recanati (An), i quali lungo gli schienali ed i pannelli degli armadi fecero incidere interessanti massime tratte dalle opere teologiche si Sant’Agostino, uno dei massimi pensatori cristiani ad avere successo nel Medioevo e durante il Rinascimento (anche Dante Alighieri, nella “Divina Commedia”, lo pone in Paradiso fra i Santi più importanti in compagnia di S. Francesco d’Assisi e S. Domenico di Guzman). Ecco il testo delle massime: “LOCUS PENARII OMNIBUS AEQUA LANCE” (Luogo di penitenza uguale per tutti) “OMNIUM OCULI IN TE SPERANT ET TU DA ILLIS CIBUM” (Gli occhi di tutti si rivolgono a te e tu dona loro il pane quotidiano) “EDENT PAUPERES ET SATURABANTUR ET LAUDABUNT DOMINUM” (I poveri mangeranno, saranno saturi e loderanno il Signore) “FRATRES FAUCES VESTRAE NON SOLUM SUMANT CIBUM SED ET AURES ESURIANT DEI VERBUM” (O fratelli, le vostre bocche non solo mangino il pane quotidiano ma anche le orecchie ascoltino la parola del signore) “EX REGULA S.P. AUGUSTINI” (Dalla regola di Sant’Agostino) “MDLXVII OPIFICIUM THOMAE BRANCHIE DE MONDAINO” (1567 opera di Tomaso Branchia da Mondaino). Di Tommaso Branchia non conosciamo quasi nulla, anche se possiamo pensare che sia appartenuto alla scuola degli abili ebanisti di Mondaino, rimasta celebre fino ai nostri tempi: non dimentichiamo che nel 1918 il parroco mondainese don Giuseppe Pedretti segnalò l’esistenza di quello splendido mobile malatestiano che va sotto il nome di “Cassetta dotale di Isotta degli Atti” (amante e poi terza moglie del grande Sigismondo de’ Malatesti di Rimini) poi regolarmente venduta al Museo Nazionale di Ravenna ed oggi esposta all’ammirazione generale nel Musei Civici di Rimini! Dunque, sull’onda dell’entusiasmo, ci sentiamo di avanzare un’ipotesi ora diventata plausibile: che sia del Branchia anche lo splendido coro ligneo, con tanto di inginocchiatoi, tavoli e schienali che da oltre 40 anni (sic!) giace colpevolmente abbandonato all’azione di tarli, polvere, luce solare, vento, pioggia, crolli dei soffitti e … alla mano abile dei ladri nell’ex 21 Vita di Club n.1 convento francescano di S. Bernardino e Santa Chiara a Mondaino? Se così fosse (ma il discorso vale in ogni caso) il nostro amato paese possiederebbe un altro tesoro, da aggiungere alla già lunga lista del patrimonio artistico tramandatoci dagli antenati e che un tempo rese celebre e splendente questo castello malatestiano. Perché nessuno interviene in sua difesa, nonostante le voci che di quando in quando da tempo gridano nel deserto? Questo, perciò, è anche un appello ad Autorità e Cittadini, affinché si faccia qualcosa in tal senso fino a quando siamo in tempo! Ora, dopo l’asta di Sotheby’s e del Metropolitan Museum of Art di New York, anche in nome di TOMASO BRANCHIA DA MONDAINO! POSTA Riceviamo e pubblichiamo: Carissimo Roberto Morbidi, ricevo sempre con piacere la tua Rivista "Vita di Club" e voglio esprimere i miei complimenti per come essa è diretta e "confezionata". Ho particolarmente apprezzato il n. 3 (che mi è appena pervenuto) per la grande mole di notizie e foto in esso contenute e, ancora, per l'inserto a colori sui capolavori d'arte. Spero di poterti incontrare presto per scambiare qualche riflessione sulla stampa lionistica. Un caro saluto, Filippo Fabrizi - Direttore Responsabile di "LIONS INSIEME" Caro Mario Alvisi, Le rinnovo i ringraziamenti per l'articolo anche da parte del dott. Blasi Amedeo auspicando che tornerete a trovarci al mulino magari con altri amici del Lions. Non appena uscirà Vi porteremo una copia del libro di fiabe. In questo numero di "Vita di Club", leggendo gli articoli - purtroppo – su chi non c'è più, ho potuto nuovamente apprezzare la stima e l'amicizia che Vi lega l'un con l'altro e che coltivate all'interno del vostro gruppo come un giardino sempre verde; vi fa onore. Ho infine letto e riletto l'articolo che ha scritto riguardo Tonino Guerra, è molto ben fatto e coinvolgente. Penso che come artista abbia lasciato molto e lo ricorderemo per le sue poesie, i suoi quadri, le sue sceneggiature ecc, ma come uomo cosa ha fatto per gli altri? Io non lo so, Lei che lo ha conosciuto sa qualcosa? Con affetto, Silvio Biondi 22 Vita di Club n.1 L’ANGOLO DELLA POESIA FIORI D’AUTUNNO E D’INVERNO Poesie raccolte in giardino. di ANNA MARIOTTI BIONDI Settembre Nella profonda quiete di un dolcissimo settembre c’è la leggera nostalgia di un’estate che volge alla fine. Nel silenzio gli alberi sembrano più grandi, i fiori più preziosi. Ma è ora di dare il benvenuto all’autunno… Ottobre Trascolora ogni cosa, spenti i colori dell’estate, non ancora rosse le foglie. Il sorriso si smorza nella malinconia della nebbia, un senso di privazione ti coglie ad ogni cader di foglia. Comincia l’attesa di una nuova primavera… Novembre Il vento è freddo e scuote le foglie, ma a chi sa ascoltare, i colori di terra e cielo regalano una sinfonia d’autunno. E un tramonto di porpora scalda il tuo angolo di paradiso. Dicembre Stanotte è arrivata la neve; spariti d’incanto i colori, resta solo un gran bianco rosato. Anche il vento oggi tace e ha lasciato soltanto silenzio. Poi corri fuori… e ritrovi la gioia di quand’eri bambina… Gennaio Aria di neve, odore di neve. La luce, fredda nella sua madreperla preziosa, regala atmosfere sospese, forme immobili quasi irreali: uno spettacolo di graffiti in bianco e nero. Febbraio E’ ancora incerto e lontano il sole di febbraio. Magico e rarefatto è il silenzio: strano pensare di trovarsi così vicini e così lontani dalla realtà di ogni giorno. L’angolo più antico del bosco sussurra fiabe di gnomi e di fate. 23 Vita di Club n.1 MEETING FESTA DELLA BANDIERA TRICOLORE Il 6 novembre i Lions Club Rimini-Riccione Host, Rimini Malatesta, San Marino Undistricted e il Panathlon Rimini si sono incontrati, uniti dai vincoli dell’amicizia e dall’amor di patria, per festeggiare la Festa della Bandiera. Ospiti d’onore l’ambasciatore d’Italia a San Marino, Giorgio Marini, il vicegovernatore Raffaele Di Vito e i rappresentanti dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Capitaneria di Porto, dell’Aeronautica e dell’Esercito. di GIORGIO BETTI I l Lions Club Rimini Riccione Host, così come felice tradizione, martedì 6 novembre si è riunito in convivio con gli altri service-club gemellati nell’elegante cornice dell’Holiday Inn a Marina Centro per festeggiare, tutti insieme appassionatamente, le Forze Armate e la Bandiera Tricolore quale simbolo dell’unità d’Italia. La serata, avvalorata dalla presenza dell’ambasciatore d’Italia nella Repubblica di San Marino, Giorgio Marini, e dal vicegovernatore del Lions International Distretto 18 A Italia, Raffaele Di Vito, si è valsa di un cerimoniale sobrio nei contenuti di protocollo in quanto diretto e armonizzato personalmente dal presidente Maurizio Della Marchina con la diligente collaborazione del cerimoniere Graziano Lunghi e del segretario Guido Zangheri, che ha trovato piena identità di vedute nei suoi omologhi Francesca Masi (L.C. San Marino Undistricted), Gianfranco Simonetti (L.C. Rimini Malatesta), Pasquale Adorante (Panathlon) e viva partecipazione da parte dell’autorevole uditorio lionistico e panathletico, che ha accolto con fraterna amicizia e calorosi applausi il comandante dell’arma dei Carabinieri col. Luigi Grasso; il comandante del 121° Reggimento di Artiglieria caserma “Giulio Cesare” ten. col. Francesco Martino; il comandante del Gruppo 7° Vega col. pilota Giuseppe Potenza; il comandante la Capitaneria di Porto capitano di fregata Pier Carlo di Domenico; e il comandante della Guardia di Finanza di Rimini col. Mario Venceslai che, nell’occasione, ha presentato due valorosi atleti delle “Fiamme Gialle”: il finanziere allievo Alice Mizzau (una splendida atleta plurimedagliata ai campionati europei di nuoto svoltisi a Debrecen in Ungheria) e il maresciallo Giovanni Di Giulio (medaglia d’oro e primatista mondiale nella gara di tiro dinamico). Poi, come si conviene ai momenti più significativi del Lionismo e dopo aver ascoltato in religioso silenzio gl’inni degli Stati Uniti d’America in onore del presidente internazionale Wayne A. Madden, d’Europa, della Repubblica di San Marino e d’Italia, a prendere la parola è stato il presidente “padrone di casa” Maurizio Della Marchina, che ha esordito dicendo: “Eccellenza, autorità, vicegovernatore, colleghi presidenti, gentili ospiti, amiche ed amici lions, è tradizione per il nostro club iniziare l'annata sociale con la festa della bandiera, con cui intendiamo omaggiare il tricolore italiano, come definito nella sua forma dall'art.12 della Costituzione e di cui lo scorso anno si è festeggiato il 150°anniversario. Giosuè Carducci, a Reggio Emilia, nel primo centenario della bandiera, in una vibrante allocuzione, definiva così il significato della scelta dei tre colori: "Il verde, la perpetua rifioritura della speranza a frutto di bene nella gioventù dei poeti; il bianco, la fede serena alle idee che fanno divina l'anima nella costanza dei savi; il rosso, la passione ed il sangue dei martiri e degli eroi". Più di recente Carlo Azeglio Ciampi, presidente emerito della Repubblica italiana, indicò il tricolore "non come una mera insegna di stato, ma come vessillo di libertà, di una libertà conquistata da un 24 Vita di Club n.1 popolo che si riconosce unito, che trova la sua identità nei principi di fratellanza, di uguaglianza, di giustizia nei valori della propria storia e della propria civiltà". È pertanto a nostro avviso importante e pertinente presentarvi le testimonianze di coloro che, rappresentanti delle forze armate dello stato, vedono, al termine dell'agone sportivo vittorioso, salire in alto la bandiera della Repubblica italiana e sentono tumultuosi emergere l'orgoglio e la fierezza di essere italiani! In questo momento di intensa partecipazione, vorrei, infine, che ci unissimo tutti nel pensiero e nel rispetto dei nostri marinai del Battaglione San Marco ingiustamente costretti in India”. Fin qui il presidente Maurizio Della Marchina. Parole, le sue, che hanno trovato tutti d’accordo. Nessuno escluso. La speranza di vedere quanto prima liberi i nostri due marò ha trovato la piena condivisione della stragrande maggioranza dei presenti in piena sintonia e sulla medesima lunghezza d’onda di Della Marchina, così come hanno ribadito nei loro interventi gli altri autorevoli presidenti: Francesca Masi, Gianfranco Simonetti e Pasquale Adorante. Dopo la cena, a prendere la parola è stato il comandante della Guardia di Finanza di Rimini, col. Mario Venceslai, che ha presentato i due atleti delle “Fiamme Gialle”: Alice Mizzau e Giovanni Di Giulio. Una bella illustrazione, la sua, del ruolo svolto dagli atleti delle “Fiamme Gialle” in ambito internazionale, che va ascritto soprattutto a loro merito in quanto permeati di alto senso di sacrificio e di disciplina. Al termine delle rispettive relazioni intrise di pathos e dalle grandi suggestioni emotive in quanto piene di dati e di risultanze positive giunte solo al termine di lunghe disfide, vere e proprie ordalie, “Giudizi di Dio” all’ultima bracciata nel caso di Alice Mizzau e all’ultimo respiro di Giovanni Di Giulio, cui sono andati gli applausi e la simpatia dell’assemblea, i due bravi atleti sono stati omaggiati con medaglie e guidoncini dei service-club consegnati loro dai presidenti sotto i flash dei fotografi e della telecamera di Vga TeleRimini, che ha ripreso la bella serata tricolore. Il Maresciallo Giovanni Di Giulio, in servizio presso il Comando Provinciale di Rimini, si è laureato “Campione del Mondo” di Tiro Dinamico Sportivo con arma lunga (“Shotgun”) per l’anno 2012. L’atleta della Guardia di Finanza - istruttore militare di tiro operativo di 2° livello - fa parte della rappresentativa Nazionale della F.I.T.D.S. (Federazione Italiana Tiro Dinamico Sportivo) ed ha partecipato al campionato del Mondo svoltosi dal 22 al 30 settembre in Ungheria, nella città di Debrecen. La prestigiosa manifestazione ha visto la Il presidente del Lions Club Rimini Malatesta Gianfranco partecipazione di oltre 500 atleti provenienti da Simonetti fa omaggio ad atleti e ospiti del guidoncino e tutto il mondo, con una folta e forte rappresentativa della nostra rivista. degli U.S.A. che nella particolare disciplina vanta una solida tradizione. Alice Mizzau, finanziere allievo (Udine, 18 marzo 1993), è una nuotatrice specializzata nello stile libero. Dal 13 dicembre 2011 fa parte del gruppo sportivo delle Fiamme Gialle. Vanta 3 medaglie (oro, argento e bronzo) nelle staffette 4x100, 4x200 stile libero e 4x100 mista ai campionati europei di Debrecen 2012. Nella prova individuale dei 100 metri sl e dei 200 metri sl si è invece classificata al quarto posto. Ai campionati europei del 2009 ha invece ottenuto la medaglia d'argento nella staffetta 4x100 stile libero, alle spalle della formazione tedesca. Ha conquistato anche numerose medaglie ai campionati italiani: oro e argento nelle staffette 4x100 e 4x200 sl ai campionati primaverili 2011, bronzo nella staffetta 4x50 sl ai campionati estivi 2011, bronzo nei 100 sl ai campionati invernali 2011, tre argenti (100 sl, 200 sl, 4x200 sl) ai campionati primaverili 2012. Vive e si allena a San Marino, sotto la guida del tecnico Max di Mito. Stabilisce il record italiano nella staffetta 4x100 m stile libero con le compagne Federica Pellegrini, Laura Letrari e Erika Ferraioli con il tempo di 3'39"74, classificata 12ª in batteria ai Giochi Olimpici di Londra 2012. Molto carinamente così si è presentata: 25 Vita di Club n.1 «Buonasera a tutti, signori, signore e autorità presenti, innanzitutto, desidero porgere i miei più sentiti ringraziamenti per l’invito a partecipare a questa serata; sono onorata di avere la possibilità di prendere la parola per raccontare la mia piccola esperienza. Mi presento: sono il finanziere allievo Alice Mizzau, appartenente al Gruppo Sportivo delle Fiamme Gialle per lo sport del nuoto, ho 19 anni e vengo dal Friuli, per la precisione dal Comune di Codroipo. Mi sono arruolata nel gruppo sportivo della Guardie di Finanza il 13 dicembre 2011 e quindi la mia esperienza all’interno del corpo è limitata. Tuttavia, ho già potuto in parte conoscere la grande famiglia della GdF, ho sentito fin da subito il calore di questo corpo, che mi ha accolta a braccia aperte. In qualità di portabandiera delle Fiamme Gialle, ho partecipato agli Europei di Debrecen, dove ho conquistato un oro, un argento e due bronzi, e alle Olimpiadi di Londra dove ho conseguito il mio record personale, secondo tempo di sempre in Italia e il record italiano con la staffetta 4 x 200sl. La mia esperienza olimpica è stata a dir poco emozionante. Ho sognato per anni, fin da piccola, di prendere parte ai giochi olimpici, ho sempre guardato in tv le competizioni sportive e mai avrei immaginato, di trovarmi io stessa a nuotare nelle acque dello stadio olimpico. Partecipare a un evento simile significa respirare lo sport a 360 gradi, ogni sport; e significa assaggiare lo sport di ogni colore, di ogni angolo del mondo. Significa il confronto con gli atleti di tutto il pianeta, tanto con il campione americano che per anni è stato un sogno irraggiungibile, quanto con l’umile atleta di Stati più piccoli e lontani che quasi nemmeno sai che esistono. L’Olimpiade non è solo un 200 stile libero in uno stadio dei nuoto che toglie il fiato..., l’Olimpiade é vivere in un villaggio olimpico in cui ci si perde data la sua grandezza, è mangiare cibi di tutto il mondo a qualunque ora, è scambiare la proprie magliette o la propria cuffia con altre atlete, è scoprire come la nostra bandiera unisca persone di tutta Italia sotto un unico canto. Tutto questo è stato per me Londra 2012; è questo forte senso di appartenenza e comunanza sotto gli stessi colori, quelli del nostro tricolore, che mi riporta con la mente e col cuore all’istituzione di cui faccio parte. Nonostante io non abbia ancora toccato con mano quanto concretamente la Guardia di Finanza fa nella vita di tutti i giorni, so che l’operato del corpo di cui faccio parte é fondamentale per il buon funzionamento del nostro paese. La Gdf costituisce un punto di riferimento sempre più forte per il cittadino. Ogni giorno uomini e donne con la mia stessa divisa scendono in campo per aiutare i cittadini, nonostante le difficoltà del periodo che stiamo attraversando. Nel mio piccolo, ancora non ho la possibilità di fare altrettanto, ma posso dare il mio piccolo contributo scendendo in vasca ogni giorno per portare in alto i colori della mia squadra, le Fiamme Gialle, preparandomi per dare il mio concreto contributo in futuro. Ringrazio tutti Voi che avete preso parte a questa serata». Il presidente Gianfranco Simonetti saluta le autorità militari presenti. 