Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
COMMISSIONE SPECIALE DELL’INFORMAZIONE (III)
e
COMMISSIONE ISTRUTTORIA POLITICHE DEL LAVORO
E DEI SISTEMI PRODUTTIVI (II)
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Introduce l’incontro esponendo i
temi principali riguardanti “Servizi all’impiego, politiche attive, agenzia del lavoro”, come
discussi nella sede congiunta delle Commissioni II e III.
In primo luogo va discussa la questione dell’Agenzia nazionale del lavoro
proposta dal disegno di legge delega ora in discussione in Parlamento: la sua
configurazione nel rapporto fra lo Stato e le Regioni, la modalità di
partecipazione delle parti sociali e la collocazione del personale sono temi
cruciali per il futuro delle politiche attive per cui l’Agenzia dovrebbe avere
un ruolo guida.
Un secondo tema riguarda la distribuzione delle funzioni fra l’Agenzia
nazionale e i livelli decentrati. Al riguardo andranno tenuti in considerazione le
indicazioni della Corte Costituzionale, secondo cui nel presente assetto
costituzionale, che assegna alle regioni competenza concorrente in materia di
mercato del lavoro, le funzioni da allocare a livello statale dovranno essere
definite secondo un criterio di necessità e di proporzionalità. A tale stregua le
competenze dell’Agenzia nazionale potranno comprendere compiti
di
coordinamento, di verifica dei livelli essenziali di servizio, di gestione del
sistema informatico, di monitoraggio; ma non sembra invece che possano
estendersi a compiti di gestione delle politiche del lavoro, come invece prevede
il ddl delega.
Il terzo punto è come si organizzano a livello decentrato i servizi all’impiego
e le politiche attive. Per esempio, bisogna vedere se le Regioni faranno le
agenzie regionali o meno. Come è noto, è una questione dibattuta.
Il quarto punto è come mettiamo insieme le politiche attive, cioè i servizi
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all’impiego, e le politiche passive. Anche su questo ci sono varie ipotesi, sia
solo in Italia, sia all’estero. Nella legge delega c’è già un’indicazione chiara,
come anche sul primo punto. In sostanza, le due funzioni dovrebbero avere una
connessione più forte possibile per evitare che la mano destra non sappia quello
che fa la sinistra, come talora capita.
Il quinto riguarda i rapporti tra pubblico e privato, altra annosa questione;
forse oggi un po’ meno difficile rispetto ad alcuni anni fa.
Peraltro, abbiamo scritto la nostra nota quando la Garanzia giovani non era
ancora avviata Forse, ora va detto qualcosa di diverso.
In ultimo, abbiamo la questione dell’eventuale revisione della Costituzione,
che per ora lasciamo in sospeso. Secondo il mio orologio, sono le 14.22.
Chiederei di fare un primo giro, cominciando dalle posizioni ufficiali dei nostri
colleghi del CNEL. Assegnerei 6-7 minuti a testa, all’europea.
Per la parte CNEL, abbiamo chiesto a Michele Gentile e a Maurizio
Drezzadore. Dopodiché, passiamo alle Regioni e alle parti sociali, nell’ordine
stabilito.
MICHELE GENTILE, CNEL. Grazie. Mi occuperò del tema dell’Agenzia,
avendo a riferimento due punti, in primo luogo le modalità attraverso le quali
l’Atto Senato n. 1428 ridetermina il tema dell’organizzazione del sistema lavoro
e in particolare quello dell’Agenzia; in secondo luogo, come vedete nella
cartella, la legge n. 56, che riordina il sistema delle autonomie locali.
Ho chiesto anch’io, insieme agli altri componenti della Commissione, di
provare ad affrontare questo tema mettendo questi due ragionamenti insieme –
l’Atto Senato n. 1428, con il suo impianto organizzativo, e la legge n. 56, a
Costituzione vigente – perché credo che aprano qualche contraddizione che ha
necessità di essere vista in un quadro di riflessione comune.
In particolare, mi riferisco al comma 2, ai punti c), e), f) e g), ragionando sul
tema dell’agenzia nazionale,
al cui funzionamento si provvede con le risorse
umane e strumentali già disponibili a legislazione vigente; alla quale si affidano
compiti gestionali in materia di servizi dell’impiego e politiche attive, e che
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prevede contemporaneamente il riordino di tutti gli enti e le strutture nazionali,
regionali e provinciali che svolgono funzioni in tema di politiche attive del
lavoro e dei servizi per l’impiego, con la possibilità di far confluire nei ruoli
delle amministrazioni vigilanti o dell’agenzia il personale proveniente dalle
amministrazioni o uffici soppressi e riorganizzati in attuazione della lettera f).
Dico questo perché il modello che emerge da questo punto è sicuramente
innovativo, ma nella sua innovazione organizzativa accentra competenze che
oggi sono affidate a soggetti diversi. Inoltre, accentra non solo la governance,
cosa della quale ci sarebbe assolutamente bisogno, ma anche la gestione.
Allora, procedendo su questa strada, mi preme sottolineare alcuni elementi
contraddittori. Il primo è che la legge n. 56 fissa al 7 luglio di quest’anno la data
di emanazione di un DPCM con il quale affrontare, a legislazione e Costituzione
vigente, il tema delle nuove funzioni degli enti di area vasta e delle risorse da
trasferire.
La legge n. 56, pur nella sua innovazione riformatrice, ha alcuni buchi.
Sostanzialmente, ascriverei questi buchi a una sorta di scarsa chiara indicazione
delle funzioni che vengono trasferite nel nuovo assetto del sistema delle
autonomie locali. Tra l’altro, la legge n. 56 tace completamente delle funzioni in
tema di lavoro, che, a Costituzione vigente, all’interno delle competenze affidate
in base all’articolo 117, secondo comma, lettera m), allo Stato, sono di
competenza concorrente. Questo è il primo tema.
Il secondo tema riguarda le risorse umane – almeno quelle note – che oggi
interagiscono intorno a questi argomenti. Ho provato a rimetterle in fila.
Abbiamo 8.700 operatori dei Centri per l’impiego, dei quali circa 1.100-1.200
precari, il cui contratto di lavoro scade improrogabilmente entro il dicembre
2014, per cui è presumibile che al 31 dicembre 2014 molte delle cose delle quali
parliamo non saranno in atto (sicuramente non il Job Act nella sua interezza,
cioè compresi i decreti delegati, e nemmeno la legge n. 56 nella sua attuazione
specifica).
Italia Lavoro conta circa 400 dipendenti, con ulteriori 200 tempi determinati
e circa 500 collaboratori. L’ISFOL conta circa 480 tempi indeterminati e 250
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tempi determinati, la cui scadenza finale, a norma di legge, è fissata al 31
dicembre 2016, come scadenza ultima in base al decreto n. 101/2013. A questi
sommiamo numeri che, francamente, non sono in grado di quantificare, che si
riferiscono alle strutture del Ministero del lavoro che si occupano di politiche
attive del lavoro e che dovrebbero rientrare in questo soggetto.
Stiamo ragionando di un’agenzia forte, attiva, partecipata da Stato, Regioni e
Province autonome e vigilata dal Ministero del lavoro, che, però, agirà in modo
poco chiaro, stando alla situazione data. Dovremmo, infatti, aspettare i decreti
delegati.
Stiamo ragionando, tuttavia, non mettendo nella dovuta attenzione quanto
contenuto nel decreto legislativo n. 469, che affidava il compito delle politiche
attive del lavoro a Regioni ed Enti locali in base a una legge delega (una delle
leggi Bassanini, la n. 59 del 1997), al cui articolo 1 recita: “Il Governo è
delegato ad emanare entro il 31 marzo 1998 uno o più decreti legislativi volti a
conferire alle Regioni e agli Enti locali, ai sensi degli articoli 5, 118 e 128 della
Costituzione, funzioni e compiti amministrativi” e così via.
Questo significa che la legge n. 469 è un decreto delegato di una legge delega
che fa esplicito riferimento alla Costituzione vigente. Pertanto, il primo tema che
mi permetterei di sollevare come necessario è quello di un’agenzia di
governance partecipata, che sia la strumentazione organizzativa del punto m)
del comma secondo dell’articolo 117, e cioè una sorta di sede nazionale nella
quale definire standard, politiche, livelli essenziali, modalità di funzionamento,
radicamento sul territorio e quant’altro. Credo che questo sia assolutamente
necessario. Insomma, è una condizione necessaria; non sufficiente, ma
sicuramente necessaria.
Non ritengo che, alla stessa stregua, ci sia il tema della gestione. Mi
permetterei, quindi, di sollevare il problema derivante da questo: la previsione
nel disegno di legge costituzionale di abolizione delle competenze concorrenti
delle Regioni non può significare un accentramento statalistico, che sarebbe di
difficile applicabilità, né, d’altra parte, può significare che tutto ciò che non è
statale sia competenza esclusiva delle Regioni. Penso, per esempio, alla sanità.
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Per come è scritto il nuovo articolo 117 sul tema delle competenze esclusive e
concorrenti, il problema si pone.
Mi fermo qui per dire che siamo in presenza di un provvedimento di legge
che ha un suo iter attuativo e decreti delegati di attuazione e, nel frattempo,
abbiamo anche un provvedimento legislativo che non può che fotografare la
situazione data. Quindi, il tema su cui occorre ragionare è che fotografare la
situazione data significa provare a evitare la riproposizione sic et simpliciter di
quello che già c’è, perché non andrebbe bene, ma, nello stesso tempo, significa
anche tener conto del fatto che un provvedimento che accentra in questo modo il
tema della gestione è difficilmente compatibile con la legislazione vigente, ma
anche con la Costituzione vigente.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Grazie, hai avuto
qualche minuto in più perché sei stato il primo. Non vorrei essere troppo rigido,
ma cerchiamo di stare nei tempi.
Abbiamo ora Maurizio Drezzadore.
MAURIZIO DREZZADORE, CNEL. Portare efficienza nei servizi per il
lavoro, introdurre trasparenza in un mercato opaco, estendere tutele e diritti,
concorrere a superare il dualismo tra garantiti e precari: non possono che andare
in questa direzione i provvedimenti che il Parlamento sta prendendo in esame
relativi alla Delega Lavoro.
Una operazione complessa che ha alle spalle molte altre iniziative
riformatrici (Treu, Biagi, Fornero) che purtroppo non hanno dato i risultati
attesi.
La complessità deriva da numerosi fattori che non possono essere ignorati:
1. Oggi la ricerca del lavoro è in Italia una operazione “fai da te”. Oltre il 90%
dei rapporti di lavoro avviati ogni anno sono riconducibili a inventiva
personale: tramite web, autocandidature, relazioni familiari, conoscenze e
raccomandazioni. Meno del 10 per cento sono intermediate dai servizi
autorizzati e solo il 3,9% dal sistema pubblico dei CPI. Tutto ciò aggiunge ad
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un mercato di per sé complesso una forte accentuazione discriminatoria.
Questo contesto è aggravato dal fatto che solo il 2% delle imprese richiede ai
servizi pubblici la selezione del personale di cui abbisognano. Il prolungarsi
per molti decenni di questa situazione ha portato a vere e proprie
deformazioni culturali: tra i lavoratori che considerano il posto di lavoro
come una conquista personale a cui vorrebbero essere legati a vita; nelle
imprese (soprattutto quelle piccole e piccolissime) che hanno assunto una
posizione minimalista nella selezione del personale orientandosi nella ricerca
a requisiti di serietà, affidabilità, spirito di dedizione, con la convinzione che
poi le competenze professionali verranno acquisite col tempo, nel processo
lavorativo. Con tale atteggiamento rinunciano ad introdurre innovazione
tramite le nuove assunzioni, omologando al modello organizzativo aziendale
le nuove risorse umane impiegate.
2. Con peculiarità diverse si presenta il mercato del lavoro giovanile. Per
l’enorme disoccupazione (oltre il 46%) e per l’impressionante numero dei
NEET (oltre 2,4 milioni, cioè il 24% dell’intera popolazione giovanile tra i
15 e i 29 anni). Il mercato del lavoro giovanile è aggravato anche da un
disallineamento tra competenze scolastiche ed esigenze professionali delle
imprese; i giovani sono inoltre stati emarginati da una riforma pensionistica
che ha innalzato l’età lavorativa dei sessantenni bloccando il turnover. Ai
giovani va dedicato un capitolo specifico della riforma del mercato del
lavoro impegnando le stesse strutture formative ad organizzare servizi e
interventi che favoriscano il loro ingresso nel mercato con l’uso
generalizzato di esperienze lavorative, stage tirocini, e apprendistato.
3. L’insufficienza dei servizi per il lavoro non ha consentito il reperimento di
figure professionali (dai 65 mila del 2013 ai 135 mila del 2010) richieste
dalle imprese anche in questi ultimi sei anni di prolungata e grave crisi. Noi
conviviamo con elevati tassi di disoccupazione, elevatissimi per i giovani, e
l’incapacità di fornire personale specializzato ricercato dalle imprese.
4. Le profonde distorsioni che caratterizzano l’utilizzo della Cassa in deroga,
istituita per aiutare, nel mezzo della crisi, i lavoratori delle piccole imprese e
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dei settori sprovvisti di ammortizzatori sociali, ha finito per essere impiegata
in molte Regioni come sussidi permanenti per accompagnare alla pensione,
oppure come misura aggiuntiva allo scadere della Cassa ordinaria. Col
risultato che i costi sono enormemente lievitati, diventando ben un terzo del
monte ore autorizzato per la Cassa integrazione complessiva. Con la
sostanziale differenza che i costi della Cassa in deroga gravano sulla fiscalità
generale.
5. La capacità di coniugare insieme sostegno al reddito (sussidio di
disoccupazione, Cassa integrazione o mobilità) e politiche attive (essenza
stessa della flexsecurity) è ancor oggi circoscritta ad un segmento
limitatissimo di interventi. Basti pensare all’impiego della Cassa in deroga,
istituita nel 2008, che solo nel 5,6% degli interventi è stata affiancata da
azioni formative di riqualificazione. Giova inoltre ricordare, come
evidenziato da diverse rilevazioni statistiche, che i tempi medi di
reinserimento lavorativo di un disoccupato non sostenuto da misure di tutela
al reddito sono circa la metà di quelli necessari per trovare una occupazione
da parte di un soggetto tutelato.
6. Le prestazioni di servizi che si concludono con il matching sono un insieme
ampio
e
diversificato:
dall’orientamento,
alla
certificazione
delle
competenze, alla riqualificazione professionale, alla gestione di tirocini (in
particolare per giovani e percettori di sostegno al reddito), alle esperienze di
lavoro all’estero, alla gestione amministrativa, alla gestione dei sussidi.
Nessun attore oggi sul mercato assomma su di sé tutto questo know how.
7. L’attuale equilibrio istituzionale dei poteri basato sulla legislazione
concorrente e sulla leale collaborazione tra Stato e Regioni in materia di
mercato del lavoro ha dimostrato di non poter funzionare. Basti pensare alla
mancanza, ancor oggi riscontrabile in molte Regioni, di regimi di
accreditamento per i soggetti che operano nell’ambito dell’intermediazione.
Né sembra poter essere una adeguata soluzione una visione dove allo Stato
spettano le competenze sulle politiche passive e alle Regioni quelle sulle
politiche attive, se non permeata con obblighi più stringenti.
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Alla luce di queste criticità il risulta utile che il CNEL indichi a Governo e
Parlamento alcuni obiettivi:
L’utilità di incentrare il processo di riorganizzazione dei servizi su una forte
valorizzazione di reti di attori distinti (Cpi, istituzioni scolastiche e formative,
Api), coordinate da un player pubblico. In tal modo assicurando che le
funzioni di servizio siano svolte in forma complementare ed accessoria. Si
evidenzia che tra il 2011 e il 2013 sono stati sottoscritti accordi, Linee Guida
tra Stato e Regioni o veri e propri Decreti che hanno disciplinato in maniera
nuova: l’Orientamento permanente, la certificazione delle competenze,
l’apprendimento permanente, la gestione dei tirocini, l’erogazione della
formazione in apprendistato. E’ opportuno che su quelle basi si proceda nel
disegno di riorganizzazione delle politiche attive. Si evidenzia inoltre che
Università, Istituzioni scolastiche e formative sono state riconosciute come
soggetti di intermediazione (il programma Fixo è stato predisposto da Italia
Lavoro proprio con questo scopo e con una spesa non proprio irrilevante).
Indurre i soggetti che sono alla ricerca di un lavoro ad assumere un
atteggiamento attivo, vuol dire prima di tutto riorganizzare l’offerta dei
servizi e tra tutti, in particolare, l’offerta formativa. Non si può suscitare un
atteggiamento proattivo da parte del soggetto interessato, né creare una vera
condizionalità, se non predisponendo una efficace e generalizzata offerta di
servizi.
E’ necessaria una maggiore disponibilità di risorse per far fronte alle
misure previste dalla delega, non va tuttavia trascurata la strada di
ribilanciare la spesa già oggi dedicata: riducendo quella destinata alle
politiche passive a beneficio di quella da destinarsi alle politiche attive.
Questo può essere conseguito solo creando efficienza nel sistema che
riduca i tempi di permanenza nella condizione di disoccupazione o di
sostegno al reddito.
Promuovere una profonda riorganizzazione delle misure di incentivo alle
assunzioni e a sostegno dell’autoimprenditorialità che si sono dimostrate
fino ad ora gestite in modo caotico ed inefficiente.
