Rimini, Museo della città, Andrea de’ Bruni da Bologna, Crocefisso, ca 1370.
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Collaboratori del 1° numero, anno 2012-2013
Mario Alvisi - Rita Maria Astolfi Oliva - Onelio Banchetti
Giorgio Betti - Manuele Bravi - Laura Carboni Prelati
Angelo Chiaretti - Francesco Covarelli - Franca Fabbri Marani
Roberto Giannini - Anna Mariotti Biondi
Fernando Santucci - Gianfranco Simonetti
Progetto grafico e impaginazione
Anna Mariotti Biondi
Fotografie
Mario Alvisi
Paolo Marani
Vita di Club
Anno lionistico 2012 – 2013
Numero 1
Rivista del Lions Club Rimini - Malatesta
SOMMARIO:
Incontri
Conferenze
Conviviali
Servizi
Viaggi
Curiosità
Novità
Ricordi
Arte
Musica
Poesia
Amicizia
Solidarietà
Mostre
Musei
Gastronomia
Posta
Attualità
Chiacchiere
Pensieri
Brevi
Lionismo
Anniversari
Ospiti
Atmosfere
Nostalgie
Progetti
4
La pagina del Presidente
Saluto del Presidente
5
Mondo Lions
Notizie dal mondo
7
Estate Lions
Niente di nuovo sotto il cielo…
9
Salute & Attualità
Alcol e giovani un binomio infernale
11
Salute & Felicità
Ho il Parkinson
13
Mondo Lions
Incontro tra “vecchi leoni”
14
L’intervista
Nel paesaggio scolpito dall’uomo
17
Gastronomia
Monumento al gusto
19
Meeting
Una serata di sport
21
Arte & Attualità
Un altro tesoro mondainese
23
L’angolo della poesia
Fiori d’autunno e d’inverno
24
Meeting
Festa della Bandiera Tricolore
27
Religione in Arte e Musica
L’annuncio a Maria
Inserto
34
Viaggiando viaggiando
Capolavori d’arte riprodotti in quadri viventi
Luoghi della memoria
Luoghi della memoria
32
Curiosità preziose
Gioielli che hanno fatto storia
40
Service
Una luce per Manuele
41
L’angolo della poesia
Parole nel buio
43
Mondo Lions
Latinus Ludus
44
Curiosità dantesche
Dante Alighieri questo sconosciuto
45
Meeting
Metti una sera a cena con Dante Alighieri
49
News dall’entroterra
Il ritorno degli angeli
50
Curiosità linguistiche
Guida semiseria al parlare macianese
51
Curiosità venatorie
Una passione antica
53
Curiosità alvisiane
Quando nacque Gesù
55
Arte in Mostra
Carte del cielo e della terra
58
Pro Service
Jazz solidale
60
Service
Service internazionale – Restauro – Progetto
Martina: Lezioni contro il silenzio
LA PAGINA DEL PRESIDENTE
SALUTO DEL PRESIDENTE
Novembre 2012.
I
l nostro sodalizio prevede che ogni
componente per essere veramente al servizio
del Club debba ricoprire nel tempo tutte le
cariche previste nello statuto. Ciò è valso anche
per me; dopo esser stato consigliere, addetto
stampa e cerimoniere, ora mi spetta il ruolo di
Presidente con l’opportunità di avvalermi di un
efficiente e disponibile gruppo di consiglieri.
Il mio mandato, oltre a seguire il solco della
tradizione, è stato fin qui caratterizzato da una
maggiore frequentazione con altri club Lions. Il
service stesso del Presidente sarà condiviso con
il Presidente del Lions Rimini-Riccione Host,
Maurizio Della Marchina. Service che consiste
nel finanziare il restauro del Crocefisso ligneo
attribuito ad Andrea da Bologna e risalente al
1370 ca., un importante documento artistico del
nostro passato conservato al Museo della Città
per il quale ci adoperiamo affinché giunga ai
posteri nelle migliori condizioni possibili.
Parlando di futuro, noi viviamo questo periodo
con una certa inquietudine a causa delle scarse
opportunità che non ci permettono di inserire le
nuove generazioni nel mondo del lavoro.
Nonostante l’avanzare di una crisi epocale,
vogliamo esser fiduciosi che si possano
ugualmente trovare le forze per una rinascita
economica, sociale e morale. Il nostro paese
possiede una grande risorsa di creatività, un
patrimonio artistico-culturale unico al mondo,
risorse ambientali straordinarie e non da ultimo
una cultura enogastronomica e una filiera
alimentare di altissima qualità.
La nostra città possiede tutti gli elementi sopra
citati, occorre però che se ne prenda piena
coscienza da parte delle istituzioni e di tutti i
cittadini. Una unione di intenti è indispensabile
per poter realizzare investimenti necessari per la
salvaguardia e la diffusione della conoscenza del
nostro patrimonio e si tradurrebbe in una
importante risorsa economica ed occupazionale
per tutto il territorio.
Occuparsi di tali argomenti è compito anche del
nostro club; quindi, a proposito dei soci Lions,
rilevo che, se
fino a poco
tempo
fa
appartenere ad
un
sodalizio
come il nostro
significava
possedere uno
status
particolare,
economico-sociale-morale, oggi la realtà dei fatti
ci impone di superare in parte quella concezione
a favore di una maggiore possibilità di accesso
per coloro che sentono la necessità di sentirsi
utili e attivi attraverso il proprio contributo per
meglio soccorrere il nostro prossimo.
Sempre consapevoli però di fare parte del club di
servizio più grande al mondo che possiede anche
un seggio all’ONU, che si fonda sull’amicizia e
l’amore per il prossimo dedicando le proprie
risorse per un mondo sempre più giusto e
migliore.
L’esempio più tangibile delle mie parole ci viene
dato proprio da coloro che si adoperano con
brillanti risultati per realizzare questa rivista, la
quale dà puntualmente conto di tutte le nostre
attività sociali e delle singole esperienze dei soci.
Tramite “Vita di Club” vi giunga il mio più
sentito ringraziamento per il contributo che state
dando a tutti i componenti del Consiglio che mi
supportano passo passo, grazie a tutti gli amici
Lions che mi dimostrano affetto, simpatia e
fiducia. Uniti siamo in grado di realizzare un
considerevole aiuto alla nostra comunità
attraverso i service che realizziamo, tra i quali
vorrei ricordare il Progetto Martina, un service
nazionale che ha l’obiettivo di “educare alla
cultura della salute” oltre 400.000 studenti ogni
anno in Italia, il concorso Un poster per la pace,
rivolto agli studenti della Scuola Media, la
raccolta fondi per il Centro Lions cani guida di
Limbiate (MI).
4 Vita di Club n. 1
MONDO LIONS
Lotta contro il morbillo
Lo scorso anno, i Lions di tutto il mondo si sono uniti per sostenere Un vaccino, una vita:
l'iniziativa Lions per la lotta al morbillo, offrendo l'incredibile contributo di 10 milioni di
dollari per aiutare a porre fine ai decessi e alle malattie provocate dal morbillo. Poiché la
Fondazione Bill & Melinda Gates aveva promesso un contributo integrativo di US$1 per ogni
US$2 raccolti da noi, se fossero riusciti a raccogliere US$10 milioni, avendo raggiunto tale obiettivo, i
Lions saranno in grado di offrire, quest'anno, un totale di US$15 milioni per contribuire a proteggere i
bambini di tutto il mondo dalle conseguenze del morbillo, quali danni cerebrali, perdita dell'udito, cecità e
morte. La dedizione dei Lions a combattere questa malattia mortale è una chiara dimostrazione del
profondo impegno a favore della protezione della salute e del benessere dei bambini più vulnerabili. Non
solamente i Cavalieri dei non vedenti, ma anche i protettori dei bambini. L'aver vinto la sfida Gates è
stato possibile grazie agli sforzi di tutti i Lions; tuttavia, i soci di tre paesi hanno contribuito quasi 6 dei
10 milioni di dollari raccolti, e meritano, pertanto, dei ringraziamenti speciali. I Lions del Distretto
Multiplo 300 - Taiwan hanno contribuito US$2,9 milioni, i Lions del Giappone hanno mobilitato US$2
milioni e quelli della Corea hanno offerto quasi 1 milione!
Borse di studio
La SO.SAN., il Lions Club Ancona Host e il Lions Club Civitanova Marche Cluana hanno bandito il 2°
concorso per l'assegnazione di n.3 Borse di Studio, intitolate a Patrizia Baroni, dell'importo di € 1.500
(millecinquecento euro) cadauna, a favore di studenti universitari meritevoli, residenti nel territorio del
Distretto Lions 108 A (Romagna, Marche, Abruzzo e Molise).
Service Wolisso
In assolvimento del service distrettuale "Adottiamo il villaggio di Wolisso - Aiutiamoli ad aiutarsi", il
Distretto ha organizzato un viaggio in Etiopia, perché i soci Lions, oltre a visitare importanti siti e
monumenti locali, possano prendere visione diretta della realtà in cui operiamo e vedere di persona
la realizzazione del nostro centro della solidarietà.
Ridurre la cecità infantile tramite la Pediatric Cataract Initiative
Bausch + Lomb e Lions Clubs International Foundation continuano la loro opera per la riduzione della
cecità infantile tramite la Pediatric Cataract Initiative (PCI). Grazie alla PCI, al Siliguri Greater Lions Eye
Hospital in India è stato recentemente assegnato un sussidio di 150.000 USD
per un programma dedicato alla diagnosi precoce e alla cura della cataratta
pediatrica, oltre che alla salute della vista dei bambini Oltre a formare
oftalmologi e fornire educazione sulla salute degli occhi in età pediatrica,
l'ospedale ha in programma di condurre screening della vista per 130.000
bambini bisognosi e di effettuare interventi chirurgici alla cataratta su bambini
di comunità designate. Ulteriori informazioni su questo sussidio sono
disponibili sul sito Web di LCIF.
Convention ad Amburgo
Partecipate con i Lions di tutto il mondo alla 96esima Convention Internazionale di Amburgo (Germania),
che si terrà da venerdì 5 luglio a martedì 9 luglio 2013. Registratevi entro il 31 dicembre per riservare il
posto alla tariffa più bassa e assicurarvi la prenotazione alberghiera alle speciali tariffe Lions. Amburgo
offre numerose attrattive che vi divertiranno per alcune ore o per giornate intere. Fate una crociera in
battello sul meraviglioso lago Alster, passeggiate all'interno del Museo dell'Emigrazione e non perdetevi
il Magical History Tour in autobus nei famosi luoghi dei Beatles! Ulteriori informazioni sui tour locali sul
sito Web di LCI. Disponete di alcuni giorni extra per rilassarvi? Visitate la pagina dei tour pre/post
Convention per trovare tour Lions a tariffe scontate in Germania e in altre famose destinazioni europee.
5 Vita di Club n. 1
Il 5 dicembre si festeggiano i Leo
La Giornata Internazionale Leo, che si celebra ogni anno il 5 dicembre, è il
momento ideale per richiamare l'attenzione su coloro che ci auguriamo un
giorno guideranno l'associazione. Considerate l'idea di sponsorizzare un nuovo
Alpha Leo club presso il centro sociale locale o utilizzate questa giornata per
promuovere il dialogo con gli attuali soci Leo, creando così l'ambiente ideale
per incoraggiarli a continuare il loro servizio come Lions. Attraverso i Leo club,
avrete un'influenza positiva sui ragazzi e sui giovani adulti di oggi, aiutandoli a
diventare cittadini migliori e leader per tutta la vita. Per saperne di più sui Leo, guardate il video Leader
per la vita.
I Champions Lions club attraggono l'interesse dei potenziali soci
Un Champions Lions club supporta gli Special Olympics e aiuta le persone con disabilità mentali tramite
diverse attività che spaziano dalla raccolta fondi alla collaborazione nel corso degli eventi Opening Eyes,
l'inziativa di LCI e Special Olympics che fornisce esami della vista e occhiali agli atleti. Un Champions
club fornisca ai Lions ulteriori opportunità di servire persone e organizzazioni meritevoli all'interno della
propria comunità. Per informazioni o per avviare la fondazione di un Champions Lions club, contattare il
dipartimento Sviluppo soci e nuovi club.
Giornata Mondiale per la Vista Lions
La Giornata Mondiale per la Vista Lions è stata celebrata ad Istanbul, in Turchia, l'11 ottobre. È un
evento internazionale che si svolge ogni anno per riconoscere l'importanza di debellare la cecità
prevenibile. Incoraggiamo i Lions a partecipare e ad unirsi alla Campagna di service globale Condividere
la Visione, organizzando un evento legato alla vista. L'evento può essere finalizzato ad esami della vista,
a programmi di istruzione sugli occhi o a qualsiasi altra attività legata alla vista. Quest'anno, l'evento
affronterà la retinopatia diabetica e il suo rapporto con la cecità. Ad Istanbul, i Lions organizzeranno
screening oculistici pubblici che si incentreranno sulle malattie oculistiche legate al diabete.
SightFirst e Lions Quest si espandono
Durante la riunione di agosto del Comitato Consulente di SightFirst, sono stati
approvati ventidue sussidi, per un totale di US$4.748.351. Grazie ai sussidi
concessi, SightFirst si espanderà verso nuovi settori della prevenzione della
cecità con l'aggiunga di progetti di ricerca, incentrati sulle cause della cecità e
dell'ipovisione, in Indonesia e in Bolivia, nonché sul tracoma e sugli interventi
chirurgici per la trichiasi, in Etiopia e in Tanzania.
Anche il Comitato Consulente Lions Quest si è incontrato lo scorso mese e ha
concesso 13 sussidi per un totale di US$699.750. Grazie a questi sussidi, i programmi Lions Quest
potranno avere un impatto positivo su più di 50.000 studenti in Bulgaria, India, Polonia e altri paesi.
L’uragano Sandy
I Caraibi e la costa orientale degli Stati Uniti sono stati colpiti dall'uragano Sandy. I Lions non sono
solamente presenti sul luogo, aiutandosi a vicenda e sostenendo le comunità colpite, ma stanno offrendo
da tutto il mondo generose donazioni a favore del fondo per i soccorsi in caso di calamità della
Fondazione Lions Clubs International. È stato grazie al fondo per i soccorsi in caso di calamità che la
LCIF ha potuto reagire prontamente all'uragano Sandy, mobilitando sussidi per US$220.000 a favore dei
bisognosi. I Lions sono stati immediatamente in grado di utilizzare i fondi offerti, e, pertanto, di fornire
cibo, acqua, coperte e lampadine portatili alle popolazioni colpite. Le donazioni al fondo per i soccorsi in
caso di calamità sono valide ai fini dei riconoscimenti MJF, e andranno a sostenere, nelle prossime
settimane, le vittime dell'uragano Sandy, a meno che non si verifichi una calamità di entità simile che
richieda un'immediata risposta da parte dei Lions.
6 Vita di Club n. 1
ESTATE LIONS
NIENTE DI NUOVO SOTTO IL CIELO …
«Se nel mondo tornassimo i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non passerebbono mai cento anni che
noi non ci trovassimo un'altra volta insieme, a fare le medesime cose che ora.» (Machiavelli, Clizia, Prologo)
di ANNA MARIOTTI BIONDI
T
ra acquazzoni da diluvio universale e
cieli stellati da opera d’arte è andata in
onda l’estate Lions: due soli incontri,
ma significativi per sentire che il club
esiste anche se l’età media dei suoi componenti
risente di acciacchi vari, vuoi per la salute, vuoi
per crisi di motivazione.
La festa di mezza estate si è svolta in un clima
invernale il 21 luglio: un temporale inclemente
sembrava aver unito cielo e mare e dalle finestre
del ristorante “La prua” si aveva la sensazione di
essere su una nave in balia delle onde, mentre il
movimento della ruota panoramica che girava sul
porto contribuiva all’idea di oscillazione.
Raccolti attorno ad un bravissimo musicista e
cantante, Vanni Sebastiani, che ha proposto un
repertorio coinvolgente, i presenti hanno
applaudito al discorso programmatico del nuovo
presidente
Gianfranco
Simonetti.
Come
tradizione vuole, la distribuzione del terzo
numero della nostra Rivista ha concluso la
piacevole serata.
Tutt’altro clima per l’appuntamento del 28 luglio
all’Arena Plautina di Sarsina per lo spettacolo
più esilarante della stagione teatrale: sotto un
luminoso cielo, perfetto fondale della scena, ci
siamo gustati, dopo una prelibata cenetta al
palazzo “Al Piano”, una machiavellica “Clizia”
superbamente interpretata dalla Compagnia di
Giuseppe Pambieri e Lia Tanzi con Barbara
Bovoli,
Geremia
Longobardo,
Lorenzo
Alessandri, Fabrizio Apolloni e Gianna Coletti,
per la regia di Giacomo Zito. Pambieri nei panni
di Nicomaco, Lia Tanzi in quelli di Sofronia
hanno riportato alla contemporaneità la
macchina comica che è la commedia del
Machiavelli, irresistibili nelle gag inscenate per
rappresentare i vizi di una società in decadenza
che, sì, è indubbiamente quella cinquecentesca,
ma come somiglia alla nostra per pulsioni,
finzioni, travestimenti, tentativi di sottrarsi alle
regole …!!! Una zattera di folli naufraghi
sperduti, alla deriva in una nebbiosa palude –
come suggerisce la suggestiva scenografia - se
non fosse che il tutto è condito con un’ironia
sottile che smaschera l’intrigo e suscita risate
irrefrenabili, a cui si aggiunge anche il ritmo
parossistico della musica capace di avvalersi
persino di danze made in Bollywood. La coppia
Tanzi-Pambieri, affiatata e inossidabile nella
vita, sul palcoscenico sprizza l’energia di due
eterni ventenni, animata da una passione per il
teatro comunicativa e trascinante.
7 Vita di Club n.1
La commedia del Machiavelli affronta il tema
dell’amore senile, ispirandosi liberamente alla
«Casina» di Plauto e proiettandovi aspetti
autobiografici: il cinquantaseienne Niccolò si era
indecorosamente innamorato di una giovane
famosa cantante, Barbara Raffacani Salutati, e le
pulsioni di Nicomaco sono certamente le sue, per
cui comprendiamo perché accanto ai toni ironici
e beffardi ci siano anche quelli malinconici e
patetici. La bellissima Clizia, che fin da bambina
vive presso una famiglia accolta come figlia
adottiva, è diventata, ormai cresciuta, oggetto
delle attenzioni del maturo padrone di casa che
per lei ha perso la testa; la fanciulla, pur sempre
evocata nei discorsi di tutti i personaggi, non
compare mai in scena, perché in fondo
rappresenta un sogno, una chimera, è la metafora
di un inappagabile desiderio. Il libidinoso
Nicomaco progetta di farla sposare a un servo
compiacente per poi godersela a piacimento,
salvando la forma. Ma la sua … saggia moglie
tramerà per fargli trovare nel letto approntato per
dar corpo alle sue fantasie, invece della ragazza,
un giovane servitore, il quale non avrà difficoltà
a spaventarlo con le sue «robuste doti». Il
vecchio, maltrattato e picchiato, quindi rinsavito
(«Sì che, oh vecchi amorosi, el meglio fora /
lasciar la impresa a giovinetti ardenti, / ch'a più
fort'opra intenti, / far ponno al suo signor più
largo onore» (Canzona che chiude il secondo
atto), non potrà che chiedere scusa all’astuta
Sofronia e acconsentire alle nozze della giovane,
riconosciuta come rampolla di nobili natali, con
il proprio figlio Cleandro, di cui, non volendo
rivali, cinicamente diceva: «Tu se' uno di quelli
uomini che non sai far nulla e non mi pari né
morto né vivo». (Atto III, Scena I)
8 Vita di Club n.1
SALUTE&ATTUALITÀ
ALCOL E GIOVANI
UN BINOMIO INFERNALE
Il consumo e l’abuso di alcol fra i giovani e gli
adolescenti è un fenomeno preoccupante se si
considera che chi inizia a bere prima dei 16 anni ha un
rischio 4 volte maggiore di sviluppare alcoldipendenza
in età adulta rispetto a chi inizia non prima dei 21 anni.
di FERNANDO SANTUCCI
S
ono sempre più frequenti le notizie
relative a giovani ricoverati in pronto
soccorso per coma alcolemico, oppure ai
tragici fatti del sabato sera, episodi
drammatici legati ad incidenti stradali, o anche
più semplicemente a liti banali che grazie
all’eccesso di alcol degenerano in episodi gravi
con conseguenze drammatiche.
A mio avviso molte di queste incresciose
situazioni potrebbero essere evitate, basterebbe
solo informare i giovani sulle conseguenze che
l’abuso di sostanze alcoliche produce sui nostri
organi ed in particolare sul sistema nervoso e sul
fegato.
Le bevande alcoliche sono di tre categorie:
 bevande alcoliche fermentate (vino, birra,
sidro);
 bevande alcoliche distillate (grappa, whisky,
cognac, rhum, vodka);
 bevande alcoliche liquorose (amari,
digestivi, liquori dolci come la sambuca, o
secchi);
La componente basilare è quella alcolica che
risulta essere più elevata nei distillati e nei
liquorosi e più bassa nel vino e nella birra.
Concetto fondamentale che giovani e meno
giovani dovrebbero tenere fisso nella mente è
che gli effetti delle sostanze alcoliche
sull’organismo sono dose-dipendenti.
Un consumo moderato di sostanze alcoliche
(sarebbero comunque sempre da evitare i
distillati e gli amari) aiuta a stare meglio ed anzi
conserva la salute.
La quantità consigliata è di 7-10 bicchieri la
settimana per i maschi, 4-7 bicchieri la
settimana per le donne; è assolutamente
sconsigliato bere alcolici o superalcolici alle
giovani fino a 16 anni e ai maschi fino a 14
anni.
 Le ragioni di queste limitazioni nelle donne ad
ogni età e nei giovani è legata al fatto che manca
un enzima che provvede alla metabolizzazione a
livello epatico, ed allora gli effetti tossici si
manifestano più rapidamente, compresa una
minor tenuta anche per piccole quantità;
 L’
abuso di sostanze alcoliche provoca effetti
dannosi sia in acuto che in cronico.
Prima di entrare nei dettagli riguardanti i
sintomi provocati in acuto dall’uso eccessivo
di alcol voglio fare alcune considerazioni
preliminari:
 Qualsiasi tipo di alcol, sia esso vino o birra o
distillato, viene assorbito rapidamente in
percentuali diverse dalla bocca all’intestino e lo
si ritrova nel sangue già 5 minuti dopo
l’ingestione, per essere completamente assorbito
dopo 40 minuti; l’assorbimento è tanto più
elevato quanto più alta è la gradazione alcolica;
 La velocità di assorbimento è anche legata al
fatto che lo stomaco sia pieno o vuoto (se è
vuoto l’assorbimento è molto più rapido);
 La rapidità di assorbimento varia da individuo
a individuo;
 Una volta ingerito e assorbito, l’alcol viene
eliminato in quantità variabile tra il 5% e il 10%
attraverso le urine e il respiro;
 È opportuno che i giovani sappiano che c’è un
rapporto preciso tra la quantità di alcol espirata e
quella presente nel sangue e che questo rapporto
è alla base della prova del palloncino;
 Il tasso alcolemico non deve superare i 0,5
grammi per litro di aria;
 Bere acqua dopo aver bevuto alcol non riduce
l’alcolemia, un bicchiere con circa 10 gr. di
9 Vita di Club n. 1
alcool aumenta di 0,2-0,3 gr. l’alcolemia, infine
il caffè lascia le cose come stanno.
Sintomi della intossicazione acuta da alcol:
 Rallentamento del tempo di coordinazione e
azione;
 Incapacità a misurare la velocità, la distanza e
la posizione dell’auto;
 Riduzione del campo visivo ed allungamento
del tempo di recupero della vista;
 Ottundimento dei riflessi di fronte ad un
ostacolo che compare improvvisamente;
 Aumento dell’aggressività con reazioni
incontrollabili ed anormali;
 È importante ricordare che l’intensità di
queste reazioni è direttamente proporzionale al
tasso alcol emico; con un tasso alcolemico
superiore a 1,5 la possibilità di fare un incidente
aumenta di 25 volte.
È importante ricordare che la risposta
all’ingestione di alcol varia da persona a
persona e a questo proposito, onde evitare
spiacevoli conseguenze, consiglio ad ognuno di
testare la quantità di alcol necessaria a
superare individualmente la fatidica soglia di
0,5 gr.
Il raggiungimento di questo tasso è infatti legato
a più fattori, quali il peso, il sesso, lo stato di
salute, la corporatura, il rapporto tra massa
grassa e massa magra; sarebbe utile che ogni
ragazza o ragazzo (ma questo vale anche per gli
adulti) facesse personalmente a casa una prova
con l’etilometro per vedere quanto alcol è
necessario a non superare la quantità limite dello
0,5 Gr.% (in questa maniera ognuno sa come
fare per autolimitarsi e non superare la fatidica
soglia).
Le donne devono tenere a mente che il loro
tasso alcolemico sale più rapidamente che
negli uomini perché:
 sono più basse di statura;
 perché, a causa della loro costellazione
ormonale, hanno più tessuto adiposo per chilo di
tessuto corporeo;
 inoltre, da ultimo, ma non per importanza,
mancano di enzimi gastrici ed epatici in grado di
metabolizzare l’alcol;
 quanto spiegato per le donne vale anche per i
giovani, ricordando che fino ai 14-17 anni
mancano di un enzima che metabolizza l’alcol
per cui, oltre al danno legato ad un rapido
aumento dell’alcolemia, si aggiunge una grave
compromissione dello stato di salute;
CONCLUSIONI
L’alcol e il vino in particolare sono un grande
dono che il BUON DIO e la NATURA ci hanno
regalato per rendere la nostra vita più piacevole e
per difendere il nostro benessere, chi lo usa in
maniera moderata ne trae un’immensità di
vantaggi ed ha l’opportunità di assaporare uno
dei tanti piaceri della vita; al contrario chi ne
abusa sia in acuto che in cronico conoscerà
l’altra faccia di questa sostanza ed invece di
gustare la prelibatezza di quello che viene
chiamato nettare degli dei ne conoscerà tutti gli
effetti devastanti precipitando dall’Olimpo agli
Inferi.
Riflettete dunque, e, se vi volete bene, datemi
retta: bevete con moderazione sempre a stomaco
pieno, bevete lentamente a sorsi (20 sorsi per
ogni bicchiere), cercate di acculturarvi e di
abbinare in un matrimonio felice cibo e vino;
solo così facendo allungherete la vostra vita e
potrete godere dei piaceri della buona tavola e
della convivialità e da veri gourmet potrete
brindare cantando:
Un pasto senza vino è come un giorno senza
sole, una notte senza amore, un bimbo senza
sorriso!
Mi auguro che qualcuno legga e faccia tesoro di
questi consigli che vi invia il vostro cardiologo
gourmet.
10 Vita di Club n. 1
SALUTE&FELICITÀ
HO IL PARKINSON
“Le persone assennate si sono accorte da tempo che la felicità è come la salute: quando ce l’hai, non ci fai caso.
Ma quando passano gli anni, allora sì che te la ricordi la felicità, eccome se te la ricordi! Quanto a me, me ne sono
appena accorto, sono stato felice nell’inverno del 1917. Un anno indimenticabile, clamoroso, tumultuoso!”
(da Morfina di Michail A. Bulgakov).
di MARIO ALVISI
L
a prima volta in cui corsi il rischio di
perdere la felicità fu nel 1961. Allora
avevo 27 anni. Beata gioventù. A causa
di una forte emorragia intestinale, non
diagnosticata con immediatezza e trascurata per
un rimpallo fra l’ospedale di Rimini, che non mi
ricoverò perché ero un mutuato sammarinese, e
l’ospedale di San Marino, dal quale fui respinto
perché cittadino riminese, per diversi giorni fui
tenuto fra la vita e la morte per mezzo di
tantissime trasfusioni di sangue. Costai un
patrimonio, ma mi salvai. Da allora ho creduto di
poter essere felice per sempre. Di poter vivere la
mia vita senza il pensiero del domani. Con tanti
progetti da realizzare: le “morose”, la vita
matrimoniale, il lavoro, la carriera mia e dei
figli, la casa (tanto cara a Graziella), il
divertimento, la passione per i viaggi e per lo
sport, i concerti, i musei, il mangiare, i miei
tantissimi hobby, gli amici personali e quelli
Lions e, non ultimi, gli amatissimi nipoti.
Insomma una vita frenetica che avrebbe dovuto
avere una durata infinita di tempo. C’era spazio
per tutto senza preoccupazioni del futuro, una
miriade di occasioni con le quali ho potuto
vivere una vita felice. Questa intatta felicità fu
improvvisamente frantumata da un grande e
drammatico avvenimento che ha reso infelice me
e mia moglie Graziella, facendoci sentire persi
per tutta la vita: fu quando ci giunse la tragica
notizia che nostro figlio Enrico, appena
venticinquenne, era deceduto in un bruttissimo
incidente stradale.
Ma poi, come succede
sempre, si ritorna a vivere, anche se non
compiutamente. E così non la felicità intatta, ma
una serena gioia e il gusto per la vita sono
ritornate a riempire i miei giorni. Tanto che
sovente ripeto, a chi me lo chiede, che, se mi
fosse concesso di rivivere, vorrei rifare le stesse
cose che ho fatto e vissuto per oltre settant’anni!
Ma, purtroppo, non succederà! Infatti oggi anche
questa serenità sta prendendo una brutta piega.
Negli ultimi mesi dell’anno scorso ho cominciato
a notare un certo tremore delle mani. Mi
dicevano: “Sai, è la vecchiaia, non preoccuparti”.