26 Vita di Club n.1 RELIGIONE IN ARTE E MUSICA L’ANNUNCIO A MARIA, MATER MISERICORDIAE Nell’antica abbazia di S. Maria Annunziata di Scolca sono riprodotti in quadri viventi quattro stupendi capolavori d’arte, mentre musica e canto creano una suggestione irripetibile per dolcezza e soavità. La regia della Sacra Rappresentazione è di Annalisa Ciacci. di FRANCA FABBRI MARANI “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta, più che creatura”. L a notte è scesa, tutto è buio e silenzio: un’atmosfera d’attesa. Si leva vibrante la preghiera di San Bernardo alla Vergine, ispirata ed intensa nelle parole che Dante gli fa pronunciare nel XXXIII canto del Paradiso. Sono parole dal fascino antico e sempre vivo, intrise di una spiritualità esaustiva che solleva l’animo confidente nella confortante certezza dell’ausilio di Maria, “madre di misericordia”. Nella sospensione del cuore che traduce in palpiti e fa sue le ineffabili parole si accende una luce, la luce della fede che ci riconduce al momento primo della nostra salvezza, a quell’ annuncio incredibile e inatteso, sconvolgente per una vergine poco più che adolescente, che si prepara alle nozze ed è invece catapultata all’improvviso in una realtà stupefacente e prodigiosa. È il palpito del MISTERO: impenetrabilità e rivelazione, inconoscibilità e svelamento. Lo svelamento è rivelazione, iniziazione, conoscenza: l’annuncio dell’angelo svela il piano di salvezza preparato da Dio per l’uomo per il suo riscatto, scaturito dall’infinito amore del Creatore per la sua creatura. Uno dei drappi tesi tra le due colonne del porticato dell’antica abbazia olivetana intitolata proprio a “S. Maria Annunziata in Scolca”, trattenuto da due bimbe in vesti bianche, cade a svelare quello che nasconde: un quadro vivente che riproduce l’ “Annunciazione” di Simone Martini 1, tavola dipinta nel 1333 per la cappella 1 Simone Martini, pittore aulico e raffinato, fu molto ammirato dal Petrarca che, come apprendiamo dal Vasari nelle ”Vite”, gli dedicò due sonetti: Fu dunque quella di Simone grandissima ventura vivere al tempo di Messer Francesco Petrarca, et abbatersi a trovare in Avignone alla corte questo amorosissimo poeta desideroso d’avere la imagine di Madonna Laura di mano di maestro Simone; perciò che avutala bella come desiderato avea, fece di lui memoria in due sonetti: 77-78 del “Canzoniere”. di Sant’Ansano nel Duomo di Siena, poi trasferita a Firenze nel 1799 per ordine del granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena, ora agli Uffizi. È il primo dei tre tableaux vivants creati a ricalcare tre capolavori di pittori eccelsi che, in diversa maniera, a seconda del loro genio e del loro sentire, hanno interpretato nel linguaggio pittorico l’annuncio a Maria, momento cruciale di salvifica rivelazione, fonte inesauribile d’ispirazione per gli artisti di ogni temperie storica e culturale. L’episodio, momento fondante della religione e della storia cristiana, è narrato da Luca (unico tra gli evangelisti a riportarlo) in una pagina altissima, vibrante d’ispirato slancio mistico e poetica ispirazione, con una ricchezza di dettagli e molteplicità di suggestioni atte a sollecitare la sensibilità di pittori e scultori che, di volta in volta, hanno privilegiato l’uno o l’altro aspetto del racconto, sottolineando in varia maniera la reazione psicologica dei personaggi. La narrazione di Luca si articola in cinque momenti precisi: la conturbatio (turbamento di Maria all’annuncio), la cogitatio (meditazione di Maria su quanto ascoltato), la interrogatio (perplessità di Maria e richiesta all’angelo di come possa avvenire quanto detto dal momento che non conosce uomo), la humiliatio (accettazione di 27 Vita di Club n.1 Maria che si definisce serva di Dio) e la meritatio (Maria, dopo la partenza dell’angelo, sente il suo animo pieno di grazia). Contestualmente alla caduta del drappo nel buio della notte si diffondono le parole dell’incipit della narrazione di Luca, in lingua greca, a significare la diffusione della buona novella dalla terra del popolo eletto al mondo dei gentili, perché Cristo si è fatto uomo e salvatore per tutti i popoli, di ogni lingua razza e cultura e accanto a Pietro troviamo Paolo, l’apostolo delle genti. Le parole narrano il momento scelto da Simone Martini per fissarlo sulla tela: quello dell’arrivo e del saluto dell’angelo, cui Maria risponde con un gesto spontaneo di ritrosia. L’arcangelo Gabriele, fulgido in veste color oro e ali dorate, il manto ancora svolazzante per il recente arrivo, mentre pronuncia le parole di saluto, porge un ramoscello d’ulivo alla Vergine, timida e schiva, ignara e perplessa. Tutto l’atteggiamento di Maria esprime la sua conturbatio: alle parole dell’angelo si ritrae in uno spontaneo gesto di torsione del busto e cela parzialmente il volto, avvolgendosi, quasi a difesa, nel blu totale del manto che lascia appena intravvedere la veste rossa. Tutta la sacra rappresentazione è pervasa d’intenso simbolismo: - le grandi ali dell’angelo nella tradizione cristiana rappresentano il pneuma, lo spirito, oltre che il movimento leggero ed aereo, simbolo dell’elevazione verso il cielo; - la veste e le ali dorate ci parlano di lui come messaggero di luce; - il ramoscello d’ulivo che viene porto a Maria rappresenta la pace che la venuta del Salvatore porterà sulla terra (solitamente l’angelo reca un giglio, simbolo della purezza della Vergine, passato, poi, in epoca medievale, a simboleggiare la purezza e la castità dell’angelo stesso) 2; - il libro decorato fa riferimento alla dimensione spirituale della Madonna. Cade il secondo drappo: dalla preziosità del gotico senese passiamo alla classica armonia del rinascimento fiorentino; da una scena astratta ed elegante, fuori tempo, ad uno spazio reale e concreto. Ammiriamo la riproduzione dell’ “Annunciazione“ del Beato Angelico, affrescata nella prima metà del ‘400 in un 2 Nel quadro del pittore senese i gigli compaiono in un vaso al centro della scena. La scelta di sostituire al giglio un ramo d’ulivo nelle mani dell’angelo forse è dovuta al fatto che il giglio era simbolo di Firenze, di cui Siena era acerrima nemica. corridoio che immette alle celle, in cima allo scalone del Convento di S. Marco. Anche il Beato Angelico ha scelto di raffigurare il primo momento della narrazione di Luca, connotandolo tuttavia con un’atmosfera di minor sconcerto, più pacata e meditativa, e con una gestualità che sfocia già in un atteggiamento di accoglienza dell’annuncio da parte di Maria. Mentre il vangelo di Luca continua, in lingua latina, ci appaiono due figure composte ed armoniose, collocate sotto le arcate di un portico. È, questa, un’ambientazione ricorrente per l’Annunciazione nella pittura rinascimentale, ma nel dipinto dell’Angelico si carica del valore di spazio monastico, in quanto il pittore si ispira agli stilemi ideati da Michelozzo per il Convento di San Marco. Il porticato della Scolca richiama, anche se in forme più sobrie, le architetture del convento fiorentino sia nell’armoniosa scansione ritmica degli archi che nella forma degli archi stessi. Anche il verde delle fronde che si intravvedono dietro la sommità del porticato dell’abbazia olivetana ricordano in maniera sorprendente l’hortus conclusus ritratto nel dipinto. In accordo con l’ambientazione il Beato Angelico costruisce una scena che ricrea il silenzio e la sacralità dello spazio conventuale. L’angelo non è colto nell’atto del parlare, ma in un raccolto genuflettersi a braccia incrociate sul petto, quasi adorante nei confronti di Colei che è stata prescelta da Dio come madre del suo Figlio. Nella Vergine lo stupore non è ritrosia, movimento, ma apertura all’ascolto, come si può leggere nel viso leggermente proteso e nello sguardo intento, mentre le mani posate sul grembo, quasi a protezione, ci parlano già dell’accoglienza della Parola e del fiorire dell’amore materno. L’ambiente semplice e realistico, la serena scansione dei gesti e dei volti ci parlano eloquentemente della finalità dell’autore: guidare il monaco attraverso la 28 Vita di Club n.1 rievocazione dell’evento ad una personale riflessione e meditazione atta a tradursi in fervida preghiera. Anche qui ritroviamo il simbolismo, leggibile nella veste della Vergine in cui il rosa tenue, simbolo di gioia, viene offuscato dal blu scuro del manto, colore tradizionalmente riservato nell’iconografia all’Addolorata. Così la palizzata che delimita l’hortus conclusus è metafora della verginità di Maria, mentre le colonne del portico simboleggiano il collegamento tra la terra e il cielo e fanno riferimento all’albero della vita. Con lo svelamento dell’ultimo drappo dall’affresco torniamo ad una tela: la sconcertante Annunciazione dipinta nel 1534 da Lorenzo Lotto per l’Oratorio della Confraternita dei Mercanti a Recanati e qui ora conservata nel Museo Civico di Villa Colloredo Mels. Il dipinto presenta, elemento ricorrente nel Lotto, un particolarissimo approccio al tema sacro in un rinnovamento totale della composizione rispetto all’iconografia tradizionale. Il pittore, insofferente alle norme e alle codificazioni, all’interno di un ambiente totalmente quotidiano e domestico, ribalta la scena, collocando l’angelo alla destra dello spettatore e piuttosto arretrato rispetto alla figura di Maria che viene posta a riempire gran parte dello spazio in primo piano. La Vergine, una figura quasi paesana, volgendo le spalle all’annuncio, si gira verso chi guarda, a renderlo partecipe del suo smarrimento, quasi spavento, suscitato dall’improvvisa incursione del messaggero celeste, capelli al vento e braccio muscoloso levato in alto in modo imperioso, ad indicare la presenza di Dio, anch’egli irrompente improvvisamente dal cielo. La pittura di rottura del Lotto, straordinariamente innovativa, punta sull’esasperazione dell’espressività dei gesti con quella Maria dalla testa infossata tra le spalle e le mani eloquenti elevate a sorpresa e quell’angelo plasticamente tornito, reso impositivo nel gesto un po’ innaturale del braccio alzato. Al Lotto, motivato da nuove istanze spirituali e stilistiche, interessano quasi unicamente le reazioni emotive dei protagonisti; la simbologia è appena accennata nel libro posato sull’inginocchiatoio, seminascosto, e nel giglio quasi assemblato al biancore del braccio dell’angelo. Mentre osserviamo il quadro vivente ispirato all’Annunciazione di Lorenzo Lotto, una voce fuori campo legge per intero il brano del Vangelo di Luca in lingua italiana. Alla fine del recitativo la luce si spegne e la scena viene cancellata per far spazio al centro, in primo piano, alla straordinaria, intensa immagine dell’ “Annunciata” di Antonello da Messina, dipinta nel 1476, conservata a Palermo nella Galleria Regionale della Sicilia, a palazzo Abatellis. È un’immagine di assoluta perfezione che il pittore messinese ha saputo creare in stupendo equilibrio tra forme, luce e colore, che colpisce come una folgorazione. La Vergine ha già ricevuto l’annunzio e l’angelo è già “partito da lei”; dal suo animo sgorgano le mirabili parole del “Magnificat” e, mentre le ascoltiamo emozionati, le vediamo traslate visivamente nello sguardo assorto e intenso di questa giovane donna, che comunica infiniti messaggi riconducibili alla molteplicità ed inesauribilità del mistero. Un mistero che, di per sé divino, si fa umano, immanente, in quel volto così intensamente vibrante nella sua compostezza, con l’ombra del manto che, accarezzando la guancia, gli conferisce un’improvvisa maturità che offusca la reale giovinezza dei tratti e dell’età. Antonello è riuscito a rendere l’intensità della reazione emotiva ad un annuncio sconvolgente che in un attimo trasforma una fanciulla giovanissima in una donna consapevole, capace di accettare tutto il suo impensato ed impensabile straordinario destino, un destino che nell’annuncio del concepimento già condensa il presagio di un futuro pesantissimo e dolente. Il profondo turbamento dell’animo, che pur sa rispondere con un fiducioso “Eccomi!”, è affidato non ai lineamenti del viso, purissimi ed inalterati, appena sfiorati dall’ombra del manto, ma allo sguardo intenso e soprattutto a quella mano che parla, staccandosi con forza dall’azzurro totalizzante del manto stesso. Questa giovane e 29 Vita di Club n.1 insieme matura donna con il suo gesto crea un attimo sospeso: l’attimo in cui si compie il mistero della salvezza dell’umanità. Nell’armonica compostezza dei volumi e delle forme che anticipano il rigore rinascimentale di Piero della Francesca è concentrato un mondo di sentimenti ed emozioni. L’eccezionalità dell’evento si fa intensa, vibrante e consapevole accettazione, in uno smarrimento appena accennato e subito superato; la fanciulla giovanissima, intatta ed inconsapevole, in un attimo si fa madre assorta e pensosa, madre, in Cristo, di tutta l’umanità. E questa umanità, troppo spesso dolente, da sempre l’ha sentita vicina e così sempre l’ha pregata, rivolgendosi con filiale fiducia a Lei, madre misericordiosa, sempre pronta ad accogliere le richieste dei figli, per presentarle e raccomandarle a Dio. In ogni epoca mamme amorose hanno scelto per le loro bambine il “nome dolcissimo” della donna prescelta da Dio che, in ebraico Miriam, diviene Maria nella nostra lingua. Al viso dell’Annunciata di Antonello si sovrappongono visi di donne del nostro tempo, che hanno avuto in sorte il nome di Maria. Scanditi in lenta successione, spostano l’empatia dello spettatore dall’eccezionalità del miracolo millenario alla realtà e quotidianità di oggi, mentre ogni volto racconta la sua storia, il suo vissuto e quale significato abbia avuto nel suo percorso di vita il nome che è stato imposto. Una pausa, a chiudere la sequenza delle immagini. Quindi il passaggio ad un’altra situazione, particolarmente significativa in relazione al fulcro del progetto che è alla base di tutta la sacra rappresentazione. Anche fisicamente l’azione si sposta: una vera e propria macchina scenica, a forma di enorme gabbia, completamente rivestita di un pesante drappo scuro, troneggia a fianco del portale della chiesa abbaziale, impenetrabile circa la sua identificazione. Una figura alta, ritta sulla sommità dei gradini, legge il contratto stipulato l’11 di luglio del 1445 tra i rappresentanti della Confraternita della Misericordia di San Sepolcro e “Pietro di Benedetto pittore”, per affidargli l’incarico di “fare e dipingere una tavola per l’Oratorio della Misericordia con immagini figure ornamenti stabiliti dal Priore e dai Consiglieri”. La lettura dei termini del contratto è inframmezzata da interventi di voci fuori campo: sono le suggestioni e le prefigurazioni che nascono nel cuore e nella mente di colui che conosciamo col nome di Piero della Francesca, che, più che per il denaro (ritirato dal padre, non avendo egli ancora compiuto 25 anni), si entusiasma all’idea di un progetto di così ampio respiro, in cui far confluire la grande lezione appresa dagli artisti di quel tempo straordinario che è il Rinascimento italiano. Le idee si affollano nella sua mente e già vede quello che sarà “Il corpo un fusto alto e forte Il collo come una colonna Ferma come nelle statue greche …” “Una contadina delle nostre parti Capace di portare un covone di grano senza piegarsi Forte e risoluta ...” “Il drappeggio della veste sfolgorante di rosso carminio Il manto azzurro ultramarino di tessuto pesante Una corona sottile, ornata di perle Un gioiello raffinato. Un enorme rubino circondato di perle …” L’opera, conosciuta col nome di Polittico della Misericordia 3, è il primo lavoro documentato di Piero della Francesca che ci sia pervenuto. Il contratto prevedeva che fosse terminato in tre anni e che il pittore facesse tutto da solo, senza ricorrere ad aiuti; in realtà per la sua esecuzione di anni ne occorsero 15 e vi collaborò anche un allievo non identificato. L’indicazione per l’esecuzione del dipinto è del tutto tradizionale: un polittico a più scomparti, con lo sfondo dorato ed uso di colori preziosi, ma Piero, pur giovanissimo e vincolato da queste precise limitazioni, riesce a farne un’opera innovativa, di 3 Il polittico fu poi trasferito nella chiesa di S. Rocco, quindi fu scomposto con perdita dell’originaria cornice senza però che avvenisse la dispersione dei pannelli. Dal 1901 è conservato nella Pinacoteca Comunale di San Sepolcro. 30 Vita di Club n.1 grande modernità condensandovi, come si è detto, quanto appreso dai grandi del suo tempo, rielaborandolo in chiave personalissima. I personaggi, che ricordano Masaccio nella solidità, dignità e solenne volumetria delle forme, fanno da contorno ad una Madonna costruita quasi architettonicamente secondo la lezione prospettica appresa dal Brunelleschi e teorizzata dall’Alberti. I colori ci parlano di Domenico Veneziano e la luce diffusa del Beato Angelico. È questa ieratica e maestosa figura di Madonna che viene “svelata”, gradualmente, durante la lettura del contratto e che, a sottolineare il suo significato di “mater misericordiae” a poco a poco apre il pesante mantello (inteso simbolicamente da alcuni come l’abside di una chiesa e da altri come un tabernacolo), a ricalcare la struttura geometrica creata da Piero nel polittico. Il grande manto aperto ad accogliere e proteggere i fedeli che confidano nella Madre è uno schema codificato nella tradizione, a rendere l’attributo di “misericordiosa” che troviamo nelle litanie lauretane, ma Piero lo reinventa in maniera del tutto particolare e personale. Solitamente è una folla quella che si rifugia sotto il mantello protettivo della Vergine; nell’ideazione del pittore di San Sepolcro i fedeli sono pochi: committenti e devoti, ma tutti ben connotati, a rappresentare una categoria ben precisa, che fa riferimento alla società dell’epoca. Si ritiene che anche lo stesso autore abbia voluto ritrarsi in quel personaggio con lo sguardo rivolto verso l’alto in gesto stupefatto ed estatico. Sotto l’enorme manto, punto d’incontro tra il divino e l’umano, vanno a rifugiarsi sei personaggi che si dispongono simmetricamente davanti a Maria, genuflettendosi in preghiera. Compaiono un cavaliere, un prelato ed un incappucciato rappresentante della confraternita (manca la figura che Piero ha collocato frontalmente sullo sfondo, in atteggiamento stupefatto ed estatico, in cui la tradizione vuole riconoscere l’autoritratto dell’artista), che si collocano alla sinistra di chi guarda, mentre, specularmente, si pongono una dama riccamente abbigliata, una donna avvolta in un essenziale totalizzante manto nero ed una monaca. Una figura sui gradini intona, in latino, le invocazioni alla Vergine tratte dalle Litanie domenicane che, di volta in volta, ne sottolineano una peculiarità; ad esse rispondono i personaggi sotto il manto con quell’“ora pro nobis” che è invocazione e supplica ed insieme fidente fiducia nel soccorso della Madre. Alle loro voci si aggiungono, in andamento corale e ritmico, quelle di una processione di donne che avanzano lentamente, precedute dai sei personaggi, che hanno abbandonato la protezione del manto e si dirigono verso l’edificio sacro sulle note del coro muto della Butterfly che fa da sottofondo. Anche gli spettatori si accodano ed entrano in chiesa dove, nel buio e nel silenzio raccolto, vedono stagliarsi davanti all’altare una figura slanciata, in veste blu cobalto. Una voce limpida e affascinante nelle infinite modulazioni intona l’“Ave Generosa” e si effonde distesa nell’inno in onore della Vergine, “pulcherrima et dulcissima” scritto da Hildegard Von Bingen, monaca benedettina vissuta nel XII sec., conosciuta con l’appellativo di “profetessa della Germania”. Dall’estasi del canto alla suggestione del recitativo dei dolci ed ispirati versi del Petrarca in onore della “Vergine bella”, resi più vibranti dall’accompagnamento del liuto, cui fa seguito il ritorno della voce ammaliante che li ripete sulla base della trascrizione musicale che ne ha fatto nel sec. XV Guillaume Du Fay 4. Questo versatile musicista che fin da ragazzo aveva mostrato straordinarie doti musicali ha creato un mottetto nello stile detto “cantilena”. Questo tipo di mottetto (col termine “mottetto” si designa una forma di composizione musicale, vocale o vocale-strumentale, a carattere sacro, non 4 Sulla nostra rivista (Vita di Club 2000-2001, n.3) fu pubblicato un articolo di Nevio Rossi intitolato “G. Du Fay.: un maestro della polifonia alla corte dei Malatesti”. 31 Vita di Club n.1 appartenente all’“Ordinarium Missae”), non è molto innovativo dal punto di vista formale, ma assai apprezzabile per l’eleganza melodica e la raffinatezza espositiva. (Contrariamente a quanto può far pensare la parola “cantilena” usata nella sua accezione comune, il mottetto a cantilena è vario, esente da ripetitività e formule stereotipe). 