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Il nuovo modello di governance promosso da ANPO (Agenzia Nazionale
per l’occupazione) non dovrà essere né centralista né pubblicista, dovrà
altresì mirare a dar vita e sostegno ad efficaci reti territoriali per i servizi
per il lavoro, comprendenti:
1. L’orientamento di primo livello (suscitare un atteggiamento proattivo
nella gestione della propria storia lavorativa),
2. L’orientamento professionalizzante (nei diversi contesti territoriali e
verso gli specifici fabbisogni professionali richiesti dalle imprese),
3. La certificazione delle competenze conseguite in contesti formali,
informali e non formali,
4. La qualificazione e riqualificazione di giovani e lavoratori con una
offerta formativa mirata,
5. La gestione dei tirocini,
6. La gestione della formazione nell’apprendistato di primo livello.
Il livello di governance dovrà ricomprendere le Parti sociali e il privato
sociale in modo da coinvolgere e coordinare tutti gli attori che operano
nelle reti territoriali. Sembra utile infatti evidenziare che il vero compito
innovatore dell’ANPO sta nel nuovo modello di governance delle
politiche attive e passive e che ogni forma di programmazione dovrà
avere come riferimento l’efficienza delle reti di servizi che si svilupperà
nei territori. Mettere al tavolo gli attori, impegnati nei territori, potrà
quindi garantire migliori risultati. Analoga valutazione vale per le
governance regionali.
L’introduzione di modelli sperimentali che prevedano sia l’introduzione
di strumenti di incentivazione del collocamento dei soggetti in cerca di
lavoro, sia l’uso della formazione come riqualificazione dei profili
professionali deboli. In particolare c’è la necessità di rilanciare
l’apprendistato attraverso programmi specifici, visto il continuo e
prolungato calo di consenso di questo istituto contrattuale, riformato
proprio per essere il veicolo di ingresso dei giovani nel mondo del
lavoro.
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TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Grazie per
l’intervento esemplare, anche come tempi. Interviene ora Jole Vernola.
JOLE VERNOLA, Confcommercio. Vorrei orientare il mio intervento sulle
opportunità che riteniamo di poter cogliere in questa parte della legge delega
mirata al riordino dei servizi del lavoro.
Quello dei servizi al lavoro – cui sono connesse le politiche attive – è da
sempre il grande tema irrisolto del nostro mercato del lavoro. Credo che questo
sia il motivo per cui il nostro mercato del lavoro soffre della “patologia della
legislazione continua”, che spesso legifera sulla norma, ma non sul servizio. Si
tratta di un problema che, di fatto, ci costringe a lavorare su aspetti limitrofi,
perché non riusciamo a mettere mano al nodo fondamentale.
La questione di base è l’incontro tra domanda e offerta di lavoro – non c’è
problema più grande rispetto ai temi del servizio al lavoro – che poi si può
declinare in vari momenti (primo ingresso, ricollocazione e così via) e porta con
sé competenze e attività di tipo diverso.
È, però, evidente che il nucleo centrale del tema che dobbiamo affrontare è
come riusciamo a migliorare la nostra capacità di incrementare e implementare
l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Si tratta di un nodo che interessa, da
un lato, le imprese e, dall’altro, i giovani, i disoccupati e tutte le categorie di
stakeholder che si trovano in tale condizione.
In tale ottica, riteniamo che l’ipotesi dell’Agenzia nazionale del lavoro, che
andrà definita nelle sue fasi attuative, sia una risposta che viene fuori da
un’evidenza che negli ultimi quindici anni – dal decentramento del Titolo V alla
legge citata, che ha istituito l’agenzia per il lavoro – è rimasta senza risposte,
ovvero superare definitivamente il funzionamento a macchia di leopardo dei
nostri al lavoro. Se partiamo dal dato dell’utilizzo, dobbiamo prendere atto di un
dato significativo: soltanto il 37 per cento dei disoccupati in Italia si rivolge a un
Centro per l’impiego per effettuare colloqui di orientamento e/o per trovare
un’occupazione, mentre l’80 per cento utilizza la rete informale. Questo dato ci
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dimostra come viene percepito il servizio dal cittadino, ovvero dall’utente. Non
si tratta, quindi, di un problema che oggi ci troviamo a dibattere fra tecnici,
bensì di una consapevolezza radicata nella popolazione che quell’istituzione o
quel servizio non è in grado di dare la risposta che si sta cercando.
Crediamo che il punto vero sia questo. Consapevoli delle difficoltà derivanti
anche dal dettato costituzionale, che opera un complesso riparto di competenze
la, nonché della problematicità dell’individuazione dei servizi da implementare
e delle attività da integrare e da coordinare tra di loro, poniamo una la questione:
è necessario di trovare un luogo in cui coordinare tutti insieme una prima
finalità, quella dei servizi minimi essenziali che vanno garantiti su tutto il
territorio nazionale e, quindi, della reidentificazione degli obiettivi dei Centri
per l’impiego.
A questo riguardo, vorrei ricordare che oggi
questi obiettivi sono tre:
l’attività amministrativa, l’incontro domanda-offerta e la promozione di
iniziative e interventi di politica attiva. L’attività amministrativa impiega il 95
per cento del tempo e delle risorse; l’attività di incontro domanda-offerta il 3 per
cento e le politiche attive il 2 per cento. Risulta, quindi, un forte divario fra i
compiti espletate e le percentuali con cui vengono realizzate tali attività. Posto
che questo è il vero tema e che c’è una difficoltà legislativa, credo che dobbiamo
anche dirci che abbiamo – come è stato confermato – 10.000 persone in Italia
che lavorano dentro queste strutture e che svolgono per il 95 per cento del loro
tempo, anche in maniera dedicata, attività amministrativa.
Ci troviamo, quindi, di fronte a due problemi. In primis, come reimpiegare o
riqualificare il personale adibito all’attività amministrativa buona parte delle
risorse umane, spostando le attività che oggi vengono realizzate – per il 95 per
cento sono comunicazioni obbligatorie, dichiarazioni di assunzione, quindi una
massa di attività importante, seconda questione, come implementare le altre
attività.
C’è un altro aspetto che è stato richiamato, non citato nella legge delega, ma
è stato oggetto di un importante provvedimento, il decreto-legge n. 104 del 2013
sull’istruzione, che abbiamo particolarmente apprezzato, perché contiene alcuni
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elementi su cui, come rappresentanza di impresa, da tempo insistevamo. Mi
riferisco al potenziamento dell’orientamento dei ragazzi, a partire già dagli
ultimi anni delle scuole primarie e secondarie, soprattutto facendo conoscere
loro i bacini occupazionali, quindi interrompendo quel processo di
autoformazione dei giovani verso professioni nelle quali poi fanno più fatica a
trovare sbocco. Viene, inoltre, richiamata la necessità di far crescere le risorse
umane che si occupano di questo, anche nella logica del placement.
Il tema del placement è un altro aspetto importante. Quando parliamo di
servizi pubblici e pensiamo alle reti, tutti pensiamo all’integrazione tra servizi
pubblici e privati per il collocamento. Noi, invece, pensiamo che sia importante
ragionare di reti anche con le scuole. Riteniamo, infatti, che le strutture dei
servizi al lavoro debbano essere un nodo che metta insieme non soltanto
l’ultimo pezzo della collocazione, ma anche la parte iniziale.
Facciamo l’esempio di un istituto fondamentale: l’apprendistato. Oggi le
aziende che vogliono assumere degli apprendisti dove li trovano? Il tema
dell’apprendistato potrebbe essere – la Garanzia giovani ci può fornire
un’importante opportunità in tal senso – uno strumento per cui la collocazione di
una struttura come il Centro per l’impiego, quale perno del raccordo tra
l’impresa, la scuola e l’istituzione, può dare effettivamente la tracciabilità di un
processo che può individuare criticità, ma anche soluzioni.
Questo è per dare il senso di quella che pensiamo sia la direzione da
percorrere. Dopodiché, ci rendiamo conto che non è così semplice perché c’è un
tema di competenza e di leggi. Sicuramente, il tema della suddivisione delle
competenze tra lo Stato le Regioni va orientato maggiormente al coordinamento
per quanto riguarda lo Stato e all’attuazione, ovvero all’erogazione del servizio,
per quanto riguarda il territorio.
Ci teniamo, però a dire una cosa: il tema della garanzia di servizi omogenei è
primario e non può essere assolutamente eluso. Se poi ci sono delle possibilità di
integrazione ben vengano, ma non possono essere a scapito di una garanzia
minimale.
Riguardo al tema dell’integrazione tra politiche attive e passive, nella scaletta
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vedo che c’è stata consegnata un’ipotesi del collegamento più stretto con l’INPS
per la questione delle politiche passive e così via.
Ora, per quanto conosciamo le attività dell’INPS, anche dall’interno,
partecipando al CIV (Consiglio di indirizzo e vigilanza), il problema non è tanto
unificare gli uffici quanto mettere in rete in maniera immediata le informazioni.
Probabilmente, il problema vero non è avere tutte le persone che fanno le
stesse cose, anche perché sappiamo che l’attività di erogazione svolta dai sussidi
di disoccupazione non comporta le stesse competenze che pensiamo vadano
implementate nell’ambito dei servizi al lavoro. Semmai, le competenze che oggi
ci sono andrebbero ridotte in quantità perché sono relative ad attività istruttorie,
quindi di tipo amministrativo. Non abbiamo pregiudiziali sul tema. Tuttavia, la
questione è come mettere in integrazione le politiche attive e passive rispetto al
soggetto, non rispetto alle strutture.
Dall’altra parte, abbiamo un ultimo tema, ovvero come rendere evidente, in
maniera omogenea sul territorio, il beneficio del sussidio. Infatti, mi permetto di
dire che un’azienda che vuole assumere un lavoratore in mobilità non riesce ad
accedere alle liste di mobilità in tutta Italia. Sembra una cosa banale, ma è così.
Se sono un’azienda e mi trovo in una parte d’Italia dove il Centro per l’impiego
o l’INPS non sono in grado di darmi una lista nominativa di persone a cui è
legato un beneficio, non posso fare questa assunzione.
Ora, anche questi sono incentivi; sono incentivi alle assunzioni e non sono da
poco perché le aziende li guardano. Quindi, quando si pensa alla
razionalizzazione degli incentivi bisognerebbe focalizzarsi bene anche sulla
messa a regime della conoscenza degli incentivi perché questo può favorirne
l’utilizzo e ottimizzarne la gestione.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Se siamo ancora qui,
ci sarà un altro giro. Ho un problema. Carraro aveva fretta. Ora, se può
aspettare, pensavo di far sentire due voci istituzionali. Allora, diamo la parola ai
due contendenti, Regioni e Stato. Francesca Giovani è il direttore che sostituisce
più che degnamente Simoncini.
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FRANCESCA GIOVANI, Regione Toscana. Sostituisco indegnamente
l’Assessore Simoncini che non ha potuto essere presente per impegni
inderogabili.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Ma se fa questo da
tutta la vita!
FRANCESCA GIOVANI, Regione Toscana. Innanzitutto, riporterei il
parere delle Regioni sul DL e gli emendamenti proposti dalle Regioni. Poi, se ci
sarà tempo, possiamo parlare anche del rapporto che c’è in questo momento tra
Regioni e Ministero, che è molto collaborativo e che si è instaurato a partire dal
tavolo della struttura di missione.
Sulla legge delega, le Regioni hanno portato degli emendamenti, quindi un
parere condizionato. In particolare, abbiamo un parere assolutamente favorevole
per quanto riguarda una riforma degli ammortizzatori sociali di tipo
universalistico. Il superamento della deroga è un elemento dirimente che le
Regioni hanno chiesto già da tempo. Vi è, poi, una valutazione positiva anche
della semplificazione delle tipologie contrattuali, su cui, però, non abbiamo
competenze, quindi non posso entrare.
Invece, gli emendamenti che abbiamo portato e il parere negativo riguarda la
parte dell’Agenzia nazionale, su cui si rilevano tre criticità. Della prima, relativa
all’invarianza di risorse con cui si realizzerebbe la riforma, non entro nel merito,
perché hanno detto meglio e prima di me i colleghi del CNEL. C’è, comunque,
una pesante invasione di competenze. Segnalo solo che negli emendamenti si
parla d’intesa forte, nel senso che su questa materia ci deve essere, appunto,
un’intesa forte, per cui quella debole prevista nel DL non è accettabile per le
Regioni.
Concordo sull’esiguità delle risorse. Noi, nei Centri per l’impiego, abbiamo
un operatore ogni 150 disoccupati; la Germania ne ha uno ogni 50. Potrei
continuare perché ci sono autorevoli studi che ci sono stati presentati
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
recentemente anche all’ISFOL e che poi citerò brevemente. Insomma, non si
può fare una riforma di questo tipo a risorse invariate.
C’è, inoltre, un eccessivo accentramento che riteniamo ci faccia tornare a
esperienze passate, che nel nostro Paese non sono state positive. Si dice che le
esperienze europee riguardano l’Agenzia nazionale e su questo le Regioni sono
completamente d’accordo. Tuttavia, là dove sono state fatte esperienze di
Agenzia nazionale – mi permetto di citare il recente studio di Alessandra Sartori
che ci è stato presentato all’ISFOL – si sta provvedendo anche a forti esperienze
di decentramento e di territorialità. Pertanto, quello che propongono le Regioni è
assolutamente il linea con le esperienze europee che sono state fatte e che
vengono fatte in questo momento.
Riteniamo, quindi, che centralizzare i servizi pregiudichi fortemente la
territorialità e facciamo presente anche un altro elemento che riteniamo
dirimente: nella legge non si parla di formazione, per ovvi motivi, riproponendo
una divisione tra politiche attive del lavoro e formazione che ci fa tornare a un
passato non felice nel nostro Paese.
Qui faccio un breve passaggio sulle esperienze dei Centri per l’impiego in
materia di ammortizzatori in deroga. So che il direttore generale interverrà
meglio di me perché ha dei dati di una sua rilevazione. Tuttavia, in questo caso
voglio parlare della mia esperienza di dirigente del settore lavoro che ha gestito
gli ammortizzatori in deroga dal 2009.
Sono arrivata a fare il dirigente del settore lavoro, ma nella mia vita
precedente ero una ricercatrice dell’IRPET (Istituto regionale programmazione
economica della Toscana); studiavo il mercato del lavoro e – vi posso
confessare – avevo un forte pregiudizio nei confronti dei Centri per l’impiego,
che non avevo mai frequentato in vita mia perché mi sono laureata e ho cercato
lavoro con le mie reti, vincendo una borsa di studio e facendo un concorso
all’IRPET.
Questo pregiudizio, che sento aleggiare, non mi piace perché io stessa l’ho
superato. Peraltro, ci sono dati importanti che ce lo devono far superare. Mentre
ero in treno mi sono fatta dettare dal mio ufficio i dati sulle politiche attive che
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
hanno gestito i miei Centri per l’impiego dal 2009 a oggi. Per la prima volta
abbiamo sperimentato nel nostro Paese il principio di condizionalità. Sapete,
infatti, che chi ha usufruito di un ammortizzatore sociale in deroga ha dovuto
fare una politica attiva, quindi il nostro Paese l’ha sperimentata. Invece, al
tavolo della struttura di missione mi sono sentita dire che le Regioni avrebbero
dovuto sperimentare la condizionalità. Ebbene, non è così; le Regioni l’hanno
già sperimentata.
Vi parlo, quindi, dell’esperienza della mia Regione. Oltre 80.000 lavoratori
hanno usufruito di 600.000 azioni di politica attiva. Non credo, quindi, che i
miei operatori dei Centri per l’impiego abbiano fatto solo il 2 per cento di
politica attiva – poi, la dottoressa Strano ci sarà il dato nazionale – ma molto di
più.
Cosa hanno avuto questi lavoratori? Ecco, hanno avuto tutti un libretto
formativo da spendere sul mercato del lavoro, un orientamento, una politica
attiva misurata al periodo di cassa integrazione in deroga, che in alcuni casi ha
portato anche a delle qualifiche di tipo professionale e la possibilità di sapere
come fare un curriculum. In alcuni casi hanno trovato un altro lavoro, mentre in
molti altri sono tornati a fare il lavoro che già facevano.
Ho fatto fare ben due indagini conoscitive dall’istituto di ricerca da cui
venivo su un campione rappresentativo di questi lavoratori per due volte di
seguito e devo dire che in entrambe le occasioni c’è stato un giudizio fortemente
positivo delle politiche attive ricevute dai Centri per l’impiego.
Vorrei, però, portare anche il parere delle Regioni per quanto riguarda
l’Agenzia, su cui vorrei fare un breve e ultimo passaggio. Dopodiché, posso
saltare qualche giro.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Non mi faccia
apparire peggio di quello che sono.
FRANCESCA GIOVANI, Regione Toscana. Questa è una reazione al
pregiudizio che sento serpeggiare sulle Regioni, sui Centri per l’impiego e su
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quella che è stata l’attività delle Province, che deriva sia dalla mia esperienza
diretta, sia dai dati che la avvalorano.
Invece, la proposta delle Regioni è quella di un sistema nazionale del lavoro,
incardinato su un’Agenzia nazionale e una rete federata di agenzie regionali.
Quindi, siamo d’accordo sul fatto che ci vuole una forte governance centrale.
La proposta delle Regioni è – ripeto – quella di un sistema nazionale del
lavoro, basato su un’Agenzia nazionale e su delle agenzie regionali. Siamo
d’accordo che i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) debbano essere definiti
dal livello centrale, così come gli standard dei servizi, il personale che deve
essere garantito dentro i servizi, i criteri per l’accertamento della
disoccupazione, la disciplina degli ammortizzatori sociali, il monitoraggio e la
valutazione (solo per dire gli elementi più importanti). Peraltro, stiamo facendo
delle esperienze importanti sul monitoraggio, la valutazione e standardizzazione
dei servizi al tavolo della dottoressa Strano, quindi su questo lascio a lei la
parola.
Le agenzie regionali dovrebbero, invece, dare attuazione alle politiche del
lavoro, assicurare il rispetto dei LEP e degli standard e gestire l’articolazione
territoriale dei servizi. Nella nostra proposta c’è già la possibilità di gestire,
prima in via sperimentale e poi in via più strutturale, nello stesso luogo fisico
politiche attive e politiche passive. Quindi, pensiamo a Centri per l’impiego con
dentro l’INPS o altro. I Centri per l’impiego diventerebbero, dunque, strutture
periferiche delle agenzie regionali, con compiti d’accoglienza ed erogazione dei
servizi, organizzati in un raccordo tra pubblico e privato.