Però ormai il guaio era fatto, il pensiero tornava
insistentemente nel cervello. In questo rovello mi
sono ricordo che il compagno di mia sorella
soffre da tempo di Parkinson. Molti dei miei
sintomi potevano considerarsi identici. Il mondo
mi è caduto rovinosamente addosso.
Con tanti dubbi dapprima vado dal medico di
famiglia che, conoscendomi da anni, esclude
ogni possibilità al riguardo. Ma non mi
tranquillizzo. Su suggerimento di mia sorella mi
reco all’associazione degli ammalati di
Parkinson che si trova nei locali dell’Ausl, al
Colosseo. Faccio due lunghe chiacchierate
consultive che in parte mi tranquillizzano.
Però … “Però è meglio che si faccia vedere dal
neurologo”. Io ne conosco uno, vecchio amico di
pallacanestro. Ma loro me ne indicano un altro.
Detto fatto. Prendo appuntamento. Il dottore,
gentilissimo, mi fa camminare, mi fa scrivere, mi
fa fare disegni, mi interroga sul passato e così via
con tanta e umana puntigliosità. A me sembra
tutto a posto. Quando si mette alla scrivania per
scrivere il referto non lo vedo preoccupato. Mi
sento tranquillo, Allora, dico fra me e me: è la
vecchiaia, ha ragione mia moglie. Mario anche
questa volta l’hai scampata bella.
Invece … Invece, alla fine del referto, la
diagnosi traditrice: “sfumata emisindrome
parkinsoniana dx, richiedo TC cerebrale, terapia
consigliata una pillola di Jumex”. Il tono
leggero della diagnosi diventa poi più pesante:
“Controllo fra sei mesi”. Forse con l’augurio
che il mio fisico reagisca! Chissà!
Con lo stato d’animo sotto i piedi (per giunta
sono anche un fifone) gli faccio un sacco di
domande alle quali il dottore dà sempre una
risposta tranquillizzante. “Non si preoccupi; è
una malattia a lungo decorso; lei è già avanti con
gli anni (grazie) e con cure adeguate potrà vivere
11 Vita di Club n.1
bene tanti e tanti anni ancora”. Insomma perché
preoccuparsi più di tanto? Me ne torno a casa a
rimuginare su questa nuova malattia, su come
potrà diventare il prossimo futuro, sul perché
improvvisamente finisca la mia serenità. E
ancora perché sia capitato proprio a me che in
famiglia non ho casi del genere. Insomma un
tormento che diventa ossessione ad ogni piccolo
segno di tremore.
Con questo pessimo stato d’animo mi viene alla
mente un racconto di Dino Buzzati “Il
reggimento parte all’alba” (edizione Il Sole 24
Ore), che avevo letto durante le vacanze. Il
racconto si addice proprio al caso mio.
“L’annuncio della partenza (da questo mondo)
ha sempre un pretesto. E nella gran
maggioranza dei casi questo pretesto si riferisce
alle condizioni di salute. Perciò a comunicarcelo
sono i medici. I quali, a differenza degli altri
messaggeri, non lo fanno direttamente in forma
esplicita, ma cercano di camuffarlo con i più
ingegnosi eufemismi, trasformandolo addirittura
in una felice notizia (vivrà tanti anni ancora!).
Ma Stefano Caberlot (il personaggio del
racconto) non si è certo fatto ingannare quando
il medico curante gli ha fatto capire che la sua
<forma> non è per nulla grave, anzi potrebbe
considerarsi trascurabile (sfumata sindrome),
però non si può negare una sua certa
ostinazione, e quindi può darsi che le cure
debbano protrarsi per un certo periodo e sia
magari opportuno ricorrere, per un eccesso di
prudenza,
intendiamoci,
proprio
una
esagerazione, a qualche applicazione di raggi
(per fortuna non è il mio caso) e, chissà - la
scienza ultramoderna ha i suoi assurdi snobismi
– a ulteriori brevi sedute di cobaltoterapia.”
…“Via via che le udiva, sentendosi sconvolgere
dentro, Stefano traduceva mentalmente, parola
per parola, le tranquillizzanti parole nella
irrimediabile verità. E quando il medico
sembrava aver concluso il discorso, lui lo
riattizzava con opportune domande. ‘Ma,
professore, se non ci fossero miglioramenti?’.
‘Ci saranno, non abbia paura, con le cure che le
ho dato ci saranno’. ‘Ma se non ci fossero?’.
‘Beh, in questo caso, che io escludo, vorrebbe
dire che la nostra ipotesi è inesatta’. ‘Inesatta?’.
‘Dico ipotesi perché gli elementi in possesso non
ci consentono, gliel’ho già detto, il formulare
una diagnosi sicura al cento per cento’. ‘E
allora?’. ‘Beh, tutti i possibili esami clinici sono
stati fatti. Chiaro che non si potrebbe andare
avanti ancora così alla cieca … l’unica sarebbe
andare a vedere’. ‘Andare a vedere come?’.
‘Aprire, dare un’occhiata, richiudere. Una cosa
da niente’. ‘Aprire la pancia?’. ‘Beh, un
taglietto, Questione di un paio di minuti’. ‘E se
si trovasse qualcosa di brutto?’. ‘Che cosa vuole
che sia? È una cosa di tutti i giorni. Ma non è il
caso neppure di pensarci. Una supposizione
gratuita, cervellotica. Assolutamente prematura.
Adesso lei si curi. Continui la sua vita, il suo
lavoro (per sfortuna sono in pensione, con tutto il
tempo per pensare). Niente paura. Stia
tranquillo. Ce la farà’.”
Passati sei mesi dalla visita iniziale, faccio quella
di controllo. Io, dentro di me, già sento di essere
leggermente peggiorato. Le mani mi tremano un
po’ più spesso dopo che si sono appoggiate su un
bracciolo o sul tavolo. I libri e i giornali
cominciano a tremare davanti agli occhi. Quando
sono stanco il corpo sembra avere un movimento
tellurico. Però il medico, ancora una volta, dopo
avermi guardato da cima a fondo, mi rassicura.
Addirittura, alla mia domanda se in futuro la
“testa” non avrà ripercussioni intellettuali, mi
risponde che “sono giovane” e non mi devo
preoccupare più di tanto. Ringrazio per il
complimento sulla gioventù. Ma subito dopo mi
raggela con “Sa, i suoi settantotto anni sono ben
poca cosa rispetto ai tanti casi di senilità che
curiamo, anche se lei li porta bene”!!! Che gioia,
saperlo! Poi la sorpresa. Così, come nel caso di
Stefano Caberlot di Buzzati, “non si può negare
una certa ostinazione”. Arriva la diagnosi:
malattia di Parkinson (Prima era una sfumatura).
Consiglio: una compressa giornaliera di Resquip
in aggiunta alla compressa di Jumex. Un
crescendo farmacologico!
Allora ripenso a Buzzati. “Ma professore, se non
ci fossero miglioramenti?” “Ci saranno, non
abbia paura”. “Ma se non ci fossero?”. “Beh, in
questo caso, che per il momento io escludo,
vorrebbe dire che …”. Per il mio dottore
vorrebbe dire: le prescriverò la Levodopa, che
aiuta a ristabilire gli equilibri di dopamina 1 nel
cervello. Mentre leggo, penso che se fosse
veramente così sarebbe un piacere, un ritorno
alla vita, riprendere la felicità. Ma allora perché
il Parkinson è una malattia inguaribile? È vero,
tutto ciò è scritto su internet, ma non sarà la
1
“La Dopamina è un neurotrasportatore che ha molte
funzioni nel cervello; uno di queste è stimolare nuove
motivazioni fisiologiche quali il sesso, il gusto di un buon
cibo e l’utilità dell’acqua; e nuove motivazioni artificiali
come gli stupefacenti e l’ascolto della musica”
(Wikipedia).
12 Vita di Club n.1
brutta notizia camuffata, ancora una volta, per
non preannunciare “l’annuncio della partenza”?
Tuttavia questa volta non ci casco. Nonostante
tutto ciò e di fronte all’annuncio “fatale”, mi
accorgo di non essere sorpreso più di tanto, di
non essere a terra, di non precipitare nella
depressione, pur sapendo di essere condannato a
morte, e che la mia “partenza” sarà preceduta da
un lungo calvario sostenuto da pillole, ancora
pillole, forse da badanti e … Però non vi so
ancora dire se a causa della salute avrò perso
definitivamente la felicità. Dipenderà, forse, dal
prossimo controllo fissato per marzo del 2013.
MONDO LIONS
INCONTRO TRA “VECCHI LEONI”
Un caro saluto a e da Elio Bianchi.
di MARIO ALVISI
C
on Elio ogni tanto mi sento
telefonicamente. Ma, dopo l’assemblea
dei soci che ha aperto il nuovo anno
lionistico, sapendo quanto gli sia sempre stato e
gli stia a cuore il Club, ho pensato che sarebbe
stato bello andarlo a trovare personalmente, per
riferirgli quanto era stato deciso in quella sede.
La decisione scaturiva da un senso di profonda
amicizia che da tanti anni condividiamo. Mi ha
accolto con entusiasmo, chiamandomi col
nomignolo di Mariolino che da sempre mi ha
dato. Si è interessato subito con grande vivacità a
quanto gli raccontavo e i suoi occhi, pur nel viso
un po’ stanco, esprimevano viva partecipazione e
contentezza per questa visita che gli faceva
mantenere i contatti col Club. Abbiamo parlato
delle prossime attività sociali, delle capacità
operative del presidente, della validità gestionale
del nuovo Consiglio Direttivo che affianca a soci
fondatori giovani capaci ed entusiasti. Abbiamo
parlato della rivista, del cui Consiglio di
Redazione Elio fa parte fin dalla sua nascita, dei
numerosi riscontri di apprezzamento che
giungono da ogni parte e che ci confortano nel
portare avanti questa iniziativa. Abbiamo parlato
delle varie motivazioni che hanno portato alle
dimissioni di alcuni soci e delle difficoltà per
alcuni di partecipare alla vita del Club. Abbiamo
ricordato i vecchi soci, quelli che tanto si sono
adoperati per il Club, delle tante iniziative e
dell’impegno profuso nello scorso anno dal
presidente Morbidi. Gli ho comunicato l’ingresso
dei quattro nuovi soci ed egli è rimasto sorpreso
(per il numero) e contento (per la qualità).
Alcuni di loro li conosceva personalmente come
Alessandro
Gasparri e Onelio Banchetti e conosceva per
fama Michele Marcantonio, avendo fatto parte
della più importante azienda riminese. Mi ha
assicurato che saranno un plus per il Club. Gli ho
fornito alcuni cenni biografici su Stefano
Bizzocchi, che ancora conosciamo poco, ma per
cui la presentazione da parte di Lily Serpa è
garanzia di valenza partecipativa. Mentre
l’inesauribile e sempre sorridente Adriana, cuoca
eccezionale, ci serviva un tè con ottimi
biscottini, abbiamo allargato il discorso alla vita
sociale della nostra organizzazione distrettuale,
in cui Elio è stato da sempre il nostro mentore.
Sorridendo mi ha simpaticamente ricordato che
per questa sua fattiva partecipazione lo definivo
“il carrierista”! La sua provvisoria assenza è per
noi una grossa perdita in termini di qualità e di
guida, poiché il suo “essere lions” è sempre
scaturito
dalla
profonda
convinzione
dell’importanza dell’apporto dei Lions nella vita
sociale. Purtroppo il tempo scandito dalle
medicine e ritmato dall’Adriana, sempre con il
sorriso, ci costringe, malvolentieri, a salutarci.
Lo lascio con una certa riluttanza, consapevole di
quanto un confronto con lui sia proficuo, di
quanto sia rimasto inalterato l’interesse
partecipativo che sempre lo ha contraddistinto e
di come la mia presenza gli abbia dato la gioia
di sentirsi più tangibilmente ancora uno di noi e
con noi. Mi ha salutato senza malinconia,
raccomandandomi di salutare tutti gli amici Soci.
Cosa che faccio molto volentieri. Caro Elio,
aspettiamo tutti che tu riprenda il cammino tra
noi!
13 Vita di Club n.1
L’INTERVISTA
NEL PAESAGGIO SCOLPITO
DALL’UOMO …
… una storia vecchia di millenni. Cava di Fantiscritti: il
marmo bianco più famoso al mondo. Il “Museo”all’aperto di
Walter Danesi per ricordare il lavoro nelle cave.
di LAURA CARBONI PRELATI
M
illenni or sono, nel cuore delle
grandi montagne Apuane, era
custodita un’enorme vena di
marmo bianco; era pura, intatta,
perfetta. Molti secoli dopo, quella grande e
splendida pietra, priva di forme, venne estratta,
tagliata, squadrata, incisa e scolpita dalle mani di
un grande Maestro per diventare un’opera di
incommensurabile bellezza: la Pietà, l’unica
scultura firmata da Michelangelo. A Carrara, tra
Ravaccione e Fantiscritti, Michelangelo pare
abbia trascorso tre anni per scegliere i blocchi di
marmo che gli erano congeniali; con essi
avrebbe creato i suoi capolavori: statue
magnifiche, armoniose e talmente belle e affini
alla realtà da sembrare vive. Altri grandi maestri
attinsero da quella cava: Leon Battista Alberti,
Canova, Donatello, Bernini, eppure mai nessuno
di loro elogiò a sufficienza il durissimo lavoro di
coloro che offrirono anche la vita per estrarre
quei pesantissimi blocchi di marmo.
Dai monti delle Apuane, tanti sconosciuti operai
tagliarono e levigarono i marmi per le sculture
più celebri della storia, così noi oggi, anche per
onorare la memoria di tanti che hanno speso la
loro vita in quel duro lavoro, ci siamo recati alle
cave di marmo di Carrara, luogo che da oltre
2000 anni possiede la vena dei marmi bianchi
più preziosi al mondo e qui, a Fantiscritti,
abbiamo raccolto la testimonianza del signor
Walter Danesi, figlio di un cavatore, che ci ha
raccontato alcuni episodi della sua infanzia,
trascorsa alla casa natale, situata vicino alle cave
di marmo.
“Nacqui tra queste bianche montagne, quinto di
nove fratelli; la nostra, come tante, era una
famiglia numerosa, umile ma molto unita”.
Danesi inizia il suo affascinante racconto, ricco
di aneddoti ed episodi significativi. “Ora siamo
a pochi passi dal tunnel scavato nella roccia che
porta ad una delle vene di marmo più famose al
mondo. Un tempo si arrivava qui alla cava di
Fantiscritti lungo la Via dei Carri, una strada di
detriti, che passava sotto i Ponti di Vara, e
saliva verso la vetta costeggiata da viottoli;
proprio lungo questi sentieri i cavatori, in fila
indiana, raggiungevano l’entrata della cava alle
prime luci dell’alba. Erano uomini giovani e
forti che il lavoro aveva imbruttiti, lasciando sui
volti i segni della fatica, grossi solchi, proprio
come quelli che incidevano sul marmo. Giunti a
Fantiscritti, si riposavano per una manciata di
minuti e, dopo una frugale colazione, al suono
della sirena, ogni squadra saliva al monte per
raggiungere le cave. In uno scenario quasi
irreale si potevano vedere i cavatori salire,
mentre i lizzatori, al lavoro già da ore, lungo la
via di lizza, scendevano con le cariche di marmo
e, urlando e imprecando, si contendevano la via
centrale, sinonimo di orgoglio per un buon capolizza”.
La maniera antica di trasportare i grandi blocchi
di marmo era la “lizzatura”, metodo usato fino al
1966. La carica, ovvero il grande blocco di
marmo, che pesava circa 25/30 tonnellate, veniva
fatta scendere lungo le vie di lizza che avevano
una pendenza del 70-80%. La discesa di questi
giganteschi blocchi avveniva mediante una
specie di slitta che scorreva sopra travi di legno,
14 Vita di Club n.1
unte e intrise di sapone, dette “parati”. Durante la
discesa i blocchi erano trattenuti da funi, prima
di canapa, poi d’acciaio, a loro volta avvolte a
pali corti e robusti, detti “piri”, posti ai lati delle
vie di lizza. Le compagnie dei lizzatori erano
formate da 14 operai ciascuna; c’era il capo ed il
sottocapo e tutto il materiale che occorreva era
portato a mano dagli operai. Comprendeva funi
dal peso di 200Kg. l’una, le braghe, i parati, le
lizze. Tutt’attorno dominava immobile il monte,
che li sovrastava e, come una madre, sembrava
abbracciarli; in realtà quell’abbraccio poteva
essere mortale.
“Il rumore ritmico del mazzuolo sulla subbia dei
quadratori- prosegue Danesi - sembrava
musica; si udivano le grida dei bovari, mentre
passavano sotto il ponte, pungolando le povere
bestie; lo sforzo di quegli animali, mentre
trainavano i carri carichi di marmo, era
immane. Provavo pena per loro e nello stesso
tempo ero percorso da brividi di paura. Di tanto
in tanto nell’aria echeggiava il boato della mina
e il fischio del treno a vapore annunciava che
tutto, qui a Fantiscritti, si stava animando: la
vita, dopo il silenzio della notte, riprendeva in un
mondo fatto di fatica e dolore.
Con mio fratello Urzio, più grande di me di due
anni, mi alzavo presto dal letto e subito entrambi
guardavamo fuori della
finestra. L’aria fresca e
frizzante del mattino
entrava nelle stanze, e
gli occhi andavano alla
ricerca della nostra
veduta preferita: i
Ponti di Vara”.
Una vera cartolina, la
visione dei Ponti di
Vara,
il
classico
stereotipo visivo delle
cave carraresi; un
insieme di notevole
effetto sia nell’assolato
mezzogiorno che nella
magica
atmosfera
notturna, quando la
luna rende profonde le
ombre e soffuso il
chiarore delle rocce.
Qui si incontrano i due
storici
ponti
ottocenteschi
(1890)
della
Ferrovia
Marmifera, una tra le
più ammirate realizzazioni dell’ingegneria
ferroviaria del secolo scorso, con il ponte della
rotabile ultimato negli anni ’30. La ferrovia
marmifera per il trasporto a valle dei marmi,
collegava i tre bacini di Torano, Miseglia e
Colonnata attraverso un’ardita serie di viadotti,
ponti e gallerie.
“Dalla nostra casa, che era situata su un piccolo
colle, si vedeva la cima del monte Maggiore e
Canal Grande, che si ergevano imponenti verso
il cielo, mentre di fronte c’era la stazione per il
carico dei marmi; intorno i depositi di sabbia
detti “renari” e, a pochi metri, il ponte che
collegava Fantiscritti con Ravaccione. Sotto
questo ponte, attivo fino al 1929, passavano i
carri trainati dai buoi. Una delle ultime cariche
che vi passò sotto fu il “monolite”, il più grosso
blocco di marmo mai estratto dalle viscere della
montagna, fiore all’occhiello dell’escavazione
apuana. Sul monolite si intrecciarono storie e
leggende, come le 42 coppie di buoi che lo
fecero scendere centimetro per centimetro dal
cuore della montagna, ma il suo viaggio verso
Roma ebbe dello straordinario, soprattutto
quando si trattò di caricarlo su di una nave al
porto di Livorno per scaricarlo a Civitavecchia,
dopo di che venne scolpito per farne un obelisco,
a ornare una bella piazza di Roma. Abitavano
qui a Fantiscritti non più
di quattro famiglie, più i
“capannari”(guardiani
delle cave); eravamo una
piccola comunità di gente
semplice. Qui alle cave, la
vita non era certo facile,
ma bastava poco per
essere felici. Noi bambini
costruivamo giochi con
materiale
trovato
all’aperto: il cerchio
ricavato
col
filo“elicoidale”,
i
“rutolon”(pezzi di marmo
legati con lo spago) che
noi facevamo rotolare. Ma
sognavamo
anche
di
possedere dei muli; le
bestie alle cave servivano
per il trasporto della
sabbia con cui si segava il
marmo
e
per
noi
possederli era segno di
ricchezza. Anche qui a
Fantiscritti, con un po’ di
15 Vita di Club n.1
coraggio mentre saliva per i viottoli.
fantasia, si potevano avere mille cose, perfino
Tornando a casa le raccontavamo cos’era era
l’acqua calda. Ricordo che mia sorella e altre
successo durante la sua assenza, ma un giorno
donne attingevano l’acqua calda dalla
la trovammo diversa. Il suo passo lento, stanco,
locomotiva
mentre
faceva
rifornimento.
voleva ritardare l’incontro. Ci venne vicino con
Facevamo sempre attenzione che il battere
un’espressione di dolore sul viso e gli occhi
ritmico del mazzuolo non cambiasse, perché
chiari colmi di lacrime. Giunti a casa aprì il
questo stava a significare il procedere regolare
grembiule sul tavolo e noi restammo ammutoliti:
del lavoro. Ricordo un giorno, con mio fratello
c’erano solo bacche; le aveva raccolte lungo il
Urzio, eravamo a farci una scorpacciata di fichi,
cammino perché non aveva trovato panni da
quando improvvisamente il rumore cessò.
lavare. Le bacche quella sera avevano il sapore
Capimmo subito che era accaduta una disgrazia:
delle lacrime della mamma; ce le dividemmo e
agli Scaloni due uomini stavano lavorando ma
poi andammo a letto. Dopo alcuni anni ci
uno di loro rimase schiacciato sotto un blocco.
trasferimmo vicino a Carrara, cosicché noi
Tutti gli uomini accorsero per cercare di salvare
ragazzi iniziammo a lavorare per darle un aiuto.
il malcapitato, ma i soccorsi furono inutili. Fu
Feci diversi mestieri, poi diventai
una scena agghiacciante, e qui
artigiano di oggettistica in
alle cave, di scene così, ne
marmo, ed è qui, a Fantiscritti,
vedevamo spesso. Su tutta
O BUE!
che ho voluto aprire la mia
l’intera vallata, dopo il suono
Quando ero bambino
attività, in questi luoghi cui sono
del “mugnon”, calò un
e
passavo
davanti
a
te
legato da un amore profondo.
lugubre silenzio; le grida dello
avevo paura,
Per me il marmo è vita. Col
sventurato le udii nelle
O
Bue
dagli
occhi
stanchi,
passare del tempo ho deciso di
orecchie per giorni.
ti guardavo col carro che
allestire un museo che parlasse
Rimasi orfano di padre nel
tiravi
del lavoro delle cave, per
1932, così mia madre dovette
carico di marmi.
trasmettere a tutti quello che è
provvedere a noi fratelli. A
Il
sudore
e
la
fatica
stato il sacrificio umano, a
quel tempo per una famiglia
era tanta
testimonianza
delle
nostre
perdere il padre significava
ma camminavi e ubbidivi.
origini, perché col tempo nulla
anche fame, con la lettera
Venivi ricompensato
vada perduto!”
maiuscola.
Non
c’era
con una manciata di fieno
assicurazione per l’operaio;
Una
“Cava
-Museo”per
e
un
secchio
di
acqua
fresca,
con la perdita del capofamiglia
ricordare il lavoro dei cavatori
scendevi fino in fondo alla
Dopo aver percorso un dedalo di
si perdeva ogni fonte di
discesa
strade polverose, trafficate da
sostentamento, e mia madre
per la via della Carriona;
camion carichi di blocchi di
iniziò a fare i lavori più umili.
il
giogo
spingeva
il
tuo
collo
marmo, si arriva sul piazzale
Scendeva in città al mattino
forte.
delle cave di Fantiscritti e qui
presto, dove poteva trovare
Tutti quelli che passavano
viene spontanea una domanda. I
panni da lavare e rimediare
si
interessavano
a
te
cavatori, nel passato, quali mezzi
così quei pochi soldi per
e al tuo carro
usavano per lavorare? Walter
comprare un pezzo di pane. Io
che
ha
dato
il
nome
a
Danesi, figlio orfano di un
invece andavo lungo le vie di
Carrara.
cavatore, che da bambino visse in
“lizza” a raccogliere i pezzi di
Caro
mio
Bue…!
questi
luoghi,
ha
voluto
“parati” scartati dai lizzatori
Quante frustate
raccogliere i pezzi originali, il
per farne legna da ardere.
e pungolate che prendevi;
materiale, gli attrezzi, gli oggetti,
Quando il sole calava dietro la
per fortuna ora riposi
per ricostruire tutte le varie fasi e
montagna mi sedevo ai
in questo museo
la storia dell’escavazione e per
margini della discarica che
dove
sei
accarezzato
dai
raccontare la vita di coloro che
sovrastava la via dei carri, ad
bambini
nelle cave hanno speso la propria
aspettare mia madre. Ricordo
e
ammirato
dai
turisti.
esistenza. In un piccolo Parcola sua figura esile, vestita di
Stai tranquillo
Museo all’aperto sono stati
nero, salire la strada erta a
in mezzo a questi monti amici
raccolti i pezzi originali che
testa china, ed io ed Urzio che
dove hai dato il meglio di te.
Danesi ha acquisito in anni di
la chiamavamo per nome, per
Walter
Danesi
paziente ricerca, validi strumenti
farle compagnia e infonderle
16 Vita di Club n.1
per ricostruire varie fasi e metodologie di scavo.
Un lavoro faticoso e pericoloso come quello del
lizzatore, colui che faceva calare dalle cave,
poste in alto, su una slitta, la lizza, i blocchi di
marmo, fino al punto in cui potevano essere
caricati sui carri, trainati dai buoi, per il trasporto
a valle. Singolare la scultura, a grandezza
naturale, di Boutros Romhein; una coppia di buoi
che trainano un carro, col difficile compito di
trasportare il pesante marmo bianco dalle cave
fino al mare.
GASTRONOMIA
MONUMENTO AL GUSTO
Anche Michelangelo era ghiotto del Lardo di Colonnata, il
buon cibo dei cavatori. Il condimento con sale, spezie ed
erbe aromatiche è un segreto che si tramanda da secoli
di LAURA CARBONI PRELATI
C
olonnata, un piccolo borgo montano
che sorge arroccato su uno sperone di
roccia. Tra i viottoli e le erte strade del
paese si coglie il fascino irresistibile
delle cose semplici e schiette, quelle che ti
comunicano da subito calore e umanità.
Il borgo antico nacque e si sviluppò nel cuore
delle cave Carraresi, tra le alte creste delle
Apuane, attorniato da boschi di cerri, querce e
castagni secolari. Il paese, un tempo
impraticabile per via dei suoi sentieri impervi,
era però un luogo sicuro, protetto da cinta
muraria, e quasi tutti i suoi abitanti,
i colonnatesi, dividevano le proprie energie fra il
lavoro alle cave, la cura dei magri terreni e
l’allevamento di animali da corte e maiali.
Dalle vicine città di Carrara, Massa, Sarzana e
Aulla perveniva frequente richiesta, ai contadini
colonnatesi, di buona carne di maiale nutrito al
pascolo; inoltre, essendo esperti norcini e ghiotti
estimatori, i macellai acquistavano solo tagli
scelti: lombata, coscio, braciole e magro che, a
punta di coltello, andava insaccato nella
preparazione di ottime salsicce e gustosi salumi.
Purtroppo grandi quantità di cotenna e lardo
rimanevano invendute; una parte veniva usata in
cucina (strutto) ma ai colonnatesi, che erano
abituati da un’economia atavica a non sciupare
nulla, venne un’idea geniale: quella di
conservare il lardo.
Fu individuato nel massiccio dei Canaloni l'agro
marmifero da cui scegliere il tipo di marmo più
adatto per la fabbricazione delle vasche,
chiamate “conche”, che potevano servire per la
stagionatura del lardo e fu scelto il “vetrino”, un
marmo poroso, a grana fine e altissima
resistenza. Il lardo, ben squadrato, venne
disposto, a strati, nelle conche collocate nelle
grotte del paese, condito con sale marino ed una
ricca miscela di erbe aromatiche e spezie. Le
condizioni naturali di temperature fresche ed
elevata umidità dei locali, ottenuti scavando la
pietra viva in sotterranei e grotte, permisero la
formazione
spontanea
della
salamoia,
indispensabile alla buona maturazione del lardo
(da sei mesi ad un anno). È questo il periodo
minimo che consente al grasso di acquisire le
peculiari caratteristiche organolettiche che hanno
fatto scoprire alla civiltà del benessere come un
taglio povero si possa trasformare in salume
“unico”. I locali di stagionatura a temperatura
ambiente e la lavorazione manuale che avviene
solo da settembre a maggio, legano da secoli il
prodotto ai ritmi naturali del paese di Colonnata.
Ancora oggi lo stesso procedimento di allora,
insieme all’arte di dosare spezie e sale per una
lunga stagionatura, rendono un semplice strato di
grasso, la parte meno nobile dell’animale, una
vera delizia. È stato definito un “monumento” al
gusto ed oggi è un prodotto molto rinomato, ma
la storia del Lardo di Colonnata affonda le sue
radici nella tradizione legata al mondo dei
lavoratori delle Alpi Apuane e si mescola a
leggende, come quella di Michelangelo, che,
quando saliva a Colonnata per scegliere di
persona i blocchi di marmo statuario, faceva
incetta di lardo, di cui era ghiotto, e, da toscano
verace, non si faceva certo mancare un cibo
sopraffino come questo, prima di affrontare
l’impegno fisico che comporta una scultura.
17 Vita di Club n.1
La dura vita dei cavatori richiedeva cibi
economici e nutrienti per compensare il notevole
sforzo fisico che dovevano sostenere. Era il
companatico “povero”, affettato sottile e
accompagnato al pomodoro per condire le
pagnotte rustiche. Un cibo preparato al mattino
presto e destinato a sostenere per tutta la giornata
i cavatori, impegnati abitualmente a quasi 2000
metri di quota. Il fagottino, insieme
all’indispensabile fiasco di vino, doveva
assicurare le energie necessarie per affrontare le
ripide salite e la fatica degli scavi.