5 Da questo momento tutta l’azione è affidata alla musica e al canto. Alla voce solista fa seguito il canto disteso di un piccolo coro che esegue l’ “Ave Maria” di Francisco Guerrero, compositore del XVI sec., uno dei massimi esponenti della polifonia sacra spagnola. Le diverse voci si rincorrono e si sovrappongono, in suggestivo andamento ritmico, a lodare, in armonico accordo, la Vergine con la tradizionale preghiera a Lei dedicata, articolata nelle ben note tre parti: il saluto dell’angelo, il saluto di Elisabetta e l’intercessione. Il linguaggio musicale, vibrante di arcana bellezza e soavità, concentrato e lineare, risveglia echi dolcissimi nei nostri cuori. Segue un intermezzo del liuto, antico strumento a pizzico, che propone un antico brano melodico, creando un’atmosfera d’intensa emozione che si prolunga nel silenzio diffuso. In questa atmosfera sospesa si leva, da dietro l’altare, l’ardente voce di un coro più possente che canta l’“Ave Maria” di Jacob Arcadelt, musicista e compositore fiammingo pure del XVI sec., che nelle sue composizioni fonde la tradizione franco-fiamminga con la musica italiana dell’Umanesimo e del Rinascimento. Il canto, in contrappunto omoritmico, affida l’espressione di una celeste preghiera di confortante dolcezza a emozionanti contrasti dinamici, che, nell’estrema semplicità 5 Guillaume Du Fay (1397-1474) è una figura molto interessante, che fin da giovanissimo ha manifestato una straordinaria propensione per la musica e, attraverso un percorso di vita segnato da varie occasioni ed incontri, l’ha portata a piena maturazione. È interessante ricordare che, durante il Concilio di Costanza (1414-1418), cui partecipò al seguito del Vescovo di Cambrai, il Cardinale Pierre D’Ailly, uno dei teologi più eminenti dell’epoca, incontrò Carlo Malatesti che vi partecipava in qualità di legato e portavoce papale. Probabilmente fu in seguito a questo che dal 1420 al 1427 creò diverse composizioni legate alle vicende dei Malatesti, risiedendo alle corti di Rimini e Pesaro. Il più antico mottetto Vassilissa ergo gaude del 1420 è dedicato a Cleofe Malatesta in occasione delle sue nozze con Teodoro il Paleologo, despote di Morea, quindi compose nel 1423 la ballata Resvellies vous in occasione delle nozze di Carlo Malatesta con Vittoria Colonna (antenata della famosa poetessa omonima) e nel 1426 il mottetto Apostolo Glorioso all’insediamento di Pandolfo Malatesta come Vescovo di Patrasso. della condotta delle frasi, ora fluente, ora spezzata, scava tra le pieghe del testo sacro. L’ “ora pro nobis”, ripetuto tre volte, sottolinea la supplica fidente alla Madre di misericordia. La conclusione è un “amen” prolungato e sfumato in solenne ed estatica ieraticità. Ritorna la voce solista, a regalarci una tenera “Canzonetta spirituale sopra la nanna” di Tarquinio Merula, raffinato compositore del XVII sec., bresciano di nascita e cremonese di formazione. La composizione accomuna Maria a tutte le mamme del mondo nel tenero ninnare del bambino, ma la ninna-nanna, sotto la dolce finalità apparente di rassicurare e di indurre al sonno, nasconde la consapevolezza del futuro dolorosissimo riservato al figlio, in un continuo richiamo alle sofferenze che dovrà patire. La chiusa rasserenante non riesce a cancellare il sentimento accorato e dolente che sottende tutta la composizione. Dal fondo della parte absidale, riservata al coro, avanza una fila di figure nerovestite che si dispongono sui gradini dell’altare; erompe l’“Ave Maria” di Franz Biebl, composta in Germania nel 1964 per un gruppo di coristi amatoriali. Il testo è quello dell’ “Angelus”, che ci riconduce, in maniera ciclica, all’inizio della sacra rappresentazione. Suggestiva miscela di antico e moderno, questa musica intreccia interventi solistici monodici ed elaborate responsioni tra i due semicori, con una scrittura polifonica i cui equilibri sonori sono al servizio di un fraseggio e un’espressività vibrante e immediata. Il canto corale nasce sommesso per poi salire, a poco a poco, a toni più forti ed intensi, in una polifonia di raffinata e composita bellezza. L’“Amen” conclusivo, ripetuto nel crescendo delle varie voci, vero culmine espressivo dell’opera, si effonde in un messaggio di forte ed intensa sacralità. Prima del termine di questa sacra rappresentazione, così articolata, suggestiva e complessa, di forte impatto, che riconduce all’unitarietà del progetto numerosissime informazioni storiche, artistiche e musicali ed affascina per la molteplicità e la cura dei dettagli, un nuovo seme viene gettato, a suggerire la promessa di nuove occasioni e nuovi incontri. Vengono eseguiti alcuni frammenti dell’“Ave Maria” scaturita, dopo una delle sessioni di prove corali, dalla creatività di Mattia Guerra, il giovane musicista che fa parte della Cappella Strumentale di Scolca e che, dopo numerose performances assai apprezzate, riteniamo abbia davanti a sé un futuro di sicura fama. 32 Vita di Club n.1 Capolavori d’arte riprodotti in quadri viventi nell’antica abbazia di S. Maria Annunziata di Scolca Fotografie di Laura Arlotti I Luoghi della memoria: Castello Nelson Ex Abbazia Benedettina di Santa Maria di Maniace. II III Fotografie di Paolo Marani IV VIAGGIANDO VIAGGIANDO LUOGHI DELLA MEMORIA Castello Nelson – Ex Abbazia Benedettina di Santa Maria di Maniace. di FRANCA FABBRI MARANI N ell’assolata Trinacria battuta dallo scirocco, le pendici dell’Etna accolgono il viandante con la frescura e l’accogliente ombra delle pinete e dei boschi di castagni, betulle, querce secolari, frassini e faggi. Alle falde di questo grande cono entro cui il dio Vulcano incessantemente lavora nella sua fucina, sta il paese di Bronte, che ne offre la vista più maestosa e solennemente armonica. A pochi chilometri di distanza, in un luogo appartato, si trova Maniace, landa boscosa attraversata da un torrente dalle limpide acque sulle cui rive sorge un’imponente costruzione dall’architettura complessa e articolata. Fino al 1981 questo territorio era un lembo di terra inglese in terra italiana e, anacronisticamente, un vero e proprio feudo, l’ultimo rimasto in Italia, in cui permanevano consuetudini, vincoli e leggi feudali. Superato un bastione d’ingresso, attraverso un lussureggiante parco, il visitatore giunge di fronte ad un grande, sobrio palazzo nobiliare il cui ingresso è segnato da una vasta cancellata in ferro battuto sui cui battenti spiccano, scintillanti in oro, una grande “N” ed una “B”, lettere che pongono al visitatore l’enigma iniziale. È un enigma apparente per noi, condotti qui dal racconto di un amico catanese che, parlando di pistacchi, l’oro verde della Sicilia, ci ha spalancato orizzonti sorprendenti, narrandoci un affascinante capitolo di storia sconosciuto ai più. I pistacchi di Bronte … L’eccidio di Bronte … Emily Bronte …, frammenti nella mente, in una dolce sera di giugno sono stati ricondotti ad unità dal suo sapiente narrare e, sorprendentemente, collegati alla persona di Horatio Nelson, l’ammiraglio inglese la cui statua campeggia a Londra, al centro di Trafalgar Square, simbolo del valore navale della nazione. Addentriamoci, dunque, prima di visitare l’imponente complesso architettonico che stiamo ammirando, nella storia affascinante che ha come protagonista quest’angolo di terra, abitato fin dalla preistoria, poi soggetto alla colonizzazione greca e all’occupazione romana, ma che fa registrare gli eventi più interessanti dal periodo medievale in poi. La prima data certa significativa è il 1040. In questo anno il grande condottiero bizantino Giorgio Maniace, noto per lo splendido castello che, proteso come una prua nel mare di Siracusa, porta il suo nome, è inviato in Sicilia dall’imperatore bizantino Michele IV col compito di riconquistarla alla cristianità. Occupata Messina, si avvia per l’impervia strada dell’impenetrabile Valdemone dove affronta col suo esercito un esercito arabo di 50000 uomini e ne fa una tale strage che da quel momento il torrente che scorre nel pianoro teatro della battaglia prende il nome di Saracena. Dopo la vittoria, prima di dirigere la marcia verso Siracusa, in memoria dell’evento e a difesa della trazzera regia che nel Medio Evo costituisce l’arteria più importante di penetrazione nell’interno dell’isola, fonda, nei pressi del Castello arabo di Ghiran ed-Dequq (Grotte della Farina), un borgo con annessa torre di guardia che in suo onore viene chiamato Maniace e che si popola, oltre alla popolazione indigena, di bizantini. Dopo qualche anno la pianura di Maniace è teatro di una nuova, epica battaglia che apre la Sicilia alla conquista normanna. Il Gran Conte Ruggero d’Altavilla infligge una seconda devastante sconfitta all’esercito arabo e, conquistata Troina, ne fa la sede della prima capitale e della prima diocesi, riportando nel territorio la religione cristiana, impresa che gli vale il titolo di “Adiutor Christianorum”. In 33 Vita di Club n. 1 questo primo periodo normanno il villaggio si accresce per la venuta di gente settentrionale, nota come “lombarda”, che la Contessa Adelaide, sposa del Conte Ruggero, ha portato con sé dal Monferrato. Nel 1089 si reca in visita a Troina, dal Conte, lo stesso papa Urbano II che, durante la sua permanenza, stabilisce per i regnanti della Sicilia il grande privilegio della “Regia Legatia”, con cui li rende Legati Pontifici nella regione. È un privilegio che avrà gravi ripercussioni per la storia del luogo, come avremo modo di vedere in seguito. In questa occasione Urbano II ha modo di ammirare la bella immagine della Vergine, tuttora in loco, venerata nella cappella eretta dal generale Maniace, a ricordo della vittoria contro gli infedeli e a protezione degli abitanti del luogo che porta il suo nome. Nel 1094 Gregorio, abate di San Filippo di Fragalà, edifica presso Maniace, accanto al fortilizio posto a guardia della trazzera regia, la chiesa di Santa Maria con annessa grancia, fattoria monastica basiliana, dipendente dal monastero di cui è abate. Nel 1173 la regina Margherita di Navarra, moglie di Guglielmo I il Malo e madre di Guglielmo II il Buono, spinta dalla venerazione verso l’immagine bizantina della Madonna conservata in questa landa solitaria, fa erigere, probabilmente sul luogo dell’ospizio basiliano, il cenobio benedettino di Santa Maria di Maniace che, lambito dalle acque del torrente Saracena, munito di torre di guardia e presidiato da militi, assume la caratteristica di fortezza a presidio del territorio, dove possano trovare assistenza e difesa villici e pellegrini. Quindi assoggetta all’Abbazia di Maniace trentadue chiese creando come una piccola diocesi entro la grande diocesi di Monreale. Il primo abate, secondo alcune fonti, è il francese Guillaume di Blois, poeta latino, insignito di un’autorità quasi vescovile, in quanto ottiene con bolla di Alessandro III il privilegio di usare le insegne pontificie: mitria, baculo pastorale, anello e sandali. Nel luogo, divenuto punto di riferimento per i conquistatori, sosteranno poi l’imperatore Arrigo IV nel 1194, suo figlio Federico II (noto col nome di Stupor Mundi) con la madre Costanza d’Altavilla, il re Pietro d’Aragona con il suo esercito, come pure tutti i suoi discendenti nel sec. XIV. Sono presenze mal tollerate dal monastero, tanto che nel 1285 l’abate Guglielmo (il cui corpo è acetato e custodito dietro l’altare maggiore) si fa promotore della cosiddetta “Congiura di Maniace” contro la casa Aragonese, per riportare sul trono Carlo d’Angiò. La congiura viene repressa duramente e i congiurati sono condannati al patibolo, mentre l’abate Guglielmo è esiliato a Malta, dove conduce una vita esemplare di penitenza che gli frutterà il titolo di beato. Successivamente i monaci tengono un comportamento poco morale e questo stato di cose porta ad una decisione gravida di conseguenze per tutti i monasteri in possesso di proprietà. Vengono istituiti gli ABATI COMMENDATARI, persone estranee all’ordine che, ottenuta la nomina per meriti politici presso il Papa o il Re, sono autorizzati a percepire tutte le rendite dei beni dei monasteri, lasciando ai monaci solo il necessario per sopravvivere. Il primo abate commendatario del Monastero di Maniace è Giovanni da Ventimiglia nel 1396. Nel 1491 le abbazie di San Filippo di Fragalà e Santa Maria di Maniace si fondono sotto un unico abate commendatario: il cardinale Rodrigo Borgia, il futuro papa Alessandro VI, che, senza averne autorità, le dona a papa Innocenzo VIII. Questi decide di annetterle al patrimonio dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che poi le affiderà per ben undici volte a diverse famiglie religiose. Nel gennaio del 1693 un tremendo terremoto distrugge in larga parte il vecchio monastero normanno, abbattendo del tutto la torre di guardia, la parte absidale della chiesa e la maggior parte delle celle dei monaci. I basiliani, cui è affidato in questo momento il monastero, decidono di abbandonarlo e di trasferirsi a Bronte, nella chiesa di San Blandano. Ma l’avvenimento di maggior portata storica, che avrebbe trasformato radicalmente l’esistenza del monastero e del suo patrimonio terriero di ben 9000 ettari è da ricondursi a fatti svoltisi non in terra siciliana, bensì a Napoli nel 1796. In quest’anno scoppia una rivoluzione contro il re Ferdinando, organizzata da borghesi e intellettuali, guidati da un ex ufficiale della marina borbonica, Francesco Caracciolo. L’insurrezione ha successo e nasce la Repubblica Partenopea che mette in serio pericolo il trono dei Borbone. Il re, costretto ad abbandonare Napoli, con l’aiuto dell’ammiraglio inglese Horatio Nelson si rifugia a Palermo. L’anno successivo tuttavia può farvi ritorno grazie all’intervento del medesimo Nelson che, soffocata nel sangue la Repubblica Partenopea, con una decisione che suscita lo sdegno dei suoi 34 Vita di Club n. 1 stessi connazionali e che resta un’onta nella sua vita di eroe, dopo un sommario processo, impicca il Caracciolo all’albero della sua nave. È presente all’esecuzione la sua amante, Emma, giovane moglie dell’anziano ambasciatore inglese Sir William Hamilton, la donna di cui Nelson sarà sempre perdutamente innamorato, un anello della catena che lega l’ammiraglio inglese alla dinastia borbonica. In segno di riconoscenza per avergli salvato il trono il re Ferdinando, avvalendosi dei poteri della “Regia Legatia”, concede a Nelson “in perpetuo” l’Abbazia di Maniace, quella di San Filippo di Fragalà, quasi 15000 ettari di terre fertilissime e la stessa città di Bronte, togliendoli all’Ospedale di Palermo. Tutto il territorio prende il nome di Ducea e all’ammiraglio inglese viene conferito il titolo di “Duca di Bronte”, titolo che Nelson ebbe molto caro tanto che da questo momento si firmerà sempre “Nelson Bronte”. Dal re gli è concessa inoltre facoltà di trasmettere la Ducea, a suo piacimento, non solo ai parenti, ma anche ad estranei. Sulle terre e sugli abitanti gli viene conferito il “mero e misto imperio”, il più elevato tra tutti i diritti esercitati dal re, vale a dire la giurisdizione civile e penale, comprendente lo “jus necis”, il diritto di vita e di morte. In tal modo gli abitanti del territorio di Bronte vengono di nuovo vincolati da un rapporto di vero e proprio vassallaggio dopo che da appena pochi anni (nel 1774) erano riusciti a liberarsi dal potere feudale dell’Ospedale di Palermo riscattandosi a prezzo di immani sacrifici protrattisi fin dal 1638. Scrive Michele Pantaleone: “Aveva origine la DUCEA MALEDETTA, causa delle lotte, delle persecuzioni, delle violenze e delle illegalità delle quali sono stati vittime i brontesi per oltre un secolo e mezzo”. Per quasi due secoli infatti durerà questa proprietà feudale di una dinastia straniera e fino a pochi decenni fa si vedeva sventolare la bandiera inglese sui torrioni del cosiddetto Castello Nelson. Horatio Nelson, felicissimo per il dono e per il titolo, comincia immediatamente a pianificare la trasformazione dell’antica abbazia in dimora signorile, ma, prima trattenuto a Palermo per i festeggiamenti per la soffocata rivolta, poi chiamato lontano dalla guerra con Napoleone, non riesce mai a mettere piede nella Ducea di Bronte. Il nuovo nome dell’invitto ammiraglio suggestionerà a tal punto l’irlandese Patrick Brunty da indurlo, per l’ammirazione che nutre verso l’eroe di Trafalgar, a mutare il suo cognome in Bronte, aggiungendovi solo una dieresi. Con questo nome diverranno famose le sue tre figlie: Charlotte, Emily ed Anne, scrittrici vittoriane della prima metà dell’Ottocento. Il primo duca di Bronte dunque non vedrà mai le terre a lui donate: il 21 ottobre 1805 vince la famosa battaglia al largo di Capo Trafalgar a prezzo della vita e la sua Ducea passa al fratello maggiore, il pastore anglicano rev. William che gode i benefici dell’immenso territorio senza tuttavia mai recarvisi. Gli succede la figlia Charlotte Mary Nelson, unica duchessa di Bronte, che tiene la Ducea dal 1835 al 1873. Ella per prima si reca a visitare i possedimenti siciliani ma, abituata all’animata vita londinese, li abbandona subito, affidandone la gestione ai Thovez. Da questo momento per i duchi di Bronte, accanto al nome Nelson, compare il nome Hood, in quanto Charlotte è sposata con Samuel Hood, secondo visconte di Bridport, che vanta gloriosi antenati nella marineria inglese. Durante il dominio di Charlotte, nell’agosto del 1860, le tensioni sociali dei brontesi, da sempre insofferenti al vincolo di vassallaggio, che già nel 1822 e nel 1848 avevano dato luogo ad agitazioni, sfociano in una vera e propria ribellione, che si conclude col tragico epilogo dell’Eccidio di Bronte, bagno di sangue tristemente noto, operato dalle truppe garibaldine del generale Nino Bixio. Dopo la morte di Charlotte i fortunati discendenti di Nelson, Duchi di Bronte e Baroni di Bridport, annualmente vengono ad abitare, per alcuni mesi, nel vecchio monastero che, ristrutturato nella parte residenziale, è divenuto una sontuosa dimora ed ha assunto il nome di Castello Nelson. Ma nel luglio 1940, dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Inghilterra, al grido di Mussolini “Dio stramaledica gli Inglesi”, gli eredi di Nelson sono costretti ad abbandonare il possedimento, che viene confiscato e passato prima al Banco di Sicilia, quindi all’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. I terreni sono in parte quotizzati ed assegnati ai contadini del luogo e viene iniziata la costruzione di un villaggio rurale chiamato polemicamente “ Borgo Caracciolo” in memoria della vittima italiana più illustre dell’ammiraglio Nelson e dello strapotere inglese nel Mediterraneo. Del villaggio, mai terminato a causa della guerra e successivamente definitivamente distrutto, sono tuttora visibili i resti nel parco antistante l’ingresso del Castello. 