Ecco, questi sono gli emendamenti principali che le Regioni hanno portato
ieri in audizione al Senato.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Grazie per questa
esperienza. Mi pare molto utile. Anche l’ISFOL ha dato un contributo
comparato che stiamo esaminando proprio in sede CNEL che fa vedere che non
è vero che in Italia si intermedia il 2 e in Olanda il 50 per cento. È tutto molto
più complesso.
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Avrei un solo suggerimento: fate della buona informazione. Non dico di
imparare dal Presidente del Consiglio, ma anch’io continuo a soffrire di questa
cattiva informazione, anche da parte di alcuni miei autorevoli colleghi.
FRANCESCA GIOVANI, Regione Toscana. In comunicazione abbiamo
molto da imparare.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Anche altri.
FRANCESCA GIOVANI, Regione Toscana. Devo dire che l’errore che
tutti facciamo è di valutare l’operato dei Centri per l’impiego sul matching
domanda-offerta di lavoro.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Quello che lei ha
detto basta e avanza.
GRAZIA STRANO, Ministero del Lavoro. Già nel 1998, quando fu fatto il
primo accordo in Conferenza unificata, dopo il decreto n. 469 si dibatté a lungo
su che cosa si intendeva per incontro domanda-offerta, ovvero se si trattava di
trovare un posto di lavoro oppure di una funzione complessa che racchiude
dall’accoglienza al far incontrare.
Ne discutevamo anche qualche tempo fa con il professor Varesi perché
occorre poi scegliere gli indicatori di successo dell’incontro domanda-offerta.
Non è soltanto se il datore di lavoro si è incontrato con il lavoratore, cosa che sta
alla libera scelta dei due, ma vi sono indicatori complessi per vedere cosa è
successo.
Al di là di questo, vorrei ragionare a voce alta. Se in questo momento, non
solo a questo tavolo, chi si occupa di politiche del lavoro discute giornalmente
della delega e delle connessioni tra essa, la legge n. 56 e la proposta di riforma
del Titolo V, c’è un motivo. Infatti, il sistema ha funzionato male in questi anni
o perlomeno c’è la percezione – per ritornare ai temi dell’informazione e della
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comunicazione – che non funzioni bene.
L’intenzione del Governo parte sicuramente da questa constatazione. È
chiaro che da questa constatazione alla definizione del modello ci sono ancora
dei passaggi da compiere. Il primo tra tutti è come si arriva alla definizione del
modello. Ci si può arrivare direttamente con il decreto legislativo delegato
oppure con altri strumenti, che stanno precedendo di fatto il decreto legislativo
delegato e che definiscono e chiariscono alcuni punti.
Il primo punto riguarda i livelli essenziali delle prestazioni. Sebbene la
Costituzione assegni allo Stato la definizione dei livelli essenziali delle
prestazioni, per esperienza diretta, ad alcuni tavoli che coordino arrivare insieme
alla loro definizione significa garanzia di successo, ovvero che poi questi livelli
vengano effettivamente garantiti sul territorio, ponendosi l’obiettivo, però, non
in basso, ma verso l’alto, cioè guardando verso la prestazione migliore che c’è
sul territorio. Torniamo, così, agli elementi di comunicazione e di informazione.
Non voglio citare Regioni perché la situazione è veramente a macchia di
leopardo e non segue il Rubicone. Sicuramente, però, questo è un problema.
Il secondo problema che serpeggia, anche se nessuno ha il coraggio di
parlarne apertamente, legato al livello essenziale delle prestazioni, è quello del
finanziamento. Infatti, se definiamo che ciascun servizio per l’impiego – utilizzo
questo termine ampio perché siamo a un sistema pubblico-privato di servizi per
il lavoro – deve garantire una determinata prestazione sul territorio dobbiamo
comunque garantirne il finanziamento, il che si porta dietro il problema dei costi
standard, ovvero dei costi che in ciascuna parte del territorio devono essere
garantiti, e conseguentemente degli operatori, delle competenze che questi
devono avere e della quantificazione degli operatori rispetto al servizio.
In generale, quindi, si pone il problema della rete territoriale. È un servizio
che, con ogni probabilità, per alcune funzioni e prestazioni potrebbe – ci sono
esempi – essere appaltato e garantito anche da soggetti diversi dal Centro per
l’impiego.
Il decreto legislativo che verrebbe fuori da questo processo ha già affrontato
questi temi. Senza riprendere il “tormentone dell’estate” – per chi si occupa di
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lavoro in questo momento si parla solo di Garanzia giovani – l’esempio di questi
mesi è positivo perché si è arrivati alla definizione del Programma operativo
nazionale non calandolo dall’alto verso il basso, ma costruendolo giornalmente
con tutti gli attori che poi andranno ad applicare quell’attività.
Un argomento strettamente collegato è il sistema informativo. Non per
deformazione professionale, perché mi hanno affidato questo compito da dieci
anni a questa parte, dico che questo è un elemento complicato, ma allo stesso
modo abilitante.
Sentivo parlare di condivisione delle informazioni. Mi permetto di nominare
due cose. La prima è stata veramente dirompente rispetto all’attività
adempimentale dei Centri per l’impiego. Mi riferisco al sistema delle
comunicazioni obbligatorie, che ha abbattuto del 40 per cento gli adempimenti a
cui prima erano adibiti gli operatori dei Centri per l’impiego, che si trovavano a
dovere registrare un rapporto di lavoro artigianale, a non fare niente di quella
informazione e soprattutto, dal lato aziendale, quell’informazione era replicata
quattro volte in tempi diversi.
Il sistema delle comunicazioni obbligatorie, con luci e ombre a seconda di chi
lo guarda, è ormai collaudato. Abbiamo 70 milioni di posizioni nel sistema che
vengono utilizzate sia per le politiche attive, sia – anche se non si dice – per
verificare la genuinità del rapporto di lavoro. Un altro aspetto importante è che
viene condiviso con altre istituzioni, primo tra tutti l’INPS.
È chiaro che la condivisione deve essere anche al contrario, quindi deve
avvenire anche da altre banche dati. Accenno solo alla questione, difficilmente
risolta in Italia, della normativa della tutela dei dati personali che nel caso della
condivisione delle banche dati in materia di lavoro è un problema non
indifferente.
Per fare un esempio, il decreto-legge n. 76, ovvero la legge n. 99, ha istituito
– dando un nome a una cosa che già c’è, perché il sistema informativo del
lavoro esiste – la cosiddetta “banca-dati politiche attive e passive” che non
sarebbe altro che il percorso longitudinale di un soggetto che entra nel sistema a
partire dalla scuola e ne esce quando ha terminato tutta l’attività lavorativa.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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Ebbene, per integrare le banche dati – penso alla scuola – siamo a un punto di
stallo perché c’è un parere del Garante sulla banca dati degli studenti che non
siamo ancora riusciti a superare. Quindi, i soggetti che dovrebbero entrare in
apprendistato e che sono i primi lavoratori sono quelli che conosciamo di meno.
Questo è un problema con cui la delega dovrà fare i conti, affinché si esca dal
dibattito sterile tra Agenzia nazionale e agenzia federale perché è come
mascherarsi dietro ad altri problemi che devono essere risolti prima. Non vorrei,
infatti, che ci sia una confusione tra governance e difficoltà operative che ci
sono state nel passato in presenza di un Titolo V e di un articolo 117 che
definisce bene i compiti sia dello Stato sia delle Regioni, ma soprattutto gli
strumenti che lo Stato ha per intervenire qualora le Regioni non legiferino o lo
facciano in maniera diversa. È chiaro che ci sono state delle difficoltà,
nonostante tutti gli accordi in Conferenza unificata che venivano nominati
poc’anzi.
Le difficoltà dell’apprendistato sono sotto gli occhi di tutti. È un istituto che
decolla male. Altro errore è, però, guardare sterilmente ai Paesi membri. Infatti,
guardare alla Germania o all’Olanda in maniera sterile, soltanto per prendere un
istituto che ha una sua connotazione all’estero e trasferirlo nello Stato italiano,
ha delle difficoltà. Non vorrei, dunque, che il dibattito sull’organizzazione
dell’Agenzia ci faccia dimenticare altre problematiche che dovrebbero essere
risolte prima.
Ne cito un’ultima, per non andare oltre i tempi, ovvero quella della rete
territoriale, quindi del rapporto pubblico-privato che, sebbene non abbia gli
stessi problemi che aveva nel 1997, ha ancora delle problematiche, come il fatto
che non tutte le Regioni hanno disciplinato la materia dell’accreditamento dei
servizi privati. Forse – dico forse perché è un dibattito che stiamo affrontando in
questi giorni al tavolo di coordinamento tecnico – una soluzione è di non fare
rientrare tra i livelli essenziali delle prestazioni anche i requisiti minimi che le
strutture private devono avere se vogliono operare sul territorio.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Anche il Ministero
del Lavoro è puntuale. Mi fa piacere, da vecchio frequentatore. Rispettiamo
l’ordine, dopodiché apriremo un dibattito libero. Peraltro, anch’io ho molte
domande e credo anche i colleghi.
Ora abbiamo i sindacati e alcuni altri interventi istituzionali, per esempio
l’ISFOL e la Camera. Cominciamo, quindi, dai sindacati e precisamente dalla
CISL.
PAOLO CARRARO, Cisl. Grazie. Ringrazio anche i colleghi per la
precedenza concessami. Secondo la CISL, in questa fase, questo argomento
deve diventare centrale nella discussione del Paese, forse anche più degli altri
aspetti del disegno di legge, visto che progettiamo un pezzo importante di futuro
e che è una delle occasioni più serie che abbiamo di farlo, anche proprio grazie
all’attuazione della Garanzia giovani.
Sono stati interessanti tutti gli interventi ascoltati. Parto dalla questione
numeri. C’è bisogno di informazione anche su questo, quindi ben venga
l’Agenzia nazionale (poi decliniamo meglio il perché). Sui numeri, si è parlato
di percezioni. Ecco, credo che i servizi all’impiego più in generale siano uno dei
pochi aspetti, se non l’unico, che riesce ad accomunare l’Italia dal nord al sud,
da un occhio di imprenditore, di lavoratore o di sindacalista.
Si ha, infatti, la percezione quasi totale del non funzionamento o meglio
dell’inutilità dello strumento. Da quando non è più obbligatorio il timbro del
cartellino, la frequentazione, dalle Alpi alle piramidi, dal nord al sud del nostro
Paese, dei Centri per l’impiego o ex uffici di collocamento è diventata
inconsistente.
Questa inconsistenza non è certo legata all’incapacità dei soggetti che
operano ai vari livelli all’interno dei centri dell’impiego. Anche qui tornando ai
numeri, abbiamo parlato di circa 8.700 operatori. Ci risulta, però, che di questi
8.700 quasi 3.000 siano in Sicilia, per ragioni sulle quali sarebbe utile aprire
un’altra parentesi.
Quindi, la distribuzione sul territorio fa sì che, al contrario dei numeri che ho
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sentito poco fa, quando la mattina – per usare una metafora – il funzionario del
Centro per l’impiego apre il suo sportello ha poco più di 400 disoccupati da
gestire, che è un numero impressionante rispetto agli 88 della Danimarca, ai 53
della Francia e soprattutto ai 22 della Germania, e questo riguarda anche gli
investimenti di spesa in maniera evidente.
Infatti, al di là delle questioni territoriali, di questi 8.700 dobbiamo verificare
quali effettivamente si occupano ancora di collocamento, di incontro domandaofferta e di servizi all’impiego. Nei 556 Centri per l’impiego ancora oggi
presenti sul territorio nazionale – alcuni, da segretario regionale del Lazio, li ho
visitati personalmente negli anni – molti operatori sono stati adibiti ad altre
attività proprio per quella percezione di cui dicevamo, impoverendo delle
professionalità di altissimo livello dei gruppi di lavoro che si stavano
organizzando.
Ora, questa percezione coinvolge sicuramente tutto il Paese. Gentile e
Drezzadore hanno citato il fai da te, che è il reale sistema di collocamento che
abbiamo in Italia. A ogni modo, riuscire a far riavvicinare i cittadini a questo
sistema non è facile.
La Garanzia giovani è, perciò, sperimentazione fondamentale che dà già una
lettura importante perché nel primo mese di attività – con i numeri in questo
caso potrei essere meno preciso – sono circa 69.000 i giovani che si sono iscritti,
quasi esclusivamente attraverso il sistema informatico. Questo la dice lunga
anche sulla percezione. Persino su questa importante opportunità della quale si
sta parlando in diversi tavoli da più mesi nel Paese – ci sentiamo anche
negativamente protagonisti – non è stata data la necessaria informazione da tutti
i soggetti in campo. Sarà anche per la campagna elettorale che ha tolto energie e
per tante altre motivazioni, ma siamo ancora a questo livello di scarsa
informazione.
Quindi, far tornare la percezione nei cittadini, nei lavoratori e nelle imprese
di cosa può essere il Centro per l’impiego è fondamentale. Su questo, riteniamo
importanti due cose.
Innanzitutto, il fatto che ci sia l’Agenzia nazionale, cioè che si parta, rispetto
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alla struttura di missione, da una struttura nazionale, che veda senza dubbio
coinvolte le Regioni. Infatti, queste dovrebbero far proprie le attribuzioni delle
funzioni che erano delle Province rispetto ai servizi per l’impiego, quindi non
possono essere escluse da questo sistema. In ogni caso, è importante che si parta
dall’Agenzia nazionale proprio perché in questi anni la ex riforma del Titolo V
ha prodotto danni sui quali è meglio mettere qualche pezza. Credo che questo
sia fuor di dubbio per le parti sociali. Vedremo, poi, se questa sensazione sarà
confermata.
L’altro aspetto importante riguarda la prosecuzione di un cammino che deve
vedere politiche attive e politiche passive sempre più nello stesso corridoio.
Sarebbe paradossale che, a partire dal Ministero del lavoro, ci fosse nuovamente
una separazione, visto che farebbe mancare una serie di importanti possibilità,
rispetto agli obiettivi, anche in relazione a quei numeri che dicevamo prima.
Insomma, è importante che questa Agenzia nazionale, tra le varie funzioni,
anche quelle più importanti che avrà dopo, cominci a fare un’analisi più seria
rispetto ai numeri che citavo prima, ovvero su qual è il sistema delle risorse
umane e delle strutture, fisiche e non, a disposizione per lo svolgimento di un
servizio così importante.
Altro elemento di questo servizio su cui siamo ancora decisamente carenti è
proprio il sistema informatico, esaltato positivamente dalla dottoressa Strano per
quanto riguarda alcuni aspetti più amministrativi, ma, a nostro avviso, ancora
tutto da verificare proprio per quello che riguarda l’organizzazione del sistema
di incontro domanda-offerta. Sappiamo che in questi anni quasi ogni Regione si
è creata il proprio sistema di incontro domanda-offerta e che quasi tutti questi
sistemi, oltre a non comunicare tra loro, spesso sono inattivi, quindi non
consentono quello che in altri Paesi funziona da decenni.
Il sistema non è la soluzione dei problemi, ma un importante passo per
arrivarci. Infatti, dovremmo essere già nella condizione di dialogare con un
sistema più largo, con l’EURES (European Employment Services) perché
l’incontro domanda-offerta, per non avere dispersioni significative come è stato
in questi anni, ha bisogno di un sistema unico, che agevola anche il compito di
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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chi deve operare.
Se la base è quella del prodotto che stiamo verificando in questi mesi con
ClicLavoro, cioè con il portale del ministero sulla Garanzia giovani, c’è ancora
molto da fare. Tuttavia, come indirizzo, si sta andando verso la strada giusta.
Quindi, il sistema informatico unico, come strumento che integri le politiche
attive e passive, è importantissimo.
Altrettanto importante, anche rispetto ai progetti, vi è la questione del
coinvolgimento a diversi livelli delle parti sociali. Sono il primo che interviene; i
miei colleghi amplieranno sicuramente. Comunque, suppongo che chi ha vissuto
le esperienze, sia sul territorio che di altro livello, delle Commissioni tripartite
non abbia un fantastico ricordo di quanto è avvenuto in questi anni a livello
territoriale e non. Riteniamo, pertanto, che sia indispensabile che ci sia, a partire
da un tavolo nazionale, un luogo indispensabile di incontro. Siamo d’accordo
con chi non vuole tavoli fumosi perché siamo antifumo al cento per cento.
Tuttavia, vogliamo che ci sia la possibilità per tutte le parti sociali non solo di
presentare proposte e prendere parte alle decisioni, ma anche – passo subito a un
piano più attuativo – di poter intervenire anche in sinergia operativa con gli
strumenti e con gli stessi Centri per l’impiego.
Riteniamo fondamentale anche l’aspetto dei rapporti tra Centri per l’impiego
e agenzie private, anche se neppure questo è lo strumento che risolverà i
problemi, per avviarsi in una direzione di sinergia più che di concorrenza,
facendo sì che il pubblico rimanga il quadro di riferimento essenziale per la
strutturazione di un nuovo sistema.
In questo senso, sono importanti l’accreditamento e la questione delle
autorizzazioni. Bisognerebbe, perciò, invitare, attraverso l’Agenzia, gli enti
competenti a risolvere i problemi, da quello informatico a quello degli
accreditamenti, che hanno fatto da ostacolo insormontabile all’attuazione di un
qualsiasi sistema secondo i principi nazionali.
Uno dei tanti strumenti, che proprio la Youth Guarantee cita come
riferimento, è la premialità. Studiando anche altri modelli europei, è
importantissimo – qui il livello nazionale diventa fondamentale perché parliamo
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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di condizioni essenziali – che venga costruito un sistema di premialità che
consenta di lavorare agli operatori pubblici, privati e collaterali (cioè enti che
prestano servizi, organizzazioni sindacali e datoriali, enti bilaterali e tutto ciò
che può diventare sistema integrativo all’interno di questo).