Le innegabili proprietà del lardo e cioè quelle di
essere un cibo di resistenza si devono alla sua
ricchezza in vitamine e acidi grassi essenziali, ad
elevato valore nutritivo.
Al momento dell’estrazione dalla conca, il lardo
si presenta di colore bianco-rosato, qualche volta
con la particolare “striscia” rosa che ne aumenta
la bellezza e ne rende più intenso il gusto. I pezzi
variano dai 4 agli 8 centimetri di spessore, per un
peso da 0,5 a 1 kg.
Il Lardo viene prodotto rispettando l’antica
ricetta ovvero strofinando le pareti delle conche
con aglio e aromi, poi si ricopre il fondo della
vasca con sale grosso, erbe, pepe nero,
rosmarino, salvia e aglio fresco spezzettato. Se
questi sono gli ingredienti tassativi, largo spazio
è lasciato alla ricetta che si tramanda di
generazione in generazione in ciascuna famiglia
di produttori, che viene conservata gelosamente.
Tra le spezie e le erbe aromatiche che possono
conferire al Lardo di Colonnata il suo particolare
sapore anche cannella, coriandolo, noce moscata,
chiodi di garofano, anice stellato, origano e
salvia. Il profumo è fragrante e ricco di aromi, il
gusto è delicato, quasi dolce, finemente sapido,
se proviene dalla zona delle natiche. Si consuma
ripulito dalla cotenna e dagli eventuali residui di
sale, tagliato in fettine sottilissime adagiate su
pane fresco, scaldato o appena abbrustolito.
Ideale accompagnamento sono, come per i
cavatori di un tempo, il pomodoro e la cipolla
crudi, senza alcun ulteriore condimento.
18 Vita di Club n.1
MEETING
UNA SERATA DI SPORT
19 ottobre 2012: Intermeeting dei Lions Club Rubicone,
Rimini-Riccione Host, Rimini Malatesta, Santarcangelo e
Montefeltro alle “Antiche Macine” di Montalbano.
di GIORGIO BETTI
M
etti una sera a cena a parlare di
sport un “marchignolo” autentico
fuoriclasse del giornalismo italiano
come Italo Cucci, e cinque
service-club del Lions International Distretto 108
A (140 soci lions accompagnati da tante belle ed
eleganti signore, ndr) che si esercitano da sempre
ad aprire alla gente le porte di casa e dei propri
sentimenti, e il gioco è fatto. Il successo
garantito.
Metti poi che fra gli ospiti in sala ci sia un
sammaurese doc come Gino Stacchini, uno dei
grandi campioni della Juventus e della nazionale
italiana degli anni Sessanta a sollecitare nella
mente di chi allora c’era i ricordi e le immagini
in bianco e nero e poi a colori delle sue giocate
in tivù, per fare diventare la serata uno showevent. Un revival di vittorie (tante) e di sconfitte
(poche) dalle forti connotazioni emotive, quelle
di Stacchini, autore di un intrigante libretto, “Lo
scatto dell’ala”, in cui c’è il racconto poetico
della sua vita e di quella dei suoi compagni di
campo in bianconero.
Una festa, quella promossa e organizzata dal
Lions Club Rubicone (un bravo va rivolto al
presidente Stefano Berlini che ha riportato lo
sport al centro dell’attenzione generale) cui
hanno con entusiasmo aderito il L.C. RiminiRiccione Host (presidente Maurizio Della
Marchina), il L.C. Rimini Malatesta (presidente
Gianfranco Simonetti), il L.C. Montefeltro
(presidente Vincenzo Vannoni) e il L.C.
Santarcangelo
(presidente
Sira
Sartini
rappresentata nell’occasione dal cerimoniere
Sandra Sacchetti) intrisa dei sentimenti più
autenticamente legati all’amicizia più schietta e
generosa, come solo sanno dimostrarlo i
romagnoli quando ci si ritrova a tavola con del
buon cibo a parlare di vino, di donne e … di
sport. Di politica no. La politica, anche quella
più nobile e con la P maiuscola, è sconsigliata, o
meglio, non figura
fra gli scopi del
Lions International
che invita i soci
lions a “… stabilire
una sede per la
libera ed aperta
discussione su tutti
gli argomenti di
interesse pubblico,
con
la
sola
eccezione
della
politica di parte e
del
settarismo
religioso”.
Così, per una sera, grazie anche e soprattutto
all’elegante introduzione del cerimoniere Carlo
Sancisi e alla verve dialettica di Italo Cucci, un
eloquio estremamente sobrio e accattivante il
suo, che ha rallegrato l’autorevole uditorio con
una ricca sequela di aneddoti (“Ho frequentato
Enzo Ferrari e “Gioanfucarlo” Brera dei quali
sono poi diventato amico. Due grandi
personaggi che mi mancano tanto. Così come mi
mancano le battute fulminanti dell’Avvocato
Agnelli e la simpatia del conte Alberto Rognoni,
che ho avuto come editore al Guerin Sportivo.
Rognoni, fondatore del Cesena Calcio, era
insieme genio e sregolatezza come solo i grandi
sanno esserlo”), di riferimenti al vetriolo contro
il falso moralismo di certi personaggi (“come
sempre vado controcorrente facendomi così un
nemico al giorno – è il titolo di un suo libro di
successo -, ma devo fare l’elogio ai bad boys, ai
cattivi ragazzi: dal cabezon Omar Sivori e a
Diego Armando Maradona, i più grandi di
sempre, fino a Cassano e Balotelli”), di
neologismi (“mi considero un marchignolo
essendo io nato a Sassocorvaro e poi cresciuto a
Rimini in perenne equilibrio fra le Marche e la
19 Vita di Club n.1
Romagna”), lo sport e il calcio in particolare
l’hanno fatta da padroni.
Molto interessante – e non poteva essere
altrimenti - anche la sua interpretazione della
responsabilità oggettiva delle società di calcio e
dei giornalisti (ogni riferimento a calciopoli, al
calcioscommesse e al caso di quel direttore
condannato per omesso controllo di un articolo
ritenuto diffamatorio e scritto da un suo
collaboratore, è del tutto casuale, ndr), così come
particolarmente apprezzate sono state le
notazioni sul ciclismo (Marco Pantani e Fiorenzo
Magni), sul motociclismo (Simoncelli) e
sull’attività sportiva svolta nella vicina
Repubblica di San Marino
patrimonio
dell’Unesco
e
dell’umanità.
“Di San Marino – ha detto
Cucci – ho sempre guardato con
ammirazione l’imponenza del
Monte
Titano.
Sia
da
Sassocorvaro dove sono nato,
sia da Rimini dove s’era trasferita la mia
famiglia, e anche da Novafeltria dove tuttora ho
molti parenti, dovunque andassi mi si parava
davanti la dolce vision di San Marino. Seguo con
molto
interesse
l’attività
svolta
dalla
Federcalcio sammarinese e, di recente, mi ha
fatto piacere sapere che contro l’Inghilterra, nel
mitico Wembley, i ragazzi del presidente
Crescentini hanno fatto bella figura. Con il prof.
Crescentini ricordo di aver intrattenuto dei
buoni rapporti professionali quando dirigevo
Stadio. A metà degli anni Ottanta la Federcalcio
sammarinese chiese l’affiliazione alla Uefa e noi
di Stadio, io ed i miei collaboratori di allora,
Piccioli e Gabellini, sostenemmo il progetto con
tutta una serie di servizi giornalistici che, oltre
all’Uefa, aprirono anche le porte della Fifa.
Inoltre, per il Comitato Olimpico Nazionale
Sammarinese, alcuni anni fa ho curato la stesura
di un libro sullo sport del Titano. Insomma: San
Marino e lo sport sono parti integranti della mia
esistenza”.
Fin qui Italo Cucci. Per il resto, beh, per tutto
quel che riguarda lo sport - inteso in senso lato –
questo può e deve diventare sempre più
strumento di amicizia e di collaborazione fra le
varie anime che popolano il variegato e per certi
versi multietnico panorama sportivo italiano e
quello, del tutto autoctono, dei nostri vicini di
casa della Repubblica di San Marino con cui
abbiamo affinità elettive (il Lions Club San
Marino Undistricted e il Rimini-Riccione Host
sono gemellati, ndr) anche per ciò che attiene
molti altri aspetti della vita civile e sociale che
riguarda i nostri due paesi.
E di questi sentimenti d’amicizia e di
collaborazione si sono resi interpreti il presidente
della Seconda Circoscrizione, Diego Dell’Anna,
unitamente al presidente di Zona B Graziano
Lunghi, fino ai presidenti Stefano Berlini,
Maurizio Della Marchina, Gianfranco Simonetti
e Vincenzo Vannoni, che hanno ringraziato Italo
Cucci
per
la
bella
e
indimenticabile serata. Un
momento d’incontro conviviale
ch’è servito a chiarire alcuni
aspetti dello sport poco noti al
grande pubblico e, soprattutto, a
far conoscere e a valorizzare
l’alta funzione etica svolta dal
Lions International attraverso la
proficua opera svolta dai suoi 1.350.000 (un
milione trecentocinquantamila) soci presenti in
196 paesi del mondo.
20 Vita di Club n.1
ARTE&ATTUALITÀ
UN ALTRO TESORO MONDAINESE?
Se fosse dell’ebanista Tommaso Branchia di Mondaino anche lo splendido coro ligneo, che da oltre 40 anni (sic !)
giace abbandonato all’azione inclemente del tempo, dell’incuria e dei ladri nell’ex convento francescano di S.
Bernardino e Santa Chiara a Mondaino?
di ANGELO CHIARETTI
L
a notizia è di quelle che fanno clamore:
il 13 ottobre 2012, la celebre casa
d’aste Sotheby’s di New York ha
venduto per la considerevole cifra di
158.500 dollari un favoloso refettorio in legno
massiccio realizzato nel 1567 dall’ebanista
TOMMASO BRANCHIA di MONDAINO!
Il mobile, ora acquistato dal Museo Bellini di
Firenze, è stato messo all’asta addirittura dal
Metropolitan Museum of Art di New York, che
ne era venuto in possesso dopo vari passaggi: nel
1930 lo aveva acquistato a Venezia il famoso
antiquario Adolfo Loewi, che poi lo aveva
venduto al collezionista svizzero Werner Abegg.
Il prezzo di partenza era di 50.000 dollari, ma
l’attesa dei collezionisti specializzati è stata tanta
che il valore finale è stato addirittura triplicato!!
L’opera, firmata dall’artista a grandi lettere
scolpite nel legno di una credenza, è bellissima e
veramente grandiosa, quasi mozzafiato: disposta
su tre lati per un totale di 82 metri (sic!!) ed
un’altezza di circa 2 metri e trenta, comprende
due lunghissimi schienali con seduta, due tavoli
ad uso refettorio e due monumentali armadicredenza tipo sacrestia.
Secondo quanto informa il Metropolitan
Museum, il sontuoso arredo proviene dal
Monastero dei Padri Agostiniani di Recanati
(An), i quali lungo gli schienali ed i pannelli
degli armadi fecero incidere interessanti
massime tratte dalle opere teologiche si
Sant’Agostino, uno dei massimi pensatori
cristiani ad avere successo nel Medioevo e
durante il Rinascimento (anche Dante Alighieri,
nella “Divina Commedia”, lo pone in Paradiso
fra i Santi più importanti in compagnia di S.
Francesco d’Assisi e S. Domenico di Guzman).
Ecco il testo delle massime:
“LOCUS PENARII OMNIBUS AEQUA
LANCE” (Luogo di penitenza uguale per tutti)
“OMNIUM OCULI IN TE SPERANT ET TU
DA ILLIS CIBUM” (Gli occhi di tutti si
rivolgono a te e tu dona loro il pane quotidiano)
“EDENT PAUPERES ET SATURABANTUR
ET LAUDABUNT DOMINUM” (I poveri
mangeranno, saranno saturi e loderanno il
Signore)
“FRATRES FAUCES VESTRAE NON
SOLUM SUMANT CIBUM SED ET AURES
ESURIANT DEI VERBUM” (O fratelli, le
vostre bocche non solo mangino il pane
quotidiano ma anche le orecchie ascoltino la
parola del signore)
“EX REGULA S.P. AUGUSTINI” (Dalla
regola di Sant’Agostino)
“MDLXVII OPIFICIUM THOMAE
BRANCHIE DE MONDAINO” (1567 opera di
Tomaso Branchia da Mondaino).
Di Tommaso Branchia non conosciamo quasi
nulla, anche se possiamo pensare che sia
appartenuto alla scuola degli abili ebanisti di
Mondaino, rimasta celebre fino ai nostri tempi:
non dimentichiamo che nel 1918 il parroco
mondainese don Giuseppe Pedretti segnalò
l’esistenza di quello splendido mobile
malatestiano che va sotto il nome di “Cassetta
dotale di Isotta degli Atti” (amante e poi terza
moglie del grande Sigismondo de’ Malatesti di
Rimini) poi regolarmente venduta al Museo
Nazionale di Ravenna ed oggi esposta
all’ammirazione generale nel Musei Civici di
Rimini!
Dunque, sull’onda dell’entusiasmo, ci sentiamo
di avanzare un’ipotesi ora diventata plausibile:
che sia del Branchia anche lo splendido coro
ligneo, con tanto di inginocchiatoi, tavoli e
schienali che da oltre 40 anni (sic!) giace
colpevolmente abbandonato all’azione di tarli,
polvere, luce solare, vento, pioggia, crolli dei
soffitti e … alla mano abile dei ladri nell’ex
21 Vita di Club n.1
convento francescano di S. Bernardino e Santa
Chiara a Mondaino? Se così fosse (ma il discorso
vale in ogni caso) il nostro amato paese
possiederebbe un altro tesoro, da aggiungere alla
già lunga lista del patrimonio artistico
tramandatoci dagli antenati e che un tempo rese
celebre
e
splendente
questo
castello
malatestiano. Perché nessuno interviene in sua
difesa, nonostante le voci che di quando in
quando da tempo gridano nel deserto?
Questo, perciò, è anche un appello ad Autorità e
Cittadini, affinché si faccia qualcosa in tal senso
fino a quando siamo in tempo!
Ora, dopo l’asta di Sotheby’s e del Metropolitan
Museum of Art di New York, anche in nome di
TOMASO BRANCHIA DA MONDAINO!
POSTA
Riceviamo e pubblichiamo:
Carissimo Roberto Morbidi,
ricevo sempre con piacere la tua Rivista "Vita di Club" e voglio esprimere i miei complimenti per come essa è diretta e
"confezionata".
Ho particolarmente apprezzato il n. 3 (che mi è appena pervenuto) per la grande mole di notizie e foto in esso contenute e,
ancora, per l'inserto a colori sui capolavori d'arte.
Spero di poterti incontrare presto per scambiare qualche riflessione sulla stampa lionistica.
Un caro saluto,
Filippo Fabrizi - Direttore Responsabile di "LIONS INSIEME"
Caro Mario Alvisi,
Le rinnovo i ringraziamenti per l'articolo anche da parte del dott. Blasi Amedeo auspicando che tornerete a trovarci al mulino
magari con altri amici del Lions. Non appena uscirà Vi porteremo una copia del libro di fiabe. In questo numero di "Vita di
Club", leggendo gli articoli - purtroppo – su chi non c'è più, ho potuto nuovamente apprezzare la stima e l'amicizia che Vi lega
l'un con l'altro e che coltivate all'interno del vostro gruppo come un giardino sempre verde; vi fa onore.
Ho infine letto e riletto l'articolo che ha scritto riguardo Tonino Guerra, è molto ben fatto e coinvolgente. Penso che come
artista abbia lasciato molto e lo ricorderemo per le sue poesie, i suoi quadri, le sue sceneggiature ecc, ma come uomo cosa ha
fatto per gli altri? Io non lo so, Lei che lo ha conosciuto sa qualcosa?
Con affetto,
Silvio Biondi
22 Vita di Club n.1
L’ANGOLO DELLA POESIA
FIORI D’AUTUNNO E D’INVERNO
Poesie raccolte in giardino.
di ANNA MARIOTTI BIONDI
Settembre
Nella profonda quiete
di un dolcissimo settembre
c’è la leggera nostalgia
di un’estate che volge alla fine.
Nel silenzio gli alberi
sembrano più grandi,
i fiori più preziosi.
Ma è ora di dare il benvenuto
all’autunno…
Ottobre
Trascolora ogni cosa,
spenti i colori dell’estate,
non ancora rosse le foglie.
Il sorriso si smorza
nella malinconia della nebbia,
un senso di privazione
ti coglie ad ogni cader di foglia.
Comincia l’attesa
di una nuova primavera…
Novembre
Il vento è freddo e scuote le foglie,
ma a chi sa ascoltare,
i colori di terra e cielo
regalano una sinfonia d’autunno.
E un tramonto di porpora
scalda il tuo angolo di paradiso.
Dicembre
Stanotte è arrivata la neve;
spariti d’incanto i colori,
resta solo un gran bianco rosato.
Anche il vento oggi tace
e ha lasciato soltanto silenzio.
Poi corri fuori… e ritrovi la gioia
di quand’eri bambina…
Gennaio
Aria di neve, odore di neve.
La luce, fredda
nella sua madreperla preziosa,
regala atmosfere sospese,
forme immobili quasi irreali:
uno spettacolo di graffiti
in bianco e nero.
Febbraio
E’ ancora incerto e lontano
il sole di febbraio.
Magico e rarefatto è il silenzio:
strano pensare di trovarsi così vicini
e così lontani
dalla realtà di ogni giorno.
L’angolo più antico del bosco
sussurra fiabe di gnomi e di fate.
23 Vita di Club n.1
MEETING
FESTA DELLA BANDIERA TRICOLORE
Il 6 novembre i Lions Club Rimini-Riccione Host, Rimini Malatesta, San Marino Undistricted e il Panathlon Rimini si
sono incontrati, uniti dai vincoli dell’amicizia e dall’amor di patria, per festeggiare la Festa della Bandiera.
Ospiti d’onore l’ambasciatore d’Italia a San
Marino, Giorgio Marini, il vicegovernatore
Raffaele Di Vito e i rappresentanti
dell'Arma dei Carabinieri, della Guardia di
Finanza, della Capitaneria di Porto,
dell’Aeronautica e dell’Esercito.
di GIORGIO BETTI
I
l Lions Club Rimini Riccione
Host, così come felice tradizione,
martedì 6 novembre si è riunito in
convivio con gli altri service-club
gemellati nell’elegante cornice dell’Holiday Inn
a Marina Centro per festeggiare, tutti insieme
appassionatamente, le Forze Armate e la
Bandiera Tricolore quale simbolo dell’unità
d’Italia. La serata, avvalorata dalla presenza
dell’ambasciatore d’Italia nella Repubblica di
San Marino, Giorgio Marini, e dal
vicegovernatore del Lions International Distretto
18 A Italia, Raffaele Di Vito, si è valsa di un
cerimoniale sobrio nei contenuti di protocollo in
quanto diretto e armonizzato personalmente dal
presidente Maurizio Della Marchina con la
diligente collaborazione del cerimoniere
Graziano Lunghi e del segretario Guido
Zangheri, che ha trovato piena identità di vedute
nei suoi omologhi Francesca Masi (L.C. San
Marino Undistricted), Gianfranco Simonetti
(L.C. Rimini Malatesta), Pasquale Adorante
(Panathlon) e viva partecipazione da parte
dell’autorevole uditorio lionistico e panathletico,
che ha accolto con fraterna amicizia e calorosi
applausi il comandante dell’arma dei Carabinieri
col. Luigi Grasso; il comandante del 121°
Reggimento di Artiglieria caserma “Giulio
Cesare” ten. col. Francesco Martino; il
comandante del Gruppo 7° Vega col. pilota
Giuseppe Potenza; il comandante la Capitaneria
di Porto capitano di fregata Pier Carlo di
Domenico; e il comandante della Guardia di
Finanza di Rimini col. Mario Venceslai che,
nell’occasione, ha presentato due valorosi atleti
delle “Fiamme Gialle”: il finanziere allievo Alice
Mizzau (una splendida atleta plurimedagliata ai
campionati europei di nuoto svoltisi a Debrecen
in Ungheria) e il maresciallo Giovanni Di
Giulio (medaglia d’oro e primatista mondiale
nella gara di tiro dinamico).
Poi, come si conviene ai momenti più
significativi del Lionismo e dopo aver ascoltato
in religioso silenzio gl’inni degli Stati Uniti
d’America in onore del presidente internazionale
Wayne A. Madden, d’Europa, della Repubblica
di San Marino e d’Italia, a prendere la parola è
stato il presidente “padrone di casa” Maurizio
Della Marchina, che ha esordito dicendo:
“Eccellenza, autorità, vicegovernatore, colleghi
presidenti, gentili ospiti, amiche ed amici lions, è
tradizione per il nostro club iniziare l'annata
sociale con la festa della bandiera, con cui
intendiamo omaggiare il tricolore italiano, come
definito nella sua forma dall'art.12 della
Costituzione e di cui lo scorso anno si è
festeggiato
il
150°anniversario.
Giosuè
Carducci, a Reggio Emilia, nel primo centenario
della bandiera, in una vibrante allocuzione,
definiva così il significato della scelta dei tre
colori: "Il verde, la perpetua rifioritura della
speranza a frutto di bene nella gioventù dei
poeti; il bianco, la fede serena alle idee che
fanno divina l'anima nella costanza dei savi; il
rosso, la passione ed il sangue dei martiri e
degli eroi". Più di recente Carlo Azeglio
Ciampi, presidente emerito della Repubblica
italiana, indicò il tricolore "non come una
mera insegna di stato, ma come vessillo di
libertà, di una libertà conquistata da un
24 Vita di Club n.1
popolo che si riconosce unito, che trova la sua
identità nei principi di fratellanza, di
uguaglianza, di giustizia nei valori della
propria storia e della propria civiltà". È
pertanto a nostro avviso importante e pertinente
presentarvi le testimonianze di coloro che,
rappresentanti delle forze armate dello stato,
vedono, al termine dell'agone sportivo vittorioso,
salire in alto la bandiera della Repubblica
italiana e sentono tumultuosi emergere
l'orgoglio e la fierezza di essere italiani! In
questo momento di intensa partecipazione,
vorrei, infine, che ci unissimo tutti nel pensiero e
nel rispetto dei nostri marinai del Battaglione
San Marco ingiustamente costretti in India”.
Fin qui il presidente Maurizio Della Marchina.
Parole, le sue, che hanno trovato tutti d’accordo.
Nessuno escluso. La speranza di vedere quanto
prima liberi i nostri due marò ha trovato la piena
condivisione della stragrande maggioranza dei
presenti in piena sintonia e sulla medesima
lunghezza d’onda di Della Marchina, così come
hanno ribadito nei loro interventi gli altri
autorevoli
presidenti:
Francesca
Masi,
Gianfranco Simonetti e Pasquale Adorante.
Dopo la cena, a prendere la parola è stato il
comandante della Guardia di Finanza di Rimini,
col. Mario Venceslai, che ha presentato i due
atleti delle “Fiamme Gialle”: Alice Mizzau e
Giovanni Di Giulio.
Una bella illustrazione, la sua, del ruolo svolto
dagli atleti delle “Fiamme Gialle” in ambito
internazionale, che va ascritto soprattutto a loro
merito in quanto permeati di alto senso di
sacrificio e di disciplina.
Al termine delle rispettive relazioni intrise di
pathos e dalle grandi suggestioni emotive in
quanto piene di dati e di risultanze positive
giunte solo al termine di lunghe disfide, vere e
proprie ordalie, “Giudizi di Dio” all’ultima
bracciata nel caso di Alice Mizzau e all’ultimo
respiro di Giovanni Di Giulio, cui sono andati gli
applausi e la simpatia dell’assemblea, i due bravi
atleti sono stati omaggiati con medaglie e
guidoncini dei service-club consegnati loro dai
presidenti sotto i flash dei fotografi e della
telecamera di Vga TeleRimini, che ha ripreso la
bella serata tricolore.
Il Maresciallo Giovanni Di Giulio, in servizio
presso il Comando Provinciale di Rimini, si è
laureato “Campione del Mondo” di Tiro Dinamico
Sportivo con arma lunga (“Shotgun”) per l’anno
2012. L’atleta della Guardia di Finanza - istruttore
militare di tiro operativo di 2° livello - fa parte della
rappresentativa
Nazionale
della
F.I.T.D.S.
(Federazione Italiana Tiro Dinamico Sportivo) ed
ha partecipato al campionato del Mondo svoltosi
dal 22 al 30 settembre in Ungheria, nella città di
Debrecen. La prestigiosa manifestazione ha visto la Il presidente del Lions Club Rimini Malatesta Gianfranco
partecipazione di oltre 500 atleti provenienti da Simonetti fa omaggio ad atleti e ospiti del guidoncino e
tutto il mondo, con una folta e forte rappresentativa della nostra rivista.
degli U.S.A. che nella particolare disciplina vanta una solida tradizione.
Alice Mizzau, finanziere allievo (Udine, 18 marzo 1993), è una nuotatrice specializzata nello stile libero.
Dal 13 dicembre 2011 fa parte del gruppo sportivo delle Fiamme Gialle. Vanta 3 medaglie (oro, argento e
bronzo) nelle staffette 4x100, 4x200 stile libero e 4x100 mista ai campionati europei di Debrecen 2012.
Nella prova individuale dei 100 metri sl e dei 200 metri sl si è invece classificata al quarto posto. Ai
campionati europei del 2009 ha invece ottenuto la medaglia d'argento nella staffetta 4x100 stile libero,
alle spalle della formazione tedesca. Ha conquistato anche numerose medaglie ai campionati italiani: oro
e argento nelle staffette 4x100 e 4x200 sl ai campionati primaverili 2011, bronzo nella staffetta 4x50 sl ai
campionati estivi 2011, bronzo nei 100 sl ai campionati invernali 2011, tre argenti (100 sl, 200 sl, 4x200
sl) ai campionati primaverili 2012. Vive e si allena a San Marino, sotto la guida del tecnico Max di Mito.
Stabilisce il record italiano nella staffetta 4x100 m stile libero con le compagne Federica Pellegrini, Laura
Letrari e Erika Ferraioli con il tempo di 3'39"74, classificata 12ª in batteria ai Giochi Olimpici di Londra
2012.
Molto carinamente così si è presentata:
25 Vita di Club n.1
«Buonasera a tutti, signori, signore e autorità presenti,
innanzitutto, desidero porgere i miei più sentiti ringraziamenti per l’invito a partecipare a questa serata;
sono onorata di avere la possibilità di prendere la parola per raccontare la mia piccola esperienza. Mi
presento: sono il finanziere allievo Alice Mizzau, appartenente al Gruppo Sportivo delle Fiamme Gialle
per lo sport del nuoto, ho 19 anni e vengo dal Friuli, per la precisione dal Comune di Codroipo.
Mi sono arruolata nel gruppo sportivo della Guardie di Finanza il 13 dicembre 2011 e quindi la mia
esperienza all’interno del corpo è limitata. Tuttavia, ho già potuto in parte conoscere la grande famiglia
della GdF, ho sentito fin da subito il calore di questo corpo, che mi ha accolta a braccia aperte. In qualità
di portabandiera delle Fiamme Gialle, ho partecipato agli Europei di Debrecen, dove ho conquistato un
oro, un argento e due bronzi, e alle Olimpiadi di Londra dove ho conseguito il mio record personale,
secondo tempo di sempre in Italia e il record italiano con la staffetta 4 x 200sl.
La mia esperienza olimpica è stata a dir poco emozionante. Ho sognato per anni, fin da piccola, di
prendere parte ai giochi olimpici, ho sempre guardato in tv le competizioni sportive e mai avrei
immaginato, di trovarmi io stessa a nuotare nelle acque dello stadio olimpico. Partecipare a un evento
simile significa respirare lo sport a 360 gradi, ogni sport; e significa assaggiare lo sport di ogni colore, di
ogni angolo del mondo. Significa il confronto con gli atleti di tutto il pianeta, tanto con il campione
americano che per anni è stato un sogno irraggiungibile, quanto con l’umile atleta di Stati più piccoli e
lontani che quasi nemmeno sai che esistono. L’Olimpiade non è solo un 200 stile libero in uno stadio dei
nuoto che toglie il fiato..., l’Olimpiade é vivere in un villaggio olimpico in cui ci si perde data la sua
grandezza, è mangiare cibi di tutto il mondo a qualunque ora, è scambiare la proprie magliette o la propria
cuffia con altre atlete, è scoprire come la nostra bandiera unisca persone di tutta Italia sotto un unico
canto. Tutto questo è stato per me Londra 2012; è questo forte senso di appartenenza e comunanza sotto
gli stessi colori, quelli del nostro tricolore, che mi riporta con la mente e col cuore all’istituzione di cui
faccio parte. Nonostante io non abbia ancora toccato con mano quanto concretamente la Guardia di
Finanza fa nella vita di tutti i giorni, so che l’operato del corpo di cui faccio parte é fondamentale per il
buon funzionamento del nostro paese. La Gdf costituisce un punto di riferimento sempre più forte per il
cittadino. Ogni giorno uomini e donne con la mia stessa divisa scendono in campo per aiutare i cittadini,
nonostante le difficoltà del periodo che stiamo attraversando. Nel mio piccolo, ancora non ho la
possibilità di fare altrettanto, ma posso dare il mio piccolo contributo scendendo in vasca ogni giorno per
portare in alto i colori della mia squadra, le Fiamme Gialle, preparandomi per dare il mio concreto
contributo in futuro. Ringrazio tutti Voi che avete preso parte a questa serata».