35 Vita di Club n. 1 Nel 1943 gli alleati sbarcati in Sicilia prendono possesso del feudo e lo restituiscono al discendente dell’ammiraglio inglese Rowland Arthur Herbert Nelson-Hood. La decisione viene poi confermata da una speciale Commissione di Conciliazione Italo-Britannica, istituita per occuparsi dei danni di guerra. I Nelson-Hood, riconosciuti legittimi proprietari della Ducea, cacciano i coloni e ripristinano il loro sistema di amministrazione feudale. Solo alla fine del secolo scorso, nel 1981, l’ultimo erede, Alexander Nelson-Hood decide di vendere tutta la proprietà, conservando unicamente il piccolo cimitero inglese in cui riposano alcuni suoi antenati e il poeta William Sharp, morto durante la permanenza qui. Il complesso dell’antica abbazia, ora Castello Nelson e buona parte dei terreni vicini vengono acquistati dal Comune di Bronte con l’intento di farne un luogo turistico e di cultura. Ma torniamo davanti alla grande cancellata che segna l’accesso all’impropriamente detto Castello Nelson, in realtà palazzo signorile settecentesco ricavato dall’abbazia benedettina, come testimonia il basso, ombroso porticato trasversale che ci accoglie e che, anticamente, ne era il chiostro. Di fronte a noi si apre un vasto, assolato cortile rettangolare, al cui centro spicca una grande croce basolitica di stile celtico, eretta in onore dell’ammiraglio Nelson, come si può leggere nella dedicazione alla base “Heroi immortali Nili”. Preferiamo addentrarci, verso destra, sotto l’accogliente ombra del portico che ci conduce ad un piccolo spiazzo intercluso tra la facciata e la porzione porticata del palazzo. È il sagrato di una chiesa dalle sobrie linee architettoniche, con semplice liscia facciata in nuda pietra, in cui si apre, in alto, un’armoniosa finestra ogivale, sovrastata, sulla sommità del tetto, da una torretta campanaria. Coeva al Duomo di Monreale, cui si richiama per alcuni stilemi, la chiesa di Santa Maria di Maniace è un insigne monumento dell’arte normanna del XII secolo, affascinante nella spoglia semplicità, su cui risalta, in tutta la sua finezza decorativa, uno splendido portale a sesto acuto, strombato e polilobato, con archi concentrici dalle modanature variamente ornate (alcune riproducono la gomena normanna), sorretti da lisce colonnine rotonde in porfido, marmo e granito. L’occhio dello spettatore viene irresistibilmente attratto dai capitelli riccamente scolpiti, secondo un modulo stilistico prettamente romanico, con figure inquietanti dal forte simbolismo che poggiano su catini magistralmente ornati da foglie di acanto. Queste figure rappresentano l’esegesi del simbolismo contenuto nell’orientamento del portale che, volto verso occidente a significare le tenebre del male, si contrappone all’abside canonicamente collocata ad oriente, simbolo della luce di Cristo. Il fedele, varcando la soglia della chiesa, è guidato, dirigendosi da occidente ad oriente, a lasciarsi alle spalle il peccato per aprirsi alla luce della grazia. Il messaggio principale viene dunque calligraficamente trascritto nelle figure scolpite sui capitelli: quelle di sinistra, puramente simboliche, non riconducibili ad alcuna tematica di tipo narrativo, rappresentano esseri mostruosi ed ibridi, corpi e volti deformi, animali antropocefali, dragoni, iconografie inquietanti riconducibili ai “bestiari” medievali, ipostasi del male; quelle di destra, prettamente narrative, raccontano invece la cacciata dal Paradiso Terrestre e le sue conseguenze: il fratricidio di Caino, il duro lavoro, la caccia e la guerra. All’interno ritroviamo la stessa impronta di rustica ed affascinante essenzialità della facciata; l’incanto è dato dalla purezza delle linee architettoniche di un corpo longitudinale armoniosamente scandito in tre navate da robuste colonne in pietra lavica, alternativamente esagonali e rotonde, che si illeggiadriscono negli archi ogivali in pietra bianca di derivazione araba, così come le compatte pareti appaiono illeggiadrite da file di finestre a sesto acuto. In questo ambiente armoniosamente austero, coperto, al sommo, da un soffitto ad alte capriate lignee, si respira un’atmosfera di suggestivo, silenzioso raccoglimento attraverso cui pervengono le voci palpabili dei trapassati che hanno abitato questi luoghi, l’eco dei tanti anni di storia e dei tanti eventi che li hanno segnati. L’armonia architettonica subisce un arresto nella parete di fondo che, chiudendo bruscamente l’ampia spazialità delle navate, le fa apparire tronche ed interrotte. La motivazione va ricercata nel terremoto del 1693 che fece crollare tutto il presbiterio e le tre absidi, come testimoniato dal rinvenimento delle fondamenta e di alcuni resti nella parte retrostante la chiesa e nel granaio del secondo cortile. Sono reperti che hanno consentito di definire la lunghezza originaria dell’edificio, che è risultata essere addirittura doppia rispetto alla parte tuttora esistente. L’antica chiesa normanna conserva opere d’arte di antica e pregevole fattura. La più interessante 36 Vita di Club n. 1 è l’icona posta sull’altare maggiore raffigurante la Vergine che allatta il Bambino, in una preziosa cornice in legno scolpito. La tradizione popolare attribuisce il prezioso dipinto a San Luca e vuole sia stato portato sul posto dall’oriente dal generale Maniace a ricordo della vittoria del 1040. La tavola, dipinta secondo i canoni bizantini nella composizione dei corpi, nelle lunghe mani affusolate della Vergine, nel rosso simbolico della veste del Bambino e nel piatto e brillante fondo oro, li trascende per conferire all’immagine un’inconsueta corposità, ai volti una diversa umanità ed ai panneggi una singolare morbidezza mediante l’uso sapiente della luce. Si accompagnano a questo gioiello altre pregevoli opere pittoriche: un trittico del XIV secolo, un lacerto di pala d’altare raffigurante Santa Lucia e l’Arcangelo Gabriele dell’XI secolo ed un’incantevole Madonna col Bambino del XVI secolo che richiama la scuola raffaellesca e che da alcuni è attribuita al Sodoma. Interessanti due sculture in marmo bianco del XII secolo che raffigurano l’Arcangelo Gabriele recante un giglio e la Vergine Annunciata, bassorilievi in cui ritroviamo gli stilemi tipici dell’arte romanica nella ieraticità e rigidità delle figure, nello sguardo fisso e nella geometria dei panneggi. Ma è tempo di lasciare la chiesa, tornare nel primo cortile ed avviarci alla conclusione della visita. Da questo, dirigendoci a destra, passiamo ad un secondo, altrettanto assolato cortile quadrato, con al centro un pozzo in pietra lavica intorno a cui originariamente erano raccolti i magazzini, i laboratori le stalle e i granai. Da qui si gode una bella vista della parte laterale della chiesa, che colpisce per la sua maestosità ed è possibile seguire idealmente il tracciato che un tempo segnava il suo perimetro fino ai resti della parte terminale dell’abside centrale visibili dentro il granaio. Proseguendo nella scoperta giungiamo ad una delle due torri rimaste che facevano parte del sistema difensivo dell’abbazia e viviamo un momento d’intenso godimento naturalistico guardando attraverso le feritoie la macchia verde che avvolge il castello e l’argenteo nastro del torrente che si snoda nel pianoro. Fin qui la parte più riconducibile al complesso abbaziale. Tornati nella prima corte, ci volgiamo a guardare la parte posteriore della sontuosa ala principale della residenza signorile che prosegue in un’ala laterale al cui pianterreno si apre l’accesso ad un grandioso giardino all’inglese con piante secolari nostrane ed esotiche, ingentilito da fiori multicolori e da una zampillante fontana. Non ci è possibile visitare all’interno la residenza, ora trasformata in Museo, a causa di lavori di ristrutturazione, quindi torniamo sui nostri passi ammirando, nell’uscire, l’immenso parco di platani ed eucalipti che ospita sculture in pietra lavica di artisti di livello internazionale. Prima di allontanarci, ci volgiamo a dare un ultimo sguardo all’elegante facciata di quel complesso che ci ha permesso di respirare, in un angolo recondito e sconosciuto, armonia e bellezza nella percezione dell’affascinante fluire della storia. 37 Vita di Club n. 1 CURIOSITÀ PREZIOSE GIOIELLI CHE HANNO FATTO STORIA Per scrivere la storia dei gioielli bisogna ripercorrere la storia dell'uomo, perché il gioiello, in quanto ornamento e simbolo di status sociale, compare presso tutti i popoli e in tutte le regioni della Terra dalla preistoria ad oggi. di ONELIO BANCHETTI P reziosi, rari e misteriosi: se quelli di oggi sono riprodotti in serie a scapito della loro unicità, i gioielli nel passato (remoto e prossimo) hanno identificato ruoli e definito funzioni. Il volume "Storia dei gioielli" di Anderson Black (edizioni Odoya) li passa in rassegna tutti. Dai primi objets trouvés del paleolitico alle corone del Medioevo; dalle preziosissime uova Fabergé ai gioielli "d'autore" firmati da grandi artisti. Una panoramica lunga come la storia dell'uomo, per scoprire curiosità e aneddoti legati ai gioielli di ogni tempo, approfondire lavorazioni e artigianalità del settore e rifarsi gli occhi con immagini degli esemplari più rari. Riferiamo 13 curiosità davvero interessanti. 1) Objets trouvés. Si definiscono così quei materiali (soprattutto denti d'animali, ciottoli e scheletri di pesci) che le popolazioni del Paleolitico indossavano come accessori. La funzione apotropaica (ovvero esorcizzante contro gli spiriti malvagi) era predominante rispetto a quella estetica: le conchiglie proteggevano dalla sterilità mentre i denti simboleggiavano forza e virilità. 2) Monili. Alcune tribù africane utilizzano i monili per modificare il proprio aspetto: i labrets (enormi dischi inseriti nelle labbra) servono agli uomini per sembrare terrificanti in battaglia, mentre alla donne per rendersi indesiderabili in modo da scongiurare il rischio di essere rapite da altre tribù. 3) Collane a catena. Nel Rinascimento le collane a catena avevano una doppia funzione: ornamento personale e valore monetario. Ogni anello della catena valeva quanto l'unità di moneta corrente, così poteva essere usato per l'acquisto di merci in mancanza di denaro. Enrico VIII venne ritratto con una catena dell'eccezionale peso di 3 kg, intarsiata con rubini e perle. 4) Corone pesanti. La corona di Sant'Edoardo è famosa per il suo straordinario peso. Costruita per Carlo d'Inghilterra nel 1661 e incrostata di zaffiri, diamanti, rubini, smeraldi e perle pesava quasi 3 kg e raramente è stata indossata per tutta la durata di una cerimonia. 5) Perle&Co. La perla non è una pietra preziosa, bensì una sostanza organica. Si forma quando un corpo estraneo entra in un'ostrica. L'irritazione che ne consegue fa sì che il mollusco riversi un fluido sopra la particella estranea, fino a rivestirla completamente di tessuto perlifero. Nell'antichità si pensava che avessero proprietà medicamentose e venivano polverizzate, disciolte in liquido e poi bevute. 6) Il padre dello strass. Nel 1700 Joseph Strasser elaborò un cristallo piombico con caratteristiche di luminosità simili a quelle del diamante. Questo materiale venne chiamato Strass dal nome del suo inventore e molte case reali ne commissionarono intere parures. 7) Il diamante più grande... È il Gran Mogol e venne estratto in India nel 1650. Originariamente pesava 787 carati ("come un grosso uovo tagliato 38 Vita di Club n.1 a metà" era il commento dei testimoni oculari) poi a seguito di un errore di lavorazione - che costò la vita allo sfortunato tagliatore veneziano - si ridusse a soli 280 e si persero le sue tracce. 8) ... e quello più sfortunato. Si chiama "Hope" ed è il diamante che nessuno vorrebbe possedere, a dispetto della sua grandezza (112 carati): dal suo scopritore in poi la sorte di chi l'ha maneggiato è stata segnata da sventura, suicidio, bancarotta e incidenti mortali. 9) Ghigliottine bijoux. Dopo la Rivoluzione Francese, anche la gioielleria venne prodotta per celebrare la libertà. Gli orecchini d'acciaio a forma di ghigliottina in miniatura furono, in quel periodo, uno degli oggetti più richiesti. 10) Le uova di Fabergé. Il primo uovo di Pasqua imperiale prodotto dal maestro Carl Fabergé per lo zar Alessandro risale al 1883. All'interno conteneva un tuorlo d'oro dentro cui c'era un minuscolo pulcino d'oro. Al suo interno, poi, si trovava una copia della corona imperiale e dentro questa un minuscolo rubino a forma d'uovo. Il dono fu talmente gradito che la tradizione proseguì per i successivi 57 anni. 11) Capelli preziosi. Gli "hair works" facevano parte della gioielleria commemorativa in voga alla fine del 1700. Si trattava di capelli dei defunti intrecciati a mo' di cordoncini e provvisti di ganci in oro da portare come braccialetti o collane. 12) Gioielli elettrici. All'inizio del 1800 a Parigi si producevano gioielli elettrici che vibravano grazie a una batteria nascosta sotto il vestito. Le fogge più originali di questi gioielli raffiguravano simboli della Rivoluzione Industriale: macchine a vapore, utensili e ponti d'acciaio. 13) Opere d'arte. Oltre a quadri e disegni, Salvator Dalì realizzò anche gioielli magnifici: orologi gocciolanti, un cuore pulsante di rubini, una croce di zollette d'oro. Allergico alle convenzioni, dichiarò: "mi rifiuto di porre dei limiti a me stesso. La mia arte non coinvolge solo la pittura, ma anche la gioielleria". Alcune persone pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità. Coco Chanel Quando l’oro parla, l’eloquenza è senza forza. Erasmo da Rotterdam Non ho mai odiato un uomo a tal punto da restituirgli i gioielli ricevuti in regalo. Zsa Zsa Gabor (Il diamante) È molto più bello di un certificato azionario, e non dà preoccupazioni quando il mercato è fluttuante. Se ne sta tranquillo, incastonato in un anello o chiuso dentro una cassetta di sicurezza, mentre il suo valore aumenta ogni giorno che passa. Ronald Schiller Un titolo curioso in libreria: Paola Jacobbi, Sotto i tre carati non è vero amore. Storie di gioielli, i migliori amici delle donne, Sperling & Kupfer (collana Varia) 39 Vita di Club n.1 SERVICE UNA LUCE PER MANUELE Il Lions Club Rubicone si è attivato per donare un cane guida. di FRANCESCO COVARELLI L a decisione finale, per l’acquisto di un cane guida per un ragazzo di Sant’Arcangelo, completamente cieco dalla nascita, è stata presa dal Consiglio Direttivo del Club, presieduto da Stefano Berlini, nello scorso mese di settembre. Il ragazzo si chiama MANUELE BRAVI, di 22 anni, che il club già conosceva perché distintosi cinque anni fa nel premio di poesia “E. Cantone” da noi organizzato. È un ragazzo gioioso, volitivo, vulcanico, con mille interessi: suona il pianoforte dall’età di otto anni, compone musica e canta; è uno sportivo di tutto rispetto tanto che ha riportato otto record italiani. Si stava preparando per le scorse Paraolimpiadi di Londra, allenandosi fra l’altro con Cecilia Camellini, neo campionessa olimpica nei 50 e 100 metri stile libero, ma sopraggiunti impegni di studio e problemi economici lo hanno costretto ad abbandonare l’attività. Ora è a Milano dove studia Psicologia dei processi sociali e comportamentali presso l’Università Bicocca. È inserito in un campus dove lavora per “Dialogo & Buio”, una mostra-viaggio guidato nella completa oscurità che permette di sperimentare un nuovo modo di “vedere” affidandosi al tatto, all’udito, all’olfatto ed al gusto per vivere un’esperienza straordinaria, dove i ruoli si invertono e le barriere si abbattono. Manuele ha già preso contatto con il Centro Addestramento cani guida di Limbiate ed è quasi certo, se non sopraggiungeranno contrattempi, che il cane gli sarà consegnato il 1° Giugno 2013 nella Piazza del Municipio di Gambettola diventando il suo nuovo fido amico a quattro zampe, sempre pronto al servizio e se necessario a tutelare la sua integrità fisica permettendogli di acquisire libertà ed indipendenza. Vale la pena di ricordare che proprio quest’anno il Comune di Gambettola è entrato a far parte del nostro territorio, per cui l’evento assumerà anche l’importanza di un significativo biglietto di presentazione del Lions International. Molti nostri soci, e per la prima volta credo anche le nostre signore, metteranno in cantiere diverse iniziative tese a finanziare il service e nel contempo dare visibilità all’evento. La notizia di questo nostro importante ed impegnativo sforzo è stato recepito anche da alcuni Club amici che si sono proposti disponibili a partecipare a questa eccezionale manifestazione. Un cane guida per un cieco può aiutare a vincere l’isolamento, può portare conforto perché è testimonianza d’amore: l’amore di coloro che l’hanno pensato, l’amore di coloro che l’hanno istruito, l’amore di coloro che l’hanno donato. Essere Lions vuol dire anche essere testimone di solidarietà e noi tutti dobbiamo sostenere questo “servizio cani guida”, che onora la nostra Associazione da oltre 50 anni ed allevia tante tragiche esistenze. 