È essenziale, però, che ci siano delle condizioni chiare anche rispetto alla
premialità perché già sulla Youth Guarantee i primi modelli che sono usciti nelle
diverse Regioni hanno creato – questa è una lettura della CISL – delle distonie
rispetto al PON nazionale sia perché la premialità deve essere data
esclusivamente a valle del percorso, con il conseguimento di un risultato, sia
perché ci deve essere un’enorme differenziazione anche rispetto al chi si colloca
e al dove si colloca (per esempio, se il futuro lavoratore ha delle condizioni di
percorso scolastico di un certo tipo e soprattutto se è di un territorio o di un
altro).
In conclusione, parlando di politiche attive, un’altra questione che riteniamo
importante riguarda quella che fino a oggi è stata l’unica reale politica attiva in
Italia, pur con tutte le critiche che possiamo fare al sistema. Dobbiamo, infatti,
capire come è meglio rivisitare il sistema, in modo che sia integrato a questo
nuovo più ‘largo’, rispetto alla formazione continua, ovvero ai fondi
interprofessionali perché crediamo che senza un sistema di formazione virtuoso
che vada ad accompagnare le politiche attive del lavoro non si vada molto
lontano.
SERENA SORRENTINO, Cgil. Visto che molte cose sono state già dette,
sarà più agevole saltare nei tempi.
La CGIL non è mai stata contraria all'ipotesi di costruire un'Agenzia
nazionale del lavoro. E' vero, però, che il dibattito rischia di essere sterile nella
contrapposizione tra Agenzia nazionale -quindi nazionalizzazione dei servizi per
l'impiego- e Agenzia Federale, che mantenga, in termini di governance, un
equilibrio non soltanto rispetto alla programmazione, ma anche in parte alla
gestione dei servizi per il lavoro tra livello nazionale e livello decentrato. In
questo senso, troviamo abbastanza equilibrata la posizione delle Regioni.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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Sottolineiamo però alcuni punti.
In primo luogo, una delle difficoltà che abbiamo intravisto è che la delega
non fa altro che riprendere molte delle questioni che erano state già
regolamentate in passato, non da ultimo della Legge n.92, che, oltretutto, nel
rimando a un disegno di legge delega che doveva occuparsi di organizzare la
governance dei servizi per il lavoro, aveva anche profilato non soltanto i livelli
essenziali delle prestazioni, ma i modelli di governance in maniera più puntuale
di quanto non faccia il Disegno di legge delega n.1428. E' che non ci può essere
modello di governance dei servizi per il lavoro che non abbia alle spalle un
orientamento chiaro della politica per il lavoro.
Finché ci concentriamo sul tema della regolamentazione del mercato del
lavoro e non ci occupiamo di definire piani e servizi per il lavoro nel nostro
Paese, qualsiasi modello di organizzazione gestionale intravediamo per
un'Agenzia rischia di fallire in partenza. In effetti, questa è la distonia che
stiamo attraversando nel dibattito attorno al tema della costituzione
dell'Agenzia. Ci occupiamo del contenitore, ma non abbiamo ben chiara
l'articolazione della definizione del contenuto, né la missione, né le risorse.
Peraltro, ci occupiamo di un contenitore che pone in termini di governance e
di conflitto istituzionale più di un nodo irrisolto. Come diceva Gentile a
Costituzione vigente la strada dell'attribuzione di competenze è abbastanza
segnata. E' vero che abbiamo due procedimenti in corso. Il primo a cui si faceva
riferimento è stato anche distribuito in cartellina ed è il famoso Disegno di legge
Delrio; l'altro è la riforma della Pubblica Amministrazione.
Infatti, il 14 giugno scopriremo qual'è l'orientamento di riforma della
Pubblica Amministrazione. Noi pensiamo che i servizi per il lavoro siano uno
dei segmenti fondamentali e più innovativi della Pubblica Amministrazione.
Difatti
gran
parte
delle
cose
di
cui
discutiamo
(organizzazione,
razionalizzazione, digitalizzazione, presa in carico) fanno parte di un approccio
diverso della Pubblica Amministrazione e dei servizi pubblici, non solo per i
cittadini, ma anche per le imprese.
Non cito i dati che sono stati già forniti, ma possiamo riflettere sul fatto che
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una delle distonie prevalenti tra il modello di Centri per l'impiego e di servizi
per il lavoro che abbiamo adottato in Italia e quello degli altri Paesi è che, in
teoria, i servizi per il lavoro sono per il lavoratore e per l'impresa, ma non
abbiamo una banca dati delle imprese iscritte ai Centri per l'impiego perché di
fatto non si iscrivono.
In Germania i datori di lavoro iscritti all’Agenzia per il lavoro sono superiori
al numero di lavoratori iscritti. Questo ci dirà qualcosa sull’approccio che
sottende i servizi per il lavoro per come sono stati ipotizzati nel nostro Paese?
Ecco, vorrei soffermarmi esclusivamente su questo punto: l’Agenzia
nazionale. Non dobbiamo inventarci i livelli essenziali delle prestazioni perché
sono stati già più volte scritti, concordati, convenuti, ratificati in Conferenza
unificata e così via. Il punto fondamentale è la gestione del servizio, che attiene
non soltanto alla determinazione di chi ha la competenza in termini di
programmazione. Come diceva la dottoressa Giovani, ci sono delle competenze
in termini di programmazione che sono di ordine nazionale perché attengono
agli standard minimi di qualità e alle modalità di accreditamento dei soggetti che
erogano i servizi e che devono essere uniformi su tutto il territorio nazionale.
I 21 sistemi di mercato del lavoro regionali non sono esattamente
sovrapponibili, quindi non si può pensare di standardizzare anche l’attività di
programmazione delle agenzie regionali. C'è la necessità di costruire un sistema
di bilanciamento tra servizi minimi e standard minimi a livello nazionale e
prerogative delle autonomie nella programmazione che consentano un
adattamento e un adeguamento dei servizi per il lavoro, e soprattutto della
gamba delle politiche attive, sul territorio.
Altrimenti, facciamo un’operazione che, anche dal punto di vista
dell’architettura istituzionale, può essere la più pulita possibile, ma rischia di
scontrarsi con un fallimento di fatto in tutti gli obiettivi che oggi assegniamo ai
servizi per il lavoro, che -come correttamente veniva detto- non riguardano solo
il tema dell’intermediazione del lavoro.
Sarebbe riduttivo pensare che stiamo costruendo un’Agenzia nazionale
federale che abbia come unico obiettivo quello di funzionare come borsa lavoro.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
Abbiamo bisogno di altro, cioè della riscrittura delle politiche attive e di mettere
a sistema e in sinergia quello che il nostro Paese ha già codificato.
Abbiamo un sistema dell’apprendimento permanente che è disciplinato e
ratificato dai commi 51 - 55 della Legge n. 92; abbiamo la costituzione dei poli
tecnico-scientifici che ci aiutano a fare l’integrazione del percorso scolastico;
dobbiamo riorganizzare la rete per i servizi del lavoro; abbiamo le reti per
l’orientamento permanente. Insomma, non è che non abbiamo i livelli
istituzionali e le competenze che si devono occupare di questo. Come sempre il
nodo è nell’integrazione e nell’interoperabilità tra banche dati della Pubblica
Amministrazione, e tra funzioni.
A questo riguardo, sicuramente, l’unificazione delle banche dati sarà una
rivoluzione. Il punto fondamentale, però, è che ci sono due cose che vanno
stabilite preliminarmente: quali sono le politiche del lavoro che si mettono a
disposizione di un progetto di riorganizzazione dei servizi per il lavoro
(lavoratori e imprese) e come la Pubblica Amministrazione, nel processo di
riforma, adegua non soltanto i comportamenti, su cui c’è una grande attenzione,
ma anche i modelli organizzativi a rispondere a nuove esigenze.
In questo c’è anche un pezzo di risposta all’ultimo nodo della governance,
cioè qual'è il livello di prossimità nell’erogazione delle prestazioni. Ebbene,
pensiamo che sia una follia la comunalizzazione dei servizi perché questo
significa non avere idea di cosa sia il mercato del lavoro, che per avere un
minimo di credibilità nella sua gestione e organizzazione, deve avere come
bacino di competenza un’area vasta, come le città metropolitane, ovvero quelle
che prima erano più o meno le organizzazioni geografiche afferenti alle ex
Province. Quello deve essere il bacino di riferimento per la gestione dei servizi,
mentre l'erogazione della prestazione deve essere di prossimità e cioè i centri per
l'impiego devono avere sedi più possibili vicine a imprese e lavoratori.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Ha addirittura
guadagnato tempo. Ora abbiamo l’ultimo rappresentante dell’area sindacale, poi
passiamo all’ISFOL e alla Camera.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
MARCO MASSERA, Uil. Vi ringrazio dell’opportunità di affrontare un
tema così spinoso e articolato. Sono state dette molte cose da molti punti di vista
differenti, dal punto di vista istituzionale, con un taglio squisitamente legislativo
e costituzionale, a quello dell’impresa, del Ministero del lavoro e delle Regioni.
In particolare, queste ultime, da quando è cominciato il decentramento, cioè
con la fine del monopolio pubblico degli uffici di collocamento (come si
chiamavano un volta), hanno operato, nel bene e nel male, con luci e ombre,
fino a oggi, quindi fino alla rivoluzione copernicana del Job Act, che secondo
noi fa un clamoroso passo indietro rispetto alle leggi Bassanini sul
decentramento.
È un’idea che non ci convince, innanzitutto perché non riteniamo che si
possano
accentrare
in
un’unica
Agenzia
nazionale
dei
compiti
di
programmazione e di gestione al tempo stesso. Questo è quello che succede oggi
nelle Regioni, che hanno dei compiti di programmazione. Dopodiché, c’è l’ex
Provincia o le aree vaste, come oggi ci tocca chiamarle. Sotto questo aspetto,
come Uil, giudico molto condivisibile l’ultima parte del ragionamento della
collega Sorrentino rispetto all’individuazione dell’ambito ottimale su cui vanno
collocati i servizi, in ragione proprio delle questioni che sono state dibattute
sinora.
Non ci interessa molto il contenitore, bensì il risultato, quindi una definizione
puntuale di ruoli e di competenze. Pertanto, andrebbe invertito l’ordine delle
priorità perché se si vuole fare quello che il Governo ha scritto nel disegno di
legge delega (Atto Senato n. 1428): prima bisogna fare la revisione della Carta
costituzionale.
In queste condizioni non hanno torto le Regioni nel denunciare una
pervasività e un intervento a gamba tesa – se vogliamo usare un termine
calcistico – nei confronti delle loro prerogative.
È, dunque, importante mettersi d’accordo su una priorità. Il nostro Paese ha
necessità di centri per l’impiego che funzionino. Devo dire, però, che per quanto
riguarda l’occupazione, questi non sono altro che un complemento perché
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
sarebbe necessario occuparci di altro, cioè di come si crea il lavoro. È vero che
questo è uno strumento di facilitazione e che esiste un mismatch tra domanda e
offerta, ma quelle che riguardano il mismatch sono misure con decimali molto
più bassi di quelle che oggi l’Istat ci fornisce con i dati sulla disoccupazione, in
particolare giovanile. Non credo, quindi, che recuperando questo differenziale si
risolvano i problemi occupazionali del Paese. Dovremmo, invece, partire da
politiche di sviluppo, di crescita, industriale e così via. Non è questo, però,
l’argomento, pertanto non vado oltre.
In sostanza, i Servizi per il lavoro sono uno strumento che deve
accompagnare, come diceva la professoressa Fornero nella sua delega poi
scaduta. Peraltro; ce ne sono state altre di deleghe scadute; ne sono piene le
fosse di interventi che volevano rivoluzionare il nostro sistema di gestione dei
servizi per l’impiego.
Mi hanno, tuttavia, convinto alcune questioni, che tengo a sottolineare.
Innanzitutto, come dicevo, non ci interessa il contenitore. L’Agenzia nazionale è
fondamentale se serve a far massa critica, mettendo insieme i numerosi problemi
che abbiamo, con l’ISFOL da una parte e Italia lavoro dall’altra, entrambi enti
strumentali importantissimi, ma, dai numeri che sono stati riportati molto
fedelmente poco fa, anche portatori di numerosi problemi (stabilizzazioni,
collaborazioni, percentuali di tempi determinati che vengono reiterati nel corso
degli anni; addirittura in Italia lavoro sono superiori o pari al 60 per cento della
forza lavoro; il Decreto Legge 74/14, con il suo 20 per cento di tempi
determinati, è ben poca cosa rispetto a quello che accade in Italia lavoro).
Se c’è la necessità di razionalizzare va bene, ma è naturale che l’Agenzia
deve fare quello che è stato detto da molti, cioè disegnare, coordinare e avere,
laddove necessario, poteri di intervento sussidiario. Infatti, non è detto che le
cose possano funzionare. Non me ne voglia la dottoressa Giovani, ma un potere
di intervento sostitutivo o integrativo, come accade per Garanzia giovani, può
anche essere necessario.
Non ci convincono le 21 agenzie regionali, con 21 consigli amministrazione,
21 amministratori delegati, 21 direttori generali. Tuttavia, queste agenzie sono
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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costituite così. Ce ne sono già in alcune Regioni. In questo modo estendiamo il
modello a tutte le Regioni. A ogni modo, ci interessa che rimangano in capo alle
Regioni quelle competenze citate dalla dottoressa Giovani, ovvero la capacità di
cogliere le esigenze del territorio, come avviene oggi. Si tratta di avere la
capacità di leggere il territorio, di programmare le azioni e delegare, però, le
proprie funzioni. Non crediamo, infatti, che la Regione possa riassumere in se
stessa compiti programmatori e gestionali. Lo stesso vale per l’Agenzia
nazionale. Questi compiti vanno affidati a enti intermedi.
Sono d’accordo, dunque, con la collega Sorrentino nel dire che gli enti dove
vanno collocati i CPI sono le ex Province, vale a dire gli ambiti ottimali che
possono essere ricompresi in queste aree vaste o nelle città metropolitane. Di
sicuro non riteniamo possa farlo la Regione.
Anche le Province, perciò, sono un convitato di pietra. Hanno espresso il loro
parere rispetto al disegno di legge e chiedono che sia lo Stato a delegare
direttamente agli enti che si dovranno realizzare in quelle aree, dal momento che
alcune competenze e funzioni comunque rimangono a quelle realtà, quindi
potranno utilmente svolgere i compiti che finora hanno svolto rispetto alla
gestione dei servizi per l’impiego.
Mi ha molto convinto il ragionamento del consigliere del CNEL in merito a
quello che i nostri Centri per l’impiego non riescono a fare, per le ragioni che
diceva il collega della CISL, ovvero per il sottodimensionamento e per la mole
di lavoro di carattere amministrativo.
È vero, dottoressa Strano, che le comunicazioni obbligatorie li hanno
sgravati, ma se lei pensa a quante DID (Dichiarazione di immediata
disponibilità) hanno dovuto sottoscrivere, seguire e via dicendo, si tratta di
carichi di lavoro importanti, per cui molte delle funzioni proattive che
potrebbero svolgere i centri sono lasciate da parte. Infatti, il personale che sta
nel back-office è la maggioranza, mentre la minoranza sta nel front-office.
Riallacciandomi di nuovo a quello che diceva la collega Sorrentino, la riforma
della pubblica amministrazione, da questo punto di vista, ci deve dare
un’indicazione, perché non si possono fare operazioni così importanti come
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
quelle contenute nell’atto n. 1428 senza le risorse.
Inoltre una questione che mi interessa particolarmente è che si ritrovi un
nesso tra mercato del lavoro e sistema scolastico. Il decreto Carrozza va in
questa direzione e, oltretutto, lo fa attraverso uno strumento che apprezziamo,
come l’apprendistato di alta formazione. C’è, peraltro, già una grossa azienda
che vuole utilizzare quello strumento, per questo è stato accelerato un iter
attraverso il decreto-legge n. 34 di deroga all’età degli apprendisti che possono
partecipare.
In conclusione, questo è un aspetto che va fortemente irrobustito. Al di là dei
contenitori – ripeto – sono i contenuti e le azioni che vanno coordinati.
Termino con un’ultima questione sulla quale la collega Sorrentino mi ha
anticipato. Nei sistemi dell’Unione europea che conosciamo il rapporto dei
centri dell’impiego è non soltanto con i lavoratori, ma anche con il sistema di
impresa. Si dice che si utilizza il canale informale. Ebbene, le piccolissime
aziende lo utilizzano all’85 per cento. Sono, quindi, le aziende a utilizzarlo, non
certo i lavoratori, che si adeguano al sistema. Se quello è il sistema, è naturale
che utilizzeranno quello rispetto allo strumento pubblico messo a disposizione.
Insomma, c’è una chiamata di corresponsabilità nei confronti del nostro sistema
di impresa che va reso più chiaro ed evidente.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Abbiamo ancora due
interventi istituzionali, dopodiché riapriamo il giro. Do, quindi, la parola al
professor Varesi.
PIETRO A. VARESI, Presidente ISFOL. Per ragioni di tempo non mi
dilungo sulle obiezioni di legittimità costituzionale che sono state espresse dal
consigliere Gentile in merito all’art. 2 del d.d.l. delega. Mi sembrano
condivisibili. In proposito segnalo però un’ulteriore aspetto critico: le proposte
in esame rischiano di separare nuovamente servizi per l’impiego e politiche
attive, da un lato, e formazione professionale, dall’altro. Sarebbe un salto
all’indietro nel tempo, ritorneremmo indietro agli anni Settanta e ad una
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
divisione innaturale che tanto ha nuociuto allo sviluppo del nostro sistema di
politica del lavoro.