Il presidente Gianfranco Simonetti saluta le autorità militari presenti.
26 Vita di Club n.1
RELIGIONE IN ARTE E MUSICA
L’ANNUNCIO A MARIA, MATER MISERICORDIAE
Nell’antica abbazia di S. Maria Annunziata di Scolca sono riprodotti in quadri viventi quattro stupendi capolavori
d’arte, mentre musica e canto creano una suggestione irripetibile per dolcezza e soavità. La regia della Sacra
Rappresentazione è di Annalisa Ciacci.
di FRANCA FABBRI MARANI
“Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta,
più che creatura”.
L
a notte è scesa, tutto è buio e silenzio:
un’atmosfera d’attesa. Si leva vibrante
la preghiera di San Bernardo alla
Vergine, ispirata ed intensa nelle parole
che Dante gli fa pronunciare nel XXXIII canto
del Paradiso. Sono parole dal fascino antico e
sempre vivo, intrise di una spiritualità esaustiva
che solleva l’animo confidente nella confortante
certezza dell’ausilio di Maria, “madre di
misericordia”. Nella sospensione del cuore che
traduce in palpiti e fa sue le ineffabili parole si
accende una luce, la luce della fede che ci
riconduce al momento primo della nostra
salvezza, a quell’ annuncio incredibile e inatteso,
sconvolgente per una vergine poco più che
adolescente, che si prepara alle nozze ed è invece
catapultata all’improvviso in una realtà
stupefacente e prodigiosa. È il palpito del
MISTERO: impenetrabilità e rivelazione,
inconoscibilità e svelamento. Lo svelamento è
rivelazione, iniziazione, conoscenza: l’annuncio
dell’angelo svela il piano di salvezza preparato
da Dio per l’uomo per il suo riscatto, scaturito
dall’infinito amore del Creatore per la sua
creatura.
Uno dei drappi tesi tra le due colonne del
porticato dell’antica abbazia olivetana intitolata
proprio a “S. Maria Annunziata in Scolca”,
trattenuto da due bimbe in vesti bianche, cade a
svelare quello che nasconde: un quadro vivente
che riproduce l’ “Annunciazione” di Simone
Martini 1, tavola dipinta nel 1333 per la cappella
1
Simone Martini, pittore aulico e raffinato, fu molto
ammirato dal Petrarca che, come apprendiamo dal Vasari
nelle ”Vite”, gli dedicò due sonetti: Fu dunque quella di
Simone grandissima ventura vivere al tempo di Messer
Francesco Petrarca, et abbatersi a trovare in Avignone
alla corte questo amorosissimo poeta desideroso d’avere
la imagine di Madonna Laura di mano di maestro Simone;
perciò che avutala bella come desiderato avea, fece di lui
memoria in due sonetti: 77-78 del “Canzoniere”.
di Sant’Ansano nel Duomo di Siena, poi
trasferita a Firenze nel 1799 per ordine del
granduca di Toscana Ferdinando III di Lorena,
ora agli Uffizi.
È il primo dei tre tableaux vivants creati a
ricalcare tre capolavori di pittori eccelsi che, in
diversa maniera, a seconda del loro genio e del
loro sentire, hanno interpretato nel linguaggio
pittorico l’annuncio a Maria, momento cruciale
di salvifica rivelazione, fonte inesauribile
d’ispirazione per gli artisti di ogni temperie
storica e culturale.
L’episodio, momento fondante della religione e
della storia cristiana, è narrato da Luca (unico tra
gli evangelisti a riportarlo) in una pagina
altissima, vibrante d’ispirato slancio mistico e
poetica ispirazione, con una ricchezza di dettagli
e molteplicità di suggestioni atte a sollecitare la
sensibilità di pittori e scultori che, di volta in
volta, hanno privilegiato l’uno o l’altro aspetto
del racconto, sottolineando in varia maniera la
reazione psicologica dei personaggi. La
narrazione di Luca si articola in cinque momenti
precisi: la conturbatio (turbamento di Maria
all’annuncio), la cogitatio (meditazione di Maria
su quanto ascoltato), la interrogatio (perplessità
di Maria e richiesta all’angelo di come possa
avvenire quanto detto dal momento che non
conosce uomo), la humiliatio (accettazione di
27 Vita di Club n.1
Maria che si definisce serva di Dio) e la
meritatio (Maria, dopo la partenza dell’angelo,
sente il suo animo pieno di grazia).
Contestualmente alla caduta del drappo nel buio
della notte si diffondono le parole dell’incipit
della narrazione di Luca, in lingua greca, a
significare la diffusione della buona novella dalla
terra del popolo eletto al mondo dei gentili,
perché Cristo si è fatto uomo e salvatore per tutti
i popoli, di ogni lingua razza e cultura e accanto
a Pietro troviamo Paolo, l’apostolo delle genti.
Le parole narrano il momento scelto da Simone
Martini per fissarlo sulla tela: quello dell’arrivo e
del saluto dell’angelo, cui Maria risponde con un
gesto spontaneo di ritrosia. L’arcangelo
Gabriele, fulgido in veste color oro e ali dorate,
il manto ancora svolazzante per il recente arrivo,
mentre pronuncia le parole di saluto, porge un
ramoscello d’ulivo alla Vergine, timida e schiva,
ignara e perplessa. Tutto l’atteggiamento di
Maria esprime la sua conturbatio: alle parole
dell’angelo si ritrae in uno spontaneo gesto di
torsione del busto e cela parzialmente il volto,
avvolgendosi, quasi a difesa, nel blu totale del
manto che lascia appena intravvedere la veste
rossa. Tutta la sacra rappresentazione è pervasa
d’intenso simbolismo:
- le grandi ali dell’angelo nella tradizione
cristiana rappresentano il pneuma, lo spirito,
oltre che il movimento leggero ed aereo, simbolo
dell’elevazione verso il cielo;
- la veste e le ali dorate ci parlano di lui come
messaggero di luce;
- il ramoscello d’ulivo che viene porto a Maria
rappresenta la pace che la venuta del Salvatore
porterà sulla terra (solitamente l’angelo reca un
giglio, simbolo della purezza della Vergine,
passato, poi, in epoca medievale, a
simboleggiare la purezza e la castità dell’angelo
stesso) 2;
- il libro decorato fa riferimento alla dimensione
spirituale della Madonna.
Cade il secondo drappo: dalla preziosità del
gotico senese passiamo alla classica armonia del
rinascimento fiorentino; da una scena astratta ed
elegante, fuori tempo, ad uno spazio reale e
concreto. Ammiriamo la riproduzione dell’
“Annunciazione“
del
Beato
Angelico,
affrescata nella prima metà del ‘400 in un
2
Nel quadro del pittore senese i gigli compaiono in un
vaso al centro della scena. La scelta di sostituire al giglio
un ramo d’ulivo nelle mani dell’angelo forse è dovuta al
fatto che il giglio era simbolo di Firenze, di cui Siena era
acerrima nemica.
corridoio che immette alle celle, in cima allo
scalone del Convento di S. Marco. Anche il
Beato Angelico ha scelto di raffigurare il primo
momento della narrazione di Luca, connotandolo
tuttavia con un’atmosfera di minor sconcerto, più
pacata e meditativa, e con una gestualità che
sfocia già in un atteggiamento di accoglienza
dell’annuncio da parte di Maria. Mentre il
vangelo di Luca continua, in lingua latina, ci
appaiono due figure composte ed armoniose,
collocate sotto le arcate di un portico. È, questa,
un’ambientazione ricorrente per l’Annunciazione
nella pittura rinascimentale, ma nel dipinto
dell’Angelico si carica del valore di spazio
monastico, in quanto il pittore si ispira agli
stilemi ideati da Michelozzo per il Convento di
San Marco. Il porticato della Scolca richiama,
anche se in forme più sobrie, le architetture del
convento fiorentino sia nell’armoniosa scansione
ritmica degli archi che nella forma degli archi
stessi. Anche il verde delle fronde che si
intravvedono dietro la sommità del porticato
dell’abbazia olivetana ricordano in maniera
sorprendente l’hortus conclusus ritratto nel
dipinto. In accordo con l’ambientazione il Beato
Angelico costruisce una scena che ricrea il
silenzio e la sacralità dello spazio conventuale.
L’angelo non è colto nell’atto del parlare, ma in
un raccolto genuflettersi a braccia incrociate sul
petto, quasi adorante nei confronti di Colei che è
stata prescelta da Dio come madre del suo Figlio.
Nella Vergine lo stupore non è ritrosia,
movimento, ma apertura all’ascolto, come si può
leggere nel viso leggermente proteso e nello
sguardo intento, mentre le mani posate sul
grembo, quasi a protezione, ci parlano già
dell’accoglienza della Parola e del fiorire
dell’amore materno. L’ambiente semplice e
realistico, la serena scansione dei gesti e dei volti
ci parlano eloquentemente della finalità
dell’autore: guidare il monaco attraverso la
28 Vita di Club n.1
rievocazione dell’evento ad una personale
riflessione e meditazione atta a tradursi in
fervida preghiera. Anche qui ritroviamo il
simbolismo, leggibile nella veste della Vergine
in cui il rosa tenue, simbolo di gioia, viene
offuscato dal blu scuro del manto, colore
tradizionalmente
riservato
nell’iconografia
all’Addolorata. Così la palizzata che delimita
l’hortus conclusus è metafora della verginità di
Maria, mentre le colonne del portico
simboleggiano il collegamento tra la terra e il
cielo e fanno riferimento all’albero della vita.
Con lo svelamento dell’ultimo drappo
dall’affresco torniamo ad una tela: la
sconcertante Annunciazione dipinta nel 1534
da Lorenzo Lotto per l’Oratorio della
Confraternita dei Mercanti a Recanati e qui ora
conservata nel Museo Civico di Villa Colloredo
Mels. Il dipinto presenta,
elemento ricorrente nel Lotto,
un particolarissimo approccio
al
tema
sacro
in
un
rinnovamento
totale
della
composizione
rispetto
all’iconografia tradizionale. Il
pittore, insofferente alle norme
e alle codificazioni, all’interno
di un ambiente totalmente
quotidiano e domestico, ribalta
la scena, collocando l’angelo
alla destra dello spettatore e
piuttosto arretrato rispetto alla
figura di Maria che viene posta
a riempire gran parte dello
spazio in primo piano. La
Vergine, una figura quasi
paesana, volgendo le spalle
all’annuncio, si gira verso chi
guarda, a renderlo partecipe del
suo
smarrimento,
quasi
spavento, suscitato dall’improvvisa incursione
del messaggero celeste, capelli al vento e braccio
muscoloso levato in alto in modo imperioso, ad
indicare la presenza di Dio, anch’egli irrompente
improvvisamente dal cielo. La pittura di rottura
del Lotto, straordinariamente innovativa, punta
sull’esasperazione dell’espressività dei gesti con
quella Maria dalla testa infossata tra le spalle e le
mani eloquenti elevate a sorpresa e quell’angelo
plasticamente tornito, reso impositivo nel gesto
un po’ innaturale del braccio alzato. Al Lotto,
motivato da nuove istanze spirituali e stilistiche,
interessano quasi unicamente le reazioni emotive
dei protagonisti; la simbologia è appena
accennata nel libro posato sull’inginocchiatoio,
seminascosto, e nel giglio quasi assemblato al
biancore del braccio dell’angelo.
Mentre osserviamo il quadro vivente ispirato
all’Annunciazione di Lorenzo Lotto, una voce
fuori campo legge per intero il brano del
Vangelo di Luca in lingua italiana. Alla fine del
recitativo la luce si spegne e la scena viene
cancellata per far spazio al centro, in primo
piano, alla straordinaria, intensa immagine dell’
“Annunciata” di Antonello da Messina,
dipinta nel 1476, conservata a Palermo nella
Galleria Regionale della Sicilia, a palazzo
Abatellis. È un’immagine di assoluta perfezione
che il pittore messinese ha saputo creare in
stupendo equilibrio tra forme, luce e colore, che
colpisce come una folgorazione. La Vergine ha
già ricevuto l’annunzio e l’angelo è già “partito
da lei”; dal suo animo
sgorgano le mirabili parole del
“Magnificat” e, mentre le
ascoltiamo emozionati, le
vediamo traslate visivamente
nello sguardo assorto e intenso
di questa giovane donna, che
comunica infiniti messaggi
riconducibili alla molteplicità
ed inesauribilità del mistero.
Un mistero che, di per sé
divino,
si
fa
umano,
immanente, in quel volto così
intensamente vibrante nella
sua compostezza, con l’ombra
del manto che, accarezzando la
guancia,
gli
conferisce
un’improvvisa maturità che
offusca la reale giovinezza dei
tratti e dell’età. Antonello è
riuscito a rendere l’intensità
della reazione emotiva ad un
annuncio sconvolgente che in un attimo
trasforma una fanciulla giovanissima in una
donna consapevole, capace di accettare tutto il
suo impensato ed impensabile straordinario
destino, un destino che nell’annuncio del
concepimento già condensa il presagio di un
futuro pesantissimo e dolente. Il profondo
turbamento dell’animo, che pur sa rispondere
con un fiducioso “Eccomi!”, è affidato non ai
lineamenti del viso, purissimi ed inalterati,
appena sfiorati dall’ombra del manto, ma allo
sguardo intenso e soprattutto a quella mano che
parla, staccandosi con forza dall’azzurro
totalizzante del manto stesso. Questa giovane e
29 Vita di Club n.1
insieme matura donna con il suo gesto crea un
attimo sospeso: l’attimo in cui si compie il
mistero
della
salvezza
dell’umanità.
Nell’armonica compostezza dei volumi e delle
forme che anticipano il rigore rinascimentale di
Piero della Francesca è concentrato un mondo di
sentimenti
ed
emozioni.
L’eccezionalità
dell’evento si fa intensa,
vibrante e
consapevole
accettazione,
in
uno
smarrimento appena accennato
e subito superato; la fanciulla
giovanissima,
intatta
ed
inconsapevole, in un attimo si
fa madre assorta e pensosa,
madre, in Cristo, di tutta
l’umanità.
E questa umanità, troppo
spesso dolente, da sempre l’ha
sentita vicina e così sempre
l’ha pregata, rivolgendosi con
filiale fiducia a Lei, madre
misericordiosa, sempre pronta
ad accogliere le richieste dei
figli, per presentarle e
raccomandarle a Dio. In ogni
epoca mamme amorose hanno scelto per le loro
bambine il “nome dolcissimo” della donna
prescelta da Dio che, in ebraico Miriam, diviene
Maria nella nostra lingua.
Al viso dell’Annunciata di Antonello si
sovrappongono visi di donne del nostro tempo,
che hanno avuto in sorte il nome di Maria.
Scanditi in lenta successione, spostano l’empatia
dello spettatore dall’eccezionalità del miracolo
millenario alla realtà e quotidianità di oggi,
mentre ogni volto racconta la sua storia, il suo
vissuto e quale significato abbia avuto nel suo
percorso di vita il nome che è stato imposto.
Una pausa, a chiudere la sequenza delle
immagini. Quindi il passaggio ad un’altra
situazione, particolarmente significativa in
relazione al fulcro del progetto che è alla base di
tutta la sacra rappresentazione. Anche
fisicamente l’azione si sposta: una vera e propria
macchina scenica, a forma di enorme gabbia,
completamente rivestita di un pesante drappo
scuro, troneggia a fianco del portale della chiesa
abbaziale,
impenetrabile
circa
la
sua
identificazione. Una figura alta, ritta sulla
sommità dei gradini, legge il contratto stipulato
l’11 di luglio del 1445 tra i rappresentanti della
Confraternita della Misericordia di San Sepolcro
e “Pietro di Benedetto pittore”, per affidargli
l’incarico di “fare e dipingere una tavola per
l’Oratorio della Misericordia con immagini
figure ornamenti stabiliti dal Priore e dai
Consiglieri”. La lettura dei termini del contratto
è inframmezzata da interventi di voci fuori
campo: sono le suggestioni e le prefigurazioni
che nascono nel cuore e nella mente di colui che
conosciamo col nome di Piero
della Francesca, che, più che
per il denaro (ritirato dal padre,
non avendo egli ancora
compiuto
25
anni),
si
entusiasma all’idea di un
progetto di così ampio respiro,
in cui far confluire la grande
lezione appresa dagli artisti di
quel tempo straordinario che è
il Rinascimento italiano. Le
idee si affollano nella sua
mente e già vede quello che
sarà
“Il corpo un fusto alto e forte
Il collo come una colonna
Ferma come nelle statue greche
…”
“Una contadina delle nostre
parti
Capace di portare un covone di grano senza
piegarsi
Forte e risoluta ...”
“Il drappeggio della veste sfolgorante di rosso
carminio
Il manto azzurro ultramarino di tessuto pesante
Una corona sottile, ornata di perle
Un gioiello raffinato. Un enorme rubino
circondato di perle …”
L’opera, conosciuta col nome di Polittico della
Misericordia 3, è il primo lavoro documentato di
Piero della Francesca che ci sia pervenuto. Il
contratto prevedeva che fosse terminato in tre
anni e che il pittore facesse tutto da solo, senza
ricorrere ad aiuti; in realtà per la sua esecuzione
di anni ne occorsero 15 e vi collaborò anche un
allievo non identificato. L’indicazione per
l’esecuzione del dipinto è del tutto tradizionale:
un polittico a più scomparti, con lo sfondo dorato
ed uso di colori preziosi, ma Piero, pur
giovanissimo e vincolato da queste precise
limitazioni, riesce a farne un’opera innovativa, di
3
Il polittico fu poi trasferito nella chiesa di S. Rocco,
quindi fu scomposto con perdita dell’originaria cornice
senza però che avvenisse la dispersione dei pannelli. Dal
1901 è conservato nella Pinacoteca Comunale di San
Sepolcro.
30 Vita di Club n.1
grande modernità condensandovi, come si è
detto, quanto appreso dai grandi del suo tempo,
rielaborandolo in chiave personalissima. I
personaggi, che ricordano Masaccio nella
solidità, dignità e solenne volumetria delle
forme, fanno da contorno ad una Madonna
costruita quasi architettonicamente secondo la
lezione prospettica appresa dal Brunelleschi e
teorizzata dall’Alberti. I colori ci parlano di
Domenico Veneziano e la luce diffusa del Beato
Angelico. È questa ieratica e maestosa figura di
Madonna che viene “svelata”, gradualmente,
durante la lettura del contratto e che, a
sottolineare il suo significato di “mater
misericordiae” a poco a poco apre il pesante
mantello (inteso simbolicamente da alcuni come
l’abside di una chiesa e da altri come un
tabernacolo), a ricalcare la struttura geometrica
creata da Piero nel
polittico.
Il
grande
manto
aperto
ad
accogliere e proteggere i
fedeli che confidano
nella Madre è uno
schema codificato nella
tradizione,
a rendere
l’attributo
di
“misericordiosa”
che
troviamo nelle litanie
lauretane, ma Piero lo
reinventa in maniera del
tutto
particolare
e
personale. Solitamente
è una folla quella che si
rifugia sotto il mantello
protettivo della Vergine;
nell’ideazione del pittore di San Sepolcro i fedeli
sono pochi: committenti e devoti, ma tutti ben
connotati, a rappresentare una categoria ben
precisa, che fa riferimento alla società
dell’epoca. Si ritiene che anche lo stesso autore
abbia voluto ritrarsi in quel personaggio con lo
sguardo rivolto verso l’alto in gesto stupefatto ed
estatico.
Sotto l’enorme manto, punto d’incontro tra il
divino e l’umano, vanno a rifugiarsi sei
personaggi che si dispongono simmetricamente
davanti a Maria, genuflettendosi in preghiera.
Compaiono un cavaliere, un prelato ed un
incappucciato rappresentante della confraternita
(manca la figura che Piero ha collocato
frontalmente sullo sfondo, in atteggiamento
stupefatto ed estatico, in cui la tradizione vuole
riconoscere l’autoritratto dell’artista), che si
collocano alla sinistra di chi guarda, mentre,
specularmente, si pongono una dama riccamente
abbigliata, una donna avvolta in un essenziale
totalizzante manto nero ed una monaca. Una
figura sui gradini intona, in latino, le invocazioni
alla Vergine tratte dalle Litanie domenicane che,
di volta in volta, ne sottolineano una peculiarità;
ad esse rispondono i personaggi sotto il manto
con quell’“ora pro nobis” che è invocazione e
supplica ed insieme fidente fiducia nel soccorso
della Madre. Alle loro voci si aggiungono, in
andamento corale e ritmico, quelle di una
processione di donne che avanzano lentamente,
precedute dai sei personaggi, che hanno
abbandonato la protezione del manto e si
dirigono verso l’edificio sacro sulle note del
coro muto della Butterfly che fa da sottofondo.
Anche gli spettatori si accodano ed entrano in
chiesa dove, nel buio
e nel silenzio raccolto,
vedono
stagliarsi
davanti all’altare una
figura slanciata, in
veste blu cobalto. Una
voce
limpida
e
affascinante
nelle
infinite modulazioni
intona
l’“Ave
Generosa”
e
si
effonde
distesa
nell’inno in onore
della
Vergine,
“pulcherrima
et
dulcissima” scritto da
Hildegard
Von
Bingen,
monaca
benedettina vissuta nel XII sec., conosciuta con
l’appellativo di “profetessa della Germania”.
Dall’estasi del canto alla suggestione del
recitativo dei dolci ed ispirati versi del Petrarca
in onore della “Vergine bella”, resi più vibranti
dall’accompagnamento del liuto, cui fa seguito il
ritorno della voce ammaliante che li ripete sulla
base della trascrizione musicale che ne ha fatto
nel sec. XV Guillaume Du Fay 4. Questo
versatile musicista che fin da ragazzo aveva
mostrato straordinarie doti musicali ha creato un
mottetto nello stile detto “cantilena”. Questo tipo
di mottetto (col termine “mottetto” si designa
una forma di composizione musicale, vocale o
vocale-strumentale, a carattere sacro, non
4
Sulla nostra rivista (Vita di Club 2000-2001, n.3) fu
pubblicato un articolo di Nevio Rossi intitolato “G. Du
Fay.: un maestro della polifonia alla corte dei Malatesti”.
31 Vita di Club n.1
appartenente all’“Ordinarium Missae”), non è
molto innovativo dal punto di vista formale, ma
assai apprezzabile per l’eleganza melodica e la
raffinatezza espositiva. (Contrariamente a quanto
può far pensare la parola “cantilena” usata nella
sua accezione comune, il mottetto a cantilena è
vario, esente da ripetitività e formule
stereotipe). 5
Da questo momento tutta l’azione è affidata alla
musica e al canto. Alla voce solista fa seguito il
canto disteso di un piccolo coro che esegue l’
“Ave Maria” di Francisco Guerrero,
compositore del XVI sec., uno dei massimi
esponenti della polifonia sacra spagnola. Le
diverse voci si rincorrono e si sovrappongono, in
suggestivo andamento ritmico, a lodare, in
armonico accordo, la Vergine con la tradizionale
preghiera a Lei dedicata, articolata nelle ben note
tre parti: il saluto dell’angelo, il saluto di
Elisabetta e l’intercessione. Il linguaggio
musicale, vibrante di arcana bellezza e soavità,
concentrato e lineare, risveglia echi dolcissimi
nei nostri cuori. Segue un intermezzo del liuto,
antico strumento a pizzico, che propone un
antico brano melodico, creando un’atmosfera
d’intensa emozione che si prolunga nel silenzio
diffuso. In questa atmosfera sospesa si leva, da
dietro l’altare, l’ardente voce di un coro più
possente che canta l’“Ave Maria” di Jacob
Arcadelt, musicista e compositore fiammingo
pure del XVI sec., che nelle sue composizioni
fonde la tradizione franco-fiamminga con la
musica italiana dell’Umanesimo e del
Rinascimento. Il canto, in contrappunto
omoritmico, affida l’espressione di una celeste
preghiera di confortante dolcezza a emozionanti
contrasti dinamici, che, nell’estrema semplicità
5
Guillaume Du Fay (1397-1474) è una figura molto
interessante, che fin da giovanissimo ha manifestato una
straordinaria propensione per la musica e, attraverso un
percorso di vita segnato da varie occasioni ed incontri, l’ha
portata a piena maturazione. È interessante ricordare che,
durante il Concilio di Costanza (1414-1418), cui partecipò
al seguito del Vescovo di Cambrai, il Cardinale Pierre
D’Ailly, uno dei teologi più eminenti dell’epoca, incontrò
Carlo Malatesti che vi partecipava in qualità di legato e
portavoce papale. Probabilmente fu in seguito a questo che
dal 1420 al 1427 creò diverse composizioni legate alle
vicende dei Malatesti, risiedendo alle corti di Rimini e
Pesaro. Il più antico mottetto Vassilissa ergo gaude del
1420 è dedicato a Cleofe Malatesta in occasione delle sue
nozze con Teodoro il Paleologo, despote di Morea, quindi
compose nel 1423 la ballata Resvellies vous in occasione
delle nozze di Carlo Malatesta con Vittoria Colonna
(antenata della famosa poetessa omonima) e nel 1426 il
mottetto Apostolo Glorioso all’insediamento di Pandolfo
Malatesta come Vescovo di Patrasso.
della condotta delle frasi, ora fluente, ora
spezzata, scava tra le pieghe del testo sacro. L’
“ora pro nobis”, ripetuto tre volte, sottolinea la
supplica fidente alla Madre di misericordia. La
conclusione è un “amen” prolungato e sfumato
in solenne ed estatica ieraticità. Ritorna la voce
solista, a regalarci una tenera “Canzonetta
spirituale sopra la nanna” di Tarquinio Merula,
raffinato compositore del XVII sec., bresciano di
nascita e cremonese di formazione. La
composizione accomuna Maria a tutte le mamme
del mondo nel tenero ninnare del bambino, ma la
ninna-nanna, sotto la dolce finalità apparente di
rassicurare e di indurre al sonno, nasconde la
consapevolezza del futuro dolorosissimo
riservato al figlio, in un continuo richiamo alle
sofferenze che dovrà patire. La chiusa
rasserenante non riesce a cancellare il sentimento
accorato e dolente che sottende tutta la
composizione. Dal fondo della parte absidale,
riservata al coro, avanza una fila di figure
nerovestite che si dispongono sui gradini
dell’altare; erompe l’“Ave Maria” di Franz
Biebl, composta in Germania nel 1964 per un
gruppo di coristi amatoriali. Il testo è quello dell’
“Angelus”, che ci riconduce, in maniera ciclica,
all’inizio
della
sacra
rappresentazione.
Suggestiva miscela di antico e moderno, questa
musica intreccia interventi solistici monodici ed
elaborate responsioni tra i due semicori, con una
scrittura polifonica i cui equilibri sonori sono al
servizio di un fraseggio e un’espressività
vibrante e immediata. Il canto corale nasce
sommesso per poi salire, a poco a poco, a toni
più forti ed intensi, in una polifonia di raffinata
e composita bellezza. L’“Amen” conclusivo,
ripetuto nel crescendo delle varie voci, vero
culmine espressivo dell’opera, si effonde in un
messaggio di forte ed intensa sacralità. Prima del
termine di questa sacra rappresentazione, così
articolata, suggestiva e complessa, di forte
impatto, che riconduce all’unitarietà del progetto
numerosissime informazioni storiche, artistiche e
musicali ed affascina per la molteplicità e la cura
dei dettagli, un nuovo seme viene gettato, a
suggerire la promessa di nuove occasioni e nuovi
incontri. Vengono eseguiti alcuni frammenti
dell’“Ave Maria” scaturita, dopo una delle
sessioni di prove corali, dalla creatività di
Mattia Guerra, il giovane musicista che fa parte
della Cappella Strumentale di Scolca e che, dopo
numerose performances assai apprezzate,
riteniamo abbia davanti a sé un futuro di sicura
fama.
32 Vita di Club n.1
Capolavori d’arte riprodotti in quadri viventi
nell’antica abbazia di S. Maria Annunziata di Scolca
Fotografie di Laura Arlotti
I
Luoghi della memoria: Castello Nelson
Ex Abbazia Benedettina di Santa Maria di Maniace.
II
III
Fotografie di Paolo Marani
IV
VIAGGIANDO VIAGGIANDO
LUOGHI DELLA MEMORIA
Castello Nelson – Ex Abbazia Benedettina di Santa Maria
di Maniace.
di FRANCA FABBRI MARANI
N
ell’assolata
Trinacria
battuta dallo
scirocco,
le
pendici
dell’Etna
accolgono il viandante con
la frescura e l’accogliente
ombra delle pinete e dei
boschi di castagni, betulle,
querce secolari, frassini e
faggi. Alle falde di questo grande cono entro cui
il dio Vulcano incessantemente lavora nella sua
fucina, sta il paese di Bronte, che ne offre la
vista più maestosa e solennemente armonica. A
pochi chilometri di distanza, in un luogo
appartato, si trova Maniace, landa boscosa
attraversata da un torrente dalle limpide acque
sulle cui rive sorge un’imponente costruzione
dall’architettura complessa e articolata. Fino al
1981 questo territorio era un lembo di terra
inglese in terra italiana e, anacronisticamente, un
vero e proprio feudo, l’ultimo rimasto in Italia, in
cui permanevano consuetudini, vincoli e leggi
feudali. Superato un bastione d’ingresso,
attraverso un lussureggiante parco, il visitatore
giunge di fronte ad un grande, sobrio palazzo
nobiliare il cui ingresso è segnato da una vasta
cancellata in ferro battuto sui cui battenti
spiccano, scintillanti in oro, una grande “N” ed
una “B”, lettere che pongono al visitatore
l’enigma iniziale. È un enigma apparente per noi,
condotti qui dal racconto di un amico catanese
che, parlando di pistacchi, l’oro verde della
Sicilia, ci ha spalancato orizzonti sorprendenti,
narrandoci un affascinante capitolo di storia
sconosciuto ai più.