40 Vita di Club n. 1 L’ANGOLO DELLA POESIA PAROLE NEL BUIO Poesie tratte dal libro Premio di poesia “E. Cantone”, XII Concorso Letterario – 2008, dove l’autore era risultato finalista ex aequo. di MANUELE BRAVI Passione Potendo scegliere, ho preferito non guardare. Chiudere gli occhi alla vista del dolore che scivolava languido dentro di me. Mi distruggeva nella sua trappola, mi rendeva esausto. Lento e sordo era il silenzio davanti al tuo sguardo, ardeva scandendo il particolare, bruciava di speranza aspettando la mossa più giusta. Ma l'occhio attutiva quelle che erano fitte, la mente eludeva ciò che era debolezza. Orecchio fermo e passivo, ecco ciò che avevi deciso di essere. Passione non è respiro regolare, si tratta di ben altro che staticità. Stravolge l'ordine, plasma la carne, la mente, sconvolge i tempi. Tu fai tutt'altro. Un muscolo scarlatto come il tuo, quando crudo e fermo, non merita il nome che comunemente condividono tutti. Tanto varrebbe chiamarlo pietra, ma, lo sappiamo, la pietra non pulsa. Il sangue allora non sarebbe altro che smalto rosso, un dettaglio sgargiante, pronto a decorare quella pietra cardiaca. Certi giorni mi sento male dentro, ma, come te, io non lo ammetterò. Così ho afferrato che anche i demoni usano maschere splendide per adeguarsi all'ambiente. Nascondono artigli, veleno e indole, strappandoti lentamente forze e orgogli. Ho imparato che gli angeli non vivono. Che le ferite sotto i cerotti non si cicatrizzano. Ho lottato per te, costringendoti ad un'idea un po' recriminante. Ho usato catene d'oro, però ho sbagliato i calcoli. Tu scivoli nel presente, senza aver mai sofferto per il passato. Tu ridi di gusto, non rendi indispensabile urlare. io non posso vivere nel tuo mondo, lo sai. Se non sei indifferente, lo devi sapere anche dimostrare. Io sono qui, impara a guardare, io sono qui pronto a guarire lentamente, a dimenticarmi per ricominciare. È giunto il momento di chiudere le pagine di questo diario. So che il tempo lo rende improbabile e le tue foto lo rendono difficile. Non riesci davvero a vedere intorno ai miei occhi? Hai avuto tanti segni, e io solo tanta esperienza. È vero, certe cose, per capirle, devi sentirle. Ti ho ceduto il mio bene, ma l'hai intrappolato nel ghiaccio. Alzati dal tuo posto, ti prego, reagisci. Siediti qui vicino a me, guardami e dimmi che non sono solo. Certe cose possono aiutare, perché tu puoi vedermi, mentre io non riesco più. 41 Vita di Club n.1 Addio Il freddo condensa il dolore masticato, ormai distinguo il suo sapore, non è difficile. Ha una strana piacevolezza. Emana profumo di lavanda, ne ha anche lo stesso colore nostalgico. Il dolore è molle e ti brucia dentro le viscere. Bussa sotto la pelle, travolgendo tutto il resto. Ti avvolge dolcemente tra le sue spire, ti accarezza e ti riduce al nulla. Crudeltà o umanità? Dove sta la differenza? Una ragnatela d'acqua gelata che lava il mio corpo livido: questa è la sofferenza. Annullarmi tra il pollice e l'indice della mente. Semplice. Come appare ogni sofferenza: semplice. Il sole ora sfuma nel pallido, la luce non mi riscalda, acceca. L'abitudine al buio rende fastidiosi i bagliori. Strano come le cose possano cambiare così, da un lunedì a un martedì. Le visioni vengono sostituite una volta presa coscienza. Questo è ciò che distingue la sofferenza dall'insensibilità. Piango, ma in silenzio. Urlo, ma nessuno ora può sentirmi. Posso negare immagini passate per star meglio? Posso dimenticarti? Perderei i ricordi, e con essi pulirei il passato. Le memorie rendono le persone ciò che sono. Negando il passato, annienterei me stesso. Ancora posso osservarti, ma non so quanto mi permetteranno di ricordare. Il tuo viso non rispecchia ciò che provi dentro. Cosa nascondi? La vita non è un gioco, o almeno non lo è sempre, accetta gli errori, anche senza condividerli. Non essere triste, me ne renderei conto. Sai, il mio cuore è una macchina fotografica, che ha catturato solo i momenti più belli, mentre la mia mente nascondeva i momenti tristi. Col tuo aiuto sono cresciuto, ho colto i colori. Non azzardarti dunque a soffrire per me, non ne hai motivo. Mi hai guarito, te ne sono grato. Ora però è tempo che vada. Prima di dissolvermi mi fermo, ti studio un'ultima volta. Assaporo nei dettagli la tua forma. Quella stessa che custodirò indelebilmente nelle mie memorie una volta partito. Non so cosa mi aspetta, ma sarò al sicuro. Un'ultima lacrima non vista, un ultimo sorriso e un ultimo saluto: "Ti amo". MANUELE BRAVI, nato a Rimini il 6 Settembre 1990, ma residente a Sant’Arcangelo con i genitori ed una sorella, è cieco al 100% dalla nascita. Ha frequentato il Liceo scientifico "Marie Curie" di Savignano sul Rubicone e conseguito la laurea in "Scienze del comportamento e delle relazioni sociali" presso la Facoltà di Psicologia dell'Università di Bologna - Polo distaccato di Cesena. Sin dall'età di 16 anni ha praticato attività natatoria a livello agonistico, conseguendo un primato: è infatti ancora oggi detentore di 8 record italiani cat. S11. Il Lions Club "Rubicone" gli ha donato una speciale attrezzatura da usare in allenamento che gli permette di mantenere le traiettorie in piscina. Dall'età di 8 anni suona il pianoforte; come autore di poesie ha vinto diversi premi, fra cui anche un Premio di poesia bandito dal Lions Club "Rubicone". Ha seguito un corso di orientamento e mobilità con Mario Fossati che risulta essere un luminare nel settore. Per la mobilità si avvale del bastone bianco oppure è accompagnato dai familiari. Per una maggiore autonomia ha fatto richiesta per un cane guida. 42 Vita di Club n.1 MONDO LIONS LATINUS LUDUS Sotto l’egida del Lions Club Cattolica e del Comune di Mondaino è programmata per il 28 aprile, 2 giugno 2013 la XXV edizione del Latinus Ludus, che – come è spiegato nel Bando di Concorso - è un concorso in onore dell’abate Sebastiano Sanchini (1763-1835), mondainese, precettore del poeta Giacomo Leopardi, ed ha finalità di gioco, socialità e divulgazione della cultura classica. In quanto gioco, persegue il fine di sportiva competizione nel rispetto delle regole ludiche e degli altri contendenti. In quanto socialità, tende all’incontro con compagni di studi appartenenti ad Istituti e Città diversi. Relativamente alla divulgazione della cultura classica, si prefigge di stimolare gli studenti al suo studio e approfondimento e di offrire ai docenti percorsi estranei a quelli istituzionali. La commissione, composta da docenti dell’Università di Urbino, si avvarrà, per la valutazione degli elaborati, della collaborazione di docenti di Scuola Media Superiore, tra cui soci Lions e consorti di Lions. Riportiamo la storia dell’esimio precettore tratta da: Rosa Sanchini Forestiere, “Don Sebastiano Sanchini Precettore del poeta Giacomo Leopardi”, Mondaino, 1991. S ebastiano Sanchini nacque la sera del 19 gennaio 1763 a Laureto, frazione di Mondaino, allora territorio dello Stato Pontificio. Il padre Pietro, agricoltore benestante, apparteneva ad una delle più antiche famiglie locali. In questa zona di campagna Sebastiano passò la sua fanciullezza circondato dalla famiglia, composta oltre che dal padre, dalla madre Brigitta e da sette fratelli e sorelle, tutti maggiori di lui. Da questa infanzia avrebbe attinto un patrimonio umano di conoscenze ricco di comprensione per il prossimo, che formò il suo carattere e lo rese capace di affrontare, poi, anche le situazioni più difficili. La sua formazione culturale iniziò nel Convento di Mondaino sul colle denominato Monte Formosino. Nel 1786 Sebastiano Sanchini fu nominato Sacerdote e si trovò a compiere una scelta. Per chi, come lui, proveniva da una famiglia di campagna agiata, ma priva di titoli nobiliari, due erano le possibilità: tendere ad avere la cura delle anime di una parrocchia rurale o trovare collocazione presso una famiglia altolocata, in qualità di maestro-precettore. L’amore per le materie letterarie ed umanistiche e la grande considerazione del tempo per il ruolo di precettore di giovani fecero optare Don Sebastiano per questa seconda scelta. Nel 1800, dunque, cominciò questa particolare esperienza e fu istruttore presso la famiglia dei Conti Cassi di Pesaro, congiunti dei Leopardi. Nel 1807, su consiglio del suo ex allievo Francesco Cassi, il Conte Monaldo Leopardi chiamò Don Sanchini a Recanati perché facesse da maestro per i figli Giacomo, Carlo, Paolina e Luigi. Si mise all’opera con sollecitudine per rispondere alle speranze in lui riposte. I ragazzi lo assecondarono con grande volontà, in questo spinti dal padre che seguiva personalmente l’andamento degli studi; specialmente Giacomo dimostrò una precocità d’ingegno che “quasi stordiva”. Questa scuola domestica fu improntata alla cultura tipica del tempo, dove particolare privilegio avevano gli scrittori classici latini, tra cui in particolare Orazio, non disdegnando lo studio delle materie scientifiche. Giacomo era quello che tra i fratelli emergeva a meraviglia con potente memoria e duttilità d’ingegno, spesso aiutando gli altri fratelli. Uno dei meriti del precettore fu quello di stimolare Giacomo bambino ad esprimere in versi il misticismo della natura. L’opera d’insegnamento proseguì fin al 20 luglio 1812, anno in cui Don Sebastiano comunicò al Conte Monaldo “che era giunto il momento da lui previsto e riteneva compiuta la sua opera di maestro”. Lasciò traccia indelebile nella memoria del poeta che alla sua morte, il 23 luglio 1835, scriverà a fronte di un libro intitolato “Poesia e prose in morte di Amaritte” dell’abate-conte G.L.Pellegrini: “Donato alla libreria Leopardi per lo chiarissimo e dottissimo uomo il Signor Don Sebastiano Sanchini morto tra le lacrime di tutti i buoni e vero cordoglio dei suoi moltissimi amici”. 43 Vita di Club n.1 CURIOSITÀ DANTESCHE DANTE ALIGHIERI QUESTO SCONOSCIUTO Quando si pensa a Dante Alighieri non si può fare a meno di rappresentarselo come lo abbiamo conosciuto nelle illustrazioni scolastiche tramandate nei secoli: il tipico copricapo sulla testa cinta di alloro, il nasone prominente (e possibilmente aquilino) e, addosso, il pastrano rosso lungo fino a terra. Ma lo conosciamo veramente? Immaginiamolo alle prese con l’Ufficiale dell’anagrafe di Firenze per farsi rilasciare un documento di riconoscimento in occasione di un viaggio da fare in Romagna... di ANGELO CHIARETTI Dante secondo Sandro Botticelli. Buona giornata, Messer Ufficiale: per circolare in Romagna mi occorre un documento d’identità da mostrare alle porte delle città! Ebbene, ditemi: come vi chiamate, Messere ? - Dante … no! Durante … no! Dantino … no! Filippo … no! Titiro … no! Messere, qual è il vostro soprannome? - Alighieri … no! Allegher i… no! Aldighieri… no! Elisei ... no! Ebbene, quando siete nato? - Il 30 maggio … no! Il 3 giugno … no! Il 13 giugno ... no! Sotto il segno dei Gemelli. In quale anno? - 1265 … no! 1266 … no! Ma insomma! Quanti anni avete? - Nel mezzo del cammin di nostra vita … Dove risiedete in Firenze? - In Borgo san Pier Maggiore … no! Presso la Torre della castagna … no! Quanto siete alto? - Un metro e 56 … no! Un metro e 63… no! Colore dei capelli? - Neri … no! Castani … no! (si toglie la celebre cuffia) Non mi canzonate: calvo! Ricordate il profeta Eliseo! (in tono minaccioso) Carnagione? - Chiara … no! Olivastra … no! Scura … no! Colore degli occhi? - Castani … no! Azzurri … no! Naso? - Aquilino … no! Alla provenzale … no! Forma della bocca? - Carnosa … no! Labbro inferiore leporino … no! Professione? - Medico … no! Speziale … no! Alchimista … no! Poeta ... no! Ambasciatore … no! Quanti figli avete ? - 4: Pietro, Jacopo, Francesco, Antonia … no! 4: Pietro, Jacopo, Francesco, Beatrice … no! 7: Pietro, Jacopo, Francesco, Dantino, Giovanni, Antonia, Beatrice ... no! Come si chiama vostro padre? - Alighiero … no! Aldighiero … no! Allaghiero … no! E vostra madre? - Bella … no! Gabriella … no! Avete fratelli o sorelle? - Sì: Gaetana e Ravenna … no! Tana e Ravenna … no! Siete laureato? - No! ... Sì! No! Siete voi l’autore della Divina Commedia? Sì!… No! In parte! Segni particolari? - Nessuno … no! Un occhio accecato … no! Ma insomma, Messere, tornate domani quando avrete le idee più chiare! (fra sé e fuori di sé) Questo fiorentino, dovendo nascondersi, ne sa una più del diavolo! Il più antico ritratto documentato di Dante Alighieri conosciuto, Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai, Firenze. 44 Vita di Club n. 1 MEETING MAGICO DANTE ALIGHIERI-ANGELO CHIARETTI!!! «Non c’è dubbio che Dante Alighieri sia l’autore più studiato al mondo (ogni anno vengono pubblicate circa 400 opere di approfondimento circa la vita e le opere) ma pochi sanno che la sua biografia è stata costruita sui “si dice” e su molti avvenimenti leggendari e che pochissimi fatti sono certi, cioè suffragati da documenti oggettivi. Della stessa Divina Commedia (che si chiamava solo Commedia) non abbiamo un testo inconfutabile, poiché il manoscritto originale non ci è pervenuto ma dobbiamo fare riferimento alle copie realizzate da Jacopo Alighieri (uno dei figli di Dante). da Francesco da Barberino (uno dei suoi amici che formavano la brigata dei Fedeli d’Amore) ed altri». Queste e mille altre considerazioni sono emerse dall’entusiasmante percorso nella leggenda del sommo poeta in cui Angelo Chiaretti, Ufficiale della Repubblica Italiana per meriti culturali, Ispettore Onorario per la paleontologia del Ministero beni Culturali ed Ambientali, Presidente del Centro dantesco San Gregorio in Conca, nonché Lions del Club Cattolica, ci ha guidati durante il meeting del 21 novembre interamente dedicato al tema dantesco a partire dal menu. L’inventiva vulcanica del relatore, sommata all’inesauribile contenuto della Commedia che si presta a trattare ogni argomento dall’amore alla politica, dalla medicina alla religione, dalla geografia all’astronomia, dalla storia alla profezia ecc. ecc., ci ha fatto gustare ogni momento della serata tra un piatto e Da sinistra il past presidente Roberto Morbidi, il presidente l’altro (Frittatina alla Glauco, “Suppa” alla Beatrice, Gianfranco Simonetti ed il prof. Angelo Chiaretti. Carni bollite alla San Pier Damiani, Tortino di frutta mistica!!!), un aneddoto e l’altro (Dante, passeggiando per una via di Verona, passò davanti alla bottega di un fabbro e rimase basito sentendolo canticchiare versi dell’"Inferno", storpiati malamente. Entrare nella bottega e gettare sulla strada martelli, tenaglie, pinze e oggetti in lavorazione fu tutt’uno, senza proferir parola. Il fabbro, annichilito e furioso, gli chiese perché stesse guastando il suo lavoro. Dante fieramente rispose:"E tu perché guasti il mio?"), una citazione e l’altra (Pg. XXXI vv. 100-105 «La bella donna ne le braccia aprissi; / abbracciommi la testa e mi sommerse / ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi. / Indi mi tolse, e bagnato m’offerse / dentro a la danza de le quattro belle; / e ciascuna del braccio mi coperse»)1. L’entusiasmo e la passione di Chiaretti sono coinvolgenti e portano l’attento uditorio a seguirlo nelle mille divagazioni con cui arricchisce il suo racconto; sapete che esiste l’Accademia del Bacio? Tre sedi al mondo, una in Inghilterra, una in Russia, la terza … naturalmente a Mondaino! L’iniziativa è del Centro di Studi Danteschi San Gregorio in Conca (leggasi Angelo Chiaretti) che ha sede presso l’antichissimo Mulino delle Fosse della Porta di Sotto e l’attività dell’Accademia consiste «nell’illustrare il valore culturale, mistico e sensuale del bacio, uno dei gesti più antichi ed importanti nella vita dell’uomo e della donna fin dalla notte dei tempi, tanto che ne esistono oltre cinquanta tipi ed in altrettante posizioni (olfattivi, labiali, sulla guancia, sulla mano, ecc. ecc.)»! Solleticando il gusto con i prodotti del Mulino (formaggi, vino, confetture, dolcetti ecc.), si eleverà lo spirito con letture eccelse di pagine letterarie rievocanti suggestive storie d’amore dove il bacio è protagonista in tutta la sua bellezza e nobiltà, «vero ed unico antidoto contro ogni forma di violenza e di malinconia»! 1 Quando Dante, svenuto ai durissimi rimproveri di Beatrice, riprende i sensi, vede china su di sé Matelda che lo immerge anche con la testa nelle acque del Letè, costringendolo a bere. Lo fa poi entrare nel cerchio danzante delle quattro belle Donne presso la ruota sinistra del Carro (le quattro Virtù Cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, già guide morali nel mondo antico, ma imperfette), che lo coprono con le loro braccia. Esse, ancelle di Beatrice, insieme alle tre che stanno alla destra del Carro (le tre Virtù Teologali: Fede, Speranza, Carità, che hanno occhi più profondi per penetrare nelle verità divine), lo conducono davanti a Beatrice, "donna venuta di cielo in terra a miracol mostrare", cantando: “Volgi i tuoi occhi santi al tuo fedele che, per vederti, ha fatto un così lungo viaggio”. 45 Vita di Club n. 1 Presente al meeting un importante operatore turistico russo Yuri, che porta migliaia di visitatori a Rimini e dintorni e si è molto divertito filmando ogni cosa; gli abbiamo consegnato una copia della nostra rivista “Vita di Club” per ricordo. Al termine, con nostra sorpresa e soddisfazione, abbiamo notato che effettivamente la digestione dell’abbondante Cena Dantesca era perfettamente riuscita! Della ricchissima, inesauribile dissertazione riportiamo alcuni stralci. Anna Mariotti Biondi METTI UNA SERA A CENA CON DANTE ALIGHIERI di ANGELO CHIARETTI L a presenza della gastronomia nella “Divina Commedia” e nelle altre opere di Dante Alighieri risulta davvero ricca: in questi miei lunghi anni di palpitazioni dantesche, mi sono divertito anche a confezionare un menù, completamente tratto dai testi dell’Alighieri, mirante a realizzare l’immagine di un Dante dal volto umano, come se fosse uno di noi. Ecco un esempio di cena dantesca: Tartare di Madonna Bellaccoglienza: si tratta delle classiche cialde abruzzesi, preparate con l’apposito attrezzo ed avvolte appena calde ad un cuore di formaggio di fossa, facendole diventare un cannolo. Madonna Bellaccoglienza è la sensualissima protagonista del romanzo in versi “Il Fiore”, che Dante scrisse traducendo dal francese il “Roman de la rose” (Il Fiore CXXV). Frittatina alla Glauco: una frittata al formaggio di fossa (da servire calda a spicchi) con aggiunta di alghe oppure erbe aromatiche “di campagna”, che la rendono delicatamente magica. Glauco, mitico pescatore della Beozia, dopo aver depositato su particolari erbe i pesci pescati, li vide rinfrancarsi e tuffarsi in mare. Mangiate a sua volta quelle alghe, si trasformò in pesce e divenne divinità marina (Pd. I). Suppa alla Beatrice: è una zuppa di orzo o farro a base di verdure tricolori con una pioggia di formaggio di fossa grattugiato. Beatrice, vestita di bianco-rosso-verde, annuncia che la giustizia di Dio non teme “suppe” (con la s), facendo riferimento alla curiosa usanza fiorentina di condonare anche i reati più gravi ai colpevoli che fossero riusciti a mangiare almeno sette volte una tal zuppa sul luogo del delitto senza farsi arrestare (Pd. XXXIII). Mense alla Virgilio: ovviamente piada romagnola. Nell’Eneide il poeta, che funge da guida di Dante nella “Divina Commedia”, narra che i Troiani di Enea, sbarcati in Africa, conobbero l’usanza di mangiare anche le mense su cui avevano appoggiato le vivande: appunto la piada, che portarono prima a Roma e poi in Romagna (If. I). Carni bollite alla S. Pier Damiani: listelle di carne di manzo bollito e condite con olio, aceto, prezzemolo e scaglie di formaggio di fossa. Dante dice che San Pier Damiani, fondatore dell’Abbazia di San Gregorio in Conca di Morciano di Romagna e Rettore dell’Abbazia benedettina di Fonte Avellana sul Monte Catria (PU), si cibava unicamente di carni bollite e condite all’olio di oliva (Pd.XXI). Salse alla Ciacco: mostarda piccante bolognese. Ciacco è un misterioso personaggio fiorentino, popolare per la gran quantità di cibi trangugiati e condannato da Dante fra i golosi dell’Inferno (If. XVIII). Castrone alla Forese Donati: agnello al forno oppure fritto oppure alla brace. Dante ne parla in uno dei sei sonetti della “Tenzone contro Forese Donati”, l’amico-parente fiorentino, che però condanna fra i golosi del Purgatorio (“La Tenzone”). Verdure guelfe: “cruditées” come finocchi, peperoni, carote, sedani ecc., che creino l’accostamento di bianco-rosso-verde (Fede- 46 Vita di Club n. 1 Speranza-Carità per i cristiani, ma anche colori delle bandiere guelfe) (Pg. XXX). Miele e formaggio di fossa del Monte di Diana: è un accostamento ormai classico, dal tocco notoriamente afrodisiaco, che teologicamente aggiunge alla Sapienza del latte la Giustizia del miele. Il riferimento a Diana, di cui Dante è cultore come dea della notte e della luna, rimanda all’antica etimologia di Mondaino (“Vicus Dianensis”), divenuto recentemente una delle capitali mondiali del formaggio di fossa. (Pd. XVIII). Torta di frutti mistici: si tratta di una torta a base di