Ciò premesso svolgerò alcune considerazioni volte a delineare un modello
che sia efficace ed efficiente nel garantire i “livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i servizi per l’impiego” (di cui alla legge n. 92/2012) a tutti i
cittadini in ogni parte del territorio nazionale. Sono considerazioni che nascono
sia dall’analisi dell’esperienza delle Agenzie di altri Paesi europei, a partire da
quelli più vicini a noi (Francia e Germania), sia dall’esperienza maturata
all’interno dalla Struttura di missione, dove, seppur con notevole fatica, sono
state poste le premesse per sperimentare un sistema condiviso di servizi per
l’impiego, al fine di dare attuazione alla Garanzia per i giovani. Il Piano
nazionale per la Garanzia per i giovani è infatti l’espressione più alta che il
nostro Paese sia riuscito a esprimere sui servizi per l’impiego e sulle politiche
attive del lavoro, in termini di concertazione tra Stato, Regioni, Province e altri
soggetti istituzionali e sociali interessati, valorizzando una logica cooperativa e
non conflittuale. Credo, quindi, che si debba prestare molta attenzione alla
attuazione della Garanzia per i giovani perché dalla sua applicazione potrebbero
venire risultati positivi e inaspettati, tali da influenzare il dibattito sulla riforma
dell’assetto istituzionale ed organizzativo del sistema ed addirittura avvalorare o
mettere in discussione l’esigenza di riforme radicali.
La risposta che cercherò di dare alla domanda che ci stiamo ponendo – qual è
il sistema più efficace e più efficiente per le politiche attive del lavoro e i servizi
per l’impiego in Italia – deve a mio avviso prendere le mosse, innanzitutto, dalla
valutazione dell’esperienza degli ultimi quindici anni ed in particolare da tutto
ciò che abbiamo costruito in attuazione del decreto legislativo n. 469 del 1997,
quello che ha regolato il decentramento di poteri in materia dallo Stato alle
Regioni ed alle Province.
Benché formalmente basato su “sistemi regionali per l’impiego”, come
previsto dall’art.4 di tale decreto, il sistema si è sviluppato nella realtà
poggiando sul ruolo largamente prevalente delle Province. Cosicché il percorso
è stato caratterizzato da un’evidente diversificazione, definita “a macchia di
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
leopardo”.
Questo è risultato vero non solo tra Regione e Regione ma anche tra Province
della stessa Regione (con la conseguenza che abbiamo delle Province che
offrono servizi per l’impiego che possono tranquillamente confrontarsi con
quelli francesi o tedeschi, mentre altre hanno cambiato solo la denominazione
delle vecchie sezioni circoscrizionali per l’impiego, lasciando pressoché
inalterata la precedente attività).
In proposito dobbiamo avere il coraggio di dire che questa forte
differenziazione organizzativa non ha pagato e necessita di ripensamento.
Sarebbe ingiusto, però, dire che questo è stato l’unico o il principale problema.
Infatti, sappiamo che le risorse destinate dall’Italia ai servizi per l’impiego sono
scarse e sappiamo che impieghiamo un quinto degli operatori della Francia e un
decimo degli operatori della Germania: non possiamo dunque aspettarci gli
stessi risultati.
Tuttavia, un rafforzamento del sistema è necessario e passa dall’uniformità
delle regole e delle scelte organizzative e, in particolare, dal potenziamento del
ruolo delle Regioni/Città metropolitane, cioè dalla effettiva costruzione di
“sistemi regionali per l’impiego”.
Sotto questo profilo, non concordo con alcune affermazioni che ho udito
negli interventi precedenti. Per quanto sopra detto, sono decisamente contrario
all’affidamento dei Centri per l’impiego ai Comuni (realtà troppo piccole per
rispondere al principio di adeguatezza) o alle nuove realtà istituzionali di area
vasta. Condivido, invece, l’idea che i Centri per l’impiego vengano allocati
presso le Regioni, contribuendo alla costruzione di un modello regionale “forte”.
Ciò non vuol dire
non tener conto della necessaria territorializzazione dei
servizi. E’evidente a tutti, infatti, che i servizi debbono essere erogati sul
territorio ed è quindi essenziale mantenere in vita le strutture organizzative
decentrate (i Centri per l’impiego) in relazione alle esigenze specifiche del
territorio.
Segnalo inoltre che l’eventuale scelta del modello agenziale anche a livello
regionale o di città metropolitana, si presenta non solo come elemento di
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
coerenza formale rispetto al modello organizzativo statale (siccome si fa
l’Agenzia statale, è buona cosa che nascano anche le Agenzie regionali) ma
anche come espressione della volontà di costruire un unico sistema nazionale. È
l’incastro delle diverse Agenzie regionali e della Agenzia centrale che dà come
esito complessivo l’Agenzia nazionale. In sintesi, l’Agenzia nazionale potrebbe
essere concepita come l’insieme delle Agenzie regionali più l’Agenzia centrale.
Quest’ultima, lungi dall’essere un orpello, colmerebbe una grave lacuna. Infatti,
una delle carenze più avvertite da coloro che ben hanno operato in periferia è
stata la mancanza di un sistema centrale che svolgesse funzioni e compiti di
fissazione dei livelli essenziali delle prestazioni, di definizione degli standard di
qualità, di monitoraggio e valutazione, di esercizio di poteri sostitutivi. Tutte
funzioni che sono di aiuto e non di ostacolo a chi opera a livello periferico e che
sono fino ad ora in larga parte mancate nel sistema italiano.
Per quanto riguarda il tema del rapporto pubblico-privato, credo che la
costruzione del sistema misto di cui l’O.I.L. parla ormai da 15 anni e che noi
abbiamo regolato mediante la disciplina del sistema di accreditamento (v. art. 7
d.lgs. 276/2003), abbia scontato un deficit non tanto normativo, quando di
volontà politica. Se solo metà delle Regioni hanno legiferato per dare attuazione
all’accreditamento e solo sette Regioni lo hanno reso operativo, vuol dire che il
problema non è normativo, perché le norme statali ci sono. Non si possono fare
i necessari passi in direzione del “sistema misto” se il Paese non si convince
che un moderno sistema di servizi per l’impiego non può non basarsi sulla
presenza di soggetti pubblici e di soggetti privati, operanti in alcuni casi secondo
logiche di concorrenza ed in altri casi secondo logiche di cooperazione. La
Garanzia per i giovani, ad esempio, può essere l’occasione per valorizzare le
opportunità di collaborazione e sperimentare un approccio positivo al sistema
misto.
In questo modo, potremmo giungere alla costruzione delle “reti territoriali”
da molti citate ed a cui ha fatto riferimento, in particolare, il Consigliere
Drezzadore. Giustamente si è detto che questo tipo di approccio non riguarda
solamente il rapporto tra pubblico e privato o tra istituzioni pubbliche e il
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
mercato, ma deve coinvolgere anche il sistema formativo ed educativo.
Sull’integrazione tra politiche attive e politiche passive, avendo visto come
altri Paesi hanno affrontato il tema, dico solo che ho imparato che si può agire
per gradi, anche promuovendo dalle sperimentazioni territoriali, da sottoporre a
valutazione. I gravi ritardi accumulati dal nostro Paese nella materia in esame mi
rendono
perplesso di fronte ad ipotesi di grandi e subitanei cambiamenti.
L’integrazione tra politiche attive e passive, indicazione assolutamente
fondamentale, può avere differenti proiezioni sul piano organizzativo. Si può
ripartire da formule soft (ad esempio dall’affiancamento di funzionari Inps e dei
Centri per l’impiego presso una stessa sede – ricorderete la sperimentazione che
avviò il Ministero del lavoro qualche anno fa –) oppure si può pensare ad una
fortissima integrazione dei collegamenti informatici tra Inps e servizi per
l’impiego.
La Francia, prima di dare avvio alla fusione dell’ANPE e dell’UNEDIC in
Pôle emploi, ha per molti anni puntato su una forte integrazione dei sistemi
informatici; solo successivamente
ha aderito all’idea di fondere l’Agenzia
nazionale per l’impiego con l’istituzione che erogava i sussidi di
disoccupazione. Segnalo, a puro titolo informativo, che colleghi di Istituti di
ricerca francesi ci segnalano che l’integrazione, voluta dal presidente Sarkozy
nel 2008, dopo sei anni non può dirsi ancora del tutto completata. Poiché il
nostro Paese, come è noto, non è proprio velocissimo nell’integrare strutture e
nello spostare personale, forse, nel riaffermare con forza l’obiettivo,
bisognerebbe pensare ad un processo organizzativo che delinei le necessarie
tappe e gradualità.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Lascia perdere. Mi
scuso perché non conoscevo Bitti. Facciamo sentire l’ultima voce sociale.
FIOVO BITTI, Ugl. Grazie, Presidente, sarò brevissimo e lascerò un
documento scritto con le nostre considerazioni.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. A questo proposito,
tutti sono autorizzati, anzi invitati, a lasciare documenti scritti.
FIOVO BITTI, Ugl. Sul disegno di legge ci sono almeno tre nodi. Il primo è
quello delle risorse; il secondo è quello del coinvolgimento delle parti sociali,
che è previsto soltanto in due punti, mentre secondo noi andrebbe esteso in ben
più parti; il terzo riguarda le deleghe contenute nel presente disegno di legge,
che sono molto ampie e possono portare a un eccesso di discrezionalità da parte
dell’esecutivo, con tutto quello che può succedere sul riparto delle competenze
tra lo Stato e le Regioni.
Relativamente ai temi indicati nella scheda, anche per noi l’Agenzia
nazionale va fatta, con una presenza delle parti sociali maggiore rispetto ad ora.
Quali sono le funzioni che possono essere allocate a livello statale? Direi
sicuramente il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni e degli standard
qualitativi e la gestione del sistema informatico.
Per quanto riguarda l’organizzazione decentrata di servizi, crediamo che i
Centri per l’impiego andrebbero ricollocati nelle Regioni, che dovrebbero
dotarsi a loro volta di un’Agenzia operativa regionale, in linea con
l’organizzazione dell’Agenzia nazionale.
L’integrazione tra le politiche attive e passive è un tema delicato. Qualche
volta si è parlato anche dell’ipotesi INPS. Indubbiamente, però, soprattutto se
fosse l’INPS, qualche problema potrebbe sorgere anche nella lettura del bilancio
in quanto si andrebbe a gestire la previdenza, l’assistenza e diverse altre voci,
con una criticità a livello di comprensione della spesa pubblica italiana in
rapporto al PIL su certe materie.
Sicuramente, va fatta una maggiore integrazione sotto l’aspetto informatico.
Crediamo, però, che una maggiore integrazione sia possibile anche fra pubblico
e privato, per quanto riguarda i servizi per l’impiego. Non ci convince, tuttavia,
un passaggio in cui si spiega quali compiti deve fare il pubblico e quali il privato
perché si assimila a una logica del tipo bad company e good company, nel senso
che il pubblico fa il lavoro sporco e il privato quello pulito e remunerato, o
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
viceversa. Quindi, siamo d’accordissimo su questa integrazione, ma chiediamo
di fare attenzione a questo passaggio.
La Garanzia giovani è un’occasione per testare da subito il livello di
efficienza. Le domande già presentate in valori assoluti sono molte, ma se le
rapportiamo a livello dei giovani che non lavorano e non studiano, stiamo tra il
2,3 e il 2,5 per cento del bacino potenziale.
C’è un passaggio in cui si dice che potrebbe crearsi una certa concorrenza fra
le Regioni. In realtà già c’è perché nel decreto-legge lavoro si dice che la
persona può segnarsi a qualsiasi Centro per l’impiego, anche telematicamente.
Per cui, effettivamente un giovane può decidere di iscriversi in Lombardia o in
Calabria, secondo le sue esigenze.
Infine, sul Titolo V il giudizio è sospeso, anche se leggendo quello che si sta
facendo, c’è il rischio di una ricentralizzazione eccessiva delle competenze.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Nonostante la mia
spinta alla brevità, siamo già a due ore. Onorevole Maestri, a lei la parola.
PATRIZIA MAESTRI, Deputato. Ho ascoltato con attenzione e interesse
gli interventi dei relatori presenti al workshop sul tema della legge delega sul
lavoro che è attualmente in discussione nella Commissione Lavoro del Senato e
che approderà alla Camera nei prossimi mesi. So che in Commissione al Senato
si sono già svolte le audizioni con le parti sociali e sono quindi già stati raccolti
elementi e osservazioni utili ad approfondire i temi contenuti nella delega.
Affrontando sinteticamente le questioni poste dal Presidente Treu, in
specifico sull’articolo 2, servizi per il lavoro e politiche attive, osservo che
anche questo provvedimento è attraversato dalla logica della semplificazione e
della razionalizzazione degli interventi con l’obbiettivo di una maggiore
efficienza. Principio sicuramente positivo purché nell’eccessiva semplificazione
non si rischi di perdere pezzi di un sistema che in alcune regioni e province ha
raggiunto un livello di servizio dignitoso.
Conosciamo tutti la situazione di grande frammentazione e disomogeneità del
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
sistema servizi per il lavoro e di politiche attive nelle diverse regioni, quindi
penso che il primo compito a cui dovrà rispondere l’Agenzia Nazionale prevista
dalla delega sarà quello di rendere omogeneo in tutto il Paese quantomeno uno
standard minimo di livelli essenziali delle prestazioni orientato naturalmente non
ai livelli più bassi.
È vero che esiste, ormai da qualche tempo - come sottolineava la dottoressa
Giovani - un pregiudizio, sul lavoro e sui servizi pubblici che spinge l’opinione
pubblica a considerarli costi eccessivi o addirittura sprechi. Pregiudizio che è
spesso alimentato dai media e oscura il dato numerico reale degli operatori dei
Centri per l’Impiego che sono di gran lunga inferiori a quelli presenti nei centri
degli altri paesi europei.
C'è inoltre un contesto complicato a fronte della legislazione attuale che
ancora non ha chiarito l’affidamento delle deleghe delle province alle regioni e
la discussione che si sta affrontando riferita alla riforma del Titolo V della
Costituzione.
Un altro elemento su cui ragionare è quello relativo al concetto che attraversa
tutti gli interventi della delega, anche quello che riguarda gli ammortizzatori
sociali, che è quello delle risorse che devono risultare complessivamente
invariate.
Sarà necessario quindi che nelle razionalizzazioni e nell’ambito della
mobilità del personale della P.A., si recuperino le risorse umane ed economiche
necessarie per garantire dei modelli organizzativi efficaci.
Attualmente i Centri per l’Impiego operano con un alto numero di lavoratori
precari con situazioni differenziate anche nelle province della stessa regione.
Conosco il buon funzionamento dei Centri per l’Impiego dell’Emilia-Romagna:
in cui alcuni Centri impiegano personale completamente pubblico, altri hanno
appaltato tutto, altri hanno parte degli operatori in appalto e parte assunti dal
pubblico.
Penso quindi che un primo intervento dovrà essere effettuato aumentando
l’organico dei Centri per l’Impiego e stabilizzando i lavoratori precari, tenendo
conto che i loro contratti scadono il 31 dicembre e se non fossero stabilizzati
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
molti Centri non sarebbero nelle condizioni di tenere aperti gli sportelli.
Come si è fatto nel decreto 34 su contratti a termine e apprendistato si
potrebbe prevedere anche in questo provvedimento un periodo di monitoraggio
per verificarne i risultati.
E se i compiti dell' Agenzia Nazionale saranno quelli di coordinamento e di
governance penso che si debbano prevedere anche articolazioni dei servizi a
livello territoriali, sempre omogenei, che possano rispondere meglio al mercato
del lavoro locale.
Con la Garanzia Giovani avremo la possibilità, già da ora di sperimentare
come gli attuali Centri per l'Impiego risponderanno alle richieste dei giovani in
cerca di lavoro e quali saranno le azioni da rafforzare, tenendo conto della
normativa su alternanza scuola-lavoro già prevista dal decreto 34.
Altro punto importante è la sinergia tra pubblico e privato che già esiste ma
occorrerà stabilire i criteri omogenei per l’accreditamento del privato.
Abbiamo oggi la necessità di affrontare rapidamente i contenuti della delega
del lavoro per dare continuità al decreto già approvato sul mercato del lavoro; i
temi degli ammortizzatori sociali, del contratto a tutele crescente, gli appalti, il
compenso minimo e le politiche attive del lavoro devono trovare al più presto
una definizione complessiva in una ottica di sostegno e di stabilizzazione del
lavoro, pur nella consapevolezza che nuove regole sul lavoro non creano
occupazione ma possono aiutare in un momento come quello attuale di grande
emergenza.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. A conclusione di
questo primo giro il presidente Casadio vorrebbe dire la sua.
GIUSEPPE CASADIO, Coordinatore Commissione II CNEL. Vorrei fare
una considerazione che riguarda l’economia del nostro lavoro, se volete di
carattere organizzativo, ma che non intende concludere nulla. Le considerazioni
di sintesi le farà poi Tiziano.
Occasioni come questa, di confronto a più voci sul merito di questioni molto
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
rilevanti, rispecchiano di per sé la ragion d’essere di un’istituzione come la
nostra (finché esisteremo). Abbiamo ascoltato considerazioni molto stimolanti
(peraltro, le persone sedute a questo tavolo, delle dinamiche del mercato del
lavoro ne capiscono e ne hanno esperienza) dobbiamo impegnarci a farle vivere,
dando loro continuità.
Le nostre Commissioni possono farlo, anche e forse soprattutto, pensando
alla fase dei decreti legislativi, per ragioni ovvie. Al momento le cose sono al
punto che veniva anche ora rappresentato: il provvedimento è in Commissione al
Senato. Vi saranno emendamenti, non so quanto ampi. Insomma, è ragionevole
immaginare che nel giro di non molto tempo la legge arrivi in porto. La fase dei
decreti legislativi sarà, però, fondamentale, data la natura stessa della
legislazione delegata, e in questo caso per le questioni che sono emerse anche
qui e che sono cruciali, questioni organizzative e questioni strategiche.