I pistacchi di Bronte … L’eccidio di Bronte …
Emily Bronte …, frammenti nella mente, in una
dolce sera di giugno sono stati ricondotti ad unità
dal suo sapiente narrare e, sorprendentemente,
collegati alla persona di Horatio Nelson,
l’ammiraglio inglese la cui statua campeggia a
Londra, al centro di Trafalgar Square, simbolo
del valore navale della nazione.
Addentriamoci, dunque, prima di visitare
l’imponente complesso architettonico che stiamo
ammirando, nella storia affascinante che ha
come protagonista quest’angolo di terra, abitato
fin dalla preistoria, poi soggetto alla
colonizzazione greca e all’occupazione romana,
ma che fa registrare gli eventi più interessanti
dal periodo medievale in poi.
La prima data certa significativa è il 1040. In
questo anno il grande condottiero bizantino
Giorgio Maniace, noto per lo splendido castello
che, proteso come una prua nel mare di Siracusa,
porta il suo nome, è inviato in Sicilia
dall’imperatore bizantino Michele IV col
compito di riconquistarla alla cristianità.
Occupata Messina, si avvia per l’impervia strada
dell’impenetrabile Valdemone dove affronta col
suo esercito un esercito arabo di 50000 uomini e
ne fa una tale strage che da quel momento il
torrente che scorre nel pianoro teatro della
battaglia prende il nome di Saracena. Dopo la
vittoria, prima di dirigere la marcia verso
Siracusa, in memoria dell’evento e a difesa della
trazzera regia che nel Medio Evo costituisce
l’arteria più importante di penetrazione
nell’interno dell’isola, fonda, nei pressi del
Castello arabo di Ghiran ed-Dequq (Grotte della
Farina), un borgo con annessa torre di guardia
che in suo onore viene chiamato Maniace e che
si popola, oltre alla popolazione indigena, di
bizantini.
Dopo qualche anno la pianura di Maniace è
teatro di una nuova, epica battaglia che apre la
Sicilia alla conquista normanna. Il Gran Conte
Ruggero d’Altavilla infligge una seconda
devastante sconfitta all’esercito arabo e,
conquistata Troina, ne fa la sede della prima
capitale e della prima diocesi, riportando nel
territorio la religione cristiana, impresa che gli
vale il titolo di “Adiutor Christianorum”. In
33 Vita di Club n. 1
questo primo periodo normanno il villaggio si
accresce per la venuta di gente settentrionale,
nota come “lombarda”, che la Contessa
Adelaide, sposa del Conte Ruggero, ha portato
con sé dal Monferrato. Nel 1089 si reca in visita
a Troina, dal Conte, lo stesso papa Urbano II
che, durante la sua permanenza, stabilisce per i
regnanti della Sicilia il grande privilegio della
“Regia Legatia”, con cui li rende Legati Pontifici
nella regione. È un privilegio che avrà gravi
ripercussioni per la storia del luogo, come
avremo modo di vedere in seguito. In questa
occasione Urbano II ha modo di ammirare la
bella immagine della Vergine, tuttora in loco,
venerata nella cappella eretta dal generale
Maniace, a ricordo della vittoria contro gli
infedeli e a protezione degli abitanti del luogo
che porta il suo nome.
Nel 1094 Gregorio, abate di San Filippo di
Fragalà, edifica presso Maniace, accanto al
fortilizio posto a guardia della trazzera regia, la
chiesa di Santa Maria con annessa grancia,
fattoria monastica basiliana, dipendente dal
monastero di cui è abate.
Nel 1173 la regina Margherita di Navarra,
moglie di Guglielmo I il Malo e madre di
Guglielmo II il Buono, spinta dalla venerazione
verso l’immagine bizantina della Madonna
conservata in questa landa solitaria, fa erigere,
probabilmente sul luogo dell’ospizio basiliano, il
cenobio benedettino di Santa Maria di Maniace
che, lambito dalle acque del torrente Saracena,
munito di torre di guardia e presidiato da militi,
assume la caratteristica di fortezza a presidio del
territorio, dove possano trovare assistenza e
difesa villici e pellegrini. Quindi assoggetta
all’Abbazia di Maniace trentadue chiese creando
come una piccola diocesi entro la grande diocesi
di Monreale. Il primo abate, secondo alcune
fonti, è il francese Guillaume di Blois, poeta
latino, insignito di un’autorità quasi vescovile, in
quanto ottiene con bolla di Alessandro III il
privilegio di usare le insegne pontificie: mitria,
baculo pastorale, anello e sandali.
Nel luogo, divenuto punto di riferimento per i
conquistatori, sosteranno poi l’imperatore Arrigo
IV nel 1194, suo figlio Federico II (noto col
nome di Stupor Mundi) con la madre Costanza
d’Altavilla, il re Pietro d’Aragona con il suo
esercito, come pure tutti i suoi discendenti nel
sec. XIV. Sono presenze mal tollerate dal
monastero, tanto che nel 1285 l’abate Guglielmo
(il cui corpo è acetato e custodito dietro l’altare
maggiore) si fa promotore della cosiddetta
“Congiura di Maniace” contro la casa
Aragonese, per riportare sul trono Carlo
d’Angiò. La congiura viene repressa duramente e
i congiurati sono condannati al patibolo, mentre
l’abate Guglielmo è esiliato a Malta, dove
conduce una vita esemplare di penitenza che gli
frutterà il titolo di beato.
Successivamente i monaci tengono un
comportamento poco morale e questo stato di
cose porta ad una decisione gravida di
conseguenze per tutti i monasteri in possesso di
proprietà. Vengono istituiti gli ABATI
COMMENDATARI, persone estranee all’ordine
che, ottenuta la nomina per meriti politici presso
il Papa o il Re, sono autorizzati a percepire tutte
le rendite dei beni dei monasteri, lasciando ai
monaci solo il necessario per sopravvivere. Il
primo abate commendatario del Monastero di
Maniace è Giovanni da Ventimiglia nel 1396.
Nel 1491 le abbazie di San Filippo di Fragalà e
Santa Maria di Maniace si fondono sotto un
unico abate commendatario: il cardinale Rodrigo
Borgia, il futuro papa Alessandro VI, che, senza
averne autorità, le dona a papa Innocenzo VIII.
Questi decide di annetterle al patrimonio
dell’Ospedale Grande e Nuovo di Palermo, che
poi le affiderà per ben undici volte a diverse
famiglie religiose.
Nel gennaio del 1693 un tremendo terremoto
distrugge in larga parte il vecchio monastero
normanno, abbattendo del tutto la torre di
guardia, la parte absidale della chiesa e la
maggior parte delle celle dei monaci. I basiliani,
cui è affidato in questo momento il monastero,
decidono di abbandonarlo e di trasferirsi a
Bronte, nella chiesa di San Blandano.
Ma l’avvenimento di maggior portata storica,
che avrebbe trasformato radicalmente l’esistenza
del monastero e del suo patrimonio terriero di
ben 9000 ettari è da ricondursi a fatti svoltisi non
in terra siciliana, bensì a Napoli nel 1796. In
quest’anno scoppia una rivoluzione contro il re
Ferdinando, organizzata da borghesi e
intellettuali, guidati da un ex ufficiale della
marina borbonica, Francesco Caracciolo.
L’insurrezione ha successo e nasce la Repubblica
Partenopea che mette in serio pericolo il trono
dei Borbone. Il re, costretto ad abbandonare
Napoli, con l’aiuto dell’ammiraglio inglese
Horatio Nelson si rifugia a Palermo. L’anno
successivo tuttavia può farvi ritorno grazie
all’intervento del medesimo Nelson che,
soffocata nel sangue la Repubblica Partenopea,
con una decisione che suscita lo sdegno dei suoi
34 Vita di Club n. 1
stessi connazionali e che resta un’onta nella sua
vita di eroe, dopo un sommario processo,
impicca il Caracciolo all’albero della sua nave.
È presente all’esecuzione la sua amante, Emma,
giovane moglie dell’anziano ambasciatore
inglese Sir William Hamilton, la donna di cui
Nelson sarà sempre perdutamente innamorato,
un anello della catena che lega l’ammiraglio
inglese alla dinastia borbonica. In segno di
riconoscenza per avergli salvato il trono il re
Ferdinando, avvalendosi dei poteri della “Regia
Legatia”, concede a Nelson “in perpetuo”
l’Abbazia di Maniace, quella di San Filippo di
Fragalà, quasi 15000 ettari di terre fertilissime e
la stessa città di Bronte, togliendoli all’Ospedale
di Palermo. Tutto il territorio prende il nome di
Ducea e all’ammiraglio inglese viene conferito il
titolo di “Duca di Bronte”, titolo che Nelson
ebbe molto caro tanto che da questo momento si
firmerà sempre “Nelson Bronte”. Dal re gli è
concessa inoltre facoltà di trasmettere la Ducea,
a suo piacimento, non solo ai parenti, ma anche
ad estranei. Sulle terre e sugli abitanti gli viene
conferito il “mero e misto imperio”, il più
elevato tra tutti i diritti esercitati dal re, vale a
dire la giurisdizione civile e penale,
comprendente lo “jus necis”, il diritto di vita e di
morte. In tal modo gli abitanti del territorio di
Bronte vengono di nuovo vincolati da un
rapporto di vero e proprio vassallaggio dopo che
da appena pochi anni (nel 1774) erano riusciti a
liberarsi dal potere feudale dell’Ospedale di
Palermo riscattandosi a prezzo di immani
sacrifici protrattisi fin dal 1638. Scrive Michele
Pantaleone: “Aveva origine la DUCEA
MALEDETTA, causa delle lotte, delle
persecuzioni, delle violenze e delle illegalità
delle quali sono stati vittime i brontesi per oltre
un secolo e mezzo”. Per quasi due secoli infatti
durerà questa proprietà feudale di una dinastia
straniera e fino a pochi decenni fa si vedeva
sventolare la bandiera inglese sui torrioni del
cosiddetto Castello Nelson.
Horatio Nelson, felicissimo per il dono e per il
titolo, comincia immediatamente a pianificare la
trasformazione dell’antica abbazia in dimora
signorile, ma, prima trattenuto a Palermo per i
festeggiamenti per la soffocata rivolta, poi
chiamato lontano dalla guerra con Napoleone,
non riesce mai a mettere piede nella Ducea di
Bronte. Il nuovo nome dell’invitto ammiraglio
suggestionerà a tal punto l’irlandese Patrick
Brunty da indurlo, per l’ammirazione che nutre
verso l’eroe di Trafalgar, a mutare il suo
cognome in Bronte, aggiungendovi solo una
dieresi. Con questo nome diverranno famose le
sue tre figlie: Charlotte, Emily ed
Anne,
scrittrici
vittoriane
della
prima
metà
dell’Ottocento.
Il primo duca di Bronte dunque non vedrà mai le
terre a lui donate: il 21 ottobre 1805 vince la
famosa battaglia al largo di Capo Trafalgar a
prezzo della vita e la sua Ducea passa al fratello
maggiore, il pastore anglicano rev. William che
gode i benefici dell’immenso territorio senza
tuttavia mai recarvisi. Gli succede la figlia
Charlotte Mary Nelson, unica duchessa di
Bronte, che tiene la Ducea dal 1835 al 1873. Ella
per prima si reca a visitare i possedimenti
siciliani ma, abituata all’animata vita londinese,
li abbandona subito, affidandone la gestione ai
Thovez. Da questo momento per i duchi di
Bronte, accanto al nome Nelson, compare il
nome Hood, in quanto Charlotte è sposata con
Samuel Hood, secondo visconte di Bridport, che
vanta gloriosi antenati nella marineria inglese.
Durante il dominio di Charlotte, nell’agosto del
1860, le tensioni sociali dei brontesi, da sempre
insofferenti al vincolo di vassallaggio, che già
nel 1822 e nel 1848 avevano dato luogo ad
agitazioni, sfociano in una vera e propria
ribellione, che si conclude col tragico epilogo
dell’Eccidio di Bronte, bagno di sangue
tristemente noto, operato dalle truppe garibaldine
del generale Nino Bixio.
Dopo la morte di Charlotte i fortunati
discendenti di Nelson, Duchi di Bronte e Baroni
di Bridport, annualmente vengono ad abitare, per
alcuni mesi, nel vecchio monastero che,
ristrutturato nella parte residenziale, è divenuto
una sontuosa dimora ed ha assunto il nome di
Castello Nelson. Ma nel luglio 1940, dopo la
dichiarazione di guerra dell’Italia all’Inghilterra,
al grido di Mussolini “Dio stramaledica gli
Inglesi”, gli eredi di Nelson sono costretti ad
abbandonare il possedimento, che viene
confiscato e passato prima al Banco di Sicilia,
quindi all’Ente di Colonizzazione del Latifondo
Siciliano. I terreni sono in parte quotizzati ed
assegnati ai contadini del luogo e viene iniziata
la costruzione di un villaggio rurale chiamato
polemicamente “ Borgo Caracciolo” in memoria
della vittima italiana più illustre dell’ammiraglio
Nelson e dello strapotere inglese nel
Mediterraneo. Del villaggio, mai terminato a
causa della guerra e successivamente
definitivamente distrutto, sono tuttora visibili i
resti nel parco antistante l’ingresso del Castello.
35 Vita di Club n. 1
Nel 1943 gli alleati sbarcati in Sicilia prendono
possesso del feudo e lo restituiscono al
discendente dell’ammiraglio inglese Rowland
Arthur Herbert Nelson-Hood. La decisione viene
poi confermata da una speciale Commissione di
Conciliazione Italo-Britannica, istituita per
occuparsi dei danni di guerra. I Nelson-Hood,
riconosciuti legittimi proprietari della Ducea,
cacciano i coloni e ripristinano il loro sistema di
amministrazione feudale. Solo alla fine del
secolo scorso, nel 1981, l’ultimo erede,
Alexander Nelson-Hood decide di vendere tutta
la proprietà, conservando unicamente il piccolo
cimitero inglese in cui riposano alcuni suoi
antenati e il poeta William Sharp, morto durante
la permanenza qui. Il complesso dell’antica
abbazia, ora Castello Nelson e buona parte dei
terreni vicini vengono acquistati dal Comune di
Bronte con l’intento di farne un luogo turistico e
di cultura.
Ma torniamo davanti alla grande cancellata che
segna l’accesso all’impropriamente detto
Castello Nelson, in realtà palazzo signorile
settecentesco ricavato dall’abbazia benedettina,
come testimonia il basso, ombroso porticato
trasversale che ci accoglie e che, anticamente, ne
era il chiostro. Di fronte a noi si apre un vasto,
assolato cortile rettangolare, al cui centro spicca
una grande croce basolitica di stile celtico, eretta
in onore dell’ammiraglio Nelson, come si può
leggere nella dedicazione alla base “Heroi
immortali Nili”. Preferiamo addentrarci, verso
destra, sotto l’accogliente ombra del portico che
ci conduce ad un piccolo spiazzo intercluso tra la
facciata e la porzione porticata del palazzo. È il
sagrato di una chiesa dalle sobrie linee
architettoniche, con semplice liscia facciata in
nuda pietra, in cui si apre, in alto, un’armoniosa
finestra ogivale, sovrastata, sulla sommità del
tetto, da una torretta campanaria. Coeva al
Duomo di Monreale, cui si richiama per alcuni
stilemi, la chiesa di Santa Maria di Maniace è un
insigne monumento dell’arte normanna del XII
secolo, affascinante nella spoglia semplicità, su
cui risalta, in tutta la sua finezza decorativa, uno
splendido portale a sesto acuto, strombato e
polilobato, con archi concentrici dalle
modanature
variamente
ornate
(alcune
riproducono la gomena normanna), sorretti da
lisce colonnine rotonde in porfido, marmo e
granito. L’occhio dello spettatore viene
irresistibilmente attratto dai capitelli riccamente
scolpiti, secondo un modulo stilistico
prettamente romanico, con figure inquietanti dal
forte simbolismo che poggiano su catini
magistralmente ornati da foglie di acanto. Queste
figure rappresentano l’esegesi del simbolismo
contenuto nell’orientamento del portale che,
volto verso occidente a significare le tenebre del
male, si contrappone all’abside canonicamente
collocata ad oriente, simbolo della luce di Cristo.
Il fedele, varcando la soglia della chiesa, è
guidato, dirigendosi da occidente ad oriente, a
lasciarsi alle spalle il peccato per aprirsi alla luce
della grazia. Il messaggio principale viene
dunque calligraficamente trascritto nelle figure
scolpite sui capitelli: quelle di sinistra,
puramente simboliche, non riconducibili ad
alcuna tematica di tipo narrativo, rappresentano
esseri mostruosi ed ibridi, corpi e volti deformi,
animali antropocefali, dragoni, iconografie
inquietanti riconducibili ai “bestiari” medievali,
ipostasi del male; quelle di destra, prettamente
narrative, raccontano invece la cacciata dal
Paradiso Terrestre e le sue conseguenze: il
fratricidio di Caino, il duro lavoro, la caccia e la
guerra.
All’interno ritroviamo la stessa impronta di
rustica ed affascinante essenzialità della facciata;
l’incanto è dato dalla purezza delle linee
architettoniche di un corpo longitudinale
armoniosamente scandito in tre navate da robuste
colonne in pietra lavica, alternativamente
esagonali e rotonde, che si illeggiadriscono negli
archi ogivali in pietra bianca di derivazione
araba, così come le compatte pareti appaiono
illeggiadrite da file di finestre a sesto acuto. In
questo ambiente armoniosamente austero,
coperto, al sommo, da un soffitto ad alte capriate
lignee, si respira un’atmosfera di suggestivo,
silenzioso
raccoglimento
attraverso
cui
pervengono le voci palpabili dei trapassati che
hanno abitato questi luoghi, l’eco dei tanti anni
di storia e dei tanti eventi che li hanno segnati.
L’armonia architettonica subisce un arresto nella
parete di fondo che, chiudendo bruscamente
l’ampia spazialità delle navate, le fa apparire
tronche ed interrotte. La motivazione va ricercata
nel terremoto del 1693 che fece crollare tutto il
presbiterio e le tre absidi, come testimoniato dal
rinvenimento delle fondamenta e di alcuni resti
nella parte retrostante la chiesa e nel granaio del
secondo cortile. Sono reperti che hanno
consentito di definire la lunghezza originaria
dell’edificio, che è risultata essere addirittura
doppia rispetto alla parte tuttora esistente.
L’antica chiesa normanna conserva opere d’arte
di antica e pregevole fattura. La più interessante
36 Vita di Club n. 1
è l’icona posta sull’altare maggiore raffigurante
la Vergine che allatta il Bambino, in una
preziosa cornice in legno scolpito. La tradizione
popolare attribuisce il prezioso dipinto a San
Luca e vuole sia stato portato sul posto
dall’oriente dal generale Maniace a ricordo della
vittoria del 1040. La tavola, dipinta secondo i
canoni bizantini nella composizione dei corpi,
nelle lunghe mani affusolate della Vergine, nel
rosso simbolico della veste del Bambino e nel
piatto e brillante fondo oro, li trascende per
conferire all’immagine un’inconsueta corposità,
ai volti una diversa umanità ed ai panneggi una
singolare morbidezza mediante l’uso sapiente
della luce. Si accompagnano a questo gioiello
altre pregevoli opere pittoriche: un trittico del
XIV secolo, un lacerto di pala d’altare
raffigurante Santa Lucia e l’Arcangelo Gabriele
dell’XI secolo ed un’incantevole Madonna col
Bambino del XVI secolo che richiama la scuola
raffaellesca e che da alcuni è attribuita al
Sodoma. Interessanti due sculture in marmo
bianco del XII secolo che raffigurano
l’Arcangelo Gabriele recante un giglio e la
Vergine Annunciata, bassorilievi in cui
ritroviamo gli stilemi tipici dell’arte romanica
nella ieraticità e rigidità delle figure, nello
sguardo fisso e nella geometria dei panneggi.
Ma è tempo di lasciare la chiesa, tornare nel
primo cortile ed avviarci alla conclusione della
visita. Da questo, dirigendoci a destra, passiamo
ad un secondo, altrettanto assolato cortile
quadrato, con al centro un pozzo in pietra lavica
intorno a cui originariamente erano raccolti i
magazzini, i laboratori le stalle e i granai. Da qui
si gode una bella vista della parte laterale della
chiesa, che colpisce per la sua maestosità ed è
possibile seguire idealmente il tracciato che un
tempo segnava il suo perimetro fino ai resti della
parte terminale dell’abside centrale visibili
dentro il granaio. Proseguendo nella scoperta
giungiamo ad una delle due torri rimaste che
facevano parte del sistema difensivo dell’abbazia
e viviamo un momento d’intenso godimento
naturalistico guardando attraverso le feritoie la
macchia verde che avvolge il castello e
l’argenteo nastro del torrente che si snoda nel
pianoro. Fin qui la parte più riconducibile al
complesso abbaziale. Tornati nella prima corte,
ci volgiamo a guardare la parte posteriore della
sontuosa ala principale della residenza signorile
che prosegue in un’ala laterale al cui pianterreno
si apre l’accesso ad un grandioso giardino
all’inglese con piante secolari nostrane ed
esotiche, ingentilito da fiori multicolori e da una
zampillante fontana. Non ci è possibile visitare
all’interno la residenza, ora trasformata in
Museo, a causa di lavori di ristrutturazione,
quindi torniamo sui nostri passi ammirando,
nell’uscire, l’immenso parco di platani ed
eucalipti che ospita sculture in pietra lavica di
artisti di livello internazionale. Prima di
allontanarci, ci volgiamo a dare un ultimo
sguardo all’elegante facciata di quel complesso
che ci ha permesso di respirare, in un angolo
recondito e sconosciuto, armonia e bellezza nella
percezione dell’affascinante fluire della storia.
37 Vita di Club n. 1
CURIOSITÀ PREZIOSE
GIOIELLI CHE HANNO FATTO STORIA
Per scrivere la storia dei gioielli bisogna ripercorrere la storia dell'uomo, perché il
gioiello, in quanto ornamento e simbolo di status sociale, compare presso tutti i popoli e
in tutte le regioni della Terra dalla preistoria ad oggi.
di ONELIO BANCHETTI
P
reziosi, rari e misteriosi: se quelli di
oggi sono riprodotti in serie a scapito
della loro unicità, i gioielli nel passato
(remoto e prossimo) hanno identificato
ruoli e definito funzioni. Il volume "Storia dei
gioielli" di Anderson Black (edizioni Odoya) li
passa in rassegna tutti. Dai primi objets trouvés
del paleolitico alle corone del Medioevo; dalle
preziosissime uova Fabergé ai gioielli "d'autore"
firmati da grandi artisti. Una panoramica lunga
come la storia dell'uomo, per scoprire curiosità e
aneddoti legati ai gioielli di ogni tempo,
approfondire lavorazioni e artigianalità del
settore e rifarsi gli occhi con immagini degli
esemplari più rari.
Riferiamo 13 curiosità davvero interessanti.
1) Objets trouvés. Si
definiscono
così
quei
materiali (soprattutto denti
d'animali, ciottoli e scheletri
di pesci) che le popolazioni
del Paleolitico indossavano
come accessori. La funzione
apotropaica
(ovvero
esorcizzante contro gli
spiriti
malvagi)
era
predominante rispetto a
quella estetica: le conchiglie
proteggevano dalla sterilità
mentre
i
denti
simboleggiavano forza e
virilità.
2) Monili. Alcune tribù
africane utilizzano i monili per modificare il
proprio aspetto: i labrets (enormi dischi inseriti
nelle labbra) servono agli uomini per sembrare
terrificanti in battaglia, mentre alla donne per
rendersi indesiderabili in modo da scongiurare il
rischio di essere rapite da altre tribù.
3) Collane a catena. Nel Rinascimento le collane
a catena avevano una doppia funzione:
ornamento personale e valore monetario. Ogni
anello della catena
valeva quanto l'unità di
moneta corrente, così
poteva essere usato per
l'acquisto di merci in
mancanza di denaro.
Enrico VIII venne
ritratto con una catena
dell'eccezionale peso di
3 kg, intarsiata con rubini e perle.
4) Corone pesanti. La corona di Sant'Edoardo è
famosa per il suo straordinario peso. Costruita
per Carlo d'Inghilterra nel 1661 e incrostata di
zaffiri, diamanti, rubini, smeraldi e perle pesava
quasi 3 kg e raramente è stata indossata per tutta
la durata di una cerimonia.
5) Perle&Co. La perla non è
una pietra preziosa, bensì
una sostanza organica. Si
forma quando un corpo
estraneo entra in un'ostrica.
L'irritazione
che
ne
consegue fa sì che il
mollusco riversi un fluido
sopra la particella estranea,
fino
a
rivestirla
completamente di tessuto
perlifero. Nell'antichità si
pensava
che
avessero
proprietà medicamentose e
venivano
polverizzate,
disciolte in liquido e poi
bevute.
6) Il padre dello strass. Nel 1700 Joseph Strasser
elaborò un cristallo piombico con caratteristiche
di luminosità simili a quelle del diamante.
Questo materiale venne chiamato Strass dal
nome del suo inventore e molte case reali ne
commissionarono intere parures.
7) Il diamante più grande... È il Gran Mogol e
venne estratto in India nel 1650. Originariamente
pesava 787 carati ("come un grosso uovo tagliato
38 Vita di Club n.1
a metà" era il commento dei testimoni oculari)
poi a seguito di un errore di lavorazione - che
costò la vita allo sfortunato tagliatore veneziano
- si ridusse a soli 280 e si persero le sue tracce.
8) ... e quello più sfortunato. Si chiama "Hope"
ed è il diamante che nessuno
vorrebbe possedere, a dispetto
della sua grandezza (112 carati):
dal suo scopritore in poi la sorte
di chi l'ha maneggiato è stata
segnata da sventura, suicidio,
bancarotta e incidenti mortali.
9) Ghigliottine bijoux. Dopo la
Rivoluzione Francese, anche la
gioielleria venne prodotta per
celebrare la libertà. Gli orecchini
d'acciaio a forma di ghigliottina
in miniatura furono, in quel
periodo, uno degli oggetti più
richiesti.
10) Le uova di Fabergé. Il primo
uovo di Pasqua imperiale
prodotto dal maestro Carl Fabergé
per lo zar Alessandro risale al
1883. All'interno conteneva un
tuorlo d'oro dentro cui c'era un
minuscolo pulcino d'oro. Al suo
interno, poi, si trovava una copia
della corona imperiale e dentro
questa un minuscolo rubino a
forma d'uovo. Il dono fu talmente
gradito che la tradizione proseguì
per i successivi 57 anni.
11) Capelli preziosi. Gli "hair
works" facevano parte della
gioielleria commemorativa in voga alla fine del
1700. Si trattava di capelli dei defunti intrecciati
a mo' di cordoncini e provvisti di ganci in oro da
portare
come
braccialetti
o
collane.
12) Gioielli elettrici. All'inizio del 1800 a Parigi
si producevano gioielli elettrici che vibravano
grazie a una batteria nascosta sotto il vestito. Le
fogge più originali di questi
gioielli raffiguravano simboli
della Rivoluzione Industriale:
macchine a vapore, utensili e ponti
d'acciaio.
13) Opere d'arte. Oltre a quadri e
disegni, Salvator Dalì realizzò anche
gioielli magnifici: orologi gocciolanti,
un cuore pulsante di rubini, una croce
di zollette d'oro. Allergico alle
convenzioni, dichiarò: "mi rifiuto di
porre dei limiti a me stesso. La mia
arte non coinvolge solo la pittura, ma
anche la gioielleria".
Alcune persone pensano che il lusso sia l’opposto della povertà. Non lo è. È l’opposto della volgarità.
Coco Chanel
Quando l’oro parla, l’eloquenza è senza forza. Erasmo da Rotterdam
Non ho mai odiato un uomo a tal punto da restituirgli i gioielli ricevuti in
regalo. Zsa Zsa Gabor
(Il diamante) È molto più bello di un certificato azionario, e non dà
preoccupazioni quando il mercato è fluttuante. Se ne sta tranquillo, incastonato
in un anello o chiuso dentro una cassetta di sicurezza, mentre il suo
valore aumenta ogni giorno che passa. Ronald Schiller
Un titolo curioso in libreria: Paola Jacobbi, Sotto i tre carati non è vero amore.
Storie di gioielli, i migliori amici delle donne, Sperling & Kupfer (collana
Varia)
39 Vita di Club n.1
SERVICE
UNA LUCE PER MANUELE
Il Lions Club Rubicone si è attivato per donare un cane
guida.
di FRANCESCO COVARELLI
L
a decisione finale, per l’acquisto di un
cane guida per un ragazzo di
Sant’Arcangelo, completamente cieco
dalla nascita, è stata presa dal
Consiglio Direttivo del Club, presieduto da
Stefano Berlini, nello scorso mese di settembre.