mele, pere, susine, fichi (anche secchi), che, in ogni religione, rappresentano la base dell’ecumenismo ecclesiale (Pg. XXII). Acqua del Fiume Leté: si tratta dell’acqua Lete, attualmente in commercio, da servire in brocca. Quando Dante giunge nel Paradiso Terrestre viene immerso da una “bella donna” di nome Matelda nel fiume Leté, così chiamato perché capace di cancellare i peccati commessi (un vero e proprio battesimo!) e ne riemerge in grado di continuare il suo viaggio verso il Paradiso Celeste (Pg. XXVIII). Del resto sono notissimi sia i canti che il poeta fiorentino ha dedicato ai golosi nell’Inferno e nel Purgatorio, sia gli aneddoti relativi alla sua perenne fame. Dante ha coniato per i mangioni anche un neologismo: “SCUFFARE” che significa appunto mangiare avidamente e rumorosamente. Infine, per non essere frainteso, si è impegnato in un percorso altrettanto significativo: il rapporto fra alimentazione ed erotismo: non a caso i golosi del canto VI dell’Inferno vengono subito dopo i lussuriosi (Paolo de’ Malatesta da Rimini e Francesca da Polenta di Ravenna) ed inversamente, in Purgatorio, coloro che cedettero ai piaceri dei sensi stanno nell’ultima delle sette cornici immediatamente dopo i golosi e già con un piede nel Paradiso Terrestre! Ed ora, dopo aver gustato frittatine e tartare, la famosa “suppa” (con la s) di verdura cancella reati (e poi si dice che il nostro è il tempo dei privilegi della casta!!) e le carni bollite alla S. Pier Damiani (per tutti coloro che vogliano approdare alla vita contemplativa) ed aver raggiunto il paradiso con un dolce fatto di mele, pere e chicchi di melograno (mela = tentazione di Eva; pera = redenzione di Adamo; melograno = frutto che indica la forza del gruppo e che consente meravigliosamente il passaggio dal male al bene!!!), squarciamo il velame (canto IX dell’Inferno) della vita di Dante uomo e non solo poeta (come voleva il grande Giovanni Papini). Innumerevoli sono gli aneddoti significativi, a cominciare da quello dell’incredibile sogno della madre di Dante prima di darlo alla luce; secondo il racconto del Boccaccio la sua nascita le fu preannunciata da una visione: sognò di trovarsi sotto un alloro altissimo, in un prato vicino ad una sorgente insieme col figlio appena partorito, e di vedere Dante tendere la mano verso le fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un magnifico pavone. Divertente quello relativo ai rapporti fra l’Alighieri ed il suo maestro Cecco d’Ascoli relativamente alla possibilità di educare una gattina a reggere il moccolo delle candele che il Poeta usava nelle notti insonni. Estremamente attuale, poi, (visto lo stato di salute del nostro sistema politico), l’aneddoto relativo alla denuncia di un cavaliere fiorentino (Filippo Argenti, imparentato con gli Alighieri!) che si era raccomandato a Dante per ottenere favori dal Magistrato: alla fine, il povero Filippo Argenti venne doppiamente condannato, sia per la raccomandazione richiesta sia per il reato per cui si era raccomandato! O tempora, o mores! Testimonianza del carattere difficile dell’Alighieri sono gli aneddoti relativi alla lite di Dante con un carrettiere che storpiava i suoi versi ed alla superbissima esclamazione “S’io vo, chi resta? S’io resto, chi va?” pronunciata dal Poeta in occasione della pericolosissima ambasceria dei fiorentini alla corte di papa Bonifacio VIII, che si rivelerà fatale per Dante e gli costerà la condanna e l’esilio. Una volta Dante venne invitato a Verona da Cangrande della Scala (giovane birichino e suo ammiratore) per dimostrare, coram populo (cioè davanti a tutti), la virilità di cui andava famoso. Venne allestita la tenda affinché tutti potessero vedere, fu fatta entrare una cortigiana, la quale dopo un po’, però, se ne uscì dicendo amaramente che il celebre amatore sarebbe stato meglio definirlo "Messer asso!", cioè capace di amare una sola volta. Punto nell’onore, Dante rispose sarcasticamente e nel divertimento generale che se quella cortigiana fosse stata più giovane, avrebbe fatto valere molto maggiormente le proprie virtù mascoline: "Madonne et Messeri, se l’anello non fosse stato arrugginito, il cavaliere avrebbe fatto centro più volte con la propria lancia; se la tavola non fosse stata tarlata, il giocatore avrebbe calato più volte l'asso di bastoni!" 47 Vita di Club n. 1 E se ne andò impettito. Circa le sue tecniche amatorie il Sommo Poeta rivela una doppia strategia: a) La tecnica del sospiro, consistente nel far leva sulla sensibilità femminile, celebrando con le parole la bellezza degli occhi, la dolcezza della bocca, l'eleganza nell'incedere della donna in questione, definendola donna angelicata, cioè angelo disceso dal cielo sulla terra per far innamorare gli uomini e costruire un mondo di pace. La maggior parte delle donne non avevano (e non hanno) scampo di fronte a tanta ammirazione!!! In questo caso Dante diede prova della tecnica nel sonetto di endecasillabi "Tanto gentile e tanto onesta pare". b) La tecnica dell'orso, da adottare quando la donna in questione si chiama Pietra (nomenomen!!!) o comunque non cede alla blandizie mascolina: si tratta di costringerla in un angolo della stanza o della via (Dante abitava proprio di fronte alla celebre Torre della castagna...) fin dal primo mattino e cominciare a darle morsetti e bacetti sul collo a non finire, senza mai smettere, anche se suonano le campane di mezzogiorno o del vespro, così come fanno gli orsi con le loro femmine. Alla fine (convinta oppure esausta!!!) la donna non può che cedere alle avances dell'innamorato. Al fine di fornire ai propri lettori un esempio di questa tecnica, Dante Alighieri compose la rima "petrosa" “Così nel mio parlar voglio esser aspro"! Abbiamo accompagnato tutto questo col vino “Gianciotto” (poteva non esserci in una Cena Dantesca?) ed un pizzico di erotismo, distribuito fra una portata e l’altra, nella convinzione che Dante (come medico e speziale se ne intendeva) avrebbe consigliato, per digerire una cena abbondante, di trattare argomenti pruriginosi, che favoriscono la secrezione di succhi gastrici ed amminoacidi preziosi per la digestione. In fondo Dante se ne intendeva facendo parte, almeno in gioventù, di quelle brigate goderecce e spenderecce che anche in Firenze andavano allora di moda fra la nobiltà ed il ceto mercantile. Benvenuto da Imola, nel suo Commento alla Commedia di Dante, ricorda come questi giovani ferrassero d’argento gli zoccoli dei loro cavalli, cuocessero le carni su braci di chiodi di garofano ed altre costosissime spezie, friggendo i fiorini d’oro in una pastella d’uovo, che veniva succhiata per poi sputare i fiorini a terra: chi fra loro avesse risparmiato qualche denaro sarebbe stato dichiarato indegno di far parte della compagnia. Infine vi annuncio di aver fondato a Mondaino una “Accademia dei baci”, dove si studiano ben 50 tipi di approccio sentimental-amoroso partendo dal celebre “la bocca mi baciò tutto tremante”, illustrato da Francesca da Polenta nel canto V dell’Inferno dantesco!! E per non deludere le aspettative di una Istituzione così importante (a cui molti dei Soci hanno chiesto di iscriversi!!!) l’ho gemellata con Accademie simili esistenti a Brigton (Inghilterra) e Krasnojarsk (Russia), dove praticano un inquietante “bacio del cavatappi” che sta facendo il giro del mondo per fama e curiosità. «IURA MONARCHIAE SUPEROS FLEGETONTA LACUSQUE LUSTRANDO CECINI VOLUERUNT FATA QUOUSQUE SED QUIA PARS MELIORIBUS HOSPITA CASTRIS ACTOREMQUE SUUM PETIIT FELICIOR ASTRIS HIC CLAUDOR DANTES PATRIIS EXTORRIS AB ORIS QUEM GENUIT PARVI FLORENTIA MATER AMORIS.» Epigrafe sul sepolcro di Dante in versi dettati da Bernardo da Canaccio nel 1366. «I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte (gli inferi) visitando cantai finché volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla patria terra, cui generò Firenze, madre di poco amore.» La supposta casa di Dante a Firenze. Il Palazzo dell'Arte dei Giudici e dei Notai a Firenze. 48 Vita di Club n. 1 La Tomba di Dante a Ravenna, tempietto neoclassico opera di Camillo Morigia (1780). NEWS DALL’ENTROTERRA IL RITORNO DEGLI ANGELI Restaurata la Chiesa di Santa Maria dell’Olivo a Maciano di Pennabilli. di ANNA MARIOTTI BIONDI Q ualcuno dei venticinque lettori della nostra rivista ricorderà il desiderio, espresso in un mio articolo intitolato “Angeli invisibili” (Vita di Club 20092010 n. 2), di rivedere la Chiesa di Santa Maria dell’Olivo a Maciano di Pennabilli e il suo altare coronato di angeli. Ebbene una bacchetta magica l’ha esaudito e frammenti della mia infanzia sono stati ricomposti. Lasciata negli ultimi decenni chiusa e in fortissimo degrado, la chiesa è stata finalmente restaurata insieme con parte del convento con fondi della Comunità europea grazie alla Diocesi San Marino-Montefeltro. Costruita dai Macianesi negli anni 1524-1529 nel luogo dove la Madonna era apparsa sopra un olivo ad una pastorella, è stata riaperta al culto il 20 maggio 2012, in occasione della festa di San Pasquale Baylon. Alla cerimonia sono intervenuti il Sindaco di Pennabilli Lorenzo Valenti e lo storico dell’arte Pier Giorgio Pasini, il quale ha intrattenuto i numerosissimi presenti con una interessante relazione sulla storia della Chiesa e del Convento. L’autore dell’opera tornata a risplendere nei suoi smaglianti colori sul prezioso paliotto policromo del XVIII, per la quale furono prese come modelle due bimbe del paese, Francesca Magni, la bionda, e Maria Manenti, la bruna, è padre Pietro Pietroni, frate francescano nativo di Castelplanio (1885-1961). Nella sua terra, nella valle dell’Esino, ha lasciato gli affreschi sulla volta dell’abside della chiesa di Piagge, intitolata alla Madonna del Carmine, e, tra le tante opere, a Bologna ha decorato l’abside della chiesa dell’Antoniano e il presbiterio della parrocchiale di S. Sebastiano. 49 Vita di Club n.1 CURIOSITÀ LINGUISTICHE Da quando Rimini ha ampliato il suo territorio inglobando una bella fetta di frontiera marchigiana è diventato imperativo conoscerne i caratteri, le curiosità, le tradizioni. Ad esempio abbiamo scoperto che … da quando Maciano di Pennabilli è in provincia di Rimini, città internazionale dove circola una babele di lingue, si è reso necessario non già dimenticare il suo dialetto per adeguarsi ai tempi più esterofili, ma rispolverarlo sottolineandone la duttilità, le acutezze, la modernità … Così un gatto, anzi Il gatto con gli stivali come dichiara il suo pseudonimo (i Macianesi sono definiti “gatti” dai Pennesi), macianese di origine controllata, nonché avvocato in Rimini, scrive un’esilarante spiegazione della suddetta necessità … sulle pagine di “Tutto Maciano”, che dal 1978 racconta la cronaca di un paese qualunque. Anna Mariotti Biondi GUIDA SEMISERIA AL PARLARE MACIANESE Dell’importanza di parlare e comprendere correttamente la lingua natia. di ROBERTO GIANNINI G ià nel 2004 si pubblicava sulle pagine di “Tutto Maciano” una fortunata (siccome apprezzata) “Analisi semiseria della contemporaneità del parlare macianese”, a distanza di alcuni anni, necessita ritornare, seppur parzialmente e seppur sotto diverso profilo, sull’argomento, valutando la lingua macianese non tanto in relazione alla sua attualità bensì in relazione all’importanza di ben comprenderne il significato ed i contenuti e di ben articolare il predetto idioma per poter agevolmente far fronte a tutte le situazioni in qualsiasi parte del globo terrestre. Ed invero, la padronanza della lingua del paesello consente, di per sé, di agevolmente interloquire con buona parte degli stranieri (cosiddetti: frustir), ciò anche in ragione della metamorfosi lessicale del macianese; il sottoscritto, del resto, parla un fluente spagnolo (!) ed anche francese (!) siccome, là dove non arrivano le nozioni di lingua ispanica o francofona, arriva il macianese. Ma un esempio potrà agevolare la comprensione di quanto dico: puta caso che un macianese sia in vacanze a Madrid ed ivi incontri uno spagnolo e intenda chiedergli “Come stai? Dove vai?” la frase che lo stesso comporrà in lingua locale sarà la seguente "Cum t’sta? An dut va?" e l’iberico in questione potrà tranquillamente comunicare la propria condizione e la propria destinazione siccome nella sua lingua la stessa frase suona cosi "Coma estas? A donde vas?"; ragionamento pressoché identico vale nel caso in cui lo stesso macianese, a zonzo per i reconditi e splendidi vicoli parigini, incontri un amico francese e gli chieda, egualmente “Come stai? Tutto bene?” Orbene, avvalendosi della sopra menzionata metamorfosi lessicale, il gatto, anche se non parla correttamente il francese, potrà chiedere “Cum cla va? (che è l’equivalente del semplice "Cum t’sta”) Tot ben?" e anche quest’ultimo amico parigino potrà rispondere alla domanda perché nella sua lingua la traduzione è la seguente “Comment ça va? Tout bien?" Ecco allora il perché i giovani ed i bambini, oltre allo studio regolare dell’italiano, devono avere assoluta padronanza dell’antica lingua degli avi; perché ciò gli consenta di sopperire alle eventuali lacune nelle altrui lingue (... non sarebbe male se al liceo linguistico dal Marcatin inserissero lo studio del Macianese DOC!). Recentemente ho trascorso alcuni giorni, meravigliosi, a Maciano e qui mi sono aggirato bellamente per le borgate spingendo il passeggino di mia figlia Ginevra che, ovviamente, viene già introdotta all’uso del macianese dai saggi nonni, entrambi oltremodo maestri e padroni della lingua locale (al proposito ho in predicato la pubblicazione di un vocabolario macianese-italiano con la supervisione del duo Barbacia-Micalon)! Alla stessa pargola, per il tramite dei di lei genitori, 50 Vita di Club n. 1 sono state rivolte una serie di frasi che, se non conosciute nel loro più profondo e radicato significato lasciano, ovviamente, basito l’interlocutore; cosa non occorsa a mia figlia (e neppure alla di lei madre) siccome ho prontamente sopperito alle lacune lessicali con una efficace traduzione. In particolare, in ragione dei suoi otto mesi, Ginevra viene chiamata “znina” (piccola) o, in alternativa, con il tenero “muscosa” (mocciosa, aggettivo che in età adulta muta per divenire “murganton” finalizzato a definire il giovanotto che, pur in tarda età, non si stacca dalla casa familiare! I famosi bamboccioni di cui tanto si è discusso sui quotidiani qualche anno addietro erano già stati stigmatizzati dai saggi antenati macianesi! Il tutto, ad ennesima dimostrazione, casomai ve ne fosse necessità, della contemporaneità e dell’avanguardia del nostro parlare!) e per l’interesse che dimostra nei confronti di tutto ciò che la circonda é stata definita “bichessa" che altro non é se non la traslazione al femminile del più noto "bicut" . L’aggettivo adottato nei confronti di un bambino ardito e disinvolto invece è "sberr" o “sberra” (al femminile), termine che accresce di grado per divenire “piterra” laddove la pargola mostri, per carattere o per la tenera età, la non soggezione nei confronti di terzi da poco conosciuti! Al contrario se la bambina non dà confidenza agli estranei e rimane distaccata al limite di sembrare sprezzante viene nominata “pacona” da cui la nota famiglia macianese detta "i pachess" -. E se la bimba si bea delle attenzioni dei familiari è chiamata "muscena” mentre l’atto proprio di coccolare e prendersi cura del bambino é detto "badurlà”. Il perseverante immotivato lamento del fanciullo a mo’ di nenia é definito dalla madre macianese DOC “dul” mentre l’imprecazione paterna dovuta alla esasperazione del predetto protratto lamento è “oschia che dul” che accresce di intensità proporzionalmente al prolungarsi del piagnucolio fanciullesco fino a divenire un “sa sto dul la cheva i sentment” (affermazione utilizzata spesso anche nei confronti di adulti particolarmente noiosi e ripetitivi nell’espressione di un loro fittizio malessere. Se poi l’adulto protrae oltre misura il dulo, lo stesso assurge al rango di “gnorgna” ed il lamentante diventa “gnurgnon”! Ecco una breve sintesi e traduzione della terminologia, utilizzata in loco, per interagire con il mondo fanciullesco; come detto, un’esatta padronanza della lingua locale, per le caratteristiche sue proprie, è dimostrato che facilita la comunicatività a livello internazionale. Provate! Chissà mai che con una profonda conoscenza del buon parlare macianese non vi si aprano le porte di nuove e fulgide carriere in altri paesi! CURIOSITÀ VENATORIE UNA PASSIONE ANTICA E un curioso epitaffio: “In questa tomba è un cacciatore serrato / che per mirar il ciel, fuor dell’usato / uscito appena un dì dal casotto / non si sa mo il perché, morì di botto”. di MARIO ALVISI P rendendo spunto dalla passione antica del nostro socio Maurizio Graziosi, cacciatore ‘incallito’, grazie al quale ogni anno si organizza per il club una luculliana cena a base di cacciagione, ho letto un libro 1 per capire le ragioni di una pratica che, pur 1 Federico Montanari e Giampiero Semeraro, “Cacce e costumi venatori di Romagna”, La Biblioteca del Titolo, Maggioli editore. essendo oggi vituperata, resiste nel costume, soprattutto della nostra Romagna. L’attività venatoria per i vecchi cacciatori (vecchi per numero di licenze, ma giovani per ardore di cuore e di passione) era molto più di uno sport o di un semplice divertimento, era una parte importante della loro vita, se non la principale ragione di vita. Per alcuni di loro l’andare a caccia, il portare a casa la selvaggina, 51 Vita di Club n. 1 parecchie volte è stato un modo di procurarsi la maniera di sopravvivere. Per questo stampo di cacciatori romantici, presi da una passione talmente forte che perfino vi era chi “faceva puffi al lavoro”, la caccia era libertà sconfinata: libertà di andare su e giù per le colline, o lungo le dune del litorale, o per le larghe pianure, o nelle lagune o nelle paludi, quando ancora le condizioni ambientali ed il numero dei praticanti rendevano tollerabile una attività venatoria senza limitazioni. Ma è anche orgoglio di aver scelto un certo genere di caccia e di praticarlo con onestà e dedizione in un ben definito ambito territoriale. Questo significava andare in bicicletta, ma più spesso a piedi (qualche volta in corriera, se c’era) ad aspettare un particolare tipo di selvatico, preparandosi a questa attività nei pochi momenti che rimanevano liberi dalle pesanti occupazioni del lavoro quotidiano: la confezione delle cartucce, la preparazione di “stampi” e di fischi, l’educazione (non solo l’addestramento) del cane, l’osservazione (e perché no, lo studio) delle abitudini della specie oggetto di caccia. In passato, l’attività venatoria per il numero dei praticanti, l’intensità della passione, la molteplicità delle forme, nelle terre di Romagna era praticata in misura maggiore di quanto si potesse riscontrare nelle regioni confinanti. La presenza di