Certo, le parti sociali e gli altri soggetti istituzionali, oltre al Parlamento,
avranno ciascuna occasioni ed opportunità per esprimere le loro valutazioni. Si
citavano le audizioni; benissimo. Tuttavia, queste sono tematiche rispetto alle
quali avere sedi in cui ci si confronta anche fra le parti sociali serve a ciascuno di
noi. Tutti abbiamo esperienza. Quella delle audizioni è una pratica aperta che
può essere usata anche per non tener conto di nessuno, se si vuole. Insomma, la
pratica di qualche confronto diretto a più voci sui temi fondamentali può essere
anche più feconda, almeno nei momenti cruciali della formazione e della
discussione di decreti legislativi.
Faremo tesoro di questi contributi e cercheremo di crearne materialmente una
sintesi. Vedremo se saremo in grado di fare un documento, ma comunque
faremo una rappresentazione di questa discussione e la metteremo a disposizione
di tutti. Inoltre, penso che su alcuni aspetti (in particolare sull’Agenzia e sulle
cose che emergono anche qui come le più cruciali) anche nella fase dei decreti
legislativi varrà la pena di trovare qualche occasione in cui confrontarci.
Approfitto per dire che il 1 luglio svolgeremo un’iniziativa di presentazione
di una ricerca molto interessante che abbiamo fatto sui lavoratori poveri
(working poor).
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Ho ancora una
comunicazione quasi di servizio. Vorrei, però, provocare qualche reazione nei
sopravvissuti.
Presidente Damiano, accomodati. Siamo alla fine di un primo giro molto
succoso. Io che sento queste cose da soli vent’anni, ho avuto dei buoni stimoli,
quindi mi complimento. Adesso, faccio un paio di provocazioni per vedere se
c’è ancora qualche idea da mettere in campo. Dopodiché puoi dire quello che
credi, anche se sei stato già rappresentato da Patrizia Maestri.
Noi vorremmo contribuire – adesso vedremo come – a quel dibattito
istituzionale che si sta svolgendo perché il CNEL avrebbe anche il compito di
iniziativa legislativa. Noi, nei nostri documenti di riforma, che per ora sono lì,
abbiamo detto che l’iniziativa legislativa non si manifesta necessariamente solo
in megadisegni di legge, ma anche in interventi emendativi o comunque
integrativi nei dibattiti. Quindi, cercheremo di mettere insieme questo nostro
ragionare e faremo la nostra parte per stimolare qualcosa di positivo prima al
Senato e poi alla Camera.
Anch’io auspico – so che c’è già questa volontà – che le due Camere
collaborino. Del resto, finché siamo in bicameralismo, facciamo che sia il meno
imperfetto possibile. Quanto meno, il partito di Governo dovrebbe coordinarsi.
Questa è l’indicazione di percorso.
Dico alcune cose. Infatti, ho notato un approccio positivo, che fa parte di un
clima che nel Paese è leggermente migliorato (almeno, io così la vedo).
Tuttavia, dato che non siamo qui per farci i complimenti, ma per discutere, noto
che avete tutti (perché io non ho detto nulla) sottaciuto o sottolineato poco
alcune criticità.
Nessuno è entusiasta di come funzionano le cose ed è anche giusto quello che
è stato detto, cioè che non è tanto la normativa quanto il funzionamento. Ciò
nonostante, sulle risorse bisogna essere chiari: da dove si prendono? Non è come
una volta, quando si diceva “risorse zero” perché c’è un problema – almeno così
lo pongo io – di redistribuzione delle risorse. Siamo d’accordo che questa
questione è stata solo soavemente toccata?
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
In secondo luogo, sul rapporto pubblico-privato, rispetto a tanti anni fa, non
c’è più la tauromachia. Si dice che bisogna che facciano qualcosa in sinergia o
in concorrenza (già questo è ambiguo; diciamo in sinergia). Non possiamo, però,
sottolineare che il quadro delle opinioni e soprattutto di comportamenti in giro
per l’Italia è, appunto, molto ambiguo. Lo ha detto Varesi alla fine, ma io lo
sottolineo. Questo accade non solo per vecchi motivi ideologici, ma perché una
Regione fa in un modo, un’altra in un altro, un’altra non lo fa proprio. Questo
non è un dettaglio. Sarà anche una questione di decreto legislativo, ma riguarda
principalmente la macchina operativa.
Il terzo punto che volevo fosse più evidenziato ha a che fare con il lavoro
burocratico: quanto è? Lo vogliamo smagrire? È chiaro che nei centri bisogna
mettere delle professionalità nobili, ma se anche quelle nobili che ci sono (come
dice la Toscana, che, peraltro, non è tutta l’Italia) devono fare le carte in attesa
della digitalizzazione non va bene. Anche questo, quindi, sarebbe bene dirlo in
toni non diplomatici.
Il quarto punto è che le imprese non ci sono, ma perché? Me lo dovete dire,
anche se ho una mia idea. Oltretutto, essendo vent’anni che pratico questo
genere di argomenti, è la prima volta che sento sollevare il problema, cosa che
mi fa piacere perché finora quello delle imprese era un sottinteso. Bisogna
responsabilizzarle? Perché non sono responsabilizzate, perché sono cattive o
perché sono odiate?
L’ultimo punto è quello che tiene insieme i miei dubbi. È vero che non
dobbiamo esagerare con il problema della governance, ma non ditemi che i
gradi di diversità sono legati alle diversità del mercato del lavoro. Dovremo
analizzare a fondo questo elemento perché si tratta di diversità che vanno in
profondità nelle strutture regionali. Peggio ancora, si vuole sbrindellare ancora
di più.
Insomma, non è che per essere prossimi ai mercati del lavoro bisogna avere
modelli organizzativi diversi. Varesi è stato l’unico che lo ha detto. Oltre alle
cose che (bontà vostra) dovrebbe fare l’Agenzia nazionale, senza invadere i
compiti di gestione, c’è il coordinamento, ma questa è una parola abusata, se
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
non la si riempie seriamente di contenuti. Allora, questa Agenzia nazionale, che
non invade i compiti di gestione, stabilisce gli standard, ma ripartisce anche le
risorse? Non si è detto, ma non è un dettaglio da poco.
I modelli organizzativi sono diversi? Ogni Regione crea i suoi modelli
organizzativi? È necessario avere modelli organizzativi diversi? Discutiamone.
Non è, però, che una Regione fa l’assessorato e un’altra l’Agenzia. Peraltro,
anche adesso, nell’attuazione della Garanzia giovani, ho visto pratiche
completamente diverse nella distribuzione di compiti tra privato e pubblico e
nell’allocazione delle risorse. Qualcuno mette tutto da una parte, qualcun altro
dall’altra. Non mi dite, però, che questo accade poiché il resto è già fatto perché
a me non pare.
Quest’ultimo punto, in sintesi, vuol dire: in che misura il coordinamento è
efficace? Infatti, se non è efficace nei punti critici, anche i servizi essenziali
restano scritti sulla carta, come sono da quindici anni.
JOLE VERNOLA, Confcommercio. Vorrei rispondere ad alcune domande
che sono state formulate. È vero che i servizi essenziali sono scritti sulla carta
come quindici anni fa.
Ma la domanda che è necessario porsi è: perché le imprese non sono iscritte?
perché non ricevono i servizi e quelle che si iscrivono, infatti, lo fanno per la
parte relativa all’attività di comunicazione. Infatti, salvo poche buone prassi
locali, non c’è un tipo di attività del Centro per l’impiego che possa rispondere
alle esigenze delle imprese – prima facevo l’esempio dell’apprendistato – né
nell’individuazione di un potenziale ventaglio di soggetti che potrebbero
interessare all’impresa perché, magari, ha una posizione da coprire; né nel
raccordo con le scuole, perché, come dicevo, questo collegamento va ancora
fatto; né, infine, anche se in maniera molto diversificata sul territorio, rispetto
all’utilizzo e all’accesso a banche dati, visto che, come è stato confermato,
nemmeno gli stessi uffici pubblici riescono interfacciarsi l’uno con l’altro in
maniera trasparente.
Insomma, non si riesce a mettere insieme con agilità i dati della stessa
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
persona perché ci sono problemi di privacy. Lo ribadisco perché è una cosa
banale. Oggi non riusciamo ad accedere ai dati dei neolaureati delle università,
se non attraverso delle convenzioni complicate. Ciò accade anche per quelle
pubbliche che dovrebbero essere strumenti del sistema dei servizi al lavoro
perché, come ho detto, il tema del placement è un tassello fondamentale. In
sostanza, un’azienda non può vedere gli elenchi dei neolaureati di determinate
facoltà, che hanno competenze specifiche, se non fa determinate convenzioni (e
non è detto che tutte le università le consentano). Non dico nemmeno che si
tratta di servizi a pagamento, ma non si accede nemmeno a una panoramica
generale. Questo è un problema.
Se questo potesse essere coadiuvato da un’attività del Centro per l’impiego,
forse le imprese lavorerebbero maggiormente con i centri. Lo dico anche da
associazione datoriale perché sul territorio spesso abbiamo contatti con le nostre
aziende, ma anche noi facciamo fatica a raccordare determinati servizi. Li
facciamo, infatti, direttamente dove possiamo, per esempio nelle nostre scuole
professionali perché siamo noi che li mettiamo a disposizione. Il passaggio
pubblico in parallelo, però, non c’è.
È vero che quello delle risorse è un problema, ma è anche vero che ci sono
vari modi per trovarle. Ad esempio investendo nelle politiche attive, si
potrebbero anche risparmiare delle risorse che oggi sono utilizzate. Non parlo
soltanto delle risorse destinate agli stipendi e sedi, ma anche di quelle finalizzate
alla spesa complessiva della politica del lavoro che può essere riorientata. È il
famoso ragionamento dell’impatto delle riforme. In questo Paese non abbiamo,
infatti, uno strumento che valuti l’impatto dal punto di vista non soltanto
normativo, ma anche economico. Credo che gli strumenti ci stiano tutti; la
difficoltà è mettersi d’accordo su chi va a misurare e su come deve uscire il
risultato.
Il tema della governance, come abbiamo detto tutti, c’è. Nessuno sta dicendo
che servono 23 modelli. Conosco benissimo l’esempio della Lombardia. Infatti,
anche dentro modelli che hanno delle innovazioni ci sono delle differenze tra
Provincia e Provincia. Ecco, questo non è accettabile né sui modelli
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
organizzativi, né sui servizi che vengono erogati. Poi, che vi possano essere
delle peculiarità che vengono sottolineate è un altro ragionamento che può
andare bene, ma non può essere la priorità. La priorità deve essere garantire il
servizio. Dopodiché, ben venga la personalizzazione.
Chiudo sulla burocrazia: magari! Non dico altro. Credo che questo possa
esprimere i nostri desiderata. Vi ringrazio, comunque, dell’occasione di oggi.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Racconto un dato
autobiografico. Con Cesare Damiano andammo a visitare i felici Paesi del Nord
(c’era pure il sole in quel periodo). Questo per dire che la storia del rapporto tra
politiche attive e politiche passive è come il cane che si morde la coda. Bisogna
decidere di avere fiducia, ma naturalmente ci vogliono politiche stabili. I danesi,
gli svedesi e così via dimostrano che investire molto in politiche attive nel
tempo, non subito, riduce le spesa in politiche passive, premesso che l’economia
funzioni. Noi, però, pedaliamo a vuoto. Ecco, speriamo di no.
Dopo Serena Sorrentino anche Giorgio Macciotta vorrebbe dire qualcosa.
SERENA SORRENTINO, Cgil. Visto che molte delle domande erano
estremamente precise, rispondo puntualmente.
In merito alle risorse, c’è un problema di sottofinanziamento generale delle
politiche del lavoro nel nostro Paese. C’è una sproporzione tra il finanziamento
delle politiche passive e delle politiche attive perché una grossa parte grava sulla
fiscalità generale ed è la spesa della deroga. Questo, però, non lo risolviamo
discutendo dall’agenzia, bensì facendo la riforma degli ammortizzatori sociali.
Intravedo, tuttavia, alcune cose che forse bisognerebbe avere il coraggio di
dire. Abbiamo 8.600 operatori dei Cpi, di cui 1.500 precari in gran parte
“terministi”. Il finanziamento dell’attività dei Centri per l’impiego da che cos’è
venuto finora?
E’ venuto dal Fondo sociale europeo. Non è che ci possiamo prendere in giro,
questo richiama anche qualche responsabilità della politica.
Come dicevo, possiamo immaginare il modello formale migliore del mondo,
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
ma se l’Unione europea, per la programmazione 2014-2020, dice che possiamo
utilizzare per la prima volta un pezzo del 20% flessibile del Fondo sociale
europeo sulla gestione dei servizi per il lavoro, perché i servizi pubblici del
lavoro diventano il centro delle nuove attività relative alle politiche del lavoro
(che sono quelle di cui abbiamo bisogno, ovvero il regime di sostegno ai
lavoratori in transizione nella discontinuità di lavoro, la Garanzia giovani,
l’invecchiamento attivo), vuol dire che dobbiamo avere la capacità di
programmare un pezzo del Fondo sociale europeo per l’implementazione in
termini di risorse da destinare ai servizi pubblici per l’impiego.
L’altra questione riguarda il confronto tra i 110.000 addetti in Germania e gli
8.600 in Italia. Se avessimo una direzione unitaria dell’intervento politico di
riforma che si sta provando a introdurre nel nostro Paese, potremmo mettere in
relazione il fatto che un segmento della Pubblica Amministrazione ha
un’evidente vacanza organica e un’alta domanda di servizio, per cui ci
potrebbero essere, compatibilmente con le professionalità disponibili nella
Pubblica Amministrazione, procedure per le quali gli esuberi e la mobilità
provano ad avere un direzionamento verso l’implementazione di quei servizi su
cui c’è maggiore domanda. Questo perché il mondo è cambiato e occorre che
anche la Pubblica Amministrazione segua l’evoluzione dinamica dei nuovi
servizi che bisogna garantire in termini, appunto, di servizio pubblico.
Abbiamo risolto tutti i problemi? No. Tuttavia, un pezzo di implementazione
in termini di dotazione organica, di nuove professionalità e di competenza ci può
essere senza la formula magica “senza oneri aggiuntivi”, che oltretutto è la
premessa di qualsiasi discussione.
D’altra parte, se siamo bravi a costruire una modalità per la quale la parte
nazionale di spesa del Fondo sociale europeo ha un indirizzo che va verso
l’implementazione delle politiche attive e dei servizi pubblici, e coerentemente
(come disciplina la nuova programmazione europea), anche la quota regionale
non solo del Fondo sociale europeo, ma anche del FESR, che devono essere
integrati nel plurifondo, camminano insieme, questo ci darebbe la possibilità di
fare quel salto delle politiche attive, che non sono più solo somministrazione di
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
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formazione, bensì il collegamento tra le realtà del mercato del lavoro, i sistemi
locali di sviluppo e l’intermediazione domanda/offerta di lavoro.
Non ho affermato una cosa rivoluzionaria, visto che nel resto d’Europa
questo si fa più o meno da vent’anni. Il punto è se c’è la volontà di fare una
scelta politica che dice che la priorità è l’implementazione delle politiche del
lavoro (per questo insistevo, dicendo di chiarirci su che cosa sono le politiche
del lavoro). Infatti, se la scelta politica è questa, la centralità di alcuni interventi
nell’utilizzare al meglio le risorse disponibili converge verso questo obiettivo.
Sto dicendo, però, una cosa riduttiva rispetto a quella che dovrebbe essere la
nostra ambizione perché se potessi dirla liberamente dovrei dire che la Pubblica
Amministrazione, in alcuni segmenti, ha bisogno di riaprire il reclutamento
perché non ha le professionalità necessarie e adeguate per svolgere alcuni
compiti.
Qui veniamo al secondo punto. È vero che nella crisi molti Paesi, tra cui la
tanto citata Germania, hanno spostato personale dal back-office al front-office.
Perché se lo possono consentire? Non soltanto perché lì c’è una procedura che è
molto più dematerializzata rispetto alla nostra, ma perché hanno 662 sportelli
(noi 556) e 110.000 addetti (noi 8.600).
Siccome ci sono alcuni compiti che in ogni caso gravano sugli operatori, un
conto è se prendiamo un operatore del Centro per l’impiego in Germania, che
ha, in media, il carico di 26 addetti all’anno, per cui significa che segue due
persone nell’arco di un mese, un conto è se parliamo di un operatore italiano che
ne ha 567, considerando disoccupati e inattivi, il che significa che ne deve
gestire 48 al mese. Non ce la farà mai, se aggiungiamo anche tutta l’attività
burocratica. Sentire dire che del personale che abbiamo oggi in capo al Cpi un
pezzo deve essere spostato al front-office significa, ancora una volta, non solo
non tenere in considerazione la realtà oggettiva, ma soprattutto non conoscere
come funziona l’organizzazione dei servizi e non essere mai entrati in un Centro
per l’impiego.
Proviamo a fare un’operazione di verità, che non è soltanto un problema di
come comunichiamo, ma del fatto che ci sono delle criticità sistemiche che
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
vanno affrontate.
Inoltre, c’è un diverso approccio nel rapporto tra pubblico e privato. Chi di
noi oggi è così folle da pensare che tutto possa essere gestito esclusivamente con
le risorse che il pubblico ha a disposizione? Nessuno.
Occorre, quindi, rivedere seriamente, a livello nazionale, un sistema di
accreditamento in relazione alle nuove funzioni assegnate alle agenzie per il
lavoro, fermo restando che -se proprio bisogna essere onesti- per noi un pezzo di
servizi deve rimanere a titolarità pubblica. Ci sono, infatti, alcune cose che non
possono essere messe in concorrenza tra pubblico e privato perché i portatori di
interessi sono diversi.
Un pezzo dei servizi per il lavoro deve essere caricato sul servizio pubblico,
ma c’è una larga fetta di attività che può essere gestita in sussidiarietà. Nessuno
di noi è contrario. Il problema è come viene gestito l’accreditamento non perché
sia l’unico strumento di selezione, dal momento che la selezione tra il privato
buono il privato cattivo non la fa la qualità dell’accreditamento, ma il mercato.