Il ragazzo si chiama MANUELE BRAVI, di 22
anni, che il club già conosceva perché distintosi
cinque anni fa nel premio di poesia “E. Cantone”
da noi organizzato. È un ragazzo gioioso,
volitivo, vulcanico, con mille interessi: suona il
pianoforte dall’età di otto anni, compone musica
e canta; è uno sportivo di tutto rispetto tanto che
ha riportato otto record italiani. Si stava
preparando per le scorse Paraolimpiadi di
Londra, allenandosi fra l’altro con Cecilia
Camellini, neo campionessa olimpica nei 50 e
100 metri stile libero, ma sopraggiunti impegni
di studio e problemi economici lo hanno
costretto ad abbandonare l’attività. Ora è a
Milano dove studia Psicologia dei processi
sociali e comportamentali presso l’Università
Bicocca. È inserito in un campus dove lavora per
“Dialogo & Buio”, una mostra-viaggio guidato
nella completa oscurità che permette di
sperimentare un nuovo modo di “vedere”
affidandosi al tatto, all’udito, all’olfatto ed al
gusto per vivere un’esperienza straordinaria,
dove i ruoli si invertono e le barriere si
abbattono. Manuele ha già preso contatto con il
Centro Addestramento cani guida di
Limbiate ed è quasi certo, se non
sopraggiungeranno
contrattempi,
che il cane gli sarà consegnato il 1°
Giugno 2013 nella Piazza del
Municipio
di
Gambettola
diventando il suo nuovo fido
amico a quattro zampe, sempre
pronto al servizio e se necessario a
tutelare la sua integrità fisica
permettendogli di acquisire libertà ed
indipendenza.
Vale la pena di ricordare che proprio quest’anno
il Comune di Gambettola è entrato a far parte del
nostro territorio, per cui l’evento assumerà anche
l’importanza di un significativo biglietto di
presentazione del Lions International.
Molti nostri soci, e per la prima volta credo
anche le nostre signore, metteranno in cantiere
diverse iniziative tese a finanziare il service e nel
contempo dare visibilità all’evento. La notizia di
questo nostro importante ed impegnativo sforzo
è stato recepito anche da alcuni Club amici che si
sono proposti disponibili a partecipare a questa
eccezionale manifestazione.
Un cane guida per un cieco può aiutare a vincere
l’isolamento, può portare conforto perché è
testimonianza d’amore: l’amore di coloro
che l’hanno pensato, l’amore di coloro
che l’hanno istruito, l’amore di
coloro che l’hanno donato. Essere
Lions vuol dire anche essere
testimone di solidarietà e noi tutti
dobbiamo
sostenere
questo
“servizio cani guida”, che onora la
nostra Associazione da oltre 50
anni ed allevia tante tragiche
esistenze.
40 Vita di Club n. 1
L’ANGOLO DELLA POESIA
PAROLE NEL BUIO
Poesie tratte dal libro Premio di poesia “E. Cantone”, XII Concorso Letterario – 2008, dove l’autore era risultato
finalista ex aequo.
di MANUELE BRAVI
Passione
Potendo scegliere, ho preferito non guardare.
Chiudere gli occhi alla vista del dolore
che scivolava languido dentro di me.
Mi distruggeva nella sua trappola,
mi rendeva esausto.
Lento e sordo era il silenzio davanti al tuo sguardo,
ardeva scandendo il particolare, bruciava di speranza
aspettando la mossa più giusta.
Ma l'occhio attutiva quelle che erano fitte, la mente
eludeva ciò che era debolezza.
Orecchio fermo e passivo,
ecco ciò che avevi deciso di essere.
Passione non è respiro regolare,
si tratta di ben altro che staticità.
Stravolge l'ordine, plasma la carne, la mente,
sconvolge i tempi.
Tu fai tutt'altro.
Un muscolo scarlatto come il tuo, quando crudo e
fermo, non merita il nome che comunemente
condividono tutti.
Tanto varrebbe chiamarlo pietra,
ma, lo sappiamo, la pietra non pulsa.
Il sangue allora non sarebbe altro che smalto rosso,
un dettaglio sgargiante, pronto a decorare
quella pietra cardiaca.
Certi giorni mi sento male dentro,
ma, come te, io non lo ammetterò.
Così ho afferrato che anche i demoni
usano maschere splendide per adeguarsi all'ambiente.
Nascondono artigli, veleno e indole,
strappandoti lentamente forze e orgogli.
Ho imparato che gli angeli non vivono.
Che le ferite sotto i cerotti non si cicatrizzano.
Ho lottato per te, costringendoti ad un'idea
un po' recriminante.
Ho usato catene d'oro, però ho sbagliato i calcoli.
Tu scivoli nel presente,
senza aver mai sofferto per il passato.
Tu ridi di gusto, non rendi indispensabile urlare.
io non posso vivere nel tuo mondo, lo sai.
Se non sei indifferente,
lo devi sapere anche dimostrare.
Io sono qui, impara a guardare,
io sono qui pronto a guarire lentamente,
a dimenticarmi per ricominciare.
È giunto il momento di chiudere
le pagine di questo diario.
So che il tempo lo rende improbabile
e le tue foto lo rendono difficile.
Non riesci davvero a vedere intorno ai miei occhi?
Hai avuto tanti segni, e io solo tanta esperienza.
È vero, certe cose, per capirle, devi sentirle.
Ti ho ceduto il mio bene,
ma l'hai intrappolato nel ghiaccio.
Alzati dal tuo posto, ti prego, reagisci.
Siediti qui vicino a me, guardami
e dimmi che non sono solo.
Certe cose possono aiutare,
perché tu puoi vedermi, mentre io non riesco più.
41 Vita di Club n.1
Addio
Il freddo condensa il dolore masticato,
ormai distinguo il suo sapore, non è difficile.
Ha una strana piacevolezza.
Emana profumo di lavanda, ne ha anche
lo stesso colore nostalgico.
Il dolore è molle e ti brucia dentro le viscere.
Bussa sotto la pelle, travolgendo tutto il resto.
Ti avvolge dolcemente tra le sue spire,
ti accarezza e ti riduce al nulla.
Crudeltà o umanità? Dove sta la differenza?
Una ragnatela d'acqua gelata che lava
il mio corpo livido: questa è la sofferenza.
Annullarmi tra il pollice e l'indice della mente.
Semplice.
Come appare ogni sofferenza: semplice.
Il sole ora sfuma nel pallido,
la luce non mi riscalda, acceca.
L'abitudine al buio rende fastidiosi i bagliori.
Strano come le cose possano cambiare così,
da un lunedì a un martedì.
Le visioni vengono sostituite
una volta presa coscienza.
Questo è ciò che distingue la sofferenza
dall'insensibilità.
Piango, ma in silenzio.
Urlo, ma nessuno ora può sentirmi.
Posso negare immagini passate per star meglio?
Posso dimenticarti?
Perderei i ricordi, e con essi pulirei il passato.
Le memorie rendono le persone ciò che sono.
Negando il passato, annienterei me stesso.
Ancora posso osservarti, ma non so
quanto mi permetteranno di ricordare.
Il tuo viso non rispecchia ciò che provi dentro.
Cosa nascondi?
La vita non è un gioco, o almeno non lo è sempre,
accetta gli errori, anche senza condividerli.
Non essere triste, me ne renderei conto.
Sai, il mio cuore è una macchina fotografica,
che ha catturato solo i momenti più belli,
mentre la mia mente nascondeva i momenti tristi.
Col tuo aiuto sono cresciuto, ho colto i colori.
Non azzardarti dunque a soffrire per me,
non ne hai motivo.
Mi hai guarito, te ne sono grato.
Ora però è tempo che vada.
Prima di dissolvermi mi fermo, ti studio
un'ultima volta.
Assaporo nei dettagli la tua forma.
Quella stessa che custodirò indelebilmente
nelle mie memorie una volta partito.
Non so cosa mi aspetta, ma sarò al sicuro.
Un'ultima lacrima non vista, un ultimo sorriso
e un ultimo saluto:
"Ti amo".
MANUELE BRAVI, nato a Rimini il 6 Settembre 1990, ma residente a Sant’Arcangelo con i genitori ed
una sorella, è cieco al 100% dalla nascita. Ha frequentato il Liceo scientifico "Marie Curie" di Savignano
sul Rubicone e conseguito la laurea in "Scienze del comportamento e delle relazioni sociali" presso la
Facoltà di Psicologia dell'Università di Bologna - Polo distaccato di Cesena. Sin dall'età di 16 anni ha
praticato attività natatoria a livello agonistico, conseguendo un primato: è infatti ancora oggi detentore di
8 record italiani cat. S11. Il Lions Club "Rubicone" gli ha donato una speciale attrezzatura da usare in
allenamento che gli permette di mantenere le traiettorie in piscina. Dall'età di 8 anni suona il pianoforte;
come autore di poesie ha vinto diversi premi, fra cui anche un Premio di poesia bandito dal Lions Club
"Rubicone". Ha seguito un corso di orientamento e mobilità con Mario Fossati che risulta essere un
luminare nel settore. Per la mobilità si avvale del bastone bianco oppure è accompagnato dai familiari.
Per una maggiore autonomia ha fatto richiesta per un cane guida.
42 Vita di Club n.1
MONDO LIONS
LATINUS LUDUS
Sotto l’egida del Lions Club Cattolica e del Comune di Mondaino è programmata per il 28 aprile, 2
giugno 2013 la XXV edizione del Latinus Ludus, che – come è spiegato nel Bando di Concorso - è un
concorso in onore dell’abate Sebastiano Sanchini (1763-1835), mondainese, precettore del poeta
Giacomo Leopardi, ed ha finalità di gioco, socialità e divulgazione della cultura classica. In quanto gioco,
persegue il fine di sportiva competizione nel rispetto delle regole ludiche e degli altri contendenti. In
quanto socialità, tende all’incontro con compagni di studi appartenenti ad Istituti e Città diversi.
Relativamente alla divulgazione della cultura classica, si prefigge di stimolare gli studenti al suo studio e
approfondimento e di offrire ai docenti percorsi estranei a quelli istituzionali.
La commissione, composta da docenti dell’Università di Urbino, si avvarrà, per la valutazione degli
elaborati, della collaborazione di docenti di Scuola Media Superiore, tra cui soci Lions e consorti di
Lions.
Riportiamo la storia dell’esimio precettore tratta da:
Rosa Sanchini Forestiere, “Don Sebastiano Sanchini Precettore del poeta Giacomo Leopardi”,
Mondaino, 1991.
S
ebastiano Sanchini nacque la sera del 19
gennaio 1763 a Laureto, frazione di
Mondaino, allora territorio dello Stato
Pontificio. Il padre Pietro, agricoltore benestante,
apparteneva ad una delle più antiche famiglie
locali. In questa zona di campagna Sebastiano
passò la sua fanciullezza circondato dalla
famiglia, composta oltre che dal padre, dalla
madre Brigitta e da sette fratelli e sorelle, tutti
maggiori di lui. Da questa infanzia avrebbe
attinto un patrimonio umano di conoscenze ricco
di comprensione per il prossimo, che formò il
suo carattere e lo rese capace di affrontare, poi,
anche le situazioni più difficili. La sua
formazione culturale iniziò nel Convento di
Mondaino sul colle denominato Monte
Formosino. Nel 1786 Sebastiano Sanchini fu
nominato Sacerdote e si trovò a compiere una
scelta. Per chi, come lui, proveniva da una
famiglia di campagna agiata, ma priva di titoli
nobiliari, due erano le possibilità: tendere ad
avere la cura delle anime di una parrocchia rurale
o trovare collocazione presso una famiglia
altolocata, in qualità di maestro-precettore.
L’amore per le materie letterarie ed umanistiche
e la grande considerazione del tempo per il ruolo
di precettore di giovani fecero optare Don
Sebastiano per questa seconda scelta. Nel 1800,
dunque, cominciò questa particolare esperienza e
fu istruttore presso la famiglia dei Conti Cassi di
Pesaro, congiunti dei Leopardi. Nel 1807, su
consiglio del suo ex allievo Francesco Cassi, il
Conte Monaldo Leopardi chiamò Don Sanchini a
Recanati perché facesse da maestro per i figli
Giacomo, Carlo, Paolina e Luigi. Si mise
all’opera con sollecitudine per rispondere alle
speranze in lui riposte. I ragazzi lo
assecondarono con grande volontà, in questo
spinti dal padre che seguiva personalmente
l’andamento degli studi; specialmente Giacomo
dimostrò una precocità d’ingegno che “quasi
stordiva”. Questa scuola domestica fu improntata
alla cultura tipica del tempo, dove particolare
privilegio avevano gli scrittori classici latini, tra
cui in particolare Orazio, non disdegnando lo
studio delle materie scientifiche. Giacomo era
quello che tra i fratelli emergeva a meraviglia
con potente memoria e duttilità d’ingegno,
spesso aiutando gli altri fratelli. Uno dei meriti
del precettore fu quello di stimolare Giacomo
bambino ad esprimere in versi il misticismo della
natura. L’opera d’insegnamento proseguì fin al
20 luglio 1812, anno in cui Don Sebastiano
comunicò al Conte Monaldo “che era giunto il
momento da lui previsto e riteneva compiuta la
sua opera di maestro”. Lasciò traccia indelebile
nella memoria del poeta che alla sua morte, il 23
luglio 1835, scriverà a fronte di un libro
intitolato “Poesia e prose in morte di Amaritte”
dell’abate-conte G.L.Pellegrini:
“Donato alla libreria Leopardi per lo
chiarissimo e dottissimo uomo il Signor Don
Sebastiano Sanchini morto tra le lacrime di
tutti i buoni e vero cordoglio dei suoi
moltissimi amici”.
43 Vita di Club n.1
CURIOSITÀ DANTESCHE
DANTE ALIGHIERI QUESTO SCONOSCIUTO
Quando si pensa a Dante Alighieri non si può fare a meno di
rappresentarselo come lo abbiamo conosciuto nelle illustrazioni
scolastiche tramandate nei secoli: il tipico copricapo sulla testa cinta di
alloro, il nasone prominente (e possibilmente aquilino) e, addosso, il
pastrano rosso lungo fino a terra. Ma lo conosciamo veramente?
Immaginiamolo alle prese con l’Ufficiale dell’anagrafe di Firenze per farsi
rilasciare un documento di riconoscimento in occasione di un viaggio da
fare in Romagna...
di ANGELO CHIARETTI
Dante secondo Sandro Botticelli.
Buona giornata, Messer Ufficiale: per circolare in Romagna mi
occorre un documento d’identità da mostrare alle porte delle città!
Ebbene, ditemi: come vi chiamate, Messere ? - Dante … no!
Durante … no! Dantino … no! Filippo … no! Titiro … no!
Messere, qual è il vostro soprannome? - Alighieri … no! Allegher i…
no! Aldighieri… no! Elisei ... no!
Ebbene, quando siete nato? - Il 30 maggio … no! Il 3 giugno … no!
Il 13 giugno ... no! Sotto il segno dei Gemelli.
In quale anno? - 1265 … no! 1266 … no!
Ma insomma! Quanti anni avete? - Nel mezzo del cammin di nostra vita …
Dove risiedete in Firenze? - In Borgo san Pier Maggiore … no! Presso la Torre della castagna … no!
Quanto siete alto? - Un metro e 56 … no! Un metro e 63… no!
Colore dei capelli? - Neri … no! Castani … no! (si toglie la celebre cuffia) Non mi canzonate: calvo!
Ricordate il profeta Eliseo! (in tono minaccioso)
Carnagione? - Chiara … no! Olivastra … no! Scura … no!
Colore degli occhi? - Castani … no! Azzurri … no!
Naso? - Aquilino … no! Alla provenzale … no!
Forma della bocca? - Carnosa … no! Labbro inferiore leporino … no!
Professione? - Medico … no! Speziale … no! Alchimista … no! Poeta ... no! Ambasciatore … no!
Quanti figli avete ? - 4: Pietro, Jacopo, Francesco, Antonia … no! 4: Pietro, Jacopo, Francesco,
Beatrice … no! 7: Pietro, Jacopo, Francesco, Dantino, Giovanni, Antonia, Beatrice ... no!
Come si chiama vostro padre? - Alighiero … no! Aldighiero … no! Allaghiero … no!
E vostra madre? - Bella … no! Gabriella … no!
Avete fratelli o sorelle? - Sì: Gaetana e Ravenna … no! Tana e Ravenna …
no!
Siete laureato? - No! ... Sì! No!
Siete voi l’autore della Divina Commedia? Sì!… No! In parte!
Segni particolari? - Nessuno … no! Un occhio
accecato … no!
Ma insomma, Messere, tornate domani quando
avrete le idee più chiare!
(fra sé e fuori di sé) Questo fiorentino,
dovendo nascondersi, ne sa una più del
diavolo!
Il più antico ritratto documentato di Dante Alighieri
conosciuto, Palazzo dell'Arte dei Giudici e Notai,
Firenze.
44 Vita di Club n. 1
MEETING
MAGICO DANTE ALIGHIERI-ANGELO CHIARETTI!!!
«Non c’è dubbio che Dante Alighieri sia l’autore più studiato al mondo (ogni anno vengono pubblicate circa 400
opere di approfondimento circa la vita e le opere) ma pochi sanno che la sua biografia è stata costruita sui “si dice”
e su molti avvenimenti leggendari e che pochissimi fatti sono certi, cioè suffragati da documenti oggettivi. Della
stessa Divina Commedia (che si chiamava solo Commedia) non abbiamo un testo inconfutabile, poiché il
manoscritto originale non ci è pervenuto ma dobbiamo fare riferimento alle copie realizzate da Jacopo Alighieri
(uno dei figli di Dante). da Francesco da Barberino (uno dei suoi amici che formavano la brigata dei Fedeli
d’Amore) ed altri».
Queste e mille altre considerazioni sono emerse
dall’entusiasmante percorso nella leggenda del
sommo poeta in cui Angelo Chiaretti, Ufficiale della
Repubblica Italiana per meriti culturali, Ispettore
Onorario per la paleontologia del Ministero beni
Culturali ed Ambientali, Presidente del Centro
dantesco San Gregorio in Conca, nonché Lions del
Club Cattolica, ci ha guidati durante il meeting del 21
novembre interamente dedicato al tema dantesco a
partire dal menu.
L’inventiva
vulcanica
del
relatore,
sommata
all’inesauribile contenuto della Commedia che si
presta a trattare ogni argomento dall’amore alla
politica, dalla medicina alla religione, dalla geografia
all’astronomia, dalla storia alla profezia ecc. ecc., ci ha
fatto gustare ogni momento della serata tra un piatto e Da sinistra il past presidente Roberto Morbidi, il presidente
l’altro (Frittatina alla Glauco, “Suppa” alla Beatrice, Gianfranco Simonetti ed il prof. Angelo Chiaretti.
Carni bollite alla San Pier Damiani, Tortino di frutta
mistica!!!), un aneddoto e l’altro (Dante, passeggiando per una via di
Verona, passò davanti alla bottega di un fabbro e rimase basito
sentendolo canticchiare versi dell’"Inferno", storpiati malamente.
Entrare nella bottega e gettare sulla strada martelli, tenaglie, pinze e
oggetti in lavorazione fu tutt’uno, senza proferir parola. Il fabbro,
annichilito e furioso, gli chiese perché stesse guastando il suo lavoro.
Dante fieramente rispose:"E tu perché guasti il mio?"), una citazione e
l’altra (Pg. XXXI vv. 100-105 «La bella donna ne le braccia aprissi; /
abbracciommi la testa e mi sommerse / ove convenne ch’io l’acqua
inghiottissi. / Indi mi tolse, e bagnato m’offerse / dentro a la danza de
le quattro belle; / e ciascuna del braccio mi coperse»)1.
L’entusiasmo e la passione di Chiaretti sono coinvolgenti e portano
l’attento uditorio a seguirlo nelle mille divagazioni con cui arricchisce il
suo racconto; sapete che esiste l’Accademia del Bacio? Tre sedi al
mondo, una in Inghilterra, una in Russia, la terza … naturalmente a
Mondaino! L’iniziativa è del Centro di Studi Danteschi San Gregorio in
Conca (leggasi Angelo Chiaretti) che ha sede presso l’antichissimo
Mulino delle Fosse della Porta di Sotto e l’attività dell’Accademia
consiste «nell’illustrare il valore culturale, mistico e sensuale del bacio,
uno dei gesti più antichi ed importanti nella vita dell’uomo e della
donna fin dalla notte dei tempi, tanto che ne esistono oltre cinquanta
tipi ed in altrettante posizioni (olfattivi, labiali, sulla guancia, sulla mano, ecc. ecc.)»!
Solleticando il gusto con i prodotti del Mulino (formaggi, vino, confetture, dolcetti ecc.), si eleverà lo spirito con
letture eccelse di pagine letterarie rievocanti suggestive storie d’amore dove il bacio è protagonista in tutta la sua
bellezza e nobiltà, «vero ed unico antidoto contro ogni forma di violenza e di malinconia»!
1
Quando Dante, svenuto ai durissimi rimproveri di Beatrice, riprende i sensi, vede china su di sé Matelda che lo immerge
anche con la testa nelle acque del Letè, costringendolo a bere. Lo fa poi entrare nel cerchio danzante delle quattro belle Donne
presso la ruota sinistra del Carro (le quattro Virtù Cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza, Temperanza, già guide morali nel
mondo antico, ma imperfette), che lo coprono con le loro braccia. Esse, ancelle di Beatrice, insieme alle tre che stanno alla
destra del Carro (le tre Virtù Teologali: Fede, Speranza, Carità, che hanno occhi più profondi per penetrare nelle verità divine),
lo conducono davanti a Beatrice, "donna venuta di cielo in terra a miracol mostrare", cantando: “Volgi i tuoi occhi santi al tuo
fedele che, per vederti, ha fatto un così lungo viaggio”.
45 Vita di Club n. 1
Presente al meeting un importante operatore turistico russo Yuri, che porta migliaia di visitatori a Rimini e dintorni e
si è molto divertito filmando ogni cosa; gli abbiamo consegnato una copia della nostra rivista “Vita di Club” per
ricordo. Al termine, con nostra sorpresa e soddisfazione, abbiamo notato che effettivamente la digestione
dell’abbondante Cena Dantesca era perfettamente riuscita!
Della ricchissima, inesauribile dissertazione riportiamo alcuni stralci.
Anna Mariotti Biondi
METTI UNA SERA A CENA CON DANTE ALIGHIERI
di ANGELO CHIARETTI
L
a
presenza
della
gastronomia
nella
“Divina Commedia” e
nelle altre opere di
Dante Alighieri risulta davvero
ricca: in questi miei lunghi anni
di palpitazioni dantesche, mi
sono
divertito
anche
a
confezionare
un
menù,
completamente tratto dai testi
dell’Alighieri,
mirante
a
realizzare l’immagine di un
Dante dal volto umano, come se
fosse uno di noi. Ecco un
esempio di cena dantesca:
Tartare
di
Madonna
Bellaccoglienza: si tratta delle
classiche cialde abruzzesi, preparate con
l’apposito attrezzo ed avvolte appena calde ad un
cuore di formaggio di fossa, facendole diventare
un cannolo. Madonna Bellaccoglienza è la
sensualissima protagonista del romanzo in versi
“Il Fiore”, che Dante scrisse traducendo dal
francese il “Roman de la rose” (Il Fiore CXXV).
Frittatina alla Glauco: una frittata al formaggio
di fossa (da servire calda a spicchi) con aggiunta
di alghe oppure erbe aromatiche “di campagna”,
che la rendono delicatamente magica. Glauco,
mitico pescatore della Beozia, dopo aver
depositato su particolari erbe i pesci pescati, li
vide rinfrancarsi e tuffarsi in mare. Mangiate a
sua volta quelle alghe, si trasformò in pesce e
divenne divinità marina (Pd. I).
Suppa alla Beatrice: è una zuppa di orzo o farro
a base di verdure tricolori con una pioggia di
formaggio di fossa grattugiato. Beatrice, vestita
di bianco-rosso-verde, annuncia che la giustizia
di Dio non teme “suppe” (con la s), facendo
riferimento alla curiosa usanza fiorentina di
condonare anche i reati più gravi ai colpevoli che
fossero riusciti a mangiare almeno sette volte
una tal zuppa sul luogo del delitto senza farsi
arrestare (Pd. XXXIII).
Mense alla Virgilio: ovviamente
piada romagnola. Nell’Eneide il
poeta, che funge da guida di
Dante
nella
“Divina
Commedia”, narra che i Troiani
di Enea, sbarcati in Africa,
conobbero
l’usanza
di
mangiare anche le mense su
cui
avevano appoggiato le
vivande: appunto la piada, che
portarono prima a Roma e poi in
Romagna (If. I).
Carni bollite alla S. Pier
Damiani: listelle di carne
di manzo bollito e condite
con olio, aceto, prezzemolo
e scaglie di formaggio di
fossa. Dante dice che San
Pier Damiani, fondatore
dell’Abbazia
di
San
Gregorio in Conca di
Morciano di Romagna e
Rettore
dell’Abbazia
benedettina
di
Fonte
Avellana sul Monte Catria
(PU), si cibava unicamente
di carni bollite e condite
all’olio di oliva (Pd.XXI).
Salse
alla
Ciacco:
mostarda
piccante
bolognese. Ciacco è un misterioso personaggio
fiorentino, popolare per la gran quantità di cibi
trangugiati e condannato da Dante fra i golosi
dell’Inferno (If. XVIII).
Castrone alla Forese Donati: agnello al forno
oppure fritto oppure alla brace. Dante ne parla in
uno dei sei sonetti della “Tenzone contro Forese
Donati”, l’amico-parente fiorentino, che però
condanna fra i golosi del Purgatorio (“La
Tenzone”).
Verdure guelfe: “cruditées” come finocchi,
peperoni, carote, sedani ecc., che creino
l’accostamento di bianco-rosso-verde (Fede-
46 Vita di Club n. 1
Speranza-Carità per i cristiani, ma anche colori
delle bandiere guelfe) (Pg. XXX).
Miele e formaggio di fossa del Monte di
Diana: è un accostamento ormai classico, dal
tocco
notoriamente
afrodisiaco,
che
teologicamente aggiunge alla Sapienza del latte
la Giustizia del miele. Il riferimento a Diana, di
cui Dante è cultore come dea della notte e della
luna, rimanda all’antica etimologia di Mondaino
(“Vicus Dianensis”), divenuto recentemente una
delle capitali mondiali del formaggio di fossa.
(Pd. XVIII).
Torta di frutti mistici: si tratta di una torta a
base di mele, pere, susine, fichi (anche secchi),
che, in ogni religione, rappresentano la base
dell’ecumenismo ecclesiale (Pg. XXII).
Acqua del Fiume Leté: si tratta dell’acqua Lete,
attualmente in commercio, da servire in brocca.
Quando Dante giunge nel Paradiso Terrestre
viene immerso da una “bella donna” di nome
Matelda nel fiume Leté, così chiamato perché
capace di cancellare i peccati commessi (un vero
e proprio battesimo!) e ne riemerge in grado di
continuare il suo viaggio verso il Paradiso
Celeste (Pg. XXVIII).
Del resto sono notissimi sia i canti che il poeta
fiorentino ha dedicato ai golosi nell’Inferno e nel
Purgatorio, sia gli aneddoti relativi alla sua
perenne fame. Dante ha coniato per i mangioni
anche un neologismo: “SCUFFARE” che
significa appunto mangiare avidamente e
rumorosamente. Infine, per non essere frainteso,
si è impegnato in un percorso altrettanto
significativo: il rapporto fra alimentazione ed
erotismo: non a caso i golosi del canto VI
dell’Inferno vengono subito dopo i lussuriosi
(Paolo de’ Malatesta da Rimini e Francesca da
Polenta di Ravenna) ed inversamente, in
Purgatorio, coloro che cedettero ai piaceri dei
sensi stanno nell’ultima delle sette cornici
immediatamente dopo i golosi e già con un piede
nel Paradiso Terrestre!
Ed ora, dopo aver gustato frittatine e tartare, la
famosa “suppa” (con la s) di verdura cancella
reati (e poi si dice che il nostro è il tempo dei
privilegi della casta!!) e le carni bollite alla S.
Pier Damiani (per tutti coloro che vogliano
approdare alla vita contemplativa) ed aver
raggiunto il paradiso con un dolce fatto di mele,
pere e chicchi di melograno (mela = tentazione
di Eva; pera = redenzione di Adamo; melograno
= frutto che indica la forza del gruppo e che
consente meravigliosamente il passaggio dal
male al bene!!!), squarciamo il velame (canto IX
dell’Inferno) della vita di Dante uomo e non solo
poeta (come voleva il grande Giovanni Papini).
Innumerevoli sono gli aneddoti significativi, a
cominciare da quello dell’incredibile sogno della
madre di Dante prima di darlo alla luce; secondo
il racconto del Boccaccio la sua nascita le fu
preannunciata da una visione: sognò di trovarsi
sotto un alloro altissimo, in un prato vicino ad
una sorgente insieme col figlio appena partorito,
e di vedere Dante tendere la mano verso le
fronde, mangiare le bacche e trasformarsi in un
magnifico pavone.
Divertente quello relativo ai rapporti fra
l’Alighieri ed il suo maestro Cecco d’Ascoli
relativamente alla possibilità di educare una
gattina a reggere il moccolo delle candele che il
Poeta usava nelle notti insonni.
Estremamente attuale, poi, (visto lo stato di
salute del nostro sistema politico), l’aneddoto
relativo alla denuncia di un cavaliere fiorentino
(Filippo Argenti, imparentato con gli Alighieri!)
che si era raccomandato a Dante per ottenere
favori dal Magistrato: alla fine, il povero Filippo
Argenti venne doppiamente condannato, sia per
la raccomandazione richiesta sia per il reato per
cui si era raccomandato! O tempora, o mores!
Testimonianza
del
carattere
difficile
dell’Alighieri sono gli aneddoti relativi alla lite
di Dante con un carrettiere che storpiava i suoi
versi ed alla superbissima esclamazione “S’io
vo, chi resta? S’io resto, chi va?” pronunciata dal
Poeta in occasione della pericolosissima
ambasceria dei fiorentini alla corte di papa
Bonifacio VIII, che si rivelerà fatale per Dante e
gli costerà la condanna e l’esilio.