ambienti assai variati, la posizione geografica, interessata in maniera cospicua dal transito migratorio, unitamente alla necessità di procurarsi proteine nobili a buon mercato, hanno contribuito certamente a rendere quasi connaturale al romagnolo l’istinto venatorio. Tutto ciò era radicato non solo a livello della popolazione agricola, che si trovava a vivere una vita più semplice e con ritmi più naturali, ma anche presso i cittadini e gli eruditi. Ripercorrendo la storia si scopre quanto sia antica e consolidata la pratica venatoria e come anche in questa attività fossero utili le “raccomandazioni” per procurarsi un posto buono. Lo si può, ad esempio, desumere da una lettera del 20 dicembre 1446 con la quale il Doge Francesco Foscari scrive al Podestà di Ravenna perché convinca l’Abate di Santa Maria della Rotonda (nel forlivese visitata recentemente n.d.r.) ad affittare al Signore di Faenza Astorgio II Manfredi un sito presso il lido del mare nel territorio di Ravenna, dove si usava prendere i falconi pellegrini, allora assai utilizzati per la caccia. Risultano testimonianze antiche per quanto riguarda l’istituto della “riserva di caccia”. In una pergamena di San Vitale del 26 ottobre 1330 sempre l’Abate di Santa Maria della Rotonda affitta a un certo Chocho Glauzano, beccaio in Ravenna, il luogo detto “Stadio dei quinque pinis” (Staggio dei cinque pini) per uso di caccia e di pesca. Il canone di affitto annuale è fissato in ottanta libbre di cera con l’obbligo di dare “per la festa di Natale mille buratelli (anguille adulte), e cento anguille grosse, e duecento buratelli al Sindaco del Monastero; e nel tempo del raccolto delle pigne darne all’Abate cinquecento, ed inoltre la testa di ogni bestia selvatica uccisa nella valle e nel luogo affittato”. Quest’ultima clausola era una sorta di controllo che i monaci di San Vitale, attenti amministratori del patrimonio pinetale, intendevano effettuare. (Oggi in molti Paesi si fanno pagare dazi sulla selvaggina uccisa n.d.r.). Non sono mancati nel passato Bandi sopra la caccia. Il Governo Pontificio, attraverso i vari Cardinali Legati succedutisi nel tempo nell’amministrare le terre di Romagna, ha fissato disposizioni per contenere e regolamentare l’attività venatoria. Il 3 aprile 1693 fu emesso un lunghissimo bando dal Cardinale Fortunato Carafa della Provincia di Romagna & Esarcato di Ravenna che dichiarava: “caccia bandita, e riseruata la Pigneta di San Vitale dal mare alla valle, e tutti gli staggi … e perciò ordina, & espressamente comanda l’eminenza Sua, che in avvenire persona alcuna di qualsivoglia stato, grado, e condizione, ancorché Priuilegiata e Priuilegiatissima, non ardisca di andare con Cani, Archibugi, ò altre simil sorte di strumenti, tirando dentro i sopradetti recinti del territorio di Raunnea à Lepri, Starne, Caprioli, Cignali ò ad altra sorte di Sualaticine …, sotto pena di scudi cento, o di trè tratti di corda, e della perdita di Armi e simili strumenti … volendo ancora Sua Eminenza, che nessuno, come sopra possa tirare, ammazzare, & in qualunque modo pigliar Lepri, Starne, ò Cotornici in questo territorio, anmche non bandito, quando però il terreno sarà coperto di neue, prohibendolo pure da i 24 Marzo sino à gli 8, Settembre, sotto le pene sopradette … Si guardi però ciascheduno di non contrauenire, perché contro li 52 Vita di Club n.1 Trasgressori si procederà con ogni rigore, anche per inquisizione”. Nel passato la fascia litoranea della Romagna (quando le spiagge erano solo dune) si prestava alla caccia ai migratori ed esisteva una consolidata tradizione venatoria in proposito; si faceva la caccia alle allodole e alle quaglie. Per le pavoncelle e i pivieri si usava una botte seppellita proprio sulla riva del mare, nella sabbia, con delle frasche attorno e poi si fischiava aspettando che i pivieri si fermassero lì. Oggi non si accettano più alcune pratiche un tempo di uso comune e, d’altra parte, le disposizioni che regolano l’attività venatoria sono assai diverse; allora si poteva uccidere praticamente tutto, anzi, uccidere i predatori era addirittura raccomandato, nelle riserve di caccia era quasi un obbligo; la strage venatoria era uguale per tutte le specie, senza alcun conto per i loro cicli biologici e le loro esigenze vitali; si poteva perfino andare a caccia di notte ed attendere in riva al mare gli uccelli stremati dal viaggio migratorio! Ma, nonostante ora tutto sia cambiato e ad ogni fine stagione i cacciatori lamentino che “adesso non è più come una volta” e affermino “questo è l’ultimo anno che prendo la licenza”, coloro che praticano la caccia sono ancora tanti. CURIOSITÀ ALVISIANE QUANDO NACQUE GESÙ? Facile, diranno in molti. Gesù Bambino è nato il 25 dicembre dell'anno 1 d.C. È quello che pensò anche il monaco Dionigi il Piccolo quando nell'anno 525 d.C. tentò di determinare l'inizio della nostra era. Dopo laboriosi calcoli, determinò che Gesù nacque nell'anno 754 dalla fondazione di Roma. Si sbagliò, ma nessuno gli rimproverò l'errore tanto che ancora oggi contiamo gli anni riferendoci a quell'imperfetta datazione. di MARIO ALVISI I l rebus sul giorno esatto del Natale continua ad infervorare i ricercatori, gli astronomi, gli astrologi e i teologi delle varie religioni. Il giornalista Armando Torno del quotidiano “Il Corriere della Sera” ha fatto sul tema un’approfondita ricerca che mi piace far conoscere ai lettori della nostra rivista. I vangeli di Matteo e Luca offrono alcuni dati senza indicazioni cronologiche precise: il primo (2,1) ricorda che Gesù vide la luce a Betlemme al tempo di Erode, re della Giudea, il quale regnò presumibilmente tra il 37 a.C. e il 4 a.C.; Luca, con un racconto totalmente diverso, rammenta che sotto Erode nacquero Giovanni Battista e, sei mesi dopo, Gesù nel periodo del censimento "di tutta la (terra) abitata" indetto da Augusto. In base al calcolo del monaco Dionigi il Piccolo (V-VI secolo), che introdusse il computo degli anni dalla venuta di Cristo, il Salvatore sarebbe diventato uomo nel 753° anno della fondazione di Roma. Ma il religioso commise un errore. Erode, stando allo storico Giuseppe Flavio e a quanto scrisse nelle sue Antichità Giudaiche (XVII), scomparve tra un’eclisse totale di luna e una Pasqua. Ora sappiamo che nel 5 a.C. vi furono appunto due eclissi totali; una parziale si verificò nel 4 a.C. e di nuovo una totale nell’anno 1 a.C. Per questo si presume che il re Erode morisse nel 4 a.C., poco prima della Pasqua. Riepilogando, sulla base del racconto di Matteo la nascita di Gesù va collocata qualche anno prima della morte di Erode (4 a.C.), tra il 75 a.C. Sulla base dell'accenno di Luca al censimento universale indetto da Augusto (8 a.C.), la nascita va collocata nel periodo immediatamente seguente a questo, tra l’8 e il 6 a.C. Quindi Gesù nacque prima del 4 a.C. E il giorno? Non lo si conosce con precisione. Però le ipotesi non mancano, anche se nemmeno i primi cristiani sembrano essere d’accordo. Le chiese orientali lo fissano il 6 gennaio, le occidentali il 25 dicembre. Si giustificava l’incertezza ricordando che la nostra tradizione occidentale avrebbe cominciato a festeggiare il Natale il 25 dicembre dopo il Concilio di Nicea (325), quando il cristianesimo si diffuse grazie alla libertà di culto. Soppiantava, di fatto, la festa del Sol Invictus nel mondo del paganesimo 53 Vita di Club n.1 agonizzante. Il culto del sole o della luce, il sole invincibile, era nato in Oriente, poi aveva acquisito importanza a Roma. L’imperatore Aureliano (270-275) trasferì i sacerdoti in un tempio edificato sul colle del Quirinale e consacrato il 25 dicembre del 274 e stabilì per quel giorno una festa chiamata Dies Natalis Solis Invicti. Quindi è il 25 dicembre che la vera luce diventa quella di Cristo. Ora veniamo ai tempi nostri. Monsignor Gianantonio Borgonovo, Canonico del Duomo di Milano, docente di teologia ed esegesi del primo testamento e traduttore dall’ebraico della Bibbia, si è imbattuto in dati che possono recare chiarimenti all’annosa discussione riguardante il Natale di Gesù. Prima osservazione. Il 25 dicembre e il 6 gennaio fanno comunque riferimento alla stessa data, ovvero il 25esimo giorno del mese di Tevet del calendario ebraico. (Decimo mese dell’anno ecclesiastico, è un mese invernale di 29 giorni, corrispondenti all’incirca ai mesi di dicembregennaio del calendario gregoriano). Il 25 dicembre sarebbe la trascrizione popolare del giorno ebraico, mentre il 6 gennaio ne sarebbe l’equivalente preciso del calendario giuliano. (Cioè due date per lo stesso giorno, ma poi vedremo il perché della loro coincidenza). La seconda osservazione è rivolta al calendario che allora era in uso nel mondo latino. Era quello giuliano, in vigore fino al 1582. Poi Papa Gregorio XIII, d’accordo con gli scienziati dell’epoca, decise di “saltare” i giorni dal 4 al 14 ottobre di quell’anno per riordinare il computo del tempo. Da quel momento la riforma creò una duplicazione di date del Natale. (In occidente si tolsero dieci giorni anticipando così il giorno del Natale rispetto al calendario ebraico Tevet, mentre in oriente non avvenne la sottrazione e così il Natale rimase il 6 gennaio!). Per Monsignor Borgonovo, inoltre, è anche possibile individuare, seppur approssimativamente, il momento in cui nacque Gesù (se litighiamo sul giorno mi sembra impossibile indicare un’ora. Eppure!). Questo perché il calendario giuliano stabilisce l’inizio del giorno a mezzanotte; per quello ebraico comincia con il tramonto del sole, grosso modo alle 18. Si può dunque dire che nell’anno 5 a.C., il 25 di Tevet iniziasse intorno alle 18 del 5 gennaio e terminasse attorno alle 18 del 6 gennaio. Era un giovedì. Gesù sarebbe nato in quell’ arco di tempo! Ora, un gruppo formato tra gli altri da un archeoastronomo dell’Osservatorio di Brera e da un’astrologa, ha compiuto ricerche sulla data di nascita e di morte di Gesù. Una combinazione di pianeti spiegherebbe l’apparizione della cometa. Nel corso dell'anno 7 a.C. avvenne una tripla congiunzione planetaria nella costellazione dei Pesci, due pianeti, Giove e Saturno, visti dalla Terra si trovarono uno a fianco all'altro per ben tre volte nello stesso anno. La costellazione dei Pesci era astrologicamente associata al popolo ebraico; Giove era l'astro dei re; Saturno era la stella dei Giudei. I Magi interpretarono l’evento: un re stava per nascere in Palestina e si misero in cammino. La "stella" vista dai Re Magi (Mt 2,112) potrebbe essere stata anche una nova: gli annali astronomici cinesi e coreani riportano un evento simile nel 5 a.C. Fu così? Può darsi, ma noi manteniamo ancora il mistero del Natale festeggiandolo … col cuore. RICORDO IN MEMORIA DI LUCIANO CHICCHI Desideriamo ricordare sulla nostra rivista il Dott. Luciano Chicchi, recentemente scomparso, uomo di grande intelligenza, cultura e umanità che tanto ha dato col suo operato alla città di Rimini. Il Presidente e i Soci del nostro Club lo ricordano con gratitudine, in quanto sostenitore di molti service con i contributi della Fondazione della Cassa Di Risparmio: il restauro dell’organo della Chiesa del Suffragio, l’acquisto di un pulmino da donare all’associazione “S.O.S Taxi” per le persone invalide e il sostegno a questa rivista. Ha partecipato ad alcuni nostri meeting, fra i quali quello sull’Università, di cui è sempre stato uno dei più lungimiranti sostenitori. Essendo amico personale di alcuni Soci, fu presente anche ad una nostra cerimonia Charter per il passaggio dei poteri tra il Presidente Maurizio Graziosi e Mario Alvisi. 54 Vita di Club n.1 ARTE IN MOSTRA CARTE DEL CIELO E DELLA TERRA Mostra personale del pittore Walter Angelici: Ott.-Nov. Sala Lopez, Museo di Rimini. di RITA MARIA ASTOLFI OLIVA I n qualità di curatrice della Mostra Personale del pittore Walter Angelici che è andata al suo Vernissage domenica 21 Ottobre c.a. vorrei esprimere alcuni concetti legati sia all’organizzazione, sia alla spettacolare presentazione che i più hanno definito, al termine dell’Evento “Una apoteosi!” Alla presenza di una Sala del Giudizio gremita, l’Assessore alla Cultura, dott. Massimo Pulini, il Direttore dei Musei comunali dott. Biordi, il dott. Roberto Cresti dell’Università di Macerata, la signorina Caterina Boldrini, M° di violino, il Past Director del Museo dott. Pierluigi Foschi e molta parte del Gotha culturale di Rimini, ma non solo e di rappresentanti delle Testate dei quotidiani locali, si è svolta la presentazione ufficiale del pittore, prof. "Madre", 2012. Walter Angelici in una sinestesia meravigliosa di pensieri e musiche divine: furono eseguiti brani ‘from only J.S. Bach’. Desidero, pertanto, esprimere il mio compiacimento al Museo della Città di Rimini. Fin dai primi contatti, primi mesi del 2010, l’allora Dirigente, dott. Pierluigi Foschi, fu prodigo di ammirazione e sostegno, purtroppo solo di accoglienza e concessioni, poiché, già allora, i tempi si erano andati deteriorando a livello economico. Al Patrocinio, poi, degli attuali Dirigente, dott. Biordi ed Assessore, dott. Pulini si deve tutto l’impegno per la divulgazione e la pubblicizzazione della "Terre", 2010. Mostra stessa. Tutta l’operazione è stata possibile poiché ho sprezzato il lavoro e l’impegno sorretta dal fatto che, amando la mia acquisita Città, ritenevo che Rimini dovesse conoscere Walter Angelici, figura emergente nel panorama culturale, forte di Mostre pregresse di altissimo target, nonché detentore di premi prestigiosi. Al momento una sua Personale è ospitata nel Palazzo Borghese in Firenze, ove resterà sino a tutto Maggio dell’anno entrante. Il che, in altri termini, significa restare in esposizione senza soluzione di continuità, sul territorio italiano, per ben otto mesi. Cosa non trascurabile dati i momenti cui si faceva cenno poc’anzi. Cosa preminente legata alla Mostra era un Catalogo che restasse a futura memoria; ragion per la quale occorrevano disponibilità ingenti di denaro. Di difficilissimo reperimento. A questo scopo, con cura e pazienza somme ho portato avanti il progetto fino ad approdare ad un paio di sponsor, uno dei quali è stata la dott.ssa Atalìa Tresoldi Ravaioli la quale per lunghi mesi mi ha affiancato nella minuziosa ricerca dei fondi e la quale, per pura generosità, ha partecipato all’impegno economico. Per Walter Angelici lo studio incessante ed appassionato dell'Ecclesiaste, non poteva che concretizzarsi in una serie di Opere da lui chiamate "Carte del Cielo e della Terra". 55 Vita di Club n. 1 Dire che Walter Angelici possa essere inserito in una tendenza di carattere esclusivamente moderno, equivarrebbe a ridurre la potenza, l’impatto – a volte sconvolgenti, devastanti altre estremamente poetici e lirici. Egli trascende, travalica ogni tempo inserendosi, d’autorità, nella vasta classicità, come, pure, nella visione dei mondi interiori, simbologici, ricchi di mistero, di pathos che non disdegna la ruvidezza o la carezza. Per il tramite di queste esternazioni Walter Angelici crea un'arte visiva in stretta connessione con le esortanti voci che da più parti gli giungono in questa epoca di incertezze, crisi, inquietudini. Quindi, avvalendosi di una consapevole cifra stilistica, robusta, materica, coloristica o monotonale egli ha creato opere che lo contraddistinguono come un "outsider" dei tempi moderni che porge, altresì, un occhio attento anche al passato. Si è scomodato Rembrandt per trovargli un illustre predecessore. E, mentre i risultati di questa ricerca incantano, sono, al contempo, forieri di visioni altre e più ecumeniche, di non mal riposte speranze in una resurrezione delle anime e dei tempi. Volendo, quindi, esporre un’efrasis che privilegi l’opera di Walter Angelici non è possibile prescindere dal suo Nomos strettamente collegato ad un Mysterium Sacrale con il quale si cimenta da anni, forse, da sempre. Perché a "Agosto", 2012. lui naturale, in lui connaturato, essenziale per l’espansione e la mise en éspace di un’arte senza tempo, quasi senza cifra. Nell’animo di questo Artista si agitano pulsioni di grandiose aspettative dal breve, transeunte, passaggio sulla terra, come è peculiarità delle grandi anime. Mi asterrò, qui, dal citare una sequenza, pressoché infinita, di nomi la cui risonanza mai si affievolirà nello spazio e nei secoli: filosofi, pensatori, matematici, scienziati astronomi, letterati, pittori, poeti, architetti. Tutta una folla vastissima di anime abbagliate dal Mysterium Sacrale, ma, nondimeno, inquietate dall’insensatezza del vivere che tale appare a chi, sentendosi proiettato fra gli astri, deve misurarsi con la polvere, le pietre e le miserie di un viver quotidiano, incoercibile, peraltro, benché avvilente e castrante. Da ultimo, ma non così ultimo, egli, Walter Angelici, è alla minuziosa ricerca di una accettabile visione di questa insensatezza nelle pagine dell’Ecclesiaste. Il Qohèlet che si suppone datato nel 250 a.C. summa preziosissima del “mal de vivre” a partire dalla “vanitas vanitatum”. Come si vede non è affatto una nostra conquista, quella dei tempi moderni, il mal de vivre, dico; già allora e sempre, a mio avviso, l’uomo ha sentito questa enorme incompatibilità fra le proprie aspettative e la realtà miserevole, quantomeno piccolissima ed estremamente ristretta e arida, del viver comune. Ora, tornando al nostro Artista, egli, di bassissimo profilo come è appannaggio dei “grandi”, ritiene che le sue interpretazioni, vuoi in pittura, vuoi in scultura o altra disciplina a loro connessa, siano piccole cose, mentre noi, suoi estimatori appassionati, restiamo attoniti di fronte a tanta inquieta bellezza espressiva che promana dalle sue esplicitazioni su tela, carta, legno o qualsivoglia altro materiale che si presti ad essere il supporto prescelto per queste “epifanie coloristiche o monocromatiche”. Una sorta di urgenza muove le mani nervose che eseguono ciò che l’anima e il cervello dettano. Spesso un tempo altamente esiguo gli basta per offrire al nostro sguardo innamorato di tali rarefatte visioni, raffigurazioni che urlano o, a volte, suggeriscono silenti, un lirismo in cui si dilata tutta la tormentata e appassionata, sua ribellione. Ribellione interiore in quanto a fronte dell’urgenza della necessità del Bello e della Felicità tramite il piacere, i piaceri, si trova a dover piegare il proprio Nomos imbattibile, trascendente l’immanente. 