Per questo, dobbiamo aumentare la domanda qualificata dei soggetti che si
rivolgono ai servizi per l’impiego perché quello fa la selezione. Se il servizio
pubblico offre servizi qualificati ai lavoratori e alle imprese e quello è lo
standard di riferimento, automaticamente si alza anche lo standard del privato.
Se, come diceva la dottoressa Strano, continuiamo ad avere un parametro basso
del servizio pubblico, abbassiamo la concorrenza anche nel servizio privato.
Questo è il nodo fondamentale che intravediamo nel rapporto pubblico privato.
Un ultimo punto è la Garanzia giovani. La CGIL si iscrive tra i sostenitori
della Garanzia giovani. L’unico punto di critica che abbiamo avuto col Ministro
del Lavoro è che bisogna stare attenti perché parliamo di soggetti
particolarmente esposti dal punto di vista sociale. Dire che stiamo facendo il
Piano straordinario per l’occupazione giovanile non rende giustizia a quei
ragazzi che si iscrivono al programma pensando di avere l’occasione della vita.
Questo, nel nostro Paese, è il più grande programma di orientamento, di
monitoraggio e di presa in carico, ma, se vogliamo essere seri, la Garanzia
giovani non può risolversi in 400.000 attivazioni di tirocini, altrimenti abbiamo
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
fallito. Oltretutto, la Garanzia giovani, in altri Paesi, esiste da tanti anni ed è
l’ultimo segmento di una politica per l'occupazione. In pratica, quando hanno
fallito tutte le opportunità, arriva la Garanzia giovani che è il programma
residuale. Invece, da noi è la svolta straordinaria per affrontare la
disoccupazione.
Allora, cosa può essere la Garanzia giovani? Effettivamente, può essere una
sperimentazione con la quale iniziamo a far funzionare meglio alcune cose, che
possono essere la traccia di un disegno riformatore.
Abbiamo un sistema in cui c’è il PON nazionale, che stabilisce quali sono le
nove azioni del programma Garanzia giovani. Ora, se avessimo definito nove
livelli essenziali di prestazioni che devono riguardare la Garanzia giovani a
livello nazionale, sovrapponendole alla programmazione e alla gestione
regionale, testeremmo che le Regioni si stanno comportando come reagenti
diversi perché hanno sistemi organizzativi diversi. Allora, quella può essere una
cartina di tornasole per i servizi per il lavoro perché vediamo dove funziona e
come è organizzato il sistema territoriale di servizi per il lavoro e proviamo a
generalizzarlo.
Questo è nulla di più di quello che abbiamo detto in questi anni. C’è un lungo
dibattito al nostro interno, che può appassionare sono gli addetti ai lavori e che
non capisce nessuno, tra preminenza delle condizionalità e preminenza delle
premialità. Pensiamo che sia venuto il momento in cui le condizionalità devono
essere certe e date. Non bisogna fare sconti, come diceva Massera,
analogamente alla discussione che stiamo facendo sui fondi strutturali. Bisogna
dare attuazione all’articolo 120 della Costituzione, facendo esercitare allo Stato i
poteri sostitutivi quando le realtà territoriali non funzionano. Questo non deve
spaventare nessuno perché tutti accettiamo la scommessa di far vincere questo
Paese, ma bisogna anche dar merito e riconoscere il fatto che ci sono tante
autonomie locali che in questi anni, nonostante tutto, hanno retto e continuano a
reggere bene e -mi permetto di dire, in questo caso come esponente di un
territorio vituperato- hanno anche ad una geometria variabile a livello territoriale
e geografico nazionale.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
Ci sono alcuni sistemi regionali che hanno fatto scelte molto interessanti
anche sulle politiche del lavoro, al centro, al nord, come al sud. Penso che si
dovrebbe iniziare a fare una discussione in cui si dice che le condizionalità
valgono per tutti, mentre le premialità valgono per quei modelli che elevano gli
standard anche rispetto ai minimi previsti dal nazionale. Forse così la
concorrenzialità tra sistemi territoriali trova una chiave di riuscita.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Ho tre ancora
richieste. Dopo Macciotta, diamo la parola alla difesa, poi abbiamo Giovani,
Gentile e infine Damiano.
GIORGIO MACCIOTTA, CNEL. Mi inserisco in punta di piedi su due
questioni. Una è quella delle risorse perché anche, dalla discussione che c’è
stata, mi è sembrato che ci sia un problema di risorse. È, però, ormai una
clausola di stile quella delle deleghe legislative che dicono che “dall'attuazione
non possono derivare oneri per la finanza pubblica”. D’altra parte, è evidente
che la delega impatta su diverse cose complicate da fare, per cui se ci facciamo
condizionare dalla quantità di risorse nell’impianto rischiamo di non cambiare
nulla. A risorse date, il rischio è dire che tanto vale non cambiare nulla e
continuare così.
Invece, mi pare che il segno degli interventi sia stato in una direzione diversa.
C’è una prima strada. La delega è complessa, comprende cose diverse dagli
ammortizzatori sociali, quindi una parte delle risorse si possono recuperare con
la revisione della spesa conseguente all’attuazione complessiva della delega.
Debbo dire, tuttavia, che francamente non affiderei a questo canale speranze
soverchie perché solo in Italia si può pensare che si smonti un bilancio e lo si
ridefinisca in modo efficiente in una settimana.
In Francia, l’attuazione della legge di riforma del bilancio è durata cinque
anni, ma hanno un’amministrazione – come sappiamo tutti – più efficiente. In
Italia – chissà perché – si pensa di poterla fare in un anno. È ovvio che la
riforma del bilancio per missioni e programmi rischia di essere esattamente
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
come la riforma del bilancio degli anni '90, con il passaggio dai capitoli alle
UPB. Si prende un numero di capitoli scelto a caso, si fa una specie di miscela e
si dice che quella è un UPB. Questa è una scempiaggine. Adesso si prenderà un
numero di UPB scelte a caso e si dirà che quella è una missione o un
programma, che è un’altra scempiaggine. È ovvio che bisogna smontare e
rimontare, ma è un lavoro compresso perché bisogna smontare e rimontare
l’organizzazione amministrativa per farla efficientemente, processo che non può
che essere pluriennale.
Il ragionamento che faccio è che forse bisognerebbe cambiare quella formula,
accettando la clausola di stile che i decreti legislativi si fanno a risorse vigenti,
ma niente impedisce che si affidi il finanziamento alle manovre pluriennali
successive, prevedendolo, però, già nella legge di delega, e quindi come ricaduta
nei decreti legislativi, una norma che preveda la possibilità che i decreti
legislativi siano finanziati per stadi d’avanzamento.
La seconda cosa che vorrei dire riguarda il coordinamento. Il coordinamento
è fatica, invece il comando centralizzato è l’alfa e l’omega di chi non sa che
cosa vuol dire parlare di coordinamento. È evidente, allora, che bisogna
coinvolgere la molteplicità di soggetti che stanno sul territorio, le imprese e i
lavoratori che devono credere in questa operazione. Tuttavia, questo processo
non sta nascendo dal nulla. Come è stato detto da ultimo dalla dottoressa
Sorrentino nel suo intervento, ci sono realtà che lo hanno realizzato e realtà che
non lo hanno realizzato.
Anche su questo, Tiziano, concludendo, diceva che alcune cose devono
diventare normativamente stringenti. Allora cosa si può fare? Forse si può dire
che bisogna costruire i livelli essenziali delle prestazioni in modo democratico,
coinvolgendo tutti. Occorre stabilire una griglia che diventi oggetto di un’intesa
interistituzionale Stato-Regioni e che valga, in teoria, per tutte le Regioni;
dopodiché al primo giro ognuno attua questi LEP come vuole. In questo modo,
già alla fine del primo anno ci saranno modelli che hanno funzionato e modelli
che non hanno funzionato. A quel punto, scattano le regole perché c’è anche
l’articolo 120 della Costituzione, non solo il 117.
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Workshop “La legge delega sul lavoro e il riparto di competenze tra Stato e Regioni”
CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
Stamattina ho partecipato a un’altra iniziativa, la presentazione del rapporto
della Corte dei conti sulla finanza pubblica, dove il Presidente della Regione
Toscana ha fatto un’apertura molto forte su questo, dicendo, appunto, che esiste
l’articolo 120 e che sono disposti ad accettare i poteri sostitutivi. Se si è fatta
un’intesa interistituzionale, da cui sono discesi modelli che funzionano e modelli
che non funzionano, nessuno si può offendere se quelli che funzionano vengono
estesi commissarialmente.
Nel quadro normativo, bisogna definire i livelli delle prestazioni che danno
luogo a un’intesa interistituzionale che vale per tutti; nel quadro operativo,
l’attuazione di quelle intese viene verificata per step e, in caso di scostamenti, si
dà luogo a poteri sostitutivi. Tra l’altro, ormai, l’impianto normativo dalla legge
n. 42 consente tutto, perché il decreto “premi e sanzioni” prevede anche una
procedura democratica nell’applicare i premi e le sanzioni. Non è più lo Stato
che sta commissariando, ma c’è un passaggio collegiale.
Ho visto cosa è successo in materia sanitaria, là dove l’indecente Campania,
essendo commissariata, ha risanato i suoi conti; invece, la virtuosissima
Sardegna, non essendo commissariata, nell’ultimo quinquennio è la peggior
regione d’Italia, da tutti i punti di vista, qualsiasi comparto della sanità della
Regione Sardegna si prenda in esame.
GRAZIA STRANO, Ministero del Lavoro. Non mi sento affatto la difesa,
come diceva il presidente. Anzi, più parliamo e più condivido le cose che sento.
Vorrei rispondere a due sollecitazioni; una veniva dal presidente e l’altra dalla
dottoressa Sorrentino.
Riguardo allo “smagrire”, a parte qualche piccolo rivolo della normativa,
ormai ci siamo. Non dobbiamo semplificare quasi più nulla.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Parliamo di lavoro
amministrativo?
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CNEL, Sala Gialla – 4 giugno 2014
GRAZIA STRANO, Ministero del Lavoro. Sì. Abbiamo qualche piccola
idea su qualche normetta di doppie DID che non si capisce per quali motivi sono
attribuite a due organismi diversi. Comunque, ormai siamo veramente all’osso.
Dal 2006 in poi abbiamo dematerializzato quasi tutto il lavoro amministrativo.
C’è da chiedersi – come dicono i numeri – perché in alcuni territori regionali
ci si è resi conto, per esempio, che la DID, come primo approccio, si può dare
non necessariamente con un incontro vis à vis con l’operatore, mentre altri si
continuano ad arrovellare dietro il fatto che occorre questo primo intervento
diretto. Vi è, quindi, ancora qualche livello di smagrimento, ma non a livello
normativo quanto a livello organizzativo dei sistemi. Infatti, i numeri dicono che
ci sono differenze sostanziali – qui, purtroppo, il Rubicone c’è – tra il nord e il
sud rispetto all’utilizzo delle funzioni burocratiche, quindi del front-office
rispetto al back-office.
Anche rispetto ai livelli essenziali mi sento di ribadire che dovremmo andare
oltre quelli che la stessa legge n. 92 ha fissato per arrivare a sistemi di
accreditamento e all’organizzazione del servizio. È indubbio che ci possono
essere modelli organizzativi sul territorio nazionale, comunale, provinciale, ma
ciò va posto in relazione al livello di dimensione del servizio perché, fatti i
livelli essenziali delle prestazioni, il passo immediatamente successivo è come
dimensionare il servizio, dove collocarlo e che tipo di qualificazione devono
avere gli operatori.
Anche qui, la differenza è sostanziale. Faccio un esempio rispetto ai titoli di
studio, quindi non parlo di competenze possedute. Ebbene, abbiamo Regioni
(non dico quali) in cui i laureati sono il 7 per cento e Regioni in cui si arriva a
percentuali che vanno oltre il 60 per cento.
Quindi, c’è una differenziazione sul territorio nazionale che va assolutamente
colmata. Ciò significa che le operazioni di reclutamento e riorganizzazione dei
servizi non possono essere fatte linearmente, ma devono tenere conto di come si
sta trasformando e di come si è già trasformata la pubblica amministrazione.
Da questo non si deve esimere neanche il Ministero perché con la
riorganizzazione degli uffici va da sé che deve essere riorganizzata anche
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l’amministrazione. Sotto questo aspetto, forse abbiamo qualche problemino,
visto che il DPCM è annunciato di ritorno dalla Corte dei conti. La nostra
riorganizzazione non è, quindi, perfettamente lineare con la legge delega.
Per quanto riguarda le risorse, è vero quello che diceva la dottoressa
Sorrentino. Ormai sono decenni – non so più quante programmazioni – che il
finanziamento proviene dai fondi strutturali. È vero anche che per la prima volta
abbiamo a disposizione la percentuale del 20 per cento. Tuttavia, mi permetto di
sottolineare che abbiamo comunque un problema perché la stessa Commissione
ci dice che alcune delle azioni che possono essere finanziate con il 20 per cento
devono essere delle condizionalità ex ante. In sostanza, è come se le dovessimo
già avere prima che programmiamo i nuovi interventi. Naturalmente, c’è spazio
di manovra, ma dobbiamo stare attenti, per esempio, a non duplicare le attività
che possono essere fatte una sola volta a livello centrale.
A questo riguardo, il sistema informativo dà qualche piccola chicca positiva
perché se per quindici anni non abbiamo avuto sistemi che si parlavano tra di
loro e il Centro per l’impiego non dialogava con il suo collega vicino, con
Garanzia giovani siamo riusciti a scardinare questo ostacolo perché a oggi, su 21
sistemi, circa 15-16 già interoperano.
Se questo fosse uno degli indicatori di sperimentazione di Garanzia giovani,
potremmo dire che non sarà quel piano straordinario dell’occupazione, ma
sicuramente rappresenta le prove generali per la riforma strutturale
dell’organizzazione dei servizi per l’impiego.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. È una prova
d’orchestra. Ora abbiamo Francesca Giovani.
FRANCESCA GIOVANI, Regione Toscana. Rispondo velocemente ad
alcune sollecitazioni, ma innanzitutto vi ringrazio di questa giornata che per me
è stata molto utile.
Riguardo al personale delle Province è importante ricordare – non l’ho detto
prima, ma lo hanno richiamato la rappresentante della Camera e i sindacati – che
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gran parte del personale con maggiori competenze (faccio riferimento
all’esperienza nella mia Regione, ma che credo di poter generalizzare) è
precario. Il personale che ha competenze specialistiche e che fa le politiche
attive e non le attività burocratiche è prevalentemente precario. Qualsiasi sia la
soluzione organizzativa che vogliamo adottare, è fondamentale ricordare questo
punto.
In merito alle forti diversità territoriali, abbiamo oltre 100 sistemi territoriali
del lavoro. Come si può risolvere questo problema? Al di là della proposta
emendativa delle Regioni, sono molto d’accordo con il professor Varesi perché
l’unico modo per risolvere le diversità territoriali è rafforzare la governance
centrale e regionale. Credo che il modello di Agenzia nazionale e di rete
federale di agenzie che le Regioni propongono possa allentare le forti diversità
territoriali che caratterizzano il nostro Paese in senso positivo, garantendo però
la territorialità dei servizi.
Il collega Massera prima si è scusato con me perché ha parlato di
sussidiarietà, ma non doveva assolutamente farlo perché, al di là di quello che ha
detto stamattina il mio Presidente – ringrazio Margiotta per averlo ricordato –,
negli emendamenti delle Regioni al DL esse dicono che c’è la possibilità di
agire in sussidiarietà qualora i livelli essenziali delle prestazioni non siano
assicurati. Quindi, siamo assolutamente in sintonia su questo.
Un’altra sollecitazione riguarda le imprese. Perché le imprese non stanno
dentro il sistema dei servizi? Anche in questo caso porto l’esperienza della mia
Regione, in cui c’erano delle Province che stavano facendo quello che
volgarmente viene detto “marketing territoriale”, che stava funzionando molto
bene. Poi, però, sono arrivati i cassaintegrati in deroga e c’è stato un effetto di
spiazzamento su un’esperienza positiva che stavamo sperimentando, con il
bacino d’utenza delle imprese che stava crescendo. Quindi, non è che non siamo
capaci di rivolgerci al mondo delle imprese, è che non abbiamo la possibilità di
farlo.
Sui 21 consigli di amministrazione, vorrei dire che la Regione Toscana,
essendo stata capofila nel guidare la proposta di un sistema nazionale del lavoro
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basato su agenzie di tipo federale, è quella che prima di tutte sta portando avanti
il suo articolato di legge in materia. Non c’è un consiglio d’amministrazione, ma
un direttore, e un Collegio dei revisori, quindi una cosa molto soft.
Anche secondo me Garanzia giovani, come prima cosa, è la sperimentazione
di una riforma di cui il nostro Paese ha bisogno. Rischiamo, ovviamente, di
generare delle aspettative che vediamo come, quanto e fino a che punto potranno
essere mantenute. Dobbiamo, dunque, stare molto attenti alla campagna di
comunicazione che ancora deve partire. Da questo punto di vista, segnalo che la
campagna di comunicazione già partita si è rivolta solo alle imprese. Di questo
siamo molto contenti, anche se si rivolge alle imprese parlando di incentivi che
ancora non ci sono e che dovrà gestire INPS.
Vi segnalo anche che in Regione Toscana, su 6.000 giovani che si sono
iscritti ai Centri per l’impiego, oltre 1.000 sono di Livorno, più di quelli della
Provincia di Firenze; questo perché Il Tirreno ha fatto due giornalate dicendo
“lavoro per tutti”. Quindi, dobbiamo stare attenti a che cosa dirà la campagna di
informazione. Questo è fondamentale, altrimenti avremo un flop assicurato.