Una volta Dante venne invitato a Verona da
Cangrande della Scala (giovane birichino e suo
ammiratore) per dimostrare, coram populo (cioè
davanti a tutti), la virilità di cui andava famoso.
Venne allestita la tenda affinché tutti potessero
vedere, fu fatta entrare una cortigiana, la quale
dopo un po’, però, se ne uscì dicendo
amaramente che il celebre amatore sarebbe stato
meglio definirlo "Messer asso!", cioè capace di
amare una sola volta. Punto nell’onore, Dante
rispose sarcasticamente e nel divertimento
generale che se quella cortigiana fosse stata più
giovane,
avrebbe
fatto
valere
molto
maggiormente le proprie virtù mascoline:
"Madonne et Messeri, se l’anello non fosse stato
arrugginito, il cavaliere avrebbe fatto centro più
volte con la propria lancia; se la tavola non
fosse stata tarlata, il giocatore avrebbe calato
più volte l'asso di bastoni!"
47 Vita di Club n. 1
E se ne andò impettito.
Circa le sue tecniche amatorie il Sommo Poeta
rivela una doppia strategia:
a) La tecnica del sospiro, consistente nel far
leva sulla sensibilità femminile, celebrando con
le parole la bellezza degli occhi, la dolcezza
della bocca, l'eleganza nell'incedere della donna
in questione, definendola donna angelicata, cioè
angelo disceso dal cielo sulla terra per far
innamorare gli uomini e costruire un mondo di
pace. La maggior parte delle donne non avevano
(e non hanno) scampo di fronte a tanta
ammirazione!!! In questo caso Dante diede prova
della tecnica nel sonetto di endecasillabi "Tanto
gentile e tanto onesta pare".
b) La tecnica dell'orso, da adottare quando la
donna in questione si chiama Pietra (nomenomen!!!) o comunque non cede alla blandizie
mascolina: si tratta di costringerla in un angolo
della stanza o della via (Dante abitava proprio di
fronte alla celebre Torre della castagna...) fin dal
primo mattino e cominciare a darle morsetti e
bacetti sul collo a non finire, senza mai smettere,
anche se suonano le campane di mezzogiorno o
del vespro, così come fanno gli orsi con le loro
femmine. Alla fine (convinta oppure esausta!!!)
la donna non può che cedere alle avances
dell'innamorato. Al fine di fornire ai propri
lettori un esempio di questa tecnica, Dante
Alighieri compose la rima "petrosa" “Così nel
mio parlar voglio esser aspro"!
Abbiamo accompagnato tutto questo col vino
“Gianciotto” (poteva non esserci in una Cena
Dantesca?) ed un pizzico di erotismo, distribuito
fra una portata e l’altra, nella convinzione che
Dante (come medico e speziale se ne intendeva)
avrebbe consigliato, per digerire una cena
abbondante, di trattare argomenti pruriginosi,
che favoriscono la secrezione di succhi gastrici
ed amminoacidi preziosi per la digestione. In
fondo Dante se ne intendeva facendo parte,
almeno in gioventù, di quelle brigate goderecce e
spenderecce che anche in Firenze andavano
allora di moda fra la nobiltà ed il ceto mercantile.
Benvenuto da Imola, nel suo Commento alla
Commedia di Dante, ricorda come questi giovani
ferrassero d’argento gli zoccoli dei loro cavalli,
cuocessero le carni su braci di chiodi di garofano
ed altre costosissime spezie, friggendo i fiorini
d’oro in una pastella d’uovo, che veniva
succhiata per poi sputare i fiorini a terra: chi fra
loro avesse risparmiato qualche denaro sarebbe
stato dichiarato indegno di far parte della
compagnia.
Infine vi annuncio di aver fondato a Mondaino
una “Accademia dei baci”, dove si studiano ben
50 tipi di approccio sentimental-amoroso
partendo dal celebre “la bocca mi baciò tutto
tremante”, illustrato da Francesca da Polenta nel
canto V dell’Inferno dantesco!! E per non
deludere le aspettative di una Istituzione così
importante (a cui molti dei Soci hanno chiesto di
iscriversi!!!) l’ho gemellata con Accademie
simili esistenti a Brigton (Inghilterra) e
Krasnojarsk (Russia), dove praticano un
inquietante “bacio del cavatappi” che sta facendo
il giro del mondo per fama e curiosità.
«IURA MONARCHIAE SUPEROS FLEGETONTA LACUSQUE LUSTRANDO CECINI VOLUERUNT FATA
QUOUSQUE SED QUIA PARS MELIORIBUS HOSPITA CASTRIS ACTOREMQUE SUUM PETIIT FELICIOR ASTRIS
HIC CLAUDOR DANTES PATRIIS EXTORRIS AB ORIS QUEM GENUIT PARVI FLORENTIA MATER AMORIS.»
Epigrafe sul sepolcro di Dante in versi dettati da Bernardo da Canaccio nel 1366.
«I diritti della monarchia, i cieli e le acque di Flegetonte (gli inferi) visitando cantai finché
volsero i miei destini mortali. Poiché però la mia anima andò ospite in luoghi migliori, ed ancor
più beata raggiunse tra le stelle il suo Creatore, qui sto racchiuso, (io) Dante, esule dalla patria
terra, cui generò Firenze, madre di poco amore.»
La supposta casa di Dante a Firenze.
Il Palazzo dell'Arte dei Giudici e
dei Notai a Firenze.
48 Vita di Club n. 1
La Tomba di Dante a Ravenna,
tempietto neoclassico opera di
Camillo Morigia (1780).
NEWS DALL’ENTROTERRA
IL RITORNO DEGLI ANGELI
Restaurata la Chiesa di Santa Maria dell’Olivo a Maciano di
Pennabilli.
di ANNA MARIOTTI BIONDI
Q
ualcuno dei venticinque
lettori
della
nostra
rivista
ricorderà
il
desiderio, espresso in un mio
articolo intitolato “Angeli
invisibili” (Vita di Club 20092010 n. 2), di rivedere la
Chiesa di Santa Maria
dell’Olivo a Maciano di
Pennabilli e il suo altare
coronato di angeli. Ebbene una
bacchetta magica l’ha esaudito
e frammenti della mia infanzia
sono stati ricomposti. Lasciata
negli ultimi decenni chiusa e
in fortissimo degrado, la chiesa è stata
finalmente restaurata insieme con parte del
convento con fondi della Comunità europea
grazie alla Diocesi San Marino-Montefeltro.
Costruita dai Macianesi negli anni 1524-1529 nel
luogo dove la Madonna era apparsa sopra un
olivo ad una pastorella, è stata riaperta al culto il
20 maggio 2012, in occasione della festa di San
Pasquale Baylon. Alla cerimonia sono
intervenuti il Sindaco di Pennabilli Lorenzo
Valenti e lo storico dell’arte Pier Giorgio Pasini,
il quale ha intrattenuto i numerosissimi
presenti con una interessante relazione sulla
storia della Chiesa e del Convento.
L’autore dell’opera tornata a risplendere nei
suoi smaglianti colori sul prezioso paliotto
policromo del XVIII, per la quale furono prese
come modelle due bimbe del paese, Francesca
Magni, la bionda, e Maria Manenti, la bruna, è
padre Pietro Pietroni, frate francescano nativo
di Castelplanio (1885-1961). Nella sua terra,
nella valle dell’Esino, ha lasciato gli affreschi
sulla volta dell’abside della chiesa di Piagge,
intitolata alla Madonna del Carmine, e, tra le
tante opere, a Bologna ha decorato l’abside della
chiesa dell’Antoniano e il presbiterio della
parrocchiale di S. Sebastiano.
49 Vita di Club n.1
CURIOSITÀ LINGUISTICHE
Da quando Rimini ha ampliato il suo territorio inglobando una bella
fetta di frontiera marchigiana è diventato imperativo conoscerne i
caratteri, le curiosità, le tradizioni. Ad esempio abbiamo scoperto che
… da quando Maciano di Pennabilli è in provincia di Rimini, città
internazionale dove circola una babele di lingue, si è reso necessario
non già dimenticare il suo dialetto per adeguarsi ai tempi più
esterofili, ma rispolverarlo sottolineandone la duttilità, le acutezze, la
modernità … Così un gatto, anzi Il gatto con gli stivali come
dichiara il suo pseudonimo (i Macianesi sono definiti “gatti” dai
Pennesi), macianese di origine controllata, nonché avvocato in Rimini, scrive un’esilarante spiegazione
della suddetta necessità … sulle pagine di “Tutto Maciano”, che dal 1978 racconta la cronaca di un
paese qualunque.
Anna Mariotti Biondi
GUIDA SEMISERIA AL PARLARE MACIANESE
Dell’importanza di parlare e comprendere correttamente la lingua natia.
di ROBERTO GIANNINI
G
ià nel 2004 si pubblicava sulle pagine
di “Tutto Maciano” una fortunata
(siccome
apprezzata)
“Analisi
semiseria della contemporaneità del
parlare macianese”, a distanza di alcuni anni,
necessita ritornare, seppur parzialmente e seppur
sotto diverso profilo, sull’argomento, valutando
la lingua macianese non tanto in relazione alla
sua attualità bensì in relazione all’importanza di
ben comprenderne il significato ed i contenuti e
di ben articolare il predetto idioma per poter
agevolmente far fronte a tutte le situazioni in
qualsiasi parte del globo terrestre.
Ed invero, la padronanza della lingua del
paesello consente, di per sé, di agevolmente
interloquire con buona parte degli stranieri
(cosiddetti: frustir), ciò anche in ragione della
metamorfosi lessicale del macianese; il
sottoscritto, del resto, parla un fluente spagnolo
(!) ed anche francese (!) siccome, là dove non
arrivano le nozioni di lingua ispanica o
francofona, arriva il macianese.
Ma un esempio potrà agevolare la comprensione
di quanto dico: puta caso che un macianese sia in
vacanze a Madrid ed ivi incontri uno spagnolo e
intenda chiedergli “Come stai? Dove vai?” la
frase che lo stesso comporrà in lingua locale sarà
la seguente "Cum t’sta? An dut va?" e l’iberico
in questione potrà tranquillamente comunicare la
propria condizione e la propria destinazione
siccome nella sua lingua la stessa frase suona
cosi "Coma estas? A donde vas?"; ragionamento
pressoché identico vale nel caso in cui lo stesso
macianese, a zonzo per i reconditi e splendidi
vicoli parigini, incontri un amico francese e gli
chieda, egualmente “Come stai? Tutto bene?”
Orbene, avvalendosi della sopra menzionata
metamorfosi lessicale, il gatto, anche se non
parla correttamente il francese, potrà chiedere
“Cum cla va? (che è l’equivalente del semplice
"Cum t’sta”) Tot ben?" e anche quest’ultimo
amico parigino potrà rispondere alla domanda
perché nella sua lingua la traduzione è la
seguente “Comment ça va? Tout bien?"
Ecco allora il perché i giovani ed i bambini, oltre
allo studio regolare dell’italiano, devono avere
assoluta padronanza dell’antica lingua degli avi;
perché ciò gli consenta di sopperire alle
eventuali lacune nelle altrui lingue (... non
sarebbe male se al liceo linguistico dal Marcatin
inserissero lo studio del Macianese DOC!).
Recentemente ho trascorso alcuni giorni,
meravigliosi, a Maciano e qui mi sono aggirato
bellamente per le borgate spingendo il
passeggino di mia figlia Ginevra che,
ovviamente, viene già introdotta all’uso del
macianese dai saggi nonni, entrambi oltremodo
maestri e padroni della lingua locale (al
proposito ho in predicato la pubblicazione di un
vocabolario
macianese-italiano
con
la
supervisione del duo Barbacia-Micalon)! Alla
stessa pargola, per il tramite dei di lei genitori,
50 Vita di Club n. 1
sono state rivolte una serie di frasi che, se non
conosciute nel loro più profondo e radicato
significato
lasciano,
ovviamente,
basito
l’interlocutore; cosa non occorsa a mia figlia (e
neppure alla di lei madre) siccome ho
prontamente sopperito alle lacune lessicali con
una efficace traduzione. In particolare, in ragione
dei suoi otto mesi, Ginevra viene chiamata
“znina” (piccola) o, in alternativa, con il tenero
“muscosa” (mocciosa, aggettivo che in età
adulta muta per divenire “murganton”
finalizzato a definire il giovanotto che, pur in
tarda età, non si stacca dalla casa familiare! I
famosi bamboccioni di cui tanto si è discusso sui
quotidiani qualche anno addietro erano già stati
stigmatizzati dai saggi antenati macianesi! Il
tutto, ad ennesima dimostrazione, casomai ve ne
fosse necessità, della contemporaneità e
dell’avanguardia del nostro parlare!) e per
l’interesse che dimostra nei confronti di tutto ciò
che la circonda é stata definita “bichessa" che
altro non é se non la traslazione al femminile del
più noto "bicut" . L’aggettivo adottato nei
confronti di un bambino ardito e disinvolto
invece è "sberr" o “sberra” (al femminile),
termine che accresce di grado per divenire
“piterra”
laddove la pargola mostri, per
carattere o per la tenera età, la non soggezione
nei confronti di terzi da poco conosciuti!
Al contrario se la bambina non dà confidenza
agli estranei e rimane distaccata al limite di
sembrare sprezzante viene nominata “pacona” da cui la nota famiglia macianese detta "i
pachess" -. E se la bimba si bea delle attenzioni
dei familiari è chiamata "muscena” mentre l’atto
proprio di coccolare e prendersi cura del
bambino é detto "badurlà”.
Il perseverante immotivato lamento del fanciullo
a mo’ di nenia é definito dalla madre macianese
DOC “dul” mentre l’imprecazione paterna
dovuta alla esasperazione del predetto protratto
lamento è “oschia che dul” che accresce di
intensità proporzionalmente al prolungarsi del
piagnucolio fanciullesco fino a divenire un “sa
sto dul la cheva i sentment” (affermazione
utilizzata spesso anche nei confronti di adulti
particolarmente
noiosi
e
ripetitivi
nell’espressione di un loro fittizio malessere. Se
poi l’adulto protrae oltre misura il dulo, lo stesso
assurge al rango di “gnorgna” ed il lamentante
diventa “gnurgnon”!
Ecco una breve sintesi e traduzione della
terminologia, utilizzata in loco, per interagire
con il mondo fanciullesco; come detto, un’esatta
padronanza della lingua locale, per le
caratteristiche sue proprie, è dimostrato che
facilita la comunicatività a livello internazionale.
Provate! Chissà mai che con una profonda
conoscenza del buon parlare macianese non vi si
aprano le porte di nuove e fulgide carriere in altri
paesi!
CURIOSITÀ VENATORIE
UNA PASSIONE ANTICA
E un curioso epitaffio:
“In questa tomba è un cacciatore serrato / che per mirar il ciel, fuor dell’usato /
uscito appena un dì dal casotto / non si sa mo il perché, morì di botto”.
di MARIO ALVISI
P
rendendo spunto dalla passione antica
del nostro socio Maurizio Graziosi,
cacciatore ‘incallito’, grazie al quale
ogni anno si organizza per il club una
luculliana cena a base di cacciagione, ho letto un
libro 1 per capire le ragioni di una pratica che, pur
1
Federico Montanari e Giampiero Semeraro, “Cacce e
costumi venatori di Romagna”, La Biblioteca del Titolo,
Maggioli editore.
essendo
oggi
vituperata, resiste
nel costume, soprattutto della nostra Romagna.
L’attività venatoria per i vecchi cacciatori
(vecchi per numero di licenze, ma giovani per
ardore di cuore e di passione) era molto più di
uno sport o di un semplice divertimento, era una
parte importante della loro vita, se non la
principale ragione di vita. Per alcuni di loro
l’andare a caccia, il portare a casa la selvaggina,
51 Vita di Club n. 1
parecchie volte è stato un modo di procurarsi la
maniera di sopravvivere. Per questo stampo di
cacciatori romantici, presi da una passione
talmente forte che perfino vi era chi “faceva
puffi al lavoro”, la caccia era libertà sconfinata:
libertà di andare su e giù per le colline, o lungo
le dune del litorale, o per le larghe pianure, o
nelle lagune o nelle paludi, quando ancora le
condizioni ambientali ed il numero
dei praticanti rendevano tollerabile
una attività venatoria senza
limitazioni.
Ma è anche orgoglio di aver scelto
un certo genere di caccia e di
praticarlo con onestà e dedizione
in un ben definito ambito
territoriale. Questo significava
andare in bicicletta, ma più spesso a piedi
(qualche volta in corriera, se c’era) ad aspettare
un particolare tipo di selvatico, preparandosi a
questa attività nei pochi momenti che
rimanevano liberi dalle pesanti occupazioni del
lavoro quotidiano: la confezione delle cartucce,
la preparazione di “stampi” e di fischi,
l’educazione (non solo l’addestramento) del
cane, l’osservazione (e perché no, lo studio)
delle abitudini della specie oggetto di caccia.
In passato, l’attività venatoria per il numero dei
praticanti, l’intensità della passione, la
molteplicità delle forme, nelle terre di Romagna
era praticata in misura maggiore di quanto si
potesse riscontrare nelle regioni confinanti. La
presenza di ambienti assai variati, la posizione
geografica, interessata in maniera cospicua dal
transito migratorio, unitamente alla necessità di
procurarsi proteine nobili a buon mercato, hanno
contribuito certamente a rendere quasi
connaturale al romagnolo l’istinto venatorio.
Tutto ciò era radicato non solo a livello della
popolazione agricola, che si trovava a vivere una
vita più semplice e con ritmi più naturali, ma
anche presso i cittadini e gli eruditi.
Ripercorrendo la storia si scopre quanto sia
antica e consolidata la pratica venatoria e come
anche in questa attività fossero utili le
“raccomandazioni” per procurarsi un posto
buono. Lo si può, ad esempio, desumere da una
lettera del 20 dicembre 1446 con la quale il Doge
Francesco Foscari scrive al Podestà di Ravenna
perché convinca l’Abate di Santa Maria della
Rotonda (nel forlivese visitata recentemente
n.d.r.) ad affittare al Signore di Faenza Astorgio
II Manfredi un sito presso il lido del mare nel
territorio di Ravenna, dove si usava prendere i
falconi pellegrini, allora assai utilizzati per la
caccia. Risultano testimonianze antiche per
quanto riguarda l’istituto della “riserva di
caccia”. In una pergamena di San Vitale del 26
ottobre 1330 sempre l’Abate di Santa Maria
della Rotonda affitta a un certo Chocho
Glauzano, beccaio in Ravenna, il luogo detto
“Stadio dei quinque pinis” (Staggio dei cinque
pini) per uso di caccia e di pesca.
Il canone di affitto annuale è
fissato in ottanta libbre di cera con
l’obbligo di dare “per la festa di
Natale mille buratelli (anguille
adulte), e cento anguille grosse, e
duecento buratelli al Sindaco del
Monastero; e nel tempo del
raccolto delle pigne darne
all’Abate cinquecento, ed inoltre la testa di ogni
bestia selvatica uccisa nella valle e nel luogo
affittato”. Quest’ultima clausola era una sorta di
controllo che i monaci di San Vitale, attenti
amministratori
del
patrimonio
pinetale,
intendevano effettuare. (Oggi in molti Paesi si
fanno pagare dazi sulla selvaggina uccisa
n.d.r.).
Non sono mancati nel passato Bandi sopra la
caccia. Il Governo Pontificio, attraverso i vari
Cardinali Legati succedutisi nel tempo
nell’amministrare le terre di Romagna, ha fissato
disposizioni per contenere e regolamentare
l’attività venatoria. Il 3 aprile 1693 fu emesso un
lunghissimo bando dal Cardinale Fortunato
Carafa della Provincia di Romagna & Esarcato
di Ravenna che dichiarava: “caccia bandita, e
riseruata la Pigneta di San Vitale dal mare alla
valle, e tutti gli staggi … e perciò ordina, &
espressamente comanda l’eminenza Sua, che in
avvenire persona alcuna di qualsivoglia stato,
grado, e condizione, ancorché Priuilegiata e
Priuilegiatissima, non ardisca di andare con
Cani, Archibugi, ò altre simil sorte di strumenti,
tirando dentro i sopradetti recinti del territorio
di Raunnea à Lepri, Starne, Caprioli, Cignali ò
ad altra sorte di Sualaticine …, sotto pena di
scudi cento, o di trè tratti di corda, e della
perdita di Armi e simili strumenti … volendo
ancora Sua Eminenza, che nessuno, come sopra
possa tirare, ammazzare, & in qualunque modo
pigliar Lepri, Starne, ò Cotornici in questo
territorio, anmche non bandito, quando però il
terreno sarà coperto di neue, prohibendolo pure
da i 24 Marzo sino à gli 8, Settembre, sotto le
pene sopradette … Si guardi però ciascheduno
di non contrauenire, perché contro li
52 Vita di Club n.1
Trasgressori si procederà con ogni rigore, anche
per inquisizione”.
Nel passato la fascia litoranea della Romagna
(quando le spiagge erano solo dune) si prestava
alla caccia ai migratori ed esisteva una
consolidata tradizione venatoria in proposito; si
faceva la caccia alle allodole e alle quaglie. Per
le pavoncelle e i pivieri si usava una botte
seppellita proprio sulla riva del mare, nella
sabbia, con delle frasche attorno e poi si
fischiava aspettando che i pivieri si fermassero lì.
Oggi non si accettano più alcune pratiche un
tempo di uso comune e, d’altra parte, le
disposizioni che regolano l’attività venatoria
sono assai diverse; allora si poteva uccidere
praticamente tutto, anzi, uccidere i predatori era
addirittura raccomandato, nelle riserve di caccia
era quasi un obbligo; la strage venatoria era
uguale per tutte le specie, senza alcun conto per i
loro cicli biologici e le loro esigenze vitali; si
poteva perfino andare a caccia di notte ed
attendere in riva al mare gli uccelli stremati dal
viaggio migratorio!
Ma, nonostante ora tutto sia cambiato e ad ogni
fine stagione i cacciatori lamentino che “adesso
non è più come una volta” e affermino “questo è
l’ultimo anno che prendo la licenza”, coloro che
praticano la caccia sono ancora tanti.
CURIOSITÀ ALVISIANE
QUANDO NACQUE GESÙ?
Facile, diranno in molti. Gesù Bambino è nato il 25 dicembre dell'anno 1 d.C. È
quello che pensò anche il monaco Dionigi il Piccolo quando nell'anno 525 d.C.
tentò di determinare l'inizio della nostra era. Dopo laboriosi calcoli, determinò
che Gesù nacque nell'anno 754 dalla fondazione di Roma. Si sbagliò, ma
nessuno gli rimproverò l'errore tanto che ancora oggi contiamo gli anni
riferendoci a quell'imperfetta datazione.
di MARIO ALVISI
I
l rebus sul giorno esatto del Natale continua
ad infervorare i ricercatori, gli astronomi,
gli astrologi e i teologi delle varie religioni.
Il giornalista Armando Torno del
quotidiano “Il Corriere della Sera” ha fatto sul
tema un’approfondita ricerca che mi piace far
conoscere ai lettori della nostra rivista.
I vangeli di Matteo e Luca offrono alcuni dati
senza indicazioni cronologiche precise: il primo
(2,1) ricorda che Gesù vide la luce a Betlemme
al tempo di Erode, re della Giudea, il quale regnò
presumibilmente tra il 37 a.C. e il 4 a.C.; Luca,
con un racconto totalmente diverso, rammenta
che sotto Erode nacquero Giovanni Battista e, sei
mesi dopo, Gesù nel periodo del censimento "di
tutta la (terra) abitata" indetto da Augusto.
In base al calcolo del monaco Dionigi il Piccolo
(V-VI secolo), che introdusse il computo degli
anni dalla venuta di Cristo, il Salvatore sarebbe
diventato uomo nel 753° anno della fondazione
di Roma. Ma il religioso commise un errore.
Erode, stando allo storico Giuseppe Flavio e a
quanto scrisse nelle sue Antichità Giudaiche
(XVII), scomparve tra un’eclisse totale di luna e
una Pasqua. Ora sappiamo che nel 5 a.C. vi
furono appunto due eclissi totali; una parziale si
verificò nel 4 a.C. e di nuovo una totale
nell’anno 1 a.C. Per questo si presume che il re
Erode morisse nel 4 a.C., poco prima della
Pasqua. Riepilogando, sulla base del racconto di
Matteo la nascita di Gesù va collocata qualche
anno prima della morte di Erode (4 a.C.), tra il 75 a.C. Sulla base dell'accenno di Luca al
censimento universale indetto da Augusto (8
a.C.), la nascita va collocata nel periodo
immediatamente seguente a questo, tra l’8 e il 6
a.C. Quindi Gesù nacque prima del 4 a.C.
E il giorno? Non lo si conosce con precisione.
Però le ipotesi non mancano, anche se nemmeno
i primi cristiani sembrano essere d’accordo. Le
chiese orientali lo fissano il 6 gennaio, le
occidentali il 25 dicembre. Si giustificava
l’incertezza ricordando che la nostra tradizione
occidentale avrebbe cominciato a festeggiare il
Natale il 25 dicembre dopo il Concilio di Nicea
(325), quando il cristianesimo si diffuse grazie
alla libertà di culto. Soppiantava, di fatto, la festa
del Sol Invictus nel mondo del paganesimo
53 Vita di Club n.1
agonizzante. Il culto del sole o della luce, il sole
invincibile, era nato in Oriente, poi aveva
acquisito importanza a Roma. L’imperatore
Aureliano (270-275) trasferì i sacerdoti in un
tempio edificato sul colle del Quirinale e
consacrato il 25 dicembre del 274 e stabilì per
quel giorno una festa chiamata Dies Natalis Solis
Invicti. Quindi è il 25 dicembre che la vera
luce diventa quella di Cristo.
Ora veniamo ai tempi nostri.
Monsignor Gianantonio Borgonovo, Canonico
del Duomo di Milano, docente di teologia ed
esegesi del primo testamento e traduttore
dall’ebraico della Bibbia, si è imbattuto in dati
che possono recare chiarimenti all’annosa
discussione riguardante il Natale di Gesù.
Prima osservazione. Il 25 dicembre e il 6
gennaio fanno comunque riferimento alla stessa
data, ovvero il 25esimo giorno del mese di Tevet
del calendario ebraico. (Decimo mese dell’anno
ecclesiastico, è un mese invernale di 29 giorni,
corrispondenti all’incirca ai mesi di dicembregennaio del calendario gregoriano).
Il 25 dicembre sarebbe la trascrizione popolare
del giorno ebraico, mentre il 6 gennaio ne
sarebbe l’equivalente preciso del calendario
giuliano. (Cioè due date per lo stesso giorno, ma
poi vedremo il perché della loro coincidenza). La
seconda osservazione è rivolta al calendario che
allora era in uso nel mondo latino. Era quello
giuliano, in vigore fino al 1582. Poi Papa
Gregorio XIII, d’accordo con gli scienziati
dell’epoca, decise di “saltare” i giorni dal 4 al 14
ottobre di quell’anno per riordinare il computo
del tempo. Da quel momento la riforma creò una
duplicazione di date del Natale. (In occidente si
tolsero dieci giorni anticipando così il giorno del
Natale rispetto al calendario ebraico Tevet,
mentre in oriente non avvenne la sottrazione e
così il Natale rimase il 6 gennaio!).
Per Monsignor Borgonovo, inoltre, è anche
possibile
individuare,
seppur
approssimativamente, il momento in cui nacque
Gesù (se litighiamo sul giorno mi sembra
impossibile indicare un’ora. Eppure!).
Questo perché il calendario giuliano stabilisce
l’inizio del giorno a mezzanotte; per quello
ebraico comincia con il tramonto del sole, grosso
modo alle 18. Si può dunque dire che nell’anno 5
a.C., il 25 di Tevet iniziasse intorno alle 18 del 5
gennaio e terminasse attorno alle 18 del 6
gennaio. Era un giovedì. Gesù sarebbe nato in
quell’ arco di tempo!
Ora, un gruppo formato tra gli altri da un
archeoastronomo dell’Osservatorio di Brera e da
un’astrologa, ha compiuto ricerche sulla data di
nascita e di morte di Gesù. Una combinazione di
pianeti spiegherebbe l’apparizione della cometa.
Nel corso dell'anno 7 a.C. avvenne una tripla
congiunzione planetaria nella costellazione dei
Pesci, due pianeti, Giove e Saturno, visti dalla
Terra si trovarono uno a fianco all'altro per ben
tre volte nello stesso anno. La costellazione dei
Pesci era astrologicamente associata al popolo
ebraico; Giove era l'astro dei re; Saturno era la
stella dei Giudei. I Magi interpretarono l’evento:
un re stava per nascere in Palestina e si misero in
cammino. La "stella" vista dai Re Magi (Mt 2,112) potrebbe essere stata anche una nova: gli
annali astronomici cinesi e coreani riportano un
evento simile nel 5 a.C. Fu così?
Può darsi, ma noi manteniamo ancora il mistero
del Natale festeggiandolo … col cuore.