56 Vita di Club n. 1 Certo la vena pessimistica - che imbeveva l’incerto compilatore di tale trattato che viene annoverato fra il Deuteronomio, attribuito niente meno che a Mosè, databile al VI secolo prima di Cristo, e l’Antico Testamento -, doveva, forzatamente, esplicarsi in una prosa ed in una lirica senza speranza, senza aperture possibili verso una soluzione di tale e tanto angosciante sconvolgimento. Uno fra i trattati più terribili e disperati che siano comparsi nel milieu letterario. Ma, come ho detto, tutto questo, tutte queste cose sono appannaggio delle grandi menti ecumeniche, creative, geniali, esempio fulgido che comunque e quantunque l’uomo sia atterrato da simili pastoie, sempre la sua anima tenderà all’Assoluto. Si protenderà al raggiungimento di una plaga ubertosa in cui posare le stanche membra, ma soprattutto ristorare le propaggini nervose sottoposte a tale tenzone quotidiana. Dal 21 di ottobre e per tutto il mese di novembre, nella Sala, detta, Lopez, al Museo di Rimini, le opere dell’Artista in una magniloquente e sontuosa rappresentativa, sono state sotto i nostri occhi e ci hanno parlato più che esaustivamente di Walter Angelici. Diremo brevemente delle opere che sono andate ad occupare lo spazio di alto prestigio offerto-ci munificamente dal Museo. Insieme a tele di grandi dimensioni in cui sono ampiamente e meravigliosamente espressi i caratteri che compongono e cifrano l’opera dell’Angelici, squadernandosi ai nostri occhi in cromie erompenti "Attesa", 2010. e in robuste pennellate materiche, abbiamo ammirato opere in cui, la lieve incisione si è declinata in soffici ed evanescenti tratti estremamente incisivi; è stata raggiunta una espressione virtuosistica e allusiva di tutto il dettato creativo, in ottemperanza al titolo Carte del cielo e della terra. Una serie di monotipi di grandi dimensioni e perciò stesso ancor più preziosi, in cui si alternano paesaggi giacomelliani; notturni squarciati da raggi lunari, come presagi di felicità; fissità incisa negli occhi di animali attoniti e vinti dall’abbandono; figure umane che non si sa se arrivino o stiano per partire, o, in alternativa ‘restino’ in rassegnate, infinite attese. Tutta una realtà dolorosa e consapevole tratteggiata con perizia e grande acume. Vi si sono affiancati, in una seconda serie, sempre monotipi di dimensioni più piccole; piccoli gioielli di bellezza e precisione assoluta. Dico dei monotipi e della loro preziosità. Come chi sia informato sulle tecniche incisorie sa benissimo, l’esecuzione del monotipo [impronta unica] esige una sicurezza assoluta del segno, una maestria indiscussa nel tracciato del disegno che viene eseguito - su supporto di rame, tirato a lucido o vetro o altro materiale similare, per accrescimento/sottrazione - con la perizia di un fine incisore di camei sul fondo del colore precedentemente steso. Nella successiva fase dell’assemblaggio carta-supporto calcografico, torchio, nell’abbraccio dei due elementi viene generato, spesso, l’inatteso e il sorprendente e ciò sfocia, come detto, in quell’unico risultato senza possibilità né di modifiche, né, di repliche, un unicum in tutto e per tutto. Qui mi piace citare la significativa espressione del dott. Pulini riferentesi all’operazione dell’assemblaggio: “madre una sola volta”. L’unicità conferisce al lavoro finito la preziosità e la sorpresa del risultato finale. Walter Angelici ha sviluppato una assai virtuosistica abilità in questo tipo di opere, anzi tutto per sua abilità intrinseca ed in secondo luogo perché sospinto e animato dal sacro fuoco dell’Arte che brucia inesausto nel suo profondo. Moltissimo ci ha dato e moltissimo abbiamo avuto da questa sua Personale che sono orgogliosa di aver voluto fortissimamente, a sua gloria e successo, e, non per ultimo, come segno d’amore per Rimini città d’adozione semisecolare che, ormai, ritengo mia a tutti gli effetti. 57 Vita di Club n. 1 PRO SERVICE JAZZ SOLIDALE “La grande musica frequenta l’anima”, per dirla alla Paolo Conte, e così è stato con il concerto Lions Club Malatesta del 23 novembre 2012, al teatro Novelli di Rimini, dell’ Hotrio – Jazz & Song di Gianni Giudici organ & keyboards, Alessandro Fariselli sax, Massimo Ferri batteria, accompagnato per l’occasione dal trombettista Flavio Boltro, autentico fuoriclasse di livello internazionale e dalla voce calda e profonda della giovane Caterina Soldati. di GIANFRANCO SIMONETTI N ella cornice ormai familiare del Teatro Novelli di Rimini, davanti ad un pubblico partecipe ed entusiasta, forse meno numeroso di quanto si sperava (per i troppi eventi concomitanti, anche organizzati da Club limitrofi), si è svolto il concerto del trio di Gianni Giudici (Lions di Pesaro Host) con Alessandro Fariselli al sassofono e Massimo Ferri alla batteria. Lo stesso trio aveva dato vita al concerto dello scorso anno, con la strepitosa cantante nera americana Joyce Juille, mentre quest’anno aveva nel suo organico una delle migliori trombe europee, riconosciuta anche a livello mondiale, che ha al suo attivo riconoscimenti internazionali e collaborazioni a tutto campo, l’italianissimo Flavio Boltro, nato a Torino, che vive ormai a Parigi da diversi anni ed ha partecipato alla registrazione dell’ultimo CD del trio di Gianni Giudici (Grab my Groove). Molti dei brani che ne fanno parte sono stati eseguiti nel concerto del 25 Novembre, così come in numerosi concerti in tutta Italia, compreso quello al prestigioso Blue Note di Milano. Come il pubblico ha potuto verificare e come aveva preannunciato Gianni Giudici nella sua presentazione, la serata è stata all’insegna di una musica sempre molto fruibile, adatta anche per i “non addetti ai lavori”, «che ha spaziato da rivisitazioni di brani celeberrimi del repertorio jazzistico internazionale, a composizioni originali, sia melodiche che molto ritmiche, arrangiate con sonorità sempre particolari e molto accattivanti, con una particolare cura per il “sound” di gruppo, piuttosto che per esibizioni solistiche tipiche del Jazz, che spesso possono risultare difficili o troppo tecniche. Flavio Boltro vanta collaborazioni prestigiosissime, come quella con il grandissimo (e piccolissimo) compianto pianista Michel Petrucciani, con artisti del calibro di Steve Grossman, Cedar Walton, Billy Higgins, Cedar Jordan e Jimmy Cobb (che hanno fatto la storia del Jazz moderno) fino ad artisti come Gino Paoli, che lo ha voluto nel suo quartetto Jazz in un tour di grande risonanza. Eletto fin dal 1984 “miglior talento” dalla prestigiosa rivista Musica Jazz, è stato anche nominato miglior tromba italiana dalla rivista Jazzit, che lo ha così consacrato definitivamente». Così ha spiegato Gianni Giudici. La serata di grande prestigio è stata “abbellita” (anche in senso estetico) dalla presenza della cantante bolognese Caterina Soldati, la cui esibizione è iniziata con la famosissima “E se domani”, in una interpretazione molto calda e appassionata, accompagnata da Gianni Giudici. È stato un piacevole omaggio al nostro famosissimo concittadino Carlo Alberto Rossi, autore della musica della canzone, noto cavallo di battaglia di Mina. Ciò nonostante, l’esecuzione della Soldati non ha concesso niente alla nostalgia, grazie all’emozionante performance della sua voce. «La sua voce molto calda e particolare – ha aggiunto Gianni Giudici - si discosta da 58 Vita di Club n. 1 timbriche e stili oggi molto “omologati” nel settore delle voci femminili e unisce una grazia tutta particolare ad una energia inaspettata e toni bassi degni di cantanti di ben altro fisico e stazza. La sua voce e la sua bellezza l’hanno fatta notare da Pippo Baudo, che l’ha voluta come cantante fissa della sua trasmissione “900”, dove si è fatta notare per la versatilità delle sue interpretazioni e per la duttilità dei suoi mezzi vocali. La sua collaborazione con me risale ormai a diversi anni fa ed ha al suo attivo numerosi concerti con gli HOT Trio, oltre ad attività teatrali e musicali di notevole varietà. Con il trio, Caterina Soldati ha cantato anche standard jazzistici molto famosi, come “Song For My Father”, che la sua voce ha reso con una grazia ed una energia inusuali tra le cantanti di questo genere, rendendo fruibile davvero a tutti una musica che troppo spesso è considerata ingiustamente di “elite”». Il pubblico, motivato anche dalle finalità benefiche della serata organizzata perfettamente dal Lions Club Rimini Malatesta, presentata ed introdotta dalle parole del suo Cerimoniere Marcello Pedrotti, ha partecipato con calore ed entusiasmo al concerto, che (diversamente da quanto spesso accade) ha lasciato in tutti la voglia di ascoltare ancora questa eccezionale formazione. Per il trio capitanato dall’amico Lions, Gianni Giudici, è stata una riconferma della sua straordinaria qualità d’esecuzione e l’opportunità di accompagnare artisti di qualità internazionale, creando un evento musicale raro, emozionante e coinvolgente. Il concerto, iniziato con brani di jazz classico, alcuni firmati dallo stesso Giudici, per poi proseguire con gli ever green, composizioni di grande successo che compongono il patrimonio musicale di molti di noi, ha lasciato in tutti il desiderio di aver altre occasioni di ascoltare un nuovo concerto di musica che “frequenta l’anima”. Alessandro Fariselli - Gianni Giudici - Max Ferri Caterina Soldati Flavio Boltro 1Il presidente Gianfranco Simonetti e il cerimoniere Marcello Pedrotti attorniati dagli artisti. 59 Vita di Club n. 1 SERVICE SERVICE INTERNAZIONALE Diffusione nel mondo dell’opera di Luigi Tonini. di MARIO ALVISI I n collaborazione con la Biblioteca Gambalunga di Rimini, la fondazione Carim e il Lions Club Rimini Malatesta, è stato pubblicato nel 2010 il libro: Luigi Tonini, “Papa Gregorio XII e Carlo Malatesti – o sia la cessazione dello scisma durato mezzo secolo nella Chiesa di Roma”, A cura di Oreste Delucca e trascrizione di Luigi Vendramin, Editore Guaraldi, Rimini 2010, per far conoscere che Rimini fu Sede Pontificia (anche se per poco) e che il suo Signore Carlo Malatesta – con procura del Papa – riuscì a comporre il grande scisma al Concilio di Costanza (1415). Il libro è il frutto della intuizione culturale e dell’amore per la nostra città di Stefano Cavallari ed è il secondo dei service internazionali fatti dal Club dopo il Torneo Internazionale di Pallacanestro per Handicappati, organizzato nel lontano 1982. L’edizione, numerata a mano e firmata dal curatore, è stata stampata con tecnica digitale e tirata in 150 copie di cui 130 in numeri arabi da 1 a 130, e 20 in numeri romani da I a XX fuori commercio. Pur essendo una “rarità bibliografica” è stata messa su e-Book a disposizione degli studiosi di tutto il mondo, resa disponibile su tutte le piattaforme distributive (che stanno rivoluzionando il mondo del libro) e donata a molte biblioteche italiane e straniere con la collaborazione del Lions Club Rimini Malatesta. Al riguardo, dopo i ringraziamenti delle Biblioteche della Romagna e delle Marche, a cui l’opera è stata consegnata personalmente da Stefano Cavallari, sono giunti ultimamente al Club i ringraziamenti da parte di: Biblioteca Palatina di Parma Biblioteca Estense Universitaria di Modena Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara Biblioteca Panizzi Comune di Reggio Emilia Biblioteca Ambrosiana di Milano (“Un’apposita Commissione ne ha stabilito la congruenza con le discipline rappresentate nei fondi della Biblioteca e ne è stata pertanto disposta l’inclusione all’interno delle nostre collezioni”) U.O. Biblioteca e Mediatica del Comune di Fano The Library of Congress (African, Latin American and Western European Division) di Washington Bayerische Staatsbibliothek Tausch-und Geschenkstelle di Monaco (Germania) Bibliothèque National de France di Parigi. Copertina dell'opera. 60 Vita di Club n. 1 SERVICE RESTAURO I due Lions Club cittadini finanzieranno il restauro del Crocifisso esposto nel Museo Civico di Rimini. Proveniente dagli Istituti Ospedalieri e riferito in antico alla scuola trecentesca riminese, è stato attribuito da Volpe (1979) ad Andrea da Bologna. Abbiamo tratto informazioni sull’artista da: D. Donati, Andrea da Bologna in Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1991, Treccani. « connotata da Di Andrea da Bologna si hanno notizie inflessioni che, più dal 1369 al 1377. Mai documentato in che una tradizione locale, riflettono suggestioni patria e noto attraverso opere conservate umbro-toscane e venete (Volpe, 1979, p. 32), si nelle Marche, egli potrebbe forse identificarsi, nota già in un Crocifisso della Pinacoteca Com. e secondo quanto propone Arcangeli (1970), con Mus. Civ. di Rimini, proveniente dagli Istituti un Andrea di Deolao de' Bruni che risulta Ospedalieri e riferito in antico alla scuola residente ad Ancona il 3 novembre 1377 quando, trecentesca riminese, che gli è stato attribuito da in un atto bolognese, il notaio Francesco di Volpe (1979). A questo va aggiunto un altro Deolao de' Bruni figura in qualità di procuratore Crocifisso in S. Pancrazio a Sestino reso noto da del fratello "magistri Andree quondam Deolay Corbara (1982). Le opere firmate che si de Brunis pictoris habitanti Anchone" (rogito di conservano nelle Marche mostrano un Raniero Bondi da Monteveglio, Bologna, Arch. progressivo abbandono dei caratteri bolognesi, di Stato, Notarile, busta 2, prot. 1377-1381, c. 23 ancora evidenti in talune parti del polittico di a; Filippini, Zucchini, 1947, p. 9). Fermo (1369). Riecheggiamenti dai modi di Nel 1369 firmò ("Anno Domini MCCCLXVIIII Allegretto Nuzi e Francescuccio Ghissi sono de Bononia natus Andreas fuit hic operatus") un evidenti altresì nella Madonna dell'Umiltà di polittico raffigurante la Madonna in trono con il Corridonia (1372), non solo per quanto riguarda Bambino, santi e storie della loro vita, già nella l'iconografia adottata. A questo momento chiesa di S. Caterina e ora nella Pinacoteca Com. stilistico sono da ricondurre una analoga di Fermo; nel 1372 firmò ("De Bononia natus Madonna dell'Umiltà in coll. privata a Firenze e, Andrea anno Domini MCCCLXXII") una secondo quanto propongono Boskovits (1977) e Madonna dell'Umiltà, già nella chiesa di S. Donnini (1975), alcuni frammentari affreschi nel Agostino di Corridonia (anticamente Pausula), in convento di S. Nicolò a Osimo (Incoronazione prov. di Macerata, e ora nella Pinacoteca della della Vergine, Giudizio universale, Angeli stessa cittadina. Gli studi moderni, a partire da musicanti)». quelli di Longhi (1934-1935, in Longhi, 1973, pp. 52-56) hanno distinto la personalità di A. da quella di Andrea de' Bartoli, con il quale era confuso in passato. L'individuazione della sua fisionomia stilistica si basa sulle opere marchigiane, certificate dalla firma. Qui appaiono, accanto a desinenze veneteggianti e 'adriatiche', caratteri bolognesi, di stretta dipendenza da Vitale da Bologna, che inducono a ipotizzarne una formazione intorno al 1350 nella bottega di quel caposcuola. […] Lo spostamento della sua attività da Bologna alla costiera adriatica e marchigiana dovette avvenire sul principio degli anni sessanta e Il Polittico ligneo di Andrea da Bologna, proveniente dalla chiesa la conoscenza di una cultura più diramata, di S. Caterina (cm. 153 x 252), oggi nella Pin. Com. di Fermo. 61 Vita di Club n.1 SERVICE LEZIONI CONTRO IL SILENZIO “Progetto Martina. Noi e il cancro, volontà di vivere". S abato 17 novembre alle ore 9.00 presso l'Istituto Valturio si è svolto l'incontro con gli studenti per il “Progetto Martina. Noi e il cancro, volontà di vivere", un Service Nazionale, a cui hanno congiuntamente aderito i due Lions Club riminesi. Organizzato dalla prof. Grazia Urbini, docente di Scienze Giuridiche ed Economiche e socia del Lions Club Rimini Riccione, ha avuto come relatori il dott. Gianfranco Arseni, urologo, socio del Rimini Malatesta, e il dott. Stefano Catrani, dermatologo, primario ospedaliero. Quali sono gli obiettivi del “Progetto Martina”? 1° informare i giovani sulle modalità di lotta ai tumori, sulla possibilità di evitarne alcuni, sulla opportunità della diagnosi tempestiva, sulla necessità di impegnarsi in prima persona. 2° dare tranquillità. È indubbio che il sapere come affrontare una malattia, il sapere che ci si può difendere e che si può vincere, dà tranquillità. La tranquillità che deriva dalla conoscenza coinvolge tutti e permette di vivere con maggiore serenità. Perché parlare ai giovani dei tumori? 1 - Perché alcuni tumori, quali il melanoma ed il tumore del testicolo, colpiscono anche i giovani. 2 - Perché, anche se la maggior parte dei tumori si manifesta in età media o avanzata, molti incominciano il proprio percorso in età giovanile e quindi è ai giovani che bisogna far sapere che cosa fare e quando incominciare a fare. 3 - Perché molti tumori sono causati anche da mutazioni di geni indotte nell’arco della vita da “fattori ambientali” e da “stili di vita scorretti”; conoscere ed evitare fin da giovani questi “fattori di rischio” riduce il proprio rischio. 4 - Perché la diagnosi tempestiva di alcuni tumori con controlli periodici quando ci si sente sani richiede impegno da parte del singolo. In sintesi, la lotta contro i tumori richiede conoscenza e impegno personale, richiede quindi “cultura”... e la scuola è la culla della cultura. “Educare i giovani a considerare la vita un bene prezioso e a sentirsi impegnati personalmente nella sua difesa” può ritenersi un impegno prioritario dei LIONS. Le Associazioni di Volontariato delle varie città saranno invitate a collaborare alla diffusione del progetto. Nelle città ove sono già in atto iniziative con analoghi obiettivi i LIONS offriranno integrazione e collaborazione. 62 Vita di Club n.1 SUGGERIMENTI PRATICI La lotta ai tumori si combatte seguendo tre vie: • prevenzione primaria: significa evitare che il tumore insorga. Si ottiene sia eliminando le cause determinanti o favorenti i tumori, i cosiddetti "fattori di rischio", sia diagnosticando ed asportando alcune lesioni che pur benigne sono a rischio di trasformarsi, dopo alcuni anni, in veri tumori. • diagnosi tempestiva: è la diagnosi di un tumore in tempo utile per la cura. • terapia efficace: è la terapia che permette di evitare che il tumore vinca la sua guerra. È sbagliato pensare che il tumore sia sempre un evento "che capita!" Oggi noi sappiamo che alcuni tumori sono causati da virus, che possiamo evitare con la vaccinazione, e che molti tumori sono causati da "fattori ambientali" e "stili di vita scorretti" che noi stessi possiamo modificare e quindi ognuno di noi può ridurre il proprio rischio di ammalarsi. Naturalmente queste cause vanno conosciute ed eliminate o almeno ridotte fin dalla più giovane età, prima che esse producano quelle modificazioni dei geni (mutazioni) che fanno impazzire le cellule provocando la nascita del tumore. È bene quindi accettare i consigli contenuti sia nella ormai famosa "piramide della salute": meno grassi e meno carne, più frutta e verdura, un po’ di attività fisica quotidiana, sia nelle "raccomandazioni del codice europeo contro il cancro". Non bisogna aspettarsi miracoli, ma sicuramente il rischio si riduce e le cure risulteranno più efficaci. 63 Vita di Club n.1 L’ANGOLO DELLO SPONSOR Il costo di questo numero è stato interamente sostenuto dalla Ditta del socio Raffaele Mussoni: RIMINI - VIA COSTA ANGOLO VIA FLAMINIA