Avendo partecipato anch’io al tavolo della struttura di missione, mi permetto
di dire quali sono le novità che siamo riusciti a concertare con Ministero,
Regioni, Province, ISFOL, Italia lavoro. Con Garanzia giovani, al di là di quello
che promettiamo, definiamo per la prima volta LEP, costi standard, un sistema
di profilazione che tutti i Paesi europei avevano già, nonché interventi mirati in
sussidiarietà che il Ministero sta facendo in diverse Regioni (devo dire che
nessuna Regione si è sconvolta per questo). Per la prima volta, parliamo di
premialità, con i costi standard che consentono di applicarla, e di contendibilità,
un principio che fino adesso nel mercato del lavoro non esisteva. Infine,
abbiamo una piattaforma nazionale di incrocio domanda-offerta di lavoro,
nonché un sistema nazionale di monitoraggio e valutazione che è l’unico che
consente di applicare il principio della sussidiarietà.
Sulle diversità, le Regioni sono già sotto attacco. Il pregiudizio di cui
abbiamo parlato nei confronti dei centri per l’impianto si sta trasferendo anche
nei confronti delle Regioni. Per esempio, i mezzi di comunicazione dicono che
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le Regioni non saranno in grado di svolgere questo progetto. È vero che
abbiamo avuto dei programmi regionali molto diversi, ma mi permetto di
segnalare che le Regioni hanno fatto i programmi regionali senza avere ancora
un euro di anticipazione delle risorse.
Per esempio, la Regione Toscana, che fa già i colloqui e il profiling e ha un
sistema di gestione automatica dell’agenda dei servizi per l’impiego, è stata in
grado di partire il 1 maggio perché aveva già un suo programma Giovanisì e
delle misure attive. Essendo una Regione che oggi può stare sul podio, mi
permetto di dire che sono molto preoccupata di quello che succederà domani.
Peraltro, le Regioni che non stanno sul podio sono in oggettiva difficoltà perché
l’anticipazione delle risorse non è un problema di poco conto per chi non aveva
dei programmi regionali.
Per quanto riguarda le diversità – questa è la proposta che faccio a questo
tavolo – come Regione Toscana da questa settimana metteremo on line un
report nel quale diremo con trasparenza quello che abbiamo fatto, quindi quanti
profiling, quanti colloqui di orientamento, quanti apprendistati, quanti bilanci di
competenze, quante consulenze EURES, quanti patti di attivazione, quanti
servizi civili, quanti i tirocini e così via. Penso, infatti, che questo sia un metodo
trasparente per valutare l’esperimento che stiamo facendo.
Vi ringrazio dell’attenzione.
MICHELE GENTILE, CNEL. Rammento di aver detto che il 7 luglio ci
sarà un DPCM che trasferisce le risorse umane e finanziarie. Sarebbe
preoccupante se non succedesse nulla perché significherebbe che si riaprirebbe
il tema Province.
Se, come penso, lo schema delle nuove funzioni seguirà quello della legge n.
469, avremmo un problema di dipendenti e di risorse dal momento che le attuali
Province sposteranno funzioni senza più risorse finanziarie. Per ultimo il decreto
legge n. 66/2014 ha previsto tagli di ulteriori 440 milioni, prosciugando quanto
necessario
per le politiche attive .Le risorse esistenti serviranno solo
per
stipendi e organizzazione, cioè il minimo indispensabile. Quindi, con un
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equilibrio costruito in questo modo, si spostano risorse sul funzionamento e non
sulle politiche.
La seconda questione è che i precari dei Centri per l’impiego ( non sono solo
tempi determinati. Ad ogni modo, i tempi determinati scadono fra sei mesi ed è
evidente che ci troveremo in difficoltà, anche alla luce delle maggiori
qualificazioni professionali che hanno, ragione per cui sono stati chiamati. In
ogni caso, abbiamo bisogno di un provvedimento legislativo di proroga entro il
31 dicembre 2014.
Altrimenti, dal 1 gennaio 2015, avremo 1.200 persone in meno. Tra l’alto, c’è
lo splendido lavoro fatto dal Ministero, con tutti i dati anche del front-office
personale precario e non, che fa capire come il tema abbia una dimensione
importante. Questo secondo aspetto contiene un’emergenza in relazione alle
questioni che riguardano il futuro. C’è, poi, un terzo grande tema che riguarda la
relazione tra l’idea della riforma della pubblica amministrazione e quello di cui
stiamo parlando. Ci sono due argomenti: interoperabilità e open data, che per
adesso temo siano solo titoli.
GRAZIA STRANO, Ministero del Lavoro. È stato appena pubblicato un
bando sull’open data dei servizi per il lavoro.
MICHELE GENTILE, CNEL. Alla luce della situazione del paese e dei
necessari interventi di rilancio, non possiamo, da un lato, dire che siamo in una
situazione di drammaticità e, dall’altro, parlare come se niente fosse possibile.
La questione “a risorse vigenti” è complicata da gestire, in una situazione come
questa, nella quale, per esempio, in ragione del fatto che le Province dovevano
essere sciolte, sono circa tre anni che hanno tagli fortissimi, più forti dei quelli
delle Regioni e dei Comuni.
A questo punto, però, si tratta di stabilire alcune priorità. Quindi, piuttosto
che fare un ragionamento lineare sulla staffetta generazionale, forse bisognerà
individuare un’area di intervento specifico per provare a capire che tipo di
operazioni si possono fare.
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Infatti, abbiamo due operazioni. La prima è provare a riorganizzare il
personale dei servizi per il lavoro perché non si può accettare che Italia Lavoro
abbia 400 dipendenti, 200 tempi determinati e 500 collaboratori (senza
considerare che abbiamo fermato un’operazione che intendeva portare i 200
tempi determinati a 500 in nome della Youth Guarantee, cosa complicata da
spiegare).
La prima operazione è, dunque, aumentare gli 8.700, che è sicuramente un
problema. La seconda è quella di qualificare i numeri, utilizzando vari
strumenti. Per esempio, quello della mobilità. Oggi, però, mobilità significa
sostanzialmente lavoro amministrativo. In ogni caso, un tema è aumentare, usare
e formare le risorse.
Un altro discorso riguarda il rinnovamento delle professionalità, che è
assolutamente necessario. Si tratta, però, di capire se si può fare un
ragionamento ad hoc che riguarda capacità assunzionali in un’area di intervento
come questa che ha una sua priorità.
In conclusione, il problema sul quale vorrei provare a ragionare è questo. Il
nome non è fondamentale, quello che conta è cosa fa. Ora,
parliamo di
un’Agenzia nazionale che faccia quello che abbiamo detto – decliniamo il
concetto di governance – e si arriva a stabilire che i livelli essenziali delle
prestazioni vanno ramificati sul territorio, da questi dati si dimostra che abbiamo
una ramificazione profonda nel territorio.
Un analogo problema riguarda le agenzie regionali, anche di queste
dobbiamo capire che cosa fanno. Infatti, le agenzie regionali non possono essere
la copia dell’Agenzia nazionale prevista in quel disegno di legge, ma devono
essere il sistema di governo regionale delle politiche, aggiungendo formazione e
orientamento.
Inoltre, abbiamo un problema di diffusione massima degli sportelli sul
territorio. Lo schema è, quindi, un po’ diverso. Ora, si tratta di capire se questo
schema delle agenzie regionali risponde a questo parametro.
Peraltro, dovremmo ragionare su che cosa si fa e non su quali sono i poteri.
Infatti, se la discussione si sposta esclusivamente su quali sono i poteri, lascia
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inalterati diversi temi: chi fa le cose, le risorse, quali sono le persone addette,
quali sono le politiche. I poteri sono sicuramente un problema perché, a
Costituzione vigente, alcune cose sono fuori Costituzione. La gestione è fuori
Costituzione. Tuttavia, rimane aperto il tema di come implementiamo le
politiche, quindi di come passiamo dal contenitore al contenuto.
Quando facciamo le comparazioni fra l’Italia e gli altri Paesi, alla fine
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Michele, stai facendo
un’altra relazione. Presidente Damiano, ci dice qualcosa?
CESARE DAMIANO, Deputato. Vi ringrazio. Francamente, non saprei
bene che cosa dire, anche perché mi pare che la situazione sia abbastanza
confusa.
Abbiamo fatto il decreto Lavoro, adesso c’è una delega. Ora si tratta di capire
qual è l’obiettivo. Sicuramente è creare occupazione, dal momento che siamo al
minimo storico di occupati e al massimo storico di disoccupati. Mi pare, perciò,
che la situazione sia di grande allarme. Inoltre, stiamo rincorrendo il lavoro a
tempo indeterminato, che tende a scomparire.
Il decreto allarga le maglie della flessibilità, come abbiamo visto sul contratto
a termine e sull’apprendistato. Non vorrei, quindi, che la delega costruisse un
contratto a tempo indeterminato che, in realtà, diventerà una sorta di contratto a
tempo determinato mascherato. Sento alcune dichiarazioni dal Senato, per
esempio a proposito dell’articolo 18, che vorrebbero ricondurlo esclusivamente
al licenziamento per motivi discriminatori. Ecco, quello sarebbe un ulteriore
passo verso la monetizzazione del licenziamento.
Se andiamo in quella direzione facciamo una cosa sbagliata che contraddice il
fatto che si parli molto di stabilizzazione e di qualità del lavoro. Si predica bene
e si razzola male. Diciamo, più banalmente che, nell’emergenza, cerchiamo di
creare un po’ di occupazione di breve termine e che va bene così.
Domandiamoci allora quale sarà il punto centrale di questa delega. Ebbene,
da una parte c’è il Contratto di inserimento, dall’altra gli ammortizzatori sociali,
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poi c’è la conciliazione lavoro-famiglia, il compenso minimo orario ed i Centri
per l’impiego.
In questa sede si discute, appunto, di Centri per l’impiego. Qual è la leva che
dobbiamo
tirare
per
favorire
l’occupazione,
soprattutto
di
qualità?
Personalmente, sono fissato su alcuni punti minimi, ma non li dico tutti, mi
fermo soltanto su di uno cruciale, quello degli appalti. Spero, infatti, che il
legislatore dia una mano ad eliminare definitivamente il massimo ribasso, che
produce lavoro nero.
Questo è un grande tema. Oggi ci siamo occupati di call center perché c’è
stata la manifestazione unitaria dei sindacati. Come mi è capitato in un’altra
occasione, per non sembrare di parte, parlo del Comune di Milano, per non
sembrare di parte. Ecco, se un Comune progressista, democratico e di sinistra fa
un appalto al quale le aziende non partecipano perché è talmente al ribasso da
costringere al nero i lavoratori, mi domando se c’è un’autorità di controllo.
L’INPS dovrebbe controllare e rendersi conto se c’è un’incongruenza fra
l’offerta e uno standard retributivo di riferimento.
Peraltro, gli standard di riferimento non ci sono più. C’erano le tabelle
prefettizie che sono diventate facoltative. Ecco, rimettiamo le tabelle prefettizie.
Mettiamo il compenso orario minimo, come dice la delega Lavoro. In questo
caso sono d’accordo: 6 euro all’ora per un milione di ore fa 6 milioni di euro da
togliere dall’appalto per un costo del lavoro non comprimibile. Mettiamolo per
i voucher, e per il lavoro a progetto. Ma non per sostituire i minimi salariali dei
contratti di lavoro.
Vogliamo fare qualche operazione di pulizia in questa maledetta giungla
nella quale il modello vincente è la rincorsa alla delocalizzazione, purtroppo, nei
Paesi a basso costo di manodopera? Stiamo distruggendo tutto ed il rischio è di
avere aumento di disoccupazione o, al meglio, un aumento di occupazione di
bassa qualità.
Sui Centri per l’impiego ieri in Commissione Lavoro avevamo un’audizione
dei sindacati sull’EURES. Come si fa a creare uno standard europeo – non so se
i sindacati europei si occupano di questa questione, non mi è parso – e come si
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fa, da parte nostra, a far parte di una rete europea, con le strutture che abbiamo a
disposizione?
Abbiamo circa 9.000 addetti per lo più precari a fronte dei 130-110.000 della
Germania. Occorre mettere una marcia diversa, ma dove, come, che cosa si fa?
Se parliamo di Centri per l’impiego, sull’Agenzia nazionale non ho problemi
perché sono un centralista. Penso che la legislazione concorrente debba subire
un colpo, anche sui temi del lavoro. Lo dico per brevità, in modo tale da non
girarci attorno. Non so se possiamo ancora reggere 20 tipi di apprendistato e di
formazione, 20 mercati del lavoro e così via. In questo modo non si va da
nessuna parte. Anche le migliori situazioni e quelle più avanzate – penso alla
Toscana – vengono penalizzate da quelle che rimangono agli ultimi posti.
Insomma, restano un caso isolato e non fanno nessuna strada.
Pertanto, se la tendenza è quella di far tornare allo Stato materie di
competenza regionale, credo che vada accompagnata con la gradualità e con
tutte le mediazioni che si renderanno necessarie. Ma bisogna procedere.
L’altra questione è se vogliamo avere dei Centri per l’impiego pubblici che
dialogano con quelli privati. Personalmente sono d’accordo per l’alleanza,
quindi per i profili che si scambiano, per i database comuni tra università, Centri
per l’impiego, pubblici e privati, superando le chiusure. Il problema, infatti, non
è tanto la tecnologia, bensì la non comunicabilità dei dati perché manca una
decisione politica. Dobbiamo darci un obiettivo. Bisogna avere 50.000 addetti
nei Centri per l’impiego. Potremmo fare una grande mobilità nella pubblica
amministrazione e percorsi di riqualificazione. Se non abbiamo almeno 50.000
addetti è difficile partecipare alla rete europea di incontro domanda-offerta. È
inutile che ci giriamo attorno. Facciamo ridere i polli. Sono solo belle parole e
slogan buttati all’aria.
Secondo me, ci vorrebbe un grande patto tra i sindacati, la pubblica
amministrazione e il Governo per una mobilità orientata, incentivata, guidata,
con la formazione per passare dalla scrivania allo sportello.
Inoltre, occorre stabilizzare quelli che ci sono; non possiamo tenerli precari
quando debbono spiegare la stabilità agli altri. Non è credibile. Peraltro, i
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lavoratori
dei call center ricordano ancora oggi i
25.000 posti di lavoro
stabilizzati, mentre oggi le aziende delocalizzano in Albania, grazie a tutti gli
allentamenti normativi che ci sono stati con il centrodestra.
Poi, bisogna capire qual è l’intreccio con la questione relativa alla Garanzia
giovani. Sono d’accordo sul fatto che possa rivelarsi una grande illusione perché
quelli che si iscrivono pensano di aver trovato lavoro.
Abbiamo fissato gli standard minimi di offerta? Ho sentito la parola che mi fa
tremare: colloquio. I Centri per l’impiego e l’intermediazione sono diventati
una grande agorà freudiana. Facciamo psicanalisi, non facciamo occupazione.
Direi che sarebbe ora di passare dalla psicanalisi all’occupazione. Qual è lo
standard minimo? Quei soldi per che cosa li diamo e a chi? Li diamo al centro
per l’impiego di Cuneo perché Cesare ha avuto almeno un’offerta di lavoro a
tempo determinato di sei mesi a una retribuzione non inferiore a 1.000 euro?
Fissiamo degli standard. Se ci sono, sono evidenti oppure il miliardo e mezzo
va a pagare gli stipendi di quei lavoratori che sono precari e le cui
amministrazione non hanno più risorse? Sono incentivi che vanno a vantaggio
degli imprenditori che stabilizzano quelli che sono intermediati?
Personalmente sarei per premiare chi dà un lavoro temporaneo o stabile che
sia. Non darei soldi in altri casi, fissando degli standard minimi per quanto
riguarda l’offerta occupazionale. Mi tengo anche qui a livelli realistici. Non ho
parlato di un lavoro a tempo indeterminato per la vita, ma penso che non sia
serio parlare di Youth Guarantee per meno di sei mesi di lavoro.
Insomma, mi sembra un’impresa molto complicata. Siamo appena all’inizio.
È partita da maggio. C’è la Toscana, molto avanti ma tutti gli altri stanno
arrancando. Abbiamo 20 modelli diversi uno per regione, e un’elencazione di
criteri che è una pagina, per cui andrebbero un pochino selezionati.
Dopodiché, l’altra cosa che abbiamo messo nel decreto lavoro, che mi
interessa parecchio e che stenterà a decollare, è l’alternanza scuola-lavoro.
Provare ad avere convenzioni tra le scuole e le imprese piccole, medie e grandi –
soprattutto le grandi in questa fase stanno facendo qualche sperimentazione –
consentendo agli istituti professionali e non solo di impiegare i giovani
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dell’ultimo biennio della scuola superiore in lavori di apprendistato contestuali
al momento dello studio, sarebbe una eccellente sperimentazione.
Dobbiamo provarci. Concentriamoci, anche su 1.000, 2.000 o 3.000 ragazzi.
Li mandiamo a scuola, togliamo il 20 per cento delle mille ore di studio all’anno
e le utilizziamo nel luogo di lavoro; li impieghiamo d’estate e li mettiamo a
contatto con il mondo della produzione già nel momento dello studio e non
dopo.
Penso al Ministro Poletti, che è molto pragmatico. Dovrebbe individuare due
o tre questioni sulle quali fare un grande patto sociale per dare una scossa,
altrimenti in questo ginepraio non so dove andiamo a parare. Ecco, l’ho detta
all’ingrosso. Vi chiedo scusa di non aver partecipato oggi alla vostra
discussione, ma queste sono le mie prime impressioni su quello che dobbiamo
fare.
TIZIANO TREU, Presidente Commissione III CNEL. Grazie, anche sono le
prime sono molto utili. Terremo le fila di questo interessante pomeriggio.
Dopodiché, torneremo a voi per farvi vedere cosa siamo stati capaci di scrivere e
chissà che non siamo utili anche l’iter legislativo, in vista di altre iniziative che
faremo su altri aspetti del mercato del lavoro.
Grazie ancora a tutti.
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