RICORDO
IN MEMORIA DI LUCIANO CHICCHI
Desideriamo ricordare sulla nostra rivista il Dott. Luciano Chicchi, recentemente scomparso, uomo di
grande intelligenza, cultura e umanità che tanto ha dato col suo operato alla città di Rimini. Il Presidente e
i Soci del nostro Club lo ricordano con gratitudine, in quanto sostenitore di molti service con i contributi
della Fondazione della Cassa Di Risparmio: il restauro dell’organo della Chiesa del Suffragio, l’acquisto
di un pulmino da donare all’associazione “S.O.S Taxi” per le persone invalide e il sostegno a questa
rivista. Ha partecipato ad alcuni nostri meeting, fra i quali quello sull’Università, di cui è sempre stato
uno dei più lungimiranti sostenitori. Essendo amico personale di alcuni Soci, fu presente anche ad una
nostra cerimonia Charter per il passaggio dei poteri tra il Presidente Maurizio Graziosi e Mario Alvisi.
54 Vita di Club n.1
ARTE IN MOSTRA
CARTE DEL CIELO
E DELLA TERRA
Mostra personale del pittore Walter Angelici: Ott.-Nov. Sala
Lopez, Museo di Rimini.
di RITA MARIA ASTOLFI OLIVA
I
n qualità di curatrice della Mostra
Personale del pittore Walter Angelici che è
andata al suo Vernissage domenica 21
Ottobre c.a. vorrei esprimere alcuni concetti
legati sia all’organizzazione, sia alla spettacolare
presentazione che i più hanno definito, al termine
dell’Evento
“Una
apoteosi!” Alla presenza di
una Sala del Giudizio
gremita, l’Assessore alla
Cultura, dott. Massimo
Pulini, il Direttore dei
Musei comunali dott.
Biordi, il dott. Roberto
Cresti dell’Università di
Macerata, la signorina
Caterina Boldrini, M° di
violino, il Past Director del
Museo
dott.
Pierluigi
Foschi e molta parte del
Gotha culturale di Rimini,
ma non solo e di
rappresentanti delle Testate
dei quotidiani locali, si è
svolta la presentazione
ufficiale del pittore, prof. "Madre", 2012.
Walter Angelici in una sinestesia meravigliosa
di pensieri e musiche divine: furono eseguiti
brani ‘from only J.S. Bach’. Desidero, pertanto,
esprimere il mio compiacimento al Museo della
Città di Rimini. Fin dai primi contatti, primi mesi
del 2010, l’allora Dirigente, dott. Pierluigi
Foschi, fu prodigo di ammirazione e sostegno,
purtroppo solo di accoglienza e concessioni,
poiché, già allora, i tempi si erano andati
deteriorando a livello economico. Al Patrocinio,
poi, degli attuali Dirigente, dott. Biordi ed
Assessore, dott. Pulini si deve tutto l’impegno
per la divulgazione e la pubblicizzazione della
"Terre", 2010.
Mostra stessa. Tutta l’operazione è stata
possibile poiché ho sprezzato il lavoro e
l’impegno sorretta dal fatto che, amando la mia
acquisita Città, ritenevo che Rimini dovesse
conoscere Walter Angelici, figura emergente nel
panorama culturale, forte di
Mostre
pregresse
di
altissimo target, nonché
detentore
di
premi
prestigiosi. Al momento
una sua Personale è ospitata
nel Palazzo Borghese in
Firenze, ove resterà sino a
tutto Maggio dell’anno
entrante. Il che, in altri
termini, significa restare in
esposizione senza soluzione
di continuità, sul territorio
italiano, per ben otto mesi.
Cosa non trascurabile dati i
momenti cui si faceva
cenno
poc’anzi.
Cosa
preminente
legata
alla
Mostra era un Catalogo che
restasse a futura memoria;
ragion per la quale occorrevano disponibilità
ingenti di denaro. Di difficilissimo reperimento.
A questo scopo, con cura e pazienza somme ho
portato avanti il progetto fino ad approdare ad un
paio di sponsor, uno dei quali è stata la dott.ssa
Atalìa Tresoldi Ravaioli la quale per lunghi mesi
mi ha affiancato nella minuziosa ricerca dei
fondi e la quale, per pura generosità, ha
partecipato all’impegno economico.
Per Walter Angelici lo studio incessante ed
appassionato dell'Ecclesiaste, non poteva che
concretizzarsi in una serie di Opere da lui
chiamate "Carte del Cielo e della Terra".
55 Vita di Club n. 1
Dire che Walter Angelici possa essere inserito in
una tendenza di carattere esclusivamente
moderno, equivarrebbe a ridurre la potenza,
l’impatto – a volte sconvolgenti, devastanti altre
estremamente poetici e lirici. Egli trascende,
travalica ogni tempo inserendosi, d’autorità,
nella vasta classicità, come, pure, nella visione
dei mondi interiori, simbologici, ricchi di
mistero, di pathos che non disdegna la ruvidezza
o la carezza. Per il tramite di queste esternazioni
Walter Angelici crea un'arte visiva in stretta
connessione con le esortanti voci che da più parti
gli giungono in questa epoca di incertezze, crisi,
inquietudini. Quindi, avvalendosi di una
consapevole cifra stilistica, robusta, materica,
coloristica o monotonale egli ha creato opere
che lo contraddistinguono come un "outsider"
dei tempi moderni che
porge, altresì, un occhio
attento anche al passato.
Si
è
scomodato
Rembrandt per trovargli
un illustre predecessore.
E, mentre i risultati di
questa ricerca incantano,
sono, al contempo, forieri
di visioni altre e più
ecumeniche, di non mal
riposte speranze in una
resurrezione delle anime e
dei tempi.
Volendo, quindi, esporre
un’efrasis che privilegi
l’opera di Walter Angelici
non
è
possibile
prescindere
dal
suo
Nomos
strettamente
collegato
ad
un
Mysterium Sacrale con il
quale si cimenta da anni,
forse, da sempre. Perché a "Agosto", 2012.
lui naturale, in lui
connaturato, essenziale per l’espansione e la
mise en éspace di un’arte senza tempo, quasi
senza cifra. Nell’animo di questo Artista si
agitano pulsioni di grandiose aspettative dal
breve, transeunte, passaggio sulla terra, come è
peculiarità delle grandi anime.
Mi asterrò, qui, dal citare una sequenza,
pressoché infinita, di nomi la cui risonanza mai
si affievolirà nello spazio e nei secoli: filosofi,
pensatori, matematici, scienziati astronomi,
letterati, pittori, poeti, architetti. Tutta una folla
vastissima di anime abbagliate dal Mysterium
Sacrale,
ma,
nondimeno,
inquietate
dall’insensatezza del vivere che tale appare a chi,
sentendosi proiettato fra gli astri, deve misurarsi
con la polvere, le pietre e le miserie di un viver
quotidiano, incoercibile, peraltro, benché
avvilente e castrante. Da ultimo, ma non così
ultimo, egli, Walter Angelici, è alla minuziosa
ricerca di una accettabile visione di questa
insensatezza nelle pagine dell’Ecclesiaste. Il
Qohèlet che si suppone datato nel 250 a.C.
summa preziosissima del “mal de vivre” a
partire dalla “vanitas vanitatum”.
Come si vede non è affatto una nostra conquista,
quella dei tempi moderni, il mal de vivre, dico;
già allora e sempre, a mio avviso, l’uomo ha
sentito questa enorme incompatibilità fra le
proprie aspettative e la realtà miserevole,
quantomeno piccolissima
ed estremamente ristretta
e arida, del viver comune.
Ora, tornando al nostro
Artista,
egli,
di
bassissimo profilo come è
appannaggio
dei
“grandi”, ritiene che le
sue interpretazioni, vuoi
in pittura, vuoi in scultura
o altra disciplina a loro
connessa, siano piccole
cose, mentre noi, suoi
estimatori appassionati,
restiamo attoniti di fronte
a tanta inquieta bellezza
espressiva che promana
dalle sue esplicitazioni su
tela, carta, legno o
qualsivoglia
altro
materiale che si presti ad
essere
il
supporto
prescelto
per
queste
“epifanie coloristiche o
monocromatiche”.
Una sorta di urgenza muove le mani nervose che
eseguono ciò che l’anima e il cervello dettano.
Spesso un tempo altamente esiguo gli basta per
offrire al nostro sguardo innamorato di tali
rarefatte visioni, raffigurazioni che urlano o, a
volte, suggeriscono silenti, un lirismo in cui si
dilata tutta la tormentata e appassionata, sua
ribellione. Ribellione interiore in quanto a fronte
dell’urgenza della necessità del Bello e della
Felicità tramite il piacere, i piaceri, si trova a
dover piegare il proprio Nomos imbattibile,
trascendente l’immanente.
56 Vita di Club n. 1
Certo la vena pessimistica - che imbeveva
l’incerto compilatore di tale trattato che viene
annoverato fra il Deuteronomio, attribuito niente
meno che a Mosè, databile al VI secolo prima di
Cristo, e l’Antico Testamento -, doveva,
forzatamente, esplicarsi in una prosa ed in una
lirica senza speranza, senza aperture possibili
verso una soluzione di tale e tanto angosciante
sconvolgimento. Uno fra i trattati più terribili e
disperati che siano comparsi nel milieu letterario.
Ma, come ho detto, tutto questo, tutte queste
cose sono appannaggio delle grandi menti
ecumeniche, creative, geniali, esempio fulgido
che comunque e quantunque l’uomo sia atterrato
da simili pastoie, sempre la sua anima tenderà
all’Assoluto. Si protenderà al raggiungimento di
una plaga ubertosa in cui posare le stanche
membra, ma soprattutto ristorare le propaggini
nervose sottoposte a tale tenzone quotidiana.
Dal 21 di ottobre e per tutto il mese di novembre,
nella Sala, detta, Lopez, al
Museo di Rimini, le opere
dell’Artista
in
una
magniloquente e sontuosa
rappresentativa, sono state
sotto i nostri occhi e ci
hanno parlato più che
esaustivamente di Walter
Angelici.
Diremo
brevemente delle opere
che sono andate ad
occupare lo spazio di alto
prestigio
offerto-ci
munificamente dal Museo.
Insieme a tele di grandi
dimensioni in cui sono
ampiamente
e
meravigliosamente
espressi i caratteri che
compongono e cifrano
l’opera
dell’Angelici,
squadernandosi ai nostri
occhi in cromie erompenti "Attesa", 2010.
e in robuste pennellate
materiche, abbiamo ammirato opere in cui, la
lieve incisione si è declinata in soffici ed
evanescenti tratti estremamente incisivi; è stata
raggiunta una espressione virtuosistica e allusiva
di tutto il dettato creativo, in ottemperanza al
titolo Carte del cielo e della terra. Una serie di
monotipi di grandi dimensioni e perciò stesso
ancor più preziosi, in cui si alternano paesaggi
giacomelliani; notturni squarciati da raggi lunari,
come presagi di felicità; fissità incisa negli occhi
di animali attoniti e vinti dall’abbandono; figure
umane che non si sa se arrivino o stiano per
partire, o, in alternativa ‘restino’ in rassegnate,
infinite attese. Tutta una realtà dolorosa e
consapevole tratteggiata con perizia e grande
acume. Vi si sono affiancati, in una seconda
serie, sempre
monotipi di dimensioni più
piccole; piccoli gioielli di bellezza e precisione
assoluta. Dico dei monotipi e della loro
preziosità. Come chi sia informato sulle tecniche
incisorie sa benissimo, l’esecuzione del
monotipo [impronta unica] esige una sicurezza
assoluta del segno, una maestria indiscussa nel
tracciato del disegno che viene eseguito - su
supporto di rame, tirato a lucido o vetro o altro
materiale similare, per accrescimento/sottrazione
- con la perizia di un fine incisore di camei sul
fondo del colore precedentemente steso. Nella
successiva fase dell’assemblaggio carta-supporto
calcografico, torchio, nell’abbraccio dei due
elementi viene generato,
spesso, l’inatteso e il
sorprendente e ciò sfocia,
come
detto,
in
quell’unico
risultato
senza possibilità né di
modifiche,
né,
di
repliche, un unicum in
tutto e per tutto. Qui mi
piace
citare
la
significativa espressione
del dott. Pulini riferentesi
all’operazione
dell’assemblaggio:
“madre una sola volta”.
L’unicità conferisce al
lavoro finito la preziosità
e la sorpresa del risultato
finale.
Walter
Angelici
ha
sviluppato una assai
virtuosistica abilità in
questo tipo di opere, anzi
tutto per sua abilità
intrinseca ed in secondo luogo perché sospinto e
animato dal sacro fuoco dell’Arte che brucia
inesausto nel suo profondo. Moltissimo ci ha
dato e moltissimo abbiamo avuto da questa sua
Personale che sono orgogliosa di aver voluto
fortissimamente, a sua gloria e successo, e, non
per ultimo, come segno d’amore per Rimini città
d’adozione semisecolare che, ormai, ritengo mia
a tutti gli effetti.
57 Vita di Club n. 1
PRO SERVICE
JAZZ SOLIDALE
“La grande musica frequenta l’anima”, per dirla alla Paolo
Conte, e così è stato con il concerto Lions Club Malatesta
del 23 novembre 2012, al teatro Novelli di Rimini, dell’
Hotrio – Jazz & Song di Gianni Giudici organ & keyboards,
Alessandro Fariselli sax, Massimo Ferri batteria,
accompagnato per l’occasione dal trombettista Flavio
Boltro, autentico fuoriclasse di livello internazionale e dalla
voce calda e profonda della giovane Caterina Soldati.
di GIANFRANCO SIMONETTI
N
ella cornice ormai familiare del
Teatro Novelli di Rimini, davanti ad
un pubblico partecipe ed entusiasta,
forse meno numeroso di quanto si
sperava (per i troppi eventi concomitanti, anche
organizzati da Club limitrofi), si è svolto il
concerto del trio di Gianni Giudici (Lions di
Pesaro Host) con Alessandro Fariselli al
sassofono e Massimo Ferri alla batteria.
Lo stesso trio aveva dato vita al concerto dello
scorso anno, con la strepitosa cantante nera
americana Joyce Juille, mentre quest’anno
aveva nel suo organico una delle migliori trombe
europee, riconosciuta anche a livello mondiale,
che ha al suo attivo riconoscimenti internazionali
e collaborazioni a tutto campo, l’italianissimo
Flavio Boltro, nato a Torino, che vive ormai a
Parigi da diversi anni ed ha partecipato alla
registrazione dell’ultimo CD del trio di Gianni
Giudici (Grab my Groove). Molti dei brani che
ne fanno parte sono stati eseguiti nel concerto del
25 Novembre, così come in numerosi concerti in
tutta Italia, compreso quello al prestigioso Blue
Note di Milano.
Come il pubblico ha potuto verificare e come
aveva preannunciato Gianni Giudici nella sua
presentazione, la serata è stata all’insegna di una
musica sempre molto fruibile, adatta anche per i
“non addetti ai lavori”, «che ha spaziato da
rivisitazioni di brani celeberrimi del repertorio
jazzistico internazionale, a composizioni
originali, sia melodiche che molto ritmiche,
arrangiate con sonorità sempre particolari e
molto accattivanti, con una particolare cura per
il “sound” di gruppo, piuttosto che per esibizioni
solistiche tipiche del Jazz, che spesso possono
risultare difficili o troppo tecniche.
Flavio
Boltro
vanta
collaborazioni
prestigiosissime, come quella con il grandissimo
(e piccolissimo) compianto pianista Michel
Petrucciani, con artisti del calibro di Steve
Grossman, Cedar Walton, Billy Higgins, Cedar
Jordan e Jimmy Cobb (che hanno fatto la storia
del Jazz moderno) fino ad artisti come Gino
Paoli, che lo ha voluto nel suo quartetto Jazz in
un tour di grande risonanza. Eletto fin dal 1984
“miglior talento” dalla prestigiosa rivista
Musica Jazz, è stato anche nominato miglior
tromba italiana dalla rivista Jazzit, che lo ha
così consacrato definitivamente». Così ha
spiegato Gianni Giudici.
La serata di grande prestigio è stata “abbellita”
(anche in senso estetico) dalla presenza della
cantante bolognese Caterina Soldati, la cui
esibizione è iniziata con la famosissima “E se
domani”, in una interpretazione molto calda e
appassionata, accompagnata da Gianni Giudici.
È stato un piacevole omaggio al nostro
famosissimo concittadino Carlo Alberto Rossi,
autore della musica della canzone, noto cavallo
di battaglia di Mina. Ciò nonostante,
l’esecuzione della Soldati non ha concesso niente
alla
nostalgia,
grazie
all’emozionante
performance della sua voce.
«La sua voce molto calda e particolare – ha
aggiunto Gianni Giudici - si discosta da
58 Vita di Club n. 1
timbriche e stili oggi molto “omologati” nel
settore delle voci femminili e unisce una grazia
tutta particolare ad una energia inaspettata e
toni bassi degni di cantanti di ben altro fisico e
stazza. La sua voce e la sua bellezza l’hanno
fatta notare da Pippo Baudo, che l’ha voluta
come cantante fissa della sua trasmissione
“900”, dove si è fatta notare per la versatilità
delle sue interpretazioni e per la duttilità dei
suoi mezzi vocali. La sua collaborazione con me
risale ormai a diversi anni fa ed ha al suo attivo
numerosi concerti con gli HOT Trio, oltre ad
attività teatrali e musicali di notevole varietà.
Con il trio, Caterina Soldati ha cantato anche
standard jazzistici molto famosi, come “Song
For My Father”, che la sua voce ha reso con
una grazia ed una energia inusuali tra le
cantanti di questo genere, rendendo fruibile
davvero a tutti una musica che troppo spesso è
considerata ingiustamente di “elite”».
Il pubblico, motivato anche dalle finalità
benefiche della serata organizzata perfettamente
dal Lions Club Rimini Malatesta, presentata ed
introdotta dalle parole del suo Cerimoniere
Marcello Pedrotti, ha partecipato con calore ed
entusiasmo al concerto, che (diversamente da
quanto spesso accade) ha lasciato in tutti la
voglia di ascoltare ancora questa eccezionale
formazione.
Per il trio capitanato dall’amico Lions, Gianni
Giudici, è stata una riconferma della sua
straordinaria qualità d’esecuzione e l’opportunità
di accompagnare artisti di qualità internazionale,
creando un evento musicale raro, emozionante e
coinvolgente.
Il concerto, iniziato con brani di jazz classico,
alcuni firmati dallo stesso Giudici, per poi
proseguire con gli ever green, composizioni di
grande successo che compongono il patrimonio
musicale di molti di noi, ha lasciato in tutti il
desiderio di aver altre occasioni di ascoltare un
nuovo concerto di musica che “frequenta
l’anima”.
Alessandro Fariselli - Gianni Giudici - Max Ferri
Caterina Soldati
Flavio Boltro
1Il presidente Gianfranco Simonetti e il cerimoniere Marcello Pedrotti
attorniati dagli artisti.
59 Vita di Club n. 1
SERVICE
SERVICE INTERNAZIONALE
Diffusione nel mondo dell’opera di Luigi Tonini.
di MARIO ALVISI
I
n collaborazione con la Biblioteca Gambalunga di
Rimini, la fondazione Carim e il Lions Club Rimini
Malatesta, è stato pubblicato nel 2010 il libro: Luigi
Tonini, “Papa Gregorio XII e Carlo Malatesti – o sia la
cessazione dello scisma durato mezzo secolo nella Chiesa
di Roma”, A cura di Oreste Delucca e trascrizione di Luigi
Vendramin, Editore Guaraldi, Rimini 2010, per far
conoscere che Rimini fu Sede Pontificia (anche se per poco)
e che il suo Signore Carlo Malatesta – con procura del Papa – riuscì a comporre il grande scisma al
Concilio di Costanza (1415).
Il libro è il frutto della intuizione culturale e dell’amore per la nostra città di Stefano Cavallari ed è il
secondo dei service internazionali fatti dal Club dopo il Torneo Internazionale di Pallacanestro per
Handicappati, organizzato nel lontano 1982.
L’edizione, numerata a mano e firmata dal curatore, è stata stampata con tecnica digitale e tirata in 150
copie di cui 130 in numeri arabi da 1 a 130, e 20 in numeri romani da I a XX fuori commercio.
Pur essendo una “rarità bibliografica” è stata messa su e-Book a disposizione degli studiosi di tutto il
mondo, resa disponibile su tutte le piattaforme distributive (che stanno rivoluzionando il mondo del libro)
e donata a molte biblioteche italiane e straniere con la collaborazione del Lions Club Rimini Malatesta.
Al riguardo, dopo i ringraziamenti delle Biblioteche della Romagna e delle Marche, a cui l’opera è stata
consegnata personalmente da Stefano Cavallari, sono giunti ultimamente al Club i ringraziamenti da parte
di:
Biblioteca Palatina di Parma
Biblioteca Estense Universitaria di Modena
Biblioteca Comunale Ariostea di Ferrara
Biblioteca Panizzi Comune di Reggio Emilia
Biblioteca Ambrosiana di Milano (“Un’apposita Commissione ne ha stabilito la congruenza con le
discipline rappresentate nei fondi della Biblioteca e ne è stata pertanto disposta l’inclusione all’interno
delle nostre collezioni”)
U.O. Biblioteca e Mediatica del Comune
di Fano
The Library of Congress (African, Latin
American and Western European Division)
di Washington
Bayerische Staatsbibliothek Tausch-und
Geschenkstelle di Monaco (Germania)
Bibliothèque National de France di
Parigi.
Copertina dell'opera.
60 Vita di Club n. 1
SERVICE
RESTAURO
I due Lions Club cittadini finanzieranno il restauro del Crocifisso esposto nel Museo
Civico di Rimini. Proveniente dagli Istituti Ospedalieri e riferito in antico alla scuola
trecentesca riminese, è stato attribuito da Volpe (1979) ad Andrea da Bologna.
Abbiamo tratto informazioni sull’artista da: D. Donati, Andrea da Bologna in
Enciclopedia dell’Arte Medievale, 1991, Treccani.
«
connotata
da
Di Andrea da Bologna si hanno notizie
inflessioni che, più
dal 1369 al 1377. Mai documentato in
che una tradizione locale, riflettono suggestioni
patria e noto attraverso opere conservate
umbro-toscane e venete (Volpe, 1979, p. 32), si
nelle Marche, egli potrebbe forse identificarsi,
nota già in un Crocifisso della Pinacoteca Com. e
secondo quanto propone Arcangeli (1970), con
Mus. Civ. di Rimini, proveniente dagli Istituti
un Andrea di Deolao de' Bruni che risulta
Ospedalieri e riferito in antico alla scuola
residente ad Ancona il 3 novembre 1377 quando,
trecentesca riminese, che gli è stato attribuito da
in un atto bolognese, il notaio Francesco di
Volpe (1979). A questo va aggiunto un altro
Deolao de' Bruni figura in qualità di procuratore
Crocifisso in S. Pancrazio a Sestino reso noto da
del fratello "magistri Andree quondam Deolay
Corbara (1982). Le opere firmate che si
de Brunis pictoris habitanti Anchone" (rogito di
conservano nelle Marche mostrano un
Raniero Bondi da Monteveglio, Bologna, Arch.
progressivo abbandono dei caratteri bolognesi,
di Stato, Notarile, busta 2, prot. 1377-1381, c. 23
ancora evidenti in talune parti del polittico di
a; Filippini, Zucchini, 1947, p. 9).
Fermo (1369). Riecheggiamenti dai modi di
Nel 1369 firmò ("Anno Domini MCCCLXVIIII
Allegretto Nuzi e Francescuccio Ghissi sono
de Bononia natus Andreas fuit hic operatus") un
evidenti altresì nella Madonna dell'Umiltà di
polittico raffigurante la Madonna in trono con il
Corridonia (1372), non solo per quanto riguarda
Bambino, santi e storie della loro vita, già nella
l'iconografia adottata. A questo momento
chiesa di S. Caterina e ora nella Pinacoteca Com.
stilistico sono da ricondurre una analoga
di Fermo; nel 1372 firmò ("De Bononia natus
Madonna dell'Umiltà in coll. privata a Firenze e,
Andrea anno Domini MCCCLXXII") una
secondo quanto propongono Boskovits (1977) e
Madonna dell'Umiltà, già nella chiesa di S.
Donnini (1975), alcuni frammentari affreschi nel
Agostino di Corridonia (anticamente Pausula), in
convento di S. Nicolò a Osimo (Incoronazione
prov. di Macerata, e ora nella Pinacoteca della
della Vergine, Giudizio universale, Angeli
stessa cittadina. Gli studi moderni, a partire da
musicanti)».
quelli di Longhi (1934-1935, in Longhi, 1973,
pp. 52-56) hanno distinto la personalità di A. da
quella di Andrea de' Bartoli, con il quale era
confuso in passato.
L'individuazione della sua fisionomia
stilistica si basa sulle opere marchigiane,
certificate dalla firma. Qui appaiono,
accanto a desinenze veneteggianti e
'adriatiche', caratteri bolognesi, di stretta
dipendenza da Vitale da Bologna, che
inducono a ipotizzarne una formazione
intorno al 1350 nella bottega di quel
caposcuola. […]
Lo spostamento della sua attività da Bologna
alla costiera adriatica e marchigiana dovette
avvenire sul principio degli anni sessanta e
Il Polittico ligneo di Andrea da Bologna, proveniente dalla chiesa
la conoscenza di una cultura più diramata, di S. Caterina (cm. 153 x 252), oggi nella Pin. Com. di Fermo.
61 Vita di Club n.1
SERVICE
LEZIONI CONTRO IL SILENZIO
“Progetto Martina. Noi e il cancro, volontà di vivere".
S
abato 17 novembre alle ore 9.00 presso
l'Istituto Valturio si è svolto l'incontro con
gli studenti per il “Progetto Martina. Noi e
il cancro, volontà di vivere", un Service
Nazionale, a cui hanno congiuntamente aderito i
due Lions Club riminesi. Organizzato dalla prof.
Grazia Urbini, docente di Scienze Giuridiche ed
Economiche e socia del Lions Club Rimini
Riccione, ha avuto come relatori il dott.
Gianfranco Arseni, urologo, socio del Rimini
Malatesta, e il dott. Stefano Catrani,
dermatologo, primario ospedaliero.
Quali sono gli obiettivi del “Progetto Martina”?
1° informare i giovani sulle modalità di lotta ai
tumori, sulla possibilità di evitarne alcuni, sulla
opportunità della diagnosi tempestiva, sulla
necessità di impegnarsi in prima persona.
2° dare tranquillità. È indubbio che il sapere
come affrontare una malattia, il sapere che ci si
può difendere e che si può vincere, dà tranquillità.
La tranquillità che deriva dalla conoscenza
coinvolge tutti e permette di vivere con maggiore
serenità.
Perché parlare ai giovani dei tumori?
1 - Perché alcuni tumori, quali il melanoma ed il
tumore del testicolo, colpiscono anche i giovani.
2 - Perché, anche se la maggior parte dei tumori si
manifesta in età media o avanzata, molti
incominciano il proprio percorso in età giovanile e
quindi è ai giovani che bisogna far sapere che cosa
fare e quando incominciare a fare.
3 - Perché molti tumori sono causati anche da
mutazioni di geni indotte nell’arco della vita da
“fattori ambientali” e da “stili di vita scorretti”;
conoscere ed evitare fin da giovani questi “fattori
di rischio” riduce il proprio rischio.
4 - Perché la diagnosi tempestiva di alcuni tumori
con controlli periodici quando ci si sente sani
richiede impegno da parte del singolo. In sintesi,
la lotta contro i tumori richiede conoscenza e
impegno personale, richiede quindi “cultura”... e la scuola è la culla della cultura. “Educare i giovani a
considerare la vita un bene prezioso e a sentirsi impegnati personalmente nella sua difesa” può ritenersi
un impegno prioritario dei LIONS. Le Associazioni di Volontariato delle varie città saranno invitate a
collaborare alla diffusione del progetto. Nelle città ove sono già in atto iniziative con analoghi obiettivi i
LIONS offriranno integrazione e collaborazione.
62 Vita di Club n.1
SUGGERIMENTI PRATICI
La lotta ai tumori si combatte seguendo tre vie:
• prevenzione primaria: significa evitare che il tumore insorga. Si ottiene sia eliminando le cause
determinanti o favorenti i tumori, i cosiddetti "fattori di rischio", sia diagnosticando ed asportando alcune
lesioni che pur benigne sono a rischio di trasformarsi, dopo alcuni anni, in veri tumori.
• diagnosi tempestiva: è la diagnosi di un tumore in tempo utile per la cura.
• terapia efficace: è la terapia che permette di evitare che il tumore vinca la sua guerra.
È sbagliato pensare che il tumore sia sempre un evento "che capita!"
Oggi noi sappiamo che alcuni tumori sono
causati da virus, che possiamo evitare con la
vaccinazione, e che molti tumori sono
causati da "fattori ambientali" e "stili di vita
scorretti" che noi stessi possiamo modificare
e quindi ognuno di noi può ridurre il proprio
rischio di ammalarsi. Naturalmente queste
cause vanno conosciute ed eliminate o
almeno ridotte fin dalla più giovane età,
prima che esse producano quelle
modificazioni dei geni (mutazioni) che
fanno impazzire le cellule provocando la
nascita del tumore.
È bene quindi accettare i consigli contenuti
sia nella ormai famosa "piramide della
salute": meno grassi e meno carne, più frutta
e verdura, un po’ di attività fisica
quotidiana, sia nelle "raccomandazioni del
codice europeo contro il cancro".
Non bisogna aspettarsi miracoli, ma sicuramente il rischio si riduce e le cure risulteranno più efficaci.
63 Vita di Club n.1
L’ANGOLO DELLO SPONSOR
Il costo di questo numero è stato interamente sostenuto dalla Ditta del socio Raffaele Mussoni:
RIMINI - VIA COSTA ANGOLO VIA FLAMINIA
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Rimini, Museo della città, Andrea de` Bruni da Bologna, Crocefisso